10_02

Page 1

mobydick

INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

Esce nelle sale “La pecora nera”

MATTI DA SLEGARE

di Anselma Dell’Olio a pecora nera di e con il romano Ascanio Celestini, uno dei quattro film itaaver visto La pecora nera, però, per pensare che forse i selezionatori abbiano semliani nel concorso principale della Mostra di Venezia, ha sollevato poplicemente voluto dare spazio a un esordiente originale nel panorama italiaIn concorso lemiche sin dall’inizio. Primo, perché ha sbalzato dalla rassegna no, ma è anche vero che il regista bolognese non sarà mai accarezzato da il film di Pupi Avati, Una sconfinata giovinezza, che esce fra un ambiente rocciosamente ateo e de sinistra. Celestini, nato nel a Venezia, ha pochi giorni, e ognuno potrà giudicare se Marco Mueller, diret1972, è noto per i suoi spettacoli teatrali su temi sociali, e per suscitato polemiche fin tore della Mostra, ha scelto bene; in secondo luogo perché due documentari, uno sui precari dei call center, Parole dall’inizio il film di Ascanio Celestini a qualcuno è parsa una scelta politica di parte. Avasante, e uno sui lavoratori notturni, Senza paura, inti è un cattolico praticante e a suo tempo demodubbiamente «impegnati». Più noto per l’attività che ha sbalzato dalla rassegna quello di Pupi cristiano, marchi d’infamia tra i cineasti, e ha fatisul palcoscenico, l’autore col pizzetto appartiene Avati. Non è un’opera di denuncia, ma cato per essere accettato e accreditato appieno dalla alla seconda generazione del teatro di narrazione (l’arpiuttosto un’evocazione poetica congrega progressisti-o-morte della cinematografia italiana. tista più noto della prima è Marco Paolini). Sono spettacoli (Quando debuttò La seconda notte di nozze al Lido, che meritain cui l’attore-autore domina la scena con la sua sola presenza, dedicata ai reietti senza calarsi in un personaggio unico; affabula, invece, in monologhi va di vincere il Leone d’oro, un influente giornalista del settore, nel tidella società incantatori che stabiliscono un forte rapporto con il pubblico: scenografie e mor-panico che il suo giudizio non fosse «potabile», chiedeva ai colleghi con attrezzi sono inesistenti o ridotti al minimo. risatina imbarazzata: «Ma posso dire che mi è piaciuto un film di Avati?»). Basta

L

Parola chiave Esistenza di Franco Ricordi Cordelli e il tempo: un corpo a corpo di Maria Pia Ammirati

NELLA PAGINA DI POESIA

Delio Tessa nell’eden del dialetto di Francesco Napoli

La guerra fredda di Palma Bucarelli di Mauro Canali Pirandello messo a nudo di Pier Mario Fasanotti

Il Rinascimento tra Veneto e Friuli di Marco Vallora


matti da

pagina 12 • 2 ottobre 2010

ne scopriamo perché). La Suora, arrivata nell’enorme negozio, stende un fazzoletto sulla sedia vicino alla cassa e tira fuori il rosario, dopo aver consegnato la lista della spesa al paziente. I dialoghi tra i due Nicola - uno modello, l’altro più bizzarro - consistono nel più matto che vuole comprarsi tutto («tanto qui sotto ci sono magazzini pieni di cose. Appena ne togli una, viene subito sostituita»). Le avventure e la logica del megastore sono messe in relazione con la stralunata «sensatezza» dei matti dell’istituto; l’ipermercato è peggio, o almeno non meglio (secondo l’autore) dell’inutile, superfluo, eccessivo, becero consumismo di massa, con i suoi infiniti prodotti uguali di marche e sottomarche diverse assiepati sugli scaffali. Non è così differente, sembra dire Celestini, dalle pile di vestiti usati nei sacchi di plastica accatastati nella cameretta di Nicola, con mucchi di carta igienica dappertutto - solo più ordinato. «Prendi», gli dice la Suora, offrendogli rotoli su rotoli, mentre noi siamo tenuti a inorridirci per la sua tremenda meschinità: «Non è quella dei malati, è quella che uso io». Però è divertente la battuta di Nicola 2: «Budda è una sottomarca di Dio».

Il teatro di narrazione è antico (il cantastorie) e anche modernissimo, perché corrisponde alle esigenze di un teatro in crisi da decenni, che per sopravvivere deve costare poco. Le opere precedenti di Celestini sono state trasmesse in tv, e l’artista collabora con Parla con me di Serena Dandini, su Rai tre. Ha vinto molti premi (Ubu, Associazione Critici Italiani, Histryo, Bagutta, Vittorio Gassman, Golden Graal, Satira Politica, Fescennino d’oro, Campidoglio, premio Volponi e altri) e a Venezia si è aggiudicato il premio Mimmo Rotella, che va al film «che più s’avvicina alle arti figurative», per il suo debutto nel cinema narrativo. La pecora nera nasce come spettacolo di narrazione sui manicomi, poi trasformato in libro e dvd. Celestini ha condotto una lunga ricerca sul tema, con visite in vari ospedali psichiatrici italiani e interviste con pazienti ed ex infermieri. Ha elaborato il materiale raccolto in un monologo teatrale, portato a lungo in giro per l’Italia, che racconta i malati mentali, le loro fissazioni, ubbie e sogni, la quotidianità, prima della legge Basaglia del 1978. Il film è sceneggiato; ci sono attori che recitano i vari personaggi, la scenografia è realistica, l’autore ha il ruolo di Nicola adulto, e Luigi Fedele è Nicola bambino, «nato nei favolosi anni Sessanta». Incontriamo Nicola da grande con la sua ombra, Nicola 2 (un bravissimo Giorgio Tirabassi) sul tetto dell’istituto, mentre guardano il paesaggio. Qui non siamo dalle parti della Fossa dei Serpenti di Anatole Litvak (1948) o di uno dei tanti film di denuncia sull’orrore delle condizioni in cui vivevano i pazienti psichiatrici, tenuti spesso in luoghi degradati di indicibile sporcizia e abbandono, anche perché sono chiusi da più di trent’anni. È piuttosto quella di Celestini un’evocazione poetica che invita ad apprezzare l’umanità palpabile, fantasiosa e turbata di reietti della società, che sognano e vogliono amore, come tutti.

Si diceva che all’inizio del film i due Nicola guardano il panorama; una voce narrante che accompagna gli eventi, quella di Nicola adulto, racconta la barzelletta dei matti che decidono di darsi alla fuga, saltando i cento cancelli che sbarrano la strada tra loro e la libertà. (Gli istituti psichiatrici, dice Nicola, sono irti di cancelli su cancelli: si apre il primo che poi viene chiuso a chiave, prima di aprire il successivo, e così via). Arrivano al novantesimo cancello e i fuggitivi si stancano. «Torniamo indietro - dice uno - finiamo di saltarli domani». Nicola ha passato trentacinque anni nell’istituto, ma fin quasi alla fine vediamo una persona dolce, remissiva e piuttosto normale. Sembra un essere come tanti anche nei flashback che raccontano la sua infanzia, funestata da una madre con la testa rapata e talmente malridotta da infiniti elettroshock, che è sempre coricata tra le lenzuola («cinesi sudari di fabbricazione industriale»), medicata e, quando la incontriamo, pronta per una lobotomìa. La Suora (una perfetta Luisa De Santis) assicura il piccolo che ora «non c’è più bisogno di tagliare il cranio per recidere i centri nervosi, si entra direttamente dagli occhi. Il professore che ha inventato l’intervento ha avuto il Nobel». Nicola cresce a casa della Nonna (una superba, totalmente credibile Barbara Valmorin). «Mia nonna si è sempre vestita da vecchia. La nonna è sempre stata vecchia. Mia nonna è nata vecchia ed è morta vecchia. In mezzo è stata vecchia per tutta la vita». Questo il classico stile incantatorio di Celestini. Nicola adulto accompagna la Suora al supermercato a fare la spesa, portandosi dietro, salvo poche volte, Nicola 2 (solo alla fianno III - numero 35 - pagina II

slegare

LA PECORA NERA GENERE COMMEDIA/DRAMMATICO DURATA 93 MINUTI PRODUZIONE ITALIA 2010 DISTRIBUZIONE BIM DISTRIBUZIONE

REGIA ASCANIO CELESTINI INTERPRETI GIORGIO TIRABASSI, MAYA SANSA, ASCANIO CELESTINI, MAURO MARCHETTI, BARBARA VALMORIN, LUISA DE SANTIS

Negli appunti di lavorazione, il regista scrive dell’ateismo della De Santis («Non ha mai detto una preghiera fino in fondo in vita sua»). Fa il paio con Carlo Mazzacurati, che parlando del suo film La passione, che ruota intorno alla rappresentazione sacra del Venerdì Santo, s’affretta a ripetere nelle interviste «Io sono laico, io sono laico», per fugare ogni dubbio e non essere scambiato per un impresentabile beghino, sinonimo di credente nel suo universo. La Nonna è credente; per lei l’ospedale è «un condominio di santi. I matti sono santi, la suora è santa, e il dottore è il più santo di tutti, è gesùcristo». (Si raccomandano le minuscole e le due parole attaccate).Tutto è ironico, penoso, anche la Nonna che porta le uova delle sue galline a tutti: alla maestra perché non bocci il nipote che disturba la classe e non impara niente, alla Suora perché tratti bene la figlia malata e il nipote, che diventerà inquilino anche lui (solo alla fine capiamo perché), regala uova a tutti per favorire pietà e benevolenza: «Uova fresche che puzzano ancora del culo della gallina», si vanta sempre, scocciando il nipote. Le scene più dure sono quelle con i fratelli grandi di Nicola, che vivono in montagna dove passa l’estate, «non in vacanza ma per aiutarli con le pecore». Sono uomini grevi, ignoranti, bestiali, maneschi. Il padre non è molto meglio, ma gli compra il primo cremino: ma il bambino, furioso perché ne vorrebbe cento di cremini, e sa che il padre non glieli comprerà mai, per rabbia mette il gelato in tasca, dove il cioccolato crea una schifosa macchia marrone. Il padre cerca di pulirlo con erbacce strappate da terra e s’arrabbia quando il piccolo si gratta. «Mi hai pulito con l’ortica» si giustifica Nicolino. Il film forse vuol farci credere che i matti diventano tali per la detenzione coatta e per gli eccessi di elettroshock; ma tra le scariche elettriche e i disagi dell’istituto, e i trattamenti orripilanti di quei parenti da incubo, è difficile scegliere. Il film è fatto bene, le riprese bellissime (di Daniele Ciprì), costumi, scenografie e direzione degli attori pure. Se solo ci fosse un arco narrativo che inchioda alla poltrona per vedere come va a finire (gli elementi ci sarebbero per creare attesa e suspense) non si guarderebbe in continuazione l’orologio, temendo che si sia fermato, poiché il film è di una lentezza esasperante. Al Lido (ma solo in Sala Grande) sette minuti d’applausi.


MobyDICK

parola chiave

2 ottobre 2010 • pagina 13

ESISTENZA l termine è filosofico ma al contempo assai usuale anche nella vita di tutti i giorni. Ne sia prova il semplice e burocratico certificato di esistenza in vita che spesso ci viene richiesto e che possiamo ritirare a vista nelle nostre circoscrizioni. Certo è strano acquisire il «certificato d’esistenza», e ricordo come un professore all’università affermasse che chi non avesse letto le Confessioni di Sant’Agostino non meritasse tale certificato. Quindi nessuno di noi esisteva… Ma al di là del fatto pratico non si può fare a meno di riferirsi anche a quello che è stato definito inesorabilmente «significato dell’esistenza», la ragion d’essere della nostra vita e di tutto ciò che incontriamo in essa. Tuttavia non possiamo scordare nemmeno il senso più universale del termine, e ricordiamo al proposito le terribili quanto sublimi parole del Gallo silvestre leopardiano: «così questo arcano spaventoso e mirabile dell’esistenza universale, ancor prima di essere dichiarato o inteso, si dileguerà e perderassi». Se infatti la nostra esistenza singola è destinata a finire, è evidente come l’esistenza universale sembri, almeno apparentemente, sopravvivere a noi tutti. Ma il Gallo silvestre non la pensa così; e nella stessa maniera in cui oggi non si parla più di eventi che furono famosissimi in passato, così di questo nostro universo non rimarrà «nemmeno un vestigio; ma un silenzio nudo e una quiete altissima empieranno lo spazio immenso». L’esistenza universale, per il Gallo silvestre, è destinata alla fine.

Il suo significato è la ragion d’essere della nostra vita e di tutto ciò che in essa incontriamo. E se non c’è dubbio che quella singola è destinata a finire, su quella universale sono aperti molti interrogativi...

Ma l’esistenza non è l’essere; infatti quel silenzio nudo rappresenta l’essere al di fuori dell’esistenza. Dobbiamo pertanto pensare come l’esistenza sia l’opposto di quel peculiare silenzio nudo: essa è clamore, movimento, parole, suono, agitazione; tutto ciò che in fin dei conti intendiamo come rumore della storia, per lo meno in contrapposizione a quella «quiete altissima», a quel vuoto. Pertanto, a prescindere dalle dispute medioevali fra essenza ed esistenza, e più vicini alla filosofia che da quel nome ha preso vita nel XX secolo - l’esistenzialismo - siamo portati a pensare nella maniera seguente: l’esistenza si distingue dall’essere in riferimento opposto a quelle due sfingi del pensiero che sono lo spazio e il tempo. L’esistenza è sempre riferita a queste entità, senza le quali essa non può dirsi tale. Senza spazio e tempo non c’è esistenza. E non soltanto la singola esistenza di tutti noi, ma anche quella dei popoli, delle civiltà, di tutto ciò che sappiamo esistere. L’esistenza non è tale senza uno spazio e un tempo che siano legati fra loro. Quindi l’esistenza presuppone, necessariamente, un «qui e ora», uno hic et nunc, senza la cui relazione

Da Shakespeare, a Leopardi, a Jaspers, da Ulisse con i suoi marinai ai cosmonauti del futuro, tutto indica che siamo attori - dramatis personae - del nostro esistere, nel “mare dell’essere”. Solo naufragando in questo mare, qui e ora, si può apprendere il linguaggio per accedere al suo vero significato

I

La cifra del naufragio di Franco Ricordi

essa non ha motivo di dirsi tale. Ma cos’è questo hic et nunc che caratterizza l’esistenza in rapporto all’essere che, al contrario, si presuppone anche nel suo vuoto, ovvero nel suo corrispondere al nulla, sempre e dovunque? Rispondiamo con un termine latino, anche se di origine greca: l’esistenza è dramatis persona. Non soltanto per quello che riguarda l’uomo che, da quando nasce a quando muore, assume le sembianze di una dramatis persona attraversando tutte le età della vita. Dramatis personae sono anche tutte le altre entità cui conferiamo la peculiarità dell’esistere: i popoli, le nazioni, le lingue parlate e scritte, le istituzioni, il regno animale, quello vegetale, il mondo, i pianeti, l’universo a noi noto.Tutte queste entità, essendo riferite a un preciso hic et nunc, anche superan-

do il concetto della relatività einsteiniana, si stabiliscono per tutti noi come dramatis personae, partecipanti di un dramma, tragedia o commedia particolare ovvero universale. È questo il principio necessario a ogni esistenza che, altrimenti, non sarebbe tale. E questo dramma in cui tutte le dramatis personae si confrontano è l’esistenza universale. E non è un caso che il Gallo silvestre affermi «prima di essere dichiarata o intesa, si dileguerà e perderassi»: la fine dell’esistenza universale è concepita nella misura in cui essa potesse venire «dichiarata o intesa», quindi fosse in qualche maniera un messaggio per qualcuno che ascolta. Le sue parole sono esattamente le stesse che pronuncia Prospero, l’ultimo grande protagonista shakespeariano: «Questo stesso vasto globo, sì, e quello che con-

tiene, tutto si dissolverà, come la scena priva di sostanza ora svanita, tutto svanirà senza lasciare traccia».

Ma Prospero si riferisce a uno spettacolo teatrale appena inscenato, che in tal caso non è soltanto metafora ma rappresentazione dell’esistenza, quella stessa rappresentazione che rischia di non essere «né dichiarata né intesa» per il Gallo silvestre. Quindi anche per lui l’esistenza è un «teatro andato a vuoto», una rappresentazione che non potrà essere intesa. È ciò che viene rappresentato come «naufragio» dell’esistenza, e che si ripercuote in tante altre opere del Bardo. Ed è la medesima situazione cui perviene la filosofia di chi forse ha meglio inteso, nel Novecento, il senso ultimo dell’esistenza: Karl Jaspers. Anche riferendosi al tutto-vivente, Jaspers ha sottolineato la peculiarità teatrale, ovvero cinetica dell’esistenza: «L’inquietudine è l’aspetto del tutto-vivente. La rigida compattezza delle rocce e delle forme è solo un’inquietudine solidificata». E certo la riflessione di Jaspers sulla bomba atomica, di cui si è ricordato di recente il 65° anniversario, si coniuga mirabilmente con la sua metafisica. Ma proprio l’esperienza fondamentale della filosofia di Jaspers è il «naufragio»: l’esistenza è la soglia del naufragio in cui sperimentare l’essere. E Hans Blumenberg, nel suo Naufragio con spettatore, ha saputo rilevare assai bene il medesimo paradigma teatrale dell’esistenza. In questa metafora che da Shakespeare a Leopardi a Jaspers viene riferita evidentemente al «mare dell’essere» - quindi non soltanto a Ulisse e ai marinai del passato ma anche ai cosmonauti del futuro - si chiarifica il suo significato ultimo. La possibilità di intendere, come scrive Jaspers, la «cifra» di questo naufragio: anche per Leopardi il rapporto con l’infinto, come tutti ricordano, si esprime proprio in un dolce «naufragare». Esistenza è naufragio. Ma nel naufragio c’è forse un ultimo senso o significato, come nel celebre quadro di Caspar David Friedrich Naufragio della speranza. Esistenza è dunque possibilità di percezione del linguaggio in una precisa dimensione spazio-temporale che si identifica nel naufragio. In ogni caso l’esperienza dell’esistere si attesta come naufragio. Che riguardi il singolo, le comunità, l’universo, l’esperienza esistenziale è destinata al naufragio. Tutte le dramatis personae dell’universo esistono e sono tali solo in relazione al loro essere-per-il-naufragio. E soltanto da esso e in esso, enucleando il significato ultimo di tale esperienza, si può accedere al suo linguaggio. Esistenza: teatralità dell’essere nel naufragio.


MobyDICK

Rivisitazioni pagina 14 • 2 ottobre 2010

musica

Cantanti, nuovi teorici DELLA SOCIETÀ LIQUIDA di Bruno Giurato

di Stefano Bianchi uvide sequenze in bianco e nero e in un ventaglio di colori saturi, incrociano un montaggio frenetico per poi stopparsi sulle foto scattate da Dominique Tarlé. Raccontano perlopiù di Keith Richards, che sa ciò che vuole: concepire grande musica (l’album Exile On Main Street è soprattutto affar suo), cuocersi al sole, ubriacarsi di Jack Daniel’s e strafarsi di tutto con la sua donna, Anita Pallenberg. Mick Taylor, che ha preso il posto di Brian Jones, lo segue viziosamente a ruota; Mick Jagger, al contrario, si trattiene: fa la spola con Parigi dove c’è Bianca in attesa di Jade; Bill Wyman e Charlie Watts temporeggiano, vanno e vengono. Di sicuro, non vogliono stare al gioco di Keith che dà retta a spacciatori, groupies, intrusi. Benvenuti a Villa Nellcôte. Cronache dei Rolling Stones in esilio (dorato). Stones In Exile, il documentario diretto da Stephen Kijak presentato all’ultimo festival di Cannes, si è trasformato in un dvd (Eagle Rock Entertainment/Edel, 19,90 euro) che racconta il making of di Exile On Main Street: snobbato all’uscita ma poi incensato. Capolavoro che dopo aver succhiato il blues, si mette a sbiancarlo. E dopo aver distillato rhythm & blues, country, gospel, li macina con prepotenti dosi di rock al vetriolo. Exile On Main Street prende forma dall’estate 1971 per sei mesi filati, fra gli stucchi e la cantina di Villa Nellcôte affittata da Keith Richards a Villefranche-surMer, vicino a Nizza. Gli Stones si sono rifugiati qui, con il loro Mobile Studio parcheggiato in giardino. Dopo aver guadagnato (e sperperato) un mucchio di soldi, non vogliono che il fisco inglese continui a tartassarli. Spiega Jagger nel dvd: «Avevamo lavorato duro, ri-

R

Classica

zapping

na volta c’era bisogno di un filosofo, un teorico, qualcuno che tirasse fuori dal taschino don Benedetto Croce e Francesco Saverio Nitti, et eziandìo Labriola o Rosmini. C’era chi apprezzava Gianfranco Miglio, chi interloquiva con Lucio Colletti, e c’era (una volta) un noto sindaco heideggeriano. Mo’ lo spirito del tempo presuppone la battuta di Dionigi di Siracusa, che non poteva fare due passi in giardino senza trovarsi tra le fette un Platone e pensò di sicuro: i filosofi ci hanno scassato la mentula. Chi ha un partito rincorre un cantante, quindi. Serve un Vecchioni che appoggi i nostri ideali, un J-Ax che corrobori, un Jovanotti che rappi qualche slogan ripetibile. In questo Berusconi è all’avanguardia, perché scegliendosi artisti di genere come Apicella è un passo avanti nel postmoderno. Si può ridere di Apicella e Berlusconi e si farà il loro gioco. Ma gli altri non hanno capito e quindi vanno a caccia di cantanti. Un Bennato Edoardo, un Enrico Ruggeri, tornerà anche Morgan e dal suo dramma umano tirerà fuori un inno di speranza, vedrete. I cantanti sono nella posizione di forza, sono i nuovi teorici della società liquida ma con qualche sogno a mezz’aria. E lo sanno, infatti sono più difficili da raggiungere dei politici. Se cerchi Sandro Bondi con due telefonate trovi il suo cellulare, se cerchi Cesare Cremonini devi mandare mail per due settimane ad addetti stampa che sembrano funzionari del Pcus. E poi abbiamo Fiorella Mannoia, che sul Fatto della settimana scorsa parlava a Sandra Amurri della sua arte, e anche un po’ di politica. Un po’ che di più non sta bene. Da signora di classe, da nuova eroina del Pd con il cambio automatico e un grande comfort di marcia. Noi la preferivamo quando cantava il Pescatore con Pierangelo Bertoli. Ma il mondo ha bisogno di teste.

U

Rolling Stones

Cronache dall’esilio scosso molto successo, venduto milioni di dischi. Ma i nostri contratti discografici prevedevano diritti d’autore molto bassi. Scoprimmo che all’interno della gestione c’era un tizio che vantava i diritti su tutto ciò che facevamo, sia per il passato sia per il futuro». Sottolinea Bill Wyman: «Eravamo sempre indebitati perché il denaro volava letteralmente via dalle nostre mani. Nessuno di noi, ovviamente, aveva pagato le tasse: credevamo ci fosse un accordo e che qualcuno le pagasse per noi. Purtroppo non era così, e se fossimo rimasti a Londra ci avrebbero arrestati». «Lavoravamo a qualsiasi ora, nell’arco della giornata», ricorda Charlie Watts. Così i pezzi del disco prendono forma che è un piacere, nelle cantine fradicie d’umidità che fanno perdere l’accordatura alle chitarre. L’attrezzatura, ogni tanto, smette di funzionare; le luci saltano e scoppiano piccoli incendi. Il pianoforte viene sistemato in una stanza, la chitarra acustica in cucina dove il suono, grazie alle piastrelle, è ottimo. Un’altra stanza ospita gli ottoni, e nello studio

principale trovano alloggio la batteria di Charlie Watts e l’amplificatore di Keith Richards. Anche Bill Wyman suona il basso lì, ma il suo amplificatore è posizionato in corridoio. Ogni Stone, sceglie il posto migliore con l’acustica migliore. Così come i musicisti aggiunti: il trombettista Jim Price, il sassofonista Bobby Keys, i pianisti Nicky Hopkins e Ian Stewart. Keith suona da dio, Mick canta come mai in vita sua, Bill, Charlie e Mick sono ingranaggi a orologeria. Quei mesi di jam sessions, fruttano brani che s’intitoleranno Ventilator Blues, Tumbling Dice, Happy, Sweet Virginia… Composizioni che sanno d’America, per dare un calcio all’Inghilterra ingrata. Si mangia sempre nel tardo pomeriggio, seduti attorno a un lungo tavolo. Fra una portata e l’altra, si fuma marijuana sorseggiando champagne, bourbon whiskey, beaujolais. E poi c’è la cocaina, procurata da Keith. Non si nasconde nulla. Tutto avviene alla luce del sole. Poi (voce fuoricampo di Keith Richards), «arrivarono il freddo e l’autunno. E noi avevamo tutto quel materiale inciso in un camion e in una cantina. Io e Mick ci guardammo dicendo: “Le nostre risorse sono finite. E anche quelle degli altri”. Credo fosse una sensazione comune. La conclusione fu: “Ecco, ce l’abbiamo fatta”».

Quando Adelina Patti debuttò alla “Pergola” arcello de Angelis, storico e critico della musica milanese di nascita ma fiorentinissimo d’indole, sa sempre allettare i suoi lettori con primizie succulente. Accadde con i saggi di estetica (Mazzini, Leopardi e, soprattutto, Giannotto Bastianelli, compositore e critico di punta nell’Italia d’inizio Novecento, figura originale e tragica, sulla quale Suso Cecchi d’Amico aveva pensato di scrivere una sceneggiatura), accadde e accade con le indagini sulla vita operistica a Firenze tra la prima metà del Settecento e l’inizio del secolo scorso. L’ultimo tassello di questo scavo indomito e proficuo ha da poco visto la luce nella benemerita collana Storia dello spettacolo diretta da Siro Ferrone per Le Lettere: Il melodramma e la città. Opera lirica a Firenze dall’Unità d’Italia alla Prima guerra mondiale consta di 608 pagine (143 delle quali riservate a bi-

M

di Jacopo Pellegrini bliografia e indici) e costa la cifra non indifferente di euro 58,00. Ma se, come Umberto Eco e, si parva licet, il sottoscritto, siete appassionati di elenchi e cataloghi, allora la preziosa cronologia (da pag. 75 a 220) delle opere e degli oratori eseguiti tra il 1865 (Firenze capitale) e il 1915, col suo generosissimo apparato di note (238 pag., 48 le testate giornalistiche compulsate), stimolerà la salivazione e aguzzerà l’ingegno vostri. Quante informazioni nuove: il debutto italiano di Adelina Patti, il maggiore soprano del secondo Ottocento, va retrodatato d’un anno, dal 1866 al ’65, quando ella si esibì alla Pergola in Sonnambula, Barbiere e Lucia; già dal 1893, al Pagliano (oggi Verdi), Gemma Bellincioni sfoggia nella Traviata quelle «toilettes principesche» di foggia moderna, che ai tempi

della prima veneziana (1853) erano state scartate in pro di meno provocatori abiti Luigi XIV; lungo gli anni Settanta il basso buffo e impresario Giuseppe Natali, al Piazza Vecchia, riesuma le «antiche opere buffe» di Cimarosa, Guglielmi, Paër (ne parlò anche Hanslick, il critico viennese), mentre i coniugi Tiberini (Angiolina e Mario, celebre tenore verdiano) tengono in vita uno spartito rossiniano fuorimoda, Matilde di Shabran. Come nel resto d’Italia, imperano prima il grand opéra francese (in traduzione) e l’opera ballo italiana, poi la Giovane Scuola di Puccini, Mascagni & C.; eppure, il capoluogo toscano può vantare una piccola febbre mozartiana con vari Don Giovanni e, addirittura, un allestimento di Nozze, due di Così fan tutte. In questo mezzo secolo sorgono ovunque nuovi

spazi, il pubblico s’allarga, il repertorio si stabilizza, i teatri, ancora gestiti in regime impresariale, patiscono guai finanziari (in certi casi è questione di contributi pubblici, le cosiddette «doti»: nihil novi sub sole, difatti sempre de Angelis dà in contemporanea alle stampe, presso Lim di Lucca, Si chiude. Anzi, si apre! Cronache musicali di «poveri» teatri dal 1960 ad oggi); e se Firenze perde importanza (niente prime assolute di rilievo), vi maturano tuttavia esperimenti interessanti, primo fra tutti il «teatro a repertorio» (20 titoli) realizzato nel 1876-77 tra la Pergola e il Pagliano dall’impresario Scalaberni. Spunti per ricerche, notizie, aneddoti, curiosità; il solo neo di questo librone è il numero non indifferente di refusi: Marcello è un cane da tartufi bibliotecari e archivistici, non un puntiglioso revisore di testi. Ha bisogno di redattori dediti, e stavolta gli sono mancati.


MobyDICK

arti Mostre

i eravamo lasciati pochi mesi fa, con la mostra di Cima da Conegliano e Cima ritroviamo ancora, in questa piccola, umile, ma fruttuosa occasione espositiva, che ci permette di tornare a studiare questa terra di confine, anche culturale, tra Veneto e Friuli. Così, mentre Milano, tragicamente pompier, issa in pompa magna il ditone imbecille di Cattelan (ah che nostalgia del pollicione divertente di César!), nullità tornita in milionario marmo di Carrara, che ha provocato eroici viaggi di recupero dell’artista offeso, da parte del melodrammatico assessore meneghino, e una battuta memorabile dell’assessore leghista Massimilano Orsatti, che neanche Campanile - «se vogliano accreditarci come capitale mondiale dell’arte dobbiamo sì saper mediare ma anche accettare quello che non ci piace», con il ditone direttamente in loco, ecco che in altri parti del nostro Paesino, zone che paion paradisiache, anche perché la pianta marcia del leghismo non ha ancora attecchito, si può assistere a questa celebrazione intelligente e grandiosamente modesta, in una mostra di proporzioni non marmoree né gagosiane, in cui però s’ammirano piccoli gioielli quasi campestri e si rivalutano artisti di tutto rispetto, come questo Giovanni Martini, come aveva già intuito il conoscitore da tartufi Cavalcaselle. Che scrive per lui, di queste intense figure stupefatte e come ritagliate nel sasso paesano della fede, altro che marmo in plastica milanese!: «come fossero figure di carta tagliate con le forbici». Per cui non stupisce più - e la mostra curata con amore e competenza, da Luca Majoli e Anna Maria Spiazzi, ce lo fa capire bene, che questo sensibile artista, che un tempo si pensava uscito dall’ambito vivarinesco, soprattutto di Bartolomeo, ma che invece risente molto già della moderna collusione con Cima e altri belliniani che potesse essersi occupato anche di scultura. Come qui si può ben confrontare, paragonandolo a quell’altro interessante «falegname» della pietas religiosa, che va sotto il nome del Bellunello, studiato in catalogo dall’esperta Lucia Sartor,

C

Design

2 ottobre 2010 • pagina 15

Quel meticciato

rinascimentale tra Veneto e Friuli di Marco Vallora sotto l’egida di Caterina Furlan. E com’è rivelatore, in quel tornito tempietto codazziano di diaspro della pala di Spilinbergo, ove il chiarosciuro sciabola le fisionomie e i panneggi, con un elegante scure cromatica, da boscaiolo ingentilito, com’è credibile e commovente quel gesto istintivo del Bambino al tempio, che resiste al destino di circoncisione fatale, appendendosi alla barba bianca del Sacer-

dote, e frugandogliela, come alla ricerca di un nido di cardellino, animale così frequente in queste contrade di simboli. La mostra è presto spiegata e visitata, anche se nell’intorno attendono proficue occasioni di visite, davvero soprendenti, in paesi che hanno nomi accattivanti, o curiosi, come Corbolone (e qui un magnifico Bonifacio de’ Pitati, tra Carpaccio e Giorgione), Concordia Sagittaria, Navolé,

Settimo di Cinto Caomaggiore... e basterebbe quel nome a invogliare al pellegrinaggio. E certo bisognerebbe almeno giungere sino a Mortegliano, per visitare quel vivissimo altare scolpito, sacra pasticceria lignea, attribuito al Martini, e degno di competere con le gran macchine scolpite di Pacher e dei maestri tirolesi: un prodigio solidificato. Presto spiegata, la stimolante iniziativa, perché tra fascinosi esempi (una volta tanto essenziali) di miniature, codici, sigilli, lettere, breviari, piviali, calici, croci astili e formidabili croci pettorali, di manifattura veneziana, e infine statuti illuminanti del territorio di Portogruaro, si capisce appunto il perché, non solo artistico ma anche storico, di questa mostra. Dedicata all’incrocio di confine, fra la terraferma lagunare di Venezia (che ha bisogno d’un porto di sfogo) e il Friuli occidentale, leggi Portogruaro, la quale, trasformandosi anche urbanisticamente in una cittadina sussiegosa e rimpolpata, mette a disposizione il suo territorio, le sue ricchezze e i suoi artisti, d’ambito friulano, che risentono di nomi cari alla storia dell’arte, come Domenico e Gianfrancesco da Tolmezzo, Pomponio Amalteo, sino al grandioso Pordenone, che qui fa da ombra lontana e tumultuosa. È dunque come se le acque nervose e nordiche, graficamente irrigidite, del Tagliamento, si incrociassero qui (più che scontrarsi) con quelle più placide e luminose dell’arte lagunare, producendo dei sinceri, umili piccoli capolavori, sommessi ma sorprendenti, di meticciato culturale. Non c’entra nulla: ma come preferiamo il ditino del Bambino di Martini al ditone di Cattelan.

Rinascimento tra Veneto e Friuli, Portogruaro, Collegio Marconi, fino al 17 ottobre

Cinquant’anni, li dimostra ed è sempre più bella suoi anni sono cinquanta, li dimostra, ed è sempre più bella! La sedia progettata dal danese Verner Panton è il simbolo di quel favoloso periodo, alla fine degli anni Cinquanta, durante il quale il designer, a bordo del suo furgoncino Volkswagen, perlustra in lungo e largo l’Europa, alla ricerca di nuove ispirazioni; torna in Svezia e decide di rivoluzionare tutto ciò che aveva visto. Forme sinuose, totalmente prive di angoli, colori accesi, tecnologia sperimentale, diventano gli strumenti del suo lavoro. Nel 1958, la Cone Chair, la cui forma ricorda chiaramente quella di un cono gelato, è cosa mai vista nell’universo contemporaneo del design, ed è subito successo. Da allora progetta e realizza un’inverosimile quantità di oggetti, lampade, sedute, tappeti, moduli abitativi. Le sue creazioni confluiscono in modo quasi ossessivo nella composizione degli interni: le Visiona, allestimenti per la società chimica Bayer a Colo-

I

di Marina Pinzuti Ansolini nia, la sede della Spiegel ad Amburgo, il ristorante Varna ad Aarhus, la sua stessa casa a Basilea. L’atmosfera quasi claustrofobica, psichedelica e spaziale ci rimanda a quell’idea di mondi futuri immaginati con la fantasia degli anni Settanta. Pareti e soffitti, illuminati da luci basse e calde, si fondono attraverso elementi plastici in un’orgia avvolgente di colori forti: blu, rosso, viola, arancio. Non si conosce con certezza la data di nascita della celebrata Panton Chair; il progetto dovrebbe risalire agli anni ‘59/‘60. L’idea era quella di realizzare una seduta basculante in plastica, attraverso un unico stampo. La Vitra è interessata all’oggetto sin dai primi anni Sessanta e solo dopo un periodo di gestazione lunghissimo, basato sulla ricerca del materiale più idoneo, riesce a produrla, nel 1967. Le prime serie furono realizzate in poliestere e fibroresina, quindi fu la

volta del poliuretano espanso, ma il risultato non sempre eccellente in termini di resistenza, comporta il ritiro della sedia dalle vendite alla fine degli anni Settanta. In seguito è lo stesso Panton a non darsi per vinto e la produzione riprende alcuni anni dopo, con altri procedimenti più efficaci ma costosi. Oggi la Vitra produce la Panton Chair in versione più economica, grazie al procedimento di stampa a iniezione, raggiungendo così il traguardo desiderato. Nel 2006 nasce una versione Junior, dedicata ai bambini, identica all’originale ma di un quarto più piccola. Per festeggiare i cinquanta anni di quest’icona del design, lo spazio Flagshipstore Molteni & C-Dada di Milano, ha presentato, oltre a una panoramica dell’opera dell’artista, venti interpretazioni della Panton Chair per opera degli studenti dell’International School of Monza. Juta, cd, vasetti di plastica, cartone, specchi, tappi, coperchi, giocattoli trovati sulle spiagge danno nuova vita alla sedia diventata negli anni una delle più famose nel mondo. Le opere, nel segno dell’ecosostenibilità, saranno battute all’asta, prima di Natale; il ricavato a favore dell’«Africabougou», per lo sviluppo dei villaggi nell’Africa sub Sahariana.


MobyDICK

pagina 16 • 2 ottobre 2010

Protagonista indiscussa della grande stagione del post-figurativo e dell’astrattismo, la sovrintendente alla Galleria nazionale d’arte moderna (a cui Rachele Ferrario ha dedicato una biografia) è rimasta celebre per l’avventuroso salvataggio del patrimonio artistico durante l’occupazione nazista di Roma. Ma è la resistenza della Bucarelli all’offensiva culturale comunista che merita soprattutto di essere ricordata…

il paginone

La guerra fred

di Mauro Canali singolare che solo oggi il complesso percorso professionale ed esistenziale di un personaggio come Palma Bucarelli, sovrintendente alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna negli anni dal secondo dopoguerra al 1975, protagonista indiscussa della grande stagione artistica del post-figurativo e dell’astrattismo, abbia trovato una sistemazione critica che consente di decifrare l’importante ruolo che questa vera e propria «regina di quadri» ha avuto nella recente storia della nostra cultura. Conoscevamo di lei molte vicende, trasmesseci da chi l’aveva conosciuta, e anche dal suo prezioso diario, il quale, ancorché limitato a pochi mesi della sua vita - il semestre a cavallo della liberazione di Roma del giugno 1944, - aveva tuttavia consentito, grazie alla preziosa curatela di Lorenzo Cantatore, di tracciare un primo provvisorio bilancio della vita intensa e laboriosa di questa donna straordinaria, di quanto le debba la storia artistica del Paese con i suoi rinnovati valori estetici.

È

Io credo che il momento più significativo della vita della Bucarelli non sia stato tanto quello, pure importante, da lei vissuto durante la guerra e l’occupazione nazifascista di Roma, in cui rientrano le rischiose vicende relative all’avventuroso salvataggio del patrimonio artistico della Galleria Nazionale d’Arte Moderna dai disastri della guerra prima, e dalle razzie dei tedeschi in fuga poi, quanto quello del secondo dopoguerra, legato alla stagione della «guerra fredda culturale», filiazione della più vasta «guerra fredda» esplosa tra mondo occidentale e mondo comunista. Un conflitto che la vide bersaglio privilegiato del fuoco incrociato con cui i settori artistici legati al Partito comunista tentarono d’impedirne l’opera diretta a far circolare nel nostro Paese «l’arte nuova». Che poi non era altro che l’insieme di quelle tenanno III - numero 35 - pagina VIII

denze estetiche, germinate nei primi decenni del secolo XX dalla grande stagione delle avanguardie artistiche, che in Italia avevano vissuto per venti anni una vita asfittica, emarginate dai prevalenti valori estetici imposti dal regime fascista. Credo che le vicende professionali ed esistenziali di Palma Bucarelli, attenta-

Guttuso e Trombadori, guardiani dell’estetica realista, furono i suoi acerrimi nemici. Del resto Umberto Terracini non esitò a definire «indegna sozzura» un’opera di Burri da lei acquisita per la Gnam

mente esaminate da Rachele Ferrario in Regina di quadri. Vita e passioni di Palma Bucarelli (Mondadori, 20,00 euro), vadano lette come una grande tragedia politica. La tragedia politica di un Paese diviso su tutto, anche, e soprattutto, sul terreno della cultu-

ra. Assistiamo infatti, dal 1947 alla fine degli anni Cinquanta e oltre, a una vera e propria battaglia condotta da un Pci che, con Togliatti alla testa, tenta di condizionare il dibattito artistico ed estetico in atto con l’obiettivo di tradurre nel concreto le tesi gramsciane sulla egemonia culturale, e perciò intollerante nei confronti di quei settori della cultura italiana che sfuggono al suo controllo. Battaglia che non di rado assume aspetti grotteschi, in cui parlamentari autorevoli del Partito comunista non esitano a trascinare sul terreno della lotta politica questioni attinenti al dibattito estetico, fino a ricorrere addirittura a interpellanze parlamentari. In nome di un richiamo al buonsenso artistico e ai valori estetici delle masse popolari, si

tenta in realtà di affermare il controllo del partito sulle questioni estetiche, la sudditanza dell’arte alle esigenze della politica. E un momento di questa battaglia per l’egemonia culturale è rappresentato senza dubbio dai tentativi posti in atto dal Pci per giungere al controllo delle istituzioni culturali.

Solo in questa prospettiva assume un significato il conflitto avviato dal Partito comunista contro la Bucarelli, il cui interesse per l’astrattismo americano dei Pollock, dei Motherwell, dei Baziotes, la rende ancor più ai loro occhi un nemico politico. Così può accadere che Umberto Terracini giunga a definire, nel corso di una interpellanza parlamentare, un’opera di Burri, acquistata

dalla Galleria nazionale d’arte moderna, «vecchia, sporca e sdrucita tela da imballaggio», «indegna sozzura raccattata dalla gerla di uno spazzaturaio». Tutto ciò quando Burri era ormai un artista affermato, e le sue opere erano ormai esposte nei più importanti musei come il Moma e il Guggenheim di NewYork, l’Istituto d’Arte di Chicago e l’Istituto Carnegie di Pittsburgh. Una battaglia di retroguardia, tuttavia, quella ingaggiata dal Partito comunista, in cui si distinsero i due guardiani dell’estetica comunista, Trombadori e Guttuso. Ma la guerra non si svolse solo verso l’esterno, contro quegli uomini di cultura e artisti considerati avversari politici, essa si sviluppò anche come guerra intestina, poiché i giovani artisti, legati al Pci, quando cominciarono a viaggiare all’estero e si trovarono a contatto con le tendenze estetiche delle avanguardie, si resero rapidamente conto di quanto fossero vecchi e superati i valori estetici dell’arte figurativa e neocubista sostenuta da Guttuso. Ricorderà lo scultore Pietro Consagra, an-


2 ottobre 2010 • pagina 17

dda di Palma dato a Parigi, nel Natale del ’46, insieme ad Accardi e Sanfilippo, in una sorta di viaggio-premio organizzato proprio dal Pci, che: «Andammo con il cuore in gola… e trovammo la chiave che cercavamo». A Parigi, Consagra incontra Brancusi, Pevsner e Arp, e comprende tutti i limiti soffocanti in cui l’estetica di partito irretisce la sua ansia di ricerca. Al loro ritorno, i tre consumano l’inevitabile crisi dal partito, e, fatta eccezione per Accardi, finiscono progressivamente per allontanarsene per non farvi più ritorno. Ma la via era stata ormai aperta. Qualche mese dopo sarà la volta di Perilli, Dorazio e Guerrini, che andranno a Parigi con un viaggio organizzato dalla federazione giovanile comunista e torneranno con i loro precedenti valori estetici sconvolti, tanto da unirsi subito agli altri tre, ai quali si era nel frattempo aggiunto Turcato, per dare vita al gruppo e alla rivista Forma 1, in netta antitesi, questa volta, con una dialettica tutta interna al Pci, con gli artisti figurativi raccolti dietro a Guttuso. Insomma è una vera guerra fratricida che, da parte sua, la Bucarelli alimenta, impegnata com’è a far conoscere le grandi novità estetiche che vanno maturando all’estero, e ad allestire, infaticabile, mostre come quella del 1946 sulla Pittura francese d’oggi, che finiva inevitabilmente per rappresentare un richiamo irresistibile per le impazienze e la fame di novità delle giovani generazioni degli artisti. Si consumano anche amicizie di lunga durata, e molti di loro si troveranno a troncare i rapporti con Guttuso, un vero «Papa rosso» dell’estetica di partito. Naturalmente Togliatti in persona non esita a schierarsi, a far sentire la sua voce, e, con un articolo apparso su Rinascita a firma Roderigo di Castiglia, nome de plume dietro cui si cela, bolla l’arte astratta definendola l’espressione degli sciocchi.

Ma la Bucarelli, anche quando, come agli inizi degli anni Sessanta, si muove per acquisire grandi capolavori dell’arte impressionista, si trova la via sbarrata dai soloni del l’estetica del Partito comunista, i quali le rimproverano, come fa di nuovo Antonello Trombadori, di trascurare l’arte italiana. Si tratta ovviamente di una menzogna, poiché mai come in questo periodo la Galleria nazionale d’arte moderna è stata impegnata ad acquisire importanti opere di Turcato, Capogrossi, Fontana, Birolli, Consagra,

Afro, Savinio, Vedova, Scipione; insomma il meglio dell’«arte nuova» italiana. È in questa circostanza che Trombadori accuserà la Bucarelli di esterofilia, cioè di trascurare l’arte contemporanea italiana. Replicherà la Bucarelli che «l’accusa di esterofilia da parte di un comunista era decisamente insolita. Per anni il fascismo aveva praticato e promosso una politica culturale autarchica e ora proprio Trombadori mi rimproverava di essere troppo aperta alle novità straniere: un assurdo». Ma la faziosità della lotta politica

lei fino alla fine dei suoi giorni. La successiva mostra allestita per esibire questi capolavori da poco acquisiti è l’occasione per il rinfocolarsi delle polemiche, che, oltre che provocare il definitivo blocco, da parte del ministero, dell’erogazione di altri fondi, si spingono fino alla grottesca richiesta da parte di alcuni settori politici della stampa e del Parlamento della destituzione o, addirittura, dell’incriminazione della Bucarelli. Suo acerrimo avversario si mostra sempre Antonello Trombadori che nella circostanza si chiede

Tre opere acquisite per la Gnam da Palma Bucarelli: “Nudo sdraiato” di Modigliani, “L’Arlesiana” di Van Gogh e le “Ninfee rosa” di Monet (foto: Galleria nazionale d’arte moderna, su concessione del Ministero per i Beni e le Attività culturali). In basso l’ingresso della Galleria a Roma e la copertina del libro dedicato alla Bucarelli. Nella pagina a fianco: un’immagine della sovrintendente, l’autoritratto di Guttuso e Antonello Trombadori visto da Cagli operai, «pensando che si trattasse di pezzi di lamine di ferro staccatesi dalle casse, stavano per buttare via». La Bucarelli progettò di allestire una mostra della collezione Guggenheim nella sua Galleria, andando incontro a mille pretestuosi ostacoli burocratici, e

Anche quando si mosse per assicurarsi capolavori dell’impressionismo fu rimproverata di essere troppo aperta alle novità straniere. Ma quando espose Piero Manzoni fu scandalo anche tra i cattolici «se comprare pittura impressionista negli anni Sessanta non sia velleitario», come se una Galleria d’arte moderna non abbia il compito istituzionale di orientare la propria attenzione a tutte le tendenze estetiche e a tutti i periodi.

trasferita sul terreno artistico non conosce limiti, e quando, con l’aiuto degli amici Argan e Lionello Venturi, la Bucarelli riesce a farsi assegnare un fondo di 500 milioni per l’acquisto di alcune opere d’arte impressioniste e post-impressioniste, e ad assicurare alla Gnam capolavori indiscussi come il Sentiero tra le rocce di Cézanne, le Ninfee rosa di Monet, il Nudo sdraiato di Modigliani e l’Arlesiana di Van Gogh, la polemica contro di lei, capeggiata dal solito Trombadori, è talmente feroce da impedire il nuovo acquisto che la Bucarelli si stava apprestando a portare a termine, cioè la Donna in piedi di Manet. Il rammarico per questo importante acquisto mancato sarà vivo in

Ma la Bucarelli non si trovò a combattere solo contro i guardiani dell’estetica comunista. Molti attacchi le giunsero anche dai settori cattolici più retrivi. Sono esemplari al riguardo le vicende legate alla prima Biennale veneziana del dopoguerra del 1948, che accolse tutte le opere di scuola astrattista e surrealista che Peggy Guggenheim aveva raccolto in vent’anni di attività di gallerista e di mercante d’arte. Spesso si trattava di artisti le cui opere erano pochissimo conosciute, o del tutto ignote, in Italia.V’erano opere di Max Ernst, di Jean Arp, dell’allora sconosciuto Jackson Pollock, di Giacometti, Mondrian, Mirò, Magritte, Duchamp, i mobiles di Alexander Calder, uno dei quali, come racconta nella sua godibilissima autobiografia la stessa Peggy Guggenheim, gli

al veto finale del ministro Gonella, che, dopo aver visto le opere alla Biennale, s’era convinto che si trattasse di «arte degenerata». Il lavoro di Rachele Ferrario dedica una particolare attenzione all’altro scandalo della storia delle mostre, quello che chiama in causa un altro grande artista italiano, Piero Manzoni, morto giovane, e oggi presente con le sue opere in tutti i più importanti musei del mondo. L’allestimento di una sua personale da parte della Bucarelli solleva un’ondata di proteste da parte del mondo politico, soprattutto cattolico e conservatore, con le immancabili interpellanze parlamentari e relativi strascichi giudiziari. Si vuole negare la legittimità di esporre il celebre barattolo di Piero Manzoni dal titolo Merda d’artista, rinunciando a capire quanto di provocatorio vi fosse in esso. Lo spiegherà molti anni dopo la stessa Bucarelli, per la quale lo scandalo sollevato era

il risultato «di pudore e di cattiva coscienza fuori luogo». «Quello delle “scatolette”- commenterà la Bucarelli - fu un fatto morale, legato al clima del momento». «I quadri si compravano a occhi chiusi? A scatola chiusa? E allora Manzoni disse: bene, io vi do la scatola chiusa, con dentro la m…… d’artista».

I due nemici della Bucarelli, come si è detto, furono senza dubbio Trombadori e Guttuso, per motivi essenzialmente ideologici. Sostenitori dell’arte figurativa i due, decisamente volta alle nuove tendenze dell’arte astratta la prima, i duellanti svilupparono un conflitto che durò decenni, fino a giungere qualche volta nelle aule giudiziarie. Con accuse apparentemente razionali, ma che mal celavano i profondi motivi ideologici. Con molta onestà intellettuale, Duccio Trombadori, il figlio di Antonello, molti anni dopo ammetterà che la questione che divideva i due era di natura ideologica: «Palma guarda all’arte americana, segue l’astrattismo sulla linea di Greenberg, Rosenberg e Venturi. La critica di mio padre, invece, soprattutto negli anni Cinquanta, è velata dall’ideologia di sinistra e dal realismo». Un modo elegante di ammettere che si trattò di un conflitto politico mascherato da contrasti estetici, di una «guerra fredda culturale», un aspetto non secondario della più vasta e più tragica «guerra fredda» che divise per un cinquantennio il mondo.


Narrativa

MobyDICK

pagina 18 • 2 ottobre 2010

libri

Franco Cordelli LA MAREA UMANA Rizzoli, 165 pagine, 18,00 euro

iù degli altri termini, di parole amate e accarezzate dallo scrittore, la rammemorazione è quello giusto per entrare nelle pagine di questo recente romanzo di Franco Cordelli, La marea umana. Una parola che non concede svaghi ma inchioda il lettore nei termini in cui il testo si declina, più che per l’ossessione del tempo, a cui le pagine danno ampio respiro anche di breve cronaca temporale, per il pensiero del tempo come flusso ininterrotto e come discontinuità, un tempo che nella sua espressione più evidente si fa corpo, marea umana. Un vortice di nomi e persone che dal più banale dei ricordi, il ricordo della scuola e del liceo, la fotografia che emerge d’improvviso, ti travolge costringendoti alla rammemorazione. La marea umana, di cui andremo a tracciare il plot, sfuggente come sempre nell’opera di Cordelli, non è solo (e banalmente) un testo del ricordo. È un feroce corpo a corpo, per questo il denso monologo dell’io-narrante, col tempo, il ricordo, la morte e la dimenticanza. Proprio su questa separazione tra morte e dimenticanza, sul valore della separazione fisica, l’allontanamento, torna spesso il ragionamento del protagonista. Cos’è la morte se non l’oblio anche quando l’altro fisicamente ancora esiste? La storia comincia infatti su questa rapida successione: il protagonista riceve una telefonata da una vecchia compagna di scuola,Valeria. Il ricordo è più che appannato, l’io-narrante fatica a riprendere le immagini del passato, chiaramente le fugge per una sua speciale ritrosia, eppure Valeria lo attrae in trappola poiché confessa che la telefonata non è destinata a lui, ma a un altro compagno di classe Azio. Azio o Aki , due nomi per un personaggio solo, è il compagno a cui il protagonista era legato. Valeria lo sta cercando per dargli la notizia della morte di Donata, la ragazza

P

Corpo

a corpo con il tempo I topoi della scrittura filosofica attraverso la forma-romanzo. Nella “Marea umana” di Franco Cordelli

Il bibliofilo

di Maria Pia Ammirati

che Azio aveva frequentato come fidanzata. La marea umana viene a formarsi da qui, quella umanità che sembra dimenticata ma appartiene alla storia di tutti, al passato definito come mare, materia consistente e sfuggente. «Su questa Valeria lontana non c’è che la fotografia di Aki. Siamo un gruppo di persone, tutti studenti. Dopo l’esame di maturità avvenuta nell’anno 1962, è la cena d’addio di una comunità… benché perduta, destinata a influenzare la vita di ciascuno». La marea umana avanza anche per volontà del protagonista che si mette alla ricerca di Aki. Nel ricercare, il variopinto mondo della marea si colora di persone assenti, morte o semplicemente partite, allontanatesi. Aki, ad esempio, è partito lasciando l’Italia per l’Indonesia («perché Aki era partito, perché aveva abbandonato l’Italia, aveva venduto il suo bene?»). La ricerca innescata da Valeria, una persona banale, quasi una voce, diviene quindi il pretesto di un viaggio, anche letterale, dentro le ossessive domande che il protagonista del romanzo rivolge a sé. Prima d’ogni cosa, perché il tempo si maschera da reticente e poi d’improvviso (con una punta velenosa lo scrittore cita l’avverbio come amato dai narratori) svela le clamorose magagne, ovvero i ricordi, il passato, l’ingombro delle persone? Il testo procede fitto nelle domande ma a differenza della sua materia metafisica, è un testo pieno di ganci reali, intanto dettati da una ferrea cronologia che parte da quella fotografia del 1962 e procede per tappe («il 1966 era uno spartiacque… è l’anno della morte di quello studente»; «nel 1989 io e Rita ci demmo appuntamento a piazza Euclide»; «Ruben trascorse con me il giorno di Santo Stefano del 2006»). Poi sostanziati da una domanda ricorrente e fondante sulla necessità di scrivere: «Perché tanto accanimento a raccontare quanto non si può raccontare o, peggio, è inutile raccontare?». Il romanzo di Cordelli lucidamente torna sui topoi della scrittura filosofica, lo fa servendosi della forma romanzo, come lo scrittore l’ha sempre immaginata, non una mera concatenazione di tempo-spazio. Non è certo la vituperata morte del romanzo a cui si allude, ma a qualcosa di più grave: la separazione dal mondo, a cui aderisce la mimesi della letteratura.

Ottone Rosai, un teppista a via Toscanella

a figura del teppista esercitò su parecchi intellettuali dei primi decenni del Novecento un fascino ambiguo e pericoloso, tanto da arrivare in seguito a coincidere con quella dello squadrista di stampo fascista. Furono soprattutto i futuristi, memori delle direttive del loro capofila Marinetti che concepiva la guerra come «sola igiene del mondo», a venire attratti, oltre che dalle manifestazioni legate al dinamismo dell’epoca industriale rappresentato dalla velocità delle macchine, anche da un’immagine che incarnasse il rifiuto radicale di ogni passatismo di derivazione borghese. In tale clima oltranzistico che sfociò in un’accesa campagna a favore dell’interventismo, il pittore Ottone Rosai aderì al gruppo di intellettuali fiorentini che si riunivano attorno ai tavolini del mitico caffè delle Giubbe Rosse e che, influenzati dalla lezione di Marinetti dopo averla a lungo osteggiata, fecero capo alla rivista Lacerba, fondata da Papini e Soffici nel 1913. L’autodidatta Rosai è, tra le varie figure del teppista proposte dalle avanguardie, senz’altro una delle più credibili e autentiche. Il pittore si era precedentemente immortalato in un Autoritratto

L

di Pasquale Di Palmo in figura di teppista e aveva pubblicato su Lacerba una fin troppo eloquente Canzone teppistica. Nel 1919 esce un volumetto che documenta l’esperienza vissuta sul fronte del Monte Grappa con i granatieri, dal titolo Il libro di un teppista. Lo pubblica Attilio Vallecchi, amico di Rosai, che si era improvvisato editore dopo aver stampato, nella sua tipografia, alcune delle più importanti riviste letterarie di inizio secolo, da Leonardo a Il Regno, da La Voce alla stessa Lacerba. Rosai riporta le vicissitudini che hanno contrassegnato la sua esperienza al fronte, le sue inquietudini di fronte all’inerzia di una guerra dai risvolti imprevedibili, la sua rabbia per i cosiddetti «imboscati» che si permettono di fare la morale a chi va a morire in trincea. La copertina può risultare fuorviante rispetto al contenuto del libro e per il suo indiscutibile fascino si può considerare come una delle più riuscite nella stessa produzione editoriale novecentesca. Sotto il nome dell’autore, riportato senza patronimico, figura il titolo che, a un cer-

Vallecchi ripubblica il diario dal fronte del Monte Grappa uscito nel 1919

to momento, anziché scorrere orizzontalmente, scende per mancanza di spazio: le ultime tre lettere precipitano verticalmente verso il basso, ricordando il procedimento irregolare delle parole in libertà futuriste e della scrittura infantile. E ai bambini o, addirittura, agli alienati rimanda anche il disegno sottostante che riproduce un uomo (il teppista del titolo?) che aggredisce con un coltello in pugno una donna elegante sul bordo di un sentiero dove un cane e un gatto stilizzati osservano placidamente la scena. Sullo sfondo si nota una casa alla cui finestra è esposta una bandiera italiana, unico riferimento al patriottismo e ai valori nazionalistici di cui il libro è impregnato. Come nel Kobilek di Soffici, Rosai adotta nel libro un procedimento narrativo di tipo diaristico e gli spunti vengono spesso offerti dalle lettere che il pittore spedisce a casa dal fronte. La casa editrice Vallecchi ripropone ora, nella collana «Avamposti», Il libro di un teppista (140 pagine, 10,00 euro) in cui appare anche Via Toscanella, originariamente pubblicato dallo stesso editore nel 1930. Si tratta di una serie di brevi prose di ambientazione perlopiù toscana, dai tratti popolareschi e bozzettistici che rinviano, non di rado, alle espressioni figurative dello stesso autore.


Personaggi

MobyDICK

a siamo sicuri di conoscere davvero Luigi Pirandello? Risposta, che forse a certuni parrà assai perentoria: no. Così geniale, così profondo e così complesso, Pirandello rischia sempre la sorte toccata a Franz Kafka, ossia d’essere ridotto a un’aggettivo. Kafkiano, pirandelliano. Appunto. In quel groviglio emotivo e artistico che fu la sua vita si addentra Matteo Collura (con Il gioco delle parti, Longanesi, 339 pagine, 18,60 euro), tra i migliori conoscitori dello scrittore di Girgenti. Non è, la sua, una biografia ortodossa. Salta di qui e di là, ma avendo sempre come perno l’intenzione di sviscerare e capire i tanti misteri di un uomo che «giocava» con le maschere e quindi con le molteplici identità dell’uomo. Vengono citati brani dalle sue opere, parti delle lettere, interventi giornalistici. Suscita senza dubbio profonda emozione la parte finale del libro ove si narra, pure con la verosimiglianza che deriva dalla conoscenza di ciò che «il maestro» disse e scrisse, la sua fine di uomo solo. Di uomo che ha dinanzi a sé un crocefisso e immagina che proprio quel grumo di dolore potrebbe essere Dio, quello e non altro. E poi le puntigliose raccomandazioni testamentarie: «Mi si avvolga, nudo, in un lenzuolo. E niente fiori sul letto e nessun cero acceso. Carro di infima classe, quello dei poveri. Nudo». Insistenza sulla nudità, che è poi essenzialità dell’essere umano, ritrovata libertà dagli orpelli sguaiati dell’omaggio, dell’ufficialità imbecille, dal chiasso mondano di chi non ha capito niente e magari pretenderebbe che uno come Pirandello fosse così come lui vorrebbe che fosse, ossia la più grande delle idiozie (non fu immune Benedetto Croce).

2 ottobre 2010 • pagina 19

ALTRE LETTURE

SE OMERO E GLI ALGORITMI SI DANNO LA MANO di Riccardo Paradisi

M

Già finita la mia vita? Questo pare dire il drammaturgo che sussurrava all’orecchio del figlio Stefano qualcosa che aveva a che vedere con l’«olivo saraceno» della sua terra natia, così angosciosamente associata alla pazzia della moglie e a un’infanzia dove aveva scorto buche simili ad abissi. E poi l’immagine dell’attrice Marta Abba, fresca e consolante, ma pure intrecciata al pudore e al coriaceo moralismo di chi la pensò e l’amò sempre. È lei la donna alla quale Pirandello confessa di «dover tutto». Il pensiero a lei, solo a lei, non certo a tanti altri, tantomeno a quelle «canaglie fameliche» e quei «parassiti dell’ingegno» dei quali si sentiva vittima. In buona parte, a proposito di questi omuncoli della politica e della critica, aveva ragione piena, anche se, come Collura scrive, Pirandello era vittima del complesso del perseguitato. Lui consapevole d’essere genio, dotato di forte autostima, ebbe a ragionare e a negoziare con tanti idioti conformisti. Scrisse, fieramente, a Marta un giorno: «I fischi degli idioti e dei nemici non mi farebbero nulla». Annota Collura: non sente più le martellate del fabbro, o del mondo, «lui non ode più niente. Finalmente può chiudere gli occhi, quest’uomo cui la vita ha donato senza risparmio l’impulso più potente nella creazione dei capolavori d’arte: l’infelicità». Sì, era infelice. Profondamente e vivacemente infelice. Lasciò incompiuto i Giganti della montagna, che lui considerava «orgia di fantasia… leggerezza di nuvole su profondità di abissi». Pensava, e lo

ogos non è solo il discorso, né si può intendere come semplice parola il Verbo che secondo Giovanni sta all’inizio di tutto. È inevitabile, se vogliamo recuperare il senso perduto del logos, paragonarlo ai numeri perché i loro destini si sono a tal punto intrecciati che l’uno non sarebbe esistito senza l’altro. È questa la tesi di Paolo Zellini nel suo Numero e logos (Adelphi, 449 pagine, 32,00 euro), due entità che appaiono insieme già nei versi di Omero,di cui si intuisce l’affinità nelle prime teogonie, nella tragedia antica e nella filosofia pitagorica.Il libro di Zellini scopre una fitta trama di analogie e corrispondenze tra concetti scientifici e formule sapienziali. Pensare al logos non si riduce a una vana evocazione di ombre, miti e tradizioni, ma porta a recuperare una costellazione di significati che appartengono alla scienza più avanzata.

L

Pirandello messo a nudo

Tra le sue indicazioni testamentarie, quella di essere avvolto senza abiti in un lenzuolo. Ed è così, nella sua essenzialità di essere umano, che Matteo Collura ci restituisce, in una biografia non ortodossa, il grande scrittore. Svelandone i misteri, la solitudine, la disperata infelicità di Pier Mario Fasanotti confidò a Marta, già alla prossima «diavoleria» letteraria. Ancora una volta la sua tormentata esistenza entrava nella sua fantasia: «Una donna rossa, di sogno… la felicità… con un poeta, pupazzo di pazza, che ha una moglie pazza… che lo affoga in un pozzo… la mia fantasia non è mai stata tanto fertile… ma l’anima mia è in un’ansia terribile… come in un vento che non so dove mi debba portare… Al porto della felicità? Ma quella moglie pazza… Forse la morte è vicina». Lo era, infatti. La sua opera è stata sempre «uno strappo nel cielo di carta». Sondava l’anima degli uomini, spesso con cristianissima pietà: e questo pochi lo compresero, in specie coloro che misero in dubbio, da ignoranti, «la moralità dell’opera sua». Pirandello era un cristiano, di netta marca evangelica, che si scagliava contro gli eccessi guerrieri di una certa cristianità. «Io sono religiosissimo» scrisse un giorno a Silvio D’Amico «sento e penso Dio in tutto ciò che penso e sento». Diceva e ripeteva di «vendicarsi d’essere nato». Nel 1935 lo aveva ribadito a Stefano, a proposito della «stupidità e volgarità degli uomini». «Anche tu, figlio mio, ne stai facendo esperienza; e mi fa piacere sentirti dire che seguiti a lavorar contento come se nulla fosse. La verità è che ci vendichiamo, scrivendo, d’esser nati». Certo, la gran folla degli stupidi s’assiepava fuori delle sue stanze. Ma lui avvertiva anche la necessità morale di farsi sentenza contro se stessi, per il fatto che uno deve prendere coscienza dei delitti commessi dalla propria immaginazione. E punirsi per questo. «Delitti anche innocenti… quante cose av-

vengono nella vita, dentro di noi! E poi più nulla. Il gorgo si richiude, e tutto torna uguale». Nel dramma Non si sa come emerge la novità filosofica della «libertà come condanna». L’uomo non ha solo la possibilità di rimuovere dalla coscienza i ricordi abietti, ma anche di autocondannarsi. Uno dei personaggi, a furia di ragionare sopra i delitti che si consumano nel chiuso dell’animo, finisce per darsi in pasto alla follia. Tradimenti pensati, pazzia come spazio quasi necessario se non liberatorio: ecco i temi pirandelliani che non nascevano certamente a caso, avvinghiati com’erano alla sua vita di uomo, di marito sfortunato, di padre ingombrante, di mancato amante-compagno di una donna che gli avrebbe potuto offrire ciò che mai ebbe: la tenerezza, l’accudimento, la sensualità candida e «sapiente».

Struggente un monologo contenuto in Quando si è Qualcuno: «Tu non hai compreso questo ritegno in me del pudore d’esser vecchio, per te giovine. E questa cosa atroce che ai vecchi avviene, tu non la sai: uno specchio - scoprirsi all’improvviso - e la desolazione di vedersi che uccide ogni volta lo stupore di non ricordarsene più - e la vergogna dentro, la vergogna allora, come di un’oscenità, di sentirsi, con quell’aspetto vecchio, il cuore ancora giovine e caldo». E poi: «Veramente quando si è Qualcuno, bisogna che al momento giusto si decreti la propria morte, e si resti chiusi - così - a guardia di se stessi». Il bisogno di amare di un uomo non più giovane che, scrive Collura, «si dibatte nell’incomprensione, vittima delle crudeli leggi della società… ed è lei, non può che essere che lei, Marta Abba, l’oggetto di quell’amore disperato».

CON ROZANOV NEL CUORE DELL’ORTODOSSIA *****

asilij Rozanov intraprese il viaggio ai tre monasteri legati alla figura del beato Serafim di Sarov (uno dei più famosi asceti del XIX secolo) nella speranza che in quei luoghi benedetti potesse migliorare la salute della figlia Tanja. Un pellegrinaggio in cui ebbe modo di osservare la folla di pellegrini di ogni ceto sociale e di ammalati in attesa di una guarigione miracolosa, di godere della quiete irreale che circonda i monasteri ortodossi. Il viaggio offre al filosofo l’occasione per rappresentare la realtà del monachesimo mettendola a confronto con l’interpretazione del cristianesimo inteso come religione della sofferenza. Per eremi silenziosi (Lindau, 91 pagine, 12,50 euro) racchiude molti dei grandi temi filosofico-religiosi di Rozanov.

V

QUANDO LA CHIAVE È L’IMMAGINAZIONE *****

è un potere sepolto nel nostro io che la maggioranza delle persone sciupano senza la consapevolezza di gettar via un tesoro. Baloccandosi in fantasticherie e sogni a occhi aperti. È il potere dell’immaginazione, quella funzione che porta la nostra mente a incidere nel mondo, aprendo scenari nuovi oltre il tirannico dato di realtà. Piero Morosini, esperto internazionale di management,in Le 7 chiavi dell’immaginazione (Etas edizioni, 240 pagine, 22,00 euro) accompagna il lettore alla scoperta del potere magico dei sogni prendendo a modello alcune realtà comunitarie e aziendali. Che cosa hanno in comune, scrive infatti Morosini, la comunità di San Patrignano, la compagnia aerea Easyjet e le aziende di abbigliamento Diesel e Zara? Ecco la risposta: la presenza di un leader in grado di immedesimarsi in coloro che ha di fronte, siano essi clienti o persone bisognose di aiuto e di creare un futuro di successo usando il potere dell’immaginazione.

C’


Danza

MobyDICK

pagina 20 • 2 ottobre 2010

spettacoli DVD

TUTTO IL VENTENNIO IN NOVE CAPITOLI

di Diana Del Monte

na giovane mini-rassegna che sogna di diventare grande, grandissima, la più importante della capitale. Queste le ambizioni di Tersicore. Nuovi spazi per la danza, festival di danza contemporanea dell’Auditorium della Conciliazione di Roma; a svelarle, durante la conferenza stampa, è stato Valerio Toniolo, amministratore delegato del teatro: «La speranza è quella di riuscire a creare un appuntamento fisso, in collaborazione con Romaeuropa Festival, che si affermi come un polo d’attrazione

U

Kylian, Abbagnano & Co. Le ambizioni di Tersicore per la danza contemporanea italiana e internazionale di altissimo livello». La quinta edizione, in effetti, sembra nata per gettare le fondamenta dell’ambizioso progetto; sotto lo sguardo attento di Eleonora Abbagnato, prima ballerina dell’Opéra di Parigi e madrina dell’evento, infatti, Tersicore propone quest’anno un programma breve, solo cinque appuntamenti, ma di qualità. A inaugurare la manifestazione, mercoledì scorso, i giovani danzatori della Nederlands dance theatre II, fucina di giovani talenti che dal 1978 affianca la formazione principale. Dal 1990, la giovane compagnia è entrata a far parte della struttura artistico-organizzativa ideata da Jiri Kylian; vent’anni fa, infatti, il coreografo ceco ha voluto creare una triade in grado di accompagnare e valorizzare tutta la vita artistica del danzatore: la Ndt1, la formazione originaria, composta di trenta danzatori dai

Televisione

alla marcia su Roma alla presa del potere, passando per il delitto Matteotti, la costruzione dello Stato totalitario, l’ascesa, la resistenza e la caduta. Quattro ore e mezzo in compagnia di due grandi nomi della cultura italiana: Renzo De Felice, massimo storico del Ventennio, e Folco Quilici, documentarista di lungo corso che monta immagini di repertorio e documenti d’epoca in rigoroso contrappunto. Questa, in sintesi, è la Breve storia del fascismo che l’Istituto Luce propone in nove capitoli. Divulgazione e rigore, come comanda il vecchio defunto servizio pubblico.

D

22 ai 40 anni; la Ndt2, l’ensemble di giovani talenti dai 17 ai 22 anni visti mercoledì all’Auditorium; la Ndt3, una compagnia formata da danzatori professionisti over 40, che speriamo di vedere presto, che non ha nulla da invidiare agli altri due elementi del gruppo. Per ognuna, Kylian, che dallo scorso anno ha lasciato la direzione artistica a Jim Vicent, ha costruito un repertorio vario e valido, capace di esaltare le peculiarità delle diverse formazioni e sviluppare al massimo il potenziale artistico di ogni stagione della vita. Dopo l’appuntamento capitolino, il giovane ensemble di 18 elementi è oggi a Modena, al Teatro Luciano Pavarotti. In questa piccola tournée italiana, i giovani della Ndt2 hanno presentato quattro coreografie: Déjà vu e Solo di Hans Van Manen, in prima nazionale all’Auditorium, Sleepless di Kylian e Minus 16 di Ohad Naha-

rin, un patchwork coreografico travolgente che porta sul palco la compagnia nella sua totalità, accompagnata da un’eclettica ed entusiasmante compilation musicale. Il programma di Tersicore proseguirà poi, il 7 ottobre, con il Ballet Preljocaj, per la seconda volta ospite della rassegna, e il 22 e 23 ottobre con lo spettacolo in due serate ideato dalla madrina del Festival, Eleonora Abbagnato e i Coreografi del XX Secolo. Un’elegante e raffinata antologia quella proposta dalla prémière danseuse che vede una selezione di artisti tra i più validi oggi sulla scena ripercorrere le tappe fondamentali della storia della danza contemporanea, da Lamentation di Martha Graham (1934) al passo a due del balcone da Romeo e Giulietta di Roberto Cannito (2010). Il 13 novembre, infine, il sipario della quinta edizione di Tersicore si aprirà per l’ultima volta su Winter Variation, l’ultimo lavoro del coreografo israeliano Emanuel Gat, realizzato in collaborazione con il Romaeuropa Festival. Le premesse sembrano buone, per le ambizioni restiamo in attesa.

CANTAUTORI

C’ERANO UNA VOLTA I BRIGANTI DI BENNATO riganti si nasce. E lui modestamente lo nacque, si direbbe parafrasando Totò. Anno dopo anno, le scorribande di Eugenio Bennato nel mondo del folk hanno avuto il pregio di conquistare all’intera Penisola il Taranta Power. Galeotta fu Brigante se more, canzone da lui composta trent’anni fa su commissione di Anton Giulio Majano per L’eredità della Priora. Una storia che ha riportato alla luce le rivolte sudiste alle soglie dell’unità d’Italia. Smessi i panni del musicista, Bennato riannoda le fila di quella storia sanguinosa in Briganti se more (Coniglio, 224 pagine,14,00 euro).

B

di Francesco Lo Dico

“Presa diretta”, una parentesi d’intelligenza

na parentesi di intelligenza ce la dobbiamo pur concedere. Spostiamo l’attenzione dalle reti Mediaset, saltiamo Rai 1 e Rai 2 e andiamo su Rai 3. Domenica in prima serata c’è Presa diretta, programma di inchieste diretto e condotto da Riccardo Icona. Uno dei temi più attuali sviscerato da Icona è stato il rapporto tra donna e lavoro. Il telespettatore ha avuto un immediato attimo di vertigine: ha visto le donne così come sono, ossia un misto di cervello, emozioni, famiglia, maternità, ambizioni professionali, tempo libero. Sembra ovvio, ma molte reti ci mostrano ormai la donna come riduzione a cosce che si accavallano, a scollature ammiccanti, a battute eternamente virate sulla comicità sessuale da tinello di periferia culturale. Presa diretta, con interviste, dati e scenari micro e macro, ha messo il dito sulla piaga: l’Italia, con l’eccezione di Malta, è all’ultimo posto per quanto riguarda

U

la parità uomini e donne. Partiamo da casi singoli, col vantaggio che ha la televisione, ossia dare un volto (mobile e parlante) a un problema che di solito risulta freddo e magari noioso se viene trattato sulle pagine dei giornali. Stefania B. è stata responsabile marketing di una multinazionale fino a quando ha avuto un figlio. Prima declassata, poi indotta a licenziarsi. Nessuna sorpresa statistica: nel nostro Paese il 27 per cento delle donne abbandona il lavoro dopo il primo figlio.

Dice una «cacciatrice di teste»: oggi la donna deve scegliere tra carriera e famiglia, inoltre c’è la tendenza a fare figli sempre più tardi perché si vuole essere prima «accreditati» nel mondo del lavoro. Emanuela, barista nel Comasco, ha avuto un figlio con problemi epilettici. Il suo «capo» le ha detto: «Questo proprio non ce lo dovevi fare». Licenziata. Emanuela si è rivolta alla magistratura, che le ha dato ragione. Una madre vicentina, laureata alla Bocconi con 110 e lode si è vista rifiutare la possibilità di lavorare part time (sei ore il giorno). Iacona ci mostra come le cose cambiano radicalmente in un Paese come la Norvegia. Qui (dove l’indice di natalità è dell’1,9 per cento, un vero record) i politici hanno agito con la forza della legge, poco importa se di destra o di sinistra. Al governo e nel parlamento le

donne sono almeno al 50 per cento. Nel settore privato si devono ancora fare passi in avanti, ma si è già avanti. Un allora ministro dell’Economia (della destra) ha fatto approvare una legge in base alla quale un’azienda esce dalle quotazione di Borsa se nel suo consiglio di amministrazione non ha almeno il 40 per cento di donne. Non solo le donne ma anche i padri hanno il permesso parentale, ossia si possono allontanare dal lavoro per accudire i figli. Anche i liberi professionisti, aiutati dallo Stato. La telecamera ha inquadrato tre papà con i figli (sei in tutto). Tra questi c’era il consigliere del primo ministro (che pure lui usufruì della legge). Unanime il consiglio che i norvegesi danno al resto dell’Europa: nulla alla fine si fa (se non chiacchiere) senza la forza della legge, unica a portare nella società una trasformazione radicale, con benefici economici indiscussi e comprovati dalle statistiche. Che squallido parlare di donne solo con i cabaret, i concorsi di bellezza e la pubblicità dei profumi. Occorre cambiare (p.m.f.) canale. E sovente.


MobyDICK

poesia

2 ottobre 2010 • pagina 21

Con Tessa nell’eden del dialetto

LA POBBIA DE CÀ COLONETTA L’è ceppada la pobbia de cà Colonetta: tè chi: la tormenta in sto Luj se Dio voeur l’à incriccada e crich crach, pataslonfeta-là

di Francesco Napoli elio Tessa sta al centro della letteratura milanese del Novecento ed è tanto più centrale in quanto dei poeti dialettali di questo periodo è quello che più si mantiene prossimo alla tradizione del secolo precedente, cioè all’eden della poesia dialettale», parola di Pier Paolo Pasolini che in materia di dialetti qualcosa ne sa. Come per Napoli e per Roma, anche per Milano si possono distinguere due momenti corrispondenti a due differenti linee poetiche: la prima, cresciuta all’ombra di Carlo Porta, raggiunge i vertici proprio con Delio Tessa; la seconda, successivamente, si esalta nell’innovazione profonda data alla materia da Franco Loi. Il quale ha confessato, in un recente e molto approfondito libro-intervista (Da bambino il cielo. Autobiografia, Garzanti), di aver scoperto Tessa tardi, per cui

«D

il club di calliope INFINE L’ARRIVO DEL GIORNO

Notte e poi ancora notte a folate sferzanti senza sosta preda di un rivolgimento brado. E così continua, e non vedi fine. Notte e poi ancora notte che non diminuisce

quando Dante Isella presenta parti del suo Strolegh sull’Almanacco dello Specchio 1973, ravvicinandolo proprio a Tessa, confessò di non averlo fino ad allora letto. Ma poi ci si mise su, innamorandosene tanto da affermare a ragion veduta, e con quel lombardismo dell’articolo prima del cognome, «che il Tessa scrive con una maestria straordinaria dal punto di vista della musicalità del testo, sfruttando la ricchezza di un vocabolario ibrido tra il milanese di città e quello arioso (…) inserendosi nella tradizione europea più moderna».

ma l’à trada chi longa e tirenta, dopo ben dusent ann che la gh’era! L’è finida! eppur … bell’è inciodada lì, la cascia ancamò, la voeur nó morì, adess che gh’è chí Primavera … andemm … nà … la fa sens … guardegh nò.

Figlio unico di una famiglia d’origini modeste, Delio Tessa (Milano, 1886-1939) non aveva granché voglia di studiare e dopo aver faticato a raggiungere una laurea in legge in quel di Pavia, si mise a esercitare l’avvocatura con l’amico di una vita, quel Carlo Fortunato Rosti che sarà il suo più fedele esecutore delle volontà letterarie postume. Un grande amore non corrisposto per una giovane pianista lo segnò per la vita e, antifascista convinto, per andare avanti si affidò a collaborazioni, pubblicando da vivo la sua prima e unica raccolta con Mondadori nel 1932: L’è el dì di Mort, alegher! Com’era fisicamente? Ce lo racconta Carlo Linati: «Non molto alto, minutino, sorridente da una faccetta lievemente rosata, un dente d’oro nella bocca vizza e, dietro gli occhiali (era miope) ballettanti, un po’malsicuri nella loro orbita, quei suoi occhi grigi ed acquosi, da cordiale allucinato.Vestiva un po’ demodé. Nella bella stagione: pantaloni di tela bianca, solino, cravatta, maggiostrina sulle ventiquattro (o ventitré?). Se era nuvolo, portava sempre sul braccio la vecchia ombrella a becco di suo padre. D’inverno invece indossava un paletot color tanè (tabacco) che gli dava l’aspetto di un notaietto di provincia. È stato anche un fine dicitore di poesie, che preparava come si preparerebbe

VIBRANDO INSIEME A CESARE VIVIANI in libreria

e grava finché dura. Infine avverti l’arrivo del giorno che ti sfiora con una mano: ancora confusa, nella semioscurità, la riconosci, la domandi. Senti mano umana gentile e forte. Ti conduce per vie altrimenti impraticabili, e tu appena riconosci, dal tuo deserto, l’opera degli uomini. Inspiri il possibile e ti affidi all’altro. Pronunci il nome della vita e dici: infine l’arrivo del giorno ti sfiora con la mano. Giovanni Piccioni

di Loretto Rafanelli

i può dire che CesareViviani, con le proprie intuizioni critiche, guidi il critico all’interpretazione della propria poesia, questo perché egli non è solo un eccellente poeta, ma pure uno dei pochi poeti che ha alle spalle un vertiginoso pensiero poetante, una ricca elaborazione teorica, con numerosi saggi sulla poesia e sulla psicanalisi. Ma Daniela Bisogno, l’autrice del bel saggio L’orma dell’angelo. Saggio sulla poesia di Cesare Viviani (Interlinea, 160 pagine, 16, 00 euro), da parte sua, è critico che, riprendendo Karoly Kerényi, sa «vibrar insieme» all’autore di cui parla, sapendo cogliere «gli appelli silenziosi che il critico ha il dovere di cogliere», che è poi la «dedizione all’opera». Questa comunanza dà vita a un libro che dice molto di Viviani, ma pure, attraverso gli scritti del poeta, così ben letti dal critico, della poesia in generale. La Bisagno, ripercorre il viaggio poetico di Viviani dalle prime prove, dove emerge il «processo di sovversione delle strutture sintattiche», ai versi che evidenziano le «tracce umbratili del dolore e della morte, del miracolo e della gioia», e dove si avverte anche l’influenza subita dal pensiero mistico cristiano ed ebraico. Infine, «amico dell’invisibile» si è detto, montalianamente, di Viviani: è vero è questo il filo che sottintende la sua opera, ma pure la continua capacità di rinnovarsi.

S

Delio Tessa (da L’è el dì di mort, alegher!)

un concerto» e proprio le poesie dell’amato Porta era solito recitare a un pubblico ristretto di amici e conoscenti, casomai in qualche caffè di periferia. Schivo di temperamento, è vissuto da scapolo, appartato, con il conforto della famiglia e di pochi amici che gli sono stati vicini sino alla fine (purtroppo precoce poiché una setticemia, provocata da un ritardato intervento a un’infezione a un dente, lo portava via il 21 settembre 1939). Per sua volontà fu sepolto in un campo comune di Musocco, ma nel 1950 il Comune di Milano gli decretò gli onori del Famedio al Monumentale, collocando la sua sepoltura fianco a fianco con quella di Alessandro Manzoni. La critica si è fin troppo soffermata su un preconcetto e cioè sulla sua presunta tendenza al bozzettismo minore e al verismo ottocentesco, attribuendolo anche al persistere negli ambienti culturali milanesi delle propaggini di una cultura scapigliata interpretata da Lucini e venature elegiaco-crepuscolari, come il tema dei vecchi, ereditato tra gli altri anche dall’altro dialettale Virgilio Giotti. Ma per Tessa se tutto questo è vero va inteso come l’aver voluto indossare, non senza orgoglio, un abito fuori moda. E basti allora leggere il finale di La pobbia de cà Colonetta («andemm … nà … la fà sens … guardegh nó») con tutto il carico di inorridito dolore che è tutt’altro che bozzettistico.

La base del suo linguaggio è certamente il milanese «basso» e popolare, quello ruvido e un po’ ostico di una Milano che allora già non c’era più ma sul quale vanno a innestarsi, con fantasie degne del miglior Palazzeschi o accortezze fonosimboliche di stampo pascoliano, accorti pastiche lessicali provenienti non solo da altre sponde del dialetto stesso ma anche da lingue colte come italiano, tedesco, latino ecclesiastico, inglese («D’intornovia/ damazz e pretascion,/ veggiabi, vesighett, ghicc, paracar,/ tutta la compagnia/ morta la se descanta/ ai reciamm del grossista del catar!», in A Carlo Porta). Sul piano tematico, poi, sembra prevalere quello funerario, tema in evidenza in Caporetto 1917, versi sicuramente portati dalla disastrosa situazione politica italiana del primo dopoguerra. Le sue liriche sono improntate a una curiosa, ma certamente singolare originalità, in cui il discorso appare disorganico e frammentario, e il contenuto pervaso da una sconfinata desolazione, che, in parte, è di origine culturale (scapigliatura lombarda, ma anche il Decadentismo francese, nonché il pessimismo del romanzo russo,Tolstoj,Turgenev e Dostoevskij) e, in parte, è prodotto dalla sua inquieta personalità, dominata dalla sfiducia negli uomini e nelle loro istituzioni; dalla stessa consapevolezza - abolita ogni fede religiosa in senso positivo - di un destino duro e inflessibile. E allora si legga con coraggio la Mort de la Gussona o De là del mur o Poesia dell’Olga, quest’ultimo poemetto chissà, forse antesignano di quelli su Carla e Rudi firmati anni più avanti da Elio Pagliarani.


i misteri dell’universo

pagina 22 • 2 ottobre 2010

ello studio degli eventi antichi sono utili non solo i testi di carattere storico o scientifico, ma anche testi letterari apparentemente slegati dal passato. Dopo decenni ho riletto le poesie di Catullo, parte delle quali scritte sul lago che ora chiamiamo di Garda, noto anche con il nome antico di Benaco, ma che Catullo chiama lago lidio. Lago che è il maggiore dei laghi italiani, noto per il Monte Baldo che lo delimita a est, dove passava nella prima guerra mondiale la linea del fronte e dove combattè mio nonno... Lago dalle sponde assai belle, dal clima dolce che permette la crescita di limoni, e celebre per la bellissima penisola di Sirmione. Qui viveva Catullo, qui i romani avevano splendide ville, il luogo era famoso per le terme ancora esistenti. Qui Catullo scrisse quella che considero una delle più belle poesie della letteratura, dedicata alla sua amata (ma poco fedele) Lesbia, cui dice: «Baciami mille volte e ancora cento, poi nuovamente mille e ancora cento, e dopo ancora mille e dopo cento, e poi confonderemo le migliaia, tutte insieme per non saperle mai...». Versi che certo D’Annunzio ripetè alla sua maniera ad altre Lesbie nei cui confronti era lui forse infedele.

N

D’Annunzio aveva comperato la villa, divenuta poi il Vittoriale, che era stata di Cosima Wagner, dove una bambina rivelò il proprio genio musicale giocando con i tasti del pianoforte di Liszt, e divenne la grande Giuseppina Cobelli, soprano ora quasi dimenticato, che sorride con un micio in grembo dalla sua modesta tomba nel cimitero di Gardone Riviera. A Giuseppina avrei mandato i mille baci e ancora cento sognati da Catullo; e attorno al lago ora vivono non poche altre stelle della lirica di oggi e di qualche tempo fa, le elenco senza dire dove, Fiorenza Cossotto, Katia Ricciarelli, Maria Laura Martorana, Adriana Lazzarini, Adriana Maliponte, Mietta Sighele... Non so se l’elenco è completo e trascuro altre persone pure associate alla musica... e certo i mille baci e ancora cento ben sarebbero meritati da qualcuna di queste stelle. Al di là della divagazione romantica ispirata dal Lago di Garda, di grande importanza è il termine usato da Catullo, lago lidio. Il termine si riferisce agli Etruschi, provenienti secondo la tradizione classica proprio dalla Lidia, tradizione che ora può essere confermata da considerazioni linguistiche e genetiche. Catullo aveva portato sul lago dall’Adriatico una sua grande barca; era a lui ben noto che gli Etruschi arrivavano spesso in barca sul lago, proveniendo dall’Adriatico, fatto forse ampiamente discusso nel perduto libro che su di essi scrisse l’imperatore Claudio. Fatto che oggi sembra facile, ma in passato non lo era, quando i fiumi della pianura padana

MobyDICK

ai confini della realtà

Cartoline

dal lago lidio

di Emilio Spedicato non avevano argini e bastavano poche giornate di pioggia a farli straripare e divenire larghi decine di km. Occorreva quindi una tecnica di navigazione adatta per questo tipo di fiumi. Possiamo dare per certo che questa tecnica fosse in possesso dei più grandi navigatori dell’antichità, i Pani dell’India (la parola Pani significa acqua in bengalese e

Pani ed Etruschi visitassero il Garda, una delle porte di ingresso delle Alpi, che permetteva di evitare le gole dell’Adige. Abbiamo evidenza che raggiungessero anche il lago di Como: altra porta di ingresso per la Germania via il passo dello Spluga di antichissimo utilizzo? L’unico indizio a me presente è l’inusuale elevata percentuale di occhi

Così Catullo chiamava il Garda, derivando il nome dalla Lidia da cui provenivano gli Etruschi. I quali, forse al seguito dei Pani, si spinsero con le loro navi in quelle acque e in quelle di altri laghi. E ai Pani si possono far risalire gli occhi verdi così diffusi nel lecchese... altre lingue dell’India), abituati a navigare per fiumi come il Gange, lo Yamuna, la Sarasvati prima del suo disseccamento, l’Indo con i suoi vari affluenti... Navigatori che seguendo i monsoni raggiungevano facilmente i porti dell’Egitto sul Mar Rosso e vi lasciavano smontate le grandi navi tenute insieme da corde di fibra di cocco. Quindi raggiungevano il Nilo per lo Wadi Hammamat portando con loro navi piccole pure smontate, le rimontavano a Tebe e con quelle navigavano per il Mediterraneo. E ricordo quanto detto in un precedente articolo, che gli Etruschi erano lavoratori specializzati, in particolare di gioielli, spesso al seguito dei Pani. Abbiamo quindi dal passo di Catullo il suggerimento che

verdi nel lecchese, informazione che devo al mio oculista. Gli occhi verdi sono abbastanza comuni, ed estremamente apprezzati nelle donne nell’Hindukush, vedasi il libro di Hosseini sul ragazzo che inseguiva gli aquiloni. Sono rari nella popolazione generale, ma curiosamente sembrano avere una percentuale di presenza elevata fra i... soprani! Ricordiamo Virginia Zeani, dai colleghi considerata la donna più bella del mondo e famosa per i suoi occhi verdi. Ricordiamo la grande Fanciulla del West che è stata Gigliola Frazzoni, dalla collega Luciana Serra definita più che bellissima e con gli occhi verdi. E fra i soprani sopra citati che vivono attorno al lago di Garda uno ne esiste, con gli occhi verdi, Maria Laura Martorana, soprano di coloratura, recente vincitrice dell’Oscar della Lirica; ha cantato rosso vestita una splendida Regina della Notte il 31 agosto all’Arena di Verona. Quanto sopra suggerisce che un nucleo di Pani provenienti dall’India, ricchi e con mogli dagli occhi verdi,

localizzati nella zona di Lecco che è ingresso naturale nel lago arrivando dal fiume Adda, abbia lasciato una eredità genetica attinente agli occhi verdi.

Ma la maggiore evidenza di contatti con il Mediterraneo e la lontana India viene dal lago di Iseo, detto, come scrive il Coronelli, nel suo libro che fu il primo preso a caso nella libreria del Centro studi camuno a Capodiponte, e sulla prima pagina che a caso aprii, lago di Siviano. E Montisola, dice il Coronelli, era detta isola di Siviano, e ancora oggi il suo porticciolo si chiama Siviano; e il fiume Oglio era detto fiume Siviano. Siviano può certamente derivarsi da Siva-Shiva, la divinità dei Pani, nel libro dell’Esodo detta Sefon (detto Sirviah nel Sedicesimo secolo dai Kafiri del Kabulistan). Questo suggerisce non solo che i Pani arrivassero in quel lago, ma che ci avessero delle sedi permanenti. Per quale motivo? Possiamo solo speculare, dato che la religione e la storia dei Camuni è ignota. Ma notiamo che Camuno può significare popolo di Manu, che i Germani sono detti da Tacito discendere da tre figli di Mannu, che l’Avesta parla di un Manu sopravvissuto al diluvio in una caverna sotto la cima di un monte. E una simile caverna esiste proprio sotto la cima di Montisola, sulla quale una chiesetta cristiana certo ha sostituito un più antico luogo di culto. Si può pensare a contatti antichissimi fra la meravigliosa civiltà della Val Camonica e la lontana e sviluppatissima civiltà dell’India; e questo prima e dopo il diluvio. Arguire di più non mi è ora possibile...


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.