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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

QUEL CHE RESTA DI MORAVIA A vent’anni anni dalla morte

di Pier Mario Fasanotti

dalla sua morte (26 settembre 1990) si tende a evitare il tono inneggiante privilegiandiscorsi che si fanno attorno ad Alberto Moravia cominciano a essere diversi. Nel senso che da più parti - angolazioni autorevoli e non Superata do l’analisi critica, finalmente più variegata e più pacata. La Bompiani, sua storica casa editrice, ha organizzato (nella Sala Buzzati di Milano) nei giorni ideologicamente biliose - si comincia a ragionare sul valore della sua la beatificazione scorsi una serie di incontri e discussioni sull’autore che pare sia unaopera, su quanto «rimane» di lui, attraverso un’operazione critipolitico-letteraria praticata nimemente considerato grande per Gli indifferenti (1929) ma un ca che definirei «laica», ossia il più possibile lontana dalla beatificazione politico-letteraria di uno scrittore che ci ha forpo’ meno per le opere che seguirono a quel romanzo che da una critica “tifosa”, oggi è nito una trentina di opere e un’immagine di sé che Umberto Eco ha chiamato «un evento sconcertante», possibile dare un giudizio più meditato sulla un punto ottimale di rottura e quindi di innovalo si deve pur dire una buona volta - non è accatzione nella nostra storia letteraria del Novecento. tivante, non simpatica e, se si bada alle sue dichiasua opera. Che merita un posto privilegiato L’editore ha presentato Vita di Moravia di René de Cecrazioni, né provocatoria né per certi versi profonda. L’onello scaffale, anche se appare leografia moraviana ha cominciato a mostrare qualche crecatty, Moravia e i fratelli Rosselli con le lettere che lo scrittocircondata da una certa pa nel 1997 in occasione del centenario della nascita, e anche alre della Noia inviò (1915-’51) ad Amelia Rosselli, e ha organizzalora si mosse, con fare un po’isterico, il cosiddetto «clan Moravia» (coto un simposio sull’importanza del narratore romano (nato Pincherle) indifferenza rifeo su sempre Enzo Siciliano): guai a non omaggiarlo, guai a non considenel cinema: si pensi solo ad alcuni titoli come La romana, La ciociara e il belrarlo il classico moderno per eccellenza. Oggi che si commemorano i vent’anni lissimo Il conformista (1970) di Bertolucci.

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Parola chiave Scuola di Gennaro Malgieri Con Cyndi Lauper il blues è femmina di Stefano Bianchi

NELLA PAGINA DI POESIA

I ruggiti di Foscolo, poeta civile di Filippo La Porta

Citati racconta il suo Leopardi di Gloria Piccioni Due fratelli capolavoro di Anselma Dell’Olio

Anticomania con sfarzo di Marco Vallora


quel che resta di

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Moravia

Questioni di stile

vent’anni dalla sua morte ripensiamo po, De Marsanich, che certo si dimostrò sencon attenzione e grande rispetto ad Alsibile alle positive novità. berto Moravia. Pittura, narrativa. Diverso il caso dell’andaVorrei partire da una considerazione mento novecentesco della poesia: da Ungaretgenerale che riguarda la pittura e la narrativa ti, Montale, Campana, Saba a Caproni e Luzi del Novecento. Alla fine della guerra si intensio Sereni si individuavano nette discendenze ficarono molto le tendenze, le ricerche e quindi di stile, di stati d’animo, di esplorazioni sentii giudizi sulla letteratura e sull’arte nel nostro mentali. Solo molto più tardi doveva nascere Paese. Per la pittura, ad esempio, ci fu da una una sorta di muro realista, discorsivo, dichiadi Leone Piccioni parte la riaffermazione dei valori raggiunti nerativo: Sanguinetti, ad esempio, Fortini e non gli anni precedenti come avveniva pensando in tutte le sue prove ma in alcuni tentativi proall’arte somma di Morandi (e con lui ai grandi pittori che discendevano dalle grammatici, Pasolini. E questo muro non dava alternative. Quello che riscontravaprove iniziali della pittura metafisica); dall’altra parte, invece, una folta e nuova mo in Gadda, Landolfi e altri era, appunto, una approfondita ricerca di stile con tocschiera alimentata anche da atteggiamenti politici per una affermazione piena canti ispirazioni liriche, che nascevano ogni tanto come fiori improvvisi. In Moradi realismo e del realismo socialista. Giustamente il portabandiera di questa via queste caratteristiche non riuscivamo a ritrovare. presenza nel Paese fu Renato Guttuso. Noi dunque preferiamo Morandi a GutAlle spalle di Moravia c’erano, certo, formidabili riferimenti alla grande letteratura tuso: quando dico «noi», dico di quel gruppo di studiosi e di giovani impegnati russa e al romanzo francese dell’Ottocento. Nella sua narrativa appariva una cupa in quella che si poteva chiamare «critica stilistica». Eccoci dunque alla letteravisione del mondo alla ricerca di una giustizia sociale, con riferimento particolare tura: Gadda, Landolfi, Bilenchi (e altri) da una parte, Moravia, soprattutto, e alalla borghesia contemporanea. E bisogna pensare anche al clima della dittatura del tri (si pensi ad esempio alla «conversione» di Pasolini dalla iniziale prosa d’artempo, specialmente quando scoppiarono le leggi razziali che costrinsero anche te a quella che poi fu definita «letteratura nazional popolare»). Così, quando in Moravia a nascondersi per evitare il campo di concentramento. un breve libro di miei saggi dovetti scegliere la copertina chiesi e ottenni che fosMoravia fu costretto a scrivere con una firma diversa i suoi articoli ma nel frattemse riprodotto un quadro di Morandi. Naturalmente avevamo letto con grande ripo, fra il ’37 e il ’41, uscirono altri libri che dovettero fare i conti con la censura. Del spetto e apprezzato la narrativa di Moravia, e le nostre preferenze andavano da’45 è il suo primo pamphlet intitolato La speranza ossia Cristanesimo e comunismo gli Indifferenti del ’29 a racconti bellissimi coche svelava la sua adesione al marxismo. me Agostino e Inverno di malato, fino alla Ma nel ’58, quando tra i libri di viaggio si potè leggere Un mese in Urss , si sentiva che drammaticità di un romanzo come Il disprezzo. Si aggiunga la nostra ammirazione per tante delusioni affioravano nella mente di Moravia. Ai libri di viaggio abbiamo accenquasi tutti i suoi libri di viaggio. nato: si ricordino quelli dal Sahara, dall’InNel pieno del fascismo dell’anteguerra era midia, dalla Cina. I libri invece che abbiamo racolosamente sfuggito alla censura un libro giudicato più negativamente sono La noia e capofila come, appunto, Gli indifferenti, incenIo e lui. Rientriamo dunque nella mia catrato sul clima opaco e terribilmente borghesa nella quale possono stare vicini Mose di quegli anni dissoluti. Il romanzo passò randi alle pareti e negli scaffali l’opera si dice - grazie alla protezione di un parente di di Alberto Moravia. Moravia vicino a un gerarca fascista del tem-

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Circa le sue poesie è meglio tacere: non aveva la stoffa, era privo di intimi umori, non era nelle sue corde alcunché che si distanziasse dall’ingegneria lessicale. Lo stesso discorso vale anche per il suo rapporto con l’infinito e in genere la religione: per sua stessa ammissione, non riusciva a intuire il nucleo, anche simbolico, dell’Apocalisse. Tanto è vero che ammise che gli riusciva più facile, in tema di catastrofi ultime, analizzare il dramma dell’umanità parlando dei nazisti. Non credeva in Dio, ma nemmeno aveva i tormenti del non credente o del non praticante (come Pasolini, per esempio). In occasione di un viaggio a Gerusalemme, riferì di un brivido di emozione, di un frisson passeggero, salvo poi spiegare (e voler spiegare sempre era la sua vocazione) d’essere interessato, semmai, alla figura di Gesù. Appunto perché uomo, personaggio della storia. Ciò che è dietro, o meglio sopra, i Vangeli non l’afferrava. O non lo interessava, più semplicemente. Indaffarato a vivisezionare i vizi e le storture della borghesia novecentesca, le sue facce farisaiche (ma non fu certo così innovativo: si pensi alla produzione francese che va da Balzac a Simenon), Moravia doveva però vedersela col tema dell’indifferenza. Si legge nella Romana: «La storia dell’umanità non è che un lungo sbadiglio di noia».Viene in mente quel bel libro (Mondadori) di Renzo Paris, intitolato Moravia, una vita controvoglia. Aveva voglia di capire tutto, ma con strumenti mutuati dalla psicoanalisi e dalla sociologia, ponendo in second’ordine il pathos, la confusione degli affetti, l’anelito dell’uomo che ha desiderio di urlare. Moravia nei suoi scritti non ha mai urlato. Oggi si ha la sensazione che Moravia sia certamente da collocare in un privilegiato scaffale, ma non in quella biblioteca intima dove campeggiano autori più profondi e tormentati. Converrebbe riflettere su ciò che scrisse Karl Kraus: «L’arte è ciò che diventa mondo, non ciò che è mondo». Le conseguenze potrebbero rivelarsi dissacranti. Oggi si legge ancora Moravia? Le vendite delle sue opere hanno un andamento lento e mediocremente costante. Mai un’impennata. La scuola italiana, salvo eccezioni, arriva a ignorarlo, preferendo Italo Calvino, Leonardo Sciascia e Pier Paolo Pasolini. Autori, questi due, che hanno lasciato impareggiabili lezioni civili, intuizioni geniali, rabbia e profondità. Ovvio che quella nebulosa che si chiama pubblico giovanile sia un poco, o del tutto, indifferente al geoanno III - numero 34 - pagina II

Alla fine degli anni Sessanta ritornai in Italia e poco dopo ebbi la fortuna di incontrare e conoscere Alberto Moravia. Iniziò subito una bella amicizia: fu certamente il comune amore per l’Africa che ci legò. Decidemmo, verso la fine degli anni Settanta, di andare assieme in Africa: Moravia voleva vedere i luoghi dove avevo passato tanti anni felici, voleva vedere l’Africa Nera con i suoi grandi animali. Furono viaggi bellissimi, un compagno di viaggio, Moravia, straordinario, instancabile e con una curiosità infinita. È con grande emozione, oggi, a vent’anni dalla sua morte, che ricordo quel tempo, quell’amicizia, quell’intelligenza folgorante. Senza Moravia la mia vita è diversa. Lorenzo Capellini (Le foto pubblicate in queste pagine sono di Lorenzo Capellini)

metrico Moravia. Geometrico ma pure così spigoloso nei contatti con il pubblico e gli ossequianti suoi intervistatori. La critica più illuminata, e meno «tifosa» per ragioni di consorteria, è unanime nel dichiarare che il diapason artistico Moravia lo raggiunse con Gli indifferenti, che è da definire una grottesca tragedia all’interno dell’ipocrisia borghese-fascista.Angelo Guglielmi, tra i più importanti e ascoltati critici letterari, scrive nel suo Il romanzo e la realtà (Bompiani): «Indubbiamente Moravia è il nostro scrittore più dotato. Ma il suo limite non è proprio nel fatto che egli si accosta alla realtà armato di pregiudizi ideologici?». E ancora: «Conseguenza della mediazione ideologica cui sottopone i suoi personaggi è che essi risultano stereotipati e convenzionali e quand’anche veri di una verità cronachistica non significante. Si pensi invece con la stessa materia che cosa riesce a fare Céline!». Guglielmi non a caso si sofferma sul valore innovativo di Carlo Emilio Gadda. Ma la staffilata vera è la seguente: «Moravia scrisse come un antico… è acquattato dietro ogni parola… la sua narrativa rischia sempre risultati di un semplicismo disarmante». È da ascoltare un altro valente critico, Giulio Ferroni, contro il quale anni fa si scagliò Enzo Siciliano, vestale dell’eredità moraviana, refrattario a qualsiasi «parola contro» e timoroso dinanzi a qualsiasi cosa che potesse somigliare a una liquidazione letteraria del suo idolatrato maestro. Ferroni fa alcune precisazioni: «Moravia è uno scrittore che conta molto in questo secolo e, con il passare del tempo, con una sua progressiva inattualità, credo che diventerà anche più grande. Ha senz’altro costituito un mito culturale e lui stesso ha avuto una grande curiosità per i giovani autori, ma - per i suoi modi di scrittura e per il suo rapporto tra narrativa e mondo non mi pare possibile che l’opera moraviana possa essere un punto di riferimento.Voglio dire che, per accostarsi davvero al suo mondo, occorre uno scrittore di razza capace di penetrare in strutture letterarie molto complesse». Ferroni sostiene poi un elemento fondamentale, anche se imbarazzante per molti, ossia che Moravia giganteggia anche, o soprattutto, per la presenza di tanti «scrittori-bonsai» di oggi. Insomma, si può anche essere indifferenti (scusate il gioco di parole) a Moravia, ma la produzione letteraria dell’Italia odierna spinge a leggere o a rileggere gli scritti di quel tale giovanissimo e malaticcio Pincherle che fece un gran botto con Gli indifferenti, anche se poi con tante altre pagine non riuscì a essere all’altezza di se stesso.


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SCUOLA autunno s’annuncia, da tempo immemorabile ormai, con le consuete polemiche sulla scuola, le sue disfunzioni, le sue incongruenze, l’insoddisfazione che segna l’ingresso degli studenti nelle aule, le preoccupazioni dei genitori e quelle dei docenti. Strutture perlopiù fatiscenti accolgono ogni anno ragazzi e ragazze di tutte le età che non hanno nessuna voglia di prepararsi al futuro ben sapendo che difficilmente ne avranno uno uscendo da un sistema formativo che a tutto provvede tranne che a fornire indirizzi adeguati per scelte che possano risultare produttive. Così la scuola, lungi dall’innestare nelle giovani coscienze, quegli elementi necessari alla costruzione di uno spirito critico, risulta essere un luogo nel quale trascorrere inutilmente il tempo per i discenti e un gravoso onere, peraltro malpagato, per gli insegnanti che la frequentano tra indicibili incertezze, insoddisfazioni, incomprensioni. Diciamocelo senza inutili e ipocriti giri di parole: la scuola italiana non piace a nessuno purtroppo, neppure a quelle turbe di burocrati ministeriali che nel corso di quattro decenni hanno messo una cura maniacale nello smantellarla a colpi di riforme demagogiche delle quali si sono assunte le paternità i vari ministri che si sono succeduti sulla poltrona più alta del palazzone di viale Trastevere. In questo lungo dopoguerra, la scuola è stato un laboratorio di inquietudini. Pochi studenti l’hanno affrontata con lo spirito giusto e ne hanno guadagnato in termini culturali e civili; altrettanto pochi professori si sono immedesimati nel loro ruolo e hanno cercato di dare il meglio, fedeli a precetti morali e pedagogici diventati sempre più merce rara con il passare del tempo. Dai cosiddetti «decreti delegati» che alla fine degli anni Sessanta e gli inizi dei Settanta incendiarono letteralmente il sistema scolastico, alle ultime riforme (non c’è stato ministro che non si sia cimentato nel tentativo di cambiare in tutto o in parte la scuola) incomprensibili e contraddittorie, per non dire degli scarsi investimenti che nella formazione sono stati fatti da tutti i governi, è stata una sequela di occasioni mancate che hanno contribuito alla radicalizzazione della sfiducia e del disincanto. La scuola non è morta, ma vive in uno stato di perenne agonia dal quale è difficile, a meno di un miracolo, immaginare che possa uscire in tempi ragionevolmente brevi.

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Inutile ricordarle, perché tutti le conoscono avendo vissuto sulla loro pelle il disastro scolastico, le tappe della dissoluzione di una delle istituzioni civili e culturali più prestigiose della storia unitaria italiana. Ci limitiamo a sottolineare come oggi raccogliamo i frutti avvelenati dell’ideologizzazione scolastica che ha fatto da apripista all’egualitarismo più sconsiderato, mentre tutti invocano un ritorno alla meritocrazia. È questa un’esigenza reale, non vi è dubbio, ma i meccanismi attivati non consentono di raggiungere lo scopo. Uno dopo l’altro sono state distrutte, sotto i colpi di mannaia di pedagoghi ignoranti o,

È il cuore delle comunità che intendono crescere e svilupparsi. Ma da noi è ormai considerata solo un’appendice della politica. Così i progressi dell’ignoranza anticipano l’anarchismo sociale...

L’occasione mancata di Gennaro Malgieri

Fino a quando è rimasto in piedi, sia pure con le opportune modifiche, l’impianto gentiliano, la scuola italiana ha funzionato. Buttandolo a mare senza trovarne uno adeguato che lo sostituisse, senza mettere insieme nuove idee per una rinascita, è stata firmata una condanna: alla decadenza nella migliore delle ipotesi, funzionali a disegni politici tendenti all’omologazione delle giovani generazioni, quelle strutture formative che erano il vanto della scuola italiana. Ha cercato di resistere come ha potuto, grazie soprattutto a professori consci della loro «missione», il liceo classico, ma poi ha dovuto cedere davanti al fuoco di sbarramento «innovativo» di riformisti d’accatto; le elementari, vanto del nostro Paese al punto di essere copiate da altre nazioni, hanno dovuto subire l’affronto che altri riformatori rivoluzionari hanno arrecato al primo luogo dove i bambini, uscendo dal guscio familiare, trovavano la proiezione dell’autorità genitoriale e si identificavano in essa: non era abbastanza per chi li voleva immediatamente alla prova di fronte alla durezza della vita e gli ha fatto trovare non un maestro «onnisciente», ma tre, quattro, cinque docenti, con nessuna preparazione specifica, di fronte ai quali i piccoli alunni, sconcertati e disorientati, hanno preferito dedicarsi ai Puffi e a Tom e Gerry piuttosto che allo studio delle discipline tradizionali, troppo fuorvianti per le loro immature menti si è detto.

Diciamocelo, siamo franchi: fino a quando è rimasto in piedi, sia pure con le doverose e opportune modifiche, l’impianto gentiliano,la scuola italiana ha funzionato.Buttandolo a mare senza trovarne uno adeguato che lo sostituisse - fondato su una complessiva filosofia della scuola - ci siamo ritrovati nelle deprecabili condizioni che lamentiamo e ogni anno, con l’addio delle rondini diciamo addio, varcando la soglia dei «plessi» (si chiamano così ora) scolastici, anche alle speranze di avere un giorno, grazie all’insegnamento ricevuto, giovani in grado di affrontare la vita e prepararsi magari all’ingresso nell’Università. Già, l’Università. Noi sappiamo quali menti obnubilate dalla demagogia prepararono il piatto avvelenato della riforma elevando banali insegnamenti (perfino complementari) a corsi di laurea, per poi aggiungere che queste potevano essere brevi o lunghe, a seconda di quello che si voleva fare in seguito. Ne è seguito un marasma dal quale nessuno è in grado di uscire. Come nella scuola, sono scontenti, delusi, arrabbiati, i professori e gli studenti. Per non dire dei laureati dei quali solo uno su cento trova la strada di una profes-

sione coerente con il titolo conseguito. Chi poi, appassionandosi agli studi, volesse imboccare la via della ricerca, non ha che da fare le valigie e guadagnare l’uscita dai confini poiché non ci metterà molto a concludere che in Italia è impossibile applicarsi a una tale nobile attività dal momento che manca tutto, a cominciare dalle strutture adeguate e dai mezzi finanziari che lo Stato nega ai ricercatori senza neppure far finta di nasconderlo. Un paese che non produce ricerca, che chiude gli istituti di cultura, che non forma i giovani è un Paese destinato alla decadenza.

Il burocratismo, sovrappostosi alle degenerazioni ideologiche, ha completato l’opera. Non troverete in nessuna legge una logica che travalichi il ragionieristico computo della spesa e della resa.Vi imbatterete in conti indecifrabili, ma non in un’idea di formazione che, per quanto criticabile, possa rappresentare un orientamento nell’insegnare tanto nella scuola che nell’università. Eppure, per quanti problemi abbiamo, se non si mette mano, con serietà, a una riforma globale di tutto il comporto formativo, dalle materne alla ricerca scientifica e umanistica, risulterà vano ogni tentativo di dare un minimo di ordine alla nostra società. La scuola non è un’appendice della politica, come pure è stata considerata. Essa è verosimilmente il cuore delle comunità che intendono crescere e svilupparsi. Ci importa poco delle motivazioni che ogni ministro adduce a giustificazione dei suoi risibili interventi che si sovrappongono a quelli precedenti; e ancora di meno c’interessano le cifre che i ministri dell’Economia sciorinano per farci comprendere come alla scuola non si possono destinare che briciole. Resta il fatto che i progressi dell’ignoranza anticipano l’anarchismo sociale e non credo che sia questo l’esito a cui aspiri qualsiasi governo. Al punto in cui sono le cose è difficile dire cosa fare. Un consiglio piccolo piccolo ce lo avremmo, ma certamente non sarà tenuto in nessuna considerazione. In breve: si torni al passato, si recuperi il senso profondo della formazione dei ragazzi, ci si doti di strutture efficienti e di metodi di valutazione comprensibili (avete letto qualche pagella di recente? Ci vuole un decrittatore ministeriale.), si punti sulla qualità dell’insegnamento e si lascino perdere i fuochi fatui del pedagogismo progressista fondato su una visione egualitaria. Da queste cose, che non costano niente, si potrebbe partire, unitamente al ristabilimento dell’autorità dei docenti, un tempo figure-cardine del sistema sociale, oggi degradati, nell’immaginario della gente, a impiegati di serie C. Lo confesso, ho nostalgia della buona scuola del mio tempo. Non era quella delle tre I, come ci è stato detto che deve essere la scuola moderna, ma aveva tante altre qualità che comprendevano tutto l’alfabeto morale e spirituale di una persona e di una società. Dubito che ci sia in giro qualcuno, nell’ambito della pubblica istruzione, capace di mettere insieme idee per una rinascita. Ma vale la pena cercarlo.


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Cd

musica

MARIO BIONDI? GRANDE Nonostante Barry White di Bruno Giurato

di Stefano Bianchi ndici album all’attivo, più di quaranta singoli, trenta milioni di dischi venduti. Numeroni. Eppure, Cyndi Lauper continua a fare la figura della sorella racchia di Madonna e a rimanere appiccicata al cliché della ragazza tarantolata di Girls Just Want To Have Fun. Etichette dure a morire: come per quegli attori che debuttano nel ruolo di serial killer e tali rimangono per tutta la carriera, anche se si prendono la briga di recitare Shakespeare con fior d’intonazione «gassmaniana». Ma Cyndi, perbacco, meriterebbe almeno d’esser giudicata per quello che è: un’artista che dal botto del 1983 (e da quell’incredibile melodia intitolata Time After Time, furbescamente ripresa in chiave jazz da Miles Davis) s’è impegnata di buzzo buono a scrollarsi di dosso quell’insopportabile aria da Gelsomina di Fellini. Eccola, dunque, dopo il danzereccio e poco riuscito BringYa To The Brink del 2008, riprovarci con più gusto e convinzione dandosi anima e corpo nientemeno che al blues. «Questo è il disco che sognavo da anni e finalmente sono riuscita a realizzare», dice entusiasta. «I pezzi in scaletta e i grandi musicisti che vi partecipano, li ho scelti personalmente dopo averli venerati per tutta la vita. E che stessimo creando qualcosa di speciale, l’ho intuito nell’istante in cui Allen Toussaint ha accarezzato col suo pianoforte le note di Shattered Dreams». Brano sublime, d’enfasi cheek to cheek, infilato fra i dodici di Memphis Blues, registrato all’Electraphonic Recording Studio della capitale del Tennessee. Cyndi Lauper sings the Blues. Alla grande. Senza timore reverenziale. La newyorkese che a dodici anni cominciò a suonare la chitarra e a buttar giù le prime

il nostro Stevie Wonder, è il nostro soulman, è il nostro blue brother, e in più è di Catania, la terra che dai cantastorie a Carmen Consoli la sa lunga in fatto di show. E lo show, il ritmo antidepressivo, allegro, anticrisi è la misura giusta di quest’omaccio con il barbone e il vocione. Mario Biondi, alias Mario Ranno, è adatto ai tempi tristi tempi perché fa allegria e contrasto, perché è un bell’oggetto pop, un siciliano che canta in inglese stretto, perché al mondo esistono anche l’estate, i completi di lino elegantemente spiegazzati, il relax con in mano un Negroni «sbagliato». E leggiamo sul Corriere che gli Incognito, la band che ha inventato l’acid jazz, celebrano il nostro Mario ospite del loro ultimo disco Transatlantic R.P.M. «Mario? È sicuramente tra i grandissimi. Se solo lo conoscessero in America impazzirebbero per lui», dice Jean-Paul «Bluey» Maunick della band inglese. La cosa ci fa vieppiù piacere, come quando sentiamo Francesco Cafiso, il ragazzino prodigio del sax che suona proprio come un jazzista vero, come quando sentiamo che Paolo Fresu ed Enrico Rava non hanno niente da invidiare ai più grandi maestri americani, come quando si dice che questa o quella musica italiana «è cresciuta» e viene «riconsciuta a livello internazionale». Anche se c’è sempre il dubbio che dietro a questi discorsi giri l’ombra inquieta del provincialismo insoddisfatto. I maligni, infatti sostengono che tra un disco d Fresu e uno di Miles, sia da preferire Miles; e che tra quelli di Rava e quelli di Chet Baker sia meglio Baker. La cosa che fa arrabbiare di più Biondi è che lo si paragoni a Barry White, ma rimediare sarebbe semplicissimo, basterebbe che smettesse di comporre, suonare, cantare come Barry White. I maligni tacerebbero, e forse correrebbero a comprare una giacca di lino come la sua.

È

U

Jazz

zapping

Cyndi Lauper

il blues è femmina canzoni, affronta pezzi da novanta che farebbero tremare i polsi a chiunque altra: da Rollin’And Tumblin’ di Muddy Waters a Mother Earth di Memphis Slim, transitando per Crossroads (Robert Johnson), Early In The Mornin’ (Louis Jordan) e Just Your Fool (Little Walter Jacobs). Non è la prima volta che si dà alle rivisitazioni: la ricordiamo, era la metà degli anni Settanta, in alcune cover band a intonare canzoni di Jefferson Airplane, Led Zeppelin, Bad Company; ed è di sette anni fa At Last, disco pieno di gemme vintage: da Walk On By di Burt Bacharach, a If You Go Away (Ne Me Quitte Pas) di Jacques Brel. Stavolta, accompagnata da illustri sessionmen della Stax Records quali Lester Snell (tastiere) e Charles «Skip» Pitts (chitarra), nonché dal trombettista Marc Franklin e dai sassofonisti Kirk Smother

e Derrick Williams, con voce granulosa si mette a «bluesare» spalleggiata da ospiti di gran lusso. Dopo la rilassatezza di Shattered Dreams, Allen Toussaint si rifà vivo nel sound avviluppante di Mother Earth per poi condividere le pennellate calypso di Early In The Mornin’ con l’ottantacinquenne chitarrista B.B. King. L’armonicista Charlie Musselwhite, cavalca il ritmo sanguigno di Just Your Fool e l’energia contagiosa di Down Don’t Bother Me. Il trentenne Jonny Lang, chitarrista blues & rock, mette il suo strafottente virtuosismo al servizio di How Blue Can You Get? e (anche come vocalist) di Crossroads. Conclude, l’indomita Cyndi, con la debordante energia di Rollin’And Tumblin’. Accanto a lei c’è Ann Peebles, mattatrice del Memphis Soul anni Settanta e indimenticabile interprete di I Can’t Stand The Rain. Insieme, sono la prova lampante che quando il blues è femmina… è tutta un’altra cosa. Cyndi Lauper, Memphis Blues, Naïve/Mercer Street Records, 20,00 euro

Tom Harrell, il trombettista che si fa nota

ei mesi appena trascorsi sono stati organizzati centinaia di festival e più di mille concerti, mentre un numero imponente di musicisti ha percorso la penisola. La grande kermesse è ormai terminata e fra un paio di mesi inizierà quella invernale. Ovviamente non è stato possibile seguire tutto e ascoltare tutto.Vorrei solo soffermarmi sui concerti che un musicista americano ha tenuto in diverse località italiane ottenendo sempre grande successo. Questo solista è Tom Harrell. Lo conosco da molti anni e so cosa significa ascoltarlo dal vivo. La prima volta che lo incontrai fu nei primi anni Ottanta quando giunse con il complesso di Phil Woods per partecipare al Festival del Jazz di Pompei. Di quella serata non esiste alcuna registrazione perché Phil pretese di suonare senza microfoni. La perfetta acustica del Teatro Grande degli scavi lo permetteva e Phil

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di Adriano Mazzoletti Woods lo aveva immediatamente capito. Rimane indelebile però il ricordo di un giovane trombettista che si muoveva esitante, a piccoli passi, con lo sguardo perso nel vuoto. In seguito Phil Woods spiegò che Tom Harrell era da tempo sottoposto a un trattamento farmacologico costante a causa di una depressione che lo aveva colpito all’età di vent’anni. Quando non suonava attendeva in piedi, impacciato, raccolto su se stesso, come assente; quando arrivava il momento di iniziare un assolo, sembrava attraversato da una scarica elettrica. Ma era il suo modo di scegliere meticolosa-

mente le note con una sorte di riserbo e di controllo permanente, a sorprendere. Dopo quel concerto, Tom Harrell è tornato molte altre volte, con Phil Woods, ma anche con diversi gruppi. Questa estate dopo aver suonato a Umbria Jazz in duo con il pianista Dado Moroni, si è esibito in altre località. Il fascino, per nulla spettacolare e la sonorità più tenera che fragile, erano sempre in evidenza nel dialogo con Dado Moroni, musicista di grande esperienza e sensibilità, come ho avuto occasione di scrivere altre volte su queste pagine. Chi non avuto la possibilità di seguire i concerti può ascoltare il

disco che Tom e Dado hanno inciso: Humanity, un’opera da cui traspare un lirismo e una energia creativa che ha fatto dichiarare a Enrico Pieranunzi: «Un’intesa silenziosa e commossa; ...emozioni che arrivano e che svelano una toccante possibilità di bellezza». Di recente Tom Harrell ha inciso un altro disco, di grande bellezza, con quattro musicisti tutti di notevoli capacità, ma ancor poco conosciuti, il sassofonista Wayne Escoffery, il pianista Danny Grissett, il contrabbassista Ugonna Okegwo e il batterista Johnathan Blake. Dei nove brani i più riusciti sono Agua, Obsession e soprattutto Roman Night che dà il titolo alla raccolta. Il sassofonista Joe Lovano ha detto di lui: «Tom non suona solo le note giuste - lui diventa ogni nota che suona». Tom Harrell, Roman Nights, High Note, distr. Ird


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arti Mostre

a prima parola che viene in bocca, in bocca della memoria, quasi automaticamente, pensando alla Biennale dell’Antiquariato, che è ancora in corso a Parigi, è immediatamente e sconcertatamente: «sfarzo». Sì, e non lo si dice per demagogia scandalizzata, vista la miseria progressiva che attanaglia anche questo sfarzoso, già in sé, enorme spazio imperiale del Grand Palais, in un momento così difficile per l’economia e le arti, castigate in Francia, certo non come da noi, anche se la recessione pare annunciarsi pure in quelle contrade altisonanti. L’antiquariato, no, è come un mondo a sé, che non conosce crisi o pudori, una bolla a parte, ancora innaffiata da fiumi di champagne gratuito al vernissage, con odore di Première dame in giro, e strascichi di Sarkozy, Chirac e Cichic, e microtartine nouvelle cuisine a profusione, che il pubblico impunito trapianta impenitentemente tra incunaboli, mobili Piffetti e verginone cicladiche, col sederone poco più enfio di queste damazze liftate e rifatte. Che curiosamente cercano nel mobile laccato o nella ceramica filata quella prestigiosa ruga polverosa del tempo, che poi aborrono e cacciano dalle proprie labbrone gonfiate. Sì, perché, in questa ricchissima kermesse, che è una sorta di concentrazione ragionevole e umana della sterminata fiera di Maastrich (anche se i francesi stentano ad accettarlo), è facilissimo imbattersi in alcune prodigiose statuette di arte cicladica, oppure di principesse di Bactrian, in steatite e calcite, terzo millenio avanti Cristo, con una

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Architettura

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Anticomania con sfarzo di Marco Vallora

montagna di finto pelo animale addosso, ma poi anche elegantissimi dromedari di civiltà cinese, e ceramiche iraniane, e portentosi mosaici di vedute marine in stile pompeiano (ma è possibile esportare simili capolavori? Sì, evidentemente sì) e poi imponenti maschere-incensieri in terracotta, di gusto Maya-chipas. Ovviamente privilegiando queste arti cosiddette primitive, e tutt’altro che primitive nella perfezione dello stile, tanto che un gallerista sofisticato come il fiammingo Vervoordt (quello delle mostre veneziane come Infinitum), riesce a farle dialogare regalmente insieme a Fontana e Pierre Soulages, uno dei maestri francesi che ha la meglio in questa Biennale (ma non è una novità). Come Dubuffet, del resto, che è presente con alcune opere molto rilevanti, compresa una beffarda e infantile Gioconda e molti «ritratti» di stratificazioni geologiche. Ma soprattutto i grandi francesi sono ben omaggiati, da Vuillard a Bonnard (magnifica una donna arrovesciata con i suoi capelli davanti a noi, in un’acrobazia cromaticamente geniale), da Delaunay a Derain, da Marquet a Rouault. Ma non si dimentichino nemmeno, e copiosi, i Grosz, gli Schiele, i De Stael, e, per quanto riguarda l’Italia, anche se certe sortite di De Chirico rimangono sempre un po’ misteriose, addirittura una Grand Tour nel senso

proprio di Torre (da dove viene fuori?) del 1915, molto simile a quella che è stata la copertina Einaudi d’un volume di Vittorini, e poi via con Severini, Balla, Marino Marini, ecc. Ma anche con gli antichi c’è poco da scherzare, se dobbiam credere a certe attribuzioni un po’ generose, di Brueghel e Cranach, vecchi e giovani. E poi fondi oro di alto livello (soprattutto degli italiani Moretti e Sarti, da anni di stanza a Parigi) come Canesso, che tra alcune tele nobilissime, mostra anche un curioso e tutt’altro che umile ciuchino, firmato da un artista come Cerquozzi, detto anche Michelangelo delle Battaglie o delle Bambocciate, dunque non particolarmente ferrato nei ritratti, ma soprattutto nelle vedute di genere, alla fiamminga o alla caravaggesca, secondo la lezione di Van Laer, il maestro dei Bamboccianti. Oltre alla Raccolta delle lumache e alla Rivolta di Masaniello, già noto per una patetica Morte del somaro. Per non parlare poi di Kugel, che in fatto di sfarzo, è imbattibile e quasi esagerato. Nella sua palazzina di tre piani, sul Quai Anatole France, non lontano dall’Orsay, grazie alla «messa in scena» di Pierluigi Pizzi, ha addirittura ricostruito una Tribuna quale quella degli Uffizi, per posizionare opere davvero uniche: da repliche romane di Ercoli Barberini a bronzi del Primaticcio, da riproduzioni rinascimentali del Laocoonte a Gladiatori Borghese. Senza contare i Thomire, le pietre dure dall’Hermitage, i Batoni, i Pannini, e il resto delle meraviglie rococò e impero, che si inseguono su per i tre piani della palazzina, all’insegna dell’Anticomania. Mania che reincontri passeggiando tra gli stands, tra bozze corrette da Balzac e paperolles di Proust, teste monumentali di Vajrapani, clavicembali con bronzi e inserti a olio firmati, sculture animalier di Rembrandt Bugatti, e selezionatisimi pezzi di design Novecento, di Hoffmann, Prouvé, Le Corbusier. Accanto a un rarissimo scheletro di uccello estinto della Nuova Zelanda.

Olbrich: quando l’arte alberga nel dettaglio

na bella e documentatissima mostra sull’architetto Joseph Maria Olbrich (1867-1908) è in corso al Leopold Museum di Vienna, un nuovo spazio museale nato nel 2001 dalla donazione della collezione privata di Rudolf e Elisabeth Leopold, che vanta la maggior collezione al mondo di opere di Egon Schiele, l’eccentrico maestro dell’erotismo espressionista. La mostra è completata dalla collezione permanente di opere e quadri Jugendstil, da Klimt e Kolo Moser. L’eleganza dell’architettura di Vienna tra Otto e Novecento è mitica: ancora oggi la città è celebrata per la signorilità dell’edilizia residenziale e per la modernità dell’impianto urbano. Molti architetti contribuirono alla progettazione della nuova Vienna, la capitale che, con Parigi, ha anticipato i moderni assetti urbanistici, demolendo la cinta difensiva per far posto al Ring: il circolo viario metropolitano sotterraneo e di superficie che costituirà modello urbanistico. Tra gli architetti che contrassegnarono la nuova immagine di Vienna, Olbrich svolge un ruolo da protagonista. Originario di Troppau (oggi Repubblica Ceca),

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di Marzia Marandola studia dapprima alla scuola industriale di Vienna, sotto la guida di Camillo Sitte, l’urbanista che rivoluzionò l’assetto della capitale austriaca, per proseguire all’Accademia di Arti Figurative e nel 1894 inizia la collaborazione con Otto Wagner, il più importante architetto viennese, con cui progetta, tra l’altro, le numerose stazioni della nuova metropolitana, capolavori indiscussi di tecnica e architettura. Contemporaneamente alla collaborazione con Wagner, Olbrich lavora a propri progetti, e avvia intensi scambi culturali e professionali con architetti, pittori e intellettuali, quali Josef Hoffmann, Koloman Moser, Gustav Klimt. Con questo gruppo di sodali fonda l’Associazione degli Artisti della Secessione Viennese, un gruppo che si oppone alla stanca tradizione biedermeier imperante a Vienna: Olbrich realizzerà tra il 1897 e il 1898, il palazzo della Secessione, un edificio simbolo, destinato a mostre ed eventi connessi alla Secessione. Il padiglione espositivo

scandalizzò per i volumi spogli: blocchi parallelepipedi, coronati da una straordinaria sfera, traforata da un intrigo di fronde di rame dorato. All’esterno incrostazioni floreali in oro evocano stilizzati ordini architettonici su un candido intonaco, mentre all’interno campeggiano sofisticati e raffinati mosaici con fondi oro, firmati da Gustav Klimt. Promuovere l’arte, necessaria in ogni momento della vita, indispensabile per disegnare ogni oggetto, dal più semplice e quotidiano al più raffinato gioiello di oreficeria, è il credo degli artisti secessionisti. Promotori di una cultura artistica diffusa che coinvolge pittura, musica e letteratura e che rigenera ogni uomo moderno con vigorosa linfa vitale. La mostra illustra la poliedrica produzione di Olbrich e dei suoi sodali, attraverso una massa straordinaria di disegni, modelli di architetture originali o ricostruzioni, arredi delle eleganti residenze borghesi per le quali Olbrich disegna ogni dettaglio: dalla cassetta per la posta, al corrimano, oltre ovviamente a sedie, tavoli e lampade, spesso personalizzate per ogni committente. La mostra non indaga esclusivamente le opere di Olbrich, ma introduce piacevolmente il visitatore nell’intenso, crepuscolare colore artistico e culturale della Vienna di Freud e di Musil.

Joseph Maria Olbrich, Leopold Museum,Vienna, fino al 27 settembre


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na vera e propria impresa che è costata sei anni di «studi matti e disperatissimi». Il risultato non porta però i segni della fatica perché questo Leopardi di Pietro Citati (appena pubblicato da Mondadori, 22,00 euro) oltre a essere un libro scorrevolissimo nella sua densità, ha l’impareggiabile pregio di contagiare il lettore. Nessuno come Citati sa travolgere con l’amore per il soggetto prescelto. Una sensazione già provata nelle sue molte, precedenti immersioni nelle profondità di Goethe o Tolstoj, Kafka, Proust o Ulisse, o in qualunque altro fondale si sia immerso. Ma commuove, alla fine di queste quattrocento e più pagine, distaccarsi da quella figuretta deforme che con le sue gambe robuste si aggirava «avvolto nel suo vecchio soprabito verde col bavero alto, che lo accompagnò nella tomba» per le vie di Napoli. E quando assistiamo alla morte di Leopardi avvenuta con «moltissima grazia», «in tono minore, come in tono minore aveva vissuto», si vorrebbe che quel respiro non si spengesse.Tutta l’immensità che ci ha lasciato riprende così vita, e tornare a frequentarla, magari con piccole, quotidiane letture che assumono quasi i tratti della preghiera, diventa una necessità. Un’immensità quella di Leopardi che Citati esplora senza arretramenti, in tutti gli aspetti della vita (anche quello della ma-

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pito anche il XX secolo. Quanto alla letteratura è inutile dire… Ma la cosa più spaventosa di Leopardi è l’ubiquità. Leopardi racconta sempre, contemporaneamente, negli stessi giorni; ha concezioni del mondo completamente diverse tra loro; è quattro, cinque, sei persone nello stesso momento, a distanza di tre, quattro giorni. Silvia è il contrario del Risorgimento, che è stato scritto pochi giorni prima; il Tasso è il contrario del Dialogo della Natura e di un Islandese, anche questo scritto pochi giorni prima, e così via. Leopardi è dappertutto. E poi, come lui stesso dice scrivendo a un giovane francese, la sua opera non è finita: «Io non ho mai scritto delle opere, ho scritto degli essais». Che poi non è vero, bastano, a smentirlo, Le Operette morali e i Canti. Ma c’è sempre nello sfondo questa immensa ipotesi: questo andare sempre al di là e oltre. Per questo fa spavento. Compatezza, forma, sistema sono le «qualità sovrane» di Leopardi. Che posto occupano le passioni in questo procedere? Occupano un grande posto perché le passioni diventano compattezza, forma e sistema. Ma al tempo stesso le passioni distruggono la compattezza, la forma, il sistema. Ecco perché Leopardi va sempre preso anche dall’altra parte. Leopardi avanza

Sei anni di “studi matti e disperatissimi”. L’esito è un testo scorrevole quanto denso, che non risente della fatica dell’impresa. Che l’autore definisce spaventosa... lattia - la tubercolosi ossea con i suoi devastanti effetti e la depressione psicotica) e dell’opera. Senza tuttavia riuscire a superare la sensazione di spavento che l’impresa comporta. «Leopardi mi ha fatto e continua a farmi spavento» spiega Citati. «Se ripenso a questi anni di lettura e di rilettura, il senso dominante è di spavento e insieme di sterminata grandezza. Forse dico una cosa banale, ma noi ancora non ci rendiamo ancora conto della grandezza di Leopardi. Malgrado un secolo di critica e di letture, la grandezza di Leopardi è ancora qualcosa al di sopra di noi. E non parliamo degli stranieri, che soltanto adesso cominciano a leggerlo - i francesi soprattutto che hanno tradotto lo Zibaldone -, ma nel mondo anglosassone è un perfetto sconosciuto. Per Nietzsche i grandi lirici della storia dell’umanità erano tre: Pindaro, Hölderlin e Leopardi; e non è poco, venendo da una persona come lui, che oltretutto conosceva l’italiano. Io credo che nei prossimi trent’anni assisteremo alla riscoperta di Leopardi in tutto il mondo, e finalmente potremo metterlo al suo posto che è infinito». Ma perché spaventa? Innanzitutto per la sommità spaventosa dell’intelligenza. Leopardi è un uomo che capisce tutto e anche tutto quello che succederà; non esce mai dall’Italia, conosce poche città, ma in realtà ha caanno III - numero 34 - pagina VIII

per continui capovolgimenti, antinomie, contraddizioni, duplicità, sdoppiamenti: se la felicità è il fine dell’esistenza, lui collabora alla disperazione; vive nel centro e lontano dal centro; è tragico e comico; trova energia nella debolezza; elogia il piccolo ma ambisce alla grandezza; ama il silenzio ma anche la conversazione; abita l’infinito come i moderni ma come gli antichi coltiva il senso del limite; è minutamente, ferocemente analitico ma possiede sguardo sistematico, occhi microscopici e visione totale. Distrugge il principio di non contraddizione. È questa la strada maestra che conduce alla verità? Sì, credo proprio di sì. Alla verità non si arriva mai attraverso una linea unica, una linea stretta; bisogna inseguire infinite linee. Tutte quelle che lei ha citato nella domanda, ma anche un’altra che vorrei sottolineare: il coraggio, l’inflessibilità. Noi sappiamo che Leopardi non aveva un soldo, era in miseria, viveva ora con i soldi che gli davano gli amici fiorentini, ora con quelli di un editore ma erano pochi - o, più tardi, con quei pochissimi che gli passò il padre. Viesseux, che lo apprezzava infinitamente, anche se non lo capiva, lo invita a scrivere per L’Antologia, e gli propone di pagarlo più di tutti gli altri collaboratori.

il paginone

Malgrado un secolo di critica e di letture, la sua grandezza sterminata ancora ci sovrasta. Basti pensare che nel mondo anglosassone è ancora un perfetto sconosciuto e che in Francia cominciano appena a leggerlo. Ma Pietro Citati è sicuro che nello spazio di trent’anni occuperà, finalmente, il posto che gli spetta. E intanto ci immerge, nel suo libro appena uscito dedicato al poeta di Recanati, nelle sue profondità

L’infinito

di Gloria

Per lui sarebbero stati soldi benvenuti, ma sebbene amasse molto Viesseux, Leopardi capisce che L’Antologia era tutto il contrario di lui, era il progresso, era la fede nell’utilità, e lui queste cose le detesta. Esecra l’utilità, ama soltanto la letteratura e sebbene abbia bisogno di soldi, rifiuta. Non scriverà mai sull’Antologia - l’unica cosa pubblicata erano degli estratti delle Operette morali - perché sapeva che quello non era il suo mondo. Una purezza, un coraggio simile in una persona malatissima e senza un denaro, sono una cosa rara. Ci sono pochissimi esempi in tutto l’Ottocento, forse soltanto Nietzsche. Natura benigna e matrigna. Come si può sintetizzare il sistema-natura di Leopardi? In Leopardi ci sono molte nature: c’è, nei primi anni, la natura divina; poi c’è la natura sistematica; poi c’è la natura casuale; poi c’è la natura come regno della possibilità; poi c’è - ed è la più tremenda - la natura come circuito di produzione e distruzione, che vuol dire circuito di dissoluzione. I critici di solito pensano che la natura di Leopardi sia tutta lì: parte dalla natura divina e arriva alla natura matrigna, ma è una lettura molto sommaria perché le oscillazioni sono continue in lui. Al tempo del Dialogo di Ploti-

no e di Porfirio, torna a ricordare la benignità della natura, come la natura ci aiuti nascondendoci le cose e come ci protegga. Anche La ginestra è stata completamente fraintesa. Nella Ginestra ci sono due nature: non soltanto quella terribile del Vesuvio che distrugge Pompei, c’è anche quella della ginestra, la mite che china il capo, che non si difende, che si lascia distruggere, ma che al tempo stesso invia il suo profumo verso il cielo. Invia il suo profumo, potremmo dire, a consolare gli dei che hanno bisogno della nostra consolazione. Quando terminò lo Zibaldone Leopardi pensava «che la sua poesia dovesse cancellare dietro di sé qualsiasi preparazione o sfondo o panorama riflessivo». Come si compenetrano in Leopardi - che a volte preferiva il nome di filosofo a quello di poeta - pensiero e poesia? Sono la stessa cosa. Lo ha detto molto bene Antonio Prete: il filosofo e il poeta in Leopardi coincidono. È un grandissimo filosofo in quanto è un grandissimo poeta; è un grandissimo poeta in quanto è un grandissimo filosofo. Questa coincidenza del filosofo con il poeta comincia già nelle Canzoni, non con le primissime, ma con Bruto minore, l’Inno ai Patriarchi, Alla Primavera, dove lo scatena-


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Leopardi

a Piccioni

mento del pensiero filosofico implica lo scatenamento del pensiero poetico. È un caso unico nella poesia moderna, c’è soltanto Hölderlin che gli sta accanto in questa coincidenza di pensiero e di poesia e nel fatto che il pensiero, invece di sabotare o diminuire la poesia, la rafforza mentre la poesia rende più acuto il pensiero. C’è un momento molto bello in cui Leopardi, che detestava la filosofia moderna, invece la rivaluta perché pensa che se la filosofia antica costruiva dei sistemi, la filosofia moderna distrugge quei sistemi, ne fa tabula rasa. Quindi, coltivare la filosofia moderna permette alla mente di ritrovare l’innocenza infantile. Leopardi non arriva all’innocenza infantile direttamente, ma attraverso la coltivazione della più analitica delle filosofie. Questo è uno dei balzi più grandiosi della mente di Leopardi. Tre sono le cose certe per Leopardi: «la potenza infinita della natura, i suoi effetti vari e molteplici, l’idea che le cose del mondo ignoto siano “maravigliose e strane a rispetto nostro”». Che posto occupa Dio in tutto questo? Questa è una domanda alla quale è molto difficile rispondere. Di solito si dice che Dio non occupa nessun posto in Leopardi, e certo ci sono dei punti in cui

il disastro dell’uomo deriva da una specie di complotto tra ragione e religione. Dio è veramente il nemico, ma in questo non c’è tutto Leopardi. Dio, intanto, è il Signore del possibile, e Leopardi amava tantissimo il possibile. E poi c’è un piccolo episodio: quando Leopardi pubblicò i Canti a Firenze, nel ’31, scrisse a Paolina, la sorella, di mandargli una stampa che teneva conservata in un cassetto, dove c’era l’occhio di Dio che guardava dall’alto un lago. Era la possibilità che esistesse un Dio contemplante sopra tutte le cose. Io credo che questa possibilità di un Dio contemplante, che guarda il regno delle acque e soprattutto il regno della luna, non sia mai stata lontana dalla mente di Leopardi, anche se non lo ha espresso, anche se poi questa miniatura con l’occhio di Dio sul lago lui non l’ha più usata per la copertina dei Canti, forse perché sarebbe stata una dichiarazione troppo esplicita. Lo si avverte anche nell’Elogio degli uccelli, dove Leopardi suppone un mondo - il mondo degli uccelli, che sono in parte gli uomini - di letizia, di velocità, di volo, di slancio che non è possibile nel mondo della natura inteso come eterno circuito di produzione e distruzione. È una specie di eccezione. Eccezione di felicità, che per lui esisteva. E a questo mondo di fe-

licità e di volo poteva sovrintendere, io credo, soltanto Dio. Leopardi, lei nota, ha fatto nascere sotto i nostri cuori qualcosa che non conoscevamo: la luce della luna... Nel libro dedico molte pagine alla luna, alla ricostruzione dell’idea lunare nel mondo classico. Leopardi rifiuta il mondo lunare classico, legato alle acque, alla fecondità e all’abbraccio molto caloroso tra sole e luna. In lui la luna non è feconda: la luna è sterile, è casta, è bianca, è verginale. La sua luna è il contrario della luna fecondatrice del mondo classico. Ma quello che ha inventato Leopardi è la qualità della luce lunare. In alcune delle sue poesie arriva, attraverso successive, meticolosissime, lentissime correzioni, che occupano quindici anni della sua vita, a dare questa impalpabilità, questa liquidità, questa chiarezza suprema della luce lunare. In questo, l’unico vero modello di Leopardi, il modello di tutta la sua vita, era stato la fine dell’ottavo libro dell’Iliade, dove il pastore contemplava il cielo chiaro, occupato dalla luna, e le stelle. Ma in Leopardi le stelle non ci sono, c’è soltanto la luna, e la qualità della luce lunare non ha paragoni in nessun poeta del mondo. Le Operette morali sono un libro terribile perché, lei dice, «il sovrano sguardo dall’alto è il più pauroso che l’uomo possegga». È questo sguardo che rende Leopardi così prossimo a noi, così straordinariamente moderno, tanto da richiamarci alla memoria Nietzsche e Adorno, e la condizione di nichilismo che avvolge la modernità? Leopardi possiede lo sguardo dall’alto che riduce le cose a nulla, che le parodizza, uno sguardo che dà a tutto un’ampiezza sterminata. Ma non è affatto nichilista perché in quella vastità di sguardo c’è anche una possibilità di speranza che non è del nichilismo. Lei tende un filo che accompagna tutta la tessitura di questo suo Leopardi, che lo riconduce a Rousseau, sia nei tratti caratteriali sia nel pensiero. Che cosa lo determina? Intanto c’è un piccolo fatto autobiografico. A casa Leopardi esisteva un’antologia di Rousseau in due volumetti, si chiamava La pensée di Rousseau. Era un livre de chevet sia suo che del fratello Carlo. Quando Leopardi è a Roma, Carlo gli parla del «paese delle chimere». «L’unica cosa bella - diceva Rousseau - sono le cose che non sono»: è una frase che ritorna in uno dei passi più importanti di Leopardi, dove dice appunto che le uniche cose belle sono le cose che non sono, tutto ciò che è chimerico, illusorio, fantastico, possibile. Leopardi lascia a Recanati questi due volumetti antologici, però ne ha bisogno e li ricompra non so dove, forse a Bologna, forse a Pisa, tanto

che nell’ultima parte dello Zibaldone ci sono molte citazioni di Rousseau, specialmente quelle sul «paese delle chimere», ma prese da un’edizione diversa da quella citata dal fratello. Evidentemente Leopardi lo aveva ricomprato e lo teneva con sé come un gioiello. Ci sono molte influenze di Rousseau in Leopardi, l’idea del riso per esempio e l’idea del pianto… Ma ci sono anche delle grandi differenze. L’infinito leopardiano è l’opposto dell’infinito di Rousseau. Quello di Rousseau era un’infinita dilatazione, un’espansione, un andare sempre più lontano, un non avere limiti, mentre nell’Infinito Leopardi fa l’opposto: per contemplare l’infinito, si chiude, perché quella siepe è una chiusura, come fosse un muro; quindi ha bisogno di essere chiuso, non espanso, non illimitato. E poi mentre l’infinito di Rousseau era l’infinito dell’universo quello di Leopardi era un infinito creato esclusivamente dalla mente, un infinito assolutamente mentale. Qui il contrasto con Rousseau è grandissimo. A proposito dell’Infinito, come interpreta «mi fingo»? Con «creo». Ogni creazione è anche una finzione, ma «mi fingo» ha un valore creativo. La creazione mentale dell’infinito dura pochissimo perché subito dopo arriva il rumore, lo stormio delle foglie e degli arbusti che cancella il puro infinito mentale. Ma quando Leopardi dice «mi fingo», parla con assoluta consapevolezza e vuol dire «io creo nella mente». Leopardi scelse il destino del Passero solitario, eppure nel suo cuore che tante volte era morto e risorto, non rinuncia mai alla natura umanizzata, alla ricerca della felicità, spesso perseguita con la forza dell’illusione. Nella Ginestra si affida alle molli foreste, alla mitezza, alla tranquillità, alla dolcezza. Nel Tramonto della luna, la sua ultima poesia, lascia spazio al sole, uno spazio che prima non aveva mai immaginato. C’è dunque da credere che alla fine sia riuscito a dare una forma alla felicità, alla speranza? Non so se ha dato una forma alla speranza e alla felicità. Certo, alla fine, succede qualcosa. Per Leopardi l’illusione era fondamentale: se amava la luna era appunto perché era il simbolo sovrano dell’illusione, del riflesso. Nel Tramonto della luna succede da un lato una cosa terribile: il mondo dell’illusione, del riflesso, che era per lui l’unica verità esistente, finisce, scompare: non ci sono più illusioni, non ci sono più riflessi. Ma, poche righe prima della fine, c’è qualcosa che lui non aveva mai rappresentato, cioè l’esplosione, la folgorazione, l’inondazione del sole. Per lui il sole era stato, fino a quel momento, piuttosto una qualità tenebrosa. Era il demone meridiano, come nella Vita solitaria, dove è una specie di vita-morte. Negli ultimi mesi della vita Leopardi riscopre il sole. Questo non vuol dire che creda nella felicità e nella speranza, ma certo con il sole scopre un altro orizzonte. È solo questo che posso dire.


Narrativa

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libri Victor Lodato MATHILDA Bompiani, 288 pagine, 17,50 euro

he irritazione per noi adulti, e magari genitori con figli, sentire certe frasi di una ragazzina che si affaccia al mondo con una caterva di problemi addosso. Ma questo fastidio indica anche che le parole e i comportamenti della quasi donna sono veri, verissimi, e veritieramente riportati su carta. Bisogna essere bravi scrittori, in specie se uomini, come Victor Lodato, per entrare nel cervello e nell’anima di un’adolescente. È chiaro che all’irritazione ci abituiamo, noi che cerchiamo di mantenere un certo ordine nel nostro mondo, o perché al mondo siamo così abituati o perché siamo rassegnati a tal punto da accantonare certe sconvolgenti domande, in apparenza idiote in realtà profonde ed essenziali. E così facciamo conoscenza di Mathilda. La quale ha tutte le ragioni per essere inquieta e confusa. Da poco sua sorella maggiore Helene è morta perché qualcuno l’ha spinta sotto un treno. Chi? Nessuno lo sa. L’ha fatto ed è fuggito. Mathilda si trova a essere figlia unica di genitori che non hanno per niente assorbito il lutto (ma si può assorbire?), che paiono fantasmi egoisti e distratti. La madre fuma in continuazione, poi smette, poi riprende a consumare sigarette in aggiunta all’alcol. Il padre continua ad avere il terrore di non essere un papà buono, malgrado la figlia sia convinta che «nessun suo ossicino sia cattivo». Helene è comunque un’ossessione per Mathilda, che vuole ma non può indossare i vestiti della sorella, che custodisce i nastri con impressa la sua voce, che indaga nelle sue mail e usa il suo nome mandando messaggi a ragazzi con i quali forse la vittima di un pazzo è stata in stretto contatto sentimentale, e forse anche fisico. In questo paesaggio americano che pare viva in un universo ovattato, il mondo entra attraverso la televisione e in maniera brutale. Mathilda scopre i genitori sul divano a guardare ininterrottamente lo schermo. Hanno gli occhi arrossati, allargati dallo stupore e dal terrore: è il giorno dell’attentato alle Torri Gemelle. Mathilda all’inizio pensa che loro seguano uno stupido film. E così, dopo aver capito, nel mondo di Mathilda entra il babau con le vesti dei terroristi. Non è la sola a pensare che gli americani si debbano preparare al peggio, a rafforzare i rifugi-cantine, a immaginare un futuro in modo del tutto diverso rispetto a prima.

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Riletture

Con Victor Lodato nella testa di Mathilda Una sorella morta, l’assenza dei genitori, l’attentato alle Torri Gemelle. Lo scrittore racconta le inquietudini di un’adolescente di Pier Mario Fasanotti

«Non so esattamente quello che voglio»: la frase di Mathilda è la frase di qualsiasi adolescente che confonde i lampioni con le stelle, l’amore con l’aggressione, il rispetto con l’invadenza. Che rivendica il diritto di accusare il prossimo di voler entrare nella sua testa, con un gesto simile allo stupro, e leggere o interpretare i suoi pensieri. La madre si allontana per un poco e scatta l’allarme, il cane di casa ha disturbi gastrici e ci si immagina immediatamente la sua fine, il Diario di Anna Frank diventa, con il suo carico di morte imminente, la sintesi angosciosa tra lutto personale e lutto di una nazione. Mathilda, con la goffaggine e le contraddizioni tipiche della sua età, si stacca dagli ormeggi rassicuranti dell’infanzia e indaga. Non solo vuole sapere come è esattamente morta la sorella, ma anche penetrare in quel groviglio tremendo che è la sua identità di persona in veloce evoluzione. I genitori, con la distanza emotiva tra di loro e con il macigno delle rispettive frustrazioni sulle spalle, non sono in grado di aiutarla. Anche perché hanno smesso di essere coppia che educa, che accompagna per mano la figlia. Il papà, pensa Mathilda, è diventato mamma di Helene, e la madre si è trasformata in padre della superstite. Confusione di ruoli all’ombra del lutto. Dice a se stessa la ragazzina: «La verità è che io non voglio fare la fine di mamma e papà. In una casa piena di libri e polvere e con tutto l’amore scappato via… io voglio un’altra cosa, ma le parole per dirla non le hanno ancora inventate». La madre, nel suo apatico isolamento, non l’aiuta di certo. È proprio degli adolescenti pensare una cosa e il contrario della stessa. Riferendosi alla mamma, Mathilda dice: «Il fatto è che vorrei che se ne andasse, ma poi non voglio più. Sono di nuovo i doppi pensieri, che stanno diventando un problema serio. Come funziona questa storia delle cose e dei loro contrari? Amore e odio, per esempio. Certe volte si intrecciano l’uno con l’altro come se in pratica stessero facendo sesso. È disgustoso». Ma il rifugio vero, dopo un disordinato ondeggiare nel mondo, si rivela per Mathilda il grembo della madre. La rassicurazione che porta all’età adulta è il poterla chiamare finalmente mamma.

Zarathustra e la buona novella di Nietzsche

ossio Giametta conosce Friedrich Nietzsche più di quanto l’autore di Così parlò Zarathustra conoscesse se stesso. È un’esagerazione? Non credo. Le cose che il collaboratore di Giorgio Colli e Mazzino Montinari ha scritto e detto su Nietzsche hanno tutte il segno della chiarezza. Sossio Giametta persegue un fine che credo abbia raggiunto: raccogliere il pensiero di Nietzsche, che sembra disperso nella sua opera edita e inedita, nei libri, negli aforismi e nelle cose postume che sembrano contraddittorie, in un’unità. È un grande sforzo che merita attenzione e apprezzamento perché il risultato positivo è stato ampiamente raggiunto dal filosofo e filologo di Frattamaggiore. Si potrebbe dire a mo’ di battuta: così parlò Sossio Giametta. L’opera più significativa di Nietzsche è il poema filosofico Così parlò Zarathustra. Almeno così comunemente si dice, anche se forse il senso ultimo dell’opera di Nietzsche potrebbe essere ricavato e pienamente inteso anche in assenza dello Zarathustra. Ci sono interpreti di Nietzsche che non amano il Così parlò Zarathustra: «un libro per tutti e per nessuno». Evidentemente, credono che sia

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di Giancristiano Desiderio un libro per nessuno. La pensava così, ad esempio, proprio Montinari e anche Gianni Vattimo, interprete importante di Nietzsche, non ha in gran simpatia lo Zarathustra. Invece, Sossio Giametta ha in gran considerazione il poema filosofico di Nietzsche e, al contrario della vulgata, ritiene che sia un libro chiaro e laico, anziché oscuro e misticheggiante. Il commento che ha scritto per questa nuova edizione della Bompiani è tutto proteso verso questo scopo: la laicità e l’unità di fondo dell’opera di Nietzsche. Non siamo lontani dalla verità se diciamo che il senso del pensiero di Nietzsche è il coraggio: il suo maestro -Schopenhauer - si oppose all’idealismo e ad Hegel e fece riemergere il gran caos tragico della physis, ma poi davanti allo spettacolo meraviglioso e tremendo dell’eterno ritorno ebbe paura e si ritrasse dicendo «no alla vita». Il cuore del pensiero di Nietzsche è proprio la diversa risposta che darà alla vita, prima che alla filosofia, perché al cospetto del dolore privo di senso, cioè non redento né da un Dio né da una filosofia o da una conoscen-

La nuova edizione del discusso poema filosofico con il commento di Sossio Giametta

za salvifica, egli, Nietzsche-Zarathustra dirà «sì alla vita», sì alla sua tragicità che nessuna metafisica riuscirà mai a imbrigliare in un senso risolutivo. Il centro del pensiero antimetafisico di Nietzsche è qui: in questo coraggio che guarda in faccia le cose senza illusioni e senza tentennamenti. Capito questo, il resto viene da sé. E per il resto s’intende anche le due idee più celebri di Nietzsche: il superuomo e l’eterno ritorno (ma delle due quella più importante, anche se non va sopravvalutata, è la prima). Per quanto possa apparire paradossale, il superuomo ha in sé una dimensione cristiana: possibile che il filosofo che ha scritto l’Anticristo abbia in sé qualcosa di cristiano? Non solo è possibile, ma addirittura necessario. Dire sì alla vita, non rifiutarla ma accettarla anche nel suo dolore, è senz’altro cristianesimo. Lo stesso Nietzsche concepì il Così parlò Zarathustra come il quinto Vangelo e per certi versi questo poema filosofico o filosofia poetata è un completamento, come dice Giametta, della «buona novella». Il cristianesimo ha in sé questa valorizzazione della vita umana e Nietzsche è come se avesse preso in parola la Parola del cristianesimo ancorandola il più possibile ai valori terreni senza la fuga nell’al di là.


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poesia

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I ruggiti di Foscolo, poeta civile di Filippo La Porta

Sepolcri, poemetto filosofico-civile scritto in forma di lettera a Ippolito Pindemonte nel 1803, è l’opera più perfetta di Foscolo. Perché? Perché il letterato Foscolo è anzitutto un uomo pubblico, educatore e patriota, esule ed eroe, preoccupato dell’ethos collettivo, in ansia per le sorti del suo Paese, e poi impegnato a costruire un’etica laica (materialistica, settecentesca) che si confronti però con temi squisitamente religiosi. Temperamento irruento-passionale e amore per la tradizione. Biografia romantica e cultura classicistica. E se nei Sonetti anticipa qui e là suggestioni leopardiane e raggiunge momenti liricamente alti, direi che non è davvero un poeta lirico, elegiaco o intimistico, come qualche volta ama presentarsi. Si rivolge invece al suo pubblico per dargli un’immagine di sé esemplare, nobile o tormentata, vibrante o infelice, comunque di alto valore civile (il suo impegno politico comincia a 14 anni, quando nel 1792 a Venezia entra in contatto con gli ambienti liberali e repubblicani). In un certo senso si mette sempre in posa, come nel celebre autoritratto del sonetto 7: «Solcata ho fronte, occhi incavati intenti,/ crin fulvo, emunte guance, ardito aspetto,/ labbro tumido acceso e tersi denti,/ capo chino, bel collo, e largo petto».

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Di fronte alle «infinite/ ossa che in terra e in mar semina morte» - immagine drammatica, sconsolata può evocare una continuità degli umani affidata al culto delle reliquie, alle tombe e soprattutto alla poesia stessa, istituzioni capaci di custodire, in modi diversi, la memoria delle persone (l’occasione fu data dall’editto napoleonico di Saint-Cloud che imponeva la sepoltura fuori degli abitati). Personalmente ho sempre anteposto i Sepolcri alle due Odi galanti (All’amica risanata e A Luigia Pallavicini caduta da cavallo), sintatticamente elaboratissime e dunque innovative ma troppo scolastiche, quasi soffocate dall’eccesso di mitologia, e a quelle Grazie della maturità, sulle quali tendo a condividere la diffidenza di De Sanctis. La raccolta dei Sonetti, appassionati e declamatori, e dispensatrice di alcuni sintagmi poetici fissati per sempre nel nostro immaginario («fatal quiete», «illacrimata sepoltura», «reo tempo»…), mi appare discontinua. E forse l’aspetto formalmente più interessante è l’incrinatura della melodia «classica» a opera di enjambement e artifici retorici. Il sonetto che mi ha sempre colpito non è tanto il primo, Alla luna (che a un liceale smanioso di punteggi e classifiche non sembrava poter reggere il confronto

il club di calliope

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con Leopardi), quanto il successivo, impoSEPOLCRI stato su un autoritratto virile, ma di accoraAll’ombra de’ cipressi e dentro l’urne ta sincerità e tono epigrammatico: «Non son chi fui;/ perì di me gran parte»; e che confortate di pianto è forse il sonno contiene il verso quasi passato in proverbio della morte men duro? Ove piú il Sole «conosco il meglio ed al peggior mi appiglio», quasi fedele traduzione da Ovidio, e per me alla terra non fecondi questa poi largamente presente in tanta letteratubella d’erbe famiglia e d’animali, ra patristica (da san Paolo a sant’Agostino, contro il cosiddetto intellettualismo socrae quando vaghe di lusinghe innanzi tico che identifica tout court male e ignoranza ed esclude che se si conosce il meglio a me non danzeran l’ore future, si fa il peggio). In realtà tutto in Foscolo è né da te, dolce amico, udrò piú il verso calco, parafrasi e citazione di qualcos’altro. Quasi nulla vi è di originale e genuino. I e la mesta armonia che lo governa, modelli sono Omero, Orazio, Lucrezio, Proné piú nel cor mi parlerà lo spirto perzio, Ovidio,Virgilio, e ancora Petrarca, e infine Parini (le odi) e Alfieri (le tragedie). delle vergini Muse e dell’amore, Ricordo anche come Foscolo è stato un inunico spirto a mia vita raminga, stancabile e spesso straordinario traduttore: dall’Iliade a Lucrezio, da Catullo al Viagqual fia ristoro a’ dí perduti un sasso gio sentimentale di Sterne. Eppure che distingua le mie dalle infinite in lui, al contrario che nell’amico Vincenzo Monti, il calco ossa che in terra e in mar semina morte? non è solo algida, elegante Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme, imitazione ma strumento di espressione di umori, ultima Dea, fugge i sepolcri: e involve sentimenti, emozioni ribollenti. La fittissitutte cose l’obblío nella sua notte; ma, erudita intertee una forza operosa le affatica stualità della sua opera è debitrice nei di moto in moto; e l’uomo e le sue tombe confronti dei classie l’estreme sembianze e le reliquie ci, dei quali però riesce a riattivare tutta della terra e del ciel traveste il tempo l’energia. E poi: l’im(…) magine pubblica plasma anche l’interiorità: a forza di voler apUgo Foscolo parire a tutti i costi «pronto, iracondo, inquieto, tenace» (vedi il Sonetto 7: stesso climax e stessi aggettivi per Achille nell’Ars poetica di Orazio), che si potesse vedere, un vero orsacchiotto repubblialla fine un po’ inquieto e iracondo lo è sul serio. cano ringhioso e intrattabile, un modello di virtù ciÈ vero che negli ultimi anni ai tormenti e all’enfasi di vica che volentieri si sarebbe esposto all’ammirazioOrtis succede il distacco ironico di Didimo, agli entu- ne universale». siasmi del patriota seguirà la disillusione dell’esule a Torniamo ai Sepolcri. Alla fine l’oblio «involve», trasciLondra, ma per capire appieno la figura di Foscolo na nella sua notte buia tutte le cose e le creature, però occorre riandare a quelle pagine delle Confessioni di la forza retorica (in un’accezione positiva) e la perfeun italiano di Nievo in cui entra in scena il poeta. Co- zione formale dei versi foscoliani oppone al disfacisì si presenta al protagonista «quel giovinetto ruggi- mento, al tempo che «traveste» ogni reliquia, una resitore e stravolto» durante una seduta del Maggior stenza preziosa, nella quale anche il lettore di oggi poConsiglio veneziano: «Allora meglio che un letterato trà riconoscersi; e allude a una «eternità» a cui, almeegli era il più strano e comico esemplare di cittadino no per un momento, viene voglia di credere.

IL MEA CULPA DI GÜNTER GRASS in libreria

Tu mi capisci è un gergo involontario quello che uso è un modo di dire, sfuggire al tragico riflesso delle ombre. Sottile, sono sottile come una piuma o peggio come tutto ciò che ci rapisce. È attimo, dimora provvisoria, pianto. Claudio Recalcati

di Loretto Rafanelli

ardi, dicono, troppo tardi./ In ritardo di decenni./ Annuisco: sì, ce n’è voluto/ prima che trovassi parole/ per l’usurata parola vergogna». Così Günter Grass, in Dummer August (Raffaelli Editore, 100 pagine,12,00 euro), si esprime per dire della sua infame colpa, una colpa terribile, anzi doppiamente terribile: essere stato nelle file naziste (e avere anche indicato al regime alcuni oppositori), quindi essersi eretto a emblema di purezza, a coscienza di un popolo, ad alta voce critica impegnata a condannare i tanti che si erano compromessi con la dittatura hitleriana, tutto ciò per mezzo secolo. Dummer August, significa letteralmente pazzo agosto, ma anche pazzo pagliaccio, perché l’autore si riconosce come uomo piccolo, indegno. È quella di Grass una poesia amara, sicuramente carica di dolore, per quanto usi l’arma dell’ironia. Ci dice della sua difficoltà ad «affrontare la ressa dei giorni a venire», si richiama all’esigenza di una vita semplice, di una dovuta attenzione alla natura. Chiede, lui icona nazionale e premio Nobel, un misero perdono. Mendica, «perduto in un tempo che non vuole chiudersi», una soluzione per quella «macchia che vincola». E pur sapendo che la gente, «rane gracidanti», «indica con dito senza macchia», come dire che tutti hanno qualche colpa, non sappiamo se ciò sia sufficiente a salvarsi, rimane «la pagina… mia gioia dell’intera vita».

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di Jacopo Pellegrini om’è difficile scrivere una recensione la mattina d’una domenica calda e assolata, mentre la brezza marina promette di lontano lusinghe irresistibili. In che modo sono finito in questa trappola? Occorre un pezzo, richiestomi con ferma gentilezza per la pagina degli Spettacoli di Mobydick. Il problema adesso è di cosa scrivere? Per fortuna ricevo una telefonata della diletta amica Floriana Tessitore: al Teatro Massimo di Palermo, presso il quale ella svolge le funzioni di capo ufficio stampa, va in scena un nuovo allestimento del rossiniano Barbiere di Siviglia: al podio, l’astro montante della direzione operistica, Michele Mariotti; alla regia, Francesco Micheli, altro rampantino, discretamente noto per i suoi spettacoli didattico-divulgativi misti di prosa e musica; giovane anche la compagnia di canto, eccezion fatta per il veterano Simone Alaimo, palermitano purosangue, nei panni di Don Basilio. Un Barbiere moins que quarante ans e con ambizioni non routinières: ce n’è abbastanza per affrontare un viaggio, tra andata e ritorno, di 2800 chilometri, come a dire quasi un tredicesimo del giro del mondo. E invece, a giochi fatti, qual delusione! Un Barbiere dove per un atto intero nessuno ride o quasi, come lo giudichereste se non un fallimento? Direttore e regista si accaniscono sui particolari e fatalmente perdono di vista l’insieme, il meccanismo drammaturgico s’inceppa di continuo, la tensione (esiste forse musica più vitale, elettrica di quella di Rossini?) cala fino a 0. Mariotti ha talento e tecnica, va per il sottile (gli effetti d’arco al ponticello nella «Calunnia», certe improvvise screziature dinamiche forte/piano), ma non bada al suono dell’orchestra (un mezzo sfacelo nell’ouverture); e poi, il continuo oscillare dei tempi tra un numero e l’altro o tra una sezione e l’altra di uno stesso numero, e dell’agogica all’interno delle singole

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Televisione

Opera Che delusione il Barbiere senza risate MobyDICK

spettacoli DVD

DA SANSONE ALLA STRISCIA DI GAZA uoia Sansone e tutti i filistei. A partire dalla tragica parabola dell’antico giudice biblico, l’israeliano Avi Mograbi descrive la crisi tra Israele e Palestina nell’intenso Per uno solo dei miei due occhi. Film intelligente, perché racconta il conflitto attraverso gli occhi dei rivali palestinesi, costretti a subire ogni giorno controlli e ispezioni da parte dell’esercito israeliano. Ben lungi dai pasdaran negazionisti, Mograbi incrocia testimonianze raccolte da entrambe le barricate, e mostra in presa diretta un conflitto assai più complesso di quanto lo abbiano mai rappresentato i media.

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PERSONAGGI

MADONNA, LA MASSAIA CHE (NON) T’ASPETTI sezioni, infrange il ritmo narrativo senza esilarare l’uditorio. Micheli invade la scena di mimi - venti, - ma, a parte quando fungono da servi di scena per spostare le torri e i carri disegnati da Angelo Canu (i costumi invece sono di Marja Hoffmann), non è chiaro quale vantaggio tragga lo spettacolo dalla loro presenza. Indeciso tra astrazione (i riferimenti capziosi a Mirò) e incursioni nel camp, Micheli si dimentica oltretutto di lavorare sui cantanti. I quali o sono fuori parte (che c’entra Nicola Alaimo, bella voce di baritono lirico bisognosa di cure tecniche, colla tessitura da basso buffo di Bartolo? Il bravo Capitanucci semplicemente non è Figaro attento agli acuti!) o sono irrime-

diabilmente modesti (il tenore Korchak, di cui - chissà perché - si dice un gran bene; la Kemoklidze, Rosina). Peggiore di tutti la Berta di Giovanna Donadini. Bene Orecchia e Barbagallo, ma è tanto se da soli cantano due minuti di musica (su due ore e mezza). Insomma, una noia tale che invece di tagliarla col coltello, l’ho affogata rifugiandomi al bar per buona parte dell’Atto II. Ho fatto ammenda il giorno seguente, cioè oggi (la bella domenica di sole), assistendo alla recita del secondo cast, nel quale spiccavano un Bartolo di lungo corso, l’eccellente Carlo Lepore, e un basso promettentissimo (studi e si applichi, per carità) Roberto Tagliavini, quale Basilio.

ltre l’esile linea della provocazione, si spalanca talvolta il crepaccio del ridicolo. Un’evenienza, alla quale non si sottrae neppure la stilosa icona di Madonna. Luogo del delitto la Sicilia, dove l’ex material girl si esibisce per Dolce & Gabbana nel ruolo di una procace massaia isolana intenta a inzaccherare il pavimento con il suo strofinaccio. Lo spot, siglato da Steven Klein, immortala la signora Ciccone a spasso per bancarelle con una gallina, un gatto e una coppola in testa. Poi ci si lamenta che l’unica Italia nota all’estero è quella di lupare, mandolini e donne schiave.

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di Francesco Lo Dico

Veronica-Eva, una ladra per amica

errebbe voglia di vivere e lavorare lì, proprio lì, in quella splendida porzione di centro storico che sta attorno a via dei Coronari, a Roma. E magari con un’amica come Eva, alias Veronica Pivetti che quando sorride o s’affanna o si stupisce non perde mai il lampo dell’intelligenza. Sono iniezioni di serotonina quelle offerte in prima serata da Rai 1 con la serie La ladra. Una cosa carina, rassicurante, ingenua. Sul solco della commedia all’italiana in versione televisiva. Un piccolo mondo dove ognuno sta rigorosamente nei suoi panni. Lei,Veronica-Eva, è proprietaria di un ristorante, ha un lontano passato di ladra assieme al padre di Lorenzo, il figlio sedicenne. Sempre di buon umore, generosa, svelta di mente. Poi c’è lo chef appena assunto in prova, il solito bellone giramondo che non si preoccupa mai di niente, sicuro che il mondo sia pronto a stare ai

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suoi piedi. C’è la cameriera amica, priva di sex appeal, sognatrice senza tormenti; c’è la farmacista, c’è la parrucchiera che è vestita da parrucchiera. Nel primo episodio entra in scena il cinico e cattivo faccendiere, vanitoso sciupafemmine che vende prodotti finanziari tirando a fregare il prossimo. Questi allontana bruscamente Valeria, la donna che tre anni prima ha messo incinta e ora si trova in difficoltà eco-

nomiche. Lui cerca di investire il proprio futuro nel matrimonio con una bella erede. Eva-Veronica e le amiche organizzano il furto dell’anello del fidanzamento dopo aver bloccato Valeria che sul tetto ha pensieri suicidi. Una vendetta, e tutti sono d’accordo nel considerare il furto come un’opera pia, un risarcimento a Valeria. Eva-Veronica rispolvera la destrezza ladresca senza rivelare nulla degli anni in cui «faceva colpi» al ritmo delle comiche o dei film muti. Trama avventurosa e buonista dove tutti si trasformano in cartoni animati. Se c’è Topolino c’è anche Gambadilegno, se c’è Paperino c’è anche Gastone. Tutto finisce bene prima ancora di cominciare dato che la tensione è davvero minima, ed è sufficiente vedere per qualche attimo una faccia per sapere che quella o va all’inferno o va in paradiso. Contorni netti e il telespettatore si sente appagato perché gli è facile dire «ah, io lo sapevo». La la-

dra potrebbe essere accostato a quelle serie americane per adolescenti tipo Zac e Cody al Grand Hotel: smorfie, movimento alla Ridolini, battute a raffica (in questo gli americani sono molto più bravi di noi) in un piccolo mondo moderno dove tutto si rimette a posto dopo un caricaturale disordine iniziale. La ladra, dodici prodotti di Endemol per Rai Fiction (regia di Francesco Vicario), ruota attorno al ristorante Il frutto proibito, che s’affaccia su piazza Quadrata. Domina la leggerezza, ma condita dagli stereotipi.Tutti o quasi sono tolleranti e solidali, una specie di famiglia che s’allarga nel quartiere, una bontà avvolgente, a volte stucchevole. Se le avventure di Eva-Veronica si devono gustare come se fossero delle comiche sentimentali - e altro non è consigliabile suggerire - allora tutto va preso con le pinzette dell’umorismo, anche se a volte assai modesto. Ma quanto ci piace Veronica: è l’amica che sogniamo di avere. (p.m.f.)


Cinema

MobyDICK

a passione di Carlo Mazzacurati era il secondo film italiano dei quattro nel concorso principale alla Mostra di Venezia. Le commedie sono una merce rara nei festival, ma quest’anno ce n’erano tre solo in «Venezia 67»: Potiche di François Ozon, uno spasso, e Balada triste de trombetta di Alex de la Iglesia, che ha vinto il Leone d’argento per la regia e l’Osella per la sceneggiatura. La passione racconta la crisi esistenziale e d’ispirazione del regista Gianni Dubois (Silvio Orlando), ex giovane promessa, ora cinquantenne, che non fa un film da cinque anni. Il suo produttore inizia a spazientirsi, minacciando di sospendere l’assegno mensile che gli passa a vuoto da un lustro, se non si sbriga a scrivere un copione. Il regista farfuglia che ha un’idea pronta, e prende appuntamento per raccontargliela, quando arriva una telefonata dal paesino della Maremma dove ha una casa antica che affitta agli stranieri. Un’infiltrazione d’acqua nel muro condiviso con la chiesa del paese richiede un intervento d’urgenza. Durante i lavori si scopre un affresco prezioso del quattrocento. Dubois, in preda al panico, corre sul posto dopo aver annullato (non senza sollievo) la riunione con il produttore. È convocato dal sindaco in tailleur e fresca di parrucchiere (Stefania Sandrelli) e dall’assessore Del Ghianda (Marco Messeri) che gli parlano dell’urgenza di rilanciare il turismo. Chiedono a lui, artista e cittadino di prestigio, di resuscitare la rappresentazione della Passione di Cristo il Venerdì Santo; farà il casting tra la gente del luogo. Dubois, ansioso di mettersi a scrivere il maledetto copione, non ha il minimo interesse - né religioso né tanto meno professionale - a occuparsi di una ruspante messa in scena delle Stazioni della Croce con un immenso numero di villici da selezionare, prove caotiche da fare lungo tutto il percorso, assistenti e costumi da trovare, materiale scenico da costruire, e tutto in meno di una settimana. Dice di no ma la sindachessa gli sventola in faccia la denuncia del reperto artistico scoperto, pronta per le Belle Arti, con inevitabile confisca della casa a tempo indeterminato.

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L

Nel mezzo del casino arriva Flaminia Sbarbato (Cristiana Capotondi), la graziosa attricetta famosa per melense e popolari fiction tv; è ansiosa di passare al grande schermo proprio con la sceneggiatura promessa da Dubois. Non solo arriva, ma pretende che il regista le racconti, durante la cenetta a lume di candela, la fantomatica trama e il ruolo che la promuoveranno Attrice Seria. La strizzata d’occhio è che la Capotondi è lei stessa una starlette lanciata da film commerciali come Vacanze di Natale e le fiction Orgoglio e Sissi, che ha fatto il balzo ai piani alti del cinema (Notte prima degli esami, I viceré): un typecasting perfetto. Gli incidenti di percorso di Dubois sono un’antologia di sketch già visti, come i cellulari che non prendono che in un unico, scomodo punto: sopra una scala esterna che finisce sul pianerottolo di una casa privata - naturalmente di una vecchietta scocciata, e con la fila di extracomunitari che si forma per

Due fratelli capolavoro telefonare - o la scena slapstick con un letto ribaltabile che non si apre. Il film, però, è molto curato e al Lido la gente in sala ha riso fino a circa tre quarti del film, con applausi a scena aperta. Molto apprezzabili gli attori di contorno come Giuseppe Battiston (Davide di Donatello per Pane e tulipani e Non pensarci, due bei film italiani contemporanei) che interpreta un ex-detenuto riformato («Ho rubato, e molto») che si è dedicato al teatro amatoriale dopo aver partecipato a un seminario di recitazione tenuto da Dubois nel suo carcere. Conosce tutti i Vangeli a memoria: nella lunga permanenza in cella d’isolamento, la Bibbia era l’unico libro permesso. Ama lo spettacolo e Dio perché sono le ciambelle di salvataggio che lo hanno allontanato dal crimine. Si offre subito di fare il galoppino di Dubois, di occuparsi di ogni grana e dettaglio, ma è solo una pausa nella catena di guai. Corrado Guzzanti è molto godibile come metereologo tv gigione, scelto per la parte di Gesù; ci si chiede perché non lavori più spesso nel cinema. Non gliene vorranno mica per il flop ipocomico di Fascisti su Marte? È uno spreco assurdo non utilizzarlo di più; è unico, non assomiglia a nessun altro attore italiano. Il film si sfarina poi nel finale, ma non è questa la riserva principale, e nemmeno la soporifera lettura del film come «metafora dell’Italia degradata d’oggi» che affligge gli autori di quasi tutti i film italiani, elaborazione del lutto di una sinistra sinistrata e in cerca di colpevoli. Silvio Orlando (Coppa Volpi per Il papà di Giovanna) è ritenuto da molti un grande attore. Noi preferiamo la definizione che Federico Fellini dava di interpreti come Giulietta Masina, Monica Vitti e Totò: sono maschere, diceva, come nella commedia dell’arte: in qualunque ruolo sono sempre se stessi, mentre l’attore cambia (Francesca Inaudi, Michele Placido). Non è per forza un insulto ma una precisazione tecnica. Orlando ha la stessa faccia afflitta sia nelle commedie sia nei drammi. Funziona al meglio solo nei film di Nanni Moretti. Forse perché sono film migliori?

di Anselma Dell’Olio

Morti ammazzati, Platone e Socrate, l’esistenza di Dio e Walt Whitman, Tulsa e la sua comunità ebraica. È un piccolo film geniale con un grande cast (Edward Norton in testa) “Leaves of Grass” di Tim Blake Nelson. Impareggiabile anche la prova di Corrado Guzzanti nella “Passione” di Carlo Mazzacurati

Consigliamo viv amente Fratelli d’erba, uscito la settimana scorsa, perché è un piccolo film geniale, spassoso, originale, scritto benissimo e con un cast eccellente, e a rischio di passare inosservato. È la storia di fratelli gemelli identici, Brady e Bill Kincaid (il notevole Edward Norton nelle due parti) dell’Oklahoma, figli di due dropout. Il padre è morto in guerra («troppo “fatto” per rendersi conto del pericolo») e la madre (Susan Sarandon) è una hippy ancora giovanile, che sceglie di vivere in una casa di riposo. Bill è fuggito al nord e non torna a casa da dodici anni. Si è costruito una bellissima carriera accademica, è adorato dagli studenti, le ragazze lo concupiscono e Harvard gli offre una cattedra di filosofia. Attirato a Tulsa dalla notizia dell’assassinio di Brady, s’infuria quando scopre che il fratello - che lui disprezza per la vita disordinata e alternativa - ha finto la sua morte per indurlo a tornare a casa. Bill, preciso e integrato, è il contrario del gemello, che spaccia e coltiva con metodi tecnologici avanzati di sua invenzione, una marijuana gourmet-dinamite. È sotto ricatto dal boss locale, l’ebreo filo sionista Pug Rothbaum (Richard Dreyfuss), con cui ha un grosso debito, che lo vuole nel business delle droghe chimiche (metamfetamine, Pcp, ecstasy) che lui, ecobuongustaio, disdegna. Questa la premessa, ma Tim Blake Nelson, autore, regista e attore (era in Fratello dove sei? dei Coen, qui è il miglior amico di Brady) tesse una tela in cui ci sono (e non in maniera superficiale) morti ammazzati, Platone, Socrate, una raffinata teoria sull’esistenza di Dio e Walt Whitman (in originale il film si chiama Leaves of Grass). C’è pure la comunità ebraica di Tulsa («eccentrica, improbabile, esotica» dice Nelson, un indigeno). L’adorabile Keri Russell (indimenticabile in Waitress - ricette d’amore) è Janet, la maestra colta che fa la pesca del pesce gatto a mani nude. Il critico Roger Ebert definisce il film «una sorta di amabile, bizzarro capolavoro». Da vedere subito.


Avventura

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MobyDICK

ai confini della realtà

I Longobardi non mentono mai di Gianfranco de Turris

a «svolta» per la narrativa dell’Immaginario italiana si ebbe nell’anno orwelliano 1984 e proseguì per un bel pezzo. Per motivi che non si riuscirà mai a sceverare - coincidenze fortuite, fato editoriale, illuminazione dei curatori di collana, improvviso e concomitante interesse di autori noti ed esordienti grandi case editrici iniziarono a pubblicare nelle collane generaliste e senza alcuna etichetta romanzi che spaziavano nel variegato ambito dell’Immaginario. Fantascienza, fantastico, fantastoria, orrore, mito, magia, occulto e avventura non-mimetica entravano a far parte del cosiddetto mainstream e cominciarono a essere accettati da critici e pubblico (anzi: prima da questo che da quelli) per le intrinseche qualità letterarie dell’opera: il «genere», dunque, iniziava a non fare più «la differenza» in negativo. Nell’arco di venticinque anni, anche se fra alti e bassi, la situazione si è consolidata proprio in un momento di crisi della narrativa «specializzata», non solo in Italia ma in tutto il mondo. Quindi, che Valerio Massimo Manfredi con il suo volume di racconti Archanes (Mondadori) abbia vinto lo scorso 11 settembre il Premio Scanno, giunto alla sua 38ma edizione, ha un suo significato, al di là del riconoscimento a un nome che riassume in sé parecchie caratteristiche: narratore e saggista, sceneggiatore e conduttore televisivo, ma soprattutto archeologo (non teorico, ma con ricerche su campi impervi) e docente universitario. Un antichista, insomma, che non solo conosce e ama la classicità greco-romana, ma soprattutto riesce a calarsi nella mentalità, nel modo di pensare e agire di quei nostri lontani progenitori, là dove sono le nostre radici culturali, cosa che Manfredi sa molto bene, e lo fa capire.

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I suoi romanzi, a partire da Palladion che, insieme agli altri romanzi citati in precedenza, diede il via alla accettazione presso l’editoria generalista dei temi «fantastici», sono un sapiente dosaggio di conoscenza approfondita e partecipe di quelle vicende e di quei miti, lontani eppur così vicini, di uno stile piacevole e veloce, con trame complesse in cui spesso si affaccia l’elemento non-mimentico e qualche volte addirittura fantascientifico, e una struttura a intrigo che ricorda il giallo, lo spionaggio e l’avventura. Insomma, Valerio Massimo Manfredi scrive romanzi e racconti «che si fanno legge-

re», ma che al contempo non sono superficiali, non sono anacronistici come quelli che spesso ci propinano gli americani, con modi di dire e di fare attribuiti agli antichi che si rifanno a modi di dire e di fare moderni e con-

temporanei: il che raggiunge vertici insuperabili di ridicolo. Ecco perché è significativa la vincita di un libro di avventura al Premio Scanno, un premio fondato nel 1972 da Riccardo Tanturri e che dal 1975 ha iniziato a segnalare letteratura e narrativa, creando poi sezioni per il diritto, l’economia, la sociologia, la medici-

ci entrare in un mondo diverso dalla realtà quotidiana, ci fa immedesimare nel protagonista e ci fa vivere storie appassionanti che simbolicamente trasmettono insegnamenti. Cosa che piace anche agli adulti. Valerio Massimo Manfredi è stato uno di primi autori italiani, se non il

primo, a dare nella seconda metà del Novecento una dimensione «moderna» al romanzo di avventura, mescolandolo, come si è accennato, ad altri «generi» attuali: il thriller, la spy story, l’intrigo internazionale, la fantapolitica. Archanes, nelle cinque lunghe storie che lo compongono,

Con “Archanes”, Valerio Massimo Manfredi, l’autore che ha dato in Italia una dimensione moderna al romanzo d’avventura, ha vinto il Premio Scanno. Un libro che è la summa delle sue tematiche preferite. Tra passato, presente e futuro na e le tradizioni popolari. Ah, ma allora si tratta di un libro per ragazzi, dirà qualcuno meravigliandosi di tanta audacia. Non è così. A parte che a questa «categoria» vengono ascritti noti capolavori di Stevenson e Conrad, e che le stesse opere del nostro maggior scrittore del genere, Emilio Salgari, sono da molti anni rivalutate e pubblicate in edizioni filologiche, le sue origini sono nobili e per nulla infantili. L’avature era quella cui andavano incontro i cavalieri medievali, un fatto non voluto, non cercato, un evento che accadeva, di fronte al quale ci si trovava davanti, e che si doveva affrontare, indipendentemente dal risultato. Insomma, una vera e propria «prova» come si legge in tanti romanzi cavallereschi, sia della «materia di Bretagna» che di altre. Non quindi storie superficiali per affascinare i bambini, se questo per alcuni può essere considerata una diminutio. La storia d’avventura ha il potere di far-

si può considerare una piccola summa delle tematiche preferite da Manfredi spaziando fra passato, presente e futuro prossimissimo. Intanto c’è Limes, forse la migliore: ambientata nel VII secolo d.C. descrive l’incontro/scontro fra i romani e i barbari, in questo caso i Longobardi. Manfredi riesce a calarsi nella mentalità degli ultimi rappresentati di una romanità già parecchio cristianizzata, e quindi profondamente modificati in certi valori, e quella dei nuovi arrivati che portano - così si capisce - una nuova linfa vitale a forze ormai esangui. In fondo il paterfamilias Eutichio Crescenzio Severo è già diviso tra Simmaco e S. Ambrogio, Rutilio Namaziano e S. Agostino, e deve scendere a compromessi come gli consigliano i suoi generi, uomini di lettere e non di armi. Di fronte ha dei barbari che però già si stanno romanizzando, quasi

senza saperlo. Il risultato sarà inevitabile, come si può capire da quel che sarà il seguito dell’incontro, sul confine, il limes (reale e simbolico) delle due proprietà terriere, fra Serena e Cuniperto. Egli, ormai un «sopravvissuto», potrà essere sicuro del futuro di sua figlia dato che, come vien detto, «i barbari non mentono, solo le persone civilizzate lo fanno»…

In Archanes e Gli dei dell’Impero siamo invece ai nostri giorni con due racconti che corrono entrambi sul filo del giallo archeologico, specialità dell’autore: da un lato sono spariti pezzi pregiati del museo di Bagdad, dall’altro dei tombaroli scoprono vicino Roma nientemeno che un gruppo statuario della Triade capitolina, Giove, Giunone e Minerva, gli dèi protettori dell’Impero romano, «il simbolo del più grande potere mai esistito al mondo». Chi lo ha comprato di frodo? C’è «gente che farebbe carte false per possedere un simbolo di quella forza», fa dire Manfredi a un personaggio, in tal modo facendoci capire che non solo di marmo inerte si tratta. Midget War e Millennium Arena ci spostano in un futuro vicino in cui la tecnologia la fa da padrone, lo spionaggio industriale e gli intrighi internazionali sono lo sfondo, insieme agli istinti primordiali dell’uomo come la vendetta e la violenza. Poiché si tratta di storie con un colpo di scena finale non si può dire di più, se non che Manfredi in questo caso dispiega le sue capacità di creatore di suspense e di inventore di trame ai limiti del possibile, in cui si scontrano idealità diverse e i lati negativi della psiche umana spesso sembrano prevalere, ma alla fine non prevalgono. Anche qui, nella seconda storia, emerge l’amore di Manfredi per la classicità. Uno dei personaggi, direttore di un settore dello spionaggio italiano, è uomo di azione ma anche di lettere: ama il latino, ha vinto il Certamen Ciceronianum e viene coinvolto nell’intrigo proprio mentre sta recandosi a un concorso internazionale di poesia latina. Insomma, usa la mitraglietta e il calamo allo stesso modo!


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