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mobydick

SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

Fenomenologia di Cosa Nostra

RITRATTO DI MAFIA IN UN INTERNO di Filippo Maria Battaglia semiologi li chiamano codici, segni - a volte chiari a volte Nostro Signore” dice tenendo gli occhi bassi. E aggiunge: “Mi deve scusare siindecifrabili - che regolano la comunicazione. Ogni comunità li ha, fignor presidente, ma la pace e la serenità sono la base fondamentale per Dai gurarsi se non li ha Cosa Nostra. E proprio tutti questi codici giudicare: io vi auguro che questa pace vi accompagni per tutto il repizzini di hanno almeno due significati: uno apparente (o denotativo), sto della vostra vita”». Tra augurio e minaccia, il crinale è labiun altro più inaccessibile ma anche più veritiero (e cioè lissimo, perfino sdrucciolevole. Eppure, alla fine, il messagLo Piccolo alla cerimonia connotativo). Gli esempi possono essere milioni, per gio è sempre chiaro; in questo caso, al di là della patidella “combinazione”, averne un’idea conviene dunque tornare alla Sina formale, il pendolo comunicativo oscilla nettacilia di ventuno anni fa: «la Corte sta per ritimente verso l’avvertimento. dai banchetti con il morto a casa Brusca rarsi in camera di consiglio, sono gli ultimi atCodici e riti sono ora raccontati nel libro di Atalla Bibbia di Provenzano. In tre libri, ti del primo maxiprocesso a Cosa Nostra. All’imtilio Bolzoni (Parole d’onore, Bur, 410 pagine, 12,00 storia, codici e riti della euro), in una sorta di viaggio lessicale che non risparmia provviso arriva dalla gabbia una voce roca, lontana.Vienessuno dei principali mafiosi. Fra le morte gore dei mammane dalla cella numero 22. È Michele Greco che parla. È il macriminalità siciliana fioso che chiamano “il papa”.Vuole salutare la Corte. Si alza in piedi, le sue mani si muovono seguendo il ritmo della voce.“Vi auguro la continua a pagina 2 pace eterna a tutti voi, signor presidente, non sono parole mie ma parole del

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9 771827 881004

ISSN 1827-8817 80927

Parola chiave Pregare di Sergio Valzania Randy Newman il fustigatore di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Coleridge, lo stupore come redenzione di Roberto Mussapi

Dove militano i critici? di Nicola Fano De Niro, Al Pacino e una Binoche trés parisienne di Anselma Dell’Olio

L’enigma Tassi tra visione e realtà di Marco Vallora


ritratto di

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mafia

I Casalesi ai raggi X di Livia Belardelli i spara ancora sul litorale domitio. L’ultima mattanza poco più di una settimana fa, sei extracomunitari africani freddati da più di cento colpi di kalaschnikov. La firma è quasi certamente quella dei Casalesi, la potente mafia casertana che, lontana dai riflettori mediatici per decenni, è oggi alla ribalta della cronaca dopo il libro-denuncia di Roberto Saviano. Di quella periferia della periferia, dimenticata terra di «lupare bianche» e delitti efferati, teatro di spietate guerre tra clan, scrive anche Gigi di Fiore nel suo L’Impero (Rizzoli, 419 pagine, 19,00 euro). Una ricostruzione storica rigorosa sulla camorra casertana, realizzata attraverso documenti, atti giudiziari, cronache giornalistiche e testimonianze per comprendere e analizzare ciò che da decenni si sta verificando nella provincia. Perché è qui che, sul finire degli anni Settanta, prende forma il dominio incontrastato di quei gruppi camorristici destinati a insanguinare la Campania fino a oggi. È in questo territorio abbandonato, sempre all’ombra del più giornalisticamente eccitante capoluogo napoletano, che fiorisce indisturbata la potente rete di criminalità, generatrice di uno dei clan più feroci e spietati d’Europa, quello dei Casalesi. Come i Corleonesi in Sicilia, anche i Casalesi hanno origini rurali e il capo storico dei gruppi camorristici campani degli anni Ottanta, Bardellino detto Picchiacchiello, è un «uomo d’onore», affiliato a Cosa Nostra. E da Cosa Nostra la camorra casertana mutua i riti, le cerimonie, i codici violenti. Con Bardellino si apre una nuova era, una camorra autonoma nutrita dalle vecchie radici, che avrà come centro nevralgico prima San Cipriano d’Aversa e poi, con la triade Schiavone-Bidognetti-De Falco, Casal di Principe. Soldi, viaggi, barche lussuose, opere d’arte, ville da mille e una notte sono il

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segue dalla prima santissima, si incappa ad esempio nel disprezzo di diversi boss nei confronti dell’emergente Lucky Luciano, al secolo Salvatore Lucania da Lercara Friddi, guardato di sottecchi in quanto amatore di bella vita arricchitosi, tra l’altro, con le buttane. «Le famiglie di Palermo scrive Bolzoni - consideravano la prostituzione “un’attività indegna”, non rispettabile per gli uomini d’onore». A questa specie di aberrante deviazione dell’ethos, che ritornerà prepotente nei pizzini di Lo Piccolo contenenti i precetti per la vita del buon mafioso, fanno da pariglia certe analisi fatte dagli stessi boss, e date quasi come certe. A tal proposito, basta leggere ciò che diceva Leonardo Messina, capodecina della famiglia di San Cataldo: «la mafia è un organismo democratico. Uno dei più importanti organismi democratici: non ci sono scrutini segreti, si vota per alzata di mano, davanti a tutti. Il capo viene eletto dalla base e non è vero che abbia un’immagine così rilevante. L’epicentro di tutto è la famiglia, il capo ne è solo il rappresentante. È sempre la famiglia che decide, il capo viene votato dalla ba-

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa a cura di Gloria Piccioni

se, dagli uomini d’onore, che hanno lo stesso potere del capodecina». Grottesco (oltre che intriso di inaudita violenza) è invece il quadretto che si presenta a casa dei Brusca. Siamo nei primi anni Novanta. A dominare la scena è la mafia corleonese e Totò Riina ne è il capo incontrastato. Il boss è solito «ragionare» attorno al tavolo dei capimandamento di San Giuseppe Jato. Così, convoca gli stati generali della sua organizzazione di fronte a leccornie e piatti fumanti. L’invito - racconta sempre Bolzoni - è «l’incubo di tutti gli uomini d’onore. Chi riceve l’ambasciata trema. È in trappola. Se non ci va, il suo destino è segnato. Vuol dire che non è “affidabile” o, peggio, che ha qualcosa da nascondere. Se ci si va, sa che può fare la fine di tanti altri: non tornare più». Le cose vanno più o meno in questo modo: si ride, si mangia, si scherza e si banchetta. Poi, d’improvviso, qualcuno scivola alle spalle di uno degli ospiti, ormai indesiderato, e lo strangola con una cordicella. «Monsciandò pi tutti» ordina Totò, subito dopo aver disposto il trasferimento del cadavere. Ecco perché «ci sono sempre casse piene di Moêt & Chandon anche ai Dammusi».

Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento) E.TI.S. 2000 VIII strada Zona industriale • Catania

frutto degli affari mafiosi. Francesco Schiavone detto Sandokan si diletta con la pittura e la storia dei Borboni, il fratello Walter con la letteratura epica, Omero e Walter Scott.Vezzi da «uomini colti» ma anche case pacchiane come quella hollywoodiana, tutta statue, marmi e colonne, perfetta imitazione della casa del boss Tony Montana di Scarface, a sottolinearne le irrefrenabili manie di grandezza. Una bella vita che affonda le radici nella morte e nella paura: 646 omicidi dal 1985 al 2004, traffici illeciti, estorsioni, infiltrazioni in grossi appalti. E ancora il business del calcestruzzo, affare milionario che si affianca a quello dei rifiuti urbani provenienti dal Nord Italia, quel subdolo «affare monnezza» che uccide senza sparare. Di Fiore, con grande forza documentaria, offre una radiografia di questa occulta e potente mafia, pronta a cannibalizzare se stessa e a rigenerarsi dalle ceneri dei capi dei capi, in un susseguirsi di ascese ai vertici dell’organizzazione e morti violente, causate dagli stessi compagni che pretendono una fetta più grande della torta. La strage del 18 settembre 2008 non è che l’ennesima, crudele e inutile ostentazione di potenza, il gradino successivo di quella «campagna di primavera» che Di Fiore descrive nelle ultime pagine del libro. Una strategia del terrore di cui i sei immigrati non sono che le ultime pedine, iniziata come risposta all’avvicinarsi della sentenza d’appello del processo Spartacus che ha portato, il 16 giugno scorso, a un totale di 16 ergastoli e 336 anni e tre mesi di reclusione per i boss Casalesi. Lo Stato ha arrestato i loro capi e sequestrato i loro beni e oggi pensa all’intervento dell’esercito. Una guerra tra Stato e Camorra. E loro, i Casalesi, rispondono nell’unico modo che conoscono e di cui sono maestri: il sangue.

Ma Cosa Nostra ha pure altri riti. Scrive la sociologa Alessandra Dino nella Mafia devota (Laterza, 304 pagine, 16,00 euro): «l’ingresso formale in Cosa Nostra viene consacrato dal rito della combinazione, una cerimonia suggellata da un giuramento sacro pronunciata in presenza di un padrino e dei rappresentanti di alcune famiglie mafiose e dalla punciuta di un dito della mano destra - solitamente il dito indice, quello che preme il grilletto per sparare - da cui viene fatta sgorgare una goccia di sangue, versata su un’immagine votiva che viene poi bruciata nel palmo della mano del nuovo associato, a cui inoltre sarebbe fatto carico di pronunciare una breve formula promissoria». E c’è di più: il legame con il trascendente non è solo legato a un’immagine rituale dell’associazione criminale. Oltre alla Bibbia, trovata nel rifugio di Bernardo Provenzano, c’è infatti molto altro: «Cosa Nostra - scrive la Dino - diventa il luogo in cui si può mediare il rapporto con la religione e con Dio, perché il capomafia si considera o viene considerato una emanazione diretta del divino». Un’immagine dunque molto distante e, se vogliamo, quasi speculare rispetto a quella che ne viene fuo-

ri dalle dichiarazioni di Messina. E tuttavia, la storia della criminalità isolana, va da sé, racconta anche molto altro, come sacrifici e gesti di eroismo spesso dimenticati. È il caso di Boris Giuliano, siciliano doc sbarcato a Palermo alla fine degli anni Sessanta, la cui vicenda è ora raccontata in un libro-testimonianza di un giornalista isolano, Daniele Billitteri (Boris Giuliano, la squadra dei giusti, Aliberti, 221 pagine, 16, 00 euro). «Lo sceriffo» (Giuliano era chiamato così, ma senza alcuna ironia) ha l’obiettivo di combattere la mafia e un certo metodo pioneristico nella lotta contro gli affiliati. Nominato commissario della Squadra mobile nel 1976, sarà ammazzato da un commando di Cosa Nostra nell’estate di tre anni dopo. «Sicuramente - conclude l’autore, ex dell’Ora, adesso al Giornale di Sicilia - capirono che era un uomo. Ma anche che, nel panorama palermitano, non era proprio in vastissima compagnia. Forse proprio per questo le lancette della sua vita cominciarono a percorrere l’ultimo giro verso quella mattina limpida del 21 luglio 1979 al bar Lux, quando voleva pagare solo un caffè. E invece gli fecero pagare tutto».

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parola chiave

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PREGARE a prego di voler provvedere con cortese sollecitudine...» è una formula classica del burocratese corretto, che rifugge dai toni aggressivi e dalla secchezza dell’imposizione. Anche l’atto dovuto viene richiesto con morbidezza di toni. Così l’atto di pregare, verbo di cui prego è la prima persona dell’indicativo, si trasforma in una modalità gentile del richiedere, fino a coincidere in maniera sotterranea con l’ordinare nei casi di gerarchia rigorosa. Non si può negare che l’uso del verbo con questo significato sia etimologicamente più che corretto. Come primo significato di pregare lo Zingarelli riporta infatti «Rivolgersi a qualcuno per chiedere qualcosa». Neppure in una società secolarizzata come la nostra sfugge però l’esistenza di un secondo significato, ben distinto dal primo, che lo stesso vocabolario indica come «Rivolgesi a Dio, alla divinità, con le parole o il pensiero, come atto di devozione». Nella confusione dei compilatori viene anche aggiunto «o per chiedere aiuto» senza rendersi conto che in questo modo i due significati si confondono, il secondo coincide con il primo. Se la preghiera ridiventa una richiesta scompare la differenza con il caso precedente, dato che il fatto che il qualcuno sia Qualcuno non modifica il significato della parola. Ben diverso è infatti un atto di devozione da una richiesta. Ma si potrebbe andare più in là e affermare che pregare è nella sua essenza un atto di devozione a Dio. Nessuno si sognerebbe di definire preghiera un atto di devozione rivolto a un leader politico o al proprio capoufficio.

«L

A ben guardare è proprio nel pregare, ossia nella devozione come incontro scambievole, come manifestazione di desiderio di prossimità, che sta il cuore della religiosità. Non solo di quella cristiana, o di quelle che si rivolgono a un Dio personale. Ogni meditazione mette il suo fuoco in quella parte dell’uomo la cui natura trascende la dimensione fisico-animale. Semmai si deve dire che è nelle forme di preghiera che le religioni differiscono. Nell’esperienza cristiana la preghiera si fonda su una tradizione radicata, ma conosce anche un’evoluzione complessa, che si comprende all’interno di quanto sostiene Benedetto XVI in veste di teologo, quando si riferisce alla realizzazione della rivelazione nel mondo attraverso l’opera della Chiesa. Nella quotidianità della comunicazione i fraintendimenti sono molteplici. Il concetto di preghiera rappresenta forse uno dei punti di massima confusione linguistica fra coloro che si dichiarano credenti e chi sostiene di non credere. Il devoto non prega per chiedere qualcosa, una grazia o un miracolo, o almeno non lo fa in via primaria. Il devoto prega per pregare, trova appagamento nell’atto stesso, allo stesso modo dell’a-

È un allenamento, una pratica di avvicinamento, la manifestazione di un desiderio di prossimità con Colui che tutto può. Un atto di devozione e non una richiesta di soccorso, anche se tra i due significati esiste una contiguità ineludibile

Gli atleti di Dio di Sergio Valzania

Nella quotidianità della comunicazione i fraintendimenti sono molteplici. Il concetto di preghiera rappresenta uno dei punti di massima confusione linguistica fra coloro che si dichiarano credenti e chi sostiene di non credere tleta che si soddisfa dello sforzo fisico al quale si sottopone in allenamento. Se non si divertisse ad allenarsi la sua vita sarebbe una tortura. La preghiera è una pratica di avvicinamento a Dio, di creazione di intimità, di costruzione e affinamento di un rapporto, perciò non esistono preghiere che non raggiungono lo scopo. La richiesta di una grazia, anche se essa non arriva, ha formato il credente e, con ogni probabilità, migliorato il mondo. Anche la straziante protesta pubblica di Paolo VI per l’uccisione di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse fu un momento di intimità,

lacerante, dell’uomo con Dio. Prima che richiesta del necessario, «Dacci oggi il nostro pane quotidiano», il Padre Nostro è affidamento: «Sia fatta la tua volontà», massima aspirazione e ambizione ontologica del credente. La chiusura, che qualcuno sottopone a critica, «Non ci indurre in tentazione», è la richiesta, nella dolorosa ed eroica condizione umana, di un rapporto più intimo. Svelato. Della conferma dell’efficacia della preghiera. Tutto ciò diviene evidente in modo luminoso nella più diffusa esperienza di preghiera proposta e praticata dalla Chiesa

cattolica: la lettura e la meditazione dei Salmi. Nella Messa precede quella del Vangelo e si svolge quotidianamente nelle ore monastiche, fra la Vigilia e la Compieta. Il libro dei Salmi è parte della Bibbia, quindi se ne proclama la derivazione divina, pur nella sua redazione terrena, eppure è paradossalmente composto di invocazioni a Dio, lamentazioni e ringraziamenti, lodi e canti gioiosi, come se fosse stato Dio stesso a consigliare agli uomini le parole migliori per dialogare con lui. Quasi ci avesse insegnato la Sua lingua. Leggere e cantare i salmi è una pratica circolare, nella quale l’uomo riporta a Dio quello che Lui stesso gli ha dato, un modo per accettare e gioire della propria collocazione nel Creato. Non è un caso che le ultime parole del Cristo morente sulla croce, riportare dai Vangeli, provengano da quel libro. In Matteo e in Marco «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato» dal Salmo 22, in Luca «Padre, nelle Tue mani depongo il mio spirito» dal Salmo 31 e in Giovanni, prima del definitivo «Tutto è compiuto» troviamo la richiesta di bere alla quale risponde l’aceto del Salmo 69. Per parte sua quindi l’uomo non prega per chiedere nulla di diverso che la conferma nel suo faticoso, e inebriante, cammino di fede e l’aiuto per percorrerlo. In questo contesto si collocano le scritture, i riti sacri e i sacramenti. Questi ultimi sono strumenti di incontro privilegiati, luoghi misteriosi di contiguità fra l’uomo e Dio, occasioni particolari di elargizione della grazia. Ma anche le scritture e i riti, nel contesto della Chiesa, sono veicoli di un rapporto faticoso, di un sentiero appena tracciato, al quale nessuno è costretto e tutti sono chiamati, che rappresenta la testimonianza di un’attenzione continua e rispettosa, di una vocazione incessante. Certo la confusione linguistica permane e di per sé significa. Se la stessa parola definisce la richiesta di un soccorso, di un favore, e la pratica di una devozione rivolta al compimento di una volontà che trascende quella individuale, fra i due atteggiamenti deve esistere una contiguità. Per ulteriore paradosso ritengo che anche questo debba considerarsi uno strumento di preghiera, un luogo di meditazione, l’occasione per riflettere sulle radici della condizione umana. La nostra ragione dimostra i suoi limiti quando viene chiamata a domandarsi il senso profondo di una richiesta in apparenza folle come quella avanzata a Colui che tutto può di affermare con pienezza la propria volontà. Eppure è proprio lì che si nasconde il mistero della nostra esistenza, nella libertà che ci è concessa di sviluppare il nostro volere per strade diverse, nella richiesta che ci viene da Dio di essere partecipi attivamente della storia d’amore che egli vive con ciascuno di noi.


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rock

musica

Arpe e Angeli per Randy, il fustigatore opo un po’(troppo, nel suo caso) senti la mancanza di quell’umorismo all’arsenico che smaschera i panni sporchi d’America, ciarlatana land of dreams. E quell’innata capacità d’architettare grandi canzoni per poi interpretarle e giostrarle al pianoforte come un Lenny Bruce iniettato di pop, blues, jazz e orchestrazioni da togliere il fiato. Ma Randall Stuart Newman detto Randy, fustigatore di New Orleans, è un songwriter che carbura col contagocce: 10 dischi in quarant’anni e il nuovo, Harps And Angels, che arriva una vita dopo Bad Love (1999, con quel bad impugnato come una mazza da baseball per denunciare le lordure del mondo). Un alibi, però, ce l’ha. Inattaccabile. Quindici candidature all’Oscar e uno vinto, nel 2002, con la canzone If I Didn’t Have You dal cartone animato Monsters & Co. Da Ragtime a Pleasantville, da A Bug’s Life a Babe, colonne sonore come se piovesse. E le musiche quasi pronte per il prossimo cartoon Disney, The Princess And The Frog. E le buonanime dei suoi zii Lionel e Alfred, maestri di soundtrack hollywoodiane? Furono lo-

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in libreria

di Stefano Bianchi ro a indirizzarlo con intelligenza alla musica, e da lassù lo spronano a dare sempre il meglio di sé. Per cui, di tempo per mettersi tranquillo a ragionar su nuovi pezzi, Randy Newman ne ha ben poco. Ma quando azzecca l’ispirazione giusta, sbanca il tavolo come il più scafato giocatore di roulette francese.Vedi, fra gli anni Settanta e Ottanta, album da leggenda come 12 Songs, Sail Away, Little Criminal e Trouble In Paradise. Più un paio di canzoni da visibilio: You Can Leave Your Hat On del ’72 (portata poi al successo da Joe Cocker come leitmotiv di 9 settimane e mezzo, spogliarello di Kim Basinger incluso) e la corrosiva, orecchiabilissima Short People del ’77. Harps And Angels, ebbene sì, è l’ennesimo capolavoro dell’epopea newmaniana: finito in prima pagina sul New York Times, a mo’ di editoriale, col testo della ballata jazz A Few Words In Defense Of Our Country che a un certo punto recita «L’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è proprio la paura» citando Roosevelt

mondo

e bastonando senza pietà l’amministrazione Bush. Corrosivo come al solito, Randy. Che ama a tal punto l’America da snidarne una per una le contraddizioni. Infilando, con gusto rétro, fra un colpo basso e una botta di cinismo, tutte le musiche di cui è gran maestro: corposi blues dalle sfumature ragtime (Harps And Angels e Potholes); un tip-tap da ruggenti anni Venti come Laugh And Be Happy; l’ossuta melodia di Losing You per voce, archi e pianoforte, che farebbe la felicità di Tom Waits se solo l’avesse scritta; le cacofonìe, con tanto d’atmosfera stile Alabama Song di Brecht & Weill, che innervano A Piece Of The Pie; l’attitudine cabarettistica di Korean Parents e lo swing che accarezza da cima a fondo Easy Street e Only A Girl. Ce n’è abbastanza per affiancarlo (sarebbe ora) ai più grandi compositori del Novecento. Lo spazio c’è: fra Cole Porter e George Gershwin. E nessuno si scandalizzerebbe. Randy Newman, Harps And Angels, Nonesuch/WEA, 20,60 euro

riviste

QUEL GENIO DI COUNT BASIE

GORILLAZ AL TERZO (INATTESO) ALBUM

TORNANO LE ATMOSFERE DEI BEACH BOYS

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ome dimenticare il grande Count Basie, uno dei più brillanti pianisti jazz di tutti i tempi, maestro indiscusso dello swing e leader di una big band leggendaria? A distanza di oltre un decennio dalla prima uscita americana (la prima edizione è del 1995, e del 2002 una ristampa), la Minimum Fax pubblica Good morning blues. L’autobiografia (580 pagine, 17,00 euro), dove Basie, attraverso il rac-

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randi notizie per gli appassionati fan dei Gorillaz. La loro esperienza sarebbe dovuta essere un’avventura giunta al capolinea, invece, come anticipato dalla nota testata online rockol.it, gli artisti sembrano pronti a tornare. Nonostante avessero dichiarato di voler interrompere la creatura nata dalla mente di Damon Albarn, e da quella del disegnatore Jamie Hewlett, l’amatissi-

orna a farsi vivo il bassista dei Beach Boys. Dopo avere pubblicato dischi per la Rhino e per la Nonesuch, Brian Wilson torna a casa, alla Capitol, l’etichetta che ha ospitato i suoi Beach Boys nel loro periodo di maggiore fama. Il figliol prodigo si presenta con un disco molto nostalgico, che rievoca le armonie vocali degli anni Sessanta. Una produzione che segue, dopo quattro

Dagli esordi ai tour mondiali: pubblicata anche in Italia l’autobiografia raccontata ad Albert Murray

Torna a sorpresa la band a cartoni animati nata da un’idea di Damon Albarn, ex leader dei Blur

Su “Buscadero” notizie dell’ultimo disco di Brian Wilson, mitico bassista della band californiana

conto affidato al critico e saggista Albert Murray, racconta tutta la propria vita: dall’infanzia nel New Jersey dei primi del secolo, subito contagiata dall’amore per il ragtime, alle prime esperienze a Kansas City e New York, alle brillanti collaborazioni con Billie Holiday e Lester Young, ai tour mondiali con la sua band. Fra aneddoti e meditazioni profonde, le pagine del libro evidenziano la figura, a volte inedita, di un gigante della musica jazz. Cinquant’anni sulla scena del jazz d’orchestra più raffinato ripercorsi con la piacevolezza, lo humor e il rigore che sempre hanno contraddistinto il genio artistico di Count Basie scomparso in Florida nel 1984.

mo leader dei Blur ha annunciato di aver iniziato a lavorare al terzo, inaspettato capitolo della discografia della band a cartoni animati. «Stiamo facendo un altro disco dei Gorillaz», ha infatti dichiarato Albarn. «Siamo tornati dalle vacanze estive avendo ben in mente cosa volevamo fare: Jamie ha accettato di disegnare i membri ancora una volta. Io non mi sarei fermato». «In realtà sono stanco di disegnare questi personaggi», ha aggiunto Hewlett. «Ma ora siamo in un momento in cui vediamo la cosa da un’altra angolazione». L’ultimo album di studio dei Gorillaz, Demon days, risale al 2005 fu un clamoroso successo.

anni di silenzio, Gettin’ over my head e Smile. That lucky old, il disco in uscita, è un’operazione nostalgica, ma trabocca di entusiasmo, belle canzoni e grande musica. Sull’ultimo numero della rivista musicale Buscadero il cd dell’artista californiano viene raccontato nei minimi particolori. Brian è in grande forma, non si proponeva da anni a questi livelli. Ci sono riferimenti agli anni Sessanta, diverse canzoni vincenti, mentre nei testi si parla di ragazze, amore, surf, mare e southern California. Insomma, un Brian Wilson rinato dal punto di vista melodico che canta come una volta.

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teatro

zapping

Largo ai Ministri antidoto al rock colto di Bruno Giurato hi scrive sarebbe contento se lo Stato volesse dare un sussidio ai musicisti. In particolare bisognerebbe darlo a certi musicisti a condizione che smettano di suonare. Per esempio i signori Afterhours, Bluvertigo, Marlene Kuntz, Negrita, Tiromancino, sarebbero pregati di cercarsi un barbiere che operi sulle loro zazzere, salutare il pubblico con una genuflessione e accomodarsi altrove, pagati da noi, lasciando spazio alla nuova grande band del rock italiano, i Ministri. Un trio scarno (basso e voce, chitarra, batteria) che si presenta ai concerti in divisa da ussaro, con code e alamari. Poco più che ventenni, milanesi, arrabbiatissimi, intelligenti e comunistissimi, i Ministri sono l’antidoto perfetto al rock colto e decadente (anzi decaduto) dei nomi scritti all’inizio. Nel libretto del loro primo cd c’è la nota spese della realizzazione del disco. I Ministri sono in grado di organizzare un concerto ovunque spendendo cento euro, e di recuperare spese e cachet mettendo in vendita casse di birra acquistate al Lidl. Scrivono strofe come: «l’anima alle bestie /noi pensiamo con il pane» e poi dichiarano cose come: «Chi veramente crede dovrebbe avere gli occhi spiritati e camminare per strada come chi si porta dentro una verità devastante. Qualcuno c’è: lo si rispetta, ne si rimane affascinati, ne si rimane terrorizzati». Non sono mai noiosi, mai lagnosi, hanno un suono fresco ed energia. Forse sono ancora immaturi. Comunque la Universal li ha messi sotto contratto, il prossimo disco uscirà nel 2009. Nel frattempo chi li volesse vedere e sentire può recarsi oggi al Parco Rosati a Roma, al festival Il Sorpasso. E sognare la pensione per gli altri.

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Il sabba di Mammasantissima di Enrica Rosso i ha abituati a spazi vuoti, scatole nere, buchi opachi fitti di parole, zeppi di canti e suoni e corpi. Scenografie scarne che improvvisamente si popolano di mille presenze. Interpreti disposti a tutto che si prestano a essere plasmati, a volte usati, come pezzi di carne esibita, buttati in pasto al pubblico, forgiati come bonsai, ma motivati e partecipi della visione che sono chiamati a rappresentare.Visione poetica che solo lei possiede, al punto tale da essere creatrice esclusiva della confezione dei suoi spettacoli. Ancora una volta ci trascina nel suo raccontare fitto fitto, per immagini vivide quasi indecenti, per via dell’esposizione emotiva degli interpreti, in un dialetto stretto e pieno di rimandi. Emma Dante, quarantenne palermitana che si nutre di Sicilia e ce ne restituisce suggestioni forti, a volte dolorose, o barocche come una cassata, ha già vinto una serie di premi prestigiosi, dato vita a un festival (rossofestival), fondato uno spazio-laboratorio di libera creazione (la Vicaria) e scritto un libro (Via Castellana Bandiera). Oltretutto esporta i suoi spettacoli in mezza Europa. Aveva già affrontato l’argomento mafia in Strada senza uscita dedicato a Paolo Borsellino e alla sua scorta e rappresentato in forma commemorativa nella tristemente nota via D’Amelio, ma è in questo Cani di bancata che affonda senza ritegno nel magma incomprensibile della materia mafiosa. Una ferale cerimonia di iniziazione, che alla maniera di un banchetto il cui desco è imbandito e condotto secondo la formula religiosa cristiana da un’entità suprema che accoglie e agghiaccia facendosi nutrimento delle menti, ci proietta in un ipotetico tempio dell’orrore. Schierando in scena dall’inizio dello spettacolo alla fine l’intera compa-

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gnia, la regista ci suggerisce una danza di morte funesta e inarrestabile in cui dieci poveri fantocci sotto la supervisione di una cagna oscena si dilaniano in un’abbuffata di cattiveria, meschinità e lordure stilizzate, in cui ognuno, a turno, è costretto a tirare fuori i propri scheletri dagli armadi per il pubblico ludibrio in un gioco al massacro in cui per scalare le vette del potere tutto è concesso. Un’ipotesi fantastica in cui la Mammasantissima, (che ha le fattezze stravolte, l’energia e l’intelligenza interpretativa della formidabile Manuela Lo Sicco), rappresentata come un idolo sanguinario e implacabile, diventa la metafora della mentalità mafiosa che tiene sotto scacco il branco. «Andate per il mondo e mescolatevi», le sue ultime agghiaccianti parole. C’è un senso di ineluttabilità nella metamorfosi che a poco a poco, ma inesorabilmente, avviene e che trasforma gli incaprettati in «incravattati». Simboli forti, schiaccianti, fin troppo espliciti. Emma Dante ci consegna uno spettacolo importante, segnato da una ritualità compulsiva, un fare e disfare, una sorta di rito satanico, una coazione a ripetere per arrivare alla catastrofe annunciata. La sagoma dell’Italia capovolta, sottomessa a un potere sconveniente, come impiccata, che troneggia e quasi assolve, giustificandolo, l’abbrutimento dei desolanti mastini rimasti in balia dei loro istinti primari, poco umani e molto animali, senza anima né pensiero, solo puro istinto all’autoesaltazione. Come immaginiamo essere certi uomini terribili, campioni di efferatezze.

Emma Dante in “Cani di bancata”

Cani di bancata, di Emma Dante, Teatro Palladium di Roma 3 e 4 ottobre, Info: tel. 06-57067761 - www.teatro.palladium.it

jazz

Melodici incanti tra Puccini e Chico Buarque di Adriano Mazzoletti e peculiarità che rendevano il jazz così unico nel panorama musicale del secolo scorso stanno o sono in gran parte scomparse, sostituite da altre che gli studiosi non hanno ancora definito. Mentre sappiamo quali erano le peculiarità del jazz classico o moderno - swing ritmico, predilezione per il tempo binario, brevità delle esecuzioni, ma soprattutto il blues e la componente nera -, oggi i principali requisiti del jazz sono sostanzialmente diversi. Alcuni studiosi, soprattutto italiani, stanno cercando di codificare la nuova estetica del jazz, ma le tante «musiche» che si sono fuse con il jazz afro-americano o che da esso hanno subito l’influenza rendono questo compito assai arduo. Delle proprietà che hanno da sempre distinto il jazz ne è rimasta soprattutto una, l’improvvisazione. Infatti le tante contaminazioni rendono difficile stabilire cosa sia jazz e cosa no, perché quanto accaduto in questi ultimi anni ha determinato una scis-

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sione fra jazz europeo e jazz americano. Il primo ha sviluppato maggiore cura per la melodia, prendendo spunto dai patrimoni musicali dei singoli paesi; il secondo ha mantenuto e valorizzato il concetto di ritmo, mescolando al suo interno rap, pop, funk e musica black, tout court. Due dischi pubblicati recentemente, oltre a quelli di Pieranunzi e Sellani, di cui si è già parlato, rappresentano il nuovo concetto di jazz melodico. Il primo Lirico Incanto è dell’armonicista Max De Aloe, il secondo Canto di ebano è del clarinettista Gabriele Mirabassi. Mentre De Aloe, le cui doti di solista di armonica a bocca sono note ormai da tempo, si rivolge a un repertorio proveniente dall’opera lirica italiana, Mirabassi esegue brani di sua composizione con l’eccezione di alcuni motivi di Chico Buarque de Hollanda, Edu Lobo e Waldyr Azevedo le cui canzoni contribuirono così tanto al successo di Carmen Miranda. Il lavoro di Max De Aloe come detto si rivolge alle immortali arie dell’opera italiana, Vesti la giubba da Pagliacci, Lucean le stelle da Tosca, Coro a bocca chiusa da Madame Butterfly,

Mi chiamano Mimì da Boheme, Preludio dal Macbeth, che già in passato furono oggetto di ispirazioni per molti compositori di canzoni. De Aloe in queste recenti incisioni riesce a dare una nuova affascinante veste a melodie mai prima d’ora eseguite con uno strumento così particolare come l’armonica a bocca, che pertanto nel jazz ha vantato e vanta alcuni eccellenti solisti, Larry Adler, Toots Thielemans e Bruno De Filippi. Mirabassi, clarinettista accademico, da anni legato al jazz melodico e alla musica brasiliana anche per la sua collaborazione con Guinga, musicista e compositore, in questa sua ultima produzione rende un omaggio, come ha dichiarato, «al clarinetto, al suo legno d’ebano e agli artigiani italiani che l’hanno costruito...». L’altro omaggio è alla musica brasiliana che anche grazie al clarinettista Paolo Sergio Santos e a Guinga è divenuta una delle componenti importanti della sua musica. Max de Aloe Quartet, Lirico Incanto, Abeat Records, (distribuzione Ird); Gabriele Mirabassi, Canto di ebano, Egea

Gabriele Mirabassi


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narrativa

libri

L’esordio della Cibrario?

Literarily correct di Maria Pia Ammirati on possiamo cominciare la nostra recensione senza una premessa generale, orpello fastidioso e al limite dell’inutile ma chiarificatore di taluni principi. Oggi parliamo del libro vincitore del Campiello, di un esordio narrativo, di un libro scritto da una scrittrice. Facciamo così riferimento a un romanzo che rispetta, per così dire, le caratteristiche più in voga della narrativa italiana. Romanzi per lo più di mano femminile (abbiamo da poco parlato del romanzo postumo della Fallaci); che hanno quella densità tipica del primo libro che non aspetta, com’era d’uso, la seconda prova per far capire la consistenza del nuovo scrittore (pensiamo al brillante esordio del vincitore dello Strega); che strizza l’occhio a una tecnica, quella del romanzo d’appendice, vituperata nei decenni passati e d’improvviso riesplosa. Rossovermiglio, di Benedetta Cibrario, racchiude un po’ tutte queste cose. Un libro di un’esordiente che riattiva al suo interno tutti i mezzi e gli espedienti per rendere la scrittura appetibile e scorrevole, e che genera storie e sorprese, alcune al limite del verosimile, come nella migliore tradizione del feuilleton. Sono particolari non secondari che intercettano un gusto della lettura che va sul sicuro, e verso libri dove la fluidità, la leggerezza e la storia la fanno da padroni. Andiamo a verificare sul testo della Cibrario: la voce narrante è quella di una donna novantenne che, dal suo ritiro nella campagna toscana, ricorda la giovinezza e le tappe fondamentali della vita di una ragazza aristocratica - quell’aristocrazia torinese degli inizi del secolo - che per problemi economici della famiglia e per etichetta, si sposa a diciannove anni con matrimonio combinato. L’aristocrazia piemonte-

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se, come tutta l’aristocrazia italiana, si sbriciola a partire dai possedimenti, ma restano i fantasmi delle forme e delle apparenze: «Le apparenze, all’epoca in cui nacqui io… c’erano tutte: le case, in città e in campagna, traboccanti mobili e dipinti… e i gioielli, il prestigio sociale, le cariche onorifiche… eppure dietro non c’era più nulla, la terra non rendeva … le tasse bisognava pagarle… i palazzi mantenerli».

La protagonista si propone come una donna sola, giovane e inesperta, gettata in un mondo caotico incastrato tra le due guerre. Il matrimonio di convenienza è una fuga in avanti che ha risvolti dolorosi e privati, con alla base un’incomprensione tra i giovani sposi che non riesce a generare un linguaggio comune. La bella vita, le feste, i viaggi a Parigi, le lunghe noiose soste in campagna, tutto cela un altro mondo: l’incontro con un uomo che diventerà l’amante e l’unico amore di una vita, la scoperta di una seconda vita del marito, un divorzio che precorre i tempi; e ancora la lunga sequenza delle morti familiari, da quella lacerante del giovane fratello fino alla silenziosa uscita di scena della vecchia madre. Le sorprese non finiscono qui, anche la tranquilla Toscana, il buon ritiro, nasconde insidie: proprio nelle ultime pagine del romanzo scopriamo l’esistenza di un figlio illegittimo dato in adozione ai fattori della proprietà, e le lettere del marito che scoprono un amore mai manifestato. Ecco tutto, il romanzo, con la sua lingua pulita, è zeppo di eventi e sorprese, qualcuna dal sapore dolciastro, mentre altre, come quella finale, contengono una speciale forzatura che dà un senso di vertigine e di insoddisfazione. Benedetta Cibrario, Rossovermiglio, Feltrinelli, 213 pagine, 15,00 euro

riletture

Le “lezioni non scritte” di Platone

di Giancristiano Desiderio l libro di Marie-Dominique Richard, L’insegnamento orale di Platone, edito nella bella collana Bompiani «Il Pensiero Occidentale», si basa su un principio: la rilettura. Cosa bisogna rileggere? La raccolta delle testimonianze antiche sulle «dottrine non scritte» di Platone. Perché bisogna rileggere le antiche testimonianze sull’insegnamento orale, ossia sulla filosofia, di Platone? Perché ormai si è capito che la filosofia del grande ateniese non è tutta nei Dialoghi e che, anzi, i Dialoghi, pur nel loro splendore e nella loro grande importanza, non sono autarchici e, invece, rimandano ad altro: il dialogo scritto rimanda al dialogo vivente. Sulla base di questo nuovo paradigma

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tutta la filosofia platonica acquista una nuova luce e un nuovo senso. Non a caso Giovanni Reale dialogando con Gadamer avanzò l’ipotesi che la filosofia di Platone sia l’anticipazione dell’ermeneutica e Gadamer, definito «il Platone del XX secolo», si disse d’accordo con l’interpretazione. Già Nietzsche, del resto, aveva detto che i Dialoghi platonici presuppongono l’Accademia e all’insegnamento orale che lì avveniva rimandano. Ora, proprio le testimonianze antiche, quelle della tradizione aristotelica e quelle dell’Accademia, riacquistano una nuova freschezza e ci permettono di capire meglio la filosofia di Platone, la sua opera e le sue intenzioni. I riferimenti che queste testimonianze antiche fanno alle «lezioni non scritte» di Platone sono espliciti e non più equivo-

cabili. Ma la cosa più importante che emerge da questa «rilettura» è un’altra. Questa: qui si cambia il volto a tutta la filosofia antica. Il lettore moderno o l’amante moderno della filosofia ritiene che la filosofia sia una teoria su qualcosa. Ma la filosofia antica non è una elaborazione concettuale perché è prima di tutto «vita filosofica». Le opera dei filosofi antichi - e tra queste anche quelle di Platone hanno un valore protrettico e parenetico ossia di esortazione e di incoraggiamento a intraprendere la «vita filosofica». Marie-Dominique Richiard è allieva di Pierre Hadot che di questa interpretazione della filosofia antica è uno dei principale filologi e filosofi. Facciamo un esempio. In una testimonianza antica, ancora vi-

cina all’epoca di Platone, la Vita di Platone redatta da Dicearco, discepolo di Aristotele, si legge: «Nel comporre i suoi dialoghi, Platone ha esortato una quantità di gente a filosofare. Grazie all’influenza della sua attività letteraria, Platone ha incoraggiato mediante i suoi libri molte persone assenti a non tener conto personalmente dell’opinione dei chiacchieroni (probabilmente i Sofisti)». Quindi, esortazione e incoraggiamento, questo il significato primo e più autentico dei Dialoghi. Chi leggeva i Dialoghi sentiva dentro di sé accendersi il desiderio - eros - di entrare nella scuola di Platone e coltivare insieme con gli altri «amici» la vita filosofica. La verità, semmai esista, è da scriversi non nei rotoli di carta, ma nell’anima attraverso il dialogo vivente.


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FILOSOFIA

L’essere, il bosco e il coleottero di Renato Cristin a pubblicazione dell’epistolario fra Heidegger e Jünger da parte dell’editore Klett-Cotta è un evento - nonostante i saggi Oltre la linea (Jünger) e La questione dell’essere (Heidegger) siano già stati editi - di portata europea, un’occasione per approfondire il pensiero di due grandi della filosofia e della cultura del Novecento e vedere i risvolti personali di un’amicizia e di una vicinanza di pensiero che attraversa gli snodi cruciali della nostra epoca. I due assunsero posizioni analoghe vivendo situazioni differenti, tanto che iniziarono a scriversi solo nel 1949. Ma non furono lettere di mera cortesia, bensì riflessioni libere da costrizioni formali, come le osservazioni heideggeriane del gennaio 1956 sulla concezione del tempo di Rivarol, sul quale Jünger stava pubblicando una monografia. Quasi coetanei, fecero l’esperienza del Ventesimo secolo traendo una medesima conclusione: la curva ascendente della tecnica corrisponde a una curva declinante sia della natura sia dello spirito, e solo un ritorno al fondamento e all’originario può salvare l’umanità dalla distruzione. Apocalittico quanto si vuole, questo giudizio è stato per un secolo il principale canone ermeneutico della modernità e resta ancor oggi inaggirabile. Entrambi furono coinvolti e, sia pure in modi diversi, travolti dal nazionalsocialismo. Nel 1933 Heidegger assume il rettorato dell’Università di Freiburg ma pochi mesi dopo si dimette, per netto rifiuto di quell’ideologia. Jünger era considerato vicino al nazismo perché molti gerarchi, Hitler e Goebbels per primi, ne apprezzarono le opere (soprattutto Nelle tempeste d’acciaio) e il valore durante la prima guerra mondiale, ma egli non volle mai avere contatti con il movimento. Un aneddoto racconta che nel 1926 Hess annunciò a Jünger una visita di Hitler, ma Jünger non trovò il tempo per riceverlo, e molti anni dopo disse: «Meno male, immaginatevi cosa sarebbe successo se fosse circolata una mia foto in cui magari

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Hitler mi mette la mano sulla spalla». Li accomuna pure la critica della tecnica come potere autonomo; l’idea che la conoscenza sia questione di linguaggio e non di logica, di immagini e non di teoremi, di evocazioni e non di definizioni; l’elitarismo e la concezione della libertà come valore assoluto non subordinabile a nessuno scopo eterogeneo; la distanza da qualsiasi etica intesa come mera assiologia e la priorità che entrambi assegnano all’ontologia rispetto all’etica. Centrale nel loro carteggio è la questione del nichilismo, che, dice Heidegger, bisogna guardare in faccia, «lasciarsi coinvolgere in un confronto con la sua essenza», perché questo «è il primo passo mediante il quale lasciamo il nichilismo alle nostre spalle». Heidegger si accontenta «di presumere che il solo modo in cui potremmo meditare sull’essenza del nichilismo sia quello di imboccare innanzitutto la via che conduce a una localizzazione dell’essenza dell’essere. Solo per questa via è possibile localizzare la questione del niente». Jünger vuole meditare sulla genesi del nichilismo per poterne oltrepassare «la linea», riconoscendo che «il tramonto dei valori corrisponde all’incapacità di produrre, o anche solo di concepire tipi superiori e sfocia nel pessimismo. Questo si trasforma in nichilismo quando l’ordine gerarchico viene rigettato». Ma ciò che li accomuna e che è più forte di tutte le differenze è il loro radicamento nella terra, un vincolo che per Heidegger è localizzato in modo preciso, legato cioè alla sua terra e alle sue radici, per Jünger è più sfumato, legato alla terra in generale. Entrambi scelgono di vivere in campagna, a meno di cinquanta chilometri l’uno dall’altro: Heidegger a Todtnauberg (Foresta Nera sudoccidentale), Jünger a Wilflingen (colline della Svevia sudorientale). A Totdnauberg, Heidegger vive in una piccola baita di montagna (metà dell’anno la trascorreva nella sua casa di Freiburg) e Jünger abita nella grande foresteria del castello di Wilflingen

Martin Heidegger a passeggio nella Foresta Nera (di proprietà della famiglia von Fürstenberg). Personalità diverse tuttavia unite da una medesima ispirazione: cercare di comprendere l’essere ponendosi in ascolto dell’appello che esso ci rivolge attraverso i suoi elementi più originari. Entrambi amano gli aspetti più terrestri del mondo - Jünger i coleotteri, Heidegger il bosco - e in entrambi questa predilezione è l’indizio della loro metafisica: per Heidegger l’essere si lascia intravedere nella radura della foresta, per Jünger lo si coglie nella dura ed essenziale corazza dello scarabeo. Martin Heidegger - Ernst Jünger, Briefwechsel [Epistolario], Klett-Cotta Verlag, 317 pagine, 29,50 euro

Con Eliodoro sulle tracce di Santa Lucia i Lucia di Siracusa, dichiarata poi santa, ha scritto Eliodoro Siculo. Una storia improntata sul fascino della morte, sull’ostinazione, sulla vendetta e sulla rivelazione folgorante di una fede che di lì a poco avrebbe dilagato. Siamo ai tempi di Diocleziano: mai l’impero romano è stato più potente, sia pure sul crinale della decadenza. Lucia appartiene a una ricca famiglia, il padre Demetrius la odia fin dalla nascita e farà in modo che il tribunale decreti poi la sua morte al rogo. Lucia, con la madre agonizzante, inizia il suo viaggio dietro la spinta di un so-

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gno.Va a Catania, sulla tomba di Agata. La madre guarisce, la giovane «che ha gli occhi di gatta» si converte al cristianesimo e fa in modo, con un inganno concepito in stato di deliquio, che il promesso sposo Marcus scivoli nella pazzia e muoia. La storica e scrittrice còrsa Marie Ferranti ritrae il tempo delle persecuzioni dei cristiani e va sulla scia della cronaca di Eliodoro Siculo. Che è critico verso l’intera vicenda, fatta di tradimenti, di smisurati orgogli, di crudeltà, di violenze. E di Lucia pone

Il lavoro nobilita? Alfred Richard Orage, socialista fabiano inglese, una delle personalità letterarie più originali nell’Inghilterra del primo Novecento, aveva forti dubbi in merito a questo slogan. Tanto che scrisse un lungo discorso che trasmise dai microfoni della Bbc sul credito sociale e sulle virtù dell’ozio. Ora Greco editori lo pubblica a cura di Luca Gallesi col titolo Il lavoro debilita l’uomo. Scritti e discorsi a favore del tempo libero (87 pagine, 9,00 euro) La nostra società, sostiene Orage, è schiava di un falso mito, quello del lavoro, che in realtà è una maledizione facilmente neutralizzabile dai progressi della tecnica, se solo l’uomo lo volesse davvero. E se non fosse ipnotizzato dall’illusione che il denaro sia un bene reale e che per ottenerlo si debba per forza passare dal giogo delle banche. Il fatto che la fisica

STORIA

di Pier Mario Fasanotti

altre letture

in risalto il desiderio, così sensuale da apparire poco cristiano, di essere ricordata come martire. Certamente, a leggere la ricostruita cronaca, in primo piano c’è la voglia di imitare il sacrificio del Cristo molto più che l’adesione all’«umiltà» del Dio di Nazareth. Negli occhi di Lucia lo storico vede lo stesso segno di crudeltà di suo padre. La giovane sarà arrestata a causa della sua conversione, gettata in una cella e poi in un lupanare, dove però incontrerà rispetto e paura

a tal punto da diventare intoccabile. Lo stesso storico, nel riferire la fama di Lucia, ammette che «in Siracusa non si può più pronunciare il suo nome senza che qualcuno non faccia della vicenda un racconto diverso». Un’immagine rimane indelebile, quella della sua morte: il fuoco che raggiunge la sua tunica bianca, i suoi capelli, l’attimo di silenzio che precede le urla della folla, poi la tristezza spaventosa che calò su tutti «e quel tremendo odore, che aleggiò a lungo nell’aria». Marie Ferranti, Lucia di Siracusa, Il Corbaccio, 113 pagine, 13,00 euro

quantistica abbia mandato in frantumi quella newtoniana tradizionale ha aperto all’immaginazione umana frontiere inaspettate. A Gregg Braden, figura intermedia tra lo scienziato e il predicatore new age ha fatto venire in mente di scrivere La matrix divina, Macro edizioni editore (284 pagine, 18,00 euro). La tesi del libro è fantascientifica: Braden sostiene che l’uomo non è limitato dalle leggi della fisica né della biologia. Che il suo pensiero è creativo, può curare, modificare la realtà, che il dna della vita è un codice che può essere trasformato. «L’universo funziona come uno smisurato ologramma cosmico. In un ologramma ciascuna parte di un oggetto contiene qualunque oggetto nella sua totalità ma su scala minore». Un ologramma in cui la mente è inserita e che può dalla mente umana essere modificato.

Il termine impero,

che accompagna la storia d’Europa sin dal suo definirsi in epoca romana presenta oggi una nuova vitalità. La geopolitica, il dibattito intorno alla costituzione di insiemi politici sovranazionali sembrano contribuire a riportare la dimensione imperiale al centro dell’attualità. Imperia. Esperienze imperiali nella storia d’Europa (Il Cerchio, 174 pagine, 16,00 euro) è un saggio collettaneo - con interventi, tra gli altri, di Franco Cardini, Luigi Copertino, Claudio Finzi, Aldo Ferrari, Paolo Giulisano, Stefano Piacenti, Domenico Losurdo - che intende fare il punto su un argomento tanto controverso quanto di grande complessità e, paradossalmente, di straordinaria attualità.


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tendenze

DOPO LA FINE DI SEMIOTICA, STRUTTURALISMO E POSTMODERNO, COSÌ UNA PARATA DI IRREGOLARI, NON PIÙ COINVOLTI CON LE VOLONTÀ DI PARTITO, ADERISCE ALLA REALTÀ DI UN AUTORE E DI UN’OPERA. DIMOSTRANDO CHE LA LETTERATURA È TUTT’ALTRO CHE MORTA…

Dove militano i critici? di Nicola Fano

ilitante è una brutta parola. Sa di volenteroso attivista di partito che distribuisce volantini in strada (specialmente nei gazebo, ultimamente); sa di compilatore di manifesti di propaganda politica che agita le folle (ci sono ancora le folle?) per attrarle alle proprie idee; sa di infaticabile organizzatore di convegni e incontri nei quali si dibatte la linea politica di questa o quella formazione. Per chi ha una certa età, magari, sa di quei giovani che andavano la domenica mattina di porta in porta a diffondere il quotidiano l’Unità. Insomma, con gli occhi di oggi, «militante» è una parola che rischia di riferirsi a qualcuno che ha tempo da perdere inseguendo più un interesse proprio che una chimera. Nel senso che il termine «militante» non ha buona stampa; come la politica nel suo complesso, cui spesso è associato. Dunque, darà fastidio, qui, sostenere che esiste una nuova «critica militante», ma pure in questo aggettivo c’è la peculiarità di un lavoro costante e certosino di interpretazione della realtà nelle pieghe delle mode e delle convenzioni. Una scuola-nonscuola che conta allievi e maestri, sia pure non strutturati come tali, a differenza di quel che succedeva in passato. Anzi, proprio nel distacco dal passato c’è la specificità della nuova critica militante. Lo vedremo.

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pre e comunque alla realtà sociale nel quale si muove adeguando i propri strumenti di lettura non solo alle teorie della letteratura che egli segue, ma alla stessa sensibilità di coloro ai quali si rivolge in qualità di mediatore. All’inseguimento di questa aderenza alla realtà prima ancora che alla letteratura, il libro di La Porta e Leonelli si esercita a tracciare le linee della critica letteraria in un ambito storico molto preciso: gli anni Ottanta e Novanta del Novecento (più un’appendice sull’oggi e sulle prospettive di domani): Leonelli analizza il decennio Ottanta e La Porta il successivo, ma il volume conserva una sua certa, lodevole unità di intenti e stile. Altri due libri, poi, testimoniano il fenomeno da un altro versante: quello dell’esercizio diretto della critica militante. Si tratta di Casi critici, nel quale Alfonso Berardinelli riunisce alcuni suoi saggi sulla letteratura, le mode e la società (lo pubblica Quodlibet) e di Al di sotto della mischia di Piergiorgio Bellocchio (stampato da Scheiwiller). Come si vede, si tratta di una parata di irregolari, maestri di critica adattata alla realtà sociale e politica, sempre sospesa fra scrittura e mondo. E questa è, intanto, una prima chiave di lettura per definire quella che ho chiamato critica militante.

In un “Dizionario”, Filippo La Porta e Giuseppe Leonelli tracciano le linee della critica letteraria negli anni Ottanta e Novanta scollegando la militanza dalle vecchie ideologie e restituendole una sua credibilità La definizione deriva da un saggio firmato da due studiosi di letteratura d’oggi - Filippo La Porta e Giuseppe Leonelli - intitolato appunto Dizionario della critica militante e pubblicato da Bompiani.Tanto per incominciare, bisogna intendersi - subito subito - su chi sia il «critico militante», posto che oggi non può più essere semplicemente quello coinvolto con realtà di partito (come pure si intendeva un tempo) né solo quello che esercita la sua professione esclusivamente sui giornali quotidiani recensendo a caldo i libri offerti alla lettura generale dal mercato editoriale (e questa pure è una spiegazione che del termine «critico militante» si dava fino a un paio di decenni fa). La Porta e Leonelli girano intorno alla definizione e non la prendono di petto mai del tutto, ma sembrano propendere per una delimitazione molto, molto ampia: militante è quel critico che aderisce sem-

Ma serve ancora qualche parola, a proposito del termine da cui siamo partiti. Francesco Leonelli nel suo «dizionario» ci dice come esso abbia perso la sua peculiarità e come si adatti più al punto di vista che non all’esercizio critico: «Oggi siamo sempre più inclini a pensare che non sia tanto l’oggetto, ma la funzione a esaltare la militanza dell’atto critico. Si può restare chiusi nei laboratori anche se ci si esercita sul più recente best seller o, al contrario, diventare militanti quando si scopre, magari attraverso lo studio del passato, una particolare prospettiva sul mondo in cui viviamo. Senza dire che esiste una militanza pedagogica svolta giorno per giorno nell’insegnamento». Ecco un buon punto di partenza per mettere in rapporto i tempi e la militanza. Mia figlia frequenta un noto ginnasio romano, culturalmente molto impegnato e severo: l’insegnante di italia-

no ha imposto alla sua classe, come libro di lettura, un simpatico romanzo di Massimo Valerio Manfredi. Poco più di trent’anni fa, in un altro liceo romano, come primo libro di lettura mi fu assegnato Se questo è un uomo di Primo Levi. Naturalmente, qui nessuna notazione qualitativa si vuole fare: ma certo il mondo è cambiato molto se dalla realtà testimoniata del lager si è passati nel giro di una sola generazione alla fiction sull’antica Grecia. Dunque: se scegliere i libri di lettura per gli studenti è il primo concreto atto di militanza della critica letteraria, questo atto risente fortemente dei tempi, delle convenzioni, delle abitudini non solo degli insegnanti, ma soprattutto degli studenti, dei loro brevissimi tempi di concentrazione e della loro scarsa propensione alla complessità. E non voglio dire che la «complessità» sia il toccasana dell’intelligenza e dell’impegno, ma certo è qualcosa che ha molto da spartire con lo spirito critico. Cioè quanto si dovrebbe o si vorrebbe indurre a esercitare, anche tramite una «sana» militanza. Ed è con questa realtà - tanto per incominciare - che il critico d’oggi deve misurarsi: quella in virtù della quale per quanto svelto, per quanto leggero, per quanto brillante un romanzo non avrà mai i ritmi di uno spot televisivo o di un videogame; anche se non mancano scritti che a quei modelli puntano. D’altro canto chi leggerà il libro di La Porta e Leonelli avrà netta, fin da subito, la sensazione della distanza che ci separa dalla letteratura, dalla critica e dalla società tutta di soli trent’anni fa. Per esempio, colpisce molto la meritoria rapidità con la quale i due storici della critica qui mettono nel dimenticatoio la stagione dello strutturalismo e della semiotica, che pure fino a tutti gli anni Ottanta sembravano ancora gli strumenti più sapidi e trendy per entrare nel mistero della letteratura. Per dire: Cesare Segre viene catalogato con affetto sincero come l’esponente di punta di un simpatico abbaglio che nel giro di pochi anni ha perso del tutto la sua aderenza alla realtà (vedi liberal di sabato 20 settembre, ndr). Non che io non sia d’accordo con l’una e l’altra considerazione,


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In alto da sinistra, in senso orario: Roland Barthes, Filippo La Porta, Alfonso Berardinelli, Eraldo Affinati, Alberto Asor Rosa, Geno Pampaloni, Cesare Garboli e Italo Calvino

la libertà inventiva, la coerenza. E al tempo stesso mette il lettore nella condizione di giudicare egli stesso se l’interpretazione è convincente o arbitrariamente personale». Il secondo, invece, troneggia sui Novanta: «Per sua ammissione Garboli non riesce a inventare una storia e dei personaggi dal nulla… Non ci riesce perché la realtà, alla fine, gli appare più misteriosa, resistente e imprevedibile di tutte le storie che potremmo inventare». Il discrimine, insomma, è l’aderenza alla realtà, il rispetto stesso della realtà quale si manifesta in un autore o in un’opera. Non è un caso - per esempio - che uno dei più bei saggi sul teatro scritti negli ultimi decenni sia la suadente introduzione firmata da Garboli a La famosa attrice, autobiografia anonima compilata da una donna francese del Seicento: perché in quelle pagine Garboli dà conto soprattutto di come il teatro - quello «comico» in modo particolare - sia la quintessenza dell’arte che si fa realtà. Con tutte le sue meraviglie e le sue miserie: l’autobiografia in questione fu commissionata per denigrare l’immagine pubblica di Molière dipingendolo come un immorale donnaiolo. Ecco un’altra indicazione importante: il critico «militante» della fine del Novecento è quello che mette il suo sapere a disposizione del mercato editoriale sotto forma di consulenze editoriali e di prefazioni che indirizzano direttamente la lettura, senza la mediazione della «recensione». In questo senso, il nostro attuale panorama critico è zeppo di studiosi direttamente «compromessi» con le ragioni del mercato: basti pensare che uno fra i critici più significativi di questo scorcio di anni - Silvio Perrella - ha al suo attivo un solo volume organico (significativamente

Tale trasformazione è ben testimoniata nel saggio di La Porta e Leonelli, giacché sono molti i critici analizzati in questa chiave, sia pure accanto ai tanti che invece dedicano i loro massimi sforzi alla didattica universitaria. Quello che colpisce, comunque, da questa trattazione organica del tema è che i ruoli si sono mescolati (mercato editoriale e università), mentre appaiono molto fuori dal tempo e dalla contemporaneità certi vecchi mostri sacri (un solo esempio: Alberto Asor Rosa) i quali concepiscono la loro attività critica quasi esclusivamente nel chiuso dei loro possenti scranni universitari o al limite nel ristretto ambito dell’editoria rivolta agli specialisti. È il problema, annoso in letteratura, della divulgazione. Che non vuol dire dividere il mondo della scrittura in alto e basso, in grande letteratura e letteratura popolare. Torniamo a Cesare Garboli per affrontare un altro nodo spinoso, quello della secondarietà del critico rispetto all’opera letteraria. Gli strutturalisti, in fondo, cercarono di superare questo luogo comune; salvo che lo fecero nel modo sbagliato, ossia costruendo un mondo parallelo nel quale pescare le proprie presunte verità: il mondo dei segni, del contenitore. Con l’aggravante che essi vantavano il proprio metodo come scientifico. Fu Roland Barthes, per l’esattezza, a lamentare che se abbiamo «una storia della letteratura non abbiamo ancora una scienza della letteratura» e a pilotarne la supposta costruzione. Proprio quell’idea di «scienza della letteratura» appare oggi lontana sia dalla quotidianità critica sia dalla pratica letteraria. I due autori del Dizionario della critica militante, per esempio, riferiscono lungamente

Consigliando, introducendo e promuovendo, la nuova critica ha scelto di “sporcarsi le mani” con il mercato. In pratica, ha scelto di sottoporre le proprie scelte direttamente ai lettori e di mettersi in gioco in prima persona anzi; ma certo dà una buffa euforia veder testimoniata senza rovelli la sfioritura di una moda che pure ha occupato molte nostre discussioni giovanili. La Porta sancisce: «L’essenza della letteratura non consiste in una funzione del linguaggio, come voleva Jakobson, ma nella relazione tra l’autore e un pubblico». Su un altro versante, Alfonso Berardinelli nel suo libro dice qualcosa di altrettanto definitivo su un’altra moda recente: il postmoderno. «Si tratta di una categoria quanto mai soccorrevole e ospitale: accetta tutto, non respinge nulla. Se dico che un film, un libro, uno scrittore, un musicista, uno scienziato, uno stilista sono postmoderni suscito immediatamente un certo interesse, come se scoprissi e annunciassi una verità sofisticata. E nello stesso tempo non rischierò di essere facilmente contraddetto». Come dire: nulla di più generico dell’etichetta «postmoderno» che fa tendenza ma non spiega alcunché. E così, per rovescio, aggiungiamo nuova chiarezza a che cos’è «militante»: ciò che non si ferma alla superficie, che bandisce la genericità. E allora: lo strutturalismo e la semiotica sono morti e il postmoderno non sta troppo bene di salute. Benissimo: ambrosia per il nostro palato. Ma che cosa è successo dopo? Quali strumenti hanno preso il posto di quelli dei padri (meglio sarebbe dire degli zii) che predicavano come il contenitore fosse il contenuto? La Porta e Leonelli pongono l’accento - giustamente - sul peso via via preponderante assunto da quella che con un certo malcelato sprezzo anni fa veniva definita critica «espressionista». E in questo, due nomi giganteggiano, uno un po’ a sorpresa e uno consolidato: Geno Pampaloni e Cesare Garboli. Il primo - appunto a sorpresa - segna di sé gli anni Ottanta con la sua militanza irregolare (Pampaloni è sempre stato uno splendido recensore da giornale quotidiano) teorizzata in una citazione riportata da Leonelli: «Una recensione si valuta, a mio parere, dalla scelta, dal florilegio, dal prelievo delle citazioni, attraverso le quali il cronista dà conto della sua lettura: l’itinerario del discorso dello scrittore, la qualità stilistica,

dedicato a Italo Calvino, padre della militanza editoriale) e dozzine di riscoperte e prefazioni (Parise, Bilenchi, La Capria). O come dimenticare che le pagine migliori su Mario Rigoni Stern (uno dei nostri massimi narratori recentemente scomparso) sono state scritte da un altro irregolare critico-romanziere come Eraldo Affinati nella sua splendida introduzione al Meridiano dedicato appunto a Rigoni Stern? A voler leggere fra le righe, poi, ci sarebbe anche un terzo nome che ricorre spesso, benché non gli sia dedicato un paragrafo specifico, come capita a molti altri. Si tratta di Alberto Arbasino, svolazzante espressionista di questi decenni il quale, sancita l’assenza di memoria storia passato esperienza conoscenze dignità e realtà, sta ancora lì a indicare come noi si sia prossimi a essere anche senza speranza. Né più vale fare una gita a Chiasso per ritrovare aria e sogni, pare. Tuttavia, i personalissimi personalismi di Arbasino restano sullo sfondo, giacché lo studio compiuto da La Porta e Leonelli una speranza vuole pur darsela: non è morta la letteratura, ci dicono; anche perché se fosse, che senso avrebbe esercitare la critica? La risposta la troviamo anche nelle pagine di Berardinelli e Bellocchio: capire e discernere, esercitare la rabbia in solitudine e puntare il dito sulle false mode come sulle abitudini inutili. Trent’anni fa andava di moda lo slogan «sporcarsi le mani», dal titolo del celebre testo teatrale di Jean Paul Sartre Le mani sporche: s’intendeva che l’intellettuale doveva infilare sensibilità, intelligenza, creatività a penna nella realtà quotidiana, nei conflitti sociali, anche impegnandosi in prima persona all’interno dei partiti o delle istituzioni. Ora si può recuperare comodamente quello slogan, ma per intendere che la nuova critica ha scelto di sporcarsi le mani con il mercato consigliando, introducendo e promuovendo. In pratica sottoponendo direttamente le proprie scelte ai lettori, in questo anche mettendosi in gioco in prima persona.

del dibattito che da anni accompagna la lettura dell’ultimo Calvino, se la sua raggiunta e conclamata leggerezza abbia tradito o meno la fertile stagione degli «Antenati». Insomma se il critico Calvino sia secondo al Calvino narratore, o viceversa. È appunto Garboli, con il suo stesso esempio, a sgomberare il campo da equivoci: il problema dell’inferiorità della critica rispetto alla letteratura è un falso problema. Si può ben dire che la poesia di Pascoli non è stata più la stessa dopo la pubblicazione di Trenta poesie famigliari di Giovanni Pascoli (nel 1990) di Garboli. Perché quel libro (di critica, sì, ma anche di ricostruzione narrativa del garbuglio biografico del poeta) ha aperto uno squarcio inedito e umanissmo nella tortuosa creatività poetica di Pascoli, fino a farlo scendere fra gli umani dal piedistallo scomodo e noioso sul quale lo aveva posto la scuola pubblica italiana. Come si vede, il problema non è essere primi o secondi, ma avere idee e penna da adattare alla realtà. Sia essa sociale (come dimenticare le parole di Garboli sugli Anni di piombo?) o letteraria. Ed è su questa strada che oggi si muovono i nostri critici più significativi (diciamo più creativi), primo fra tutti proprio Alfonso Berardinelli che alla magia e all’anteveggenza garboliana aggiunge una schietta propensione all’eresia, al piacere di stare fuori dagli schemi proprio per raccontare la vacuità, spesso, degli schemi. Delle scienze delle letterature, insomma. Guarda caso, Berardinelli è uno dei pochissimi grandi critici italiani che abbiano deliberatamente abbandonato la carriera universitaria per «sporcarsi le mani» con una realtà che - a suo modo di vedere - non trovava specchi sufficienti negli atenei. Ecco che il panorama della critica italiana d’oggi si fa più chiaro: impegnato nella realtà e nel mercato, compromesso (nel senso migliore) con l’editoria e compagno di strada degli scrittori che legge, studia, introduce. Vuol dire questo essere militanti? Forse sì; forse proprio la letteratura può recuperare un po’ di credibilità a questa parola che sembrava destinata agli armadi delle vecchie ideologie.


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tv

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Dirt, storie (senza compassione) dalla Gomorra hollywoodiana di Pier Mario Fasanotti i può vivere anche così: con la smania del successo, la droga, il sesso come sonnifero, il ricatto come strumento di lavoro. Questi sono gli elementi di una serie televisiva intitolata Dirt (martedì dopo le 23 su La 7). Il titolo è anche la testata scandalistica diretta da Lucy, una quasi quarantenne, attraente, bruna, volitiva, cinica. Dirt in inglese significa sporcizia, o cosa dozzinale e volgare. Siamo a Los Angeles, la scritta «Hollywood» incombe come una condanna e un destino, dall’alto della collina. Il settimanale prende di mira le celebrità e scatena paparazzi, informatori, giornaliste procaci che con una scollatura promettente dovrebbero carpire qualcosa. Non il gossip, dice Lucy, «quello ci fa andare in tribunale», ma pezzi di realtà. Pezzi sporchi, ovviamente, così da dare ai lettori qualcosa da far annusare, non importa l’odore morale. Riunione di redazione: Lucy si comporta come se fosse sul set di Il diavolo veste Prada. È vampiresca, provoca elogi a se stessa, intercetta messaggini telefonici e licenzia in tronco una collaboratrice. Si fa così, perbacco, per essere donna in carriera. La testata che dirige è il destriero pronto a una guerra infinita. Le vittime? Chi se ne frega. Solo nel finale-puntata la sua bocca

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web

WORDIA, LA WIKIPEDIA AUDIOVISIVA

sensuale si piega non alla compassione ma al dubbio, che è già qualcosa. Tra tanti stereotipi c’è un paparazzo di punta, che veste come un barbone e ha un gatto malato di cancro. Lui spia, scatta foto. La sua vita privata è un disastro, anche perché soffre di «schizofrenia controllata», sente voci e suoni quando non ingurgita almeno cinque pasticche. C’è poi il bell’attore sfortunato (pure tradito dalla fidanzata) che con una soffiata al giornale riesce a mettersi in luce e a ricevere la tanto sospirata offerta di lavoro. Ma a caro prezzo, tra incubi che il regista trasforma in effetti che di speciale hanno poco: tutto già visto, con gli attimi di tragedia o di interiorità virati sul bianco e nero. Dirt è la storia seriale di una Gomorra hollywoodiana, dove il problema comune è «come superare la notte», dopo l’overdose di lavoro all’inseguimento di un applauso. Un’attrice scopre di essere rimasta incinta dopo un solo incontro con un uomo che lei stessa definisce «una merda». L’amica: ma puoi abortire…. E lei: no, sono profondamente cattolica. C’è da crederle o la fede, in tv, è un freno a mano

games

THE POLITICAL MACHINE 2008

che funziona solo all’ultimo istante? E nemmeno quello, visto che muore per overdose (cocaina) nella classica vasca da bagno piena di schiuma. Dirt, sia pure con un finale (per ora) un po’ purgatoriale, descrive un niente fatto di sesso, di piste da tirare col naso, di ricatti. Forse senza saperlo porta all’esasperazione quanto diceva un filosofo: «L’identità sta nella relazione con gli altri». Tradotta sul piccolo schermo: «Se dicono che vai forte vuol dire che vai forte, il resto non conta». Il paparazzo cammina col gatto morente in braccio, dal cielo piove sangue. Robetta di ispirazione biblica (ricordate le rane?) già usata. E meglio.

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“LOST”, LA QUARTA STAGIONE

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n epoca di social network e multimedialità dilagante, la creatività del Web ha sfornato stavolta una iniziativa al passo con lo sviluppo dell’accesso telematico, ormai sempre più veloce per la maggior parte degli utenti. Wikipedia, la celebre enciclopedia user generated content, cioè creata dagli stessi utenti del web, ha dunque un replicante evoluto in wordia.com. Si tratta di un

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gni quattro anni, negli Stati Uniti, è tempo di elezioni presidenziali. E puntuale arriva l’ultimo aggiornamente di The Political Machine, il videogioco di Stardock che simula il processo elettorale statunitense e lo trasforma in un appassionante gioco di strategia. Stardock ha catturato con sapienza le meccaniche reali della campagna elettorale a stelle e strisce per co-

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inalmente sta per arrivare. Il cofanetto con quarta stagione del serial televisivo Lost sbarcherà anche in Italia a ottobre. «Emmy» e «British Academy Television Award» nel 2005, «Golden Globe» nel 2006, Lost è ormai un cult anche in Italia, dove viene trasmesso (sul canale Fox del bouquet Sky) quasi in contemporanea con gli Stati Uniti. Nella quarta serie, la lotta per

Attraverso il sito, gli internauti potranno inserire nuove voci enciclopediche in versione filmata

La versione aggiornata del gioco strategico che simula il processo elettorale americano

A ottobre il cofanetto con le ultime vicende di Jack e dei superstiti dell’Oceanic Flight 815

sito internet in cui gli internauti possono inserire definizioni di voci enciclopediche in versione filmata. Il nuovo «vocabolario audiovisivo e democratico» conta già diversi contributi, che illustrano il significato di varie parole. Il sito sembra di facile consultazione ed è diviso nelle sezioni home, users e words. Per catturare l’attenzione dei curiosi, esiste anche la possibilità di visionare la «definizione del giorno». Una delle prime voci realizzate è stata bungalow e offre un’interpretazione semantica originale: «Casa a un piano. Ci vivono le nonne. Spesso con i gatti. Originariamente era una parola indiana».

struirci sopra una specie di incrocio tra Risiko e Civilization, in cui bisogna raccogliere denaro, assumere spin-doctors, conquistare l’endorsement di personaggi importanti e gruppi di pressione, sottoporsi a interviste televisive, combattere gli attivisti avversari e tanto, tanto altro. Obiettivo, naturalmente, conquistare i 270 voti elettorali necessari per arrivare alla Casa Bianca. Non aspettatevi una grafica stupefacente (si tratta di una cartina geografica degli Stati Uniti e poco più), ma la giocabilità di The Political Machine è ottima anche per chi non mastica a fondo la politica americana.

la sopravvivenza di Jack e degli altri superstiti dell’Oceanic Flight 815 continua con le trovate sempre più avvicenti escogitate dallo sceneggiatore J.J. Abrams (Felicity, Alias, What About Brian, ecc.). Invece dei flashback sulla vita precedente dei protagonisti, a cui ci avevano abituato le prime tre stagione, negli ultimi episodi si utilizza una tecnica narrativa opposta, che ci fa intuire il futuro del loro destino, svelando pian piano la mappa intricata di una vicenda sempre più surreale e complicata. Commenti audio, scene cancellate, bloopers e altri bonus completano un cofanetto imperdibile per tutti i fan della serie.


cinema Bob De Niro, Al Pacino e una Binoche MobyDICK

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trés parisienne di Anselma Dell’Olio l nuovo film di Cédric Klapisch parte da un’intuizione geniale e universale: il modo in cui cambia la propria visione del mondo dopo un evento sconvolgente, di quelli che capovolgono la vita. Parigi è un film corale che parte dalla scoperta del protagonista, ballerino di professione, di avere un cuore gravemente malato e meno chance di sopravvivere che di morire, anche con un trapianto. Il punto di vista è quello di Pierre, il sempre interessante Romain Duris (Tutti i battiti del mio cuore) scoperto da Klapisch, con il quale ha fatto sei film, tra cui L’appartamento spagnolo e Bambole russe. Pierre è un’étoile del Moulin Rouge nel fiore degli anni, e la batosta gli provoca una subitanea de-familiarizzazione del quotidiano. Kaplisch parte da questa percezione - l’inconsapevolezza dei più dell’immensa fortuna di essere «normali» - per proporre vicende e reazioni di una girandola di personaggi tipicamente parigini. L’autore parte dal presupposto che la cattiva fama di cui godono - scorbutici, altezzosi, burberi - non è ingiustificata. (Ci resterebbe ancora più simpatico se non scippasse per Parigi, senza chiosa, l’aggettivo già prenotato di «eterna».) Tipica parisienne è la bisbetica fornaia del quartiere (Karen Viard), antipatica e incontentabile con la nuova assistente appena assunta, e uno zuccherino appena si presenta un cliente. Questa e altre micro storie fanno da contorno a quella di Pierre, che attende la disponibilità di un cuore, e di sua sorella Elise (Juliette Binoche), un’assistente sociale melanconica e depressiva (altre caratteristiche parigine), madre sola con tre figli, perché i loro padri hanno abbandonato il campo. È a lei per prima che Pierre racconta la sua disgrazia, ed Elise si trasferisce con i figli a casa del fratello, brontolando sul classico disordine degli scapoli mentre mette ordine. Il regista conosce bene i complicati rapporti tra fratelli: nel film ci sono anche Roland e Philippe Verneuil (Fabrice Luchini e François Cluzet). Roland, cinico e disincantato professore di storia, racconta con freddezza a un produt-

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tore televisivo che non potrà incontrarlo per un impegno sopraggiunto. Solo dopo alcuni commenti asettici di Roland si arriva a capire che si tratta del funerale del padre. Suo fratello Philippe, invece, è un emotivo che singhiozza durante la sepoltura. Roland lo fredda: «Papà ha vissuto 96 anni; possono bastare, no?». Ma il distacco ironico di Roland si sbriciola quando è investito da una violenta scuffia per Laetitia (Mélanie Laurent), un’affascinante studentessa ventenne del suo corso. Inizia a tempestarla di sms infuocati e anonimi. Klapisch disegna con perizia e ironia la classica cotta tra un prof cinquantenne e la sua allieva, evitando le trappole del già visto. Laetitia si diverte con lui, specie in una deliziosa scena in cui Roland/Luchini (è sua la storia di contorno più approfondita del film) improvvisa uno scatenato rock,

prof superbo, vuole tagliar corto con il tipo della tv che lo insegue perché narri un programma su Parigi. Gli chiede, pro forma, quanto sarebbe pagato. Il lauto compenso previsto gli fa cambiare idea all’istante: trés parisien. Da casa sua, Pierre guarda Laetitia nel suo appartamento nello stabile accanto; Elise cerca con un escamotage di conoscerla, per presentarla al fratello, disperato perché potrebbe morire senza mai più fare l’amore. Ci riesce, ma con un’altra, una collega della sorella, in un approccio goffo ed esilarante. Lei: «Non mi sono depilata!». Pierre: «Un mendicante non può scegliere». Altre storie s’intrecciano intorno a loro, come quelle di un

È “light” la Parigi descritta da Cédric Klapisch, capace di affrontare con ironia temi pesanti come la morte e l’eros. Ma i due Attori Assoluti, in un improbabile thriller, sembrano due pensionati che giocano a guardie e ladri a tempo con la musica «della sua epoca». La ventenne, per una volta più avveduta del maschio maturo, invita via sms il prof a vederla - dall’esterno - mentre passa una serata in un bar con ragazzi della sua età, tra cui un suo filarino. Quando Roland le chiede conto di questa crudeltà, Laetitia risponde: «Volevo che vedessi la mia vita». (Di solito è la ragazza a sbattere il muso, come in L’innocenza del peccato di Claude Chabrol.) Trés amusante la scena in cui Roland, il

manipolo di venditori di frutta, verdura e pesce al mercato all’aperto, dove Elise e gli altri personaggi fanno la spesa. A volte l’amore spunta dove meno te lo aspetti. Klapisch tratta temi pesanti con un tocco lieve: un Robert Altman light. Non è affatto una diminutio: al cinema c’è posto anche per chi affronta con ironia e leggerezza temi pesanti come la morte e l’eros, senza deprimere né annoiare. Sfida senza regole, invece (in originale Righteous Kill, omicidio giustificato), il nuovo thriller-poliziesco con Robert De Niro e Al Pacino, vuole rubare il mestiere all’ispettore Callaghan di Clint Eastwood, quando era ancora un giustiziere politicamente scorretto (prima degli Oscar per opere seriose e ricattatrici come Million Dollar Baby). I due appesantiti divi si propongono come una coppia affiatata di decoratissimi detective del Dipartimento di polizia di New York, «non ancora pronti per la pensione». De Niro è Turk (Turco) e Pacino è Rooster (Gallo), soprannomi macho che nulla

fanno per farci dimenticare che il primo a 65 anni e il secondo a 68, sembrano due pensionati che giocano a guardie e ladri in un circolo per anziani. De Niro è bolso e dunque ha la faccia più liscia. Pacino è un po’più in forma ma il viso sembra un budino in liquefazione; con gli occhi rossi e lacrimosi, non pare che segua una dieta macrobiotica. Si dice che dopo una certa età, le donne debbano scegliere se salvare il culo o il viso; guardando le due anziane star ansimanti, si direbbe che i maschi devono scegliere tra le rughe e la trippa. Un serial killer sta eliminando presunti criminali, e lascia sempre un biglietto da visita sul cadavere delle vittime, con frasi rimate che descrivono le loro colpe. Si sospetta che l’assassino sia un poliziotto. È difficile entusiasmarsi per una trama carica dei più abusati cliché del genere poliziesco. In più De Niro è presentato come uno stallone instancabile che smaneggia da tarantolato la collega Karen Corelli (una sprecata Carla Gugino), una patita come lui di amplessi scorticanti. Sarebbe già difficile da bere se nel film Bob masticasse Viagra come noccioline, ma così non è. I recensori si sono comportati da schizofrenici: sdegnosi per la trama pigra e logora e pignoli con il regista che compensa il piattume con bellurie di montaggio e movimenti di macchina, per poi inginocchiarsi di fronte alle due vacche sacre, trillando sull’edificante spettacolo dei loro duetti sempre da delibare in estasi per le vette artistiche raggiunte insieme e «ancora». (Ma la bravura non è come la bellezza, che scema con l’età. Anzi.) Pare che scegliere sceneggiature decenti non sia compito di Attori Assoluti. Nemmeno il ribaltone finale salva la spenta baracca. Se non l’abbiamo sgamato prima, la sorpresa, non è tanto per la genialità della trovata, quanto perché distratti dai nostri oziosi pensieri, più affascinanti del sedicente thriller sullo schermo.


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E si levò in quel punto la TEMPESTA furiosa, prepotente; percossi dalle sue ali ci spinse lungamente nel sud. Con le antenne inclinate e con la prora, come chi se inseguito con grandi urla calpesti ancora l’ombra del nemico, china avanti la testa, la nave si rubava alla tempesta e fuggivamo sempre verso sud. Poi vennero nel cielo nebbia e neve E un freddo tanto saldo Che il ghiaccio a blocchi andava galleggiando Verde come smeraldo. La terra del ghiaccio e dei rumori sinistri dove non si scorgeva essere vivente.

Picchi, di là dal turbine nevosi mandavano un bagliore triste - non ombra d’uomo o d’animale ghiaccio, soltanto ghiaccio e il suo nitore. Il ghiaccio era dovunque, era qua, là, era tutto all’intorno; crepitava, gemeva ed ululava come, svenuti, s’ode un vano rombo. Finché un grande uccello di mare, chiamato l’Albatro, venne attraverso la nebbia nevosa, e fu accolto con grande gioia e ospitalità.

E finalmente un Albatro passò, attraverso la nebbia era venuto; come se fosse un’anima cristiana in nome del Signore gli demmo il benvenuto. Mangiò il cibo non mai prima mangiato, con lunghi giri ci ruotò sul capo. Il ghiaccio si spaccò con un boato; il timoniere ci guidò fra mezzo. Ed ecco, l’Albatro si rivela uccello di buon augurio e segue il vascello come questo ritorna verso nord fra la nebbia e i ghiacci galleggianti.

Da sud il vento si levò propizio; l’Albatro ci seguiva e ogni giorno per cibo o per diletto al richiamo dei marinai veniva. Con nebbia o nube, all’albero o alle vele venne per nove sere; le notti intere al bianco fumigare scintillava il riverbero lunare.

SAMUEL TAYLOR COLERIDGE da La ballata del Vecchio Marinaio Traduzione di Mario Luzi

poesia

Coleridge, lo stupore come redenzione di Roberto Mussapi a ballata del vecchio marinaio, di Samuel Taylor Coleridge (Ottery St. Mary, Devonshire, 1772 - Highgate, Londra, 1834), è il capolavoro della poesia romantica, un’opera in cui si fondono poesia, filosofia, mistica, fiaba e profezia. Opera di vertiginosa quanto nettissima visionarietà, scandita su una metrica che la rese subito fatale e come concepita in stato di fertile ipnosi.Vediamone la storia, perché l’invenzione di Coleridge è anche una storia straordinaria. La nave parte dal villaggio, salutata, al porto, svaniscono la chiesa poi la collina, poi la punta del faro. Salpa verso Sud con vento favorevole, finché raggiunge l’Equatore. Il sole si leva da sinistra, viene fuori dal mare, rifulge a lungo, poi si rituffa sulla destra. All’improvviso il vascello è spinto da una tempesta verso il Polo Sud, la nave, con gli alberi inclinati, fugge disperatamente. Dal cielo scendono pioggia e neve mescolata alla nebbia, una sostanza né liquida né densa. Arrivano i terrificanti icemontagne di berg, ghiaccio dai riflessi smeraldini galleggianti sull’acqua in tempesta. La terra dei rumori sinistri, dove non si scorge essere vivente, il ghiaccio ovunque, crepita, geme, urla, come in un incubo. Qui, in cielo, appare l’Albatro.Viene attraverso la nebbia nevosa, è grande e bianco, è accolto con ospitalità: «E finalmente un albatro passò,/ attraverso la nebbia era venuto,/ come se fosse un’anima cristiana/ in nome del Signore gli demmo il benvenuto». Un’anima cristiana, dal cielo scende all’equipaggio tormentato dai ghiacci, dal gelo, dai presagi di morte. Plana, mangia il cibo offerto dai marinai, i ghiacci si spezzano, di colpo. Da Sud si leva un vento propizio, l’albatro segue la nave e ogni giorno «per cibo o per diletto» scende tra i marinai. L’albatro, il bianco uccello di mare, mette in comunicazione i due regni, e assiste la comunità in viaggio per mare sulla nave: l’angelo protegge l’umanità, che da sempre è rappresentata con metafore di navigazione. A un certo punto uno di loro, senza ragione, lo uccide. Prende la balestra, mira, lo fa secco. With my cross-bow/ I shot the Albatross. Con quel gesto di immotivata ribellione all’ordine divino della natura, uccidendone il benefico e alato messaggero, l’uomo che ha levato la balestra si esclude dal creato. L’uccisione dell’albatro è gratuita, frutto di accidia, di indifferenza. La condanna che cade sulla nave è la dannazione più atroce, la bonaccia: salvatasi dalla furia della tempesta, non può sopravvivere alla accalmia assoluta che segue al misfatto. I marinai si rendono complici dell’uccisione: prima rimproverano il compagno, colpevole di avere

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ucciso l’albatro portatore di buoni venti, ma subito dopo, col diradarsi della nebbia e il sorgere luminoso del sole, lo approvano. Il misfatto da quel momento non è più individuale: è la comunità, è il mondo che ha spezzato il legame sacro con la natura. La maledizione che scenderà sarà quindi universale, tutta la nave ne sarà colpita. E fatalmente, appena la prua tocca le acque del Pacifico, cade la brezza, cadono le vele. La nave immobile sotto un cielo cocente, il sole a picco, senza un alito di vento. Ora i marinai comprendono che la vera dannazione non era la tempesta, il disordine del vento, ma il suo contrario, l’assenza di vento e anima. E, circondati d’acqua da ogni parte, si inaridiscono disidratandosi per la sete, esaurite le scorte sono condannati a una passiva attesa della morte. Poi, dopo apparizioni spettrali in un mare di metallo e ghiaccio incandescente, i duecento corpi dei marinai a uno a uno cadono, con un sordo tonfo. Il mare è irreale, non più liquido ma translucido, gelatinoso, e strane figure anguiformi affiorano, esseri repellenti e mollicci, nella notte, all’ombra della luna, il marinaio contempla quegli esseri viscidi e semitrasparenti, i serpenti marini: la loro pelle turchina, verde, nera, lucida, vellutata, la scia dorata che lasciano nell’acqua. E, di fronte a quelle forme primordiali, il marinaio ha un moto di ammirazione, di gioia, loda le «felici creature» serpentiformi e viscide, lui che ha ucciso il bianco albatro alato. Si commuove di fronte alla vita al suo livello primario, vibra di compassione e ammirazione. La bonaccia finirà, ci sarà una lunga espiazione, ma la vita tornerà con la pioggia e col vento. Dopo la lunga espiazione, e i balsamici venti purgatoriali, il marinaio, ormai vecchio, girerà di paese in paese per raccontare l’evento di cui è stato colpevole e testimone. Con il suo occhio, rimasto perennemente scintillante per il marchio abbagliante della visione, racconterà l’angoscia della bonaccia e della non vita che l’immobilità e il disamore generano sulla nostra tolda. E come la riscoperta delle creature riporti l’armonia tra l’uomo e il creato, tra noi, ciurma perennemente in viaggio sui mari dell’esistenza, e l’anima divina e sacra del mondo. Certo l’uccisione immotivata dell’albatro, e le sue conseguenze sul mare e sul mondo che si ammorbano, suonano tristemente profetiche sugli scempi operati dall’uomo nei confronti del pianeta. Nei primissimi anni dell’Ottocento un grande poeta aveva già capito, e anche indicato la via della redenzione: recuperare lo stupore, ammirare il creato, anziché pretendere di sottometterlo. Ringraziare.


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il club di calliope Non si può sorprendere l’addio. Cade improvviso mentre i bambini nascondono le fate. E nulla è stato, e nulla sarà questa sera solo sottomettersi al cielo ancora di luce sottili brevi code di aeroplani mai saprò la vostra vita lontana ora che sono ferma chi si avvicina potrebbe farmi qualsiasi male. … Chi è solo ha tagli di mare sul corpo cucce che aspettano il buio poi la luce e cani lingue pazienti che non verranno giudicate. Portami lontano se questo non è il mio vestito se invecchio i muri nuovi che alzi qui non scende la sera la pietà bianca della notte. … Quando senti il male la pelle ti si fa bianca, madre solo sulla spiaggia mi hai insegnato a camminare. Ora mi dibatto tra le porte che apro per guardare piano muovo passi, tu aspetti col viso che so quando per me teme il male.

UN POPOLO DI POETI tra le costole ho trovato una tua lettera datata ora e sempre

il verso ora e sempre è da rifare:

grondava sangue e china sulla terra diversificavi pena e dolore

ancora non alloggio tutte le parole che abbiamo concepite

dalla macchia arrivammo all’altopiano dove ti apristi a conchiglia liberandoti della perla

di fatto risiedi ancora nella mia poesia - mi rendesti d’io -

e inventasti l’arcobaleno arando il mio nome

cercando un figlio persi il filo la rima col tuo universo

{nella tua parentesi graffa facevo mio il verbo essere}

il verso ora e sempre è da rifare:

- mi rendesti d’io -

ancora non alloggio tutte le parole che abbiamo concepite

cercando un figlio persi il filo la rima col tuo universo

di fatto risiedi ancora nella mia poesia di Raffaele Niro

Mariarita Stefanini Al volto, tutto

NELLO SPAZIO LUMINOLOGICO DI ROTELLI in libreria

di Loretto Rafanelli redo sia necessario parlare, in una rubrica di poesia, di Marco Nereo Rotelli, un artista che da anni compie una sistematica operazione di «ricerca sulla possibilità di una materializzazione della parola poetica» e che ha collaborato con i più grandi poeti del mondo (da Walcott a Luzi, da Bonnefoy a Sanguineti, da Bigongiari ad Adonis, fino a Conte, Mussapi, Cucchi, ecc.). Rotelli, artista di fa-

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stante tentativo sia quello di collocare nella trama creativa, una struttura basilare: il verso. Con ciò Rotelli riesce a dare alla poesia un «contatto reale con il problema della rappresentazione figurativa… insomma l’impulso è quello di fare della poesia un evento artistico completo» (Bonito Oliva). Ovvio, siamo al di là della pittura, siamo in quella dimensione wagneriana tesa a unire linguaggi diversi e rappresentare così

Omaggio all’artista che da anni compie una sistematica ricerca sulla possibilità di materializzazione della parola poetica ma internazionale, è creatore infatti di opere d’arte che pongono proprio la centralità della poesia, esemplari a questo riguardo due eventi per la Biennale di Venezia del 2001 e del 2005: Bunker poetico e Isola poesia, dove furono anche coinvolti centinaia di poeti di tutto il globo. I suoi numerosi lavori sono sparsi ovunque, ad esempio, tanto per citarne alcuni: al Petit Palais di Parigi, al Living Theatre di New York, alla Biennale di Pechino, all’Isola di Pasqua. E queste opere-eventi rivelano come il suo co-

un’opera che sia per definizione «sconfinamento». Rotelli, maestro della luce, quando «raccoglie» poesia e arte nel quadro o nell’evento si incammina in uno «spazio luminologico... nella selva dell’allegorico, per questo egli è un pittore moderno» (Cacciari). A documentare il suo lavoro recente c’è un catalogo (edito dal Centro Italiano), pubblicato in occasione di alcune mostre (Vecchiato, Padova; Carta Bianca, Catania; Louise Alexander, Porto Cervo), che consigliamo vivamente di vedere.

Io non sono mai stata qui anche se qui c’è un posto per me immobile nell’odore del lino. Eppure non ho posto. Salvezza sarebbe trovarlo. Stringi il viola tra i denti che non scappi! Lui chiede di essere un miscuglio non solo una visione e calca sulla fibra della tela. Non mente, come tendine vibra sulla linea che va dal braccio al polso. Impasti parole nel variare di volo delle tue bacchette magiche. Al tuo volto mi chiama, il ritratto che sono. di Laura Vallieri «Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma


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cataloghi

arti

L’enigma

Tassi di Marco Vallora urioso Agostino Tassi. Se uno non ha mancato la mostra, ahimé non prorogata, a Palazzo Venezia (curiosamente, anche qui, la sua prima in assoluto) e ci era andato nutrito di tutto quanto uno conosce già di romanzesco, anzi di giudiziario su di lui, ebbene era uscito come interdetto, spiazzato. Ma come, il temibile, «infernale» Tassi, che andava in giro «con spavalderia» da spadaccino, facendosi chiamare Cavaliere senz’esserlo, pataccone d’oro al collo come un magnaccia e gran spadone tra le gambe artritiche (spesso doveva smettere di lavorare e lasciava procedere i suoi garzoni, firmando poi disinvotamente le opere. Così come falsificava tranquillamente le tele di illustri contemporanei, compreso il suo sfruttato allievo Lorrain, che dovette ricorrere a un Liber Veritatis per rimettere le cose a posto); lo schiamazzante smargiasso da teatro dei burattini, che terrorizzava i rivali pittori minacciando di segare lor le braccia e assaliva le prostitute che non erano leste ai suoi desideri («per aver promesso ad altri». Poi magari si pentiva e le curava sul letto di morte); il pittore pontificio, ch’era messo in postilla nei libri parrocchiali, quale rinnegatore d’eucarestia, e non saldava mai i debiti ai suoi creditori (talvolta retribuendo sfacciatamente con le briciole usate delle sue cortigiane) e progettava di far uccidere la sua signora, per convivere in pace, incestuosa, con la sua civettuola cognatina, tanto poi decise di starci insieme lo stesso, in casa, in un menage in naufragio… Ma come, pensava, il Tassi che noi conosciamo non tanto dai registri di pittura (ahimé) ma per i resoconti processuali, da far impallidire il Caravaggio e parer Salvator Rosa un imitatore dilettante, ma come, al momento della prova pittorica egli si rivela così gentile e fiabesco e atteggiato, quasi un ballerino dalle movenze agghindate, e soprattutto così micro, misurato e miniaturista, rimpicciolito? Quasi la sua Natura fosse una caramellina troppo a lungo succhiata?

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Certo, un’impressione fallace indotta anche agli spazi immensi e «mussoliniani» di Palazzo Venezia. Ma se invece ci si dedica con più capillare attenzione al bel volume Iride curato da Patrizia Cavazzini, scompare quell’effetto «cucina di Fratta», fallace e illusivo, come illusive sono in fondo tutte le sue capricciose architetture, vertiginosamente voluminose, da schiacciare Regine di Saba e San Pietri rinnegatori, in angolini miserandi, in prospettive artificiose (da allattare legioni di Codazzi, Lemaire e Pannini). E visionari si rivelano, nella lettura dei dettagli, i suoi realistici «sovrani inganni»: tramati di sartie, piroscafi inclinati quasi vestali in ginocchio, «pescaggioni ed accidenti di mari».Tutte queste verità, le ha già descritte sapientemente Claudia Conforti, in un articolo apparso su liberal il 16 luglio scorso. Ma a studiarlo meglio nei documenti, rimane l’enigma d’un artista che ha cosparso la Roma papale di voluminose imprese a fresco e che ha lavorato accanto a grandissimi quali Guercino, Domenichino, Saraceni, Poussin e che era talmente utile come press-agent da far accettare a lungo lo stupro d’Artemisia, da parte di papà Orazio Gentileschi, pure lui uno dei giganti di quel far-grande e dal respiro magniloquente che Tassi invece microbizza, «riducendosi» (genialmente, beninteso) come il paesista Filippo Napoletano o il suo maestro Paul Brill, ma ben

più di loro, a fiammingheggiare personaggini minimi e fiammanti (genere grafica Callot) che assalgono come pulci addomesticate l’inarrivabile Campidoglio o gremiscono gli alberi a vela dei galeoni azzoppati, sempre arresi nelle ripetute posizioni modulari, accasciate e acrobatiche. Promettendo romanzi iconografici, che poi non sa come dipanare.Tra abili furti d’altre opere, che fa passare per citazioni in miniatura (così in agguato intravvediamo già Elsheimer e il sulfureo, innominabile De Nomé, tutto incendi, crolli, vulcani boccheggianti e sinistri terremoti). «Scherzi di mare» ermetici, su tolde di navi che lui conosceva bene, avendoci forse fatto più il mozzo che non il cortigiano mediceo, come millantava. Eppure anche qui, mistero nei documenti: se il Passeri addirittura doveva oscurare alcuni dettagli biografici «che sarebbero di scandalo a un innocente lettura», come mai Papi e Cardinali se lo rimpallavano come un alkermes innocuo? Pragmatismo vaticano e infingardo di Papa Innocenzo X: «Avendo tenuto sempre per uno sciagurato Agostino, ci è sempre in ogni esperienza riuscito tale e così non ci semo ingannati di lui!».

Agostino Tassi, Un paesaggista tra immaginario e realtà, Edizione Iride, 42,00 euro

autostorie

Cisitalia, il sogno svanito di Piero Dusio di Paolo Malagodi i sono vicende, nell’automobile come in altri settori, che paiono incredibili tanto sono romanzesche. È il caso di chi, ancor prima che la guerra fosse finita, immaginò nel 1944 di poter diventare il costruttore delle migliori automobili del mondo. Investendo nell’avventura immensi capitali e arrivando a un passo dal successo, ma precipitando al contrario nella rovina economica. Pochi anni dopo da quando, in una Torino ancora sotto l’incubo dei bombardamenti, alcune persone tra cui Gianni Agnelli, Pinin Farina (a quel tempo non ancora Pininfarina) e Dante Giacosa si videro nella sede della Juventus, per discutere di automobili. Tra loro c’era Piero Dusio che dal 1941 al 1947 fu presidente della società bian-

V

conera, della quale aveva assunto il controllo grazie alle fortune accumulate nel campo tessile. Nato in provincia di Asti il 13 ottobre 1899, a vent’anni era rappresentante di tessuti, ma sette anni dopo possedeva già una manifattura per tele cerate e forniture militari. Trasferitosi a Torino, con oculati e ampi investimenti immobiliari Dusio divenne uno dei più influenti personaggi e, appassionato di automobili, collezionò buoni risultati come pilota con il terzo posto nella Mille Miglia del 1938 su una Alfa Romeo 2900 e anche con gare su pista, giungendo sesto al Gran Premio d’Italia del 1936 su Maserati. Una passione che, in quell’incontro del 1944, porterà Dusio all’idea di un’auto da corsa basata sull’elaborazione di propulsori Fiat e assicurandosi, con il benestare di Agnelli, la collaborazione

tecnica dell’ingegner Giacosa, mentre Pinin Farina si impegnava per la carrozzeria. Venne così fondata la «Compagnia Industriale Sportiva Italia», il cui acronimo Cisitalia passò come una meteora nell’Olimpo delle quattro ruote, per una straordinaria avventura imprenditoriale e umana che il giornalista Mario Simoni ripercorre con toni appassionati. In un volume (Un sogno chiamato Cisitalia, Angelini editore, 226 pagine di grande formato, 60,00 euro) riccamente illustrato da foto e spaccati progettuali, che svela molti particolari rimasti sinora segreti o in ombra. Di una vicenda approdata al vittorioso debutto, il 3 ottobre 1946 sul circuito torinese del Valentino, della piccola monoposto «D 46» dal rivoluzionario telaio a traliccio di sottili tubi, con alla guida assi del calibro di Tazio Nuvolari e Piero

Taruffi. Ai nastri della Mille Miglia del 1947 venne poi schierata la «202 coupè», magistralmente disegnata da Pinin Farina e subito oggetto di numerosi ordini, che spinsero Cisitalia a rapide espansioni e ai 550 dipendenti dell’autunno 1947. Dando credito al raggiunto successo dell’impresa automobilistica, invece destinata rapidamente alla rovina: per la smania di Piero Dusio nel voler primeggiare nei Gran Premi e con il ricco pagamento a Ferdinand Porsche del progetto di un motore a dodici cilindri, da collocare in posizione posteriore su una Cisitalia a trazione integrale.Tanto innovativa, da assorbire nel suo sviluppo capitali così ingenti da portare Piero Dusio al dissesto; spingendolo, nel 1949, a trasferirsi in Argentina sino alla morte, avvenuta a Buenos Aires l’8 ottobre del 1975.


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architettura

A Pescara risorge il “colosseo d’Abruzzo” di Marzia Marandola opo un restauro durato tre anni, l’ex distilleria Aurum di Pescara, soprannominata «colosseo d’Abruzzo» per la forma ellittica ispirata all’anfiteatro Flavio, è restituita alla città. L’edificio ha una storia singolare che inizia nel 1910 quando, con il sostegno del comune, fu costruito un Kursaal per incentivare il turismo. Il locale di svago sorge in una pineta, proprio sull’asse tra la riviera e la città: esso ha una stereometria compatta in mattoni a vista, articolata sul fronte strada da una loggia a due ordini di sapore genericamente rinascimentale. Ma il mancato sviluppo di adeguate attrezzature balneari vanifica le attese connesse al Kursaal che, a meno di dieci anni dall’ideazione, messo in vendita, è trasformato dagli imprenditori Pomilio in distilleria dove, impiegando esclusivamente personale femminile, dal 1925 si produce un amaro ottenuto da essenze di vini pregiati e agrumi. Se il nome Aurum del liquore è inventato da Gabriele D’Annunzio - levis ponderis aurum - che si ispirò al colore e alla delicatezza del distillato, a Marcello Dudovich si deve la fortunatissima affiche (1923) con la misteriosa donna vestita di bianco, il cappello conico e la bottiglia del prezioso liquore tra le

D

moda

mani. Alla fine degli anni Trenta, con l’incremento delle esigenze produttive, i Pomilio affidano l’ampliamento all’architetto Giovanni Michelucci (1891-1990), celebre per la nuova stazione di Firenze, che elabora un impianto inusitato, nel quale far convivere il processo produttivo dell’amaro, il riuso del Kursaal, la possibilità di usare il nuovo complesso per scopi eterodossi - come le rappresentazioni teatrali estive che i Pomilio organizzano con una illuminata commistione tra produzione industriale e promozione culturale - e la costruzione di un’immagine architettonica pregnante. Michelucci ingloba il Kursaal in una planimetria a ferro di cavallo, dove i tre piani anulari - di cui verranno realizzati l’interrato per la stagionatura dei distillati, il piano terra per la produzione e l’imbottigliamento e solo parzialmente il secondo piano per gli uffici - sono costituiti da un’ossatura in cemento armato, rivestita da una parete in laterizio, cadenzata regolarmente da bucature e conclusa da un cornice in travertino. La loggia di facciata viene modificata con la soppressione degli archi inferiori e semplificata da un rivestimento lapideo, che la uniforma al rigore linguistico dell’ampliamento. La produzione dell’Aurum,

dopo l’interruzione bellica, riprende nell’opificio anulare fino al 1980, quando viene trasferita, provocando l’incerto destino del fabbricato, che già ampliato negli anni Cinquanta, rischia prima la demolizione, poi ristrutturazioni snaturanti, per risorgere finalmente nel 2007, come centro espositivo e culturale. Secondo le direttive del municipio, proprietario dell’edificio, l’intervento di ripristino statico, restauro e adeguamento alle normative, mantiene la distribuzione degli ambienti e i volumi del progetto di Michelucci, anche quando essi sono incompiuti, e ne ribadisce la funzione di cerniera tra la città e il mare. Con un fitto programma di manifestazioni l’antica distilleria è oggi l’edificio di rappresentanza del comune e la sontuosa porta di Pescara, dove le attività culturali godono di spazi ampi e luminosi, e di una straordinaria terrazza, che guarda la città e il mare.

Uno scorcio dell’ex distilleria Aurum a Pescara, ampliata da Giovanni Michelucci. A sinistra il Colosseo d’Abruzzo in un disegno

Tutto ritorna, tutto rischia di durare di Roselina Salemi

re di ritardo, risse per i taxi, ingorghi, isterie, troppo freddo e troppo caldo, musica da spaccare i timpani, gomitate, colpi di tacco 15, pettegolezzi, maldicenze, mesi di lavoro per dieci minuti sotto i riflettori. Le sfilate sono così, elogio della magrezza e della specie mutante delle modelle (ha aperto Esther Canadas, trentenne, al secondo divorzio), gioco simbolico e di potere con precise gerarchie e un muto codice di grazia e disgrazia: le prime file vengono assegnate col bilancino, ed essere spostati in seconda o, peggio ancora in terza, equivale a uno schiaffone. Quest’anno a Milano siamo arrivati a 224 sfilate, ai maxischermi per strada, a una saturazione dello spazio che sfida le leggi della fisica. Nessuno può vedere tutto. L’enorme macchina creativa si è messa in moto come al solito, proprio quando la destagionalizzazione (riscaldamento globale fuori, condizionamento dentro) fa svaporare i confini fra autunno-inverno e primaveraestate. Il minimalismo bianco e nero di Narciso Rodriguez, gli chiffon di Calvin Klein, i broccati di Custo Barcelona visti a New York, i pois di Henry Holland o gli zebrati di Danielle Scutt, persino i fucsia e arancio di Luella Bartley notati a Londra, potrebbero stare benissimo sotto un soprabito, e

O

il tubino di voile, corretto da un coprispalle, può risolvere una serata elegante anche nei pressi di Natale. Mentre il delizioso abitino blu elettrico (scollatura a barca, manica appena accennata) firmato Alberta Ferretti, autunno-inverno, farà la sua figura anche fuori stagione. Ogni tanto qualcuno lancia l’idea di una collezione unica e poi lascia perdere. Ma la verità è che, anche grazie ( o per colpa) degli stilisti è cambiato il modo

di vestire. La giacca di shearling scalda la camicia di organza, il cappotto va sull’abito di tulle, il giubbotto sul top di seta, il sandalo si porta in pieno inverno e lo stivale d’estate, il bustier si mimetizza con un nonnulla di cashmere bordato di pelliccia e non finisce più in naftalina. Non è un caso che il segno moda arrivi sempre di più dai dettagli (un tessuto, tipo il pizzo guipure di Prada, già cult), un colore (quest’inverno, molto nero, grigio e viola) e dagli accessori: scarpe, borse e adesso il cappello, che è in granGwyneth Paltrow de rilancio, guanti e mezzi guanti cotestimonial di Tod’s me quelli di Alessandro Dell’Acqua ricoperti di cristalli, occhiali, cinture. Tutto il resto si mescola, con qualche citazione vintage. Tutto ritorna, come il pitone e la pelle di anguilla. La moda non riesce più a sbarazzarsi di se stessa, a spingere le fashion addict all’ennesimo svuotamento di guardaroba per dare spazio alle ultime tentazioni. Rischia di durare. Nell’armadio convivono estate e inverno, anni Trenta, Cinquanta, Settanta. Altro che mezze stagioni. Non ci sono più le stagioni. E niente va messo da parte. La saggia Gwyneth Paltrow, fresca testimonial di Tod’s, conserva i vestiti che non mette più per sua figlia, la piccola Apple. Sa già che, se l’annata è buona, da questo momento in poi, niente è davvero fuori moda.


pagina 16 • 27 settembre 2008

i misteri dell’universo

noto da tempo che le diverse lingue (se ne contavano circa 7000 non molti anni fa, se ne perdono pare una cinquantina ogni anno…) hanno relazioni fra di loro. Ovvie sono le relazioni esistenti fra il latino e lingue da esso derivate come italiano, ladino dei Grigioni, francese, spagnolo, catalano, portoghese, rumeno e inglese. A un livello meno immediato, ma accertato da circa due secoli, sono altre lingue derivate come: - quelle derivate da un «proto gotico», come il tedesco, l’olandese, il danese, il norvegese, lo svedese, l’islandese, con l’inglese ibrido fra derivazione da questa lingua e il latino; - quelle cosiddette slave, da relazionarsi assai probabilmente alle lingue degli Sciti, che secondo Jordanes erano divisi in trenta tribù, la più occidentale, gli Slapi, avendo dato poi a tutte il nome di slave. A tali lingue appartengono il russo, l’ucraino, il bielorusso, il polacco, il boemo, lo slovacco, lo sloveno, il croato, il serbo, il bulgaro (i bulgari di antica lingua, forse mongolica, la persero nel loro soggiorno nella regione uralica all’epoca dell’impero cataro; restano una decina di parole dell’antica lingua!); - quelle associate al sancrito, comprendenti urdu, hindi, bengali, persiano, dari, pashtun e l’antico pahlavi che miracolosamente sopravvive in alcuni villaggi isolati sulle alture dal Pamir.

È

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ai confini della realtà

il 1870. Il nome precedente era Gorishanta e di tale cambio di nome parla il nostro Stoppani nel suo libro Il Bel Paese. Interrogandosi sul significato, è immediato dedurre, dal cinese, che shan è monte e ta è grande. Ma gori? Ebbene con un colpo di fortuna, ho appreso da un romanzo di un’autrice pachistana che mi capitò di leggere, che gori viene restituito come bianca giovane signora, significato che è pure presente in sancrito, e che ritroviamo nel greco koure. E quindi ecco il bellissimo nome originario dell’Everest: la bianca signora delle grandi montagne. Un nome troppo veritiero e fastidioso per gli inglesi la cui azione distruttrice della cultura indiana è stata finora troppo poco considerata.

La bianca signora delle grandi montagne

Più recentemente i filologi della scuola di Stanford, fondata dal grande Joseph Greenberg e portata avanti ora dal suo allievo Ruhlen, sono giunti ad affermare la derivazione di tutte le lingue mon-

di Emilio Spedicato diali da una unica, la cui differenziazione è avvenuta in tempi antichi non bene precisabili, ma possibilmente associati alle migrazioni dell’homo sapiens discendente, come assodato da studi genetici sempre iniziati a Stanford dalla scuola del grande genetista italiano Cavalli Sforza, da una unica donna, vissuta fra i 100 e 200 mila anni fa. L’etimologia analizza di solito la possibile origine delle parole su una base fondamentale costituita da parole significanti anima, luce, cielo, buono. L’eti-

telli? O non è meglio l’etimo proposto da Felice Vinci, uno dei massimi rappresentanti della cultura italiana e non solo dell’ultimo secolo, ovvero che derivi dal greco aithalia, che significa la fumante? E certo l’Italia, una terra del Mediterraneo con vulcani attivi, doveva impressionare per i suoi fumi vulcanici! Nella carta di Fra Mauro alla biblioteca marciana di Venezia l’Indo è denominato ameru, nome che lasciò perplesso chi la studiava. Spiegabile con l’osservazione che a-ab significa ac-

”Gorishanta” è il vero nome del monte Everest, così chiamato in onore di un governatore inglese. È una delle tante scoperte che una diversa combinazione linguistica consente. Svelando etimi insospettati, come quello di Italia e di Indo... mologia non è sempre ovvia e a volte si scopre che quella presentata come valida per secoli è probabilmente errata. Un esempio è l’etimo di Italia, per cui si è generalmente considerata valida la proposta di Marrone, grande studioso della cultura latina, che la derivava da vituli, ovvero terra dei vitelli, con la caduta della V come spesso accade nelle lingue europee (per i bulgari otto e osiem, non il vosiem dei russi). Ma era l’Italia così abbondante di vacche e vi-

qua, fiume in sanscrito (e anche in sumero), e meru indica anche i tre monti sacri Kailas, Rakaposhi e Hunzakunji, dai quali l’Indo proviene con alcuni dei suoi rami. Esistono anche etimi di origine ibrida, provenienti da lingue la cui parentela non è ovvia, ma vanno considerate per ragioni geografiche. Ad esempio Everest è un orrendo nome dato alla più alta montagna del globo per onorare il governatore inglese della zona, verso

Una serie di indicazioni locali e bibliche suggeriscono che la tomba di Mosè, ignota nel Vicino Oriente, si trovi nel Kashmir, in un villaggio 150 km a nord di Srinagar, abitato da tredici famiglie di ebrei. Ma nella Bibbia sta pure scritto che Mosè morì a Moab, massiccio montuoso a est del Mar Morto, in Giordania. Come si dice Kashmir in ebraico? Gli esperti cui ho posto la domanda non lo sanno, gradirei averne un’indicazione da chi mi legge. Io propongo il termine Moab, parola ibrida dove mo-mu è cielo (in zhangzhung, la lingua principale a nord dell’india sino a circa 1200 anni fa), e ab è acqua in sanscrito, come detto sopra. Quindi Moab è Terra dei fiumi che vengono dal cielo, ovvero dalle altissime montagne dal Karakorum che sembrano toccare il cielo. Perfetta descrizione per il paradiso che è - ora - il Kashmir.


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