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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
Prossimamente sugli scaffali
AUTUNNO DA LEGGERE di Pier Mario Fasanotti
on ci sono proprio alibi per chi legge poco o niente o ner conto, e sulle quali liberal tornerà in modo approfondito. Pietro Citati magari sostiene di non trovare mai quel che vorrebbe. NemLeopardi, ci fornirà un ponderoso scritto biografico e critico su Leopardi (Monmeno in questa estate che sta morendo con una certa dadori). Nadia Fusini ha scritto, per lo stesso editore, Di vita si Shakespeare, fretta. I libri della stagione autunnale sono tanti e almuore che ha come sottotitolo Lo spettacolo delle passioni cuni sono molto buoni, anzi ottimi. Il compito di segnanel teatro di Shakespeare. Di un altro grande della letPirandello, D’Annunzio. larli è sempre un’operazione intrisa di senso di colteratura, Luigi Pirandello si occupa Matteo Collura Il ritorno di Piperno e di Luis pa: e se dimenticassimo alcuni titoli? Sono nucon Il gioco delle parti (Longanesi): uno studio Sepúlveda. La biografia di Murnau merose le omissioni, inevitabilmente. Coserio e brillante di un uomo complesso, al me sono numerose e invadenti le segnaladi là degli stereotipi psicoanalitici e soprate i misteri di Saint-Exupéry. Non ci sono più zioni sui cosiddetti cavalli vincenti o promesse di tutto dei pettegolezzi e luoghi comuni che franalibi: ognuno può trovare pane genialità: quanto rumore giornalistico per la ripresa camente hanno un po’ graffiato, nel tempo, il profilo per i suoi denti. Piccola narrativa di Alessandro Piperno con Persecuzioni, asso di di uno scrittore fondamentale per capire il Novecento, non solo quello italiano. Qui di seguito qualche suggerimento, fatta picche della Mondadori! Nemmeno al Moravia più famoso e guida ai libri in salva la premessa dell’incompiutezza selettiva… artisticamente più maturo fu dedicata tanta attenzione. Ci piace couscita munque avvertire i lettori su alcune uscite delle quali non si può non te-
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Parola chiave Cuore di Maurizio Ciampa Le invenzioni al passato degli Scissor Sisters di Stefano Bianchi
NELLA PAGINA DI POESIA
Whitman, la rivelazione sulla spiaggia di Paumanok di Roberto Mussapi
La verità su Atlantide di Rossella Fabiani Venezia: i migliori visti da vicino di Anselma Dell’Olio
Alla festa naturale di Francesco Casorati di Marco Vallora
autunno da
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Le regole della solitudine. La Sellerio ripropone, e per fortuna, uno dei più straordinari romanzi della spagnola Alicia Giménez-Bartlett (Vita sentimentale di un camionista). Racconto sulla solitudine: del protagonista Rafael ma anche delle donne. L’autrice è affascinata dal lavoro di quegli uomini che, come cavalieri della strada, si ritengono ancora dominatori. Ma il mondo cambia e loro spesso non s’accorgono di ciò che contengono le case che scorrono al loro fianco. Non ci sono solo le facciate, la superficie delle cose. «Poteva godersi il piacere di correre sul camion mentre gli altri dormivano nei loro buchi, piantati lì come alberi in fila». Un incontro sconvolge la vita di Rafael, uomo ossessionato dall’idea del cambiamento. E le donne sono anche questo, chilometro dopo chilometro. Poi il suo cosmo crolla. La sua vita è sconvolta dopo un incontro. Perderà tutto, sotto i colpi della tenerezza.
Napoli. Curioso rivedere con gli occhi di tre scrittori diversissimi una delle città più contradditorie, più poetiche e più disperate del mondo occidentale. Napoli, appunto. L’Adelphi (dopo Kaputt) continua a pubblicare l’opera di Curzio Malaparte: un’altra puntata vincente, con una Mondadori che non intende rivalutare i suoi immensi cassetti. La pelle racconta la peste morale del 1943. Donne che si vendono, uomini che fanno scempio di sé e si calano nell’inferno dell’abiezione, bambini precocemente vecchi e viziosi. Emergono le forze oscure e potenti della città «dalla schifosa pelle», quella da salvare a tutti i costi. Ma c’è anche la pietà. Sándor Márai, con Il sangue di San Gennaro, guarda gli straccioni napoletani, emblema di un mondo crollato dopo il conflitto mondiale. Un mondo pulsante e dolente. Màrai, ungherese nato nel 1900, ha vissuto a Napoli dal ‘48 al ‘52, prima di partire per l’America. E infine Anna Maria Ortese, con Mistero doloroso, scandaglia la Napoli del Settecento, «raccolta entro un silenzio incantato», raccontando della fanciulla Florida e del suo amore per un pallido principe. Le pagine della Ortese ricordano da vicino quelle del suo celebre Il cardillo addolorato, ma sono testo a sé che racchiude il dolore «antico e caro» per ciò che amiamo e perdiamo.
tanto sublime e tanto profondo». Una terra che continua a troneggiare nelle nostre immaginazioni.
cogliere voci, sussurri, pettegolezzi. Vien fuori una Turchia che proprio non immaginavamo. Eppure esiste.
Le vite, i luoghi. L’editore Castelvecchi manderà in libreria tre libri che sono altrettanti profili di artisti e città. Cominciamo con Roma e dal suo cantore, Gioacchino Belli (Li libbri nun so’ robba da cristiano), il quale a margine dei suoi celebri sonetti scrisse: «Io ho deliberato di lasciare un monumento di quello che è oggi la plebe di Roma». Paolo Roversi tratteggia invece, in Charles Bukowski il carattere e l’esistenza del più smaliziato tra i narratori americani. Il quale diceva: «Tutti gli scrittori sono dei poveri idioti. È per questo che scrivono». Roversi si avvale dell’importante testimonianza di Fernanda Pivano. E poi D’Annunzio: Massimiliano e Pier Paolo Di Mino, in Fiume di tenebra, raccontano l’avventura di Fiume che vide il Vate abruzzese protagonista. Anche come vittima indicata di una congiura internazionale, prima che le truppe regolari spazzino via un sogno, una visione pericolosa del mondo. Novant’anni fa ci fu appunto il «Natale di sangue».
I perdenti. L’irlandese Joseph O’Connor si cimenta in una serie di racconti d’amore in Una canzone che ti strappa il cuore (Guanda), pescando spunti nel cimitero dei fallimenti. L’autore si dice ancora persuaso sul fatto che «una certa dose di infelicità sia sicuramente necessaria, se vuoi fare l’artista… infatti le persone che hanno sofferto e quelle che hanno subito un danno posseggono un’apertura al mondo che in genere non hanno le persone felici». Lo scrittore, fratello della famosa cantante Sinéad O’Connor («No, non posso parlare di lei», ammette), ha fatto per anni il giornalista («Non ero bravo per niente») e spiega che se prima era innamorato dei fatti, oggi lo è delle parole. In uno dei racconti parla di un corteggiatore arrogante che però finge di essere quello che non è, ossia sicuro di sé. È colui che segretamente vuole essere rifiutato. Ha tanti difetti, ma non gli manca la tenerezza.
Volto inedito. Il cileno Luis Sepúlveda è solitamente ricordato per i toni delicati, la tematica dell’amore e della solitudine. Stavolta la sua raccolta di racconti, Ritratto di un gruppo con assenza (Guanda), sorprende tutti parlando del dittatore Pinochet, degli effetti del surriscaldamento globale del pianeta, dei comunisti di ieri e di oggi che sono prigionieri di una grande illusione, della Colombia che trasuda violenza, dei ragazzi poveri che giocano al pallone. Sepùlveda ricorda, a proposito del dittatore, una frase che pronunciò dinanzi a un ministro
Anni Settanta. Qualcuno lo ricorderà: nell’agosto del 1974 i newyorkesi guardarono in alto, tutti insieme. Un funambolo attraversò il vuoto tra le Torri Gemelle, in equilibrio su un cavo d’acciaio. Una passeggiata tra le nuvole, una delle numerose storie di Colum McCann, irlandese trapiantato negli Stati Uniti che, in Questo bacio vada al mondo intero (Rizzoli), ha l’ambizione di descrivere, con abili pennellate narrative, un Paese in bilico tra potenza e rovina. Tanti e tutti diversi i protagonisti: prostitute, immigrati, preti, artisti, reduci dal Vietnam. Dell’autore Frank McCourt ha detto: «Nessuno scrittore ha raccontato New York e l’America in modo anno III - numero 32 - pagina II
Per certi versi. Molti editori, e lo sappiamo bene, sono riluttanti a pubblicare poesie. Si dovrebbe pensare a libretti a basso prezzo, ma questa è una considerazione del tutto personale.Tra le eccezioni figura l’editore Fazi, uno che ci crede ancora. E che ha appena mandato in libreria, nella collana «Le strade», l’opera di Claudio Damiani, nato a San Giovanni Rotondo ma romano d’adozione (vedi recensione a pagina 19, ndr). La Mondadori si appresta a celebrare il francese Yves Bonnefoy con un «Meridiano» (L’opera poetica). L’apparato informativo e critico è preciso e imponente, il testo francese a fronte come è giusto. Personaggi e interpreti dell’autunno editoriale. Da sinistra, in senso orario: D’Annunzio, Leopardi, Curzio Malaparte, Shakespeare, Mehmet Murat Somer e Colum McCann
Zone d’ombra. Si sa davvero tutto dell’autore del Piccolo principe, tradotto in ben 210 lingue? No. Ci sono lati nascosti e ambigui, posti il rilievo da Jean-Claude Perrier, giornalista, editore e, in questo caso, abile archeologo letterario (I misteri di Saint-Exupéry, Cavallo di Ferro). Indagine sui complessi rapporti con la politica, soprattutto durante la seconda guerra mondiale, sulla sua mancata carriera cinematografica, sui suoi amori non proprio semplici, i problemi di successione che videro sua moglie e sua madre una di fronte all’altra. Una biografia che riserva molte sorprese. Paura dal Nord. Ancora uno scandinavo, a ricordarci che il genere giallo è angoscia e trivella nell’animo umano. In A. L’alfabetista (Newton Compton) Torsten Pettersson, finlandese, «credibile e spaventoso» come ha detto un critico, insegue un serial killer che appone la sua firma sulle vittime. L’ambiente è, ovviamente, un borgo tranquillo. Molte elucubrazioni attorno ai macabri indizi: religione, omosessualità, psicopatologia, gusto del rebus? Si legge a un certo punto: «Lei non respira più ma lo faccio io per lei, rapido e affannato. Ora stiamo insieme e io sono i suoi polmoni e la sua bocca. Tendo l’orecchio. Il vento soffia sulla pianura. Non arriva nessuno sul vialetto e ho tutto il tempo per quello che devo fare.Tiro fuori il coltello».
leggere
tedesco. Parlavano dell’olocausto e della polemica, tristissima, sul numero delle vittime. L’ospite europeo precisò che «un solo morto sarebbe stato abbastanza per condannare il regime nazista». Obiezione del padrone di casa: «Noi lo avremmo fatto meglio». Sepùlveda si dice convinto che un «processo di Norimberga» avrebbe aiutato il Cile a conquistare la «normalità democratica».
Colori turchi. Una trama a sfondo giallo che ricorda il ritmo e lo stile di Pablo Almodovar, come ha scritto The Guardian. Noto ai lettori italiani per l’affascinante Scandaloso omicidio a Istanbul (Sellerio), Mehmet Murat Somer, nato ad Ankara nel 1959, torna a occuparsi del suo detective anomalo e divertente, innamorato di Audrey Hepburn, in Gli assassini del profeta (Bompiani). Un indagatore che qualcuno ha definito «la Miss Marple della Turchia, anche se alle gonne di tweed preferisce i leggins di pelle nera». Non manca tensione, ma anche comicità in questa commedia nera, che sorprende a ogni pagina. C’è un grosso guaio a Istanbul: vengono uccisi i travestiti, e in modo sempre più bizzarro. L’imprevedibile e «sessualmente scorretto» detective si mette sulle tracce di un serial killer, si aggira in ambienti che solo pochi come lui conoscono bene, in grado anche di rac-
Sul vampiro. Si moltiplicano, oggi, i libri sulle creature che vivono nell’ombra e che succhiano sangue. Ma si rischia di dimenticare il regista Friedrich Wilhelm Murnau, autore di Nosferatu e di Aurora, capolavoro del cinema muto. S’intitola Murnau la biografia edita da Alet. L’autrice è una critica letteraria, Lotte H. Eisner, e ripercorre le tappe del grande artista che è stato irrinunciabile punto di riferimento per registi tedeschi come Herzog, Fassbinder e Wenders. Disinnesco. Molte vite svaniscono sopra una mina che salta. My Luck, quindicenne soldato igbo (tribù della Nigeria) è stato addestrato come sminatore nell’Africa orientale. Giungla, guerra, sangue, soprusi: il protagonista ricorda e racconta, nel tentativo di portare la sua coscienza sull’orlo del pozzo dal quale le circostanze lo hanno fatto precipitare. Chris Abani, nigeriano, racconta, in Canzone per la notte (Fanucci), il chiasso e il silenzio dei morti, senza alcun timore di guardare in faccia il grande orrore. Lo fa con pietà, verismo e poesia. L’ingegnere. Leonardo Sinisgalli era tante cose: ingegnere, pubblicitario, poeta. In Pagine milanesi (Hacca editore) si trovano gli scritti comparsi su L’Italia letteraria, dal 1933 al 1936. È ben delineata una Milano sorprendentemente moderna. Spontaneo il paragone con la Milano di oggi, che arranca, che ha il fiato (e il pensiero) corto. Storie di amicizia, incontri, conversazioni sull’urbanistica di una città che ha sempre avuto fama di essere grigia e dimessa.
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CUORE ulla grande scena delle culture d’Occidente il cuore fa da protagonista, nonostante i conflitti laceranti che da sempre lo abitano, le emblematiche irrequietezze o le affannose intermittenze, e dunque nonostante l’enigmatica irregolarità dei suoi battiti. Ne deriva che la «logica del cuore» di cui parla Blaise Pascal non è una logica e cioè un insieme linguistico coeso e coerente, è piuttosto un vivo, ribollente, talvolta squassante (per Pascal il cuore è in «rivolta»), palpitare di emozioni. Attraverso queste vibrazioni d’anima, questi tremori del cuore, possiamo cogliere, se siamo disponibili a farlo, il complesso, e quasi inafferrabile, dislocarsi del nostro essere al mondo, e forse anche il suo senso. Il cuore è la misura del nostro stare al mondo. È il cuore che consente a ogni uomo di sentire la vita che lo attraversa e lo conduce, e qualche volta lo colpisce confondendolo. Ma diversamente da ogni altro sapere, il sapere che viene dal cuore si sviluppa attraverso inusitati e imprevedibili passaggi, percorsi sotterranei, tracce non visibili, e si manifesta con la luce improvvisa e saettante del lampo. Non ha i tratti della conoscenza stabile e ferma nel tempo. Il cuore, luogo i cui si annidano i fantasmi e le ossessioni, ricomincia sempre da capo. Contano poco la memoria o l’esperienza. Il cuore è instabile per sua natura, ed è incredibilmente loquace. Ama dirsi, ama pronunciarsi, può prendere anche le forme del delirio, cerca comunque le parole per poter parlare, e spesso, non trovandole, le crea, le inventa. Di qui l’affinità, che ha i tratti quasi di una segreta complicità, che lega il cuore all’esercizio della poesia o all’espressione artistica.
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Probabilmente nessuna altra parola del nostro lessico mentale ha avuto una ramificazione tanto estesa, come un grande albero dalle fonde radici e dai copiosissimi frutti.Tanto che chi ha voluto comporre «una storia del cuore» come ha fatto di recente lo studioso norvegese Ole M. Hoystad (il suo libro è uscito in aprile dall’editore Odoya) si è trovato costretto a partire per un lungo e avventuroso viaggio che lo ha portato, o sballottato, dal «mondo di Gilgamesh» all’antico Egitto, dalla Bibbia alle scritture cristiane e a quella coranica, per poi approdare alla scoscesa e frastagliata regione che è l’età moderna, attraverso Montaigne, Shakespeare, Rousseau, fino a Nietzsche e oltre, nel cuore raggelato di molto Novecento o quello disincantato di oggi, che ha almeno apparentemente prosciugato le emozioni fondamentali del vivere. E anche lo psicanalista junghiano James Hilmann, volendo inseguire le linee mobili di un possibile «pensiero del cuore» (il suo libro L’anima del mondo e il pensiero del cuore, che raccoglie diverse conferenze sul tema, è uscito da Garzan-
È un organo della conoscenza in uno stato di perenne tensione, capace di penetrare quello che ci circonda più di quanto arrivino a fare il calcolo o il raziocinio. È la misura del nostro esistere
Nella macina del mondo di Maurizio Ciampa
«Sentire le stelle e l’infinito in alto», scriveva Van Gogh al fratello Theo... E ancora: «Quando dipingi un fiore, entra nella vita di quel fiore», raccomandava sul finire del Seicento Shitao. Sussurri del cuore, decifrazioni del sensibile che sapevano comprendere e restituire sulla tela... ti nel 1993) si è spinto all’indietro fino a sant’Agostino, grande custode ed esploratore degli interni umani, dello «scrigno» del cuore (Cor meum, ubi ego sum, quicumque sum, diceva Agostino. «Mio cuore, dove io sono quello che sono»). Un ultimo esempio, per cogliere la trama spezzata, il denso intreccio con cui si offre la parola cuore: il libro dello psichiatra-filosofo, e direi soprattutto scrittore, Eugenio Borgna (Le intermittenze del cuore pubblicato da Feltrinelli nel 2003). Qui il discorso clinico e l’espressione letteraria godono della stessa tersa attenzione. Nella congerie delle emozioni, nel loro disordine, nella «vertigine
della gioia», nei picchi del dolore, Borgna vuole arrivare a fissare l’elemento rivelativo dell’umano. Il cuore è uno specchio dell’uomo. I suoi battiti, le sue pulsazioni, i suoi crampi, i suoi collassi, sono il ritmo diseguale del suo dispiegarsi. E il campo o il teatro in cui si sviluppa è la vita di ogni giorno, è la vita di ogni uomo. Dostoevskij, Silvia Plath o la nostra Antonia Pozzi, Rainer Maria Rilke o Marcel Proust, gli autori cui Borgna più frequentemente ricorre, fanno parte di una nuova genìa di martiri o di santi, che possiamo chiamare i martiri del cuore. «Voci, voci. Ascolta, mio cuore, come so-
lo i santi sapevano ascoltare», dice Rilke nelle sue Elegie duinesi. Sarebbe tuttavia fuorviante pensare questo ascolto come una sorta di esclusiva della poesia o più in generale della letteratura, che, soprattutto nell’ambito della modernità, si è stretta attorno al cuore come a un suo perno fondamentale, avvicinando, e quasi identificando pathos e conoscenza. Santo e martire del cuore è chiunque soffra più di quanto possa sostenere, chi si espone alla vita, e in essa s’inoltra, a tal punto da restarne rapito o in ostaggio. Quella che, per convenzione o consolidata e pigra consuetudine, chiamiamo «malattia mentale» non è che un’accelerazione del cuore, la vertigine che può prendere chi si è spinto più lontano. «Il cuore in fiamme, o il fuoco del cuore - dice Eugenio Borgna - sono metafore vive… che ci fanno contemplare la nostra anima totale».
Il «cuore in fiamme» è dunque un organo della conoscenza in uno stato di perenne tensione, capace di penetrare il mondo più di quanto arrivi a fare il calcolo o il raziocinio. In un possibile «pensiero del cuore» conoscere non è il risultato di un processo d’astrazione, non è un guardare dall’alto o da lontano, e non è un punto di prospettiva, si tratta piuttosto di un essere dentro, mondo nel mondo, uomo nella «macina del mondo», come dice il poeta Mario Luzi. Il cuore sente il mondo, lo ascolta appunto, e ascoltandolo ne ricapitola la trama, sentendolo lo elabora, un po’ come se lo ruminasse facendone la carne e il sangue che tengono in vita l’uomo. Lo avevano capito i pittori cinesi dell’età classica, Shitao ad esempio o Zhu Da, vissuti sul finire del Seicento nel drammatico passaggio fra la dinastia Ming e quella Qing. La decifrazione del sensibile che la loro pittura mette in atto promuove un’intelligenza del mondo dal profilo assai singolare: dipingere è farsi toccare dalle cose che animano il mondo. «Quando dipingi un fiore - raccomanda Shitao - entra nella vita di quel fiore. Senti come quel fiore sente. Come il fiore prendi la luce, distenditi nel vento, perdi le foglie, torna a fiorire». Shitao si china sulle forme di vita più fragili e fugaci, erbe e fiori, semi e insetti. Trasferendo sulla carta quelle esistenze precarie, dà loro protezione. Si annulla così la distanza fra il pittore e il mondo, e il pittore si trasforma in erba e fiore, seme e insetto. È il cuore a operare questa metamorfosi. Mi pare sia così, pur in un contesto assai diverso, nel dinamismo mistico che segna la pittura di Vincent Van Gogh. I suoi «vortici» stellari o gli ulivi torturati dal vento e dal sole di Provenza, sono i segnali di una metamorfosi («mi viene il desiderio di rifarmi l’anima», dice Van Gogh). «Sentire le stelle e l’infinito in alto», scrive Vincent al fratello Theo. Sentire. Ancora il cuore.
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Pop
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musica
SOGNANDO MORANDI a un Sanremo reality di Bruno Giurato
di Stefano Bianchi è una canzone, pigiata in quel miscuglio di suoni fra discomusic da Studio 54 e dance stile people from Ibiza, che dimostra tutta la loro genialità: Comfortably Numb dei Pink Floyd. L’hanno presa, snocciolata, accelerata e trasformata nel pezzo che i Bee Gees da febbre del sabato sera non sono mai riusciti a incidere. Incavolarsi? Macché: Roger Waters e David Gilmour l’hanno apprezzato eccome, quel gioco di prestigio fatto di voci in falsetto. Come dire: da The Wall al Dancefloor. Sicché, nel 2004, la Comfortably Numb da luci stroboscopiche si è infilata nell’album Scissor Sisters; poi, nel 2006, ci ha pensato TaDah a inanellare bei numeri: un milione e quattrocentomila copie vendute solo in Gran Bretagna, blockbuster in America, disco d’oro in Italia. Scissor Sisters, gruppo newyorkese dell’orgoglio gay, coniuga disco e rock, dance e burlesque, glam e drag queen. Lo fa con stile, però. Senza cioè calcare troppo la mano, puntando a un pubblico il più eterogeneo possibile. Gli U2, per dirne una, li hanno voluti qualche anno fa come supporter nel loro Vertigo Tour. E loro, dal vivo, non solo hanno dimostrato di non essere mordie-fuggi ma sono riusciti a ipnotizzare centomila persone a Trafalgar Square e alla 02 Arena di Londra. Nel 2008, baciati dalla gloria e dalle lodi di Elton John, Andy Bell degli Erasure, Kylie Minogue, Pet Shop Boys e New Order, decidono che è tempo di un nuovo disco. Che esce dallo studio d’incisione ma finisce nel cestino. Meglio ripensarci su e rivedersi più in là. Ana
all’occhio di Vespa alle mani di Morandi. Il palloncino Sanremo ha già iniziato a staccarsi da terra. È la prima fase, quella autunnale del totoconduttore. Fino a qualche giorno fa si parlava di Bruno Vespa, l’imenottero nazionale che i cultori di Dickens riconosceranno nella figura di Huria Heep. E Vespa ci ha fatto sognare alla finale del Campiello, chiedendo di zoommare sulla scollatura di Silvia Avallone. Abbiamo immaginato un Sanremo fatto tutto di zoommate strategiche, su decolletè ma non solo, per par condicio avrebbe dovuto esaminare col teleobbiettivo le cariatidi di qualche concorrente stagionato, o i contrafforti di qualche nuova proposta baldo e masculo. Insomma un Sanremo fatto di zoommate e di punti forti, un riscatto dell’anatomia e della fisiologia sul ballo del potere. Chissà l’audience... E invece no. Ci tolgono Vespa e chi ci mettono? Gianni Morandi. Ha confermato il direttore di Raiuno, Mauro Mazza: «Sarebbe una bella scommessa per noi e per lui. Morandi è un nome importante e siamo in contatto con lui in vista di una decisione». Ora, un Morandi vecchio stile, stile bravo ragazzo che fa la maratona di New York sarebbe una bella delusione. Un Morandi pacifista del Vietnam, un Morandi uno su mille, un Morandi col Contrabbasso, un Morandi fatti mandare dalla mamma con la bottiglia di latte in mano. Una rovina sarebbe. E invece magnifico sarebbe un Morandi stile imitazione di Fiorello: incazzatissimo, crudele con i concorrenti, feroce con le vallette, scostante col pubblico. Un Sanremo Reality dunque. In cui, come nelle riunioni di redazione, la fanciulla bella e sciapa venga chiamata «sciacqua», e l’ospite merluzzo «er cojone». Un Sanremo verità. Grazie alle mani di Gianni, ancora più potenti degli zoom di Bruno.
D
C’
Le invenzioni al passato degli Scissor Sisters
Jazz
zapping
Matronic, la cantante che all’anagrafe fa Ana Lynch, prende a frequentare un corso di scrittura creativa; il chitarrista Del Marquis (Derek Gruen) si mette a produrre dischi in proprio; il tastierista e bassista Babydaddy (Scott Hoffmann) si dà alla pittura; il batterista Paddy Boom (Patrick Seacor) si dà invece alla macchia e non torna più (verrà rimpiazzato da Randy Schrager, in arte Randy Real). Jake Shears, al secolo Jason Sellards, vocalist, è l’unico a non arrendersi: raggiunge le discoteche di Berlino e proprio lì s’immagina l’essenza del nuovo repertorio. Ricontatta i compagni, si affida alla produzione di Stuart Price (già artefice dei successi di Madonna e The Killers) e il gioco è fatto: s’intitola Night Work, sfoggia in copertina un ancheggiante scatto fotografico di Robert Mapplethorpe ed è un rimbalzar continuo di citazioni e riferimenti. Se il brano che dà il titolo all’album occhieggia fra discomusic (il «tiro» ritmico) e glam rock (le chitarre elettriche), Whole New Way saltella con un orec-
chio a Stayin’ Alive dei Bee Gees e l’altro a Bad di Michael Jackson. Fire With Fire, invece, mette in fila l’Elton John più «piacione!, un ritornello che fa rima con Abba e la chiusura da musical hollywoodiano, mentre Any Which Way è pura Saturday Night Fever ma con l’unghiata funky tipica dei Jamiroquai. E se il rock bello tonico di Harder You Get, fra ZZ Top e Robert Palmer, sembra fatto apposta per introdurre Running Out (molto New Wave anni Ottanta con tendenza Psychedelic Furs), il technopop spettegola con Something Like This (azzeccata la citazione a Radioactivity dei Kraftwerk) e Skin This Cat. L’ultimo poker di pezzi tira in ballo Erasure e Bronski Beat (Skin Tight), Giorgio Moroder e Pet Shop Boys (Sex And Violence), A-ha (Night Life), Thriller di Michael Jackson, Frankie Goes To Hollywood e Bee Gees (Invisible Light).Tutto, insomma, scivola via che è un piacere. Per la gioia del popolo della notte. Scissor Sisters, Night Work, Polydor/Universal, 19,50 euro
Dialogo a tre su Canzoni, Preludi e Notturni
pesso, nel mondo del jazz, le opere discografiche più importanti e significative sono realizzate di getto. È il caso di un disco recentissimo nato su iniziativa del pianista milanese Enrico Intra che ha voluto accanto a sé il contrabbassista toscano Giovanni Tommaso e il batterista romano Roberto Gatto. Musicisti con i quali Intra non aveva mai avuto occasione di suonare, scelti per essere i suoi partner nell’esecuzione di sette pagine che Intra aveva composto l’anno scorso, dedicate ai suoi nipoti e ispirate alla musica classica che Intra ha sempre praticato anche se mai ufficialmente. Apparso nel mondo del jazz, non ancora ventenne, il 7 marzo 1955, Intra ebbe immediatamente il plauso della critica e del pubblico che lo applaudì al 5° Festival del Jazz di Milano. «Speranza nascente del jazz italiano» fu definito dalla stampa specializzata. E quando
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di Adriano Mazzoletti
l’anno successivo fu pubblicato il suo primo disco venne recensito con entusiasmo: «A occhi chiusi possono essere scambiate per incisioni di qualche pianista americano, ciò che non credo possa accadere per nessun altro pianista italiano». Pianista jazz, inizialmen-
te fu attratto da due pianisti di grande talento, Russ Freeman e André Previn e in seguito, come molti, da Bill Evans. Intra aveva però studiato con Federico Zeiss, un insegnante assai noto e nel corso della sua carriera fu più volte tentato di ritornare ai suoi primi interessi. Nel 1969 registrò con Giancarlo Barigozzi, Carlo Milano, Angelo Arienti e Giancarlo Pillot una versione jazz del Concerto in do maggiore K. 467 di Mozart. Alla fine degli anni Sessanta una Messa Jazz e nel 1971 collaborò con Severino Gazzelloni. Il disco appena pubblicato, dal titolo Canzoni, Preludi, Notturni, è pensato per favorire il dialogo fra i tre musicisti. Astratti i Preludi, intimi i Notturni,
melodiche le Canzoni. A differenza di Enrico Pieranunzi che ha rivisitato in chiave jazzistica Domenico Scarlatti, o Riccardo Arrighini che ha saputo fondere il jazz con la musica lirica (Verdi e Puccini) e classica (Vivaldi e Chopin), le composizioni di Intra sono, come detto, originali, ma grazie alla sua straordinaria sensibilità tutte le pagine sembrano scaturire dalla fantasia di un musicista accademico e jazzista al tempo stesso. Fatto forse unico, dove l’uno (il musicista accademico), non sovrasta l’altro (il jazzista), ma il tutto viene mirabilmente fuso. Il Trio (Intra Tommaso Gatto), Canzoni Preludi Notturni, Alfamusic, Distribuzione Egea
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arti Mostre
asa Felicita, a Cavatore, nei pressi di Alessandria, con questo nome così piemontese e gozzaniano, ha ormai una nobile tradizione di mostre di artisti piemontesi, da Calandri a Saroni, da Soffiantino a Tabusso a Ruggeri, ed era inevitabile che si giungesse a Francesco Casorati, che per la cura di Marco Rosci e Adriano Benzi, ha modo di ricostruire qui il filo tenace d’una coerente passione per la grafica e la festosa labilità dell’acquerello. Dalle recenti occasioni di Porti, Paesaggi scritti e dialoghi d’alberi con piedistallo, sino alle primissime prove 1955-‘56, ove già venivano in scena gabbie, più metafisiche che realistiche, ariosteschi Cavalieri antichi, lambiccate officine metropolitane (nel senso anche di Metropolis) saturate dalla morsura dell’acquatinta, «con ossidazione», e poi le inconfondibili, medioevali Battaglie lunari, ove alla sommità di lance, alabarde, morsi e cavalcature, si profila sempre la nitida sagoma di quell’aggrappata Pavarolo, che gli avrebbe offerto una scappatoia al cognome di famiglia: Francesco Casorati Pavarolo. Come una decorazione, campestre e fruttifera. Una bella coerenza, che non rischia mai la ripetitività. Certo, perché da un lato (abbandonate le atmosfere nere ed esistenzial-realiste di Omino sul carretto, 1965, tra Caruso e Vespignani, o le macule Ecole de Paris, pur fascinosissime e petros’astratte di Caccia alla luna, 1962 o Il Fiume) Casorati si è sempre dibattuto, sia pure allegramente e spensieratamente, tra questo lieve almanaccare fiabesco, alla Calvino, e una rigida sintassi, inesorabilmente catturante, griglia à plat, che quasi precede i suoi racconti. «Spensieratamente», potrebbe suonare anche avverbio equivoco, ma non va mal interpretato: perché la sua ragionata poetica di evasione dalle catene del tempo realistico (la mostra non a caso si intitola Finzioni della realtà) va compresa e letta quale scelta coraggiosa e quasi isolata
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argomenti meno prevedibili, vien fuori che tra tutti gli animali di casa Casorati (a parte il bestiario di carte da gioco, che abita il suo serraglio pittorico) oltre ad anitre, oche e cacatua, non manca nemmeno il pappagallo storico, che era magna pars d’un’opera epocale, di Kounellis, alla Biennale. Come i molti altri animali rabdomanti, che appunto menano le danze del suo popolatissimo caravanserraglio d’Esopo: gazze ladre sorprese con ancora in bocca il fil rouge della pittura che non s’arresta mai, di opera in opera, e ogni volta si rinnova, come l’onda che sempre muore e rinasce, nel Cimitero marino di Valery. Qui ogni immagine scura, funerea, rembrandtiana è come fugata dalla festa naturale di forme libere, pneumatiche e rasserenate: l’onda si fa arabesco di scrittura misteriosa, e anche le macchine sono come mondate dal loro uffizio alienante. Come nel Tinguely, citato pure da Rosci, ma senza nessun rumor di ferraglia o d’apocalissi: macchine per moltiplicare matasse di disegni, che finiranno di salire spumosi al cielo, come labirinti di Klee o di sprofondare in un oceano, che non conosce più mostri, ma soltanto festosi coralli. Abbiamo ricordato Valery, per evocare quel suo meraviglioso Dialogo dell’Albero, in cui le fronde fermentano, sino a esaurire l’orizzonte, in un interminabile ghirigoro calligrafico alla Casorati. Ed è lì che Lucrezio ricorda al pastore Titiro, che l’albero non è soltanto fronde e tronco appariscenti, ma anche quel pescare misterioso entro la linfa della terra, in una sorta d’orizzonte ctonio, specchiato. Ed è esattamente quello che scopriamo in questi mari: che hanno sotto di sé altri mari, altri cieli, altri orizzonti infiniti. Quelli d’una regale fantasia che trapana le terre banali.
Alla festa naturale di Francesco Casorati
Moda
di Marco Vallora d’abbandonare gli spessori invischianti della moda engagé, allora dominante, o del poverismo programmatico, quasi imperialista, nella Torino di Sperone e Pistoi, per reinnescare meccanismi arruginiti, ove i canarini da carillon tornano a pigolare, voluminosi piroscafi si fanno trascinare nel profondo da tenaci orate, che han la forza di millenarie murene, alla Plinio il Vecchio, tra case sventrate, che hanno la teatrale consistenza di cartoni da set improvvisato, ma salutano giulive con
mani di mattoni, lievi e nomadi come aquiloni, senz’evocare i soliti drammatici terremoti nazionali. E arzilli stabilimenti, d’archeologia industriale sepolta, tornano a far vorticare volani e pulegge, per produrre nuvole innamorate, uccelli d’origami e tele su tele, appese a stendere, come panni di bucato. Perché poi la storia - anche delle divergenze d’arte - è ben strana, e così nella conversazione di Casorati con il padrone di casa, Adriano Benzi, che lo pungola su
Francesco Casorati. Finzioni di realtà, Cavatore (Alessandria), Casa Felicita. In proroga (per informazioni: 0144-329854)
Frugando nel passato, per sapere da dove veniamo ome nella pubblicità di Fox Retro («Erano Avanti!») che ripropone vecchie, gloriose serie televisive (Quincy, A-Team, Magnum P.I.), anche la moda, esasperata dal dilagante vintage, ci prepara un autunno ispirato al guardaroba della nonna.Vitino sottile e gonne a campana che arrivano ai polpacci abbinate a corti giacchini con colletto da signorina per bene e borse decisamente anni Cinquanta (Louis Vuitton). Le ambientazioni, le pettinature, persino i colori della serie cult «Mad Man» dilagano nei negozi e ai party: si è già visto un assaggio a Venezia, alla Mostra del Cinema con teste ondulate e chignon, abiti fascinosi da dive, stile quando Hollywood era Hollywood. Corpini ricamati, scarpe con tacco sottile e fiocchetto bon ton. A sorpresa, spuntano icone imprevedibili, come Doris Day, un po’trascurata dagli stilisti, o donne dell’alta società internazionale mai state icone della passerella, genere Rose Kennedy, immortalata nelle foto di famiglia con
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di Roselina Salemi abiti a fiori e vezzosi giri di perle, o Nadine de Rothschild che appuntava spille di smeraldi sulla spalla destra per valorizzare i suoi occhi verdissimi, o anche, tanto per guardare in alto, il look regina Elisabetta, vituperata per i suoi tailleur pastello, ma adorabile in versione sportiva, da caccia al cervo, (studiarsi Helen Mirren in The Queen): giacche di tweed, twin set, Barbour, mocassini. Basta aver pazienza, prima poi la moda ingoia, macina, mastica e ricrea tutto. Per il momento ha sputato con sdegno gli anni Ottanta e Novanta. Perciò avremo un inverno con kilt tinta unita, giacche di velluto e golf a losanghe come quelli di Ballantyne (che a un certo punto, per svecchiare, li ha ridotti drasticamente a favore di colori meno classici e più giovani), mocassini college da portare anche con gli abiti di chiffon, scarpe a punta-punta, galosce e borse bon ton ziesche, recuperate magari in fondo a un armadio, a fantasia liberty, o addirittura ricamate a piccolo punto (ma di seta) da mettere disinvoltamente sui jeans.
Inquieta questa figura femminile, chic, filiforme, danzante dentro gonne rigonfie come quelle di Prada che enfatizzano la vita e il seno, inquieta questo ritorno di guanti e guantini da signora d’altri tempi con la calza al ginocchio, gli occhiali a farfalla e il cerchietto tra i capelli. Può attirare una ragazza questo stile granny, come lo chiamano gli inglesi? Forse sì, perché ci sarà sempre quel tocco moderno, una spilla di strass sul parka, i camperos con il kilt, la gonna a ruota o a pieghe larghe con qualche giubbotto spiazzante. Certo, così è faticoso, anche parecchio, e bisogna avere buon gusto, cosa che non abbonda. Ma fa tenerezza la determinazione con cui la moda, frivola per definizione, votata all’apparire-per-essere, fruga nel passato alla ricerca di un oggetto-simbolo, di qualcosa che ci garantisca la continuità con il presente, creando l’illusione di un’eleganza senza tempo. Non ci sono più nuove idee? No, semplicemente, per una volta, abbiamo bisogno di guardare indietro, di sapere da dove veniamo. Verso dove andiamo, chissà chi lo sa.
MobyDICK
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il paginone
Non è “scienza di confine” ma opera di revisionismo storico e archeologico il libro del matematico Emilio Spedicato sulle due più grandi catastrofi ricordate nei testi antichi: la scomparsa della mitica isola e gli eventi connessi all’Esodo degli Ebrei dall’Egitto. Sulle orme di Velikovsky, uno studio rigoroso che dimostra la plausibilità di eventi considerati “inusuali” ra i primi a darne notizia fu Platone nei dialoghi Timeo e Crizia. Da allora studiosi, ricercatori e appassionati non hanno mai smesso di cercare Atlandide, il mitico continente scomparso. Sull’argomento non mancano studi e libri a centinaia con le ipotesi più diverse e bizzarre. Capita anche che qualcuno arrivi a possedere sul tema più di 400 volumi. Insomma, pare non ci sia giorno che a un qualche «ricercatore indipendente» (amano chiamarsi così per lo più i dilettanti di questa o quella disciplina che scelgono nei loro studi di non attenersi alle linee guida dei veri esperti) non venga in mente una nuova idea che presto o tardi finisce col trasformarsi in un libro. C’è da dire tuttavia, che in questa congerie di pubblicazioni tutte più o meno fantasiose, qualche studio interessante e serio si trova. Qui ne segnaliamo uno fresco di stampa e uscito con il titolo Atlantide e l’Esodo. Platone e Mosè avevano ragione (Edizioni Aracne, 13,00 euro) del fisico e matemati-
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Il passaggio ravvicinato di un grande oggetto che cedette alla Terra un satellite, divenuto poi la Luna. Ecco la causa della distruzione più studiata della storia co milanese Emilio Spedicato. Di Spedicato esiste una ricca e interessante bibliografia che rivela la coltissima preparazione dell’autore - come quando parla della collocazione geografica dei viaggi di Gilgamesh - che tradisce la sua straordinaria intelligenza e curiosità.
Spedicato oltre a un invidiabile curriculum tecnico-scientifico, possiede un vastissimo bagaglio di conoscenze umanistiche e letterarie che comprendono molte lingue antiche e moderne, tra le quali l’ebraico, il greco, il latino, l’arabo, un po’ di cinese, l’ungherese e, ovviamente, molte lingue europee, la musica - l’autore è anche un eccellente pianista e compositore - e per ultimo, la sua disciplina preferita: la geografia nella quale è versatissimo. Fin da giovane Spedicato si lasciò avvincere dall’opera del geniale ebreo russo Immanuel Velikovsky (1895-1979), autore del libro Mondi in collisione, divenendone a distanza di anni, prima un appassionato lettore e cultore e in seguito, in certo qual modo, uno dei più degni e stimolanti continuatori. Ed è grazie a Spedicato che l’editore Luigi Cozzi è riuscito a ottenere dagli eredi il diritto di traduzione dell’opera omnia di Velikovsky in italiano. Velikovsky ha almeno due grandi meriti. Il primo è quello di essere riuscito a fornire anno III - numero 32 - pagina VIII
bastevoli prove sulla veridicità storica degli eventi «inusuali» della Bibbia; il secondo, davvero fondamentale, di avere provato a dimostrare che la cronologia accademica ufficiale per l’Egitto sarebbe sbagliata, riconducendo il clamoroso errore al noto archeologo ed egittologo francese Jean François Champollion (1790-1832). Ora, è proprio su questa stessa linea di revisionismo storico e archeologico che si muove Spedicato. In particolare in questo suo libro che affronta le due più grandi catastrofi ricordate nei testi antichi. La prima è quella di Atlantide riferita da Platone usando informazioni date in Egitto a Solone, per la quale l’autore porta avanti una tesi più che plausibile e accetta la data platonica spiegando l’evento nel contesto della fine, avvenuta velocemente, dell’ultima glaciazione. Mentre la collocazione della capitale della mitica isola viene stabilita ad almeno sessanta metri sotto il livello del mare, nel settore meridionale di Hispaniola (chiamata anche talvolta Santo Domingo o Haiti, è la seconda isola delle Antille per dimensioni, e si trova a est di Cuba e a ovest di Porto Rico), una tesi questa che trova pochi ma importanti consen-
La verità su
di Rossell
si. Quanto alla fine, o meglio, alla distruzione di Atlantide, questa sarebbe stata provocata dall’impatto di un meteorite sull’Oceano Pacifico o dall’effetto gravitazionale di un grande corpo celeste di passaggio vicino alla Terra. Scrive a questo proposito Spedicato: «Proponiamo come causa il passaggio ravvicinato di un grande oggetto, che cedette alla Terra un satellite, divenuto la Luna». Se la cronologia di Spedicato è corretta, ci troveremmo all’incirca nel 9500 avanti Cristo. La seconda grande catastrofe citata dalle fonti antiche riguarda l’Esodo degli Ebrei dall’Egitto. Partendo da un passo di Orosio, Spedicato associa l’evento al diluvio di Deucalione e all’esplosione di Fetonte, questo considerato un corpo celeste in orbita instabile attorno alla Terra. L’autore poi propone un nuovo itinerario di Mosè nel Sinai e individua il luogo del passag-
gio, un evento spiegato in modo diverso dagli altri studiosi. Infine vengono spiegati come fatti reali le vicende narrate da Platone e nella Bibbia. Quale che sia allora il credito che si è disposti a dare alla misteriosa vicenda di Atlantide, questo libro è scritto con esemplare rigore, serietà e vera cultura. Elementi assai rari nei libri che trattano l’intrigante ma confuso campo delle cosiddette fringe science (scienza di confine).
Il libro dell’Esodo comincia con il racconto degli ebrei ridotti in schiavitù dagli egiziani e disprezzati dal faraone fino alla ribellione che farà fuggire gli ebrei per ritornare in Palestina. È in questo contesto che si inserisce la storia del cosiddetto passaggio del Mar Rosso da parte degli ebrei e della distruzione dell’armata egiziana che li inseguiva. Questo evento segue altri
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mento alla famosa esplosione che avvenne nel 1908 in Siberia, dove migliaia di chilometri quadri di foresta furono distrutti. Dalle fonti antiche - tutte riportate nel volume - l’autore ricava le seguenti informazioni di tipo fisico-geografico. Prima del passaggio del Mar Rosso gli ebrei si trovavano bloccati fra mare e montagne, avendo Baal Sefon a sud e Migdol a nord. In questo frangente fu osservato uno strano fenomeno nel cielo: il fermarsi dell’Angelo di Dio e della colonna di fumo. Nella notte soffiò a lungo un vento da sud, da interpretarsi come un vento caldo. Prima della fine della notte gli ebrei poterono entrare nel letto asciutto del mare. All’alba gli egiziani iniziarono l’inseguimento, ma ebbero problemi con i carri, quindi le acque ritornarono e distrussero quanti erano entrati nel letto marino. Le montagne furono viste sobbalzare. Fetonte, considerato dai
dali sconvolti dall’esplosione, e dal fatto che la costellazione Eridano ha la forma geometrica del fiume Eider.
Secondo l’autore, Mosè partì dalla regione orientale del Delta, dalla terra di Goshen, dove molti ebrei erano impegnati in lavori di costruzione (fatto di cui gli scavi dell’austriaco Manfred Bietak hanno dato conferma archeologica). I testi dicono che il suo itinerario fu lungo e inusuale. Spedicato esclude quindi quello lungo il Mediterraneo o le varie strade nella parte settentrionale del Sinai, al contrario è convinto che Mosè si muove lungo la costa occidentale del Sinai raggiungendo l’importante santuario di Baal Sefon, da localizzarsi nella punta del Sinai, l’attuale Ras Muhammad, che lo scrittore ritiene fosse un santuario dei Pani, i navigatori dell’India, che raggiungevano l’Egitto seguendo i monsoni con navi smontabili tenute insieme da corde di fibra di cocco (tecnologia tuttora esistente nelle Laccadive). La parola Sefon è probabilmente una variante di Siva/Shiva, la divinità principale dell’India pre-ariana, il che spiega anche interpretazioni tradizionali quali Signore del Nord (il trono di Shiva è infatti sul monte Kailas, a nord dell’India), o Signore delle mosche (nei templi indiani si offre burro alle statue, il che attira mo-
Il passaggio del Mar Rosso è associato, partendo da un passo di Orosio, al diluvio di Deucalione e all’esplosione di Fetonte, un corpo celeste in orbita instabile pagani responsabile dei vari eventi avvenuti allo stesso tempo, dopo una serie di caotiche evoluzioni nel cielo si avvicina alla terra provocando incendi e infine esplodendo per effetto di un fulmine di Giove, nella regione del fiume Eridano, dove si trova l’ambra. Lo scenario proposto dall’autore parte dallo scritto di Orosio ipotizzando che l’oggetto chiamato Fetonte fosse un bolide di dimensioni forse di qualche chilometro, catturato dalla forza di attrazione del nostro pianeta. L’oggetto, dotato
u Atlantide
la Fabiani
eventi straordinari noti come le Dieci piaghe d’Egitto e precede la consegna a Mosè delle Tavole con le leggi da parte di Yahvè. Per gli eventi descritti nell’Esodo, Spedicato sottolinea che esistono varie interpretazioni. C’è quella ortodossa, che li vede come miracoli compiuti da Dio su richiesta di Mosè. C’è quella di chi ritiene il libro composto molto tempo dopo gli eventi descritti, che sarebbero essenzialmente delle fabbricazioni prodotte per attribuire agli ebrei un’antichità storica simile a quella dei popoli dove avevano passato molti anni in esilio. E ancora, c’è quella allegorica, tipica di molti Padri della Chiesa e teologi di oggi. Infine c’è quella di studiosi come Goedicke e Velikovsky che li considerano speciali eventi naturali. L’approccio del nostro autore appartiene all’ultima categoria. Spedicato è convinto che i testi antichi riportino una descrizione essenzialmente
fedele di eventi accaduti - a parte alcuni errori nella trasmissione o nella traduzione e che in tempi antichi il nostro pianeta abbia interagito catastroficamente con oggetti extraterrestri. In questi termini, come affermato da Platone, si spiegano le tre grandi catastrofi da lui citate, la più antica quella di Atlantide, la più recente quella di Deucalione.
Per questa ipotesi lo scrittore si avvale di un passo delle Storie contro i pagani di Paolo Orosio, amico di Agostino, usa diverse citazioni che si trovano nell’Esodo, in Giuseppe Flavio, nelle Leggende degli Ebrei, in autori latini e greci che trattano di Deucalione e di Fetonte, e si avvale della conoscenza che si ha oggi degli effetti di un’esplosione nell’atmosfera di un asteroide o di una cometa, ovvero di eventi classificabili come Super Tunguska, con riferi-
inizialmente di un’orbita caotica, deve avere avuto una serie di frammentazioni, immettendo nell’atmosfera una quantità di polvere e colpendo la terra con alcuni frammenti, eventi con i quali si possono spiegare le Dieci piaghe d’Egitto. Il suo nucleo, avvicinatosi all’atmosfera nel giorno cruciale del passaggio del Mar Rosso, avrebbe inizialmente interagito con questa, provocando incendi per l’onda di calore prodotta dal contatto e, infine, penetrato negli strati più densi, sarebbe esploso sul fiume Eridano che Spedicato identifica con il fiume Eider, nello Schleswig Holstein, un importante fiume che fino al Medioevo formava con lo Schlei una via di passaggio diretto fra Mare del Nord e Baltico. L’identificazione proviene dal riferimento alle lacrime di ambra delle sorelle di Fetonte alla sua morte, ambra emersa in grande quantità dai fon-
sche, che secondo le idee relative alla metempsicosi non possono essere uccise). Qui Mosè, che aveva probabilmente contatti con i Pani, si impadronisce dell’oro e muove verso Migdol, quasi sicuramente una fortificazione nella regione di Eilat, zona portuale e di miniere di rame. La strada per Migdol è quasi tutta montuosa, salvo una piana abbastanza estesa nella presente Nuweiba, da identificarsi con Pi-Hahirot. Per raggiungere Nuweiba, Mosè e i suoi necessitano di vari giorni, dovendo attraversare due passi, con una strada resa più difficile dai vari terremoti che Fetonte aveva prodotto nei mesi precedenti. Durante questo tempo il faraone è informato del furto dell’oro, motivo per cui invia contro Mosè delle truppe. I carri devono essere portati per mare, non potendo viaggiare per la difficile strada seguita da Mosè. Sono portati quasi certamente da grandi navi dei Pani partite dal porto di Tebe, in fondo allo Wadi Hammamat, oggi chiamato Marsa Gawasis. E nel 2004 sono state scoperte in due caverne presso tale porto numerose navi smontate, datate non meno di 3.500 anni fa. I carri sbarcano a Pi-Hahirot, l’attuale Nuweiba, unico luogo lungo la costa dove il terreno avrebbe permesso loro di manovrare. Gli egiziani vi trovano Mosè bloccato da una frana che aveva reso impraticabile la strada che passava fra il mare e una catena di montagne invalicabili. L’itinerario proposto, circa tre volte più lungo di quello tradizionale lungo il Mediterraneo, è motivato dalla necessità di acquisire l’oro di Baal Sefon, e si svolge con il deserto a sinistra e il mare alla destra, esattamente come affermato da Cosmas Indicopleustes, che ben conosceva il Mar Rosso e che è stato ignorato dagli studiosi di Mosè.
Narrativa
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libri John Banville CONGETTURE SU APRIL Guanda, 285 pagine, 17,50 euro
ohn Banville, nato a Wexford, Irlanda, nel 1945, è uno dei più famosi e grandi scrittori d’Europa. Con Il mare ha vinto nel 2005 il Booker Prize. Ebbene, ora immaginiamo che mister Banville abbia mandato un suo dattiloscritto a un editore, usando uno pseudonimo. Immaginiamo che Banville telefoni per sapere qualcosa del suo romanzo. L’editore, o comunque un editor della casa editrice, potrebbe rispondergli così: «Mio caro giovanotto, ma si rende conto? Lei impiega quasi settanta pagine per rivelare che ai piedi del letto della giovane donna ritenuta scomparsa ci sono delle macchie di sangue. Ma via, lei non conosce affatto il ritmo del racconto, lei doveva entrare subito nel vivo della vicenda… o forse si crede Proust?». Facile immaginare, a questo punto, la sonora risata di Banville. Oppure la smorfia di amarezza per aver constatato che oggi molti considerano i romanzi una sorta di collage di sms, all’insegna della rapidità, dimentichi che un’atmosfera, essenziale in un testo narrativo, è spesso più importante dei meri fatti. Probabilmente, seguendo l’immaginazione per assurdo, anche un editore italiano calcherebbe sul «difetto imperdonabile» della lentezza. Canone letterario in base al quale si dovrebbero buttare sul fuoco migliaia di capolavori. E con tutta probabilità l’editore italiano, suggestionato dai sondaggi del marketing, direbbe al sessantenne Banville di turno che non si vendono autori con i capelli grigi. Banville, nell’ultimo romanzo pubblicato in Italia da Guanda, Congetture su April, non ha paura di far fare passi lenti ai suoi personaggi. È insomma lontano dal ridicolo ritmo del cartone animato e descrive il mondo quale è. Con i suoi tempi. April Latimer è una giovane medico che vive da sola. Appartiene a una famiglia spocchiosa e ricca, «quelli dell’altra parte» come dirà un detective della polizia. Ha una ristretta e fedele cerchia di amici, e tra questi c’è Phoebe, figlia dell’anatomopatologo Quirke, personaggio cui Banville è molto affezionato e al quale ha affidato complicati casi da sbrogliare. È la fragile Phoebe che dà l’allarme: April è scomparsa da una settimana. Trova sotto una pietra la chiave di casa ed entra: tutto apparentemente normale, compreso il consueto disordine. C’è però un particolare importante che emergerà
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Con Banville alla ricerca di April Dublino avvolta nella nebbia di febbraio e un passato da scandagliare. In un racconto che non teme i passi lenti
Il bibliofilo
di Pier Mario Fasanotti
e darà il via a varie congetture: il letto non è disfatto, anche se attorno ci sono indumenti di vario genere. Quirke, appena uscito da una clinica dove è andato per disintossicarsi dall’alcol, inizia la sua riassieme all’ispettore cerca Hackett, così timoroso nello scomodare la famiglia Latimer, la stessa cui appartiene un ministro. Siamo in una Dublino avvolta completamente nella nebbia di febbraio. Banville in due righe è come se ci portasse per mano proprio lì: «Nel silenzio ovattato la città pareva sconcertata, come un uomo cui si abbassi di colpo la vista». Cercare notizie su April è difficile: «Era il tipo per cui la gente si preoccupava, non perché non fosse in grado di badare a se stessa, ma perché era fin troppo sicura di saperlo fare». La giovane medico non ha più rapporti con la madre e con il resto della famiglia. Qualcuno dei Latimer addirittura la chiama «stronzetta». Non si fa trovare? Be’, sono affari suoi. Gelido è anche il fratello, medico pure lui. Ma questa sprezzante indifferenza non convince Quirke. L’ispettore scopre che per le scale c’era sempre un ragazzo di pelle nera ad aspettarla. Non solo lui, però. In effetti tra gli amici ci April c’è Patrick, originario del Niger. A poco a poco - del resto è così che si svolgono le vicende umane - Quirke viene a sapere che Patrick era innamorato di April, tuttavia non ricambiato se non con amicizia casta e affettuosa. Non voglio rivelare certamente l’esito delle ricerche sul destino di April, solo dire che la giovane donna era incinta e che probabilmente (diciamo così) le tracce di sangue trovate sul pavimento… Come in tutti i romanzi di Banville, persone, ambienti e situazioni hanno il marchio della complessità. Ogni personaggio è un intreccio di circostanze, di umori. Un misto di passato e presente. E per sapere cosa sia successo ad April si dovrà scandagliare il passato che, come accade spesso, lancia i suoi tentacoli su un presente tormentato e tenuto segreto.
La perfezione della grafica nel nome di Majakovskij e edizioni La Vita Felice ripropongono, in versione anastatica, uno dei gioielli dell’arte tipografica novecentesca, arricchito dalla classica traduzione di Ignazio Ambrogio: Per la voce di Vladimir Majakovskij (128 pagine, 10,00 euro). Il poeta russo affidò a El Lisitskij la progettazione del volumetto durante il soggiorno berlinese del 1923. Berlino era all’epoca la capitale del costruttivismo russo all’estero, straordinaria fucina di nuove idee e fermenti artistici. Il libretto, concepito come un’antologia dei testi majakovskijani che maggiormente si prestavano alla lettura in pubblico (da cui il titolo), venne composto nello stesso anno in una piccola tipografia della città tedesca, per conto delle Edizioni di Stato di Mosca. Il poeta aveva infatti l’abitudine di intraprendere vere e proprie tournée lungo lo sterminato territorio sovietico per declamare in pubblico i versi che l’avevano reso famoso, nonostante le autorità gli rimproverassero un ermetismo di fondo non sempre recepito dalle masse. Majakovskij, che si sentiva ripetere in continuazione di non venire compreso dagli operai e dai contadini, esasperato, scriverà nel
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di Pasquale Di Palmo 1927 la poesia intitolata Le masse non vi capiscono che presenta il seguente significativo incipit: «Fra scrittore/ e lettore/ ci sono i mediatori,/ e il gusto/ del mediatore/ è il più mediocre». Per la voce, comprendente tredici poesie di Majakovskij, è stato concepito da El Lisitskij, nominato non come illustratore ma come «costruttore del libro», in maniera quanto mai singolare: le pagine infatti si consultano come una rubrica dove, al posto delle lettere dell’alfabeto, figurano i temi trattati nelle poesie. El Lisitskij adottò al riguardo una soluzione semplice e geniale al tempo stesso, inserendo in margine a ogni singola voce della rubrica un piccolo simbolo grafico che sembra anticipare le icone del linguaggio informatico. Il mio Maggio, Internazionale, Armata delle Arti, Cadetto, Sole sono alcuni delle voci che si avvicendano nella rubrica che può dunque essere consultata con facilità da un eventuale dicitore o attore per la lettura in pubblico. Così El Lisitskij ricordò l’impresa: «Questo libro di poesie di Majakovskij è
Esce in anastatica “Per la voce”, affidato dal poeta nel 1923 all’estro di El Lisitskij
destinato a essere letto ad alta voce. Per risparmiare al lettore la ricerca delle singole poesie, ho fatto uso della rubrica. Questo libro è formato solo col materiale della cassa dei caratteri. Sfruttate le possibilità della stampa a due colori (sovrapposizioni, incroci di tinteggiature, e così via). Le mie pagine stanno alle poesie in un rapporto forse analogo a quello del pianoforte che accompagna il violino. Come per il poeta dal pensiero e dal suono si forma l’immagine unitaria, la poesia, così io ho voluto creare un’unità equivalente con la poesia e gli elementi tipografici». Al repertorio rivoluzionario di Majakovskij, fatto di esortazioni e apologhi dall’intento dichiaratamente sociale, si accompagnano così le modernissime soluzioni grafiche di El Lisitskij che, basandosi sul contrasto tra inchiostro rosso e nero, riesce a comporre un libro che diventerà una sorta di feticcio novecentesco, una Bibbia di Gutenberg dell’era moderna, i cui rari esemplari sono contesi dai collezionisti più importanti a suon di cifre elevatissime. Tale reciprocità tra poesia ed elemento visivo costituisce un tratto essenziale dello straordinario connubio tra poeta e «costruttore del libro», tanto che Majakovskij sosterrà che Per la voce «è dal punto di vista tecnico una perfezione assoluta d’arte grafica».
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poesia
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Il risveglio di Walt Whitman di Roberto Mussapi l grande poeta americano Walt Whitman (West Hill, Long Island 1819-Camden 1892), cantore della natura e della sua anima, è una figura unica nella poesia moderna: crea, come gli antenati greci e latini, dei miti. Come ispirato direttamente da Omero, Virgilio, Lucrezio, Ovidio, attinge alla natura, vi si immerge generandone una lettura magica, multiforme, favolosa, tramutandone la realtà in mito e poema. Per Whitman la natura non è iscritta nel mondo vegetale e animale, negli elementi primari dell’acqua, dell’aria, della terra: la natura è natura naturans, forza animante che agisce nello stelo d’erba come in ognuno di noi, anelito alla creazione che ripete il disegno divino nella sua onnipotenza. Fanno parte della natura le città che sorgono popolose come alveari, obbedendo all’istinto umano di aggregazione e socialità. Fanno parte della natura i ponti che l’uomo edifica per congiungere le rive, in uno slancio edificante che Whitman vive come potenza erotica.
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Ma primigenia nella sua opera, nel suo vasto poema Leaves of grass, Foglie d’erba, la potenza del mare, il cui fondo custodisce il segreto della nostra origine e del nostro destino, il mare la cui voce accompagna e culla i moti del giorno e della notte. Il mare come condizione di lontana nascita e di morte, suono ripetuto, oscillante, cullante, in ultima analisi immutabile. Mentre esiste un suono, una voce, che rivela a lampi la pienezza dell’essere e lo strazio per l’impossibilità che essa perduri nel tempo mortale: il canto dell’uccello. Un canto in cui gioia e dolore si mescolano indelebilmente, e da quel canto il giovane Whitman apprese, da adolescente, i segreti della poesia, e il suo destino di poeta, il cantore che fonde gioia e dolore, vita e morte, nella voce, nella melodia appresa dagli uccelli. Una storia di genesi della poesia e una cosmologia dell’anima, questa fiaba mito, la prodigiosa Dalla culla che oscilla eternamente, di cui ho proposto alcuni versi, ma che va letta interamente nel suo passo fluviale di poema o di fiaba. Eccolo, il mito. Una volta a Paumanok, quando era nell’aria il profumo dei lillà e cresceva l’erba del quarto mese, due ospiti pennuti vennero dall’Alabama, due insieme, e fecero il nido, e quattro uova verde chiaro macchiate di bruno. E ogni giorno il maschio volava qua e là, nei paraggi, e ogni giorno la femmina covava sul nido, muta, con gli occhi ardenti, e ogni giorno lui, che era un ragazzo curioso, senza disturbarli, con cautela spiava, assorbiva, traduceva. Finché all’improvviso un mattino, forse uccisa, senza che nulla il suo compagno potesse sapere, la femmina non era a covare il
il club di calliope
E non lo dimentico,
nido, e non tornò ma fondo il canto del mio cupo demone e fratello, quel pomeriggio né il seguente, non riche mi cantò al lume della luna sulla grigia spiaggia di Paumanok, comparve mai più. coi mille canti liberi in risposta, Il ragazzo continuò a spiare quel luogo, i miei canti svegliati in quel momento, da allora vedeva il e con loro la chiave, la parola che sorge dalle onde, maschio, solo, lo osservò per tutta l’ela parola del canto più dolce e di tutti i canti, state, a volte coperquella parola forte e deliziosa che strisciando ai miei piedi to dal suono del mare, di notte sotto (o come una vecchia che dondola la culla, la luna piena, di avvolta in vesti chiare, piegata di lato) giorno svolazzare tra rovo e rovo, e mi sussurrò il mare. quando il mare era quieto e taceva allora lo udiva, il maWalt Whitman schio, l’ormai solitario ospite dell’Ada Dalla culla che oscilla eternamente labama. Il bambino traduzione di Roberto Mussapi non dubitava, l’uccello si rivolgeva con la sua voce ai venti del mare. L’uomo, anni dopo, quando ormai è diventato poeta, ri- l’uomo che cammina lungo il mare ora si fa ancora più corda quanto perfettamente ascoltando l’uccello vivido, atroce: vede, come di fronte a uno specchio sulaveva compreso: «Chiamava la sua compa- le spiagge di Paumanok, nella luce della semiluna gialgna riversando significati che io solo tra la che si effonde, vede il ragazzo, estatico, coi piedi nututti gli uomini conosco. Io li conosco, gli di, nelle onde, con i capelli fluttuanti nel vento, e rivive altri probabilmente ne sono all’oscuro, la rivelazione di quell’istante: l’amore troppo a lungo ma io ho fatto tesoro di ogni nota e ho compresso nel cuore del fanciullo che all’improvviso appreso quella lingua musicale, perché fluisce bruciando in un tumulto, e il significato di quel più volte, scivolando non visto sulla canto si distende limpido e naturale nelle orecchie e spiaggia, schivando nel silenzio i rag- nell’anima, ecco il trio che si compone in un’unità nagi di luna, confuso con tutte le ombre scente, il canto dell’uccello motteggiatore, il suono del e le forme oscure del mare di notte io, mare, il bambino che sta mutando, mentre il bardo, il a piedi nudi, ancora bambino, con il poeta, rompe la sua scorza, nasce da quell’accordo. vento che mi scompigliava i capelli, io E la rivelazione, e la domanda improvvisa, piena, restavo a lungo in ascolto, in silenzio». Ascoltava per appropriarsi del segreto di «Demone o uccello, ascolta! È solo per la tua sposa che quel canto per poi tradurlo, con la sua vo- canti? O non canti forse anche per me, qui ogni sera e ce umana. Ricorda che l’uccello chiamava a ogni notte, davanti al mare su su quel palo muschioso? voce alta, spandeva la sua voce sulle onde, la in- Perché io ero un bambino, e l’uso della lingua dentro di vocava. O forse lei era quella piccola macchia scura me dormiva. Ma io ti ho udito, il tuo canto mi ha risvesulla luna, allora pregava l’astro di non tenerla più co- gliato. Adesso, in questo istante io so e capisco perché sì lontana. A volte cantava alla terra, dicendole a vo- sono vivo, e perché sono venuto al mondo, e perché soce alta che era nascosta in qualche anfratto, in qual- no qui, qui e ora. Mi sveglio, ho appreso il tuo canto e che cespuglio, invisibile ma viva, accanto. In qualche in esso il mio destino di poeta, già mille voci hanno ininotte stellata si rivolgeva agli astri: forse lei era salita ziato a cantare in me, per non morire». da loro, la pregassero di ridiscendere, di tornare al Questo ricordava sulla spiaggia di Paumanok Walt Whitman, l’incontro con la coppia di uccelli e il canto compagno che per lei cantava. L’uomo sta camminando lungo la riva del mare, i piedi del maschio rimasto solo, e il lutto, e il suo matrimonio nell’acqua, ricorda quella gola tremante e il segreto con la voce e la bellezza che lo avevano iniziato, sulla che il bambino aveva colto di quel pianto. Il ricordo del- spiaggia, di notte, a diventare poeta.
SE IL TEMPO FERISCE... CON GENTILEZZA in libreria
di Giovanni Piccioni
Quanto era bianca la neve dell’85 e fredda e sconosciuta per noi bambini come ci trovò splendidamente impreparati con le buste della spesa legate ai piedi una camera d’aria per discese mozzafiato. Qualche volta in altre terre l’ho rivista, non ci crederai, è rimasta bianca come allora.
Daniele Mencarelli
e Poesie di Claudio Damiani, (Fazi editore, 15,00 euro), raccolgono una produzione che va dal 1987, con Fraturno, al 2008, con Il fuoco sulla fortezza, inedito. Siamo di fronte a una poesia che sceglie un linguaggio semplice, quasi elementare, per dire una verità personale e non solo personale. Nel senso che, lontanissima da ideologie e mode letterarie, richiama continuamente la fragilità e la bellezza tragica, perché finita, dell’esistenza. Al centro dei versi di Damiani ci sono l’uomo e la natura, i quali vivono, quasi simbioticamente, una vita breve, con le sue «leggi», di vita e di morte. Proprio il tema della morte assume un rilievo centrale, ed essa viene rivestita ora da un’aspirazione che richiama il cristianesimo, ora dagli echi di una visione classica. Tutto viene comunque riconosciuto e accettato con accenti lievi e sereni: «Che bello che questo tempo, come ogni tempo, finirà,/ che bello che non siamo eterni,/ che non siamo diversi/ da nessun altro che è vissuto e che è morto,/ che è entrato nella morte calmo/ come su un sentiero che prima sembrava difficile, erto/ e poi, invece, era piano». La gentilezza, passato, presente e futuro, la natura, i luoghi familiari: tutto si compone in un medesimo destino, segnato dal tempo che «scivola» e «ferisce».
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di Enrica Rosso have a dream, ho un sogno. Quello di Daniela Giordano, pluripremiata attrice e regista, era quello di far scoprire il cuore segreto dell’Africa attraverso la conoscenza del suo teatro. Con pazienza e dedizione, caparbietà e tanto lavoro ha quindi iniziato a raccogliere, selezionare, tradurre, proporre, testi provenienti dal Continente Nero scoprendo scritture teatrali che ci offrono la possibilità di un contatto più sincero con una cultura di cui l’Occidente ancora tanto ignora avendone esportato solamente i luoghi comuni. Poi il salto per dare una forma a tutto il materiale raccolto. È iniziata così nove anni fa l’avventura, dapprima concentrata sul territorio sub-Sahariano e in seguito allargata all’intero territorio, di Festa d’Africa Festival per «vincere sul silenzio con la forza della creatività». Ospitato nel Teatro Palladium-Università Roma Tre, dal 15 al 18 settembre con l’Adesione e il premio di Rappresentanza del presidente della Repubblica, questo festival internazionale delle culture dell’Africa contemporanea a cura di Crt scenaMadre scandaglia quest’anno il tema della «Diversità culturale un bene per tutti». Si parte il 15 con una tavola rotonda condotta dal direttore di Rai Radio 3 Marino Sinibaldi sul tema «Immigrazione-Cittadinanza». Politici, giuristi ed esperti del settore sono invitati a dialogare con il pubblico in sala per focalizzare sul diritto di cittadinanza per le seconde generazioni. A seguire verranno presentati i film Sei nel mondo di Camilla Ruggiero e Fratelli d’Italia di Claudio Giovannesi sul tema dell’integrazione degli adolescenti immigrati nel nostro Paese. Il giorno dopo la compagnia tunisina L’art de le deux rives presenta in prima nazionale e europea Zirriat bliss - I semi di lucifero, per la regia di Hafedh Kalifa con le musiche di Evelina Meghnagi. Una pièce ispirata a Le serve di Genet per raccontare di un femminile sepolto in territori oscuri, ma non so-
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Televisione
Teatro Le mille e una malia di mamma Africa MobyDICK
lo; il testo sviluppa, infatti, metaforicamente la problematica dell’annosa questione tra Israele-Palestina con uno sguardo privilegiato al conflitto interno palestinese. Da non perdere la prova delle due straordinarie protagoniste: le
spettacoli
tunisine Ben Yahia Jalilla e Dalila Meftafi. Il 17 sarà la volta degli italiani della compagnia Divano Orientale Occidentale diretta da Giuseppe L. Bonifati e Cecilia Di Giuli che presenteranno Ammaliata, orchestra popolare per coro e sei seggiole, una ricerca sui ritmi che prende spunto dalle lingue calabresi per fondersi con le suggestioni linguistiche dei territori confinanti in una malia di suoni. Per poter assaporare l’atmosfera del chiaro di luna in Senegal, la serata di sabato 18 si colora dei suoni del Keur Senegal di Lamine Dabo. Quindici artisti in scena tra danzatori, acrobati, musicisti, ballerini e naturalmente cantanti per dar vita a quello che in wolof, la lingua nazionale senegalese, significa casa. Inoltre ogni pomeriggio alle 19.30 Alessandro Jedlowsky e la stessa Giordano coordineranno gli incontri con artisti immigrati. Allestita per l’occasione nel foyer del Teatro, l’esposizione di Alessandra Toro che presenta tre etnie che hanno lottato per l’autodeterminazione dei popoli: i Chewa del Malawi, i Sahrawi del Sahara Occidentale e i San del Kalahari. Come tutti noi abbiamo ormai imparato durante l’estate it’s time for Africa. Daniela Giordano l’ha capito prima.
Festa d’Africa Festival 2010, Roma,Teatro Palladium dal 15 al 18 settembre, info: www.teatropalladium.it
DVD
QUANDO EMIR SUONAVA IL PUNK ROCK rima ancora di fare cinema, e di immaginarlo come un indiavolato corollario polifonico alla caotica ebbrezza delle sue composizioni, Emir Kusturica faceva il musicista a tempo pieno nella band dei No Smoking. Apertamente schierato contro il regime di Tito, il combo slavo aveva intrapreso un lungo tour europeo, testimoniando la forza propulsiva delle nuove generazioni che sognavano dei Balcani nuovi di zecca. Il regista rievoca quel divertente viaggio on the road in Super8 stories, chiassosa pellicola che rievoca oggi un mondo che non c’è più in maniera provocatoria e scanzonata insieme.
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PERSONAGGI
FINO ALLA FINE DEL ’900 INSIEME A PATTI SMITH ra l’estate in cui morì Coltrane. L’estate di Crystal Ship. I figli dei fiori levavano le braccia vuote e la Cina esplodeva l’atomica. Jimi Hendrix dava fuoco alla sua chitarra a Monterey. E in quell’atmosfera mutevole, per niente accogliente, un incontro casuale cambiò il corso della mia vita». Si intitola Just Kids, la splendida autobiografia con la quale Patti Smith racconta il suo viaggio nella musica. Capace di ritrarre una NewYork lunare con pastelli onirici e raffinato impianto letterario, la lady del rock verga trecento pagine in bilico tra autoanalisi e poesia. Un’opera preziosa da un’artista sconfinata.
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di Francesco Lo Dico
Un avvocato ad alta tensione in fascia protetta
na graziosa annunciatrice ci informa: «Il programma è riservato soltanto a un pubblico adulto». Rai 2, con questo avvertimento di facciata, manda in onda (per la seconda volta: la prima risale all’estate scorsa) Anna Winter, in nome della giustizia. A tarda serata, uno penserebbe. Assolutamente no: alle 21 in punto, prima fascia serale d’ascolto, quando il piccolo schermo è davanti ai bambini e ai ragazzini. Per carità, l’obiezione che muoviamo non riguarda certo il primo piano di una ventenne con indosso solo uno striminzito paio di mutandine (trasparenti). Riguarda il contesto: la ragazza è tenuta prigioniera in una camera con le pareti rivestite di materiale bianco insonorizzante, un luogo che a prima vista pare una cella di manicomio d’altri tempi. Lei, con la vista an-
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nebbiata, annaspa, striscia a terra, tenta di procurarsi (invano) un varco. Tutto è bianco, anche i pantaloni che due uomini si tirano su. È scena di stupro ripetuto, di prigionia tra le più atroci. Alle 21. Non male, cara Rai, non male. E viene da chiedere: non avevate altro da mandare in onda, perlomeno fino alle 23? Evidentemente no. L’episodio della serie, con l’attrice
Alexandra Neldel come protagonista, continua fino ad arrivare, tra un’angoscia e l’altra, tra un suicidio e tante idiozie della polizia, alla conclusione catartica: liberazione della ragazza e arresto dei colpevoli, studenti universitari ricchi e annoiatissimi. La Wonder Woman degli episodi è una giovane avvocato, Anna Winter appunto, che si batte da sola in quanto non creduta praticamente da nessuno. Siamo nella Berlino dei nostri giorni, una città tutta vetro e acciaio, immersa in atmosfere che ricordano il tono ossessivo di David Lynch. Nella scena finale non manca lo sbatter d’ali dell’alibi psico-sociale: uno dei ragazzi che finirà in galera se la prende con il padre, preside dell’università da 15 mila euro a semestre, in quanto colpevole d’essere genitore assente (e il ragazzo è anche orfano di ma-
dre). Un piccolo «branco» che germina in un ambiente falsamente didattico, dove l’insegnamento è asservito alle tasche dei finanziatori e alla logica dell’efficientismo da capitalismo amorale. L’avvocato Winter si mette pure nei guai, come sua abitudine, pur di lottare contro l’ingiustizia. Abituati all’abilità televisiva dell’ispettore Derrick, ci sorprendiamo anche per un’altra cosa: in questa serie la polizia pare la polizia più stupida d’Europa. Il detective in azione (o in non-azione) è ottuso, lontanissimo da qualsiasi parvenza di dubbio. Che siano stati così i gerarchi nazisti? In ogni caso le gesta di Anna Winter tengono alta l’attenzione dei telespettatori, anche quando l’«arrivano i nostri» risulta essere qualcosa di sgangherato sul piano della tattica para-militare. L’impianto narrativo è dunque salvato dalla protagonista, che ovviamente ha una vita sentimentale tormentata, tra un passato che stenta a svanire e un futuro che solo gli ottimisti possono intuire felice o quasi. (p.m.f.)
Cinema
MobyDICK
venuta bene la 67° Mostra dell’arte cinematografica di Venezia; un ottimo presagio per il direttore artistico Marco Mueller, in scadenza di mandato. Un sapiente mix di autori affermati, vecchi maestri e giovani promesse, la rassegna entusiasmava già sulla carta, e a conti fatti, pure. Ecco un assaggio dei film di quest’anno; degli altri daremo conto quando escono in sala. Tra i film già nei cinema ci sono due dei più attesi, Somewhere di Sofia Coppola e Miral di Julian Schnabel. Il film della regista di Lost in Translation e Marie Antoinette ha diviso la critica per generi: maschi a baffo moscio, femmine felicissime. A noi colpisce la cocciuta bravura di una figlia di Hollywood che ha scelto la strada del cinema indipendente. Il suo quarto film racconta di un attore diventato famoso da poco. Johnny Marco (Stephen Dorff) è separato dalla moglie e ha una figlia, Cleo (Elle Fanning) di undici anni. Vive nell’albergo famoso di Sunset Boulevard, prediletto degli artisti alternativi, quello in cui è morto John Belushi per overdose. Johnny non è di passaggio, allo Chateau Marmont ci vive; si concede in modo acefalo alla vita facile, vuota e pseudo-siba-
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È
Venezia: i migliori visti da vicino di Anselma Dell’Olio una ragazza araba-israeliana (o palestinese, se preferite) nata nel 1973 e cresciuta in mezzo alla prima Intifada, con flashback sulla fondazione d’Israele, e sulla storia della madre di Miral, prima bistrattata, poi alcolista e suicida. È anche la storia di Hani Hosseini, agiata araba maronita, finanziatrice e direttrice di una scuola-orfanatrofio per bambini arabi abbandonati, tra cui Miral-Rula. Finisce con la giovane protagonista spedita in Italia verso un futuro radioso di giornalista, e con un accorato appello per la pace in Medio Oriente. Peccato che non si vede mai che la scuola salvifica è cristiana.
ritica tipica di Tinseltown (Lustrinilandia), il più calzante dei nomignoli di Los Angeles, dopo il meno noto Hollyweird. La star rimbalza da una festa all’altra, da una donna all’altra: laggiù, se sei divo, orde di donne stupende t’inseguono «con il materasso sulla schiena» come si dice. Il divo non ne tralascia nessuna, né disdegna di rimorchiarle dove capita, ai semafori, da auto a auto, come usa in un non-luogo (somewhere, appunto) dove chi va a piedi è sospetto. Sono incontri fugaci, futili; tutti sono sradicati, tutti vengono da qualche altra parte; i non famosi sono in cerca dell’occasione d’oro, dell’incontro che li lancerà nel pantheon degli idoli adorati e strapagati. Cleo vede poco suo padre, sempre in giro per lavoro. Durante un weekend estivo, padre e figlia scorazzano nella nera Ferrari di lui, auto che segnala il rango del pilota.Tra gite, videogiochi e una lezione di pattinaggio artistico (papà nemmeno sapeva che la figlia ci si dedica da tre anni) telefona l’ex moglie: parte per un periodo indeterminato da sola («Devo pensare un po’ a me»). Johnny dovrà occuparsi di Cleo nelle settimane che restano
prima del mese di campeggio estivo, quelle colonie di lusso dove gli agiati americani parcheggiano figli ingombranti durante le vacanze. All’inizio è smarrito; ma senza accorgersene, tra un viaggio in Italia insieme ai Telegatti e le uova alla Benedict che prepara la ragazzina con premura materna, la sua vita prende forma, calore famigliare e senso. Alla fine, quando il taxi che porterà Cleo al campeggio sparisce e lui rientra solo all’hotel, è colto da una violenta depressione, nota agli indigeni come The L.A. Dips. È il più perfetto, sottile ritratto deadpan della vita in un somewhere infernale truccato da paradiso.
Miral, quarto film di Julian Schnabel, artista di fama internazionale, è tratto dal romanzo autobiografico di Rula Jebreal, che firma anche la sceneggiatura. Da Basquiat a Prima che sia notte a Lo scafandro e la farfalla, il pittore-regista ha fatto film sempre più belli e sorprendenti. Con questo billet-doux offerto alla nuova compagna Jebreal, artisticamente segna il passo. È il racconto didascalico della formazione di
La pecora nera, opera prima di Ascanio Celestini, ha suscitato entusiasmi e qualche mugugno. Però si festeggia l’arrivo di un nuovo sguardo d’autore sulla scena italiana.Tratto da un testo teatrale, il film racconta i matti e un manicomio, la suora buona che lo dirige, e la vita di un ragazzino che cresce tra disagi e miseria. La nonna lo protegge, regalando uova fresche alla maestra che vorrebbe bocciarlo, e alla suora che ha in cura sua figlia, la madre del ragazzo, malata di mente. Le forze dell’opera sono una voce originale (anche si sente troppo il monologo filmato) e un ottimo cast, ben diret-
Prima, provvisoria classifica dei film proiettati al Festival diretto da Marco Mueller, in scadenza di mandato, di cui s’invoca la riconferma data l’ottima edizione di quest’anno. In pole position “Somewhere” di Sofia Coppola e “Miral” di Schnabel. Da non perdere “Potiche” di Ozon
to; se ci fosse una storia da seguire, avrebbe annoiato meno. La lodata lingua incantatoria fuori campo, alla lunga può irritare. Alcuni critici lo amano senza riserve; altri aspettano l’opera seconda, nella speranza di una trama che invogli a vedere come va a finire.
La passione di Carlo Mazzacurati, secondo film italiano in concorso, va lodato per il solo fatto di essere una commedia, rara avis in un festival di cinema. Silvio Orlando è un regista disoccupato con il blocco dello scrittore. Il produttore minaccia di tagliargli l’assegno mensile se non scrive subito un copione, quando deve correre in Toscana perché il Comune minaccia il sequestro della casa di campagna per la scoperta di un affresco antico, trovato durante la riparazione di un guasto. La Pasqua è vicina, e il sindaco (Stefania Sandrelli) gli chiede di dirigere la tradizionale rappresentazione paesana della Via Crucis; se rifiuta, denuncerà il reperto prezioso alle Belle Arti, e addio casa e redditizio affitto agli stranieri. Il film è ben costruito e girato; si ride, specie all’inizio, gli attori sono ben diretti, ma la storia si perde nel finale. Sono ottimi il metereologo tv gigione di Corrado Guzzanti e il ladro riformato dall’amore per il palcoscenico e il Vangelo (tutti e due scoperti in carcere) di Giuseppe Battiston. L’amore di tanti registi per Silvio Orlando è un mistero. Più che un attore è una maschera da commedia dell’arte (come Totò, Giulietta Masina e Monica Vitti) con la stessa faccia dolente sia nelle commedie sia in drammi come Il papà di Giovanna. Funziona bene solo nei film di Nanni Moretti, chissà perché. Potiche di François Ozon è la seconda commedia del concorso principale, ragion di più per invocare la riconferma di Mueller. Spassosissimo adattamento di un testo teatrale, è ambientato negli anni caldi delle occupazioni delle fabbriche. Catherine Deneuve è Suzanne, la potiche del titolo: sta per una moglietrofeo, che fa bella figura e poco più. Poi il marito è sequestrato dagli operai della sua fabbrica in sciopero perché rifiuta sdegnosamente la trattativa, ha un coccolone dopo il rilascio e viene mandato via in convalescenza. Suzanne lo sostituisce e sorprende tutti con la sua attitudine al comando. Come nelle migliori pochade, segue una brillante girandola di tradimenti ed equivoci a sfondo sessuale. Ozon guarda con affettuosa ironia la lotta di classe, la guerra tra i sessi e la rivolta femminile, riproposte con sapienza e tempi comici perfetti. Sonoramente divertente dall’inizio alla fine. Da non perdere.
Avventura
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ra le tante inutili polemiche letterarie che ogni estate nascono per riempire le pagine cosiddette culturali dei quotidiani altrimenti desolatamente vuote, c’è stata quella sulla carenza di grandi romanzi italiani e/o sul fatto che autori significativi vengono presto dimenticati e/o sui cosiddetti over 40 non adeguatamente valorizzati. Polemiche oziose che lasciano il tempo che trovano e che non vanno al sodo della questione. E cioè, sono le cricche dei critici che lanciano e sostengono, oppure ignorano e non valorizzano questa o quell’opera, ma per motivi che non riguardano quasi mai la sua qualità letteraria, ma ben altri paramenti... E ciò vale per gli autori trentenni come per gli autori ottantenni. Ad esempio, chi conosce Guglielmo Milani da Pavia, e quale posto occupa nelle patrie lettere? Chi lo sa alzi la mano. Nessuno la può alzare perché nessuno conosce Guglielmo Milani, ma parecchi invece conoscono Mino Milani prolificissimo scrittore per ragazzi, collaboratore del Corriere dei Piccoli e della Domenica del Corriere, ma anche direttore della Biblioteca Civica di Pavia e (anche se per breve tempo) del quotidiano La provincia pavese, autore di decine e decine di romanzi per la gioventù, ma anche per adulti, di opere storiche, di saggi, di sceneggiature per fumetti eccetera, eccetera. Frequentatore di tutte le possibili sfaccettature dei generi popolari, dall’avventura al western, dal romanzo d’amore alla storia di guerra, dalla ricostruzione storica al fantastico, ma anche alla fantascienza (perlomeno quella a fumetti con l’indimenticabile I cinque della Selena, disegnato da Dino Battaglia per il Corrierino). Ma di lui, come di molti altri, la critica cosiddetta ufficiale poco s’interessa poiché sono «autori di serie C».
MobyDICK
ai confini della realtà
F
È la definizione che lo stesso Milani dà di se stesso in un volumetto autobiografico (L’autore si racconta, Franco Angeli, 110 pagine, 14,00 euro) dedicato a questa parte della sua attività letteraria, e che concorre proprio in questi giorni alla terza edizione del Premio Salgari a Negrar (Verona) dedicato ai libri d’avventura, poi ampliato anche alle altre e alla sua vita (ha oggi 82 anni); come Piccolo destino (Mursia, 186 pagine, 14,00 euro), entrambi non solo una miniera d’informazioni, di personaggi e di aneddoti, ma anche una possibilità di entrare nel cantiere di lavoro dello scrittore e soprattutto nel suo universo mentale: perché ha scritto di certi argomenti e in che modo intendeva i «generi» di cui si occupava. Molto ironicamente Milani, parlando dell’inizio della sua carriera di scrittore per ragazzi e constatando che, al di là del successo di vendite, era regolarmente ignorato sul piano critico, si rese conto, come detto, «d’essermi lette-
La buona battaglia del soldato Mino di Gianfranco de Turris rariamente iscritto alla serie C». Ma Alessandra Avanzini e Luciana Bellatalla, curatrici della collana «Linee» della Franco Angeli, ideata appositamente per dar voce a questa categoria di narratori, presentando il testo di Milani chiosano: «Altro che “autori di serie C”! Per essere scrittori per bambini e per ragazzi bisogna essere scrittori di serie A, scrittori con una marcia in più. Questi scrittori, infatti, devono saper costruire un mondo nel quale il
non fa altro che difendere a spada tratta il senso del proprio lavoro in un mondo che pian piano lo sta dimenticando (è la verità, nonostante i suoi personali successi). E questo è il lato dal mio punto di vista più importante dei suoi due libri, al di là delle tante persone e situazioni che descrive (Mosca, la redazione del Corriere dei Piccoli, i disegnatori del settimanale, la sua trasformazione in mano ai manager che volevano «adeguarlo ai tem-
Come uno dei suoi eroi Tommy River, Milani, prolificissimo scrittore per ragazzi, che ha dedicato tutta la vita alla sua vocazione, difende il suo operato, da troppi considerato “di serie C”. In un’autobiografia che concorre al Premio Salgari. Autore da cui tutto è cominciato… bambino/ragazzo possa “perdersi senza perdersi”, usandolo per dar vita a una piacevole e protetta versione personale e originale. D’altra parte non è forse questo lo scopo di tutta la buona letteratura?». Parole sacrosante in un mondo, quello della letteratura per ragazzi, che a quanto pare resta valido sino ai 12-14 anni allorché i nostri pargoli, crescendo, scoprono i videogiochi, il web, le chat, facebook e compagnia bella, abbandonando la lettura come dimostrano da anni le statistiche che regolarmente si fanno. Ora, Milani nella sue «autobiografie»
pi», trasformandolo in quell’ibrido - anche linguistico - che fu Corrier Boy, la sua chiusura; ma anche la collaborazione alla Domenica del Corriere con la gestione della famosa rubrica «La realtà romanzesca», ecc. ecc.). Disgustato da ragazzino dai libri edificanti che gli lasciavano «un senso di nausea», il giovane Guglielmo già Mino trovò la sua «salvezza» prima in Salgari poi nella «Romantica mondiale» di Sonzogno e nella Morte di Arturo di Mallory: amore, morte, audacia, magia, viltà, coraggio, tradimento, generosità, vendetta, perdono. La strada era segnata. Romanzo di avventura e
quindi d’evasione: «Da un mondo come il nostro, dove caparbiamente si cerca di rendere tutto prevedibile (…) l’unica via d’uscita è il libro, e più è d’avventura, meglio te ne vai». Ma si sa l’obiezione: «Da dove vuoi evadere? La tua vita, la tua attualità, la tua quotidianità sono qui, e te la devi vedere con loro, caro mio». Non si può sfuggire ai «temi forti». E quindi: «Evadere? Pessima idea». Ma dice Milani, e noi con lui avendolo scritto non si sa più quante volte: «Disastrosa la prospettiva di ritrovare a sera, sulle pagine del libro, il richiamo ai problemi che mi hanno assillato durante il giorno, e che saranno gli stessi domani (…) Dico solo che, se domani li dovrò affrontare, non ho voglia di raccontarli, e meno che mai di farlo secondo regole non scritte, ma politicamente corrette, sussurrate suadevolmente o raccomandate con indice severo».
Ahi, ahi, ahi, Mino Milani non si rende conto di quel che dice? Non sa che l’Ordine dei Giornalisti o il Ministero delle Pari opportunità hanno già annotato il suo nome nella lista nera dei reprobi? Non sa che passerà dalla serie C alla serie Z? Per nostra fortuna restano i suoi moltissimi romanzi per ragazzi e adulti che nessuna commissione potrà emendare come leggiamo in 1984, o come invece si fa con molte favole risciacquate nella melassa buonista. Ci resta così per fortuna la saga di Tommy River ispirato da Ombre rosse, uscita man mano sul Corrierino e poi in volume negli anni Sessanta (gli otto romanzi sono stati poi riuniti da Mursia in due tomi nel 1976): Tommy, guarda un po’, è nientemeno che un sudista ferito a Gettysburg che fa del coraggio, della forza morale, del rispetto, del senso della giustizia e del dovere la sua livrea, come ogni vero eroe che si rispetti. Egli combatterà la sua «buona battaglia» anche se non «vince» sempre. La sua vera sconfitta gli giunge solo dalla «realtà industriale» che lo scaccia dalle sue terre, una realtà «nella quale Tommy non può e soprattutto non vuole vivere». Tommy, come altri protagonisti delle storie di Milani - Sir Crispino, o Efrem, il ragazzino soldato di ventura, o Martin Cooper (1968), il «fantarcheologo» precursore, se così si può dire, del Martin Mystére di Alfredo Castelli (1982) - sono tutti personaggi della «biasimata evasione» che ci raccontano «un’altra vita, improbabile e tuttavia parallela a quella reale». Questo è Mino Milani che ha anche il coraggio politicamente scorretto di parafrasare a modo suo il famigerato motto di Brecht, così: «Se sono beati i popoli cui non occorre un eroe, sono sventurati quelli che all’occorrenza non ne trovano»! Onore delle armi, dunque, a Mino Milani che ha ormai scritto tutto quel che doveva scrivere seguendo sino in fondo la propria vocazione.