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mobydick

SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

La nuova opera dei fratelli Dardenne

LA REDENZIONE DI LORNA di Anselma Dell’Olio alla fondazione del Festival del cinema di Cannes nel più a che vedere con combriccole e carriere, bizze e pregiudizi dei giurati, che 1946, solo due film belgi hanno vinto la Palma d’oro: Rosetta con i meriti dei film in concorso. La ex Festa del cinema di Roma, invece, Premio (1999) e L’enfant (2005), scritti e diretti dai fratelli Luc e con la sua giuria popolare, ha centrato il bersaglio premiando senza per la miglior Jean-Pierre Dardenne. Il loro nuovo film, Il matrimonio esitazioni il miglior film presentato due anni di seguito. (Ora che sceneggiatura all’ultimo di Lorna (Le silence de Lorna in originale, e avremo da risi chiama «festival», e non più «festa», e la giuria popolare dire sul cambiamento), esce in Italia dopo aver vinto sarà affiancata da una giuria «di esperti internazionaFestival di Cannes, il premio per la migliore sceneggiatura alla rasli», vedremo se ci sarà la stessa spassionata limè un film che cambia registro: segna sulla Croisette del maggio scorso. Il pidezza di giudizio dei semplici cittadini, film ha molti meriti, primo fra tutti l’interpreamanti di cinema e basta.) dal documentario al thriller alla fiaba. tazione della giovane attrice albanese Arta DobroMa torniamo ai fratelli Dardennes, che hanno coCon un insolito finale shi, che meritava il premio come migliore attrice, andaminciato la loro carriera come registi con una sessantiper i due laicissimi to invece a Sandra Corveloni, una Anna Magnani dei poveri, na di documentari, travasando nei loro film narrativi alcuni protagonista del prevedibile film brasiliano Linha de Passe di Walautori: un inno ter Salles. Ma questi sono i soliti pasticci combinati dalle giurie di adalla vita continua a pagina 2 detti ai lavori tipiche dei festival maggiori, per ragioni contorte che hanno

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ISSN 1827-8817 80920

Parola chiave Conflitto di Sergio Belardinelli Billy Bob Thornton non solo cinema di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Le scarnificazioni di Giorgio Caproni di Francesco Napoli

Nella zona grigia che piace a Le Carré di Pier Mario Fasanotti Il giorno che dimenticai mio figlio in ascensore di Maria Pia Ammirati

Con Monet (e compagni) sull’atelier-bateau di Marco Vallora


la redenzione di

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segue dalla prima stilemi del genere, come la macchina da presa a mano, l’assenza di colonna sonora musicale e il frequente utilizzo della luce naturale. Fino a Il matrimonio di Lorna le loro storie erano semplici e abbastanza lineari nel tono, e umanamente e psicologicamente complesse. Per nostra fortuna, dopo Rosetta, tremendamente depressivo e senza spiragli di luce, i Dardenne hanno cominciato a introdurre qualche soffio di speranza nelle loro sceneggiature, che si occupano quasi esclusivamente di diseredati, disperati, disoccupati cronici o come in Lorna, immigrati grintosi e spregiudicati. L’enfant è la storia di Bruno (il bravo Jérémie Renier) un giovane, bambinesco perdigiorno, che vive con il sussidio di disoccupazione della sua ragazza Sonia, e di furti fatti con la sua baby-gang. La teenager Sonia (Deborah François, meravigliosa) partorisce e torna a casa con il suo bambino, la trova occupata da estranei a cui Bruno l’ha distrattamente affittata. Poco dopo, con la stessa spensieratezza e improntitudine, il piccolo balordo vende pure il loro bambino, e solo la disperazione di Sonia gli darà la scossa necessaria per diventare consapevole e intraprendere un cammino che lo porterà a imparare le regole elementari dell’amore paterno e della responsabilità e della delicatezza dovute alla persona amata. Non è molto, ma è meglio della cupezza totale di Rosetta. Lorna è una giovane albanese immigrata a Liegi città (a differenza di altri film dei Dardennes, spesso ambientati a Seraing, il sobborgo di Liegi dove sono nati e cresciuti) che offre quel desolato paesaggio postindustriale che prediligono. Vive con Claudy (sempre Jérémie Renier, superbo attore che lavora sin da bambino con i due autori), un giovane tossicodipendente con il quale ha combinato un matrimonio, in cambio di denaro, per ottenere la cittadinanza belga. Claudy vuole disperatamente disintossicarsi e supplica Lorna di aiutarlo: chiede di essere chiuso a

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa a cura di Gloria Piccioni

chiave in casa, le affida il denaro per non cadere in tentazioni, e più straziante ancora, le chiede compagnia. Vuole sapere a che ora tornerà a casa, si offre di cucinare per lei, per darsi una regola, una struttura, per non ricadere nella nullità nera dell’eroina. All’inizio Lorna è sbrigativa con Claudy, impaziente; lei ha occhi e inte-

resse solo per lo stipendio che le dà il suo lavoro in lavanderia, per il fidanzato Sokol (Alban Ukaj), un albanese come lei, che viaggia per l’Europa da un lavoro nero all’altro, e per il gruzzolo che stanno accumulando per comprarsi un bar. La ragazza ha il fiato sul collo di Fabio, tassista e malavitoso (un eccellente, sempre credibile Fabrizio Rongione), che le ha organizzato il matrimonio

Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento) E.TI.S. 2000 VIII strada Zona industriale • Catania

lorna

tativi disperati di Claudy di liberarsi dall’eroina e cerca di convincere Fabio che non è necessario ucciderlo, che basta divorziare. Il tassista non ne vuol sentire parlare; ci vuole troppo tempo, è costoso, bisognerà pagare altri soldi a Claudy, e un’immigrata neo-divorziata che si risposa subito con un altro straniero irregolare desta troppi sospetti. Ma Lorna, sempre di più, è mossa da compassione per il suo falso marito dolce e docile che implora il suo aiuto. Quando Claudy, a ruota dall’eroina, vuole rifarsi, Lorna lo calma facendo l’amore con lui. È l’unico che da lei vuole solo tenerezza, attenzione. Per evitare la morte del ragazzo, Lorna gli chiede, in una scena dalla drammaturgia perfetta, di picchiarla. È più facile ottenere un divorzio veloce se ci sono prove di violenze domestiche. Claudy non ce la fa: è portato all’autodistruzione, non alla violenza contro le donne. Alla fine lei si procura una ferita da sola, e corre a farsi fotografare, a trovare una testimone e a fare la deGENERE nuncia. DRAMMATICO Ma è troppo tardi. Nel frattempo Fabio ha tolto di mezzo Claudy con DURATA un’overdose procurata. 105 MINUTI A questo punto il film vira in una direzione insoPRODUZIONE lita: dal racconto quasi BELGIO, FRANCIA, documentaristico al thGRAN BRETAGNA 2008 riller, che a sua volta si trasforma in una luminosa fiaba a favore della DISTRIBUZIONE vita. Lorna è convinta di LUCKY RED essere incinta di Claudy e non ne vuole sapere di REGIA abortire; il russo non ne JEAN-PIERRE vuole più sapere di spoE LUC DARDENNE sarla, e Fabio furibondo la trascina in clinica perINTERPRETI ché si liberi dell’ingomJÉRÉMIE RENIER bro. Le sequenze finali sono ben fatte e sconcerARTA DOBROSHI tanti. Molti critici hanno FABRIZIO RONGIONE invocato lo spirito - anzi, la spiritualità - di Robert Bresson. Forse ci sono dargli un aiutino, e il fidanzato Sokol è più punti in comune tra i laicissimi frad’accordo: «Tanto è solo un drogato: an- telli belgi e il regista di Il diario di un cuche quando si ripuliscono ci ricascono rato di campagna e Le diable, probablequasi sempre». Aggiunge che la polizia ment di quanto non si pensasse finora. non sospetterà nulla, dei tossici non Per quanto riguarda il titolo, Bresson sagliene frega niente a nessuno, sono solo rebbe deluso dalla trasformazione nel tiingombri per la società, e muoiono sem- tolo di «silenzio» in «matrimonio». Il bipre allo stesso modo. sogno di redenzione di Lorna non deriva Lorna sembra essere d’accordo, ma un dal suo matrimonio, ma da quello che po’alla volta si lascia coinvolgere nei ten- non dice al marito. Da vedere. d’interesse, e che non vuole un Claudy disintossicato, ma morto di overdose, per poter guadagnare un altro malloppo facendo sposare l’eventuale vedova neo-belga a un mafioso russo, a sua volta interessato a regolarizzare la sua permanenza in Belgio a caro prezzo. Se poi Claudy non dovesse collaborare, e si disintossica davvero, ci penserà Fabio a

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parola chiave

er riflettere in modo adeguato sull’idea di conflitto sociale ci vuole una teoria della società, diciamo pure, una determinata concezione dell’ordine sociale che tenga unita la società, nonostante i conflitti. Sociologicamente parlando, il conflitto è sempre sia un effetto che una causa della pluralità: pluralità degli interessi, dei punti di vista, delle opportunità. Più c’è pluralità e più ci sono conflitti; più ci sono conflitti e più aumenta la pluralità. Possiamo pertanto affermare che non ci sarebbe alcuna evoluzione sociale se non ci fossero conflitti. La capacità della società di rendere possibili i conflitti e, al tempo stesso, di limitarli costituisce un presupposto irrinunciabile per la sua evoluzione. Nelle società del passato, strutturate secondo la famosa «comunità» di cui parlava Ferdinand Toennies, dove gli individui «erano uniti nonostante tutte le separazioni», tanto era forte il legame sociale; in queste società, dicevo, la preminenza spettava all’ordine. Non che i conflitti non esistessero; esistevano eccome e assumevano spesso le forme virulente della guerra; ma venivano repressi, non erano endemici, costituivano una sorta di accidente rispetto all’ordine che essere doveva mantenuto, un ordine metafisico che scaturiva addirittura dalle leggi del cosmos. Si pensi al Timeo platonico. Diverso invece è il discorso nelle nostre società complesse, dove, sempre per usare un’immagine toenniesiana, gli individui sono «separati nonostante tutte le unioni». Qui abbiamo un grande incremento dei conflitti; il conflitto diventa endemico all’interno di un ordine, il quale non rappresenta più lo sfondo metafisicamente determinato sul quale hanno luogo accidentalmente i conflitti, ma si configura piuttosto come una sorta di risultante accidentale dei conflitti stessi. Il conflitto cessa di essere dunque un’anomalia da superare, l’ostacolo che si frappone al raggiungimento di un’unità ordinata, e diventa invece una realtà all’interno della quale soltanto ha ormai senso pensare l’ordine e l’integrazione sociale e politica. È appena il caso di sottolineare come la nostra cultura e le nostre istituzioni liberal-democratiche rappresentino, tra le altre cose, anche una risposta (una felice risposta) a questa complessità.

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La nostra società appare senz’altro caratterizzata da questa preminenza del conflitto rispetto all’ordine. Ho tuttavia seri dubbi che ci si debba semplicemente limitare a prenderne atto, quasi che l’ordine, la normatività o la normalità siano ormai pensabili soltanto come effetti casuali, tempo-

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CONFLITTO È necessario all’evoluzione della società. A patto che non diventi preminente rispetto all’ordine, disgregando il senso di unità tra gli individui. Ciò che invece accade oggi. Così il trionfo della differenza produce indifferenza e alla fine disumanizzazione...

Rifondare il bene comune di Sergio Belardinelli

un modo, ma domani potrebbero anche stare diversamente. Una sorta di mondo come volontà senza rappresentazione (l’espressione, straordinariamente bella e profonda, è di Niklas Luhmann), dove il cosiddetto «pensiero debole» sembra danzare davvero il suo tripudium. Come spesso succede, però, anche in questo caso si produce, e noi incominciamo a intravederla, una sorta di eterogenesi dei fini: se da un lato sono aumentate e continuamente aumentano per gli individui le possibilità di scegliersi percorsi personalizzati in ogni campo d’azione (cosa che di per sé non è affatto un male); dall’altro questo che sembra essere un vero e proprio trionfo della differenza produce di fatto un indebolimento della stessa. Se tutto è possibile altrimenti, allora anche la differenza diventa indifferente. E i vari sistemi sociali - dalla scienza alla politica, dai mass media all’economia - funzionano non a caso come se l’uomo non esistesse; i conflitti tendono a essere risolti secondo istanze «funzionali», più secondo che istanze «umane». Tutto sembra gratuito e nel contempo tutto sembra sottostare alla più rigida necessità.

Come è dunque

«Ogni comunità si costituisce in vista di un bene» si legge all’inizio della “Politica” di Aristotele. Le grandi questioni del nostro tempo producono divisioni che non basta risolvere con la logica del consenso. Ora più che mai occorre riconciliare ciò che è umano con ciò che è sociale ranei, contingenti del grande gioco dei conflitti. Mi sembra infatti che sia proprio la speciale natura dei conflitti con i quali dobbiamo fare i conti nelle società odierne a mettere in crisi questa concezione dell’ordine sociale; una concezione che, se lasciata a se stessa, potrebbe mettere in discussione i fondamenti stessi della nostra cultura e delle nostre istituzioni liberaldemocratiche. Ciò che intendo dire, in estrema sintesi, è che il sistema liberaldemocratico funziona come elemento di legittimazione e di gestione dei conflitti finché questi ultimi, per quanto virulenti, continuano a configurarsi come dialetti di una medesima lingua, non quando diventano lingue incommensurabili tra loro. Ma andiamo per ordine. La perdita di senso unitario del mondo, della società e delle singole coscienze individuali veniva vissuta da autori come Weber o come Carl Schmitt con un profondo pessimismo. «Non abbiamo davanti a noi la fioritu-

ra d’estate, bensì per prima cosa una notte polare di fredde tenebre e stenti», scriveva Weber in Politik als Beruf. La lucida visione di un mondo disincantato grazie alla sua organizzazione burocratico-scientifico-tecnologica, la consapevolezza del tramonto delle grandi concezioni metafisico religiose, l’avvento di un’epoca di politeismo dei valori in perenne conflitto tra loro sono per questi autori non soltanto un frutto inevitabile della conoscenza e dell’evoluzione sociale, ma anche un frutto molesto, addirittura tragico. Oggi questa endemica preminenza del conflitto sembra essere diventata invece un pretesto per esaltare la differenza, la frammentazione, la creatività o la nascita di una nuova individualità che perde le sue «caratteristiche violente», come direbbe Gianni Vattimo. Non ha più senso distinguere il vero da falso, il senso dal non senso, uno stile di vita da un altro; una coppia eterosessuale da una omosessuale; si vive ormai in forma «ipotetica»; oggi le cose stanno in

possibile impedire che una conflittualità endemica, segno di per sé di una società viva e vitale, conduca alla disumanizzazione della società stessa? «Ogni comunità si costituisce in vista di un bene», si legge all’inizio della Politica di Aristotele. Ebbene a me pare che più i conflitti si fanno virulenti e più dobbiamo ritematizzare una qualche nozione di «bene comune». È stucchevole che nella nostra società si aprano ormai conflitti su questioni che sono letteralmente questioni di vita o di morte, senza che la consistenza delle diverse opinioni in materia possa dipendere, non tanto e non solo dal consenso che sono in grado di raccogliere, quanto dalla cosa stessa. Il consenso, sia detto a scanso di equivoci, ha rappresentato e rappresenta a tutt’oggi un prezioso strumento di gestione e di legittimazione dei conflitti. Ma sul tappeto ci sono ormai questioni (le biotecnologie, la dignità dell’embrione umano, l’ambiente ecc.), le quali surriscaldano a tal punto il conflitto sociale, da produrre divisioni ingestibili secondo la semplice logica del consenso. Non si tratta ovviamente di riproporre lo «Stato etico», un modello di società in grande, una «città ideale» da realizzare magari contro la volontà dei diretti interessati, i cittadini; sarebbe già molto, però, se si riuscisse a sottrarre i diritti di questi ultimi alla loro comprensione soggettivistica e, contemporaneamente, a riconciliare ciò che è «umano» con ciò che è «sociale».


musica Billy Bob Thornton MobyDICK

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cd

monica a bocca che non guasta mai. Soprattutto se di mezzo c’è una country music anni Sessanta, garrula e ironica. Quella che griffa il doppio cd The Boxmasters Featuring Billy Bob Thornton puntando sullo scintillìo di pezzi come The Poor House, Build Your Own Prison e I’ll Give You A Ring. Sottolineo: due dischi. Giacché il primo, intitolato Ours, si affida a canzoni scritte da Thornton che oltre al country palpeggiano l’hillbilly (The Last Place They Would Look), un classico lento da mattonella (The Work Of Art), il rockabilly (That Mountain) e una melodia tout court (2-Bit Grifter). Il secondo, Theirs, compie invece un’autentica magia d’archivio. Quand’era teenager, Billy Bob s’innamorò dei gruppi della cosiddetta British Invasion: Beatles, Rolling Stones, Animals, Kinks…Che scalarono le classifiche americane contro ogni pronostico. Perché, allora, non fondere il country alla Johnny Cash, Merle Haggard e Buck Owens con quel fior di Beat? Detto e fatto: il trio ha scelto I Wanna Hold Your Hand dei Beatles e l’ha trasformata in un prodigioso country più che mai western. Stesso maquillage per The Kids Are Alright degli Who e per Original Mixed Up Kid dei Mott The Hoople (in verità fuori dai Sixties, ma pur sempre gioiello british in terra a stelle e strisce). Il tutto, condito dalla rivisitazione di gemme locali come Some Of Shelley’s Blues (Nitty Gritty Dirt Band) e House At Pooh Corner (Loggins & Messina). Risultato: un album vintage indossato dal buon Thornton senza fare una grinza. Per una volta, il cinema può attendere.

L’uomo che non c’era prestato al country-rock di Stefano Bianchi mmetto d’averlo snobbato. Beninteso, non quand’era davanti alla macchina da presa a recitare da anonimo e taciturno barbiere (L’uomo che non c’era, 2001) o da Santa Claus lercio e ubriacone (Babbo bastardo, 2003). Billy Bob Thornton, va da sé, è un attore talentoso come pochi altri. Ho sottovalutato, semmai, il Thornton musicista nella convinzione che fra un ciak e l’altro strimpellasse country alla bell’e meglio. Ma poi ho scoperto che dal 2001 al 2007 ha inciso un poker di dischi niente male (Private Radio, The Edge Of The World, Hobo, Beautiful Door) setacciando con mestiere rootsrock e blues. E che la sua faccia, segnata da un

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bel po’ di stravizi, s’è fatta notare prima sul palco che al cinema. A Billy Bob, infatti, la musica sorride fin da quando nella natìa Hot Springs (Arkansas) prese ad ascoltare Elvis Presley, Jim Reeves, Captain Beefheart e le Mothers of Invention. Nel 1974, diciannovenne, segue on the road la Nitty Gritty Dirt Band per poi transitare da una formazione all’altra (Hot Lanta, Nothin’ Doin’ e Tres Hombres, con questi ultimi a scimmiottare il southern rock degli ZZ Top) mettendosi in mostra come vocalist e batterista. L’uomo che non c’era, insomma, quando canta c’è eccome. E con J.D. Andrew e Michael Wayne Butler (nella foto insieme a lui, al centro, ndr) s’è inventato la band dei sogni, The Boxmasters, concentrando le sonorità su chitarre elettriche, dobro, lap e pedal steel, corpose rullate e un’ar-

in libreria

The Boxmasters, The Boxmasters Featuring Billy Bob Thornton, Sawmill Records/Edel, 20,60 euro

mondo

riviste

SU E GIÙ CON AMY WINEHOUSE

I CURE FANNO TREDICI

COVER CHE PASSIONE

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eter Fruit, un veterano della scena punk di New York della fine anni Settanta, è stato incaricato di scoprire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità sull’ascesa e le repentine cadute della nuova stella mondiale della musica: Amy Winehouse. Seguendo il suo istinto, Peter atterra nella Londra di oggi e, oltre a ricostruire una minuziosa biografia dell’artista (Su e giù con

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otto l’egida scaramantica del numero 13, il 13 ottobre è in arrivo il tredicesimo album dei Cure. Preceduto da alcuni singoli come The Only One, Freakshow, Sleep When I’m Dead e The Perfect Boy, che faranno parte dell’Extended Play di remix Hypnagogic Stat, il nuovo lavoro di Robert Smith e soci sarà intitolato 4:13 Dream. «Una tracklist più accura-

na manciata di cover di pezzi più o meno noti, interpretate da musicisti più o meno affermati: in comune c’è che la versione ”nuova” di queste canzoni ha lasciato il segno distinguendosi dalla vecchia». Mescalina.it presenta così uno speciale dedicato alla passione per i rifacimenti, i rimaneggiamenti di grandi successi capaci di conferire all’originale sfumature inedi-

Esordi, vizi e virtù del nuovo fenomeno discografico mondiale nella biografia di Peter Fruit

Preceduto da alcuni singoli, esce il 13 ottobre ”4:13 Dream”, nuovo album di Smith e soci

Su “mescalina.it ” una galleria dei rifacimenti più originali e riusciti del panorama musicale

Amy Winehouse, Kowalski Editore) mette a nudo con ironia anche «i meccanismi, i luoghi comuni e i cliché con cui il sogno di diventare una rock’n’roll star si traduce in una sorta di incubo». Dice Fruit: «Da dove proviene il fenomeno discografico mondiale? Amy comincia a suonare in un pub nel Southgate, perché tutti iniziano in un pub. Incide un demotape, perché tutti prima o poi incidono il proprio demotape. Il suo cd viene passato nelle mani giuste da un amico, Tyler James, perché tutti quelli che ce l’hanno fatta hanno avuto l’amico giusto al momento giusto. Solo che poi pochi funzionano. Amy ha funzionato».

ta che mai», garantisce il frontman della band britannica, che si è divertito a ridisegnare il sound del gruppo avvalendosi della collaborazione di quotati ingegneri acustici: da Jade Puget degli Afi e Gerard Way dei My Chemical Romance, per finire con Pete Wentz e Patrick Stump dei Fall Out Boy e 65 Days Of Static. Contemporaneamente alla registrazione del nuovo album, Smith lavora a editing e missaggio di un cofanetto in dvd, contenente alcune performance come Show, The Cure in Orange e un concerto tratto dal Prayer Tour del 1989.

te, per riuscire addirittura a vivere di luce propria nei casi di maggiore ingegno. La galleria è ricca di echi e suggestioni, che i lettori stessi hanno contribuito a ravvivare con le loro proposte e acuti commenti. Si passa da All along the watchtower, che Jimi Hendrix seppe portare sulle soglie del capolavoro, nonostante la matrice dylaniana, ad Hallelujah di Jeff Buckley, la cui voce incrinata colmò di lugubre malinconia l’indimenticabile composizione di Leonard Cohen. Non mancano anche due italiani saliti alla ribalta: Ferruccio Spinetti e Petra Magoni, nella loro spoglia e tersa versione di I will survive.

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zapping

Dickinson fa l’aviatore e Jovanotti o’ zappatore di Bruno Giurato vviva le forme alternative di promozione. La crisi di vendita dei cd, deflagrazione continua di star e starlette costringe gli artisti a nuove idee per rendersi riconoscibili e amabili. Un’esplosione di creatività non musicale, ma pratica, che ci lascia meravigliati. Per esempio c’è quello che si dà all’agricoltura. Jovanotti ha preso zappa e carriola e ha piantato personalmente venti alberi a Cagliari. Per compensare le emissioni di Co2 del suo tour verranno interrati complessivamente 2.262 alberi in diverse città italiane. Se ne occuperà personalmente Lorenzo? Non sappiamo. Poi c’è chi mette il suo spirito di servizio a disposizione degli utenti in difficoltà. Ad esempio Bruce Dickinson, il feroce cantante degli Iron Maiden. A seguito del fallimento di una agenzia di viaggi molti turisti inglesi sono rimasti intrappolati nei luoghi di villeggiatura. Il buon Dickinson, pilota d’aereo per hobby, ha riportato a casa trecento villeggianti dall’Egitto e dalla Grecia. E c’è anche chi si dà al mestiere di telefonista (in un call center?): una compagnia telefonica americana permette ai suoi abbonati di parlare personalmente con Janet Jackson, Stevie Wonder, Jonas Brothers. Dopotutto ce lo dovevamo aspettare. Con i giornali che non negano a nessuno un quarto d’ora di celebrità, con la tv sempre più affollata di eroi per un giorno, era destino che gli artisti dovessero fare il percorso inverso, avvicinarsi al pubblico. E noialtri del pubblico possiamo sognare: per esempio Claudio Baglioni che, invece di presentare film e dischi all’Hotel Hilton, canta Porta Portese con la chitarra, in una fraschetta di Velletri. Non dovrebbe nemmeno cambiarsi il gilet.

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jazz

classica

Nella piccola Atene col Maestro de Pablo di Jacopo Pellegrini i ritorno dalle vacanze, prima di lasciarci nuova- affinare i propri lavori sotto la guida di un maestro ricomente travolgere dalla vita musicale attiva (già in nosciuto della Nuova Musica europea, Luis de Pablo. Tapieno fervore, peraltro), soffermiamoci un istante lenti freschi, estroso se non sempre controllato il primo, su due notizie, lieta l’una triste l’altra, utili en- all’insegna d’un asciutto costruttivismo il secondo, chiatrambe a suggerirci qualche spunto di riflessione non mati a misurarsi con un genere, il Trio per violino violoninutile. Della prima, a rigore di termini, non sarebbe cor- cello pianoforte, tanto favorito in età classica e romantiretto riferire; d’una serata tra amici, infatti, non si dà cro- ca, quanto poco frequentato nell’ultimo secolo: eccezione naca, tanto meno critica. In fondo, di quesomma, il Trio di Ravel, posto in coda al sto si tratta, seppure a carattere allargato: concerto, che includeva anche una pagina un laboratorio per giovani compositori tedensa e austera dello stesso Pablo. A ganuto in una sede privata da un illustre raprantire l’alto livello delle esecuzioni (nulla presentante della categoria e coronato da è lasciato al caso dalle parti di Banna), un concerto (a inviti) che includa anche i l’impeccabile senso della misura, la musifrutti maturati in seno al corso. Eppure, calità infallibile del Trio di Parma. l’ardimento, intellettuale e operativo a un Da un contesto volutamente «reservato» a tempo, lo slancio spirituale messi in opera un ambito pubblico: l’estate s’è portata via da Orsola e Gianluca Spinola di tra le mucon sé, Ubaldo Mirabelli, 87 anni, per quara della loro tenuta rurale a Banna, in prosi un ventennio (1977-95) sovrintendente al vincia di Torino, non sono moneta così corTeatro Massimo di Palermo; e poi, storico rente da poterli passare sotto silenzio. Culdell’arte, critico musicale sul Giornale di tore e collezionista d’arte questi, musicista Sicilia, erudito di sconfinato sapere, gentiluomo schietto, narratore facondo e pieno di formazione quella, hanno voluto e sapudi fantasia, fino all’ultimo agitato da inteto trasformare una fattoria immersa in roressi irrefrenabili (ancora durante l’ultimo seti incantati e laghetti di ninfee in un noricovero ospedaliero si accaniva dietro a vello Elicona (dimora delle muse), in una questioni di logica matematica e, insieme, piccola Atene dei tempi nostri. Non dico Luis de Pablo disquisiva con un filo di voce sulla trilogia per dire o per cedere alla facili tentazioni eschilea dell’Orestea musicata da Darius della retorica, alle pur sacrosante ragioni della gratitudine; si tratta di valutare fatti, Milhaud nella traduzione di Paul Claudel). di guardare in faccia la realtà che ci circonda e poi trarre Gli stessi interessi che, quasi a compensare la cittadinanconseguenze le più serene e obiettive possibili. Mentre za per la chiusura del Massimo, reso inagibile dall’infame Stato, banche, imprenditori fuggono dal mondo della cul- trafila degl’interminabili restauri, lo spinsero ad assiepatura, a meno che non si tratti di «eventi» dalla sicura ri- re le stagioni del lungo esilio al Politeama di titoli inconcaduta in termini d’immagine, popolarità e, prima di tut- sueti, scelti in base a precisi filoni di ricerca: l’opera itato, voti (emblematici, in questo senso, i casi del fastoso, liana della Generazione dell’Ottanta (Respighi, Casella, onnicomprensivo MiTo, tutto un avanti e indietro tra To- Malipiero), rarità francesi e tedesche dell’Otto e Novecenrino e Milano, o del Festival Verdi a Parma), ecco due to, l’operetta danubiana e parigina. Cultura, inventiva, amanti delle cose belle impegnare i propri averi per dar amore per il teatro e anche dignità nel fingere di credere corpo a una fondazione che offra spazio alla creatività di alle false promesse della politica sui tempi di consegna artisti visivi d’ogni età, occasioni di crescita a promesse della sede principale (nelle conferenze stampa ripeteva della musica (www.fondazionespinola-bannaperlarte. ogni volta «tra due anni avremo il Massimo», e intanto il org). tempo passava…). Perché regola di Mirabelli è sempre Quest’anno è toccato all’italiano Matteo Franceschini e stata quella di servire le istituzioni, mai di servirsene. allo spagnolo Manuel Escribá il privilegio di concepire e Una lezione che conserva intatto il suo valore esemplare.

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C’era una volta l’Impulse Records

di Adriano Mazzoletti cco un libro che non dovrebbe mancare nelle librerie di ogni appassionato di jazz, così come non dovrebbero mancare i dischi Impulse. Ashley Kahn nel suo The House That Trane Built pubblicato da Il Saggiatore con titolo inglese e con sottotitolo in italiano, La storia della Impulse Records, racconta con dovizia di particolari e in modo affascinante la storia della casa discografica fondata nel 1960 dal trombettista Creed Taylor e lanciata nel 1961 da Bob Thiele, due fra i più intelligenti produttori americani. Nata dalla costole dell’ABC Paramount, la Impulse in quasi vent’anni ha immesso sul mercato oltre duecentotrenta dischi, ma ha soprattutto segnato un’epoca importante della storia del jazz, quella che viene ormai indicata come «l’era

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John Coltrane

John Coltrane». L’autore divide in otto periodi l’intera produzione. Nel primo che copre gli anni che vanno dal 1954 al ’60, prima cioè della nascita della Impulse, viene raccontato il periodo di gestazione, quando Creed

Taylor si improvvisò produttore discografico e con determinazione creò in seno all’ABC Paramount una sezione jazz. Accanto alle incisioni di celebri cantanti come Paul Anka, vennero pubblicati i primi dischi di Ray Charles che aveva abbandonato Atlantic, di Chris Connor e dei primi esperimenti vocali di John Hendricks e Dave Lambert che sfociarono in seguito nel Vocalese, che consisteva nell’eseguire con parole celebri arrangiamenti e assolo dei grandi del jazz. Ma fu con il primo disco Impulse The Great Jay and Kay del duo di trombo-

ni Jay Jay Johnson e Kay Winding che la nuova etichetta si impose subito all’attenzione. In seguito, con il celebre Genious+Soul=Jazz di Ray Charles e Out of Cool di Gil Evans, Impulse si affermò definitivamente. Inizia così il secondo periodo che si apre con Africa Brass di John Coltrane a cui seguono incisioni di Art Blakey, Max Roach e con il celebre secondo disco di Coltrane registrato dal vivo al Village Vanguard di New York. Il volume di Ashley Kahn prosegue con la storia di questa casa discografica, della grande capacità di Bob Thiele e soprattutto della descrizione, minuto per minuto, delle sedute di incisione dove nacquero le opere immortali dei grandi del jazz degli anni Sessanta e Settanta. Ashley Kahn, The House That Trane Built. La storia della Impulse Records, Il Saggiatore, 340 pagine, 35,00 euro


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narrativa

libri

Nella zona grigia che piace a Le Carré uno stupore legittimo, ma anche falso, quello procurato dalla rivelazione di John Le Carré: «Sì, c’è stato un momento nella mia vita in cui sono stato tentato di passare dall’altra parte». E poi la precisazione, più umano-letteraria che non politica: «Ero curioso». I maligni direbbero che il vecchio maestro della spy-story nonché ex spia dell’impero britannico (il suo nome vero è David Cornwall ed è nato nel 1931) ha mosso le acque del marketing. Con una frasetta ambigua ha dato un bel lancio alla sua immagine di scrittore. E scrittore a titolo pieno Le Carré rimane, al di là della ormai lagnosa distinzione di generi. Indubbiamente il più raffinato narratore, ben lontano dalle simpatiche caricature di Jan Fleming con il suo 007, certo amabile, ma troppo vicino al marito di Barbie, la bambolina, per essere considerato credibile. Non sono invece per nulla giocattoli le creature di Le Carré, il quale anche in questo suo ultimo romanzo entra sapientemente nelle pieghe più sporche e segrete della storia contemporanea. Se il buon romanzo è specchio di realtà e analisi delle pulsioni umane, la vicenda di Yssa, giovane misterioso ceceno di fede islamica, è l’insetto attorno a cui l’autore tesse una ragnatela sicuramente immaginaria, ma con tali e tanti addentellati alla verità cronistica e di costume che il lettore non sospetta minimamente di trovarsi dentro un labirinto di plastica. Yssa (che in

È

di Pier Mario Fasanotti arabo, tra l’altro, significa Gesù) è un clandestino finito ad Amburgo. Aria da fanatico, sofferente nel fisico e nell’anima, elegante nei modi, svela a poco

a poco le sue frastagliate origini familiari: è un disvelamento che procede con lentezza, ancora più accentuata se la si paragona al trambusto che la sua presenza provoca in Germania.Yssa ha un nome russo (Karpov), ma ripete di disconoscere il pa-

dre e le sue atrocità al tempo dei Soviet. Conserva tuttavia una parola chiave che gli potrebbe aprire le porte di un conto bancario, le cui origini coinvolgono un finanziere britannico che soggiornò a lungo all’Est. E poi ci sono i servizi segreti al comando dello sbrigativo e lucido Bachmann, il quale non fa mistero del disprezzo che nutre verso «la spiocrazia tedesca… l’intelligence del Bundestag attorniato da gente che si faceva in quattro per scaricare il barile di merda e chiamarsi fuori». C’è stato un 11 settembre in America, ma ce n’è stato un altro proprio ad Amburgo visto che proprio qui hanno vissuto Mohammed Atta e altri attentatori delle Torri Gemelle. L’intricato presente s’intreccia con il passato: ad Amburgo era nata Urlrike Meinhof, quella appunto della famigerata e ultrarossa Baader-Meinhof, poi addestrata dagli arabi. In una terra che ha ospitato campi di concentramento e sarebbe tanto piaciuta a Hitler come città natale, si configura quel che tanto attira (pare anche nella vita personale) Le Carré, ossia «la zona grigia». Un terreno dove tutto può diventare possibile a patto di compiere un passo, anche un passo breve. Una zona che appartiene da sempre alla storia, ma anche all’anima. John Le Carré, Yssa il buono, Mondadori, 344 pagine, 20,00 euro

riletture

Inno all’Italia che fu (e potrebbe essere) di Gennaro Malgieri i tanto in tanto, dai piani meno frequentati della mia biblioteca, riemergono, come per incanto, libri che sono veri e propri balsami versati sulle ferite spirituali e culturali. Di questi tempi, alla ricerca di motivazioni che alleviassero le angosce provocate dalle pubbliche vicende, mi è letteralmente caduto tra le mani un vecchio libro di Giovanni Papini, ingiustamente considerato tra i «minori» dello scrittore fiorentino: Italia mia che l’editore Vallecchi pubblicò nel 1939. Sì, un balsamo. Un unguento. Una pozione quasi miracolosa. Infatti, rileggendolo tutto d’un fiato, mi sono rafforzato nella convinzione che questo nostro Paese non merita la decadenza alla quale sembra essere inesorabil-

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mente avviato. Lavorando sulla materia che costituisce l’identità del popolo italiano, Papini ne ravvisa i caratteri, ne mette in luce i meriti, ne esalta le conquiste, ricorda il travaglio che ha avuto nel costituirsi come nazione. E soprattutto pone in risalto il senso di una storia lunga sostanzialmente trenta secoli, a suo dire, compendiando in essa le origini pre-romane e romane dell’Italia. Ne viene fuori un’immagine di grandezza e di bellezza che con nostalgia scorre davanti agli occhi del lettore il quale, magari dopo essersi immerso nei soliti notiziari giornalistici, rileggendo queste pagine si domanda se davvero il nostro Paese ha conosciuto stagioni più fortunate al punto da dare il tono, direttamente o indirettamente, alle varie epoche che hanno segnato la storia dell’Europa. Un inno all’Italia?

Per Papini va benissimo. E non lo sfiora neppure la possibile accusa di retorica. Al punto che rivolgendosi a un ideale straniero che pure loda abitualmente paesaggi e monumenti italiani, rileva con rammarico che tuttavia «quasi nessuno pensa con affetto a questo popolo antico, fatto quasi sacro dalle glorie e dalle sventure, e senza il quale l’Europa non sarebbe l’Europa e il mondo apparirebbe infinitamente più opaco più misero più barbaro». Oggi cosa direbbe Papini della «sua» Italia? Sicuramente il giudizio sul passato non risulterebbe mutato, ma il presente lo avvilirebbe almeno quanto avvilisce chi vede svanire, giorno dopo giorno, quella bellezza e quella grandezza che lo scrittore, con entusiasmo quasi infantile esaltava nelle pagine del suo libro, non certo gratuitamente,

ma perché consapevole della capacità degli italiani di primeggiare anche quando sono assediati dalle difficoltà: «Calpestato dai barbari s’è sentito più grande di loro; costretto ad essere mercenario ha mostrato il suo valore per farsi degno di libertà; oppresso dalla povertà ha saputo vincerla colla vita sobria e la caparbia fatica; umiliato dai potenti ha fatto sentire, anche sotto i cenci della miseria, d’appartenere alla schiatta dei signori della terra e dei principi dello spirito». Parole urticanti nelle presenti condizioni, ma che comunque aiutano. Se non altro a credere che non tutta la nostra storia sia da buttare. In un nessun tempo e per nessuna ragione. L’Italia è complessa come il suo popolo perché arcani fati hanno voluto che così fosse. Prendere o lasciare.


MobyDICK

20 settembre 2008 • pagina 7

narrativa/2

Charles Bukowski? Si è reincarnato a Dublino di Mario Bernardi Guardi on sono uno scherzo otto ore di bevute non stop in un pub nel centro di Dublino. Non è uno scherzo un addio al celibato che si conclude col promesso sposo che stramazza sul pavimento e viene portato d’urgenza all’ospedale dove gli diagnosticano un coma etilico. E non scherza davvero il nostro Carlo, tranquillo ed efficiente bancario in carriera, quando, al risveglio, dichiara agli astanti: My name is Charles Bukowski. Inutili i tentativi da parte del compagno di sbronza di convincerlo che no, si sbaglia, è fuori di testa per quello che è successo e deve cercare di rimettersi in sesto il pri-

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scenari

ma possibile, perché c’è da prendere l’aereo e da tornare a Milano, dove ad attenderlo troverà la fidanzatina, non solo bella ma anche figlia di un ricco imprenditore che ha organizzato tutto come si deve per le imminenti nozze. Prediche inutili. Carlo Boschi è «diventato» Charles Bukowski e nessuno lo schioda dalla sua convinzione. Il bello è che l’amico, leggendo un giornale, scopre che lo scrittore americano, il «santo bevitore» tutto genio e sregolatezza, ribalderia e anarchia, è morto proprio la notte in cui il bancario è finito all’ospedale. Ehi, non ci sarà di mezzo la reincarnazione? Via, qui si tratta di tirar fuori Carlo/ Charles dal suo delirio di stravaganze.

Ma l’ex- bravo ragazzo dal promettente futuro vive la sua follia con una goduria autodistruttiva che non si arresta dinnanzi ai sermoncini perbenisti: tracanna whisky da mattina a sera, lancia messaggi poetico- libertari a dritta e a manca, all’occorrenza si diverte a provocare, a pestare e a farsi pestare. E un bel po’di donne sbavano per lui, non bello ma simpaticamente «dannato», maschiaccio e maschilista. Come finirà? Non chiedetecelo: vi diciamo solo che il

bukowskiano Paolo Roversi, trentaquattro anni, una firma già consolidata nel «giallo» e nel «noir», anche qui ha saputo miscelare letteratura di genere, linguaggi giovanili, inventività ribalda, ghigni e ammicchi d’autore, noticine d’attualità e siparietti surreali, per confezionare una storia che forse ha anche una sua morale. Provate a trovarla. Paolo Roversi, Taccuino di una sbronza, Kowalski, 187 pagine, 11,00 euro

L’America di Zakaria, originale ma non troppo di Filippo Maria Battaglia he la più grande ruota panoramica al mondo si trovi a Singapore oppure no, di certo, non fa molta differenza. Ma che Londra si appresti a diventare il principale centro finanziario del mondo o che gli Emirati Arabi Uniti siano patria dei fondi di investimento più redditizi, questo importa, e non poco. «Sul piano politico-militare, continuiamo a vivere in un mondo dove c’è un’unica superpotenza. Ma in ogni altra dimensione - industriale, finanziaria, educativa, sociale, culturale - la distribuzione del potere si sta spostando, allontanandosi dal predominio americano. Ciò non significa che stiamo entrando in un mondo antiamericano. Stiamo però entrando in un mondo post-

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epistolari

americano, definito e guidato da molti luoghi e da molte persone». Questa, in soldoni, la constatazione dalla quale prende le mosse il saggio del direttore di Newsweek Fareed Zakaria da poco pubblicato da Rizzoli. Constatazione, va da sé, non particolarmente inedita anche perché constatabile ogni giorno con una rapida scorsa di periodici e quotidiani. Zakaria tenta una rapida sintesi dei mille mutamenti dell’economia mondiale, e in alcune pagine (specie in quelle che riguardano le trasformazioni degli assetti istituzionali e il loro rapporto con i modelli di sviluppo) vi riesce con rara efficacia. Efficacia che però si perde in altre, più domestiche, vicende, come nel caso del capitolo dedicato alla «missione americana»: «In questo momento - scrive il direttore di Newsweek - gli

Usa dispongono di potere tranne uno: la legittimità. Nel mondo di oggi, questa è una carenza critica. La legittimità consente a un soggetto di stabilire l’agenda, definire una crisi e mobilitare l’appoggio per determinate scelte politiche sia tra i paesi, sia tra forze non governative come le imprese private e le organizzazioni di base. È stata la legittimità, per esempio, a far sì che il cantante rock Bono Vox abbia potuto cambiare la linea politica del governo su un tema fondamentale, il condono del debito». Siamo alla fiera del già letto. Ed è un peccato, perché il saggio, per il resto, contiene pagine e spunti davvero stimolanti. Fareed Zakaria, L’era post-americana, Rizzoli, 286 pagine, 19,00 euro

Lettera agli amici (e non solo) sulla Bellezza di Massimo Tosti on voglio arrivare a dire che molta gente critica coloro che cercano Virtù, Grazia, Bellezza, Bene, perché il suo cuore si è indurito a tal punto da farle sembrare cinica, disillusa e scettica su ogni cosa che non provenga da sé, però spesso chi biasima non si è mai trovato nella condizione spirituale adatta ad accogliere Bellezza, Grazia, Bene,Virtù, oppure ha sofferto enormemente. Non riesce più a cogliere il senso di tutto quello che gli sta attorno». È raro leggere considerazioni di questo tipo in un libro. Si potrebbe persino sostenere che occorre

«N

un grande coraggio per farlo. Il buonismo è un attrezzo della politica (uno stereotipo e una furberia), mentre la bontà è caduta in disgrazia.

Davide Bregola (un giovane scrittore, che forse ha il vantaggio di vivere in un piccolo paese lombardo, e non in una megalo-

poli, di quelle che cancellano nei loro ritmi esasperati la possibilità di guardarsi intorno e riflettere sulla condizione umana) ha scritto un piccolo libro (Lettera agli amici sulla bellezza) che è stato definito da Alberto Bevilacqua «uno dei libri più illuminanti dell’annata» perché esplora «temi che sono alla base di un’idea felice della vita, e che oggi invece sono trascurati da atteggiamenti letterari volti all’apocalisse». Come dice il titolo, Bregola ha scelto una formula epistolare, per parlare direttamente alle persone che conosce (e a quelle che non conosce, ma comunque amiche, nella sua visione), con una prosa semplice e mai pedan-

te. La leggerezza è il pregio maggiore di questo saggio, e la sincerità, che fa da sfondo a ogni pensiero. «La bellezza, quando è vera bellezza è cifra del mistero, è richiamo al trascendente», sostiene Bregola. Quel che si augura è che l’umanità si renda conto di aver imboccato una strada sbagliata, dimenticando i valori veri che presiedono alla nostra vita. Ce ne indica alcuni, tra cui quello fulgido della Bellezza, e ci invita a entrare nelle cose insieme con lui: «Vi offro questo desiderio di rivelazione, amici. È ancora immacolato». Davide Bregola, Lettera agli amici sulla bellezza, Liberamente editore, 100 pagine, 10,00 euro

altre letture Il 4 novembre

prossimo 110 milioni di americani sceglieranno il successore di George Bush. Una contro l’altra stanno due opzioni paradigmatiche: da una parte la novità di Barack Obama, quarantasettenne senatore dell’Illinois, dall’altra il riformismo e l’esperienza del veterano del Vietnam, il settantaduenne conservatore John McCain. La loro è una sfida tra generazioni e stili diversi ma è soprattutto uno scontro fra due modi di percepire l’America. McCain e Obama parlano con linguaggi differenti ai mille volti e agli infiniti angoli della nazione. Si rivolgono a un’America spaventata dalla situazione economica, alle prese con l’insicurezza prodotta dallo scoppio della bolla immobiliare. John Samples e Alberto Simoni in La corsa più lunga (Lindau edizioni, 194 pagine, 17,00 euro) scrutano fra le pieghe dei programmi elettorali spiegano regole e meccanismi delle elezioni, raccontano il gioco sporco delle lobbies ma anche il gigantesco fermento della società civile americana, la vera ricchezza degli States.

Qual è l’origine dei

sogni? Le persone sognano tutte allo stesso modo? E gli animali? Da dove vengono le immagini che popolano i sogni e perché alcune sembrano così strane? E infine a cosa servono i sogni? La fabbrica dei sogni (Edizioni Dedalo, 57 pagine, 7,50 euro) di Sophie Scwartz, biologa e psicologa alla guida delle attività di ricerca presso il dipartimento di neuroscienze dell’Università di Ginevra, racconta con stile semplice, destinato a un pubblico di giovanissimi, i meccanismi che regolano la percezione, l’apprendimento e il sogno.

Fra pochissimo

di nuovo in libreria Gli indoeuropei e l’origine dell’Europa (Il Mulino, 680 pagine, 14,00 euro) di Francisco Villar è un classico sul controverso tema delle origini dei popoli continentali. Quello degli europei è il caso unico di un popolo la cui esistenza è stata postulata esclusivamente per via linguistica con lo studio del sanscrito e della parentela delle lingue che puntava verso l’esistenza di una lingua capostipite. Villar studia la morfologia della società e dell’antropologia indoeuropea: religione, famiglia, società, economia, arte, numeri, etnie. Uno studio fondamentale sull’argomento.


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pagina 8 • 20 settembre 2008

il racconto

Il giorno che dimenticai mio figlio in ascensore di Maria Pia Ammirati prii la porta con impazienza, forzando sulle chiavi e sbattendola dietro di me. Avevo fretta, una fretta che mi metteva prurito in tutto il corpo. Ero stato assalito dal rovello dei conti perché rifacendo mentalmente gli ultimi passaggi del bilancio, c’era un buco, un enorme buco di cui mi ero accorto solo la sera prima. Risalendo le scale continuava quel terribile pensiero, se non avessi trovato entro la sera la voce dell’ammanco avrei dovuto avvertire il direttore e poi il consiglio d’amministrazione. Mi misi alla scrivania subito, accesi il computer, tirai fuori le carte e cominciai il minuzioso lavoro di revisione. Erano le undici e trenta, alle tre mi alzai per un caffè e un po’ d’acqua e alle quattro ormai stavo per precipitare nel baratro. Sentii solo la chiave che entrava nella toppa e i miei sensi scattarono come una molla, tutti insieme risvegliati dal suono familiare e dall’allarme che il mio cervello fino a quel momento, fermo e in stasi come un motore a folle, scattò all’improvviso. Mia moglie non era ancora nell’atrio e io ero già sulla porta, paonazzo in preda al terrore che mi toglieva l’aria, ma che avevo l’obbligo di gestire. Prima che lei, aprendo il sorriso, potesse sussurrare e poi gridare, come faceva al suo arrivo, «Amore, c’è la mamma», io cercavo di emettere dei suoni che non fossero ottusi dalla paura e dalla vergogna. Avrei voluto piangere, da solo, ma non potevo farlo. Avrei voluto buttarmi ai suoi piedi, ma non potevo farlo. Lei impallidì perché il mio viso le aveva già comunicato qualcosa di spaventoso e forse per questo, per il troppo spavento, sussurrò piano: «Carlo, dov’è il bambino?» No, non potevo piangere, ma una lacrima scese secca e sprofondò in basso. Lei ripeté rauca prendendomi il braccio: «Carlo, dov’è…». Ma non riuscì a finire, le venne fuori solo di nuovo il mio nome strozzato e perentorio: «Carlo!». Le presi le spalle e cercan-

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do di calmarla le dissi in un soffio: «Perdonami, non so cosa sia successo stamattina ma sono sceso da solo, cioè quando sono uscito dall’ascensore ero solo, vuol dire che ho lasciato Luca in ascensore.» Si alzò come un ululato, mostruoso, e la vidi scappare e correre giù per le scale pigolando il nome del figlio: «Luca, Luca, Luca». A metà scala riuscii a riacciuffarla. Aveva il viso stravolto gli occhi gonfi, ma anche tutto il resto era gonfio e deformato probabilmente nello sforzo di non piangere. «Fermati ti prego, ragioniamo. Dobbiamo ragionare per capire dove può essere ora.» «Sei un uomo senza criterio e mi chiedi di ragionare, su cosa vorresti ragionare, non voglio cercarlo con te, devo trovarlo e portarlo via da qui, da un incosciente». E ripartì di corsa per le scale. «Ma non capisci che dobbiamo cercarlo insieme, che insieme lo ritroviamo?» Continuava la sua corsa franosa per le scale, eravamo scesi di soli due piani e non capivo più quella furia che invece di darci un ordine di priorità andava a cercare a caso. «Fermati perché fai le scale? Cerchiamo di pensare le mosse da fare, ricostruiamo gli orari e intanto chiamiamo la polizia per la denuncia». Non feci in tempo a finire la frase che si rigirò facendo perno su un piede e come una bambola, dalle gote rosse, mi mollò un ceffone. «Ancora non ti rendi conto di quello che hai fatto? Io la polizia la chiamerò dopo, ma per farti arrestare. Lo capisci che chiamare la polizia significa ora perdere per sempre Luca? Loro ce lo porterebbero via per inadempienza, perché nessuno può credere che un padre abbandoni suo figlio in un ascensore. Ammesso che si riesca a trovarlo, dovremmo confessare al mondo

Mia moglie era ancora nell’atrio e io ero già sulla porta, paonazzo, in preda al terrore che mi toglieva l’aria, ma che avevo l’obbligo di gestire

di aver lasciato da solo un bambino di due anni appena»… Non finì la frase, crollò sul pavimento del pianerottolo e cominciò a piangere. Me la caricai addosso e ci rifugiammo in una nicchia delle scale dove potemmo piangere in silenzio per non destare sospetti. Aveva ragione lei, seppure avessimo trovato Luca, il rischio che un tribunale ce lo portasse via era altissimo, ritornai in me e le sussurrai in un orecchio che dovevamo agire insieme e in maniera circospetta, salire subito in casa prendere un foglio e gestire un piano d’azione. Saliti e di fronte al foglio capii che quella era la mia unica possibilità di salvezza, forse non avrei recuperato mia moglie e la mia vita precedente, ma era più importante trovare Luca.

Cominciai a scrivere i tempi della mattina: ero sceso con il bambino alle nove, avevo attraversato il parco, di ritorno mi ero fermato dal giornalaio e a comprare il pane. Alle 10.40, l’ultima volta che avevo visto l’ora, avevo deciso di rientrare. Al centro del foglio scrissi il numero 11, l’ora approssimativa in cui Luca era sparito dal mio controllo, accanto al numero scrissi tutte le persone che avevo incontrato poco prima, il giornalaio, una colf che usciva per la spesa, il portiere. Poi scrissi i numeri dei piani e gli appartamenti del condominio, i piani erano dodici e c’erano tre appartamenti a piano. Le famiglie erano dunque 36 più quella del portiere. Al nostro piano abitava un giornalista che viveva solo e non si vedeva mai e una famiglia con due figli grandi, a quell’ora erano tutti fuori, mentre dal piano di sotto cominciava una forma oscura di nebulosa, non conoscevamo quasi nessuno. Al quinto doveva esserci un tizio di mezz’età


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20 settembre 2008 • pagina 9

prima volta viene nel condominio. Vede il bambino che dorme, si spaventa, sale al suo piano e esce dall’ascensore furtivamente senza dare nell’occhio. L’ascensore viene richiamato da un’inquilina che non conosce Luca. Anche lei ha un moto di paura entrando nell’ascensore occupato da Luca che continua a dormire, per questo corre di filata dal portiere col bambino. Ipotesi B: l’ascensore viene richiamato a terra, ad aspettarlo una giovane coppia che cerca un appartamento. Imbarazzati e curiosi salgono col bambino che dorme. Si chiedono come sia possibile che un bambino sia solo, poi lei presa da coraggio dice: «Portiamolo via è così bello». Lui ha paura, ma lei insiste: «Se l’hanno abbandonato così sono delle bestie». Si fanno coraggio e escogitano un piano. Mollano il passeggino in un angolo e riscendono a piedi. Lui fa il palo e aspetta che il portiere si allontani. Lei con il bambino in braccio dormiente sgattaiola via. Ipotesi C: Il bambino è rimasto nel palazzo in custodia di qualcuno che aspetta. Sì, ma cosa aspetta? Ipotesi D: Il portiere ha trovato il bambino e ha avvertito la polizia. Intanto era risalita mia moglie con una faccia stravolta ma intraprendente, occhi dilatati e lucidi: «Luca non è mai uscito dal palazzo.» «Come fai a saperlo con certezza?» «Il portiere non l’ha mai visto uscire con una bambinaia né con te o altri, ma ha trovato il passeggino nel pomeriggio in un angolo del piano terra». Oh dio, come potevo dirle che avevo proprio ipotizzato uno scenario simile e che in questa ipotesi il bambino veniva rapito? «Ma il portiere cosa ha detto il portiere?» «Cosa vuoi che dicesse mi ha chiesto perché abbiamo lasciato il passeggino incustodito, lui ha dovuto portarselo in casa, ma perché mi fai queste domande?»

personare degli sprovveduti, inavveduti e un po’ idioti genitori. Quella orribile specie moderna di padre e madre alla soglia dei 40 col pargolo come finale di sorpresa di carriera e di soldi. «Ci scusi», esordì piano mia moglie, ma io subito presi il sopravvento: «Sì, ci scusi, siamo quelli dell’ultimo piano, del 12», quelli dell’ultimo piano, ecco mi sembrò subito che il tono confidenziale giovanile fosse il più detestabile per un’anziana signora col cane. «Purtroppo oggi ci è successa una cosa spiacevole anzi, scusi, molto grave.» Continuò lei. «La nostra bambinaia», mentre lo diceva arrossii per quello che mi sembrò un gesto di affetto, «la nostra bambinaia», e intervenni di nuovo io «la nostra baby sitter», bambinaia mi sembrò desueto e aristocratico insieme, «ha dimenticato il nostro bambino Luca di due anni in ascensore, Luca è biondo con grandi occhi nocciola e stamani aveva felpa blu e calzoncini blu». La vecchia allungava sempre più il viso e quell’espressione incolore. Ritornò alla carica mia moglie: «Ha per caso visto un bambino piccolo che può somigliargli? Lo ha visto girare nelle scale o accompagnato da qualcuno?». Era riuscita a finire la frase senza piangere. La vecchietta ci guardò ancora un po’ e poi rispose: «No, ma se volete entrare a prendere un caffè, se la signora non si sente...» «Signora lei è molto gentile, ma abbiamo fretta di trovare il bambino. La preghiamo nel caso in cui lo vedesse di avvertire noi o il portiere, qui su ci sono i nostri numeri». Provammo alle altre due porte. Non rispose nessuno, segnai diligentemente sulla piantina l’ora e l’esito. Risalimmo al secondo, alla prima porta ci venne ad aprire una colf filippina, mia moglie la riconobbe e provò un approccio amichevole: «Ciao sono la mamma di Luca, ti ricordi?» «Buonasera, la signora non è in casa.» «No, noi volevamo parlare con te», dissi pentendomi subito perché lei si irrigidì. «Cioè - aggiunse mia moglie - avremmo bisogno di sapere se hai visto la nostra nuova baby sitter con il bambino, perché è uscita nel primo pomeriggio e non è ancora tornata.» «No, non ho visto nessuno perché tornata presto a cucinare per i bambini.» «Ma ti ricordi del nostro bambino Luca?» «Io mi ricordo, io conosco ma ho visto solo stamattina con lei» e indicò me, lo sciagurato. «Grazie, ci puoi dire chi abita qui accanto?» «La signora Swarz e il dottore.» Ce ne andammo verso un’altra porta, dalla signora Swarz aprì una cameriera che ci annunciò che la signora non era in casa e non riuscimmo a farci capire su altri argomenti. Alla terza porta non si fece vivo nessuno. Risalendo le scale mi venne un’idea: «Te la senti di fare da sola per un po’? Vorrei provare ad andare su alle terrazze e passare da casa per sentire la segreteria.» «Va bene», rispose lei. Risalii a piedi per dare un’occhiata più attenta nelle scale e cercare qualcosa che poteva esserci sfuggito. Passai al quarto, al quinto, al sesto, al settimo fui attratto da uno strano luccichio sul tappetino. Mi avvicinai e chinandomi scoprii che tra la porta e il tappetino c’era una catenella, una piccola catenella per tenere il ciuccio, proprio come quella di Luca.

Al centro del foglio scrissi il numero 11, l’ora in cui Luca era sparito dal mio controllo, accanto al numero scrissi tutte le persone che avevo incontrato

con cui avevo scambiato rapidi saluti, un uomo tutto d’un pezzo che avevo incontrato mentre rientrava dall’ufficio, mia moglie si ricordò di una signora con bambina, ma non ricordava il piano, e della colf che avevo incontrato la mattina. «Da dove partiamo?» disse lei allucinata, «è sempre più tardi.» «Dal portiere, non possiamo far altro che partire da lui. Se non ha visto uscire il bambino vuol dire che è ancora nel palazzo. Ma devi andare da sola e dire che non ci hai trovati in casa e chiedergli se ha visto uscire il bambino con me naturalmente, no anzi ho un’idea. Digli pure che oggi cominciava una nuova bambinaia e vuoi sapere se l’ha vista uscire con Luca.» Anche a lei questa sembrò una buona idea. Perciò andò in bagno, si truccò gli occhi e passò il rossetto e uscì senza dirmi altro. Rimasi in silenzio e ripassai meticolosamente gli ultimi movimenti fatti prima di lasciare Luca in ascensore. Ero salito spingendo il passeggino che avevo posizionato sul fondo. Davanti ai piedi avevo messo le due buste con la spesa e i giornali, Luca dormiva e io avevo evitato ogni piccolo rumore cedendo al pensiero, al rovello della mattina e della sera precedente. La mia carriera era in bilico, ma questo non giustificava la mia disattenzione al punto che non mi sembrava possibile che io fossi il protagonista di quella tragedia, non potevo essere stato io. Ma Luca non era più in casa e nemmeno in un’altra casa o dalla nonna o all’asilo o al parco con la baby sitter. Luca era sparito ingoiato dal palazzo, prigioniero di qualcuno o semplicemente in custodia da qualcun altro che l’aveva trovato e ora l’accudiva? Oppure un altro ancora aveva approfittato di un bambino solo e... Mi sembrava di impazzire, cosa può capitare a un bambino così piccolo che è stato perso? Cominciai a immaginare e decisi di segnare sul foglio una serie di ipotesi: Ipotesi A: l’ascensore viene richiamato all’ingresso, ad aspettarlo un idraulico o un operaio che per la

«Ti faccio domande per capire come agire, dove può essere ora Luca, se il passeggino è stato abbandonato accanto alla portineria avrà un significato?» «Va bene ma dimmi ora cosa facciamo?» Già da dove si comincia quando l’ipotesi è la peggiore? Mi concentrai per cercare una soluzione che non la mettesse in agitazione. «Non ci resta che bussare porta a porta, chiedere uno a uno sperando che nessuno ci denunci.» «Insieme o separati?» «Separati» risposi d’impulso, immaginando la mia vergogna mentre chiedevo: «Scusi avete per caso trovato un bambino in ascensore? Io sono il padre e stamattina per un attacco di idiozia o non so cos’altro l’ho scordato nell’ascensore. Ma se non lo trovassi potrei morire di dolore». Che orrore. Erano le sei, si stava facendo tardi e la notte Luca non riusciva ad addormentarsi senza la mamma, gli occhi mi si velarono di lacrime. «No meglio insieme, dobbiamo dare un’idea di sicurezza, ma anche di unità, almeno per ora», mi corressi. «Ma chi parla e cosa diciamo?», disse lei. «Lo farò io». Cominciammo dal primo piano fidandoci del segnale che sembrava darci il passeggino lasciato al piano basso. A mia moglie venne l’idea migliore di andare in tre, io lei e il passeggino. Bussammo alla prima porta, i denti mi scricchiolavano in bocca per l’ansia. Si affacciò una vecchia signora con una crocchia di capelli grigi preceduta da un cane che ci guardava senza emettere suono. Era la situazione migliore che potesse capitarci per prima, una donna anziana è più indulgente con una coppia di giovani sbadati. Già perché avremmo dovuto im-

segue a pagina 10


il racconto

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segue da pagina 9 Cercai di fermare il primo impulso, quello di bussare e chiedere subito di Luca, poi di correre a chiamare mia moglie. Mi sedetti sulle scale a pensare chi poteva esserci dall’altra parte e cosa poteva essere successo a Luca. Era la mia possibilità di riscatto, dovevo agire ma con prudenza, non rovinare tutto con la mia irruenza, ma anche agire in fretta e non perdere tempo prezioso. Non so quanto tempo passò, ero in una sorta di intorpidimento e non riuscivo a cavare una soluzione. Alla fine mi alzai dallo scalino e andai a bussare. Mi aprì un uomo giovane in maniche di camicia. «Buonasera, sono l’inquilino del piano di sopra, cioè del dodicesimo, mi scusi se la disturbo ma sto cercando mio figlio che si è allontanato con la baby sitter e non vediamo tornare, siamo preoccupati, io e la mamma, e prima di avvertire la polizia stiamo cercando nel condominio se qualcuno li ha visti.» La faccia dell’uomo mi sembrò sorpresa poi si rabbuiò. «Io le consiglierei di chiamarla subito la polizia.» Mi sentii gelare mentre nervosamente mi rigiravo tra le dita la catenella che avevo in tasca. «Sì, ha ragione, ci ho pensato anch’io ma mia moglie ha insistito per essere sicuri che non ci siano falsi allarmi e che sia solo un ritardo, sa la ragazza è la nostra nuova baby sitter e potrebbe aver...» «Scusi, ma perché allora cerca negli appartamenti, forse dovrebbe andare al parco o per strada. Comunque entri un attimo.» Non me lo feci ripetere, entrai e appena messo piede in casa mi accorsi dell’odore di cibo e di un vocio lontano. «Venga mi segua in salotto, le porto un po’ d’acqua.» Era perentorio e teneva ancora questo atteggiamento di brutale distanza come ce l’avesse con me.Tornò con l’acqua e io bevvi, ancora una volta ubbidendo. «Si segga pure, facciamo due chiacchiere.» La situazione si faceva surreale, non avevo voglia di chiacchierare, non avevo tempo di stare seduto, non avevo la pazienza di farmi offendere da uno sconosciuto. «Come si chiama suo figlio? E quanti anni ha?» «Luca, ha due anni.» «Com’era vestito?» «È vestito di blu con pantaloncini e felpa», rispondevo senza reagire, quando suonò il campanello. «Mi scusi, vado a vedere chi è.»

«Serve solo ad aiutarvi, allora a che ora?» «Credo verso le tre di oggi pomeriggio.» «Ah, ma sono poco più di due ore, la baby sitter potrebbe essere già tornata mentre noi siamo qui a parlare. Forse siete solo un po’ ansiosi, o forse le ore non coincidono, siete sicuri che sia uscita con il bambino alle tre?» «No - rispose mia moglie di corsa - non siamo sicuri, anzi io credo che mio figlio sia scomparso stamattina. Per questo siamo preoccupati.» «Quando avete sentito l’ultima volta la baby sitter?» «Alle 12 per il pranzo del bambino» provai io con sicumera. «Beh allora…» «Allora cosa?», chiesi preoccupato ma anche imbarazzato da quell’interrogatorio fuori luogo. «Allora gli orari potrebbero coincidere. Sa io ho tre bambini e mia moglie aspetta il quarto. Stamattina dopo la spesa lei è risalita in ascensore e il caso ha voluto che invece di schiacciare il 7 piano sia scesa per sbaglio al 5. Appena scesa dall’ascensore ha trovato un bimbo di circa due anni sul pianerottolo che si aggirava da solo. Lo ha portato con lei su e adesso è di là che gioca con i nostri bambini.» Io e mia moglie ci alzammo di scatto per correre da nostro figlio, perché non poteva essere altro che Luca, ma lui ci sbarrò la strada. «Calma, non sono ancora sicuro che il bambino sia il vostro, troppe cose non coincidono, gli orari, per esempio, e il vestito. Il bambino che è di là porta una polo bianca. Non sono sicuro che siate voi i genitori». La polo bianca, già la mattina Luca era uscito con la felpa ma poi la felpa gliela avevo tolta perché faceva caldo. «Certo che siamo noi», piagnucolò mia moglie. «E per quanto riguarda la polo bianca è vero Luca stamattina sotto la felpa aveva una polo bianca. L’avevo scordato. È sicuramente Luca, quanti bambini vuole che si perdano in un condominio?» «Spero nessuno - e mi scrutò feroce - voglio solo rassicurarmi che siate i veri genitori e capire come risolvere il problema della baby sitter. Probabilmente bisognerà avvertire la polizia e denunciarla.» «Certo - rispose subito mia moglie - la denunceremo appena Luca sarà a casa.» «Sì, risolveremo il problema con la donna appena potremo riabbracciare Luca, però mi tolga una curiosità

Mi sedetti sulle scale a pensare chi poteva esserci dall’altra parte e cosa poteva essere successo a Luca. Era la mia possibilità di riscatto

S’alzò e uscì dalla porta, diedi un rapido sguardo alla stanza cercando di capire di più di questo strano uomo, la stanza era ordinata e semplice con un solo angolo molto confuso dove era ammonticchiato un po’ di tutto, giocattoli, fogli, giornali. Feci per alzarmi e sbirciare quando sulla porta comparve mia moglie. Avevo completamente dimenticato che anche lei faceva il giro del palazzo ed eccola sempre più stanca, sempre più nervosa con gli occhi assenti e impauriti. Appena mi vide sembrò sollevata, quell’uomo emanava una strana inquietudine. «Prego si accomodi, chiedevo a suo marito alcune informazioni sul bambino. A che ora è scomparso?» «Scusi ma perché parla di scomparsa? Noi siamo solo in ansia per un ritardo della baby sitter», persi la pazienza e mi incendiai, arrossii e mi fermai solo per gli occhi tristi di mia moglie che in fondo mi chiedevano lo sforzo di tenere la calma per non perdere nessuna occasione. Lui fece finta di non accorgersi della mia rabbia e rispose con calma.

perché non ha chiamato subito la polizia quando sua moglie ha trovato il bambino?», si vede che mi stavo rilassando perché feci quella domanda con leggerezza. «Chi le dice che non l’abbia fatto?» Mia moglie non resse e scoppiò a piangere, non riuscii a trattenermi neanch’io e cominciai a piagnucolare. «Potete spiegarmi a questo punto come sono andate veramente le cose?» «Le spiego tutto ma ci faccia vedere il bambino», dissi. Ci inoltrammo in un lungo corridoio da cui provenivano sempre più vicine le voci dei bambini, e arrivammo alla porta. Ci sbarrò di nuovo la strada: «Ve lo farò solo vedere, lo riprenderete dopo avermi detto tutto». Così fece, aprì uno spiraglio di porta e mia moglie infilò la testa. Aspettai un attimo e provai a sbirciare anch’io. Luca stava seduto al centro della stanza e giocava con due bambini un po’ più grandi di lui. Aveva la polo bianca ed era senza scarpe. La porta fu subito richiusa.

«Quello è nostro figlio, e lei non può impedirci di riprenderlo!», disse secca mia moglie. «Ve lo riconsegnerò appena saprò come sono andate le cose oppure aspettiamo la polizia e lasciamo decidere loro cosa fare.» Ritornammo in salotto mesti, mia moglie non resisteva all’idea di abbracciare il bambino, io avrei fatto volentieri a botte con quello strano personaggio che aveva un’aria saputa e ambigua e che continuava a provocarmi. «Allora le racconto tutto ma lasci andare mia moglie dal figlio, lei non c’entra niente, le responsabilità sono solo mie.» «Va bene.» Raccontai ogni cosa senza tralasciare nulla, senza risparmiarmi nulla, alla fine quel racconto mi sollevò. «Ho fatto bene a non avvertire la polizia dunque», rispose lui. Di nuovo mi sgorgò una lacrima e passai rapidamente dalla rabbia al compatimento di me e infine alla gratitudine per quel sempre più strano personaggio. «Avevo intuito una storia del genere, perché il bambino era pulito, sereno e allegro. Ma come ha potuto dimenticare un bambino così piccolo, suo figlio, da solo in un ascensore?» «Non lo so.» «Facciamo così, lei mi sembra pentito abbastanza, vi lascio portare a casa il bambino perché è tardi ma a una condizione…» «Quale?» risposi d’impeto non sapendo in quale condizione d’animo mi trovavo, rabbia dolore commozione. «Che nei prossimi giorni, a orari che stabilirò io, possa vedere e controllare il bambino.» «Non può, con quale criterio pensa di poterci controllare? È stata la mia sbadataggine, la mia idiozia, mia moglie non c’entra nulla, lei è la migliore delle madri.» «Guardi che su questo punto sarò irremovibile, lei o sua moglie mi porterete qui il bambino ogni pomeriggio, altrimenti sarò costretto ad avvertire la polizia.» Mi giravano in mente le parole giuste per definirlo: un pazzo, un ricattatore, un egoista idiota. Invece allungai la mano: «Accordo fatto» e corsi a prendere Luca e la mamma. In fondo, pensai risalendo le scale, è il meno che potesse capitarmi.

Ci inoltrammo in un lungo corridoio da cui provenivano sempre più vicine le voci dei bambini e arrivammo alla porta. Ci sbarrò di nuovo la strada

l’autrice Maria Pia Ammirati è nata il 12 luglio del 1963. Scrittrice e giornalista, lavora alla Rai dove dal 2006 è capostruttura di Raiuno con la responsabilità di Uno mattina e del settimanale Linea Verde. Collabora con riviste e giornali e per liberal scrive di narrativa italiana. Tra i suoi libri Il vizio di scrivere, Madamina: il catalogo è questo (Rubbettino editore 1991, 1995), I cani portano via le donne sole (Empiria), selezionato al Premio Strega 2001, vincitore del Premio Palmi opera prima e del Premio Orient Express. Il suo ultimo romanzo, Un caldo pomeriggio d’estate, è pubblicato da Cadmo e ha ricevuto il Premio Grinzane Cavour-Calabria. Ha pubblicato un racconto dal titolo Fiaba malvagia per l’antologia Cuori di pietra (Mondadori).


video Adolescenti, istruzioni per l’uso MobyDICK

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TV

sempre meglio di niente di Pier Mario Fasanotti Modena e dintorni c’è un detto che racchiude saggezza: «Piuttosto che niente è meglio piuttosto». Proverbio popolare che ben si applica alla trasmissione in onda dopo le 22 del martedì su La 7, intitolata Adolescenti, istruzioni per l’uso. Diciamo subito che l’argomento trattato non è tanto di moda, ma di straordinaria attualità. L’adolescenza oggi è, o viene considerata, un problema notevole. Attorno a questa età, detta dell’incertezza, c’è molta ignoranza. I genitori, almeno quelli che se lo possono permettere, vanno dallo psicologo. Spesso per sentirsi dire ciò che potrebbero facilmente dire a se stessi. Ma, si sa, l’autorevolezza dell’interlocutore innesca sempre la presa di coscienza. La televisione affronta in vari modi il tema dell’adolescenza. La 7 ha scelto una via di mezzo tra la pedagogia e la fiction. Non un granché, perché schematizzata e semplificata al massimo, tuttavia meglio che niente. Gli autori del programma individuano un conflitto familiare e fanno entrare in scena uno psicologo, chiamato coach (termine ormai di vasto uso, non soltanto nello sport). In una delle puntate compaiono una madre, Sandra di 45 anni, una bella donna, e una figlia, Michela di 16, attraente ma anche insicura e arrogante. Tra le due figure femminili c’è un continuo conflitto comportamentale fatto di veleni verbali. Ma soprattutto di competizio-

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ne: il fatto che Sandra sia una bella donna non è da sottovalutare. Come accade in ogni gruppo o micro-gruppo, scatta la coalizione. Michela è alleata col padre, che la coccola e la sostiene con silenzi e risatelle quando lei sbeffeggia la madre. Sandra non s’arrende, ma ricorre a un’insistenza poco utile: fa domande, s’impermalosisce se la figlia è evasiva nelle risposte, ironizza, attacca. E Michela si augura che la madre «invecchi» rinfacciandole l’impossibilità (presunta) di fare certe cose: segno vistoso che la madre è rivale, quindi da denigrare. Lo psicologo si appoggia a un gruppo esperto in comportamenti, dalla danza alla coreografia. Obiettivo: quello di spingere Michela all’individuazione della propria personalità. Avvertimento, sacrosanto, dello psicologo: «I genitori devono considerare sano il silenzio del figlio perché appartiene al suo percorso di crescita». Rafforzato l’io di Michela (si fa per dire), si arriva poi a un confronto diretto tra madre e figlia. Sul piccolo schermo pare tutto semplice, abbonda ottimismo e il «volemosi bene». Il motto è «sperare è potere». Alla fine si rompe la pericolosa coalizione padre-figlia, e tutti si abbracciano fiduciosi nel futuro. Siamo in piena fiction. Molto riduttiva, certamente. Ma i semi sono lanciati, almeno sul terreno emotivo di chi sta davanti allo schermo. Meglio che niente, come dicevamo.

web

games

dvd

FACEBOOK CAMBIA, RIVOLTA IN RETE

DAL BRODO PRIMORDIALE ALLO SPAZIO

IL PAESE DI FRONTE

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e un tempo tra i social network dominava MySpace, ora è Facebook a dettar legge tra chi ama sentirsi con i propri amici o anche lavorare online. Nato nel 2004 come esperimento di un gruppo di studenti universitari di Harvard, Facebook, con oltre 1 milione di iscritti, è vittima di una clamorosa protesta da parte dei suoi utenti: 183 mila «ribelli» stanno letteralmente prendendo

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alla mente superiore di Will Wright, fondatore della Maxis e creatore (tanto per fare un paio di esempi) di Sim City e The Sims, arriva Spore, in cui ci viene chiesto di gestire l’evoluzione di un ecosistema planetario (chi si ricorda di Sim Earth?), sviluppando una razza animale fin dalle sue origini multicellulari - navigare nel brodo primordiale non è mai stato così divertente -

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Le novità del popolare social network, definitive dal 27 settembre, scontentano migliaia di internauti

Will Wright (creatore di “Sim City” e “The Sims”) ci regala un capolavoro di grafica e giocabilità

Roland Sejko e Mauro Brescia ci guidano alla scoperta dell’Albania e della sua storia difficile

d’assalto Internet per bloccare il nuovo layout, la nuova grafica che tra poco, presumibilmente il 27 settembre, avrà definitivamente il popolarissimo social network. La nuova grafica della grande agorà virtuale creata da Mark Zuckenberg è da giorni a disposizione degli utenti in fase di test, in versione beta. Dopo un primo momento di iniziale gioia, molti dei numerosissimi iscritti che non hanno apprezzato la nuova immagine si sono dati da fare fondando in tempi record il gruppo Against the new Facebook (contro il nuovo Facebook), che conta già 183 mila membri. Il traguardo? Arrivare a quota 1 milione di firme online.

ed evolverla nel corso dei millenni (carnivori, onnivori o vegetariani?), fino a farle esplorare gli estremi confini dello spazio. Il gioco trova la sua massima espressione su Internet, dove è possibile confrontare le proprie creature con quelle sviluppate da una già vasta comunità online. E ci vuole poco per capire di trovarsi di fronte a un capolavoro, capace di piacere sia al giocatore «casuale» che all’hardcore gamer, grazie alla sua grafica curatissima e divertente e alla sua capacità di spaziare con leggerezza tra strutture diverse di gameplay: dal «mezzo-sparatutto» a scorrimento laterale all’rts.

paese di fronte, lavoro scrupoloso che rende conto della travagliata vicenda storica di una nazione condotta sull’orlo del baratro da un regime, quello di Enver Hoxha, che dal 1946 al 1990 ha tenuto il popolo albanese nel più completo isolamento, per poi crollare insieme alle macerie del Muro di Berlino. Buona ricostruzione storica, incisivi ritratti d’ambiente e ritmo vivace, coloriscono la visita guidata con brio e puntualità informativa. L’interazione fra i due registi, che si pongono come emuli di ospite e guida, ha pagato. Calato il sipario, un mondo tanto vicino e così lontano, resta ancora tutto da esplorare.

sessanta miglia dalle coste italiane, eppure quasi del tutto misconosciute, si affacciano le terre dell’antica Illiria, un Paese che ha cominciato ad assumere rilievo sui nostri quotidiani solo dopo il 1991, quando scafi stipati di persone approdarono dall’altra parte dell’Adriatico. Roland Sejko e Mauro Brescia ci guidano alla scoperta dei nostri dirimpettai con il loro Albania. Il


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FINITA L’OPERA Quello che è fatto, amici, è fatto. Possiamo

poesia

Le scarnificazioni di Giorgio Caproni di Francesco Napoli

riporre i ferri. Ciascuno

alba vinceva l’ora mattutina»: echeggia così il verso 115 del primo canto del Purgatorio dantesco, il libro ritrovato aperto sul comodino a fianco al letto e sul quale il 22 gennaio del 1990 si è fermata la vita di Giorgio Caproni, quando il suo ormai stanco cuore non è più riuscito a oltrepassare proprio quell’ora mattutina. Un cuore che ha iniziato a battere il 7, sempre di gennaio, del 1912 in quel di Livorno prima di trasferire poesia e sentimenti a Genova, all’età di dieci anni: «La città più “mia”, forse, è Genova. Là sono uscito dall’infanzia, là ho studiato, son cresciuto ho sofferto, ho amato. Ogni pietra di Genova è legata alla mia storia di uomo». Genova è la città, come dice sempre il poeta, dalla quale «i miei versi traggono i loro laterizi». Suo malgrado fu costretto a lasciarla per Roma in un difficile dopoguerra, fatto di stenti e difficoltà materiali. Nella capitale vive una vita riservata, lontana dai circoli letterari, tra molteplici collaborazioni e traduzioni dal francese (celebre una sua versione del proustiano Il tempo ritrovato). Tanta riservatezza non gli impedì però di legarsi con forte amicizia ai Pasolini, Gatto, Bertolucci, Bevilacqua e altri, forse amato e rispettato anche per il suo acre e poco cerimonioso carattere che perfino i suoi ritratti fotografici riflettono con nitore. «Con Roma non son mai riuscito a entrare in dimestichezza: non son mai riuscito a sentirla, neppure in parte, mia. Forse perché è una scarpa troppo grande - o “grandiosa”- per il mio piede».

«L’

(se vuole - se ha qualcuno ad aspettarlo) può andare franco dove più il cuore lo tira. Io che non ho abitazione (che , qui fra voi, vedete, e per voi, son Dio che esiste, si dice, soltanto nell’atto di chi lo prega: un atto, in fondo, di disperazione e negazione), io - che non ho ubicazione preferisco restare ancora un poco - scaldare le dita all’ultimo fuoco della colla, e scacciare dalla mano il tremore che l’agita, poi ridotto in cenere il tizzone, sparire «col favor delle tenebre».

da Il muro della terra

GIORGIO CAPRONI

Nato poeticamente al primo Novecento, esordio nel 1936 con i versi di Come un’allegoria, Giorgio Caproni si è indirizzato su una chiara linea antinovecentista e forse proprio per questa scelta, con Luzi, Sereni e Bertolucci, e in parte Giovanni Giudici, è stata figura di riferimento per tutto il secolo, con una presenza poetica discreta ma sentita e opere in qualche misura lette e assimilate per più generazioni. A suscitare interesse dev’essere stato quel suo insistere nella ricerca del superamento della lirica impostata sull’analogia a favore di una più ampia e piena narratività dal respiro quasi poematico. Esemplare allora Stanze per la funicolare del 1952, raccolta capitale del dopoguerra, nel quale un semplice viaggio nella città genovese diventa pretesto per un’osservazione di uomini e cose come fatta dall’alto, da una funicolare in salita per l’appunto; a metà anni Settanta, poi, mostra un’autonoma e ulteriore capacità di rinnovamento, a partire da Il muro della terra del 1975 e fino al postumo Res amissa (1991) dove, distanziandosi da una certa inclinazione prosastica dei tempi, rinnova se stesso in versicoli di assoluta secchezza e un linguaggio sempre più asciutto e spoglio. Tra gli anni Settanta e Ottanta Caproni

mostra dunque un’estrema vitalità e a lui guardano non pochi poeti allora esordienti, venuti al mondo poetico sulle ceneri della Neoavanguardia nella seconda metà anni Settanta e, in particolare, si deve pensare a Roberto Mussapi che a Caproni dedicò uno dei suoi primi scritti critici.

Si tende per lo più a distinguere tre tempi nella poesia di Giorgio Caproni: quello carducciano, in parte condizionato dall’ermetismo, che riguarda le prime tre raccolte; quello dell’accensione lirica e della ricerca della forma in modi quasi neoclassici di Cronistoria e del Passaggio d’Enea; quello della scarnificazione e sliricizzazione della forma poetica, ovvero della ricerca della «massima semplicità possibile». «C’è stato un movimento, se si può dire, a fuso, “fusolare”: ero partito - afferma lo stesso Caproni - da una scarnificazione ancora di carattere impressionistico, macchiaiolo, che pian piano si è amplificata e gonfiata nel poemetto, nell’endecasillabo, nel sonetto: finché, poi, forse anche per il trauma della guerra, mi è venuta la saturazione di quelle forme, troppo ampie, e allora ecco il bisogno di tornare alla massima semplicità possibile. Il rumore della parola, a un certo punto, ha cominciato a darmi terribilmente fastidio». A questi tre tempi si abbinano i grandi temi della sua poesia: la città, la madre e il viaggio. Il primo l’abbiamo in parte già enucleato osservando quale rapporto il poeta instaura con la sua città d’adozione, l’amata Genova, un tema che si concatena saldamente al secondo nella Livorno materna del Seme del piangere («Livorno, quando lei passava,/ d’aria e di barche odorava»). E «lei» è la madre, Anna Picchi, Annina, scaturigine dell’immaginata biografia in versi della madre giovinetta di questa raccolta («Per lei voglio rime chiare/ (…)/ Rime che a distanza/ (Annina era così schietta)/ conservino l’eleganza/ povera, ma altrettanto netta»); terzo tema è quello del viaggio. Il poeta-viaggiatore ricorda le tappe del proprio esistere e, soprattutto, osserva e commenta l’avvicinarsi alla mèta, la fine dell’esistenza, e lo fa con crescente ossessione seppur con pacata ironia («Amici, credo che sia/ meglio per me cominciare/ a tirar giù la valigia./ Anche se non so bene l’ora/ d’arrivo, e neppure/ conosca quali stazioni/ precedano la mia»). L’assillo diventa via via più forte in un controcanto insistito, soprattutto a partire da Il muro della terra, intonato sulla ricerca di quel Dio che per il poeta resta lontano («che esiste, si dice, soltanto/ nell’atto di chi lo prega»), come è lontana la città di Genova o la madre, giusto per render conto dell’inestricabile intreccio dei tre cardini poetici di un Caproni ormai ben consapevole della vanità di tanto girovagare tra città, madre e un Dio introvabile, tanto da arrivare a dire: «Il mio viaggiare/ è stato tutto un restare/ qua, dove non fui mai».


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il club di calliope

UN POPOLO DI POETI

VERRÀ UN ALTRO TEMPO Poche parole per la quadratura del cerchio perdute nei vicoli bui della memoria. Sarebbe stato sufficiente una scusa, magari cambiare discorso. Un bambino che guarderà il mondo con i tuoi occhi non sarà mai felice. Parole pronunciate sulla porta e smarrite nel riverbero di queste stanze mentre continuo a parlarti, a scavare il vuoto cronometrando i secondi che ti separano da una scheggia impazzita.

Nel deserto della vita vi è tracciata la strada che porterà all’oasi. Giusi Belluomo Lembo

Nella notte sento la voce del mare è una voce che pare il lampo che giunge ogni sera e mi accompagna rimango silenzioso e ascolto e mi vedo bambino in questa notte del dubbio e del tormento mi sento gravato dagli anni mi sento gravato dal buio, ma il mare mi trascina al mattino mi culla nel suo odore di sale.

Franco Creti

Paolo Lisi

«Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma

HERBERT, AUTORITRATTO SULLO SFONDO DI ROVIGO in libreria

uscito presso l’Associazione Il visitata direttamente, solo immaPonte del Sale, Rovigo, penulginata dal finestrino del treno, la di Giovanni Piccioni tima raccolta di Zbigniew Hercittadina rappresenta il fluire bert, nato a Leopoli nel 1924 e mornormale della vita altrui, una to a Varsavia nel 1998. La traduzione è di Andrea perdurare, il sopravvivere da un lato e l’entusia- quotidianità sottilmente misteriosa. Ci troviamo Ceccherelli e Alesando Niero, la breve prefazione smo per la saggezza greca, lo stoicismo in parti- all’interno non della grande geografia delle città di Jaroslaw Mikolajewski. Poeta celebre e amato colare, suscitato in lui dal suo Maestro. Un entu- d’arte, ma di quella circoscritta che offre spazio al in patria, tradotto in tutto il mondo, Herbert è no- siasmo che però è destinato a superare l’ataras- ricordo soggettivo. «…Vivevo inchiodato/ tra il pasto in Italia solo grazie a due antologie recanti il sia stoica: l’ossimoro «indifferente e sensibile» sato e l’attimo presente/ crocifisso molte volte dal medesimo titolo: Rapporto dalla città assediata, implica l’apertura al mondo e la partecipazione. luogo e dal tempo/ Eppure felice molto fiducioso/ pubblicate rispettivamente da All’insegna del pe- Arriviamo così alla terza tematica del volume: il che il sacrificio non sarebbe stato vano». sce d’oro (1985) e da Adelphi (1993). Rovigo risa- patire, la sofferenza come valore in sé. Recitano Come si vede la poesia di Herbert si caratterizza così gli ultimi versi della poesia A Peter Vujicic: per una qualità che egli stesso definì «trasparenle al 1992. Herbert è vissuto quindi in una delle epoche più «spiegalo agli altri/ ho avuto una vita stupenda/ za semantica». Un’apertura sulla realtà dovuta soprattutto al ricorso predomitragiche della storia polacca: ha Sopravvivenza, stoicismo e sofferenza nella penultima raccolta del poeta nante al verso libero, ora spezzaconosciuto la guerra, il nazismo, lo polacco. Un’apertura sulla realtà dove l’io lirico coincide con quello dell’autore to, ora disteso. Come scrive Anstalinismo, la dittatura politico-culdrea Ceccherelli nella postfazioturale dell’Unione Sovietica. Scrive nella poesia che apre la raccolta, dedicata al suo ho patito». Agli imperativi stoici del coraggio, ne, Rovigo si pone tra l’elegia e l’imminente epiMaestro Henryk Elszenberg: «Siamo vissuti in della rinuncia e del perfezionamento si aggiunge logo. La sua novità, rispetto alla produzione pretempi ch’erano davvero il racconto di un idiota/ la vita delle emozioni, sale dell’umanità, e della cedente, è quella di porre al centro del discorso il Pieno di frastuono e crimine/ La Tua severa mi- compassione in particolare. dato personale: l’io lirico quasi coincide con queltezza delicata forza/ Mi hanno insegnato come Tra il 1958 e l’inizio degli anni Novanta, Herbert lo dell’autore e ce ne svela esperienze e pensieri. perdurare al mondo quasi pietra pensante/ Pa- viaggiò molto e fra le sue mete vi fu l’Italia. Nasce È la consapevole costruzione di un autoritratto, in ziente indifferente e sensibile a un tempo». Que- così la poesia Rovigo, che si pone su due piani: cui vita e opera entrano in contatto. Pochi anni sti versi esibiscono già due tematiche chiave: il quello del viaggio e quello della quotidianità. Mai prima del congedo definitivo.

È


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mostre

arti

Con Monet (e compagni) sull’atelier-bateau di Marco Vallora

è un po’la moda, ultimamente, di parlar male, a priori, delle mostre impressioniste. Certo, c’è stato un qualche abuso, i pittori stessi così popolari e apparentemente «facili», talvolta non promettono soltanto capolavori, ma anche l’accanimento ingiusto e preconcetto suona spesso snobistico e prevenuto, anche perché, grazie a certe rassegne vilipese, accompagnati di cataloghi eccellenti, abbiam potuto vedere Monet, Manet, Bazille o Caillebotte, per non dire Millet, che altrove ce li sognavamo. Anche questa fiorentina, per esempio, dal titolo accattivante di Dipingere la luce, ma col sottotitolo onesto e illuminante di Le tecniche nascoste di Monet, Renoir e Van Gogh, va ben compresa, nel suo intento didattico e riscreativo (con uno sguardo magari ai ragazzi). Se si trattasse soltanto di una trasferta di comodo, della pur ricca, ma non strepitosa raccolta del Museo Wallraf-Richartz e della connessa Fondazione Corboud di Colonia, che pure può vantare una bella versione degli Asparagi di Manet, molti Monet, Toulouse Lautrec, Caillebotte, Renoir, Sisley, etc, potremmo anche storcere il naso e fare i difficili. Questa, oltre a mostrare opere degne e discontinue, ha però un’idea, che non è trascurabile. Rivelare alcuni segreti tecnici, permettere al pubblico di decidere, lenti alle mani, se un Monet della loro collezione è vero o falso, simulare ai visitatori, in un modo un poco scolare - ma non dispiace mai tornare un po’infanti! - e far loro «indossare» quelli che sono i metodi d’investigazione dei conoscitori e attribuzionisti, e infine, il che non è mai male, sconfiggere alcuni luoghi comuni. Quello dell’en plein air, che è stato da sempre un cavallo di battaglia un po’ semplicistico della critica. Non è vero che gli Impressionisti siano i primi pittori a uscire all’esterno, perché già Poussin e Bernini, per

C’

esempio, si raccontano in presa diretta, mentre schizzano direttamente dalla natura: ma poi è vero che prendono appunti, progettano il da farsi, per realizzare dopo, con agio, le opere in studio. E certo a influire è soprattutto la tecnica: allora non esistevano come colori altro che terre mesticate con colle animali, un lavoro complesso delegato al ragazzo di bottega (che poteva anche essere Leonardo, alla corte di Verrocchio). Ora invece ecco che poco a poco arrivano i primi colori a olio in tubetto (preziosi gli esemplari storici in mostra), i primi cavalletti comodi, da portare in spalla, le valigette tutto-fare con anche il coperchio a scansie, per poter portare senza disastro le piccole telette ancora fresche, tipiche del veloce gusto meteorologico impressionista (i piccoli studi gentili di nuvole, onde, crepuscoli).

E qui ci sono anche prove provate: per esempio la presenza di granelli di sabbia per un’opera di Guillamin, o di polline di pioppi impastati dentro il verde per un bel Caillebotte, pittore molto presente in questa collezione originale. È noto che Monet, per dipingere senza questi inconvenienti, come i pittori zen delle lacche cinesi, e per essere completamente attorniato dalla natura, si era fatto costruire un atelier-bateau, con cui perlustrava la Senna. La tecnica che influenza lo stile, certamente: con pennellesse ampie per il far veloce, spatole per distribuire vaste porzioni di cromie, che simulano mareggiate, slavine o nevicate, addirittura l’uso di cornici dipinte o a riverbero (vedi il caso interessantissimo di Pissarro, che proponeva, e questo elemento si è incredibilmente perduto nell’oblio, delle modernissime cornici bianche, a taglio già mondrianesco, che dovevano esaltare i riflessi della sua pittura). Quadri incornicati, dunque considerati finiti e degni di essere esposti, contro le frecciate della critica reazionaria, che considerava questi «aborti» come mai conclusi. La mostra, che è arricchiata da un interessante catalogo bilingue Skira non si limita dunque a esporre tele interessanti, ma anche lettere, documenti, oggetti, cavalletti mobili, e mette a disposizione lenti, risultati di infrarossi e raggi x per smontare un altro luogo comune, che i pittori della luce dipingessero alla prima, senza ricorrere a disegni preparatori o schizzi che trapelano dalle indagini spettografiche. Impressionisti, ma con misura.

Dipingere la luce, Firenze, Palazzo Strozzi fino al 28 settembre

autostorie

Quell’Araba Fenice chiamata Fiat

di Paolo Malagodi accontare il risanamento, effettuato in questi quattro anni, di una complessa situazione quale quella di Fiat Auto è l’obiettivo dell’ultima fatica di Giuseppe Volpato; che, pur operando da una sede universitaria con le fondamenta nell’acqua, vanta una solida produzione scientifica dedicata ai casi delle quattro ruote. Di fatto coincidenti, nel nostro paese, con le vicende di un gruppo Fiat al quale, già nel 1995, l’economista veneziano aveva dedicato una circostanziata ricerca, ampliata in una edizione del 2004, con la situazione prodottasi dopo la morte di Giovanni Agnelli e del fratello Umberto, sino alla nomina di Luca Cordero di Montezemolo alla presidenza della società torinese. In un periodo tan-

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to delicato da mettere in forse la sopravvivenza dell’azienda, con la nomina nel giugno 2004 di Sergio Marchionne quale amministratore delegato del gruppo e con la sua assunzione, dal febbraio 2005, della conduzione diretta del comparto auto. Dal quale derivavano i guai maggiori, per un progressivo calo di quote di mercato e di produzione che, come ebbe a sottolineare con sottile umorismo lo stesso Marchionne, facevano «perdere due milioni di euro al giorno, compresi i week end». Mentre quattro anni dopo il settore auto è tornato a generare profitti, che portano attualmente il gruppo Fiat a capitalizzare in borsa un valore superiore a quello di due colossi, come General Motors e Ford, messi insieme. Risanamento che «non ha nulla di esoterico, di segreto o di miracoloso, ma

che è una grande impresa collettiva. Non si trattava tanto di individuare la strada, quanto di creare le condizioni perché la strada indicata fosse percorsa a passo di carica da migliaia di dipendenti, fornitori, concessionari, suscitando entusiasmo in una azienda in fase agonica e mettendo mano a un vero e proprio rovesciamento culturale delle precedenti abitudini dell’azienda, tanto indifendibili sul piano della coerenza e della logica manageriali quanto ormai radicate e apparentemente inamovibili dal costume organizzativo e gestionale della società torinese». Una situazione che Marchionne ha saputo ribaltare, grazie «soprattutto alla sua capacità nel valutare e selezionare gli uomini all’interno dell’azienda e cercare altrove, anche in concorrenti della Fiat, soggetti interessati a entrare in questo disegno

tanto difficile quanto coinvolgente». Come sottolinea Giuseppe Volpato, sin dalle prime battute di un testo (Fiat Group Automobiles: un’Araba Fenice nell’industria automobilistica internazionale, edizioni Il Mulino, 322 pagine, 25,00 euro) di estremo interesse per un vasto pubblico di operatori del settore, in particolare per i concessionari, oltreché pensato per usi universitari e rivolto a studenti che stanno completando la loro formazione nelle discipline economico-manageriali. Ma scritto in maniera tanto chiara e coinvolgente, da renderne la lettura consigliabile a chi voglia precise valutazioni su un gruppo Fiat che, pur risanato, «in campo automobilistico si trova a operare - conclude Volpato - come un giocatore di roulette, costretto a fare delle puntate in rapida successione su una pluralità di tavoli».


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architettura

20 settembre 2008 • pagina 15

Jesolo riqualificata da Richard Meier

entre a Roma imperversano le polemiche sulla teca dell’Ara Pacis, nel 2003 l’impresa di costruzioni altoatesina Hobag contatta lo studio Renzo Piano per commissionargli un progetto di residenze sul litorale di Jesolo. L’architetto genovese, gravato da molti incarichi professionali, è costretto a declinare l’offerta e suggerisce di approfittare della presenza di Meier a Roma per prospettargli la proposta. Meier viene dunque intercettato e, dopo aver visitato il sito, accetta di progettare il complesso Jesolo Lido. Si tratta di un sistema di edifici residenziali: case da appartamenti, un albergo e un residence, da costruire a Jesolo, una frequentata località balneare a circa 40 km da Venezia. L’ambiziosa ipotesi progettuale della Hobag si inserisce in un più vasto progetto di riqualificazione della località balneare, promosso dal Comune sulla base di un piano firmato dallo studio giapponese Kenzo Tange, che prevede architetture, piazze e giardini ideate da progettisti di fama internazionale, come lo spagnolo Carlos Ferrater, i portoghesi Gonçalo Byrne e João Nunes, e l’angloirachena Zaha Hadid. La costruzione dell’insediamento Jesolo Lido localizzato sul lungomare, in continuità con la spiaggia, procede per parti. Dapprima si realizza, tra il 2003 e il 2007, il nucleo denominato Jesolo

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archeologia

I parallelepipedi residenziali, rigorosamente bianchi, eleganti e raffinati, sono schermati da candide griglie metalliche con funzione frangisole; ugualmente di metallo bianco, simili a scalette di piroscadi Marzia Marandola fi, sono le rampe che distribuiscono i tre piani, con i gradini di legno scuro. L’impianto generale è configurato su una U che circoscrive uno spazio interno allungato, sul quale affacciano tutti gli appartamenti: bordata dal verde di accuratissimi giardini condominiali, questa corte è ritagliata da una piscina rettangolare,che evoca un classico impluvio, incorniciata da un piancito di doghe di legno, sul quale si allineano ordinatamente le sinuose chaises longues, anch’esse di legno. Dallo spazio schermato della corte, si imposta un canale prospettico che, attentamente calibrato, apre la vista sul mare. L’alta qualità architettonica è rispecchiata dalle rifiniture accuratissime, dai dettagli costruttivi e di arredo esterno - cestiUno scorcio del villaggio ni dei rifiuti, pulsantiere, cancelli al Lido di Jesolo etc. -, dalle essenze mediterranee progettato dei giardini, tanto da meritare alda Richard Meier l’impresa Hobag il premio Internazionale di Architettura Dedalo MiLido Village: ottantuno appartamenti distribuiti in nosse 2008 per la committenza. L’intervento verrà otto unità edilizie di tre piani; su una piccola piaz- completato sul fronte mare nel 2011 dall’hotel e za intitolata a Le Corbusier, posta sulla testata del dalla palazzina residenziale, entrambi di otto piacomplesso, si aprono alcuni esercizi commerciali. ni, in corso di progettazione.

A Rhiab il rifugio dei settanta amati da Dio di Rossella Fabiani er il capo della locale soprintendenza archeologica, Abdul Kader Al-Hussan, non ci sono dubbi: la cavità da poco scoperta a Rhiab veniva usata come rifugio dai primi cristiani. Narra il Vangelo di Luca che settanta discepoli vennero incaricati di diffondere il verbo di Cristo, in gran segreto, per non finire nelle maglie della persecuzione che colpiva chiunque professasse la nuova religione. Secondo gli archeologi giordani sarebbero stati proprio questi cristiani delle origini, fuggiti da Gerusalemme, a essersi riuniti nella grotta, in un periodo compreso tra gli anni 33 e 70 della nuova era. La struttura rupestre si trova al di sotto di un altro edificio di culto, la chiesa di San Giorgio, risalente al III secolo e considerata fra i più antichi luoghi di culto cristiani conosciuti. Qui, un’iscrizione musiva fa riferimento ai «settanta amati da Dio», un’allusione - secondo AlHussan - al gruppo di cristiani che in questo luogo trovarono rifugio alle persecuzioni. Una scala conduce all’ambiente ipogeo, lungo dodici metri e largo sette, dove è stato individuato uno spazio circolare, simile a un’abside, insieme a una serie di sedili scolpiti nella roccia. Una parete separa la zona di culto da ambienti forse usati come abitazioni;

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inoltre un passaggio sotterraneo portava direttamente a una sorgente d’acqua. Può essere la prima chiesa cristiana? Se, come sostiene Sawsan Fachiri, direttore del Dipartimento per le Antichità di Aqaba, la chiesa risale probabilmente al III secolo, si tratterebbe effettivamente del più antico edificio costruito e destinato al culto cristiano. Fino a

oggi, però, nessun elemento che lo testimoni è emerso dagli scavi in corso (nella foto, ndr), nessuna moneta, nessuna iscrizione recante una datazione. Dopo il 313, anno della «Pace della Chiesa» in cui Costantino promulgò l’editto che pose ufficialmente fine al-

le persecuzioni religiose, in tutta la Terra Santa si assistette al fiorire di un gran numero di basiliche cristiane. Ancora oggi, vi si trovano più resti di antichi edifici di culto che in qualsiasi altra parte del mondo. Ma dove si riunivano i primi cristiani durante i secoli delle persecuzioni precedenti al 313? Secondo l’opinione corrente, i primi edifici di culto propriamente detti, strutturati per le riunioni liturgiche, risalgono solo all’età di Costantino. Alcune fonti letterarie, però, alludono all’esistenza di «basiliche» (letteralmente «edificio regale») già prima del 313 e, mentre i Vangeli alludono a una «camera alta» come luogo di riunione degli apostoli, i testi ci dicono che i fedeli si riunivano in luoghi, adatti allo scopo, ma senza requisiti particolari o installazioni fisse, messi a disposizione da membri della comunità. Questi luoghi vennero chiamati domus ecclesiae, ossia «case-chiese»; si tratta dei primi luoghi di culto cristiani, la cui identificazione è resa difficile proprio per la loro somiglianza con gli altri ambienti abitativi. Nel III secolo, poi, a Roma e in altre località, sorgono i primi cimiteri sotterranei specificatamente cristiani, insieme ai primi luoghi fissi destinati alle adunanze dei credenti. È a questa tipologia che, con più probabilità, potrebbe riferirsi l’ambiente rupestre scoperto a Rihab.


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cristalli sognanti

MobyDICK

ai confini della realtà

L’arte dell’invisibilità n intellettuale vero. Sobrio nei gesti, nelle forme e nella gestione delle amicizie più profonde. Animato da quella discrezione tipica di chi sa di poter comunicare molto ma anche di dover passare il resto della propria vita a imparare continuamente per poter ravvivare il fuoco della conoscenza. Tutto questo e tanto altro ancora era Franco Cuomo, scrittore, giornalista, saggista scomparso poco più di un anno fa per le sfortunate conseguenze di un intervento al cuore, quando aveva appena ingranato la prima marcia di un percorso artistico che chissà quanti altri successi gli avrebbe garantito e quanti altri allievi gli avrebbe fatto guadagnare.

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Conobbi Franco Cuomo quando avevo appena diciotto anni e da pochi giorni ero entrato a far parte di quel meraviglioso laboratorio di idee e scrittura che era Solathia, il periodico della Lucarini che Gabriele la Porta aveva intenzione di ricostruire avvalendosi di alcuni nomi illustri del panorama culturale italiano del momento ma anche di tanti giovani di belle speranze, animati dal sacro fuoco della cultura e del giornalismo. La Porta era riuscito ad attirare nel progetto tante firme che avevano costituito una vera e propria muraglia difensiva nei confronti delle giovani leve intenzionate a imparare non solo come scrivere ma anche come comunicare quegli ideali di libertà e tolleranza che dovevano essere, prima di uno stile fluido e leggibile, il primo obiettivo del divenire buoni giornalisti. Intellettuali di matrice liberale, socialista e cattolica uniti per insegnare ai giovani come fosse importante e quanto valesse la ricchezza della diversità. Così mi ritrovai, ancora giovane e inesperto, a confrontarmi con scrittori dai nomi pesantissimi come Grillandi e Al-

di Roberto Genovesi tomonte e con giornalisti di già comprovata classe come Italo Moscati, Riccardo Reim e, naturalmente, Franco Cuomo.Tuttavia fu un altro il momento che segnò l’inizio di una lunga e bellissima amicizia. Ritrovai Franco Cuomo nella commissione d’esame, presieduta da Angela Buttiglione, che avrebbe dovuto decidere se accogliermi o meno nell’ordine dei giornalisti nella categoria professionisti. Era l’anno 1989 e fu proprio Cuomo a consegnarmi il Premio Lucini come migliore giornalista della sessione. Franco non è stato solo un maestro di giornalismo ma anche un maestro di vita, bravo com’era a dimostrare con l’esempio personale quanto fossero

sto è stato poco prima che se ne andasse. Stavo per consegnare la sceneggiatura della biografia di Carlo Magno e Cuomo era stato autore di una lunga saga composta da più romanzi dedicata proprio al re e imperatore franco che tanto successo aveva riscosso per i tipi di Newton Compton. Ci siamo visti nel suo studio caverna, come amava chiamarlo, allestito a pochi passi dalla sua abitazione nel centro di Roma. Un tempio fatto di scaffali stracolmi di libri che si poteva percorrere solo scegliendo un itinerario prestabilito, come una sorta di immaginario labirinto della scrittura. Anche in quella occasione, come in tante altre, abbiamo finito per parla-

A una anno dalla scomparsa, ricordo di Franco Cuomo, l’intellettuale che seppe restare fuori dal tempo per farsi testimone dei vilipesi dalla storia. Come dimostra il suo libro postumo dedicato al tradimento del templare Squinn de Floyran importanti preparazione e qualità in vece di quel clamore, spesso sorretto dal fumo, che oggi porta così tanti sedicenti intellettuali alla ribalta di trasmissioni televisive o premi letterari. Per questo Franco, con pochi altri colleghi tra i quali Gianfranco de Turris e lo stesso Gabriele La Porta, è stato per me un punto di riferimento. Quando c’era da chiedere un consiglio, un’indicazione, una fonte, la telefonata o la cena con Franco Cuomo erano i passi principali da compiere. L’ultima volta che l’ho vi-

re di politica e fare paragoni tra gli uomini del passato e quelli del presente. Una discussione che, come tutte le altre, Cuomo conduceva con il disincanto dell’uomo consapevole di vivere fuori dal tempo, quasi testimone e non protagonista di un’epoca. Perché Franco era un narratore del suo tempo nel verso senso della parola. Sapeva che compito di uno scrittore, un intellettuale vero, non era quello di farsi coinvolgere negli equilibri del contingente ma cercare piuttosto di raccoglierne le fo-

tografie più nitide per consegnarle al tempo anche usando gli strumenti dell’allegoria e del paradosso.

Sarà forse per questo che era tanto stimato da chi come Maurizio Scaparro e Carmelo Bene, ha fatto del paradosso la linfa vitale della propria carriera. E se è vero che un artista dello scrivere si riconosce anche e soprattutto dagli autori che ama leggere o citare, emblematico è il cappello di citazione che ritroviamo nel suo sito internet, ancora periodicamente aggiornato all’indirizzo www.francocuomo.it «Tutti i convenevoli d’uso sono inutili. Non c’è nessuno qui, non c’è mai stato nessuno» è la massima di André Breton e Paul Eluard che apre la homepage. Una citazione profetica, quasi un commiato in grande stile per un grande scrittore che sapeva quanto l’arma più potente per un intellettuale di razza sia sempre stata e sarà sempre l’invisibilità. Quell’invisibilità che portava Cuomo a percorrere le strade della storia e della leggenda con il cipiglio e il disincanto del bardo di lungo corso. Un cantastorie d’altri tempi che guardava sempre con occhio benevolo i protagonisti emarginati o vilipesi dalla storia o dai poteri forti che la storia avevano dettato prima con le azioni e poi con i resoconti «ufficiali». Non è un caso che il libro postumo che Baldini e Castoldi pubblica in questi giorni sia Il tradimento del templare. Squinn de Floyran, il cavaliere che tradì il suo ordine e che consegnò al rogo il gran maestro Jacques de Molay, l’uomo più ricercato d’Europa del quale Cuomo prova a capire le ragioni. Perché, come ha sempre insegnato ai suoi allievi, tra il bene assoluto e il male assoluto, esiste una fitta gamma di sfumature di grigio che rappresentano le sfaccettate e multiformi ragioni dell’uomo.


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