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mobydick
SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
Breve guida alle letture dei prossimi mesi
AUTUNNO ROSA di Pier Mario Fasanotti sono le donne a scrivere di se stesse o sono gli uomini che spesso parlaemotiva del genere femminile è canovaccio anche di altri romanzi, che compaiono È no di loro. Risultato: le novità editoriali dell’autunno sono impronin altri paesi) e madre di due figli che decide di partecipare a un’incursione in tate sul lato femminile dell’esistenza umana. Un caso, forse. Cisgiordania, spinta da un presentimento. Non vuole essere svegliata nel il lato Ma non ci crediamo: sono le donne che da millenni hancuore della notte da un ufficialino che le porta la notizia di una difemminile no la straordinaria capacità affabulatoria e oggi, padrone del sgrazia. È lei ad andare incontro alla storia. In prima persona. a dominare. O sono lessico narrativo e con una ragnatela editoriale finalmenLe vicende politiche israeliane fanno in un certo senso da te a loro favorevole, non fanno che riprendere la pesfondo immaginativo, essendo, a quanto si legge nei le donne a scrivere di se stesse culiarità della loro anima istintivamente narragiornali, una donna (Tzpi Livni, attuale ministro o sono gli uomini a ispirarsi a loro. Lo dicono tiva. C’è un uomo che è anche tra i massimi scritdegli Esteri) a sostituire presto il deludente pregli autori e i titoli in uscita. tori di Israele, David Grossman, che adirittura addita mier Ehud Olmert, impantanato in storie di corruzioni la presenza attiva delle donne quale via di salvezza. Per il e così poco dotato di nerbo strategico. Sempre la MondadoCon alcune illustri eccezioni: suo paese, che è in uno stato di perenne guerra strisciante, ma ri - ma qui il livello letterario si abbassa un poco - lancerà PlatiAuster, Le Carré, forse anche per il mondo, se le metafore, come crediamo, hanno un’otnum: vicenda intrecciata di tre donne molto diverse. Zafòn tima ragione di esistere. In ottobre Mondadori manda in libreria il suo Una continua a pagina 2 donna in fuga. Si staglia la figura di Ora, donna separata (la solitudine fisica ed
O
9 771827 881004
80913
ISSN 1827-8817
Parola chiave Paura di Gennaro Malgieri Le trasparenze di Garbo esteta del pop di Stefano Bianchi
NELLE PAGINE DI POESIA
Né Oriente, né Occidente La solitudine di Hikmeth di Filippo La Porta
Il fascino discreto dell’inettitudine di Filippo Maria Battaglia Quel sociopatico di Hancock di Anselma Dell’Olio
La bohème reticente di H.C. Andersen di Marco Vallora
autunno
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segue dalla prima Trama e ritmo, inevitabilmente leggero e brillante, che assomigliano assai alla letteratura femminile di questi orribili anni Ottanta, in stile Jackie Collins. L’uomo del romanzo, un russo ricchissimo, ne esce male anteponendo a tutto la sua scalata sociale. Torniamo in alto, come qualità. E segnaliamo un intensissimo romanzo che sarà edito dalla Elliot - piccola casa editrice che fa da rabdomante tra i gioielli della letteratura anglosassone - intitolato Tra di noi, di Shelley Klein, scozzese. Alla Fiera del Libro di Londra riscosse molto interesse e scatenò quella bella cosa che è il passaparola, meccanismo distributivo spesso più potente delle
astuzie del marketing. Anche in questo caso l’uomo appare debole e trascinato dagli eventi, mentre la donna arretra coraggiosamente da prospettive matrimoniali che intuisce come fallimentari. «I vetri femminili - dice lei - non sono semplici incubatrici». Lei non è aliena all’attrazione per lo stesso suo sesso. E si chiede: «Ma cos’hanno alcune donne che ci colpisce? Com’è possibile che nel momento stesso in cui le conosci muori già dalla voglia di rivederle?». Un romanzo a tinte forti, sincero, capace di alludere con parole nette e taglienti alle fantasie erotiche con infinite variabili. Anche ciò che stiamo per annotare probabilmente non è il frutto del caso. La Lain editore (gruppo Fazi) scommette sui vampiri. Non lo fa in chiave grottesca e meramente sanguinolenta, bensì intrecciando denti ad amore. Così Scott Westerfeld in Vampirus, ma soprattutto la bestellerista Stephanie Meyer in Eclipse. Ipotesi: non è che l’amore per un uomo abbia deluso o per banalità del soggetto o per debolezza emotiva e caratteriale dello stesso? Come dire: va bene un uomo, ma che sia speciale, anzi fantasiosamente specialissimo.
Occupandoci delle narratrici italiane, molto atteso è il romanzo di Romana Petri che, per vicende culturali e anche personali, ha ormai una doppia vita: italiana e portoghese. Le edizioni Cavallo di Ferro pubblicheranno la sua saga lusitana intitolata Ovunque io sia. Che parte dagli anni Quaranta,
MOBY DICK e di cronach
di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa a cura di Gloria Piccioni
quindi attraversa il periodo oppressivo della chiusura dittatoriale, e finisce ai giorni nostri. A vincere è, anche in questo caso, una donna, anzi la «sua maternità senza confini», unitamente al lascito morale che ogni genitrice affida ai figli. Romanzo fiume che ha come sfondo un Portogallo impegnato a scrollarsi di dosso l’arretratezza sia economica che social-culturale. Le generazioni si accavallano e si succedono, ma tutte mostreranno gli indelebili segni del marchio femminile: il più saldo e capace di memoria. La Rizzoli non sa ancora quando far uscire il nuovo romanzo di Melania Mazzucco: La lunga attesa dell’angelo, storia di Jacopo Tintoretto. In questi giorni al cinema circola Un giorno perfetto, tratto da un suo roman-
uno scrittore di oggi possa avere tra le mani. Bisogna saperlo raccontare, e la Grandes lo ha fatto». È sempre la Guanda a proporre storie al femminile. Con Se stasera siamo qui di Catherine Dunne, dublinese, abile a raccontare la vita all’interno delle pareti domestiche. Quattro amiche del cuore festeggiano un quarto di secolo di intimità condivise. Parlano dei mariti, dei tradimenti, delle insoddisfazioni. Non un semplice resoconto anti-maschio, semmai una spietata analisi familiare e sociale che avrà ripercussioni in ognuna delle protagoniste. Ci lascia un po’ perplessi - stando alle impressioni iniziali l’annuncio del diario intimo di Chrisaine Angot, Rendez-vous (sempre Guanda). Il fatto di leggere che «una donna racconta se
rosa
padre che, preoccupato dell’«onore» della famiglia, fa rinchiudere la giovane scandalosamente religiosa. Ma gli uomini sono spariti? No. Semmai sono, almeno in autunno, in seconda fila o impegnati in altri generi. Sarebbe comunque un delitto ignorare uno dei più bravi scrittori odierni, ossia l’americano Paul Auster. Con Man in the dark (Einaudi) l’autore affronta i fantasmi della guerra in Iraq attraverso gli occhi di un caporale. Auster, tenutosi per fortuna lontano dalla tentazione di ritornare sull’11 settembre, impasta storie parallele sullo sfondo di quella che lui chiama la fragilità della democrazia americana: la guerra civile ma anche il «che sarebbe successo se» Al Gore avesse vinto le elezioni. Sarà editorialmente
Paul Auster, David Grossman, Romana Petri, Almudena Grandes, John Le Carré, Melania Mazzucco. In copertina un disegno di Michelangelo Pace
zo. Non è azzardato, visto il tipo di scrittura della Mazzucco, ipotizzare che qualche produttore abbia già messo le mani sopra la sua nuova opera. Oggi il cinema è svelto ad accaparrarsi storie, opzionando romanzi prima ancora della loro uscita in libreria. Della Spagna così schizofrenicamente moderna si occupa un’autrice valentissima come Almudena Grandes con Cuore di ghiaccio (Guanda). Si parte, anche qui, dal torbido periodo della dittatura (del generalissimo Franco) che ha facilitato la straordinaria fortuna economica di un uomo. E questi prova una formidabile attrazione per una donna incontrata a un funerale (siamo nel 2005). Ma le rispettive storie familiari renderanno problematica l’intesa tra i due. Il romanzo è stato per mesi e mesi al primo posto delle classifiche iberiche. Il giornale ABC lo ha recensito in modo entusiastico: «Questo libro parte dal materiale più prodigioso che
Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento) E.TI.S. 2000 VIII strada Zona industriale • Catania
stessa attraverso le relazioni, complesse e sfaccettate, con gli uomini… incontri, appuntamenti…» ci porta a dire, sia pure affrettatamente, che non ne possiamo più dell’outing sessual-amoroso delle donne, così in voga oggi. Il corpo, il dolore, il sesso, la fragilità logorroica, autoreferentissima sia pur dolentissima: quante ne abbiamo lette di queste pagine! Possiamo sbagliarci, anzi ce lo auguriamo, però…
Anche il classico romanzo storico vira al femminile. La narratrice corsa Marie Ferranti, dopo il successo della Principessa di Mantova, si occupa (editore Il Corbaccio) di un affascinante figura quale Lucia di Siracusa, donna di passioni e di grande spiritualità. Bella, nobile, e poi martire, Lucia rifiuta il matrimonio (siamo nel 300 d.C.) attratta dal cristianesimo ai tempi di Diocleziano, sfidando sia i tabù della superstizione sia il
sicura (la Mondadori si è sbilanciata nella stampa di centinaia di migliaia di copie: e fa bene) la seconda prova di Carlo Luiz Zafòn che con il fortunatissimo L’ombra del vento si è piazzato nella non folta schiera degli scrittori longseller. Siamo nella Barcellona antecedente i tormenti della sanguinosa sfida militare tra rossi e neri. Suspense e «grandi speranze» (in senso dickensiano) per un giovane che desidera ardentemente di fare lo scrittore. Altro best seller sarà senza dubbio Ricercato speciale di John Le Carré, maestro dell’intrigo politico. Si muove nell’epicentro dell’attualità: flussi migratori, discutibili capitali russi, conflitto in Cecenia. Quanto alle biografie, sarà curioso leggere il ritratto che Marco Ferrante farà di Sergio Marchionne, il timoniere della Fiat. L’opera non poteva che ispirarsi alla «divisa» del manager. S’intitola infatti Il pullover blu. E sarà ugualmente interessante allontanarci dalla sgangherata caricatura che il cinema, con Toni Servillo ormai onnipresente, ha fatto di Giulio Andreotti. A delineare in modo obiettivo e documentato il profilo dell’anziano democristiano ci pensa il notista politico Massimo Franco (Andreotti, Mondadori). Quali sono i segreti dell’archivio di quello che alcuni si ostinano a chiamare Belzebù?
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MobyDICK
parola chiave
assedio è la condizione della nostra quotidianità. Nessuno può dire da che cosa è assediato, ma avverte che i confini della libertà si vanno restringendo ogni giorno di più. Insomma: abbiamo paura. È sempre più difficile individuarne i motivi, le cause, le ragioni, al punto che spesso non si sa di che cosa si ha paura. E già questo contribuisce ad ammettere la sconfitta. Una sconfitta dell’anima e del pensiero che, a dirla tutta e senza ipocrisia, è il dato più evidente e perfino roboante della modernità. Infatti, di questi tempi assistiamo a tramonti, a storie che finiscono, a legami che si sciolgono, a incertezze che ingigantiscono, a tormenti che non danno scampo. Siamo pervasi da una sottile angoscia che ci tiene compagnia tutt’altro che piacevolmente. Eppure non siamo capaci di rinunciare a nulla di ciò che preme alla porta delle nostre esistenze in maniera petulante, ossessiva, volgare, violenta.
L’
Si fa presto a dire che non bisogna lasciarsi vincere dalla paura. La paura ha già vinto. Salendo su un aereo, e non perché si tema che cada. Inoltrandoci nelle giungle che chiamiamo città e non soltanto per il timore di essere messi sotto da un pirata della strada o aggrediti da un malvivente. Rientrando tra le pareti domestiche dove sempre più spesso in agguato c’è l’indifferenza come killer nascosto o subdolamente gradevole. Ingannandoci con lo smodato possesso della materialità delle cose (per lo più inutili) dopo che abbiamo scacciato l’essere dal nostro personalissimo orizzonte. Porgendo la mano al nemico ritenuto amico.Tuffandoci nella crisi della civiltà immaginando che dall’appagamento di tutti i desideri possa derivare anche il soddisfacimento spirituale. Abbiamo paura di tutto questo e di molto altro ancora perché non sappiamo più dare un senso alle cose e nella nostra immaginazione prendono consistenza le forme più spaventose della dissoluzione del corpo e dell’anima. Noi non possiamo non avere paura nel mondo in cui ci è toccato di vivere. Così come ne avevano paura Bruegel il Vecchio quando dipingeva il Trionfo della morte (nella foto, ndr) o Hyeronimus Bosch L’Inferno o Il mondo dopo il diluvio: suggestioni demoniache o visioni umanissime dell’apparizione del Male? Tra le primitive manifestazioni dei meccani di cui l’uomo s’è servito ve ne sono stati di divoranti messi in opera per dare l’assalto all’inconoscibile e l’avventura si è sempre, in ogni tempo, trasformata in una straordinaria opera d’arte dell’ingegno e del coraggio: non poteva dare luogo a paure se la sfida era commisurata all’ambizione di superare se stessi avendo rispetto della natura, insomma affermarsi senza distruggere e dunque temere la rivolta dell’inconoscibile, anche se spesso finiva in tragedia. Oggi non è più così. Non abbiamo dimenticato le sofferenze del corpo e il suo declino tra le paure, ma queste sono «naturali», non indotte, inventate, costruite. Le amplifichiamo perché riteniamo di non doverci staccare dalla vita, perché la
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PAURA È il mostro che vive con noi, dentro di noi. Ma non sappiamo individuarne le cause profonde, spesso svincolate dai meri dati di cronaca. Perché dopo aver scacciato l’essere dal nostro orizzonte non riusciamo più a dare un senso alle cose
Assedio alla libertà di Gennaro Malgieri
Praticare l’edonismo come sublimazione laica di una sacralità perduta non è una soluzione. Forse la fede può alleviare il senso di precarietà che ci opprime. Ma impauriti dal non esserci siamo sempre meno disposti a liberarci dei fardelli paurosi in nome di qualcosa di trascendentale morte sarebbe il male assoluto, perché non riconosciamo purezza in un aldilà che ci è stato descritto, ma che nessuno ci ha mai fatto vedere. Paura del non-esserci, insomma. È così che esaltiamo il corpo soltanto perché caduco e non espressione di forza e di bellezza.Alla stessa maniera temiamo le forme per il solo fatto che non riusciamo a riprodurle, come è stato nel passato, quando la mente e lo spirito parlavano lo stesso linguaggio e leggevano nello stesso firmamento. In un sondaggio Gallup del 1991 è stato rilevato che «non è la vita tout court
che vogliamo, ma una vita che possa essere vissuta in tutta la sua ampiezza e portata. Se non possiamo avere una vita con questa libertà e di questa intensità - e non la possiamo avere se proviamo un dolore continuo e ricorrente - presto molti di noi ne faranno a meno del tutto».
La paura, dunque, è il mostro che convive con noi, dentro di noi. Una parola, tra le tante possibili lo riassume e lo descrive: guerra. E anche questa è una finzione con cui giustificare la paura per le ragioni ap-
pena esposte. In realtà la sola paura che riflette tutte le manifestazioni di terrore che ci stringono da ogni parte è il sentimento della nullità che pervade ognuno di noi, ma che nessuno ammette. Il cammino è stato lungo, ma l’approdo è un sentiero interrotto, come constatiamo anche a una superficiale osservazione della nostra condizione. Noi stiamo al di qua di questo sentiero e la paura per ciò che dovrebbe o potrebbe esserci al di là ci rende aggressivi, scontenti, amareggiati, doloranti. Ma anche adoratori di effimeri monili che dovrebbero darci la felicità: paura è perdere l’inessenziale patrimonio sotto un bombardamento, in un attacco terroristico, dopo le devastazioni climatiche, al culmine di una pandemia, perfino alla fine di un amore. Fame e sesso segnano i confini di ciò che di più prezioso si può smarrire. Sono i Moloch della Civiltà. O della Civilizzazione, come direbbe Spengler. E a essi sacrifichiamo ogni cosa, ben sapendo che nella tomba non ci porteremo golosi appagamenti, né erotiche attrattive. Ma allora, per non avere paura che cosa bisognerebbe fare? Rinascere, forse? La domanda viene dal deserto che si allunga da questa parte del sentiero interrotto. E, francamente, non mi pare che qualcuno abbia risposto finora, almeno dopo il lacerante grido che squassò la Terra lanciato dal Golgota. Forse lì, in quell’attimo, la paura spaccò le anime e si insinuò tra di esse dopo che un disordine di altra natura e diverse dimensioni aveva cercato, sia pur per poco, di rallegrare l’umanità nascondendola al proprio destino. Prometeo era vivo quando Cristo è morto. Ma entrambi hanno visto la paura in volto e l’hanno vinta accettando la morte non come espiazione, ma come - se è concesso il paradosso - dolore gioioso. La povertà del nostro tempo induce a ritenere che la paura non sarà vinta praticando l’edonismo come sublimazione laica di una sacralità perduta. Abbiamo una sola possibilità: convivere con la paura perché questo è il carattere del nostro tempo, immaginando l’angoscia che ne deriva, come diceva Soren Kierkegaard, quale «vertigine della libertà». Essa, dunque, può essere una forza, ma non per questo possiamo o dobbiamo essere contenti del nostro destino. La radicale soluzione sarebbe quella di rifugiarci in una sorta di privatissimo Eden dove nulla potrebbe scalfirci, ma è pura utopia. Allora che la paura sia con noi e ci accompagni dato che non abbiamo altra possibilità. Forse la fede può alleviare il senso di precarietà che ci opprime. Ma da quanto vediamo in giro c’è sempre meno gente disposta a liberarsi dei fardelli «paurosi» in nome di qualcosa di più essenziale che lo trascende. Insomma, della paura non si può fare a meno. Certo la si può controllare, limitarne l’aggressività, costringerla in un recinto, a patto che si sappia che là il vento della salvezza spira da una parte e che l’occasionalismo cui siamo votati non è eterno. Quanti sono disposti, insomma, a tornare a una sana pratica del viaggio interiore dove non s’incontrano incubi?
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cd
musica
Le trasparenze di Garbo
esteta del pop di Stefano Bianchi
a voce è quella del Garbo degli anni d’oro. Anzi, più pastosa. Affamata, azzardo, di nicotina e di suoni bohémiens. La ascolto, mentre scivola sulle 12 canzoni di Come il vetro, e mi torna in mente Renato Abate, classe 1958, lombardo, che un bel dì volle chiamarsi Garbo appuntandosi il dandysmo all’occhiello anziché il rock urlato e sudato. Nell’81 debutta con A Berlino…Va bene traghettando l’italico cantautorato nella Mitteleuropa e fra le sonorità anglosassoni. Si veste da new waver, ispirandosi per lo più al David Bowie elettronico di Heroes, ai Roxy Music e ai Japan. Ma non è solo, Garbo. Altri maudits condividono quel pop raffinato che si stempera nell’enfasi decadente: Faust’O con J’accuse…amore mio, Gino D’Eliso con Cattivi pensieri. Trascorrono gli anni e Garbo paga dazio: troppo intellettuale per l’ottusità di certi discografici. Non s’arrende, però. Meglio «di nicchia», con la fierezza dell’outsider, che svenduto al ritornello mordi-e-fuggi. Inanella nuove gemme (Cosa rimane, Melodramma, Grandi giorni) e nel ’97, col contributo di romanzieri pulp quali Tiziano Scarpa, Niccolò Ammaniti, Aldo Nove e Isabella Santacroce, incornicia il progetto Up The Line (The Virtual Sound, Word And Image) teorizzando il Nevroromanticismo. Nel 2006, tutto finalmente torna. Merito di musicisti dell’underground come Ottodix, Madaski, Soerba, Krisma e Delta V che gli rendono omaggio con la raccolta Congarbo, fra una rivisitazione spinta di Quanti anni hai? e una sublimazione di Radioclima. Garbo è vivo e
L
lotta insieme a noi. Proprio come adesso, che Come il vetro chiude la trilogia «cromatica» iniziata con Blu (2002) e proseguita con Gialloelettrico (2005). Dal colore delle canzoni della notte al bagliore nervoso di quelle del giorno, fino al vetro attraverso il quale, spiega il cantautore, «si possono vedere tutti i colori, ci si può riflettere. Il vetro può essere infranto e nel vetro possiamo riconoscere la nostra fragilità». E allora, ascolto la sua voce (che si fa affiancare da quelle di Elisabetta Fadini in Voglio tutto e di Angela Fumagalli in Chi sei) e la riconoscerei fra mille, mentre insegue le impennate rock di Come il vetro facendola somigliare a Boys Keep Swinging di Bowie e si affida all’orecchiabilità còlta di Voglio morire giovane. Garbo, più che mai esteta del pop, sussurra e fa il sensuale (come David Sylvian; come Bryan Ferry) nell’elettronica soft di Lei e fra le note di un pianoforte jazz che in Più avanti insegue folate techno. Fa rap morbido, addirittura (Voglio tutto); né disdegna nostalgie anni Ottanta, stile Japan e Depeche Mode (Ciao e No). Ribadisce, traccia dopo traccia, il suo aplomb compositivo e quel talento che gli fa riempire d’eleganza ogni canzone.Ascoltare, per credere, la sublime rapidità di La mia finestra. E anche quando rilegge in chiave metal Baby I Love You di Phil Spector (portata al successo nel ’64 dalle Ronettes e ripresa nell’80 dai punkettari Ramones), lo fa con invidiabile stile. Come ai tempi d’oro. Garbo, Come il vetro, Discipline/Mescal/Venus, 15,90 euro
in libreria
mondo
SEMPRE SULL’ONDA... PAROLA DI BONO
riviste
GOD SAVE THE QUEEN
IL BECK DELLE RISAIE
L’
ampia parabola di un gruppo che, da qualunque parte la si voglia guardare, è da molti anni tra le più grandi rock and roll band al mondo. Il libro sugli U2 Parola di Bono Vox (Aliberti editore), ne segue i passi fin dai primi vagiti, quando nel 1975 i quattro adolescenti della Mount Temple School di Dublino si incontrarono in una cucina per discutere della fondazione di una band.
È
prevista per il 19 settembre l’uscita di The Cosmos Rocks, il nuovo disco di inediti firmati dai leggendari Queen con l’aggiunta di Paul Rodgers. Preceduto dal primo singolo Say It’s Not True, pubblicato in download gratuito il 1 dicembre 2007, e dedicato alla memoria di Freddie Mercury, The Cosmos Rocks si avvale della collaborazione di Taylor
«T
utti i miei brani che possono sembrare provocatori in realtà non vogliono esserlo. Dico semplicemente una cosa che sento dire, mi è simpatica perché te la senti dire tutti i giorni. Ho detto: “Voglio scrivere un brano che inizia così: c’è crisi”». MusiKàl, rivista specializzata di kalporz.com raccoglie una frizzante intervista a Bugo, cantautore italiano ancora misconosciuto
Dagli esordi nel ’75 ai grandi successi di oggi. Trent’anni di U2 in un libro di Irvine McKenzie
Esce il 19 settembre ”The Cosmos Rocks”, disco di inediti della mitica band inglese
In un’intervista a MusiKàl, pensieri e parole di Bugo, artista irriverente dai testi fantasiosi
Solo la batteria occupava quasi tutto lo spazio, il chitarrista suonava uno strumento che si era costruito lui, il bassista sapeva a stento articolare qualche nota e nessuno voleva cantare. Trent’anni più tardi, Bono, The Edge, Adam Clayton e Larry Mullen jr sono ancora insieme. Nel libro, il giornalista free lance Irvine McKenzie ripercorre una carriera brillante fatta di ricordi, rimorsi, aneddoti, battute, rivelazioni, retroscena sulla loro storia. E poi, gli interventi sui temi d’attualità più delicati: la cancellazione del debito pubblico per i paesi poveri, le guerre in Bosnia e in Medio Oriente, la marcia contro la povertà.
Hawkins dei Foo Fighters. «I nostri maestri sono i Beatles, Jimi Hendrix, il blues e il soul», fanno sapere Brian May e soci a chi chiede che tipo di sonorità possiederà l’album. Tredici anni dopo la scomparsa del loro frontman, i Queen sembrano quindi ripiegati nella memoria di un sound che gli ha consegnato strepitosi successi negli anni Ottanta. La scelta di Paul Rodgers rappresenta quindi una traccia evocativa che lega a doppio filo l’ex cantante dei Free a Freddie, che ne apprezzava le doti canore e interpretative. Comunque vada, sarà un successo.
nel mercato mainstream, capace di scrivere testi di palpabile ironia e dagli arrangiamenti fantasiosi. Già ribattezzato il Beck delle risaie, per via delle origini novaresi, Cristian Bugatti in arte Bugo si è guadagnato le attenzioni di una nicchia di pubblico che ammira molto le sue performance eccentriche e le modalità canore dissonanti. Sonorità rock, folk e alternative condensano testi paradossali che si attardano sulla ricerca del gel smarrito e del cellulare scarico. Parodico e scanzonato, ma solo per scelta, Bugo è un menestrello dall’inesausta vena goliardica. Musicista completo, in Italia non avrà fortuna.
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zapping
CARLÀ ALLA RISCOSSA con McCartney e i Metallica di Bruno Giurato ue barbara, que afamada, que brutal, è l’espressione tutta elogiativa che in Messico esprime ammirazione per la rapacità delle donne fatali. La signora Carla Bruni come cantante proprio non funziona (il suo ultimo disco è epocale sì, ma soltanto come flop, pare che finora abbia venduto pochissimo) ma come donna fatale funziona benissimo e, afamada e brutal come si conviene, prepara il riscatto partecipando a una trasmissione televisiva della Bbc. Il 16 settembre la vedremo a Later... with Jools Holland. La nota trasmissione musicale inglese va in onda in tarda serata e inizia con Holland al piano e gli ospiti che si uniscono a lui in una jam session. Carla verrà intervistata, poi canterà tre canzoni del disco Comme si de rien n’etait. I compagni di trasmissione (e di duetti) della Bruni saranno Sir Paul McCartney e (udite udite) i Metallica, in passerella per il lancio del loro attesissimo disco Death magnetic. Abbinamento geniale per tutti e tre i componenti. McCartney con la sua aria da notaio in pensione si gioverà della presenza thrilling dei Metallica e di quella misterico-misteriosa della Bruni. I Metallica, musicisti hard rock eccelsi ma dai modi leggermente grezzi, godranno dell’appeal mediatico degli altri due. E Carlà non potrà non essere felice di apparire in video in compagnia di musicisti veri. Lei, proprio lei che su disco funziona poco perché ha una voce monotona, ma in televisione funziona benissimo, con quel personale e quella chitarra e quell’abbassare gli occhi. Sarà il traino della serata, scommettiamo. E alla fine la barbara, afamada e brutal darà anche una bella bottarella alle vendite del cd. A quello dei Metallica, naturalmente.
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jazz
rassegne
I venti ascensionali che soffiano a Orvieto di Enrica Rosso risaputo: l’Umbria ha un cuore verde che batte al ritmo del jazz. Non tutti sanno però che Orvieto ha un cuore d’oro. Compie otto anni «Venti ascensionali» la rassegna che trasforma per cinque mesi la suggestiva cittadina in residenza d’arte, cultura e spettacolo. Il progetto di quest’anno, forte delle oltre diecimila presenze della passata edizione, si ispira ad «Altri mondi» e si preannuncia come un viaggio fantastico che spazierà dalla spiritualità, all’esoterismo, al mondo virtuale. Facendo tesoro delle parole di Marcel Proust secondo cui «Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove Terre, ma nell’avere nuovi occhi». Massimo Achilli a capo del Laboratorio Teatro Orvieto (da sempre vicino al sociale con i laboratori stabili dedicati agli anziani e ai diversamente abili) con la complicità del Comune, propone una serie di eventi pregevoli equi e solidali. Da oggi al 19 settembre grande festa di apertura dedicata all’Africa con il concerto degli «Officina Zoe e Baba Sissoko», mostra fotografica, degustazioni biologiche, mercatino, convegni e cinematografia interamente gratuiti. Sabato 20 l’attesissimo Dusk day, l’ormai abituale appuntamento con il Genesis Club «Rex House» Umbria che godrà della presenza eccezionale di Steve Hacken, batterista del gruppo; tutto il ricavato della giornata, che prevede l’asta di 70 foto e mirabilia varie della formazione, verrà devoluto ad Amref. A seguire è tutto un rincorrersi di appuntamenti. Le tradizionali «Letture al Caffè» servite nelle sale del rinomato Caffè Montanucci alla scoperta di Cent’anni di solitudine a opera dei Lettori Portatili diretti da Elisabetta Spallaccia, da quest’anno godibili anche su www.radiorvietoweb.it. Le presentazioni dei libri, spesso coordinate da «Il filo di Eloisa», che sfociano in conversazioni dedicate: si va dall’inconscio ai gemelli quantistici, dal futuro dell’Occidente introdotto da Giacomo Marramao al mondo del web, dalla poesia e stregoneria all’universo dei non vedenti, dal femminismo nei paesi islamici alla medicina naturale. Davvero una ampia scelta di esplorazioni sul posto. Un appuntamento a parte è quello del 21 dicembre, notte più lunga dell’anno: approfittando della spettacolare sonorità del Pozzo di San Patrizio sarà possibile partecipare a una meditazione guidata da Prem Singh alla ricerca del suono originario. Mentre il giorno della memoria verrà onorato con la proiezione del film documentario L’isola delle rose a cui seguirà l’incontro con l’autrice Rebecca Samonà e la madre. Le contaminazioni jazz con i concerti multime-
È
Da “Pugni di Zolfo” di Maurizio Lombardi
diali che vantano la presenza di Danilo Rea e Martux-M servite dal progetto visivo di Massimo Achilli verranno ospitate alla Sala del Carmine, luogo storico del Laboratorio Teatrale che con la direzione di Felizitas M. Scheich e Elisabetta Moretti presenterà Libertà ispirato alla fattoria degli animali di G. Orwell e allestito alla Fattoria Il Sasso. Decisamente interessanti anche le proposte teatrali. Per citarne alcune: Made in Italy, premio scenario 2007; Gomorra dal romanzo di Roberto Saviano; Niente più niente al mondo di Massimo Carlotto: Pugni di zolfo di Maurizio Lombardi; Frida K. di Valeria Moretti. Al Teatro Mancinelli Davide Enia proporrà I capitoli dell’infanzia, bella prova d’attore. Per chiudere in bellezza il 7 febbraio ci sarà la presentazione del dvd dei vent’anni di attività del laboratorio e a seguire il 1° match di improvvisazione teatrale. Che dire? I venti soffiano in poppa e costanti! Info, 0763.341265, macros@alice.it
Improvvisazioni d’autore su Puccini e Scarlatti di Adriano Mazzoletti n questi ultimi mesi due fra i nostri migliori pianisti, Enrico Pieranunzi e Renato Sellani hanno voluto affrontare arie e sonate che non fanno certamente parte del repertorio abituale di un pianista jazz, anche se le grandi arie pucciniane sono state elemento di ispirazione di musicisti jazz, ma anche di compositori di canzoni. Le prime note di Tornerai, famosa canzone scritta negli anni Trenta da Dino Olivieri, di cui gli annali del jazz conservano una preziosa versione di Django Reinhardt e Stèphane Grappelli, sono la fedele riproduzione di quelle che Giacomo Puccini compose per il «Coro a bocca chiusa» di Madame Butterfly. Era il 1904 e in Italia giungevano nuove musiche che si stavano sviluppando negli Stati Uniti d’America e nelle isole caraibiche. Sappiamo quanto Puccini fosse interessato e affascinato da quelle melodie. Già dal 16 al 31 marzo di quello stesso anno i creoli della Louisiana Troupe si erano esibiti a Milano e, negli anni successivi, mentre Puccini si trovava in Toscana seguiva con interesse le esibizioni della Imperial Jazz Band del suo amico pianista Amedeo Escobar,
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Enrico Pieranunzi
una delle tante orchestre nate all’inizio degli anni Venti a imitazione di quelle americane. Sellani, nel 150° anniversario della nascita del Maestro ha voluto affidare a un disco di recente pubblicazione,
il suo amore per quelle immortali melodie. Dopo un Preludio a Puccini di sua composizione affronta con grande sensibilità e raffinatezza Un bel di vedremo, Coro a bocca chiusa, Nessun dorma, Vissi d’Arte, In quelle trine morbide, Mi chiamano Mimi, Che gelida manina, E lucean le stelle, Ch’ella mi creda, Valzer di Musetta, Recondite armonie in cui le sue improvvisazioni si inseriscono in modo oserei dire perfetto nelle strutture armoniche e melodiche delle arie che Puccini creò per Madame Butterfly, Tosca, Turandot, Manon Lescaut, Bohème e Fanciulla del West. Opera assolutamente diversa quella di Enrico Pieranunzi che in questo disco eccezionale esegue prima tredici sonate di Scarlatti (K 3, 9, 18, 51, 69, 159, 208, 239, 260, 377, 492, 531, 545) improvvisando poi su nove. Solo la K 18,51, 239 e 260 non hanno il corollario delle sue improvvisazioni. Un disco che lo rivela non solo grande pianista di jazz, da tutti ben conosciuto, ma anche interprete classico di notevoli capacità. Renato Sellani, Puccini, Philology; Enrico Pieranunzi plays Domenico Scarlatti sonatas and improvisations, Cam Jazz
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narrativa
libri
Ricordi mutanti
agliente ma anche morbida, ambigua ma anche schietta e feroce. Questa è la superba prosa dell’irlandese Anne Ernright, il cui ultimo romanzo sta per essere tradotto in venticinque lingue (e non è un caso, ma prova di attenzione editoriale). Scritto in prima persona da Veronica Hegarty, trentanovenne medioborghese, è la storia di un tracollo emotivo. Non c’è isteria, ma analisi spietata di sé e della propria famiglia. La donna ha appena ricevuto la notizia del suicidio del fratello più amato (uno degli otto che ha), Liam, trovato sulla spiaggia di Brighton con sassi nelle tasche dei jeans. Mamma, ma che è successo allo zio Liam, le chiede la figlia di otto anni. Era in acqua e non voleva nuotare, questa la risposta. Poi la sorpresa, una delle tante che arrivano dai bambini di quell’età che sanno già tutto senza sapere di sapere: «Secondo me è giusto che uno si uccida».Veronica, con quel lutto che le cola addosso, «disturba i fantasmi» della famiglia. È tutto un ricostruire e un verosimile fantasticare, laddove c’è un senso cui afferrarsi e manca un dato accertato, attorno ai nonni, ai genitori, all’infanzia, ai gesti interrotti e sguardi che forse non appartenevano ai «pensieri puliti».
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in cerca di senso di Pier Mario Fasanotti
Un’inchiesta intima, che va negli angoli più oscuri di un gruppo familiare. A cominciare dallo sguardo sensuale che la nonna Ada dette, nel ’25, all’uomo che non sarebbe diventato suo marito ma col quale forse ebbe un tardivo e languido abbandono. Per Veronica il fantasma della morte, che attraversa nella sua ricostruzione semi-immaginaria tutta la sua famiglia, si unisce alla pulsione sessuale, come se l’atto ricreativo o semplicemente di piacere fosse un antidoto alla straziante malinconia del mondo. Da
un lato c’è la tenerezza di madre (un po’ meno di moglie) quando la sorella di Liam confessa: «Mi piace parlare con le mie figlie. Quando non lo faccio mi sento come se dovessi morire di qualcosa chiamiamola “inconsistenza”… perciò mi prendo una figlia sul divano e la costringo a volermi un po’ di bene… coccole, strilli…». Dall’altro c’è l’ostinazione a cercare l’originale marchio mortuario nella mente vivace del fratello, che beveva molto e quando era sobrio «prendeva gli auto-
bus sbagliati e non riusciva a seguire il filo del discorso e perdeva cose o rubava cose». Una grande intimità fraterna tra Veronica e Liam, ma anche quel solito muro di silenzio che talvolta si erge tra uomo e donna, non importa se giovanissimi. L’autrice muove i «ricordi mutanti» come se fossero marionette affettuose, comiche e tragiche. Lo fa sul palcoscenico di una casa che altro non era se non «un labirinto di tramezzi», troppo piccola per tante persone, luogo da cui fuggire per poi tornarvi. Un grumo di caratteri e di piccole patologie: «Nessuno di noi è normale. Non che gli Hegarty non sappiano cosa vogliono, è solo che non sanno come volerlo». Veronica smuove freneticamente le foglie di quello che potrebbe essere considerato un destino. Una spiegazione deve pur darsela. Forse non è destino, e nemmeno caos, «ma indeterminatezza, l’impossibilità per ciascuno di noi di trovare un percorso». Liam non lo trovò, ma non fu l’unico. E la sua sorella preferita, attratta dalla fuga da tutto e da tutti, ammette: «È da mesi che cado nella mia vita. E sto per toccare il fondo».
Anne Enright, La veglia, Bompiani, 289 pagine, 18,00 euro
riletture
Grandezza di D’Annunzio poeta e prosatore di Leone Piccioni foglio l’Alcyone dannunziano (1903) e incontro di nuovo alcune delle brevi poesie che più mi hanno commosso in tanti anni di frequentazione con D’Annunzio soprattutto poeta e prosatore. Ecco Nella belletta: «Nella belletta i giunchi hanno l’odore / delle persiche mezze e delle rose / passe, del miele guasto e della morte. / Or tutta la palude è come un fiore / lutulento che il sol d’agosto cuoce, / che non so che dolcigna afa di morte. / Ammutisce la rana, se m’appresso. / Le bolle d’aria salgono in silenzio». Ed ecco quasi di seguito nell’impaginazione dell’Alcyone, La sabbia del tempo: «Come scorrea la calda sabbia lieve / per entro il cavo della mano in ozio, / il cor sentì che il giorno era più breve. / E un’ansia repentina il cor m’assalse / per l’appressar dell’umido equinozio / che offusca l’oro del-
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le piagge salse. / Alla sabbia del tempo urna la mano / era, clessidra il cor mio palpitante, / l’ombra crescente d’ogni stelo vano / quasi ombra d’ago in tacito quadrante». E come allontanarsi dall’Alcyone con la prima poesia dei Madrigali dell’estate?: «Estate, Estate mia non declinare! / Fa’ che prima nel petto il cor mi scoppi / come pomo granato a troppo ardore…». È da ripetere la data: sono poesie del 1903. Non sono certamente solo queste poesie del Madrigale a completare l’amore per la poesia dannunziana. (Anche se quelle di guerra mi piacciono molto meno). Ma queste poesie sono pure un passe-partout per la grandezza poetica. C’è anche un’opera in prosa di D’Annunzio che ogni tanto rileggo per intero: il Notturno (1921). Questa raccolta in cui D’Annunzio si presenta come il più grande prosatore che l’Italia abbia avuto negli ultimi secoli, nasce da una serie di abbozzi
scritti a Venezia durante la convalescenza per un incidente di volo nel 1916: abbozzi in molti anni rielaborati fino al trionfo del Notturno. D’Annunzio poeta, D’Annunzio prosatore? Non ci possiamo fermare qui perché c’è il tanto più discusso D’Annunzio dei romanzi (e si dovrebbe parlare anche del teatro di poesia di D’Annunzio). Dirò subito che considero Il Piacere (1888) un romanzo molto bello: la Roma del tempo è descritta come meglio non si può, i profili di tanti personaggi non escono dalla mente. È chiaro che ci sono forti elementi legati all’epoca, ed è giusto che ci siano. (Per divagare un momento racconterò che, in un convegno, Piero Citati, forse il maggiore scrittore italiano del nostro tempo, disse che Il Piacere era un bellissimo romanzo, ma fu contrastato da Natalino Sapegno che era di opinione contraria. «È bellissimo, professore - ripetè Citati - è bellis-
simo»). Anche L’innocente ha molte parti di grande audacia e passione. E del Fuoco (1900) non si può ignorare la prosa vertiginosa e quasi delirante. Sono appunti, questi, che ripeto non per vanità ma per memoria di me stesso. E ho toccato solo alcune pagine delle migliaia di altre che D’Annunzio ci ha lasciato, dove certo ci sono squilibri e risultati diversi (anche negativi). Ripenso alla Belletta e alle altre poesie dell’Alcyone e mi chiedo (domanda retorica): le avrà lette Montale? D’Annunzio, nato nel 1863 morì a Gardone Riviera nel 1938 (me ne ricordo benissimo anche perché le scuole rimasero chiuse e facemmo vacanza, ben pochi sapendone il motivo). Negli ultimi anni parve tacere, ma ecco apparire nel 1935 la raccolta delle Cento e cento e cento pagine del libro segreto di Gabriele D’Annunzio tentato di morire. «Rieccolo!», disse Cecchi ben lieto.
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letteratura
Quel velo sottile tra chiaro e oscuro
di Maurizio Schoepflin in dalle origini della civiltà occidentale - basti pensare all’opera immensa dei tragici greci -, letterati e poeti hanno mostrato un’eccezionale capacità di descrivere la condizione dell’uomo e di scandagliarne l’animo. Anche nel Novecento italiano molti scrittori hanno palesato una sensibilità che saremmo portati a definire filosofica, tale da spingerli a confrontarsi con i grandi interrogativi che da sempre abitano nel cuore umano. Una bella testimonianza di ciò proviene da questo interessante volume che, non casualmente, reca l’eloquente sottotitolo Domande radicali nella letteratura italiana del
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filosofia
Novecento. È sufficiente vedere i nomi che ricorrono lungo le pagine del libro per comprendere che molti tra i maggiori prosatori e poeti del nostro Novecento sono stati sedotti dai più inquietanti problemi esistenziali: ecco Ungaretti sospeso tra dolore e fede religiosa; ecco Montale, laico eppure critico della secolarizzazione; ecco Pasolini, Buzzati, Silone, Alvaro, Luzi e, last but not least, Pier Vittorio Tondelli: tutti trafitti dalle domande radicali sul senso della vita. «Il paradosso - scrive Massimo Naro nell’Introduzione - è la loro forma. La loro qualità è ossimorica. Non sono né luce né buio. Ma nemmeno una mera, confusa, tonalità di grigio. Sono piuttosto crocevia tra chiaro e oscuro», lad-
dove, secondo un celebre verso montaliano, «c’è un velo sottile». Posti di fronte agli abissali quesiti riguardanti il perché profondo dell’esistenza, il suo senso autentico, il suo Montale destino ultimo, visto da Mulas questi uomini hanno raccolto la sfida, senza reclamare garanzie ed evidenze e lasciando da parte sia un’immotivata superbia sia un inutile, preventivo scoramento. Dalle loro parole è giunto allora
un contributo alto e significativo alla comprensione dell’umana realtà che si caratterizza appunto per quel suo essere collocata tra chiaro e oscuro, ove è possibile vedere soltanto «come in uno specchio, in maniera confusa», come afferma San Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi.
Tra chiaro e oscuro, a cura di Massimo Naro, Salvatore Sciascia Editore, 254 pagine, 18,00 euro
Il coraggio metafisico di Xavier Zubiri di Renato Cristin on si può dire che Xavier Zubiri (1898-1983) sia sconosciuto in Italia, perché almeno sette sue opere sono state tradotte (segnalo le ottime edizioni curate da Gianni Ferracuti e, molti anni fa, da Albino Babolin), tuttavia non è autore particolarmente utilizzato dai filosofi nostrani né è diffuso fra il pubblico dei lettori. Ci si può dunque auspicare che l’arrivo in libreria di questa monumentale opera, punto d’arrivo del suo percorso speculativo, costituisca l’occasione per un maggiore interesse nei confronti di uno dei maestri della filosofia ispanica. L’edizione, con testo a fronte, è ben curata da Paolo Ponzio e Oscar Barroso Fernández anche se non esente da alcune
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storia
imperfezioni di traduzione (arrancar con rigor a su realidad non significa «sradicare con un certo rigore la realtà» ma «strappargli con rigore la realtà» cioè strappare, estorcere la realtà al reale; por la intelección non è «a causa dell’intellezione» ma «in virtù» o «per mezzo dell’intellezione»), rese talvolta inevitabili da due cause distinte: dall’intrinseca non univocità della lingua spagnola e dall’estrema familiarità con l’italiano, le quali paradossalmente rendono più difficile tradurre alla perfezione dallo spagnolo che, per esempio, dal tedesco. Zubiri affronta qui i problemi della realtà, della sensibilità e dell’intellezione, con un coraggio metafisico che solo grandi pensatori possono avere, dopo le insuperabili lezioni che Platone e Kant ci hanno lasciato su questi temi.
L’idea che regge l’intero lavoro può essere così formulata: l’intellezione ci colloca nella realtà ed è a quest’ultima che dobbiamo rivolgere la nostra riflessione, perché «il logos e la ragione nascono dalla realtà e sono in essa». L’intellezione sarebbe dunque un’«attualizzazione del reale» in ciò che si può chiamare «intelligenza senziente». Attraverso un’indagine meticolosa di questi concetti, il libro mostra che «la conoscenza è un vertice di logos e ragione», e le sue pagine «non sono che la spiegazione di quell’unica idea». In Zubiri si ritrova uno dei tratti comuni a tutto il pensiero spagnolo: il pensiero concettuale deve dispiegarsi nella realtà vivente e nella storicità concreta. Xavier Zubiri, Intelligenza senziente, Bompiani, 1414 pagine, 35,00 euro
Nel gulag titino dalla parte di Stalin di Vito Punzi
sola Nuda, oggi Croazia, dal 1949 al 1954 è stata carcere di Stato per i prigionieri politici della Jugoslavia di Tito. Dunja Badnjevic ha deciso di visitare oggi quel luogo che ospitò per quattro anni suo padre Esref, partigiano e comunista spedito nel gulag titino perché filosovietico. Grazie al recupero del diario paterno, la narrazione corre sul doppio binario del presente post-jugoslavo alternato ai paterni appunti isolani. Il destino di molti dissidenti fedeli all’internazionalismo rosso fedele a Mosca venne segnato dallo storico «strappo» tra Stalin e Tito, nel 1948. Curioso, per non dire drammatico, leggere oggi Esref Badnje-
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vic lamentarsi perché già nel 1949 nella Jugoslavia di Tito «non c’era posto per il dubbio», oppure perché «non esistevano più la solidarietà, l’amicizia, una discussione fraterna», fino a gridare: «per me era in gioco l’essenziale diritto dell’uomo, il diritto di dichiararsi liberamente». Nobili rivendicazioni che stridono con il suo essere stato strenuo sostenitore di Stalin, di uno cioè che ha brillato nel firmamento del Novecento non certo per essere stato propugnatore dei diritti umani… Menzogna o ignoranza, allora, quella di Esref Badnjevic? Preferiamo sospendere il giudizio e rispettare i suoi terribili quattro anni di gulag su Isola Nuda. Stupisce piuttosto l’attuale nostalgia di
quella che fu la federazione jugoslava, oggi di moda nei residuali ambienti comunisti di casa nostra. Questo stesso libro di Dunja Badnjevic (che pure vive da più di
quarant’anni in Italia…) ricostruisce un tempo, quello della convivenza tra religioni ed etnie, nel quale «la diversità aumentava l’intensità della festa». Peccato che la Badnjevic non si chieda se la causa degli odi e delle brutalità scatenatesi al momento della disgregazione dello Stato jugoslavo non sia da cercare anche e soprattutto nell’utopico progetto di società comunista. Eppure i metodi finalizzati alla soppressione dell’avversario politico adottati da Tito, gli stessi di Stalin, e subiti dal padre Esref, avrebbero dovuto suggerirle qualcosa… Dunja Badnjevic, L’Isola Nuda, Bollati Boringhieri, 162 pagine, 14,00 euro
altre letture Con res publica
Romana s’intende lo Stato formato dalla città di Roma e dai suoi territori di conquista nel periodo compreso tra il VI e il I secolo avanti Cristo. Piccola città del Lazio, Roma si proietta verso la conquista e l’assoggettamento dell’intero bacino del Mediterraneo e oltre, fino a diventare una potenza mondiale. Roma nell’età della repubblica di Martin Jehne (Il Mulino, 156 pagine 11,50 euro) sintetizza le complesse vicende politiche, sociali ed economiche che hanno segnato la vita della repubblica dai suoi esordi alla fase conclusiva: la caduta della monarchia, le guerre contro i nemici esterni, la fondazione delle colonie, il flusso di ricchezze, l’ingresso di nuove classi nella vita politica. Jehne delinea anche le ragioni della decadenza con l’acutizzarsi delle crisi sociali e l’indebolimento delle istituzioni repubblicane.
Il Sessantotto visto da destra è stato un tema che nel quarantesimo anniversario della contestazione è emerso nella saggistica e nella pubblicistica italiana. Le origini della contestazione globale (Solfanelli,158 pagine, 10,00 euro) di Marco Iacona insiste su questo argomento indagando le radici culturali e ideologiche della contestazione di destra.I libri sui quali studiavano i giovani missini erano quelli di Von Salomon, Guenon e appunto Evola. «Ce la prendevamo con la civiltà degli elettrodomestici proprio alla vigilia del miracolo economico - dice Accame, la cui testimonianza compare nel libro di Iacona - quando quasi nessuno di noi disponeva ancora di un frigorifero per uso casalingo». Le opere, il pensiero
e la vita stessa di Herman Hesse hanno affascinato e influenzato intere generazioni di persone in tutto il mondo. Il suo rifiuto di ogni forma di violenza e di autoritarismo, la sua ricerca di un mondo in cui trovino posto e si armonizzano spiritualità ascetica e vita attiva, la fuga dalla società borghese europea in profonda crisi spirituale e dai suoi tabù sessuali, il culto dell’arte in ogni sua fuga. In Album Hesse (Mondadori, 244 pagine, 15,00 euro) Eva Bianchelli ripercorre con il corredo di più di duecento fotografie l’intera parabola esistenziale dello scrittore dall’infanzia fino ai viaggi in India e al sereno ritiro nel Canton Ticino. Un Hesse da vedere oltre che da leggere.
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ritratti
ITALO SVEVO DAL FIASCO DI “SENILITÀ” ALLA FORTUNA DELLA “COSCIENZA DI ZENO”. QUELLA DELLO SCRITTORE TRIESTINO, MORTO OTTANT’ANNI FA, È UNA STORIA DI MALINTESI E FRAINTENDIMENTI IN CUI LA CRITICA LETTERARIA HA UNA BUONA PARTE DI RESPONSABILITÀ. MA A RILEGGERE OGGI L’OPERA DI ARON HECTOR SCHIMTZ CI SI ACCORGE CHE SONO PIÙ I DEBITI CONTRATTI CON EMILIO BRENTANI CHE CON ZENO COSINI…
Il fascino discreto dell’inettitudine di Filippo Maria Battaglia e si stilasse un breve prontuario delle più grosse magagne editoriali, tra le vittime, un posto d’onore toccherebbe di certo a lui. Anche Aron Hector Schimtz, al grande pubblico e alle patrie lettere noto come Italo Svevo, ha dovuto scontare l’indifferenza della società letteraria e sfidare la parsimonia degli editori. La storia ci racconta più o meno questo. Quando pubblica il primo romanzo - corre l’anno 1892 - Svevo ha da poco compiuto trentuno anni. Alle spalle, ha una solida istruzione scolastica (ha fatto studi commerciali), conosce i classici italiani e tedeschi, che riesce a leggere con agilità anche in lingua originale. Ha superato il fallimento dell’azienda del padre non senza qualche difficoltà emotiva (che ritornerà, prepotente, nel suo libro più noto, La coscienza di Zeno) ed è impiegato presso la filiale cittadina della Banca Union di Vienna.
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Una vita viene presentato all’editore Trevez con il titolo Un inetto. È senz’altro un’opera ancora acerba, che però contiene in nuce tutti i principali temi che lo scrittore triestino svilupperà negli altri due romanzi. E qui basti ricordare il titolo originario, Un inetto appunto, che con una certa do-
l’«inetto» a bissare. Senilità è un fiasco, che molto dopo spingerà lo scrittore a dire: «Questo romanzo non ottenne una sola parola di lode o di biasimo dalla nostra critica. Forse contribuì al suo insuccesso la veste alquanto dimessa in cui si presentò… Mi rassegnai al giudizio tanto unanime (non esiste un’unanimità più perfetta di quella del silenzio), e per venticinque anni m’astenni dallo scrivere. Se ci fu errore, fu errore mio». La sberla - complice l’editoria - è di quelle che lasciano il segno, tanto più che su questo romanzo c’è un investimento forte, e non solo sul piano emotivo. Stavolta il protagonista si chiama Emilio Brentani, ha 35 anni, è conosciuto a livello cittadino per aver scritto un romanzo, e lavora come impiegato in una compagnia di assicurazioni. Abita un appartamento con la sorella Amalia, una sorta di donna-angelo che lo accudisce. Emilio però conosce Angiolina, donna-diavolo contrapposta all’emaciata sorella, e ben presto capace di fare perdere i sensi al giovanotto. Nel ménage entra Stefano Balli, scultore bohèmien di pessimo livello, ma seduttore e gran tombeur che invita il protagonista a evitare passione e sentimenti, e che al tempo stesso però fa innamorare la sorella di Emilio. C’è n’è abba-
Nella “Coscienza di Zeno” che piacque tanto a Joyce e a Montale, si affaccia uno Svevo inedito. Più che altro incentrato, dopo la pausa decennale e l’incontro con la psicoanalisi, sul voler dire che sul voler raccontare cilità mista a una buona dose di risentimento Svevo accetterà di cambiare. La vicenda è presto detta: protagonista è Alfonso Nitti, che non a caso è un impiegato di banca incapace di stabilire solide relazioni umane e frustrato nelle sue ambizioni economiche e letterarie. Potrebbe sposarsi con la figlia del proprietario della banca in cui lavora e con la quale ha una relazione, e così finalmente svoltare. Potrebbe appunto: ma non lo fa, fino a quando Annetta (questo, il nome di lei, agli antipodi del cliché della femme fatale) convola a nozze con il cugino Macario.Turbini ed emozioni, e alla fine il nostro decide per il tragico epilogo: è suicidio. Il libro non è accolto dalla critica in modo freddo e distaccato. Certo: non entra nel dibattito letterario e mondano del momento. Ma c’è, specie tra gli addetti ai lavori e persino da qualche nome di un certo livello, qualche piccola, timida apertura. Un incoraggiamento, che spinge sei anni dopo
stanza per un cortocircuito proto-psicanalitico, con tanto di chiusura allucinata, in cui il povero Emilio fonde assieme le immagini delle due donne, in un rigurgito ideale che la dice lunga sulle debolezze del protagonista. Più della Coscienza di Zeno, Senilità è forse il vero capolavoro di Svevo. L’impronta della sua opera (l’inettitudine, la scrittura come «salvezza», la contaminazione psicanalitica, mista al senso di sospensione e di fragilità dei protagonisti) è più che mai caratterizzata, accompagnata da una forte vena autoironica che frena la cerebralità anni dopo esplosa nel suo libro più noto. Ma tant’è: Svevo non è capito, la critica - tra l’indifferenza e il cinismo nei confronti di un’opera che è comunque stata pubblicata a spese dell’autore - nicchia, fa la faccia disgustata, alla fine lascia cadere. E Schmitz decide così di posare pennino e calamaio per dedicarsi completamente a commerci e a carte bollate. Diviene cu-
ratore d’affari nel colorificio che appartiene al suocero Gioacchino (si è già sposato con Livia Veneziani, prima con rito civile poi, convertitosi dall’ebraismo al cattolicesimo, in Chiesa), parte alla volta dell’estero per assidue missioni commerciali. La tentazione dello scrittore resta però forte: di tanto in tanto, Svevo scrive qualcosa (Un marito, Le avventure di Maria, qualche racconto) che sarà pubblicato postumo. Poi scoppia la guerra, la famiglia abbandona Trieste, Schimtz rimane solo a dirigere l’impresa, che di lì a qualche tempo chiuderà i battenti. Ride l’anima, piange il portafoglio: sono gli anni degli autori inglesi e della psicoanalisi di Freud, del quale traduce, con l’aiuto di un nipote medico, Über den Traum che è una sorta di sintesi del Significato dei sogni. Datato 1919 è l’inizio della stesura del suo terzo romanzo, La coscienza di Zeno, pubblicato nel 1923 stavolta da un editore vero, Cappelli di Bologna. E qui l’autore pesca un terno al lotto: James Joyce legge e apprezza l’opera. Di lì in avanti, l’autore dell’Ulisse non fa altro che aiutarlo, segnalando l’opera ai critici francesi Larbaud e Cremieux che dedicheranno, nel 1926, alla Coscienza di Zeno e agli altri due romanzi la maggior parte del fascicolo della rivista Le navire d’argent. Ma nel frattempo anche in Italia qualcosa si inizia a smuovere: sulla rivista milanese L’esame esce un intervento di Eugenio Montale intitolato Omaggio a Italo Svevo. È un tourbillon di lodi e di riconoscimenti che culminano con la festa parigina data in suo onore nel 1928 e che si concluderà con il tragico epilogo dell’incidente stradale mentre torna da una gita con la famiglia da Bormio.
Questa, la storia di Svevo. Quanto a quella di Zeno Cosini, il protagonista del romanzo più noto, si è detto e scritto di tutto. Da ultimo, perfino Aldo Spranzi - in un saggio scritto a quattro mani con Fabiano Buzzi (Il segreto di Zeno, Unicopli, 214 pagine, 20,00 euro) che pure merita di essere apprezzato per un tratto originale che si discosta da buona parte delle ultime opere critiche - ha sostenuto: «Che La coscienza di Zeno sia un’opera affascinante, in grado di coinvolgere profondamente il lettore fino a stordirlo, è un dato
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che non ha bisogno di dimostrazioni e che può contare, pensiamo, sulla testimonianza di tutti coloro che vi si accostano e vengono coinvolti nella lettura.Tante cose incantano di questo romanzo: un’eccezionale originalità, la profondità di introspezione e di analisi dei sentimenti e dei comportamenti umani, l’imprendibilità del protagonista, che si sottrae in modi che non è esagerato definire diabolici a ogni “catalogazione”, riuscendo a mantenere coperto il suo gioco e soprattutto facendosi beffe di chi cerca di metterlo all’angolo, di scoprirne l’identità. Maneggiando da prestigiatore i sentimenti che più ci sono cari. Una sorta di fantasma». E questo fascino consiste anche nell’evasione prodotta dalla lettura del romanzo, che però ben presto si dissolve - prosegue lo studioso - «lasciando il posto al disgusto, a un vero e proprio disgusto, portatore di una stroncatura e del conseguente abbandono. Il lettore è tentato di lasciare La coscienza di Zeno ai rituali dei letterati, agli stereotipi metatestuali sui quali campano gli insigni eruditi della nostra cultura artistica, e dei quali, com’è giusto, egli si disinteressa. Non è solo l’ambiguità insopportabile che produce il disgusto; c’è ben altro. Anzitutto l’insincerità evidente di un individuo che vuol farci credere di essere in bilico tra salute e malattia, in perenne crisi morale, in bilico tra buoni propositi, cattive azioni, rimorsi e pentimenti, protetto da un sistema di alibi che lo sottrae a ogni responsabilità. L’episodio della cura del fumo nella clinica dalla quale subito scappa è la prima delle innumerevoli recite che egli ci somministra nel corso del romanzo».
A questa linea, che a lungo andare risulta decisamente la migliore, si affianca però nell’opera uno Svevo fino a quel momento quasi del tutto inedito, e più che altro incentrato sul voler dire più che sul voler raccontare. E il diagramma che rende bene questo orientamento è affidato all’ultima pagina del libro: «la vita attuale è inquinata alle radici... Qualunque sforzo di darci la salute è vano. Questa non può appartenere che alla bestia che conosce un solo progresso, quello del proprio organismo […]. Ma l’occhialuto uomo, invece, inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c’è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca a chi li usa. Gli ordigni si comperano, si vendono e si rubano e l’uo-
mo diventa sempre più furbo e più debole. Anzi si capisce che la sua furbizia cresce in proporzione alla sua debolezza. I primi suoi ordigni parevano prolungazioni del suo braccio e non potevano essere efficaci che la forza dello stesso, ma oramai, l’ordigno non ha più alcuna relazione con l’arto. Ed è l’ordigno che crea la malattia con l’abbandono della legge che fu su tutta la terra la creatrice. La legge del più forte sparì e perdemmo la selezione naturale. Altro che psico-analisi ci vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie ed ammalati. Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie». Basta una lettura veloce per notare come il tono, che in Senilità oscilla come un pendolo tra l’ironico e il tragico, qui si cristallizza e - complice lo studio, la pausa decennale e la psicoanalisi - rallenta fino a fermarsi quasi su se stesso. Col senno di poi, per molti degli osservatori, questo non importa. E infatti La coscienza di Zeno conosce tra i contemporanei una fortuna inaspettata, viene conteso da editori per traduzioni di ogni tipo, diviene fumetto, fiction, film, perfino spot pubblicitario. La sua fortuna è la conferma dell’antico adagio che vuole che editori e autori, di solito, non vanno affatto a braccetto. Ma è anche la prova che la critica letteraria, in questa storia di malintesi e vecchi fraintendimenti, ci ha messo del suo. Dapprima ignorando l’originalità di un’opera (Senilità, ma questo può pure capitare), poi innalzando a feticcio letterario un buon romanzo del secolo scorso. Per questo, l’opera di Aron Hector Schimtz andrebbe forse riletta. E non è detto che da questa rilettura la geografia sveviana risulti debitrice in modo così netto di Zeno Cosini e delle sue eccentriche avventure.
Premonizioni teatrali da Chierici a Berlusconi iciamo la verità: le (numerose) commedie di Italo Svevo sono tutte un po’ scombinate. Eppure seguono il filo completo della sua creatività, visto per il teatro Svevo iniziò a scrivere negli anni tra 1885 e 1886 (il titolo del suo primo copione è simbolicamente Una commedia inedita) e che La rigenerazione (il suo ultimo testo per la scena, della fine 1927) segna sostanzialmente il suo addio alla scrittura compiuta. A Svevo piaceva il teatro, come piaceva a tutti gli intellettuali a cavallo fra Ottocento e Novecento, del resto: perché quello era il maggior strumento di comunicazione di massa, allora come nei due millenni precedenti. C’erano i giornali, è vero, ma erano ancora piuttosto elitari, ma non c’erano né radio né tv e chi voleva conoscere il mondo doveva andare a teatro. E a teatro ci andavano in molti, soprattutto a Trieste. Pare che proprio l’apparizione di Eleonora Duse lì a Trieste abbia spinto Svevo a misurarsi con il teatro. Ma sono scombinate, le sue commedie, perché pur essendo uno spettatore affascinato e attento, Svevo non vide mai in scena i suoi teatri (fatto sal-
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di Nicola Fano vo per Terzetto spezzato, che però fu allestito solo 1928 a pochi mesi dalla sua morte). E questo vuol dire che non si misurò mai, concretamente, con le leggi della scena, con le esigenze degli attori, con i meccanismi dialogici e i loro trucchi. Per cui le sue storie procedono un po’ a tentoni e hanno sempre qualcosa di letterario, di estremamente artefatto nella costruzione linguistica: leggetevi L’avventura di Maria o, appunto, Terzetto spezzato e ve ne renderete subito conto. Per di più, la scelta di Svevo (anche dello Svevo narratore) è sempre stata quella di costruire una lingua ponte, un italiano «letterario» sufficientemente lontano dal dialetto triestino; una lingua che necessariamente sente l’influsso da un lato della burocrazia scritta (era pur sempre un «impiegato», Svevo) e dall’altro quello dell’idioma ufficiale asburgico. Il che non guasterebbe per ragioni di principio a teatro (non si dà teatro senza l’invenzione di una lingua) ma cozza con i meccanismi diretti dell’arte scenica: la lingua teatrale deve comunicare emozioni, non leggi
o concetti o prezzi di vernici. Prendete la sua commedia più articolata e complessa, l’ultima: La rigenerazione. La storia, è noto, racconta di Giovanni Chierici, un vecchio che si sottopone a una singolare operazione chirurgica per recuperare la giovinezza fisica: costui da un lato vuole recuperare prestigio in una società che venera solo i giovani e dall’altro più prosaicamente, vuole consumare un agognato amplesso con la serva di casa. Giustamente Svevo pensa tutto questo (e in parte lo costruisce) come una farsa: i colpi di scena comici sono numerosi così come un personaggio di un certo rilievo (Enrico Biggioni, un uomo che aspira a sposare la figlia del protagonista) è un buffo che deriva molto chiaramente dalla Commedia dell’Arte. Eppure, questa forza comica non si libera pienamente in scena: i numerosi allestimenti recenti di questo testo lo dimostrano chiaramente. La lingua non morde e spesso si incarta in descrizioni eccessive: in una parola, le battute sono troppo lunghe, difetto che Svevo avrebbe potuto superare facilmente se avesse
potuto assistere a un paio di prove o a qualche rappresentazione. Ed è un peccato, perché il tema e le idee che Svevo voleva comunicare avrebbero tratto grandissima forza da un maggior rigore comico. Il guaio è che Svevo, pur grandissimo romanziere, riteneva che solo il teatro fosse in grado di esprimere concetti complessi (assai più della narrativa, comunque, egli sosteneva) proprio perché coglieva l’esperienza umana nel suo manifestarsi. Ecco, se il teatro rappresentato non lo avesse disdegnato, sicuramente avremmo oggi un drammaturgo di enorme spessore, mentre dobbiamo accontentarci di un bozzettista. Un bozzettista di genio, comunque, se è vero che nel 1927 seppe anticipare di quasi un secolo il vizio assurdo d’oggi di farsi giovani perenni: in fondo, comparando La rigenerazione e La coscienza di Zeno si può supporre che la famosa «bomba» preconizzata nell’ultima pagina del romanzo altro non fosse - in Italia che un capo di governo la cui massima preoccupazione (dopo la sistemazione formale delle sue pendenze con la giustizia) è il rinfoltimento della capigliatura.
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tv
Blu notte sulla mafia:
di Pier Mario Fasanotti ossi un funzionario o un collaboratore del ministero dell’istruzione consiglierei l’onorevole Gelmini, capo di questo dicastero, di far circolare nelle scuole, medie e superiori, la registrazione delle puntate di Blu notte (Rai 3), il programma di Carlo Lucarelli. Lo scrittore, dopo aver ricostruito in questi ultimi anni, la dinamica degli omicidi più celebri, ora racconta l’Italia puntando la lente d’ingrandimento sui crimini corali. Come la mafia, come
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la forza pedagogica di Carlo Lucarelli
web
video
la corruzione tipo Tangentopoli. Lo fa, chiaramente, senza tralasciare quel pizzico di suspence che è insito nel suo dna di narratore. È l’ultimo periodo del Novecento, che moltissimi giovani ignorano o hanno solo orecchiato. Giovani, e anche non più così giovani, colmerebbero così un vuoto culturale. La mafia al Nord, dice Lucarelli, è una specie di segreto di Pulcinella: tutti più o meno sanno o sospettano, ma fanno finta di non vedere o non credere. Il programma si snoda con ritmo cinematografico. Il conduttore più volte dice che tutto pare un film - come La Piovra invece è realtà. Uno storico intervistato ha detto due cose sacrosante. La prima: non è vero che la mafia rimane nelle zone povere del Nord, perché «i boss non hanno alcun interesse a trattare con i miserabili. Vogliono fare affari con i potenti. Che sono al Nord». La seconda: la mafia al Nord ce l’ha portata in un certo senso lo Stato confinando qui i delinquenti di Cosa Nostra credendo di sradicarli dal loro territorio. Nella realtà hanno trapiantato la criminalità organizzata in Lombardia, Piemonte, Liguria ed Emilia Romagna. Non è un caso che un rito di affiliazione (nel 1980) sia avvenuto a Brescello (Reggio Emilia), proprio il paese di Don Camillo e Peppone. Non è un caso che ci siano state riunioni mafiose ad alto livello a Cologno Monzese (1960). Eppure quando andò in onda sullo schermo Rai la serie La Piovra, l’allora sindaco Paolo Pillitteri (Psi) dichiarò che al Nord non era mai esistita e che il filmato era «solo una favola». Invece è cosa antica la piazza di Milano come punto di partenza per traffici di ogni genere, droga soprattutto. A Milano Jo Adonis (chiamato così perché un bell’uomo) venne nel 1958. E cominciò a conoscere malavitosi ma anche gente che contava e aveva fama d’essere onesta. Disse Adonis nel suo accento italo-americano (fu espulso dagli Usa nel ’53): «Devo essere proprio simpatico perché tengo Milano piena di amici».Tra questi ci sono La Barbera, Buscetta, Leggio. Dal 1961 al 1971 arrivano al Nord più di mille persone fortemente sospettate di appartenere alle cosche mafiose della Sicilia e alla n’drangheta calabrese. Nel 1969 a Milano si trasferisce anche Riina, che organizza il traffico di droga con la Turchia e la Croazia. Raffinata in Sicilia, la droga parte però da Milano: per tutta l’Europa. Non si spara solo a San Luca o a Corleone, ma anche, anzi molto, nella pianura padana.
games
dvd
DUE SECOLI DI QUOTIDIANI SU GOOGLE
LO STREGONE VENUTO DAL NORD
LA SCOMODA VERITÀ DI LEO
N
on solo tutte le pagine web. Non solo tutti i libri. Google ha ora depositato sui propri server anche due secoli di storia scritta sulla carta stampata, digitalizzando miliardi di pagine che la storia ha messo nero su bianco sui quotidiani degli Stati Uniti. Da oggi dunque, con un semplice click, sarà finalmente possibile rivivere grandi emozioni come lo sbarco sul-
È
arrivato quasi di soppiatto, nell’affollatissimo mondo dei role-playing games per personal computer, ma The Witcher, degli sviluppatori polacchi CDProjekt ha sorpreso tutti, conquistandosi la stima della critica e del pubblico. Con una trama molto ricca, ispirata ai lavori fantasy dello scrittore Andrzej Sapkowski, il gioco si presenta con una inusuale prospettiva isometrica (ma vo-
resciuto bene, a dispetto di quanti giubilarono nel vederlo assiderato ai tempi del Titanic, Leonardo Di Caprio è produttore e voce fuori campo dell’Undicesima ora, documentario ecologista firmato dalle sorelle Nadia e Leila Conners. Da dove veniamo, dove andiamo, che cosa stiamo facendo, che cosa dovremmo fare per scongiuare i pericoli di catastrofe globale. Le solite
Basta un click per ”sfogliare” il passato e rivivere lo sbarco sulla Luna o la tragedia del Titanic
“The Witcher”, dei polacchi CDProjekt, un gioco di ruolo che ha stupito critica e pubblico
Le solite domande legate al futuro del pianeta sfilano tra immagini di catastrofi naturali
la Luna, o lo sgomento dei primi report relativi alla tragedia del Titanic. L’annuncio è arrivato direttamente dal blog di Google dal product manager Punit Soni, che ha spiegato come «progressivamente l’archivio verrà arricchito e completato». Fin da subito, comunque, è possibile navigare le storiche pagine del Washington Post, del New York Times o del Quebec Chronicle-Telegraph (in stampa ormai da 244 anni consecutivi). Se il servizio sembra al momento circoscritto all’editoria Usa, una nota finale di Punit Soni annuncia l’apertura anche a livello internazionale in tempi brevi.
lendo si può anche scegliere la «terza persona») è una grafica in altissima definizione che stupisce per la sua pulizia e accuratezza. I più disattenti potrebbero scambiare The Witcher per uno dei tanti cloni di Diablo II che hanno infestato il mercato negli ultimi anni. Ma il prodotto dei CDProjekt è molto di più: i protagonisti sono tratteggiati bene, l’audio dei dialoghi è di fattura eccellente, il sistema di combattimento (e di gestione delle magie) è efficacissimo. In conclusione, si tratta di un gioco consigliato a tutti gli appassionati di giochi di ruolo, che potrebbe trovare estimatori anche nei giocatori con istinti più arcade.
ineludibili domande legate al futuro dell’orbe terracqueo sfilano tra immagini scelte fra le più terribili del campionario naturale. Inondazioni, incendi, uragani, scioglimento dei ghiacciai e catene montuose composte di rifiuti, si alternano nel disegnare una sinfonia della distruzione, impreziosita dagli assoli di Mikhail Gorbacev, Stephen Hawking e altri esperti di sviluppo «cortese» come William McDonough. Niente di nuovo sotto il sole insomma, ma una scomoda verità che non smette di rivelarsi e di lasciare più o meno indifferenti tutti gli attuali governi. Non l’apice dell’originalità, ma un lavoro del tutto sostenibile.
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cinema
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Quel sociopatico diHancock passa per un atto di enorme coraggio se una star, adorata per il sorriso accattivante e il carisma da buono, sceglie un ruolo da sociopatico. C’è del vero in questo, ma alla fine il rischio ha pagato.
Machan, un film presentato all’ultima Mostra di Venezia, segna il debutto nella regia del produttore Uberto Pasolini (The Full Monty). Machan (vuol dire «amico») è il racconto sostanzialmente vero di due amici cingalesi, Stanley e Manoj, che abitano in una baraccopoli di Colombo e ardono dalla voglia di espatriare e fare fortuna in Germania o in un altro paese europeo; nonostante tentativi ripetuti, non rie-
di Anselma Dell’Olio ill Smith, nel ruolo di Hancock nel film omonimo appena uscito in Italia, è il primo supereroe barbone, maleducato, burbero, alcolista e cocainomane (c’è una scena in cui tira su col naso vistosamente, chiara allusione a sniffate seriali). L’idea è originale e molto gradita. Se Hancock non arriva all’entusiasmante riuscita di Ironman (non c’è gara con l’impagabile Robert Downey Jr.) uscito a inizio estate, Hancock aggancia l’interesse dello spettatore con un protagonista che ha i poteri di Superman, ma li esercita nei suoi soliti stracci qualunque cosa faccia, e senza bisogno di cercare un luogo dove infilarsi la calzamaglia, come quella che trasforma il mite reporter Clark Kent nell’uomo volante. Infatti Hancock vola, sposta, blocca o scaraventa qualsiasi cosa e le pallottole gli rimbalzano. Ma è talmente incavolato col mondo che, essendo sempre ubriaco, strafatto, o con un dopo sbornia tremendo, non riesce nemmeno ad atterrare senza fare danni spaventosi. Arrivato in soccorso di una balena grigia arenata sulla spiaggia, lo scriteriato supereroe la afferra per la coda e la scaraventa lontano nell’oceano (siamo a Los Angeles) dove il povero cetaceo, urlando di terrore, si schianta su una barca a vela, distruggendola, prima di riprendere il largo.
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Incontriamo per la prima volta il ringhioso supereroe mentre dorme, abbandonato sulla panchina di una fermata d’autobus, circondato da bottiglie di whiskey vuote, con l’aspetto di uno che non vede né una doccia, né una lavanderia da mesi. Un bambino è costretto a svegliarlo con le brutte, perché con le buone non riesce a scuoterlo dal suo torpore etilico. Finalmente Hancock apre gli occhi cisposi e domanda al marmocchio cosa vuole. Il bambino gli risponde che c’è una rapina in corso e grida «I cattivi!», indicando gli schermi dei televisori accesi nella vetrina di un negozio lì vicino, che trasmettono l’aggressione di una banda di malviventi. Hancock sibilla acido: «Che cosa vuoi da
me? Un biscotto-premio?» e lo manda pesantemente a quel paese, mentre il ragazzino gli ribatte «stronzo». In un’altra scena, un bambino di nome Michel (per la verità anticipaticissmo, e forse non a caso francese) gli ripete lo stesso insulto due volte. Hancock lo lancia in aria come fosse un missile, e Michel urla di terrore.A un altro bimbo, grassoccio con gli occhiali, dà del «quattrocchi» e gli chiede se vuole lo stesso trattamento. Il piccolo, impietrito, fa subito «no» con la testa. Nel secondo atto (il film ha la classica struttura di tre tempi, come s’insegna nelle scuole di sceneggiatura Usa) e dopo aver fatto miliardi di danni tra pavimenti divelti, palazzi distrutti, automobili schiacciate e interi isolati di case rasi al suolo, vola in soccorso di un uomo bloccato nella sua macchina sui binari mentre arriva un treno. Hancock lo soccorre da par suo, facendo a pezzi la locomotiva e tutto quello che si trova nel raggio di un chilometro. I
due presunti estranei s’incontrano: è chiaro che i due nascondono un segreto. Ma prima di conoscere il mistero, assistiamo al ravvedimento del dispettoso brontolone. Il supereroe malmostoso accetta di scontare una pena in galera per i miliardi di danni che ha provocato e alla fine si riscatterà agli occhi della gente. Tornato in azione, è un uomo cambiato, fasciato in una tuta tecnologica e con la cappa d’ordinanza (ma non prima di averne scartato
Ha fatto bene Will Smith a correre il rischio di interpretare, nel film di Peter Berg, il ruolo di un supereroe scalcinato. E riuscito è il debutto nella regia di Uberto Pasolini che racconta la storia vera di un gruppo di cingalesi alla ricerca di un futuro in Occidente cittadini accorsi coprono il salvatore d’insulti e di oggetti volanti. Ray Embrey, l’uomo salvato (Jason Bateman, il padre adottivo di Juno) è un esperto di comunicazione e persona di sani principi, che decide all’istante di ricambiare il favore, e offre a Hancock di ricostruirgli l’immagine assai ammaccata. Un supereroe dovrebbe essere amato, osannato, lo esorta, non odiato dalla cittadinanza, e i bambini dovrebbero chiedergli l’autografo invece di coprirlo di parolacce. Insiste che Hancock deve indossare un costume adeguato e imparare la buona creanza. Stufo e depresso, Hancock accetta e accompagna a casa Embrey. Presentato alla moglie Mary (Charlize Theron) c’è come una scossa elettrica quando gli sguardi dei
alcuni perché troppo effeminati). È indovinata la gag di fargli chiedere il permesso a una poliziotta in pericolo prima di toccarla, in osservazione delle regole contro la molestia sessuale. Alla fine, spazientita, la sbirra sbuffa: «Portami via da qui, per la miseria!». Nel terzo atto la storia cambia repentinamente registro e ci sono rivelazioni stupefacenti che solo un guastafeste racconterebbe. La Theron è brava, aggiunge gravitas, ma sembra uscita da un altro film e i due registri stonano. Dall’inizio sappiamo solo che Hancock è stato abbandonato da piccolo e cresciuto in orfanotrofio. Alla fine ci sarà una serie di rivelazioni tra il freudiano e il paranormale per spiegare il caratteraccio di Hancock. A Hollywood
scono a ottenere il visto necessario. Un giorno capita sotto i loro occhi un foglio che annuncia un torneo internazionale di palla a mano in Baviera. Non sanno nulla di questo sport, nemmeno che esistesse, ma decidono di tentare il colpo. Con l’aiuto di un amico col computer, creano una fantomatica «Nazionale cingalese di palla a mano», e la fittizia formazione è subito presa per autentica dalla federazione tedesca, felicissima di invitare la squadra a partecipare al torneo. La notizia si sparge subito tra i machan e alla fine partiranno in 23 per la Germania, forniti di divise improvvisate, regolari permessi e biglietti aerei prepagati. Profuma di verità la scena in cui Manoj rinuncia a partire all’ultimo momento. La sera prima aveva invitato tutta la famiglia a cena nel ristorante dell’elegante albergo in cui lavorava come barman. «Mi sono vergognato di loro», dice all’amico. «Se parto, temo che finirò per odiarli». Al suo arrivo, la «squadra» è festosamente accolta dai tedeschi, con tanto di striscione: Welcome Sri Lankan National Hand Ball Team. I cingalesi sono costretti a giocare la prima partita, con risultati prevedibili. Il giorno dopo la polizia arriva per arrestarli, ma loro si sono già dileguati nella notte alla ricerca di un futuro. Se nella prima parte la regia è più acerba, le storie individuali e l’ambientazione sono interessanti, e nell’ultima mezz’ora il film prende il volo. Giocato sui toni della commedia, tratta il tema dell’emigrazione con leggerezza e humour, e senza ricatti verso l’Occidente. Da vedere.
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pagina 12 • 13 settembre 2008
poesia
Né Oriente, né Occidente La solitudine di Hikmeth di Filippo La Porta l lettore mi perdonerà una interferenza autobiografica. Quest’estate infatti ho viaggiato in Turchia - la costa meridionale e la Cappadocia - e ho pensato di portarmi, tra l’altro, un libro di Nazim Hikmeth, il maggiore poeta di quel paese, nato a Salonicco quando era ancora turca, agli inizi del Novecento. Delle sue poesie esistono in Italia molte pubblicazioni e versioni. Mi è capitato di prendere un’antologia recente della Newton Compton (Poesie), con l’introduzione e traduzione (almeno parziale) di Joyce Lussu (insieme a Velso Mucci). Così ogni giornata era accompagnata dalla lettura di una poesia di Hikmeth, sorseggiando il raki, la bevanda nazionale, cantata in uno dei suoi versi: «oh l’odore dell’anice…».
cuore è sul ramo/ vorrei una notte di maggio/ questa notte di maggio/ sul lungosenna Voltaire/ baciarti sulla bocca». La poesiaritratto, come Non ha strappato le ali… dedicata a un amico straordinariamente mite, inerme, che prima di morire gli ha chiesto di cantare «la grandezza dell’uomo». La descrizione meticolosa di oggetti umili e figure del paesaggio: «Nel crepuscolo del mattino i pali telegrafici/ la strada/ nel crepuscolo del mattino l’armadio con lo specchio che luccica/ la tavola/ le pantofole». L’intuizione di una inquietudine metafisica, di una nostalgia misteriosa che ci incalza anche durante il sonno, «era qualcosa che non può giungere a sazietà». Il pathos della
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L’incontro con i versi di Hikmeth può anche essere sulle prime deludente. Osserva la Lussu che non era un letterato, che «non gli importava di scrivere ogni tanto poesie affrettate e imperfette» e che la poesia stessa era per lui «un linguaggio come un altro». Insomma si iscrive in quel grande movimento «antinovecentista» verso la prosa del mondo che caratterizza sempre più - alla distanza - alcune tra le maggiori figure della poesia moderna (da Saba a Machado, da Auden a Kavafis…). I suoi versi, semplici e diretti - benché in Russia negli anni Venti si fosse appassionato al movimento futurista e ai fermenti rivoluzionari nell’arte - confinano con l’autobiografia, con la prosa morale, con il diario intimo, con il manifesto politico (le parti stesse dei suoi poemi raccolte nel libro esprimono ancora di più questa inclinazione verso il teatro e la cronaca quotidiana). Fin da giovane militante comunista ha combattuto le tendenze autoritarie di Kemal Ataturk, grande riformatore laico e creatore della Turchia moderna, ma deciso a combattere l’opposizione con ogni mezzo. Naturalmente le poesie esplicitamente politiche sono oggi quelle più datate, e in particolare le odi quasi su modello Majakovskij in onore di Lenin (del quale portò il feretro) - ancora nel 1960: «quando dico Lenin/ c’è una serenità in me/ una fiducia negli uomini nella terra/ una gioia senza confini» -, anche se, bisogna riconoscere, Hikmeth, che ha trascorso buona parte della sua vita in Urss, scrisse due drammi satirici contro la casta staliniana dei burocrati. Il suo canzoniere si caratterizza per una estrema varietà di toni, registri espressivi, temi. La poesia amorosa, che anche in età adulta ha un sapore adolescente, incantato: «Finch’è ancora tempo, mio amore,/ e prima che bruci Parigi/ finch’è ancora tempo, mio amore, finché il mio
MAR CASPIO
Il suo verde marezzato e il suo blu dolcissimo. Ho passato il Mar Caspio in uno di questi giorni di seta. Davanti al nostro battello il mare stava spalancato come una porta senza battenti. La sua condizione innaturale mi ha colpito. Quale mare è chiuso come questo senza notizia mai degli altri mari? Quale mare è solitario come questo?” Nazim Hikmeth (1958)
natura, l’amore panico, estatico e anche tragico, per il mare: «mi porto un po’ della tua ghiaia/ un po’ del tuo sale azzurro/ un po’ della tua infinità/ e un pochino della tua luce/ e della tua infelicità». Ma anche il semplice amore per la propria terra, per il paesaggio dell’Anatolia, per i «campi di grano al chiaro di luna», l’identificazione simpatetica con la sofferenza del popolo: «Da ragazzo volevo fare il postino/ anche se nella mia Turchia/ questo è un mestiere duro:/ nelle lettere c’è dolore e tristezza,/ raramente qualche buona notizia». Di origine borghese-intellettuale conobbe il popolo, gli operai, i manovali, i contadini (le loro grotte e i loro canti) proprio in Anatolia, dove andò per un periodo a fare il maestro elementare. E dalla civiltà contadina sono tratte molte delle sue metafore e similitudini: le mani «leste come api», i «capelli lisci color del fieno», lui che si imbratta di mele «come fossero miele», le molte strade «polverose», oltre al variegato bestiario che popola le sue poesie (asini, lucertole, tartarughe…).
Nella poesia che ho scelto il Mar Caspio, chiuso da tutti i lati, è come spalancato di fronte alla barca dove si trova Hikmeth, proprio come una porta senza battenti. Immagine di desolazione e violenza (una porta divelta?). Nella solitudine di quel mare, cui non giunge notizia di altri mari, si rispecchia la solitudine del poeta, costretto all’esilio e alla reclusione per molti anni della sua vita (diciassette, quasi un terzo!), ma anche la solitudine del suo paese, che non è veramente Occidente né Oriente. E poi qui a essere «solitario» non è un luogo circoscritto (che so, un’isola) ma un mare, e cioè quanto vi è di potenzialmente più ampio, smisurato, quanto solitamente permette il contatto con gli altri… Non so se la Turchia, che si estende nei suoi spazi sterminati fuori dell’Europa, è «pronta» per entrare politicamente nella Ue, ignoro la legislazione sul lavoro, lo stato attuale dei diritti umani o il peso reale dell’integralismo sulla vita civile (aumentato con l’attuale premier Erdogan). So però che nel mio viaggio non ho mai incontrato manifestazioni di intolleranza e xenofobia; e soprattutto so che senza una voce come quella di Hikmeth, così essenziale, dolorante e insieme felice, la poesia europea del Novecento risulterebbe impoverita. Così scrive in Della vita, nel ’57: «Supponiamo di essere malati/ così gravi/ che occorra il bisturi/(…)/ rideremmo lo stesso/ ascoltando un aneddoto/ daremmo un’occhiata alla finestra/ per vedere se il tempo si mette alla pioggia (…)».
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il club di calliope POESIA PER LA RADIO Laida e meschina italietta. Aspetta quello che ti aspetta. Laida e furbastra italietta. Giorgio Caproni
«Ah, noi che veniamo prima siamo i soli a non poter parlare, a dire niente.» «La luce che vi manca è muro e morte, siete voci che indossano un parere, l’abuso d’ogni tempo non concesso e che rubate, quieti, a piene mani. Cosa sarà di voi a spento scranno col sonno d’indumenti negli armadi, scarpe pulite, abiti leggeri, anni di tempo d’una via che fugge? Oltre nessun confine è dato andare, brace di mondo che scompare piano, cognomi già invisibili nel vento, parole cancellate come impronte, lo splendore cui mai apparterrete.” Francesco Scarabicchi
ROBERTO CARIFI NEL FERRO DEI BALOCCHI in libreria
UN POPOLO DI POETI Sul filo teso io, acrobata inesperta, vertigini di piacere e paura, sopra una platea anonima e inerte. Con nitida voce e mano sicura guidavi il mio bendato passo lento. La donna che volevo diventare aspetterà sotto il tendone spento del circo ambulante, tutte le sere applausi invisibili e ti cercherà. Sono le stelle bugiarde a tessere ragnatele fatali di desideri o è la nostra natura essere pasto di noi stessi? La ragione è una sposa infedele.
Annalisa Cangemi
si deve vegliare, le ombre in equilibrio sui muri. si deve vivere in stanze piccole invecchiare con le fotografie di famiglia intinte nell’inchiostro degli anni. bisogna fissare una foglia e cercare consolazione e tornarsene a casa, ci saranno regali dietro le porte. si deve vegliare accostare le sedie al pallore dei muri. lasciare le luci accese e la fronte al buio bisogna portare la pace dei fiori. circondata dai sorrisi delle fotografie rimane composta, il dito indice indica il merletto o i fiori
Nonna Francesco Balsamo
di Loretto Rafanelli rediamo che sia una speciale occasione letteraria l’uscita dell’antologia Nel ferro dei balocchi di Roberto Carifi (Crocetti, 208 pagine, 15,00 euro). Il volume unisce tre libri dell’autore pistoiese: L’obbedienza (1986), Occidente (1990), Amore e destino (1993). Si tratta di splendide raccolte di uno dei maggiori poeti del panorama poetico italiano.Vorrei invitare chi non conosce questo autore a legger-
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re prefigura quel declino del nostro mondo occidentale che appare oggi ormai così attuale, con la perdita dei relativi valori e il passaggio al tempo del nichilismo, del nulla («Lungo la gora camminano ragazzi, soldati in marcia,/ il crepuscolo giunge per loro,/ di notte sanguina sui loro letti»). Infine Amore e destino, uno straordinario canto d’amore, un doloroso canto d’amore, perché l’assenza è ciò che qui si chiama
Per i sessant’anni dell’autore pistoiese, figura centrale nella produzione poetica degli ultimi anni, un’antologia della sua opera e una raccolta di interventi a lui dedicati lo e a chi lo conosce a rileggerlo, perché penso che qui vi sia uno dei vertici assoluti della poesia degli ultimi anni. L’intensità di questi versi ci procura ancora oggi una soddisfazione rara, una emozione profonda. L’Obbedienza metteva in luce uno dei temi ricorrenti della poesia di Carifi, quello dell’infanzia, pascolianamente considerata «un angelo bruciato» con la conseguente e necessaria «fedeltà altrettanto rigorosa a una terra desolata e secca». In Occidente c’è una penosa preveggenza: l’auto-
amore («Mi basterebbe la linea del viso/ accarezzarti lo sguardo, anche per poco,/ poterti dire quanto somiglia alla morte/ la tua assenza»). Questa antologia esce proprio al compimento dei 60 anni di Carifi, e si accompagna al volume L’inno che lacera i cortili (a cura di Massimo Baldi, Martino Baldi, R. Batoli, P. Buscioni, Settegiorni Editore), un omaggio all’autore, con interventi di critici e scrittori, un giusto riconoscimento a una figura centrale della cultura nazionale.
Ombre nel bianco, bianco oro della montagna, "da dove venite ma dov'è che andate?" lassù vicino al cielo rimane una bianca parete voi scendete a valle come meglio potete saltate qua e là come imbiancate cavallette non avete null'altro da fare mentre il blocco approda su tavole insaponate legato a una corda di canzoni bestemmiate
Canto per la cava Charlo
«Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma
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mostre
artita di spettri, disegnati ed elegantissimi, nell’incantata casa-museo Andersen, di Roma, a pochi passi dal Tevere, fuori porta Flaminia. Una buona occasione per conoscere questo delizioso piccolo ambizioso museo, in forma di palazzetto edoardiano-bostoniano, con intelligenza governato da Elena di Majo e progettato, tra milli cavilli burocratici, dallo stesso pittore-scultore norvegese, ma di cultura americana, Hendrick Christian Andersen. Che non ha nulla a che fare con il favolista danese delle sirenette, ma semmai con i sirenetti pruriginosi dell’epoca vittoriana anglo-americana (molto stile Forster o Another country, per intenderci) che sono in gran parte riconvocati qui, evocati da pastelli e olii, per imbandire questa sorta di stregata rimpatriata spiritica, molto, molto Agatha Christie. Non c’è il delitto, ma c’è un’atmosfera alquanto morbosa e morbida, soffocata e inconfessabile, come dimostra anche quella bellissima tela, insieme innocente e torbida, in cui Andreas, pure lui promettente ritrattista (come la mostra stessa documenta) stroncato giovanissimo dalla tisi, rappresenta l’amato e perdonato fratello Hendrick, sulla soglia dell’indolente risveglio, accanto a un altro amico, complice d’accademia e di innamorate letture ruskiniane, John Bridge Potter. Illustratore sofisticato, un gradino prima dello sfrontato Beardsley. Dettagli rivelatori: quella languida pettinata ai calzerotti mattutini, mai tolti forse nella notte, e una simmetrica carezza soffice al gattino di casa, intruso per nulla imbarazzato. Che cosa sia capitato la notte, non è lecito domandare, né poi così importante: perché è il clima che attrae, illuminando d’una certa bohème reticente, che non
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La bohème reticente della Roma di Andersen di Marco Vallora
arti
vuol sapere il proprio nome. Che è la stessa trasparente ambiguità che colpisce nello straordinario e denso epistolario, che il romanziere-dandy bostoniano, Henry James, dedica al suo pupillo Hendrik, conosciuto giovanissimo e forse segretamente amato, come lascia trasparire l’appellativo di «amato fanciullo», con cui rintoccano tante lettere. James conosce Andersen a Roma e gli acquista il busto d’un efebo perbenista, che si chiama, sventura sua, Alberto Bevilacqua. James qui non è solo, con la sua aria severa e le ghette da passeggiata, silente tutore stile Giro di vite, generoso di dediche al suo divino fanciullo. Che intanto diventa famoso, riempie il Villino Helène (in onore di Mammà, che ciecamente vigila su questi claustrofobici commerci) con voluminose sculture di giganti nudi e donnone virago, che quasi quasi esplodono dalla gabbia delle stanze, nel folle progetto d’una utopica metropoli ultranazionale: «Centro mondiale di Comunicazione». Così in villa arrivano via via illustri visitatori, da Umberto Nobile, che docile si fa ritrarre, alla debordante Sibilla Aleramo, da Giovanni Cena all’architetto Bazzani, da Marconi a Arthur Symons, il riscopritore-biografo di Rolfe, Baron Corvo, peccatore che si vorrebbe Papa. Ma perfino Benedetto XV si mette in posa, pendant ortodosso di Tagore. Nel silenzio dei corrodoi pastellati di dolore, scivolano lanquide signorine insoddisfatte quanto adoranti, così emaciate e impercettibili, che Virginia Woolf, al confronto, pare una sanguigna pastora romagnola. Casa Andersen, Personaggi e figure, Roma, Museo Hendrik C. Andersen, sino a fine settembre
autostorie
L’importanza di essere Enzo Ferrari
di Paolo Malagodi are volte succede che le casuali circostanze del decesso rispecchino lo stile di un’esistenza. Durata, come nel caso di Enzo Ferrari, oltre novant’anni a partire dal febbraio 1898, per concludersi il 14 agosto 1988 nella residenza modenese del celebre costruttore. Rispettandone le ultime volontà, la notizia venne diffusa solo il giorno dopo a esequie avvenute, di prima mattina e alla presenza dei più stretti congiunti: nella città deserta nessuno se ne accorse e per di più, complice la cadenza ferragostana, l’indomani i quotidiani non sarebbero usciti. In punta di piedi, usciva così di scena un personaggio sul quale «si sono scritti fiumi di parole. Famosi giornalisti, storici dell’automobilismo e illustri perso-
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naggi hanno dedicato la massima attenzione ai successi della sua leggendaria scuderia, al mito aziendale che ha saputo fondare e sviluppare a Maranello e alla sua enigmatica figura. Testi minuziosi, approfonditi, alle volte provocatori. Forse nella bibliografia motoristica internazionale è stato il personaggio più esplorato e analizzato a livello letterario». Così osserva Maurizio Valentini che, a vent’anni dalla scomparsa del mitico Drake, ha raccolto le frasi più celebri di Enzo Ferrari con «l’ambizione di voler raccontare il pilota, l’imprenditore, l’essere umano, attraverso le sue parole per comporre un autoritratto della sua personalità forte, rigorosa, discreta». Ne è scaturito un volume (Enzo Ferrari, Parole di passione, edizioni Artestampa, 120 pagine, 30,00 euro) dalla raffinata compo-
sizione grafica, con testo bilingue italiano e inglese, arricchito di rare immagini fotografiche e di artistiche tavole illustrate da Giorgio Alisi, Antonio Sassi e Mauro Barbieri. Dedicate ad alcuni intimi collaboratori di Enzo Ferrari, nonché alle vetture che portano in bella vista il fortunato emblema del Cavallino, ricevuto in dono dalla madre dell’eroico aviatore lughese Francesco Baracca. Tra le frasi comprese nella rassegna, diverse offrono tangibile testimonianza di una persona pervasa dalla passione per l’auto da corsa e che di sé diceva: «Sono uno che ha sognato di essere Ferrari»; così delle vetture che portavano il suo nome andava tanto orgoglioso da affermare: «Qual è la differenza tra una Ferrari e un’altra auto da corsa di un diverso costruttore? Che la mia si chiama Ferrari».
Una figura che sapeva trascinare, nella costante ricerca della perfezione, i componenti della sua squadra con frasi del tipo: «Una vera Ferrari può chiamarsi tale se scende in pista e vince, ma anche se perde si può chiamare Ferrari, perché i miei tecnici avranno imparato qualcosa di più e la porteranno a vincere nella gara successiva». Sono questi soltanto alcuni esempi dei numerosi aforismi raccolti nel lavoro di Maurizio Valentini, capaci di rendere vivo il ricordo di un uomo pronto a confessare candidamente che: «Quando vedo sfrecciare in pista le mie auto, spesso mi accade di commuovermi come facevo da bambino». Ma che, alla domanda sul perché non ambisse alla nomina di senatore a vita, orgogliosamente ribatteva: «A Maranello sono Ferrari. Se vado a Roma sono uno dei tanti…».
MobyDICK
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moda
Non più forma ma contenuto (organico) di Roselina Salemi a parola d’ordine è «organic». E anche la moda, dopo decenni di sperperi e garrulo consumismo, si adegua all’ansia bio-eco-compatibile, concentrata sulla preoccupazione per i materiali e la difesa di buone cause. Magliette di cotone? No! Di alghe, di soia, ricavate dalle proteine del latte e dalle fibre dell’ananas. Chiffon? Sì, purché bio come quello di Stella McCartney (ma anche Beltstaff, marchio tutto italiano ha le sue brave giacche in cotone «organico»), mentre le firme emergenti sbandierano la «moda di Kyoto» (che non fa male al pianeta), come la «dieta di Kyoto», che, grazie ai ristoranti «a chilometro zero», riduce le emissioni di anidride carbonica. In teoria sarebbe un nonsenso. Chi crea abiti da trentamila euro, tempestati di cristalli cuciti a mano da pazienti operaie cinesi, architetture che rendono difficile anche stare sedute o manda in passerella fastosi zibellini, resi quasi inutili da inverni sempre più tie-
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architettura
pidi, non può preoccuparsi del carburante inquinante degli aerei che servono per l’operoso viavai con Pechino. Né se ne preoccupano le fidanzate dei miliardari, affascinate dallo shopping e dalla gratuità (in senso sartriano) dello status symbol. Invece, in questa dilagante coscienza ambientalista, sino a poco tempo fa considerata uno snobismo tra i più superflui, gioca un nuovo fattore: un grande mutamento della mentalità occidentale. La moda ha smesso di essere forma (come è di fatto per gli oligarchi russi a caccia di ville e di legittimazione internazionale) ed è diventata contenuto, come dimostrano per esempio, le sculture viventi di Junya Watanabe. Una maglietta di Louella Bartley, o di Katherine Hammet comunica, non tanto o non solo una posizione sociale, un’appartenenza, ma una visione del mondo. Le scarpe vegane di Natalie Port-
man rappresentano soprattutto l’affermazione di un principio. I sandali di plastica di Gisele Bundchen costano poco e aiutano a salvare l’Amazzonia. Se non li avesse firmati lei, se non li portasse lei, sarebbero stati giudicati un gadget banale, punto e basta. Invece si moltiplicano le bibbie e i siti delle fashioniste politically correct. Così correct che non comprano più, ma scambiano vecchi vestiti negli swap party, riciclano, consegnano gli abiti smessi a TopShop, la catena inglese lanciata da Kate Moss, li trasformano in borse, si iscrivono ai vari Club delle frugalistas, cioè le rigorose neominimaliste, imparano persino l’uncinetto. Tutto ciò fa bene al mondo, non alla moda. Le toglie l’alone di sogno, la follia, la investe di imprevisti obblighi sociali. Una brutta T-shirt con una scritta ambientalista diventa indispensabile perché finanzia un rimboschimento, una famiglia di Panda, la tutela delle tigri con i denti a sciabola, un documentario sul riscaldamento globale. Ogni nuova collezione (e siamo alla vigilia di una nuova girandola di sfilate) avrà anche un suo metalinguaggio, una lettura psicologica che il mercato è pronto a cogliere. Conterà più la creatività o il messaggio? Organic o non organic, questo è il problema.
Lo chiffon bio di Stella McCartney e la maglietta “impegnata” di Louella Bartley
Bruno Morassutti da Taliesin a Milano
runo Morassutti, un architetto il cui nome oggi suona quasi sconosciuto al grande pubblico, fu nel secondo dopoguerra tra i protagonisti del dibattito architettonico italiano, particolarmente attivo nel panorama professionale milanese e veneto. È morto venerdì 5 settembre a Milano, la città nella quale ha lavorato e a cui ha legato alcuni dei suoi edifici più significativi. Nato a Padova nel 1920, Morassutti si forma all’Istituto Universitario di Venezia (Iuav), dove si laurea nel 1946. Dopo un breve tirocinio nello studio del fratello, nel 1949 parte per Taliesin, nel Wisconsin, per lavorare nel leggendario studio-laboratorio che, fondato da Frank Lloyd Wright per diffondere la nuova architetura, richiama giovani da tutto il mondo. Dal 1949 al 1950 a Taliesin, unico italiano, Morassutti condivide la quotidianità professionale con il maestro americano, da cui mutua soprattutto un vorace interesse verso la componente tecnologica dell’architettura. Tornato in Italia si associa dal 1955 al 1962 nello studio milanese con Angelo Mangiarotti, con il quale firma elegantissimi edifici industriali, piani urbanistici e anche oggetti di design, come la macchina da cucire Salmoiraghi del 1959. Le architetture di Morassutti, forgiate dal pragmatismo americano, sanno sintetizzare forme semplici e
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di Marzia Marandola geometrie elementari in un perfetto equilibrio tra funzionalità distributiva ed economia costruttiva del sistema. La loro riconoscibilità è generalmente affidata a elementi prefabbricati che, assemblati con estro innovativo, approdano a volumi originali e sempre diversi. La struttura costruttiva è fortemente legata all’immagine architettonica, tanto che gli edifici migliori si caratterizzano per la perfetta coincidenza tra forma e struttura. In molte opere è stata risolutiva, anche
sotto il profilo espressivo, la competenza tecnica di Aldo Favini, l’ingegnere che elabora le soluzioni strutturali, spesso mettendo a punto originali metodi costruttivi, soprattutto nel campo del cemento armato precompresso. Tra le opere più famose è la chiesa parrocchiale di Baranzate a Milano del 1956, divenuta un’icona della nuova architettura degli anni Cinquanta, dove si realizza una coincidenza paradigmatica tra formulazione architettonica e soluzione strutturale: un semplice volume parallelepipedo lungo 20 metri largo 14 metri e alto 10 è ordito da quattro pilastri che sostengono 6 travi di cemento armato precompresso su cui poggia la copertura; all’interno l’aula liturgica è interamente rivestita di pannelli di vetro traslucido. Particolarmente innovative sono le soluzioni per gli edifici industriali, come lo straordinario stabilimento Morassutti di Padova del 1959, contraddistinto da una copertura in lamiera piegata che collega travi scatolari esagonali anch’esse in lamiera e dove pochissimi elementi allestivano un raffinato tempio dell’era industriale, purtroppo demolito. Infine la strepitosa villa di Termini di Sorrento (1964, nella foto), che sotto una nivea copertura a vela su una struttura su colonne sottili, è impalcata come una preziosa teca di vetro, che spalanca la vista su Capri e la magnifica costiera amalfitana.
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i misteri dell’universo
a cosmologia è la scienza che si occupa della descrizione dell’universo su grande scala e della sua origine ed evoluzione. Elementi di cosmologia sono presenti nei più antichi trattati astronomici, provenienti dall’India e scritti in sanscrito (potrebbero essercene in tamil ancora sconosciuti perché l’immensa letteratura tamil disponibile nei templi dell’India meridionale è ancora ampiamente sconosciuta). Si ritrovano poi in lavori greci e latini e di Copernico, Keplero, Galileo, vedasi il monumentale libro I sonnambuli di Arthur Koestler (scritto dopo moltissime ore di discussione con Von Neumann, certo il massimo scienziato del Ventesimo secolo). Newton, forse il massimo scienziato di ogni tempo per la profondità e vastità dei suoi interessi, nonché per l’estrema onestà, non affronta questioni cosmologiche, dichiarando di ignorare l’origine della forza di gravità, hypotheses non fingo. Affermazioni cosmologiche riprendono con Laplace e nel Ventesimo secolo, da una parte basate sulla teoria della relatività generale di Einstein (in verità, di Hilbert, ma su questo ritorneremo) e sulla teoria dei plasmi di Alfvèn, dall’altra su scoperte astronomiche, quali il cosiddetto red shift, interpretato dai più come l’indicazione di un’espansione dell’universo, che sarebbe iniziato con un’esplosione da una singolarità iniziale, il big bang, così ironicamente definito da Hoyle che mai ci credette, avvenuta circa 18 miliardi di anni fa (un aggiustamento ad hoc fu necessario qualche anno fa quando si scoprirono stelle più antiche della nascita dell’universo…).
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Sono note con certezza quattro forze, due per le interazioni particellari, attive solo entro piccolissima distanza, quella gravitazionale e quella elettrica (da cui segue quella magnetica). Alcuni hanno proposto una quinta forza per spiegare una strana dinamica nell’espansione dell’universo e l’astronomo Van Flandern afferma che l’universo è infinito nello spazio, nel tempo e nel numero di forze, ciascuna con un suo tipico raggio di azione. La maggioranza degli astrofisici, eccettuati i seguaci del premio Nobel Alfvèn, ostracizzati dai colleghi mainstream, considera solo la forza di gravità; due generazioni si sono bruciate cercando di spiegare tutto con la relatività generale, e di inglobarvi le altre forze, senza ottenere nulla che non si possa ottenere con metodi più classici, come osservato da uno dei più grandi fisici italiani, Gianfranco Cavalleri, dell’Università Cattolica. Ora va osservato che la forza di attrazione di due stelle di massa cento volte quella del Sole e distanti un miliardo di km è circa pari alla forza di repulsione di due palline di protoni di un cm di diametro, particelle tutte di carica positiva, poste alla stessa distanza! La forza elettrica è immensamente più potente di quella gravitazionale e non considerarla è stato finora giustificato sostenendo che le cariche positive e
ai confini della realtà Non solo MobyDICK
gravità di Emilio Spedicato
La forza elettrica è immensamente più potente di quella gravitazionale, l’unica considerata dalla maggioranza degli astrofisici. Ma lo studio degli effetti elettrici che tanto influenzano la vita e il clima della Terra richiederà nuovi strumenti di analisi negative si bilancerebbero ovunque. Ora il modello gravitazionale è andato in crisi con la scoperta che le leggi di Keplero, valide in una galassia con riferimento al baricentro, sono ampiamente violate. Stelle distanti invece di muoversi sempre più lentamente al crescere della distanza sulla base della terza legge hanno velocità costanti. Stelle a neutroni si muovono
con velocità superiori a quelle di fuga (in un caso oltre 1000 km/sec contro la velocità di fuga di 300 km/sec), etc.
Sono state proposte varie soluzioni restando nel campo gravitazionale, fra cui quella di una massa oscura per la cui composizione si sono invocate fino a 200 tipi di particelle, ma che non sarebbe rivelabile. Una si-
tuazione simile a quella delle teorie a stringhe, dove si hanno affermazioni rispetto alle quali i più esoterici dogmi delle religioni sembrano banalità. Recentemente una serie di risultati sperimentali riguardanti in particolare i getti di cariche emessi dal Sole, hanno permesso di introdurre la forza elettro-magnetica nella evoluzione dell’universo, galassie e stelle, e quindi di rimuovere l’ipotesi della materia oscura. Sullo scenario che emerge si può leggere la monografia del fisico ungherese (Ungheria, terra di fisici e matematici!) Laszlo Kortvélyessy, di
cui qui citiamo solo alcuni punti: - il Sole emette elettroni che fuggono non legati gravitazionalmente; diventa quindi sempre più carico finché deve espellere protoni nelle esplosioni superficiali visibili al telescopio come bolle in esplosione; - la forze elettriche contribuiscono alla stabilità della galassia, ne determinano la forma, spiegano come tutte le stelle ruotino nello stesso senso; - gli effetti elettrici hanno influenza sulla vita e sul clima della Terra. L’introduzione del fattore elettrico crea modelli più complicati, ma così è l’universo, semplice e complicato, e sicuramente scoperte future richiederanno ulteriori strumenti di analisi.