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SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

BALLANDO BALLANDO

MAMMA MIA!

Al cinema il musical ispirato agli Abba

di Anselma Dell’Olio o sfacciato divertimento che regala la versione cinematodo alcuna cultura musicale formale. Ma cominciamo dall’inizio, per capire meIl grafica di Mamma Mia!, il jukebox musical con le canzoni degli glio il fenomeno, perché di questo si tratta. film con Abba, ha confuso e contrariato molti critici. Il film con Meryl Gli Abba, che appartengono alla categoria glam rock degli anni SetStreep, uscito ieri in Italia, è stato il campione d’incassi tanta, sono il gruppo musicale scandinavo di maggior successo Maryl Streep regala dell’estate negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, dove ha dedella storia. I quattro membri, due coppie allora sposate, un divertimento assoluto buttato nel luglio scorso. Spesso i critici ne scrivono hanno venduto 370 milioni di dischi durante la loro che ha contrariato molti critici, costretti malissimo per molti paragrafi, per poi ammettemeteorica carriera, durata dodici anni. Il gruppo e re, nella medesima recensione, digrignando i le coppie sono scoppiati nel 1982. Tra i loro loro malgrado ad ammettere denti, che musica, attori, canti e balli sono irresuccessi ci sono Fernando, Mamma Mia, Wache musica, attori, canti e balli sono terloo, Dancing Queen e tanti altri. Nel 1999 ha desistibili. Come se non conoscessero le categorie kitsch o camp, e si trattasse di infangare la memoria di buttato a Londra un musical ideato dai due compositori irresistibili. Una sana iniezione Beethoven, anziché riconfigurare per il teatro musicale cancon la regia di Phyllida Lloyd e una storia scritta da Catheridi buon umore di cui non zoni pop da hit parade (jukebox musical, appunto) scritte da Bjorn vergognarsi... Ulvaeus e Benny Andersson, i due maschi degli Abba (Anni-Frid, continua a pagina 2 Bjorn, Benny e Agnetha) che oltretutto compongono a orecchio, non aven-

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9 771827 881004

ISSN 1827-8817 81004

Parola chiave Musica di Gennaro Malgieri Gli esorcismi di Ben Folds di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Verlaine alla ricerca del verso semplice di Francesco Napoli

La teologia del cuore di Romano Guardini di Renato Cristin L’amore secondo Orhan Pamuk intervista di Bibi David

Pascali & Leoncillo armoniche dissonanze di Marco Vallora


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ballando ballando

mamma mia!

segue dalla prima ne Johnson, appoggiandosi, o meglio sdraiandosi su 22 canzoni degli Abba. Il musical ha spopolato in molti paesi: Stati Uniti, Canada, Messico, Australia, Russia, Turchia, Olanda, Spagna e Norvegia. Molti paesi hanno produzioni stabili in diverse città, più una compagnia per le tournée in provincia. Nel 2007 si è calcolato che oltre trenta milioni di persone hanno visto lo spettacolo. Poteva Mamma Mia! non diventare un film? (Il critico del New York Times, A.O. Scott, irritatissimo per essersi divertito a un film tanto sfacciato, ha scritto che il punto esclamativo del titolo è l’elemento più sottotono di tutta l’opera.) Certo che no, ed ecco a voi, la fantastica Meryl Streep, finalmente in un bel ruolo da protagonista, cosa che non otteneva più da quando ha raggiunto i quarant’anni. Trasmette tutta la sua gioia, la Streep, di trovarsi in un musical dove può sfoderare finalmente una gran bella voce che pochi spettatori hanno potuto apprezzare. (In Ironweed di Hector Babenco, 1987, un successo di critica ma non di pubblico, ha dimostrato di saper «vendere» alla grande l’unica canzone del film: My Pal). La trama del musical è adattata dal film Buona sera, Mrs. Campbell di Melvin Frank (1968), con Gina Lollobrigida nella parte di una ex ragazza madre rimasta incinta di uno dei tre G.I. conosciuti e amati durante l’occupazione americana alla fine della seconda guerra mondiale.

In Mamma Mia! non siamo più in Italia ma in un’isola greca. La ex ragazza madre non è una del luogo, ma una figlia dei fiori americana finita lì in epoca incerta. Il presente in cui avviene il film non è ben definito («Se lei è una sessantottina e la figlia ha vent’anni…») ma è del tutto inutile puntualizzare. Donna è una ex cantante e hippie peripatetica, finita in Grecia per caso, e lì ha concepito e cresciuto sua figlia, mandando avanti una caratteristica pensione, molto romantica. Il film inizia quando Sophie (la brava e bella Amanda Seyfried), figlia ventenne di Donna (Streep), alla vigilia del suo matrimonio col giovane Sky (Dominic Cooper), trova il diario nascosto che la mamma ha tenuto durante la sua unica gravidanza. Così scopre i nomi dei tre fidanzati di Donna, uno dei quali è suo padre: ma quale? All’insaputa della mamma li ha invitati tutti al suo matrimonio, decisa a scoprire qual è l’uomo che dovrà accompagnarla all’altare. Tutti e tre accettano l’invito e nella migliore tradizione della commedia musicale, arrivano insieme nell’isola mentre fervono i preparativi per lo sposalizio. Gli ex fidanzati sono Bill, interpretato dal sexy Stellan Skarsgard (Le onde del destino di Lars von Trier), che è un cinquantenne scrittore giramondo approdato all’isola sulla sua magnifica barca a vela, in tempo per dare un passaggio

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa a cura di Gloria Piccioni

GENERE COMMEDIA

DURATA 108 MINUTI PRODUZIONE USA, GRAN BRETAGNA, GERMANIA 2008 DISTRIBUZIONE UNIVERSAL PICTURES REGIA PHYLLIDA LLOYD INTERPRETI MERYL STREEP, PIERCE BROSNAN, COLIN FIRTH, STELLAN SKARSGÄRD, JULIE WALTERS, DOMINIC COOPER, AMANDA SEYFRIED, CHRISTINE BARANSKI

agli altri due che hanno perso il traghetto; Sam (l’ex James Bond Pierce Brosnan) e Harry, l’adorabile Colin Firth (Il diario di Bridget Jones). Contemporaneamente convergono gli altri personaggi: le due amiche del cuore di Sophie, e quelle di Donna, che negli anni verdi facevano parte del suo gruppo musicale Donna and the Dynamos. Julie Walters (Rita, Billy Elliott) è Rosie, scrittrice di libri di cucina bestseller, Christine Baranski (Saturday Night Live, Bonneville) è Tanya, che come curriculum vanta molti lifting e mariti seriali. Ogni incontro tra i protagonisti è occasione per uno sfolgorante numero musicale che pompa benessere direttamente nelle vene dello spettatore. La Streep fa il suo ingresso come Donna in salopette, scarpe da ginnastica e una delicata camicetta trasparente. (Non a caso il film è scritto, diretto e prodotto da donne.) L’incontro con i suoi tre

Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento) E.TI.S. 2000 VIII strada Zona industriale • Catania

ex avviene (nella provata tradizione hollywoodiana del meeting cute: l’incontro malizioso) con Donna che cade da un lucernaio su un letto in mezzo a loro. Li caccia via di casa, ma per fortuna c’è il bel panfiletto di Bill sul quale riparare.

Cantano e ballano anche Rosie e Tanya, con gli abitanti dell’isola a fare da coro. Una delle delizie del film è l’insolito e mai enfatizzato innesto tra Nuovo e Vecchio Mondo. I protagonisti sono tutti «moderni», ma sono circondati da isolani greci che sembrano autentici: l’effetto è estraniante e famigliare insieme. La musica orecchiabile e l’effervescenza con cui Streep e gli altri «indossano» le canzoni, saltano su moli, spiagge e terrazze, sgambettano con le pinne ai piedi, si tuffano nel mare turchese, fa venir voglia di alzarsi e unirsi a loro. Quando arriva Dancing Queen, forse il più amato degli hit Abba,

ogni resistenza è inutile. Ecco perché i recensori snob ne parlano con sufficienza: ci sono cascati anche loro, e dopo sentono il bisogno di rifarsi il trucco. La storia in sé è una quisquilia. Sì, ti va di sapere chi è il vero padre, e quale dei tre maschietti appetibili si rivelerà il vero amore di Donna, ma subito dopo si dimentica com’è andata. Restano le canzoni: Honey, Honey, Chiquitita, Waterloo, Super Trooper, Voulez-Vous, The Winner Takes It All, Dancing Queen e altre sedici melodie. Sarebbe un errore lasciare il cinema appena iniziano i titoli di coda. Ci sono dei fantastici bis che partono a sorpresa quando il film sembra finito. Gli spettatori si alzano per uscire, poi si rigirano verso lo schermo quando riparte la musica; o si rimettono seduti, o cominciano a ballare tra le poltrone a tempo con la musica.Vergognarsene vuol dire prendersi un po’ troppo sul serio.

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MUSICA el tempo dei conflitti, quando le parole non bastano più, e la comunicazione dei sentimenti e delle visioni spirituali e culturali diventa impossibile, non resta che il linguaggio della musica, per chi lo sa praticare e comprendere, a esprimere l’inesprimibile. È così che ci avviciniamo a un’arte antica come l’uomo, la prima che egli abbia «forgiato» cogliendo i suoni della natura e dandogli un ordine razionale ispirato dall’anima, non soltanto, come è sempre stato, per trovare consolazione alle ambasce o godimento puramente estetico, ma per capire le profondità delle culture che ci sfuggono, delle sensibilità che si nascondono, della poesia che vive nei recessi dei popoli e che non si manifesta con le parole sbarrate dalle anticaglie ideologiche.

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Insomma, l’universalità della musica, soprattutto oggi, con la capacità di attivare contaminazioni feconde, c’introduce alla conoscenza molto più di quanto facciano le filosofie contemporanee sempre più sbiadite nel sociologismo e nelle teoriche economicistiche. Non c’è purezza ormai nel pensiero se non nella musica. Nietzsche, tra i moderni, lo aveva capito prima di chiunque altro quando scrisse la sua prima opera fondamentale: La nascita della tragedia dallo spirito della musica. E Wagner completò e diede forma all’assunto «classico» nietzscheano, derivato dall’eredità greca, con l’invenzione dell’«opera totale» nella quale la potenza scenica si inframmetteva con quella musicale dando vita non a uno spettacolo, ma alla rappresentazione di una cosmogonia assorbente tutte le visioni religiose e artistiche in un quadro d’insieme che valeva a connotare l’avanzata di un’epoca annunciante rivoluzioni che avrebbero modificato sostanzialmente la vita dei popoli. Bisogna «leggerla» quella musica per rendersi conto che oggi, pur non avendo un Wagner, e neppure un Nietzsche, e nemmeno un Heidegger, l’incoercibile bisogno della ricerca dell’Assoluto passa attraverso la musica poiché con essa si colloquia con gli Angeli e, forse, direttamente con Dio. La «deità» della musica sfugge alla modernità e si mostra povera in molte sue espressioni. Ma non è così. È un’illusione. La grande musica, quando è veramente tale, nei molti generi in cui si palesa, perfino nella struttura, nella scrittura, oltre che nelle sonorità è un potente richiamo metafisico, il solo che c’è rimasto universalmente accettato, poiché anche le metafisiche di questi tempi risentono del relativismo della politica e delle nuove e vecchie ideologie. E allora l’apertura che ho riscontrato girovagando per il mondo, della musica come «chiave» per aprire le porte dell’incomunicabilità, non mi ha lasciato indifferente. L’opera Mozart in Egypt, eseguita da un ensemble possente con strumenti europei e maghrebini, non è soltanto un omaggio al grande salisburghese, ma un modo per

Non c’è purezza nel pensiero se non in essa. La sua universalità ci introduce alla conoscenza molto più di quanto non facciano le filosofie contemporanee sbiadite nel sociologismo. Perché è l’unica pratica che rende possibile l’incontro tra le anime dei popoli

L’ultima frontiera dell’armonia di Gennaro Malgieri

Già Wagner supponeva che la prima lingua degli uomini dovesse aver avuto una grande affinità con il canto. Non foss’altro perché è un potente richiamo metafisico che permette di colloquiare direttamente con Dio. Di certo è l’unico linguaggio capace di trasmettere emozioni, sentimenti, passioni... rendergli giustizia «allagando» con il suo linguaggio e la sua anima musicale, oltre i confini della vecchia Europa, dello stanco Occidente, altri mondi, senza tradire neppure una nota nell’interpretazione a dimostrazione del fatto che Mozart, non diversamente da Bach, da Beethoven, da Haydn, da Haendel contiene in se stesso i caratteri dell’universalità e dunque della «deità» della musica dimostrata dal grado di penetrazione in altre culture e perfino adatta a essere seguita con strumenti «originali». La stessa impressione ricavai anni fa ascoltando in Turchia un concerto bacchiano della pianista Anjelica

Akbar: il compositore tedesco mai avrebbe immaginato di essere accompagnato da strumenti anatolici come il dogu o arabi come il darbuka, ma l’effetto potente fino alla commozione, delle Fughe eseguite mi fece comprendere, una volta di più, come la musica parlasse allo spirito perfino più di molte teologie razionaliste impoverite dal sociologismo cui soggiacciono non meno della filosofia. La musica è l’ultima frontiera dell’armonia, non in senso tecnico ovviamente, ma in senso eminentemente spirituale. È la sola forma che ci è rimasta. È l’unica pratica (forse con la poesia) che rende possi-

bile l’incontro tra le anime dei popoli. Non deve sorprende. È un ritorno all’antico. Già Wagner ne era consapevole. Nel suo saggio Musica dell’avvenire, ammoniva che non dovrebbe sembrare ridicolo supporre che la prima lingua degli uomini debba aver avuto una grande affinità con il canto. E osservava che «da quando le lingue moderne europee, divise per di più in diversi rami, hanno seguito con tendenza sempre più decisa il loro perfezionamento sempre più convenzionale, si sviluppò d’altra parte la musica, riuscendo a una potenza di espressione che fin qui il mondo ignorava». Insomma, è stato come se il sentimento umano, esaltato dalla compressione che su di esso esercitava la «civilizzazione convenzionale», avesse cercato una via d’uscita per far valere le leggi del linguaggio che gli è proprio e mediante esse potesse esprimersi in maniera comprensibile a se stesso innanzitutto. Questa consapevolezza faceva dire a Wagner che «lo sviluppo moderno della musica ha corrisposto a un bisogno profondamente sentito dall’umanità,(…) che la musica, per quanto la sua lingua sia inintellegibile secondo le leggi della logica, deve racchiudere in se stessa la potenza di farsi comprendere dall’uomo, maggiore e più vincente, che quelle leggi medesime non posseggono».

Il pensiero musicale wagneriano è di un’attualità sconcertante, si potrebbe dire. Resta il rammarico che sia finito, negli stessi ambiti della cultura musicale contemporanea, negli scantinati più inaccessibili. Se così non fosse vedremmo fiorire scuole di musica, interesse per la stessa nelle più vaste fasce della popolazione, come accadde nell’Ottocento, e una massiccia apparizione di musicisti destinati a un passaggio non effimero. Invece, succede il contrario. Per il semplice fatto che questa nostra epoca tutto è tranne che un’epoca «musicale», nella quale la sola «opera totale» è la volgarità elevata al massimo della sua potenza. Rischiamo l’inaridimento? Penso che il deserto sia già davanti e intorno a noi. Assistendo alle Piramidi a una rappresentazione musicale, tempo, fa, non potei fare a meno di considerare, con malinconia, che il deserto non si estendeva a pochi passi da me, ma era dentro la mia anima di occidentale cui restava soltanto un flebile aggancio con la spiritualità di un’arte, certo discussa in alcune sue espressioni, ma pur sempre incontaminata nella sua struttura. Ma le note fecero brillare qualcosa, oltre il palco, l’orchestra, i protagonisti, il pubblico che, per quanto affaticato, riuscii a cogliere. Una luce, credo, che si accese per un attimo riportando, forse non solo me, all’ancestrale origine dell’unico linguaggio capace di trasmettere emozioni, sentimenti, passioni. Aveva ragione Wagner, non abbiamo altra possibilità di schiuderci all’avvenire se non di recuperare le forme antiche. La musica è là che aspetta.


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cd

musica

Gli esorcismi

di Ben Folds di Stefano Bianchi a l’aria dell’imbranato che s’inciampa addosso, come Peter Sellers nel film Hollywood Party. E dell’ipocondriaco senza speranza, nel senso di Woody Allen, che fa cilecca con le donne. L’occhialuto Ben Folds, quarantaduenne cantautore e pianista americano, sulla sfiga ci scrive addirittura canzoni: come la scattante, nevrastenica Hiroshima tratta dal nuovo album Way To Normal. Che racconta di quando, in un concerto giapponese, cadde giù dal palco atterrando di testa e percependo l’infausto episodio come un fallimento pubblico. Ma i tiri mancini della vita, Ben Folds, li dribbla con autoironia, voce stentorea e quei suoi irresistibili stacchi al pianoforte. Lo fa dai tempi dei Ben Folds Five, che in realtà erano un trio e per giunta senza chitarra elettrica, in barba al grunge di Nirvana e compagnia nichilista. Lo fa da quand’è solista per la gioia di aficionados d’ogni età. Convinti, come lui, che la jella è un dettaglio, un fastidioso sassolino nella scarpa, da esorcizzare con un bel sorriso stampato in faccia. Nel suo geniale pandemonio pop, Way To Normal è un disco terapeutico.Vi sta andando tutto storto? Ascoltatelo e vi ritroverete a schioccare ottimisticamente le dita. Agognate una botta di vita? Ebbene sì, esistono le scintillanti canzoni che fanno per voi. Ben Folds ha cominciato a inventarsele fuori dal palazzo di giustizia, dopo un’agonia in attesa del divorzio: «Ho baciato la terra su cui camminavo, poi mi sono precipitato in studio di registrazione e mi sono sentito come una bottiglia di champagne che dopo essere stata agitata per 18 mesi fa il botto». E pure le bollicine, consegnandoci non solo un songwriter coi controfiocchi e un acrobata dei tasti bianchi e neri, ma un Davide che quando meno te l’aspetti gonfia i bicipiti e mette al tappeto Golia. Il quale, nella raggiante e fragorosa The Frown Song, assume i connotati di quei nuovi ricchi che fanno gli spirituali votati allo yoga e poi

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in libreria

OMAGGIO A WOODY GUTHRIE

non danno la mancia alla cameriera e se ne vanno in giro a scroccare da bere. Ben, lo avrete capito, non risparmia nulla e nessuno. Spalleggiato dallo splendido controcanto di Regina Spektor, si dà all’esuberanza cabarettistica di You Don’t Know Me per dirci che spesso, nella vita di coppia, non ci si conosce affatto perché le cose davvero importanti rimangono off-limits. E poi, nella melodia di Cologne che ricorda la perfezione d’un Elton John dei tempi d’oro, ironizza su una lei e un lui che cinguettano al telefono e non si decidono mai a riagganciare, arrivando al fatidico 4-3-2-1, adesso agganciamo insieme. C’è un’ironica, contagiosa energia in questo cd: nelle frustate rock che ricalcano Helter Skelter dei Beatles (Errant Dog); nel ritmo a rotta di collo, fra Paul McCartney e il punk (Dr.Yang); nelle sortite jazz di Free Coffee e in quell’aria impertinente e vintage che soffia dentro Bitch Went Nuts. D’altronde, come recitava il titolo d’un famoso libro: anche le formiche, nel loro piccolo, s’incazzano. Ben Folds, Way To Normal, Epic/Sony BMG, 20,60 euro

mondo

riviste

BRITNEY SPEARS, IL TOUR MONDIALE

NESSUNA REUNION DEI LED ZEPPELIN

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osa sarebbe il folk-rock senza Woody Guthrie? Pete Seeger, Bob Dylan, Robbie Robertson, Tom Waits, Bruce Springsteen, Steve Earle, Billy Bragg e altri ancora ne sanno qualcosa. Un riferimento per tutti loro e un’eredità pesante da far rivivere. Un messaggio che si rivela tuttora drammaticamente attuale. Nella sua non lunga esistenza, è stato testimone diretto di cambia-

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ritney Spears, la cantante più amata e chiacchierata del Pianeta, ha finalmente annunciato il suo prossimo tour, probabilmente mondiale. Il prossimo anno, stando a quanto riferito dalla stessa cantante all’emittente radiofonica Z100 di New York, la Spears girerà dunque il mondo nel tentativo di riacquistare la notorietà, ma soprattutto la fiducia dei fan. Un paio d’ore

rutta notizia per i fans dei Led Zeppelin. Secondo quanto riferisce il Rollingstone.com, Robert Plant ha smentito categoricamente i rumours circolati negli ultimi giorni riguardanti il lancio di un tour reunion dei Led Zeppelin la prossima estate. In un comunicato pubblicato sul sito ufficiale di Robert Plant emerge che il musicista è ancora impegnato a suonare dal vi-

I testi delle canzoni del folk singer americano, ancora attualissimi, raccolti in un volume

L’artista lo ha annunciato all’emittente ”Z100”. Mentre è in uscita il nuovo album ”Circus”

Robert Plant smentisce la registrazione di un nuovo disco e del tour con il resto della band

menti epocali che hanno influito sulla vita sociale, politica e culturale della società americana: dalla crisi economica del 1929 alle politiche rooseveltiane del New Deal, dall’intervento americano nel secondo conflitto mondiale, alla società dei consumi del dopoguerra al maccartismo, dal ribellismo degli anni Cinquanta al folk revival degli anni Sessanta fino all’esplosione del movimento della controcultura. E la Feltrinelli, in omaggio al grande folk-man americano, ha pensato di dedicargli un libro con tutte le sue canzoni tradotte (Le canzoni di Woody Guthrie, 315 pagine, 11,00 euro). Da non perdere.

dopo, la dichiarazione è stata ripresa dalle maggiori agenzie di stampa internazionali. Dopo un lungo periodo burrascoso, in cui l’artista è stata ricoverata due volte per problemi psichiatrici, da alcuni mesi Brit sembra nuovamente aver assunto il controllo della propria attività e di se stessa. La Spears ha iniziato a dare chiari segnali di miglioramento già dallo scorso febbraio, quando il padre decise di prendere in mano in controllo dei suoi affari. Tra fine novembre e inizio dicembre 2008, approderanno nelle rivendite gli attesissimi Womanizer e Circus, rispettivamente il suo nuovo singolo e il suo nuovo album.

vo nel Nordamerica con Alison Krauss e che appena terminato questo tour «non ha nessuna intenzione di tornare on the road nei due anni successivi. Questo significa che non entrerà in studio né andrà in tour con i Led Zeppelin». Il comunicato prosegue in questo modo: «È frustrante e ridicolo che questa storia continui a manifestarsi mentre i protagonisti preferiscono portare avanti i loro rispettivi progetti. Auguro a Jimmy Page, John Paul Jones e Jason Bonham nient’altro che il successo per qualunque progetto futuro». Che dire? Anche se per poco è stato bello sognare di rivedere gli Zeppelin insieme sul palco.

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zapping

UNO SCACCIAPENSIERI per Carmen Consoli di Bruno Giurato iam terroni e per di più nati in riva allo Jonio (il mare color del vino, la terra del peperoncino eccetera) quindi che la cantantessa Carmen Consoli faccia successo in America ci riempie di legittima gioia, e legittimo orgoglio, come il mare, il vino, il peperoncino, anzi di più. Che si possa leggere sul New York Times: «Carmen Consoli è una magnifica combinazione tra una rocker e un’intellettuale» è un’ottima cosa. Che la Carmen faccia un tour per i vari istituti di cultura italiani negli Usa (e per locali e teatri americani) è tutto grasso che cola: bene farà agli istituti la frisson galvanique di una rocchettara catanese musicalmente raffinata, voce originale e splendida strumentista. Ma qui a costo di dover fare i guastafeste qualcosa bisognerà dire. Il NYT scrive che la Carmen musicalmente «guarda alle tradizioni della sua terra», e che si è presentata sul palco con un violino, una fisarmonica e un bouzuki. Cioè con uno strumento della tradizione europea, uno della tradizione mitteleuropea e un altro della tradizione greca. Ora, vabbè, gli americani credono che la pasta con le polpette sia un piatto italiano, ma è almeno da un paio d’anni, dal disco Eva contro Eva, che la Carmen vuole convincerci di rifarsi alla musica siciliana. Solo che nella musica siciliana non c’è traccia di violini, fisarmoniche e bozouki. Come non c’è traccia o quasi della chitarra acustica con cui la Consoli si accompagna (ha imparato a suonare coi Beatles e con il Jazz). Quindi ci piacerebbe molto che la Carmen tornasse davvero alle proprie radici, con la zampogna, il bummulu e lo scacciapensieri. O magari cantando in siciliano, ma con la tradizionale (per lei) chitarra elettrica.

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jazz

classica

Quelle melodie lunghe lunghe di Bellini di Jacopo Pellegrini ccezion fatta per Catania, il teatro di Vincenzo Bellini (1801-35) s’è ormai ridotto sulle scene quasi solo a I Capuleti e i Montecchi e alla Sonnambula. Ma se la città etnea vanta doveri speciali, in quanto culla del musicista, altrove sembra prevalere la paura. Paura di non azzeccare la compagnia giusta, giacché sul podio si pensa che un professionista onorevole basti e avanzi, con tutti quegli accompagnamenti arpeggiati in su e in giù; e il regista, meno fa meglio è. Pertanto, mentre Romei Giuliette e Amine in giro se ne trovano ancora (più o meno), opere un tempo popolarissime come Norma o I Puritani, già riserva di ugole privilegiate oltre che pretesto per abbandonarsi liberamente a un tifo da stadio (pro o contro le suddette ugole), sembrano destinate all’estinzione. Quasi a smentire questa mala profezia, ecco, tra Roma e Palermo, risorgere in una fiammata e la Druidessa gallica e gli amanti divisi dalla guerra civile divampata nell’Inghilterra del Seicento. Per di più, ironia massima!, a coronamento del Belcanto Festival (chi ci libererà dagli anglicismi di chi non sa l’inglese?) predisposto dall’Accademia di Santa Cecilia, una bacchetta celebre e del tutto estranea alle pratiche routinières del repertorio italiano - lo statunitense di origini giapponesi Kent Nagano, Generalmusikdirektor a Monaco di Baviera - si è arrischiata a Norma per amore delle melodie «lunghe, lunghe, lunghe» di Bellini (la definizione è d’uno che se ne intendeva, Giuseppe Verdi) incarnate stavolta da Micaela Carosi, astro in ascesa al debutto nei panni della protagonista, Sonia Ganassi (Adalgisa), Gregory Kunde (Pollione). In contemporanea, al Massimo di Palermo, dopo un’assenza lunga 35 anni, tornavano I Puritani. Il nuovo allestimento, firmato in tutto e per tutto da Pier’Alli, chi vorrà potrà rivederlo a Bologna in gennaio, a Cagliari nel maggio 2010. Sappiate però che non ne vale la pena: solito piano (molto) incli-

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nato, solita cromia grigio-nera, solito buio pesto, solita immobilità di solisti e coro (anche quando si slancia «a festa, a festa»), soliti gesti pseudostilizzati, vale a dire strabanali. Unico momento in cui era dato riconoscere un impegno registico, la Scena e Aria di Elvira all’atto II (quantunque Giorgio e Riccardo se ne stessero sempre là, impalati), anche per merito dell’espressiva interprete femminile, la stella locale (e non solo) Désirée Rancatore: ancora fievole per le grandi arcate liriche richieste dalla parte, per converso ella s’avventura sui rami più alti della tessitura colla grazia e la noncuranza del rosignolo. Alla solidità complessiva dell’emissione il baritono Marco Di Felice (Riccardo) non associa purtroppo una pari cura delle prescrizioni dinamiche; Carlo Colombara (Giorgio) è raro che sprechi una frase, anche se al momento la sua forma vocale non appare delle migliori. Il tenore Josep Bros, alla mia replica, ha superato con onore (salvo qualche suono ballante in alto) il confronto colla scrittura acutissima e impervia di Arturo, affrontato con una non disdicevole foga cavalleresca. Ricca di potenzialità anche la seconda compagnia: il professionismo della Auyanet s’accompagnava alla sensibilità di Taormina, al materiale ragguardevole di Bilgili e, soprattutto, del tenore georgiano Mukeria: tutti e tre promettenti, tutti e tre bisognosi di studio. Spacciato per un accompagnatore di cantanti, Friedrich Haider s’è invece rivelato un direttore in grado d’imporre con determinazione il proprio punto di vista interpretativo, senza per questo abbandonare i solisti al loro destino. Alle prese con un coro riottoso e oltremodo impreciso e con un’orchestra discreta ma non omogenea (bene legni e corni, meno i violini), sembrava voler dare ragione all’autore che in una lettera dichiarava di aver strumentato I Puritani «come un angiolo: una melodia nutrita d’armoniose consonanze (…) ti fa un bene dell’anima».

L’arte dell’imperfezione (con qualche eccezione) di Adriano Mazzoletti ed Gioia, italo-americano laureato in filosofia alla Oxford University è un cinquantenne che sul successo dell’Arte Imperfetta. Il Jazz e la cultura contemporanea, pubblicato negli Stati Uniti dieci anni fa, ha abbandonato la carriera di consulente finanziario per abbracciare quella di saggista, pianista con Eddie Moore e Larry Grenadier e docente di Storia del Jazz alla Stanford University. Ora il libro di Gioia viene pubblicato anche in Italia nella traduzione di Fabio Paracchini per Excelsior 1881 di Milano. In 190 pagine, l’autore esamina quella che definisce «arte imperfetta» che privilegia, secondo Gioia, l’inventiva del momento, di alcuni fra i maggiori esponenti della musica del Novecento, Louis Armstrong, Jelly Roll Morton, John Coltrane, Ornette Coleman e altri che analizza

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per delineare quella da musicisti memorizzasselui definita «l’estetica delro le linee che lui stesso l’imperfezione». aveva creato. Così EllingA questo proposito Ted ton o Coleman Hawkins Gioia asserisce che «l’econ il suo capolavoro stetica del jazz sarebbe Body and Soul. Anche quasi una sorta di non Benny Goodman, Teddy estetica» in quanto il jazz Wilson, Lionel Hampton manca di «forma, simmee Gene Krupa memoriztria ed equilibrio che enzavano molte parti delle Ornette Coleman fatizza l’elemento metodiloro esecuzioni come è co della creazione artistipossibile constatare dalle ca. Ma l’improvvisatore - continua Gioia diverse matrici dello stesso brano ini- non è affatto metodico e quindi questi zialmente scartate dalle case discografitermini sono applicabili al jazz solo tan- che e in seguito pubblicate. genzialmente». Sappiamo però che l’im- Gioia nel capitolo sul «Neoclassicismo provvisazione nel jazz non è sempre co- del jazz» continua a considerare questa sì spontanea come l’autore crede. L’im- musica come forma che basa la sua esiprovvisazione simulata, pensata se non stenza solo e unicamente sulla pura imaddirittura scritta e memorizzata dal provvisazione, quando afferma «che musicista è stata pratica comune di mol- nell’atto spontaneo dell’improvvisazioti grandi del jazz. Jelly Roll Morton con ne l’artista non ha la possibilità di dare i Red Hot Peppers pretendeva che i suoi alla propria musica un’esistenza a sé di

rivederla, di riconsiderarla, di meditarvi sopra», da qui quella che lui chiama l’autoindulgenza del musicista di jazz. A parte queste considerazioni, il volume contiene pagine assai interessanti sui rapporti fra jazz e le altre arti del Ventesimo secolo e con la musica di consumo riprodotta. La fine degli anni Venti, quando Louis Armstrong aveva da tempo abbandonato Fletcher Henderson e soprattutto cambiato repertorio, è vista da Gioia come l’inizio nel jazz di quella che Erik Satie ha definito Musique d’Ameublement. La musica di sottofondo che iniziava a essere utilizzata alla fine degli anni Trenta con il grande sviluppo della radio e che oggi ha invaso i bar, i ristoranti, gli ascensori, i supermercati di tutto il mondo. Ted Gioia, L’Arte Imperfetta. Il Jazz e la cultura contemporanea, Excelsior 1881, 190 pagine, 17.50 euro


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narrativa

libri

La commedia degli orrori di due uomini in carriera di Pier Mario Fasanotti n un’azienda di medie o grandi dimensioni si può concentrare il peggio delle relazioni umane, la meschineria delle ambizioni, i pettegolezzi che sostituiscono i dialoghi, i sotterfugi, i fatti e i fatterelli della vita quotidiana che condizionano l’esistenza privata, se ce n’è una. Antonio Ortuño (1976), messicano figlio di immigrati spagnoli, descrive questo universo di orrori quotidiani in modo comico, grottesco e doloroso. Smonta il rifugio di ogni uomo o donna, il posto di lavoro, esalta la cupezza o l’esasperazione del dipendente-schiavo. Lo fa attraverso due vite incrociate. A campeggiare è Gabriel Lynch, ossessionato dalla povertà e dalla spinta paterna a seguire un affaticamento assurdo e privo del riscatto della gratifica professionale. Ripete più volte: la mia è la storia di un odio. Il suo incarico in azienda è modesto, si occupa di carta per fotocopiatrici e della «evoluzione degli inchiostri». Indossa abiti dozzinali, si rammarica di tutto, dalla casa dove dorme all’impossibilità di invitare una bella ragazza al ristorante, vive di astio nei confronti dei dirigenti del terzo piano, dove l’aria è fresca, addirittura profumata. Ma il gioco perverso delle carriere lo umilia. Preferisce le donne racchie. Ha una relazione con Fernanda, impiegata che odora di latte cagliato, poi con Veronica, frustrata ma meglio della prima. Si guarda attorno e vede solo «schiavi», rotolanti nei «piaceri più funerei dell’universo». Compassione? No, rabbia: «Non c’è alcun vantaggio, proprio nessuno, nella consapevolezza di essere bestiame. Li guardo ridere ottusamente, come se assaporassero del mangime giustamente guadagnato, mentre io sono sull’orlo di un attacco di vomito». Gabriel persegue nella metafora animalesca quando dice: «Noi maiali, si sa, mangiamo tutto». Divora, ma senza alcuna passione autentica, non tanto le donne quanto i resti delle donne, ossia quel che gli capita e che a prima vista pare preda facilissima in quanto non ambita da altri. È scettico e cinico per quanto riguarda il rapporto amoroso perché parte sempre dal punto di vista del ridicolo, con una venatura di autocommiserazione (della quale peraltro è tristemente consapevole: quindi un’aggravante). «Una volta» dice a sé «ho sentito una definizione azzeccata dell’amore fisico:

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un reciproco saccheggio di corpi». Avverte anche il senso del deludente scorrere del tempo: «Ho finito col trascinare per anni cattive amicizie con donne con cui avrei dovuto trascorrere una sola notte». Poi si ferma a contemplare la sua «retorica da predicatore». A metà romanzo l’azienda viene scossa da esplosioni: è la metafora di un crollo. Ma poi torna tutto come prima, dopo la ristrutturazione. Mai nulla cambia. Parallelamente all’ascesa (casuale) di Gabriel al terzo piano, c’è il declino emotivo dell’altro protagonista, Costantino: la morte del padre toglie i bulloni dai suoi punti fissi, e lui si trascina in una vita che assomiglia molto a quella condotta da Gabriel, suo ex «inferiore». In entrambi i casi, il dramma e le sue infinite maschere del disagio del vivere si celano dietro problemi familiari, radice di sbandamenti, finzioni, piccole azioni mai sorrette da sentimenti forti e autentici, amore compreso. Antonio Ortuño, Risorse umane, Neri Pozza editore, 163 pagine, 14,00 euro

riletture

Napoli, la spazzatura, il Re e il lustrascarpe di Giancristiano Desiderio o ritrovato nella mia libreria un volume di Domenico Rea datato 1960. Si tratta di un’edizione dell’editore napoletano Pironti e raccoglie molti articoli che lo scrittore napoletano aveva scritto negli ultimi quindici anni. Il libro s’intitola Il re e il lustrascarpe. L’ho sfogliato, letto qua e là e sono rimasto catturato dalla prosa dell’autore di Spaccanapoli. Ma ciò che più mi ha incuriosito è stato il titolo. Mi sono detto: in una stagione in cui Napoli ha conosciuto lo scuorno - giusto il titolo dell’ultimo libro di Francesco Durante pubblicato ora da Mondadori: Scuorno - ossia la vergogna della sepoltura sotto la spazzatura, è fin troppo intrigante pensare che fino a qualche tem-

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po fa esisteva a Napoli un mestiere ormai scomparso: il lustrascarpe. Ho riletto quell’articolo che, di fatto, è un vero e proprio racconto. Si racconta di un incontro tra il lustrascarpe e lo stesso autore che, in giro per Napoli, affida le sue scarpe alla sapiente pulitura di questo ultimo artigiano il quale esordisce così: «Se non ci organizziamo anche noi faremo la fine dei cocchieri». Infatti, anche i lustrascarpe hanno fatto la fine dei cocchieri: spazzati via dal vento impetuoso della Modernità. Chi ha più tempo o, meglio, chi avrebbe tempo oggi per farsi pulire a regola d’arte le scarpe? Anzi, lasciando stare il tempo, chi oggi semplicemente penserebbe che farsi pulire le scarpe da un maestro del mestiere è cosa buona e giusta? Eppure, c’è stato un tempo in cui il lustra-

scarpe svolgeva una vera missione. «Che cosa fa un signore vostro pari?», chiede il decano dei lustrascarpe. E poi risponde: «fa denari e acquista un appartamento, poi chiama l’ebanista, il tappezziere e se ha una bella casa ordinerà per sé e per i suoi dei bei vestiti. E poi potrebbe andare in giro con le scarpe sporche? Ecco giunto il momento del lustrascarpe». Si può avere una brutta casa che nessuno vedrà mai, ma si possono avere delle scarpe sporche e scassate che tutti vedranno? Mentre il lustrascarpe parla, lavora. Prima la scarpa destra, poi la sinistra, quindi nuovamente la destra, poi la sinistra. Spazzola, crema, anilina, pezza, velluto: il lavoro è un’arte e come tale va fatto con cura, tempo e rigore. Non si liquida in due botte e via. No. È un’arte di cui

anche il Re volle conoscere il segreto. Il Re era servito e riverito e si faceva fare tutto dai servi e dai camerieri, ma su un punto voleva servirsi da sé. Un giorno mandò a chiamare mastro Ciccillo Gironda, il nonno del nostro decano, e gli disse: «Caro Ciccillo, tu mi devi insegnare a pulire le scarpe alla napoletana e dopo ti do quello che vuoi, un palazzo o un bosco, una nave o una carrozza a quattro, a piacere». Mastro Ciccillo gli fece lezione per tre giorni nei quali mangiarono e passeggiarono insieme discutendo sulla «storia dell’arte di pulire scarpe» e alla fine uscì dal palazzo con la carrozza del Re. E da qual giorno il Re si pulì le scarpe con la sue mani. Vuoi vedere che il motivo dello scuorno napoletano è tutto qui: nessuno si sa più pulire le scarpe.


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gialli

Intrigo internazionale a Dark Harbor di Massimo Tosti er gli amanti del poliziesco questo è davvero un libro da non perdere. Ci sono tutti gli elementi classici: qualche cadavere, un intrigo internazionale, un numero allettante di colpi di scena, un’investigatrice avvenente, dialoghi serrati. Un copione ideale per una trasposizione cinematografica, con pochi effetti speciali e tanta sostanza. L’autore - Stuart Woods - è una garanzia: i suoi romanzi (una trentina in tutto) hanno venduto 20 milioni di copie. E quest’ultimo lavoro, Morte sull’isola è stato in testa alle classifiche di vendita americane.

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classici

Forse, il segreto principale del successo, è nella personalità dell’autore, abituato all’avventura esattamente come i personaggi che escono dalla sua fantasia (primo fra tutti l’investigatore Stone Barrington, protagonista anche di questo romanzo). Woods divide la propria esistenza fra il Maine (l’isola della storia, e in particolare Dark Harbor, raffinata meta turistica dove si svolgono i fatti, è al largo delle coste del Maine, ndr), la Florida e New York. Di tanto in tanto molla tut-

to per girovagare con la sua barca a vela di 28 piedi. «Girovagare», nel senso che ha partecipato più di una volta alla Artemis Transath, la mitica regata in solitario da Plymouth (sulle coste meridionali dell’Inghilterra) a Marblehead (a nord di Boston, nel Massachussets): tremila e più miglia in due settimane di fatica, avventura e rischi non calcolabili. Per non farsi mancare davvero niente, Woods ha anche il brevetto di pilota d’aereo. Ha girato il mondo (non soltanto in barca a vela)

trascorrendo qualche anno della sua vita anche in Germania e in Irlanda. Una vita del genere aiuta, senza dubbio, a raccontare storie che - al rigore dell’ambientazione - aggiungono l’emozione dell’avventura, realistica e verosimile. Per questo, assolutamente coinvolgente. Quanto alla trama, vale la regola dei polizieschi tradizionali: il più piccolo indizio potrebbe aiutarvi, e ne risentirebbe il gusto della lettura. Un piacere da consumare seduti in poltrona, e con un drink a portata di mano. Come i personaggi dell’Isola. Stuart Woods, Morte sull’isola, Longanesi, 310 pagine, 16,60 euro

Torna lo Spaccone, Icaro dei tempi moderni di Livia Belardelli l sorriso magnetico, la stecca in mano, l’andatura sicura di chi è abituato a vincere. Gli occhi sono quelli blu di un indimenticabile Paul Newman, asso del biliardo nel film di Robert Rossen del 1961. È Lo Spaccone di Walter Tevis, di nuovo in libreria edito da Minimum fax per la collana Classics. Peccato ancora una volta non poter cogliere nella traduzione italiana, ormai consolidata, le sfumature del termine inglese usato nel titolo originale, The Hustler, più suggestivo nell’indicare l’essenza del protagonista. In tempi come i nostri, dove spesso la spavalderia viene indicata o imposta come modello, è puntuale e apprezzabile la

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viaggi

riproposizione del romanzo a cinquant’anni dall’esordio newyorkese (1959). È un testo classico, ma anche un fiume, o un torrente carsico, che attraversa la storia, in grado di diventare emblema comportamentale facilmente ritrovabile nei vari ambiti dell’agire umano, sia pubblico che privato. Il giovane Eddie, forte del suo talento, abbandona la vita di provincia per la grande città, ansioso di affrontare Minnesota Fats, un mito inespugnabile, imbattuto eroe del biliardo. Ma Chicago nasconde una trappola. Per uno come Fast Eddie che ha talento ma non carattere è facile mettersi nella condizione di perdere e cedere all’autocommiserazione. Tuttavia tra atmosfere fumose, whisky e panni verdi c’è spazio anche per una storia d’amore. Sarah

è storpia e alcolizzata, lo sguardo malinconico di chi è stato ferito dalla vita. È dura e sarcastica ma anche vulnerabile e sola: proprio come Eddie. I due si incontrano e si amano ma non sono in grado di coltivare e consolidare il sentimento che li potrebbe salvare. Poi c’è il tempo per l’ultima partita. Questa volta il talento lo premia, beffa di un destino da cui si farà tradire nella partita più importante, quella dell’esistenza. Sotto gli occhi delle sue guide, quelli vigili e profondi di Charlie e quelli penetranti, da giocatore, di Bert, si sgretolano le certezze, il senso di onnipotenza e l’esuberanza dello spaccone. Gli occhi di Eddie non sorridono più, abbattuti prima dallo sguardo nero e guizzante di Minnesota Fats, poi dalla hybris, che lo vede precipitare come un Icaro moderno. Walter Tevis, Lo Spaccone, Minimum fax, 256 pagine, 11,00 euro

Pellegrinaggi della memoria tra Mosca e Berlino di Vito Punzi orte di una tradizione sempre pronta a trovare nella realtà nuovi e stimolanti motivi di rinnovamento, Wolfgang Büscher ha fatto del pellegrinare a piedi la fonte prima della propria creatività narrativa. Il presidente della Repubblica tedesca, Horst Köhler, conferendogli il prestigioso Börne-Preis, nel 2006 ha ben sintetizzato le doti del giornalista-reporter di Kassel definendolo autore capace di «invitare il lettore a camminare e a osservare con lui», senza la pretesa di imporre il proprio punto di vista. Per i lettori italiani amanti della letteratura di viaggio segnalia-

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mo l’uscita praticamente contemporanea di due dei suoi tre libri pubblicati in Germania. Non ci si lasci ingannare tuttavia dall’indicazione del genere. Quella di Büscher è narrativa che indaga lo spazio (il paesaggio, gli incontri) col supporto della memoria. Per questo è soprattutto viaggio nel tempo. Così i chilometri percorsi a piedi attorno a Berlino sono in Ore zero motivo per tessere una complessa rete narrativa, le cui fitte maglie, tessute col supporto di «lettere non lette e diari ammuffiti», supportano l’evocazione dei drammatici mesi successivi alla fine del dodicennio nazista, fino al rivolta sessantottina, alla caduta del Muro nel 1989 e oltre. Una tes-

situra che non censura i contrastanti destini di singoli (particolarmente riusciti quelli dell’ingegnere Ferdinand Porsche e del Gauleiter dei Sudeti, Konrad Henlein) ma neppure quello dei popoli di lingua tedesca cacciati dai territori orientali dopo il 1945. Non è un caso che Büscher si sia incamminato per il suo secondo viaggio verso Oriente (BerlinoMosca. Un viaggio a piedi). Poco meno di tremila chilometri di pellegrinaggio verso Mosca accompagnato dallo «spirito» del nonno caduto in guerra, ma anche da uno stalker, perché per il regista Andrei Tarkowskij «la terra era il luogo della ricerca e della redenzione». A differenza delle falli-

mentari campagne militari, a Büscher riesce la «conquista» della capitale russa, ma solo per accorgersi che «l’Oriente è qualcosa che nessuno vuole», che «Mosca è di nuovo Occidente». Wolfgang Büscher, Ore zero, Keller editore, 207 pagine, 13,00 euro; Berlino-Mosca. Un viaggio a piedi, Voland, 217 pagine, 14,00 euro

altre letture Chi fu il profeta

Maometto? Quali sono i dogmi dell’islam? In cosa consistono le sue grandi correnti sunnismo, sciismo, ibadismo? Quale ruolo è assegnato alla donna e al sesso? Che cosa sono il ramadam e il sufismo? Che cosa sono la svaria, la fatwa e il sufismo? Perché Gerusalemme è terra santa per i musulmani e che cosa si intende per islam illuminato? Malek Che bel - antropologo e storico di fama internazionale ripercorre in L’islam (Marietti, 234 pagine, 20,00 euro) le tappe fondamentali della dottrina islamica mettendola a petto della modernità e delle poste in gioco per questa religione all’alba del XXI secolo.

Professore di

Demografia all’Università di Firenze Massimo Livi Bacci si occupa nel saggio Avanti giovani, alla riscossa (Il Mulino, 118 pagine, 10,00 euro) della questione giovanile in Italia. Un Paese dove si può essere apprendisti fino a trent’anni, dove appartengono ai giovani industriali persone di quarant’anni, dove sono troppo giovani per far parte di élites accademiche studiosi di cinquant’anni e si chiamano ragazzo o ragazza persone di età matura. Ma nella realtà demografica i giovani sono diventati pochi: compiono oggi vent’anni meno di 600 mila giovani ma erano 900 mila nel 1990 e rispetto ai coetanei europei percorrono molto più tardi le tappe che li portano all’autonomia e all’età adulta. Un dramma per loro e per l’intero paese, ingessato da un potere gerontocratico che non ha nessuna intenzione di lasciare il passo.

Nel 2001 il Comitato intergovernativo sui cambiamenti climatici pubblicò uno studio in cui prevedeva che se l’umanità non avesse cambiato rotta entro la fine del secolo la temperatura globale sarebbe aumentata da un minimo di 1,4 a un massimo di 5,8 gradi. In Sei gradi (Fazi editore, 239 pagine, 18,00 euro) Mark Lynas, giornalista e commentatore televisivo, descrive grado per grado le conseguenze di questo cambiamento climatico sulla terra e su ognuno di noi. Conseguenze terrificanti.


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ritratti

ROMANO GUARDINI A QUARANT’ANNI DALLA MORTE, LA RILEVANZA DEL SUO PENSIERO DIVENTA EVIDENTE ANCHE IN ITALIA, DOVE FINALMENTE È STATA AVVIATA LA PUBBLICAZIONE DELL’OPERA OMNIA. UNA RIFLESSIONE CHE TRA ETICA E RELIGIONE, TRA CITTÀ DEGLI UOMINI E CITTÀ DI DIO SI FONDA SUI CONCETTI DI LIBERTÀ, ONORE, LEALTÀ, RESPONSABILITÀ

Il teologo del cuore di Renato Cristin

ella premessa al libro Introduzione allo spirito della liturgia, pubblicato nel 2000, l’allora Cardinale Joseph Ratzinger scriveva: «Una delle mie prime letture dopo l’inizio degli studi teologici, all’inizio del 1946, fu la prima opera di Romano Guardini Lo spirito della liturgia, un piccolo libro pubblicato nella Pasqua del 1918. Quest’opera contribuì in maniera decisiva a far sì che la liturgia, con la sua bellezza, la sua ricchezza nascosta e la sua grandezza che travalica il tempo, venisse nuovamente riscoperta come centro vitale della Chiesa e della vita cristiana». Nello sforzo di unire sacralità del segno e bellezza del rito per rinnovare la comprensione del momento fondamentale del rapporto tra i fedeli e Dio, Ratzinger ricorda ed elogia il lavoro di Guardini, prezioso perché ha mostrato lo strato mistico della prassi liturgica e la sua potenza di espressione spirituale e semantica. Fornendoci la misu-

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roso influsso del suo insegnamento a Wittenberg). Italiano di nascita e tedesco d’elezione, Guardini è una delle più luminose figure in cui si esprimono le relazioni fra Italia e Germania. Se quest’ultima gli ha tributato il dovuto onore (nel 1985, in occasione del centenario della sua nascita, le Poste federali tedesche gli dedicarono un francobollo commemorativo, e dal 1987 è attiva a Berlino la Fondazione Romano Guardini, la quale tra l’altro ha istituito presso l’Università Humboldt una cattedra di Teologia a lui intitolata), il nostro Paese deve ancora colmare una lacuna (nel 2005 a Verona è stato fondato il Centro Studi Romano Guardini, la cui attività però è nota quasi esclusivamente in ambito accademico). Fin dagli anni Venti, quando si impegna nel movimento giovanile cattolico riunito intorno al centro di studi «Quickborn» («fonte vivente») e all’omonima rivista, Guardini affianca alla

La teoria dell’opposizione, struttura portante della sua meditazione, non è lotta contro il nemico ma possibilità di mediazione, sintesi feconda, costruzione di unità concreta. Con ragione e sentimento... ra della rilevanza di Guardini nella riflessione teologica contemporanea, questo riferimento ci spinge ad approfondire tutti gli aspetti di un pensatore che ha lasciato una traccia tanto importante non solo in colui che sarebbe diventato Papa Benedetto XVI ma pure in larga parte della cultura cristiana europea e, più specificamente, tedesca, tanto che, per la forza e l’efficacia del suo magistero, nel 1955 l’abate benedettino Hugo Lang lo definì praeceptor Germaniae (con un’analogia del massimo rango: «precettore della Germania» fu infatti definito Melantone, per il pode-

meditazione sui vari temi della teologia e della prassi cristiana una sempre più approfondita riflessione sia filosofica sia socio-politica, che si riversa in oltre un centinaio di opere edite. La teoria dell’opposizione polare è la struttura portante del suo pensiero, esposta nel saggio del 1925 Der Gegensatz (L’opposizione polare) ed esplicitata come una «filosofia del concreto-vivente», come un pensiero che procede per opposti perché per opposti si sviluppa la vita stessa. In una lettera del 1967 in cui commentava la dottrina del dialogo di Papa Paolo VI, Guardini

precisò: «La teoria degli opposti è la teoria del confronto, che non avviene come lotta contro un nemico, ma come sintesi di una tensione feconda, cioè come costruzione dell’unità concreta». I riferimenti storico-filosofici di questa teoria sono la dialettica platonica, Hegel (criticato però per la sua pretesa totalizzante), Kierkegaard, Goethe, il romanticismo tedesco, Simmel (di cui Guardini seguì le lezioni nel 1905 a Berlino). Il suo obiettivo è «non una critica della ragione in generale, ma una critica della ragione concreta» (espressione che ricorda l’esigenza diltheyana di una «critica della ragione storica»). Riflettere sulla ragione concreta significa «dirigerci al flusso sanguigno stesso della vita», e quindi al soggetto generico e astratto va sostituito il soggetto individuato e concreto, che esprime «la forza creativa individuale» e al tempo stesso la fallibilità del proprio agire, la tensione verso l’assoluto e la finitezza della propria esistenza, la ragione pura e il sentimento opaco, la capacità di giudizio e la potenza del pregiudizio. Gli opposti, come insegnava Eraclito, governano il mondo e pervadono l’esistenza, ma Guardini non li concepisce come punti immobili irriducibili fra loro, bensì come poli di un flusso che li coinvolge e li fa interagire.

Opposizione non significa contraddizione, ma polarità che contiene in sé la possibilità della mediazione: «L’idea degli opposti non è un sistema chiuso, ma un aprire gli occhi e un orientarsi interiormente al vivo essere. Essa fa in modo che la realtà diventi per noi spazio e ricchezza di forme in cui potersi muovere senza perdersi». Per cogliere la pienezza di questo spazio vivente e polarizzato, è prioritario elaborare una filosofia e una teologia del cuore: «Il cuore è lo spirito stesso, fattosi sensibile e caldo grazie al sangue, ma innalzatosi allo stesso tempo verso la chiarezza della visione, l’evidenza della forma, la precisione del giudizio». Il richiamo all’azione euristica della ragione, elemento costante del suo pensiero, si intreccia con quello all’azione intuitiva del sentimento, perché «nel cuore lo spirito si incontra con il corpo fisico rendendolo “corpo vivente”; nel cuore il sangue si incontra con lo spirito rendendolo “anima”». In questa prospettiva, gli opposti della vita


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Foto di Hans L. Pillat e Artur Pfau concesse dalla Fondazione Romano Guardini di Berlino e dalla Prof.ssa Hanna-Barbara Gerl Falkovitz. Francobollo commemorativo della Repubblica federale tedesca, emesso nel 1968 in occasione della morte di Guardini

li articolazioni, ma pure lo sguardo sulla storia, la considerazione del contingente e dell’assoluto, la risposta alle domande etiche e alle esigenze dello spirito. Perciò essa va salvata da qualsiasi tentativo di piegarla a fini di puro dominio, ma anche da una concezione che la confini nel territorio della semplice amministrazione. Per Guardini l’essenza della politica risiede, come avrebbe detto Heidegger, nella metafisica. In questa chiave viene vista l’essenza e la funzione della Chiesa, concepita, schmittianamente, come complexio oppositorum, in cui il massimo grado di autorità si coniuga con il massimo grado di libertà: essa è «l’unità universale originaria». E il popolo incarna l’unione fra Stato e Chiesa: il fine della politica è che «un popolo agisca per realizzare la sua natura, datagli da Dio. Per stare al suo posto nel mondo. Ma che sia un essere in libertà. E un essere nell’onore». Al riguardo, la sua analisi dello spirito tedesco è esemplare: esso concepisce l’autorità in senso metafisico e obbedisce in forma totale. Nell’uomo tedesco, scrisse Guardini nel 1954 a Henry Kissinger, vige un riconoscimento totale dell’autorità, come dimostra il caso del nazionalsocialismo, fulcro di un legame mistico insuperabile «che si esprime nella frase: “un comando è un comando”. Non è stupidità, né mancanza di coscienza, ma il senso di un vincolo nei con-

mento storico «un uomo deve sapere che cosa è in gioco ed essere pronto a pagare per questa. Solo allora può avanzare in modo credibile l’esigenza della pace». Contro il banale e spesso ideologizzato pacifismo, egli ritiene che «allora quell’uomo sentirà che la guerra è un orrore, ma sentirà pure che essa è anche il campo su cui un popolo dimostra di sapersi battere fino all’ultimo; di sapersi battere per il suo onore e la sua libertà». Nel 1924, con un coraggio morale che solo la difesa della verità può infondere, egli scrive: «La guerra può essere piena di ogni aspetto terribile e meschino, ma in essa si compie tuttavia l’impegno estremo di un popolo per la vita e per la morte». Solo da questa prospettiva e solo grazie a «uomini nuovi», con «occhi più limpidi, anima più libera e mano più forte», si potranno «risolvere i problemi della nostra civiltà». A tal fine bisogna liberare «energie dell’anima finora bloccate», energie «del carattere, della fedeltà, del sacrificio», energie «dello spirito, dell’incondizionato, energie di Dio». Solo questi uomini potranno rendere conto della guerra e della pace; «tutti gli altri restano dei confusionari». Critico del pacifismo e della democrazia formale, avverso a ogni totalitarismo, Guardini persegue l’idea della dignità della persona come fine della politica. Ma «la conoscenza della persona è legata alla fede

Punto di riferimento in Germania, fu critico del pacifismo e della democrazia formale e avverso a ogni totalitarismo. Per lui il fine della politica è la dignità della persona. E la sua essenza la metafisica hanno sempre un imprescindibile punto di riferimen- fronti di un’autorità, a cui tale vincolo però non spet- cristiana. La persona può essere affermata e coltivata to nella coscienza. Si afferma qui la teoria della per- tava». Diverso è lo spirito italiano, come dimostra il per qualche tempo anche quando tale fede si è spensona come suprema intersezione fra vita e storia: «La caso del fascismo: «In Italia, il fascismo all’inizio ta, ma poi gradatamente queste cose vanno perdute». storia ricomincia nuovamente con ogni uomo, e rico- sembrava essere la stessa cosa che il nazionalsocialimincia a ogni ora, in ogni vita di un uomo. E ha per- smo in Germania; ma in verità era una cosa ben di- E per questa via egli trova l’Europa, nel cui spiciò, in qualsiasi momento, la possibilità di ricomin- versa. In esso, quel particolare legame psichico-meta- rito risolve anche la questione della propria idenciare di nuovo, da quell’inizio che qui è stato posto». fisico mancava del tutto. Così il fascismo si è limitato tità personale: italiano e tedesco insieme, quindi La critica dell’individualismo elaborata da Guardini essenzialmente all’esteriorità. Fu ugualmente, nella europeo. L’Europa è «una figura spirituale operannegli anni Venti si trasforma nei decenni successivi in sua specificità, malvagio a sufficienza, ma non rag- te, a cui non si può finora paragonare nessun’altra. Certo, nessuna forma di vita è eterna. Tuttavia la una difesa dell’individuo in quanto persona, nella sua giunse mai la profondità della totalità tedesca». intangibilità esistenziale e nella sua centralità socia- La libertà e l’onore sono coessenziali alla vita politi- struttura essenziale europea c’è. Essa continuerà e le, la quale «è insieme autonomia e relazione alla to- ca, come lo sono la lealtà e la responsabilità. Respon- sarà soggetto di storia. Una cosa però è sicura: talità». Resta invece invariata nel tempo la sua criti- sabile è colui che riesce a cogliere, cristianamente, le l’Europa diverrà cristiana o non esisterà mai più. ca alla teoria sociale marxista, «che tende a risolvere esigenze dei valori e le necessità della storia, fino a L’essere di Cristo ha liberato il cuore all’uomo eui singoli nella comunità come sue risultanti o funzio- sovvertire, se è il caso, l’opinione dominante. Un ropeo. Questo è l’arché interiore, l’inizio dell’esini o fasi, qualunque sia il modo di esprimersi di que- esempio è la questione della pace: in qualsiasi mo- stenza. Da allora inizia l’enorme rischio della vita e della creatività occidentali. sta concezione collettivistica». Ma qui risiede anche l’unica Perciò bisogna pensare lo spagaranzia che il rischio non zio della politica nella sua esconduca nell’assoluta catasenza originaria, «nel supremo strofe». L’Europa di Guardiordine spirituale» inteso come omano Guardini nasce a Verona il 17 sue numerose opere ni non è semplicistica né euspazio del rapporto fra l’indivifebbraio 1885. Nel 1886 la sua famiglia ricordiamo: Lo spirito demonistica, ma tanto conduo e il divino. Il primo e prinsi trasferisce in Germania, a Magonza. della liturgia (1918), Il creta quanto spiritualmente cipale elemento che rende posDiviene sacerdote nel 1910 e nel 1915 si senso della Chiesa essenziale, un’Europa di posibile la concretizzazione di laurea in teologia all'università di Friburgo. (1922), L’opposizione polo: «Per i popoli sembra questo spazio è la libertà, che A 24 anni, nel 1911, prende la cittadinanza polare (1925), L’uomo nascere una coscienza di esprime il privilegio dell’essetedesca. Nel 1915 si laurea all’Università di e la fede (1933), unità occidentale. Nelle anire umano. Il secondo elemento Friburgo e nel 1922 si abilita all’Università Coscienza cristiana me sembra diventare viva la del politico è la già ricordata di Bonn. Dal 1920 si impegna nel movimen- (1935), Mondo e pervolontà di giungere a una inalienabilità della persona. Il to giovanile cattolico «Quickborn». Nel sona (1939), Hölderlin comunità spirituale euroterzo elemento, in cui i primi 1923 assume a Berlino la cattedra di (1939), Rainer Maria pea», una «comunità di popodue si concretizzano, è lo StaFilosofia della religione e Weltanschauung Rilke (1941), La morte di Socrate (1943), La li» che «in quanto comunità to, che deve possedere «maecristiana. Nel 1939 le autorità nazionalso- fine dell’epoca moderna (1950), Il potere europea» non prevede «alcustà, legittimità e autorità» e decialiste lo sospendono dall’insegnamento e (1951), Studi su Dante (1958), Religione e na mescolanza di culture o di ve concepirsi «come stato polinel 1941 gli viene imposto il divieto di inter- rivelazione (1958), Ansia per l’uomo (1962popoli, né rinnega la storia, tico, in cui un popolo diviene vento pubblico. Nel 1945 viene chiamato 1966), Virtù (1963). L’editore Morcelliana di né fa una stravaganza camcapace di agire, capace di stoall’Università di Tubinga e nel 1948 a quel- Brescia ha avviato la pubblicazione pata in aria». E con la sua tiria, in cui può sostenere la prola di Monaco di Baviera. Nel 1956 riceve la dell’Opera omnia di Guardini in 25 volumi. cittadinanza onoraria del comune di Su vita e opere si vedano le monografie di pica chiarezza, egli conclude: pria esistenza nell’onore e nelVerona. Nel 1965 rifiuta, come gesto di Hanna-Barbara Gerl Falkovitz, Romano questa Europa «non ha prola libertà». Guardini vuole umiltà, la nomina a cardinale che Papa Guardini, la vita e l’opera, Brescia 1988, e di prio nulla a che vedere con dunque «salvare» la sfera della Paolo VI gli aveva proposto. Muore il 1° Carlo Fedeli, Pienezza e compimento, un certo qual internazionalipolitica, perché essa non è solo ottobre 1968 a Monaco di Baviera. Tra le Milano 2004. smo incontrollato che crea l’organizzazione e la cura delconfusione di popoli». lo Stato nelle sue innumerevo-

VITA E OPERE

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l’intervista

LO SCRITTORE TURCO RACCONTA IL SUO NUOVO ROMANZO “IL MUSEO DELL’INNOCENZA”

L’amore secondo Pamuk colloquio con Orhan Pamuk di Bibi David iente è più intenso e più distruttivo ma e bella. La conosce a casa dei genitori di lei. città che sa dare, come nesdell’ossessione di un amore. Quando Fanno sesso. Per lei dovrebbe concludersi lì, per sun’altra metropoli, tristezuna passione resta incompleta, quan- lui inizia un tormento senza fine. Lui la desidera za e malinconia, ma di cui si do manca qualcosa per realizzare del pazzamente, anela al suo profumo, al suo corpo, puà avere bisogno come del cibo e dell’aria. È un tutto una complicità e un’unione, l’intera esisten- poi all’interezza di lei. Ma prima che lui riesca a labirinto costruito sull’asfalto e sui resti di minaza ne è diabolicamente segnata. Niente può farlo cambiare in amore i suoi continui non lo so, un in- reti distrutti, un percorso in bianco e nero che più dell’incompiutezza di un amore: né una guer- cidente uccide la ragazza. Il protagonista è scon- però costringe ad attraversare tutti i colori della ra, né una catastrofe, né qualsiasi altra tragedia. volto ma non si rassegnerà. Non vorrà nessuna al- nostra interiorità. Come sta cambiando oggi la Turchia? La vita diventa come una sfinge, una statua di ce- tra donna ma solo vivere con il ricordo di lei. Un ra dimenticata in un museo». ricordo che come un pensiero fisso lo catturerà e La Turchia è un ponte fra Medio Oriente ed EuroCosì il massimo scrittore turco contemporaneo, lo obnubilerà ogni istante di più. pa. Ha un’anima doppia, divisa, se vogliamo un Orhan Pamuk, premio Nobel per la letteratura nel La storia di un amore che sarebbe potuto es- po’ schizofrenica. Trovo che oggi Istanbul sia 2006, autore di romanzi di enorme successo, traun’altra città rispetto alla Istanbul descritta da sere se… dotti in 59 lingue e usciti in oltre 100 paesi, quali Di un amore a metà, non realizzato del tutto, ap- scrittori come Flaubert. Istanbul è la Parigi dell’AIstanbul, Il libro nero, Il castello bianco, ci intro- punto. Tuttavia più potente di un amore compiu- sia, così ben rappresentata dalle teen agers in duce nel suo nuovo romanzo Il museo dell’inno- to.Vorrei che questa storia facesse riflettere i let- jeans e strass ma con il velo in testa, con un corpo cenza. In attesa che il libro sia presentato ufficial- tori su dove, al di là dei clichè, l’amore può porta- europeo e un’anima mediorientale. mente, a metà ottobre, alla Fiera di Francoforte, re, e su cosa, al di là delle risposte facili, l’amore È appena uscita in Italia una sua raccolta di che quest’anno vedrà la Turchia quale paese ospi- è. scritti, Altri colori. Un libro che ha riscosso te della manifestazione, abbiamo chiesto a Pamuk un grande successo all’estero. Lei si è detto Per lei personalmente, l’amore che cos’è? di parlarci del suo nuovo romanzo e, partendo da Prima di tutto insieme incertezza e voglia appasin alcune recenti interviste sulla stampa turquesto, del suo rapporto con l’amore, con la Tur- sionata di scoprire nell’altro il senso della diverca, molto legato a questo libro. Perché? chia, il paese fantastico e reale onnipresente nei sità, poi un soffio di eterno imprendibile che deve Si tratta di una raccolta di articoli usciti su giornasuoi scritti, e dei cambiamenti avveli, riviste, di una minuta ricostruzionuti con il nuovo millennio nell’unine delle mie riflessioni sulla vita e In Italia uscirà a febbraio, ma sarà presentato alla verso musulmano e nell’islam. sulla società raccolte in anni di laprossima fiera di Francoforte. E l’autore, premio Il museo dell’innocenza è il voro. Tengo a questo libro perché Nobel della letteratura nel 2006, già si aspetta primo romanzo che lei scrive vuole essere un’autobiografia di dopo aver ricevuto a Stoccoluna parte della mia vita e di una reazioni polemiche: per un suo modo nuovo ma il premio Nobel per la letteparte di me. di guardare alla Turchia e di infrangere molti tabù Quali suoi romanzi preferisce oggi? ratura. Cosa è cambiato nel suo approccio alla scrittura doSenz’altro Istanbul, perché lì ho sascegliere se vivere di sé o raccontare di sé. L’amo- puto raccontare come mai avevo fatto prima la po questo fondamentale conseguimento? Se devo dire la verità avrei pensato, nel momento re, a differenza di qualsiasi opera d’arte, anche la mia città. Che, ma qui andrebbe aperta una parenin cui, nel 2006, ricevetti il Nobel, che non cam- più bella, la più sublime, codificata e catalogata in tesi troppo lunga e mi limito ad accennarlo, è un biasse niente. E invece, a distanza di due anni, mi un museo, sfugge al passato e si nutre solo di pre- amore o qualcosa di più. Poi posso dire che ora ho sono ricreduto: è cambiato moltissimo! Non tanto sente. È l’unico sentimento che sa eludere il tem- un particolare affetto per La nuova vita e per Il nel mio modo di scrivere quanto nell’emozione po. castello bianco. In entrambi è potentissimo il quache mi attraversa ogni volta che mi preparo alla Anche nel Museo dell’innocenza la sua città, dro dell’Oriente e dell’Occidente visti come due scrittura. Creare una storia, un romanzo, dopo Istanbul, ha un ruolo di primo piano. Cosa di- identità. aver ottenuto un premio letterario così importanviene Istanbul in questo libro? Tornando al suo nuovo romanzo, quando arte, è difficilissimo. È un salto nel buio, un rischio, Nel romanzo metto a confronto due estremi di riverà in Italia e, secondo lei quale effetto una immensa sfida. Ho avuto paura, ho avuto mil- Istanbul: la Istanbul benestante, borghese, ripetiavrà alla fiera di Francoforte? le ripensamenti, infiniti dubbi. Era giusto ripren- tiva e metodica dei musei e quella delle strade di In Italia dovrebbe essere tradotto a febbraio. Per dere la penna così presto? Una notte sono riusci- periferia, dove la povertà sembra avere un solo quel che riguarda l’attenzione del pubblico, essento, con uno slancio mai avuto prima, a voler gioca- colore, tra il grigio e l’amaranto, finché non sco- do un romanzo che, oltre all’amore, ruota intorno re questa intrigante partita e a coinvolgere tutto priamo che invece nasconde molto di più. a tabù quali il sesso e la verginità, penso che farà me stesso in un convintissimo sì. Qual è oggi il suo rapporto con Istanbul? discutere per un modo nuovo di guardare alla Turchia e alla società musulmana che lì ora c’è. Ci racconti brevemente la storia narrata Istanbul è in qualche modo il lato oscuro e innel suo nuovo libro. comprensibile della mia personaUn’ultima domanda. Come, secondo lei, gli occidentali guardano al mondo musulmano e Siamo quasi negli anni Ottanta. In una lità, divisa fra i miei ricordi e all’islam? Turchia ancora molto tradizionalista, un’ansia struggente di guardaCon troppi stereotipi. Si è perso lo un uomo ricco, un noto rappresentante re oltre, di costruire sfondi e sguardo fiabesco che c’era nell’Otdell’alta borghesia di Istanbul si innamo- storie che non hanno nultocento ma non si riesce a definire, ra perdutamente dell’unica donna alla la di me. Istanbul è sodell’islam e dei musulmani, una quale non si dovrebbe mai legare: una prattutto, ai miei occredibile realtà. una parente molto giovane, po- chi, verissi-

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video Cambio moglie MobyDICK

tv

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E se il reality cambiasse stile? di Pier Mario Fasanotti l titolo è intenzionalmente piccante: Cambio moglie (serial su Fox Life, a sera tardi). In realtà quel che si vorrebbe cambiare è l’abitudine a condurre una vita sempre uguale a se stessa. È un reality che parte dalla curiosità (e un’ambizione) psicologica, che procede con una faciloneria che nemmeno i copioni più consunti oggi consentirebbero, che solleva problemi non tanto del profondo (in televisione sarebbe impossibile) quanto del vissuto quotidiano. Il tutto all’insegna del «tutto si può fare, tutto è un gioco, e il gioco svela la verità». In una delle puntate ci sono due coppie. La prima vive a Formentera, lei è Ornella, padovana, lui è Bru, sudafricano giramondo e anticonformista. Entrambi si godono la proverbiale libertà dell’isola, rovesciano la routine «continentale». Lei lavora in un pub dal tardo pomeriggio a notte fonda, lui in un locale notturno. S’incontrano quasi all’alba, mangiano e stanno insieme. Di giorno in barca. Seconda famiglia: lui è Nello, d’origine pugliese, lei Adriana. Vivono (con la figlia ventenne Romina) in un paese dell’Alessandrino. Cadenza di vita piemonte-

la «ricerca della motivazione». Sono gli effetti della psicologia letta sui rotocalchi. Frasi fatte, anche se qualcuna è concettualmente esatta, grovigli che paiono così semplici da smontare e ricomporre. La piemontese s’indigna per il disordine e gli orari. Quella di Formentera ha subi-

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se, abitudini incrostate, timore del nuovo, la ragazza ha smesso di studiare, non lavora e in pratica «fa la madre in casa». Secondo il meccanismo del programma, quella di Formentera va in Piemonte e quella piemontese va in Spagna. No, non c’è alcun sottinteso coniugale o extraconiugale, si tratta solo di uno scambio di ruoli, ambientale e geografico. L’impatto lascerebbe pensare a uno choc. Le telecamere del reality smorzano tutto, all’insegna dei continui abbracci, della tolleranza e del-

web

to uno scontro con la ragazza: «Sei un guscio, fai una vita sbagliata». Le rimprovera una vita da anziana e fa scatta-

games

re la gelosia quando invita suo padre a ballare. Viceversa Adriana apprezza il mare a lei praticamente ignoto, s’adegua a tirar mattina, ma resta nella sua convinzione: «Questa vita va bene un giorno o una settimana, ma sempre, no». L’obiettivo a poco a poco si delinea. Il giramondo Bru, che rifiuta il concetto di «cuccia» (molto piemontese), modifica un po’le sue abitudini. Ma è coriaceo: «La casa per me è dove sei in quel momento; è la vita che viene dietro a te e non il contrario». Questa scapigliatura a torso nudo sotto il sole ispanico imbarazza Adriana. Come il «mondo piccolo» dell’Alessandrino imbarazza Ornella. Le due donne, al termine della settimana di «scambio», confrontano le esperienze all’aeroporto. Si danno buoni consigli, ma è chiaro che le correzioni sono minime. L’unico vantaggio è che Nello porta a ballare la moglie e la figlia è contenta. I reality non sanno più che cosa inventare. E se, nel frattempo, smettessero di inventare?

dvd

GOOGLE PREMIA LE IDEE PER IL MONDO

ECCO “PURE”: L’ACROBAZIA PERFETTA

L’UOMO DI FERRO IN ALTA DEFINIZIONE

L’

azienda Mountain Vew, in occasione del suo decimo anniversario, ha lanciato il progetto 10-100, un concorso di idee che mette in palio una borsa di 10 milioni di dollari. «L’obiettivo hanno fatto sapere da Google - è di cambiare il mondo, nella speranza di aiutare il maggior numero possibile di persone». Se dunque si ha un’idea che possa portare beneficio al Pianeta, la si

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iente trama, tanta adrenalina, grafica superba e giocabilità ad altissimi livelli: stiamo parlando di Pure, l’ultimo gioco di corse (ma sarebbe più corretto parlare di «corse e acrobazie») prodotto da Black Rock Studio, distribuito da Disney Interactice e disponibile su personal computer, Playstation 3 e Xbox 360. Pure è una sorta di sofisticatissimo incrocio tra una gara automobi-

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Dieci milioni di dollari per realizzare le migliori proposte degli utenti a tutela del Pianeta

Da Disney Interactive, l’ultima frontiera digitale per gli amanti dello sport estremo

Arriva anche in Italia “Iron Man” della Marvel, che dà il meglio di sé in formato blue-ray

può affidare a Google nella speranza di vederla realizzata. Le iscrizioni sono libere, basta andare sul sito dell’iniziativa e inoltrare i propri dati e la propria proposta. Con i 10 milioni, Google realizzerà alcune delle idee che verranno selezionate. La scandenza per inviare le proposte è stata fissata al 20 ottobre. Le migliori 100 saranno annunciate pubblicamente il 27 gennaio 2009 e a quel punto, il pubblico dovrà decidere col voto quali saranno le 20 idee ad arrivare in semifinale. Infine, un comitato consultivo deciderà un massimo di cinque proposte da realizzare con i 10 milioni di dollari.

listica (Need for Speed, ma anche Forza Motorsport o Midnight Club) e uno di quei «simulatori» di snowboard che andavano di moda alla fine degli anni Novanta (ci viene in mente Ssx Tricky per Playstation 2). Soltanto che in Pure compiere acrobazie è davvero semplice e divertente, anche per un principiante assoluto. E la possibilità di sfidare online fino a un massimo di sedici avversari garantisce una profondità insolita (per il suo genere) al titolo. Una grafica davvero splendida soprattutto su pc ultra-pompati - completa il tutto. Consigliato a tutti gli amanti degli sport estremi che non vogliono morire giovani.

una lega di oro e titanio) di Tony Stark, scienziato, industriale e boy genius del capitalismo a stelle e strisce. Il film è prodotto direttamente dalla Marvel, che dopo aver tante volte venduto i diritti alle major, ha deciso di fare da sé alleandosi con la Paramount. Per l’occasione ha scelto un regista esperto di effetti speciali e ritmi da commedia (Jon Favreau, Elf e Zathura) e un attore stralunato come Robert Downey Jr. Il risultato è un ottimo film d’azione, con un substrato «politico» quantomeno discutibile, che dà il meglio di sé in formato blue-ray su un televisore ad alta definizione (anche un hd-ready può bastare).

in arrivo, nel mercato italiano dell’home-video, l’attesissimo Iron Man, il film su uno dei pochi supereroi Marvel che non aveva ancora ispirato produzioni hollywoodiane. Apparso su carta per la prima volta nel 1963, Iron Man non è - come spesso accade nell’universo Marvel - un essere umano a cui la sorte ha «regalato» poteri straordinari, ma l’alter-ego metallico (si tratta di


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poesia

Verlaine alla ricerca del verso semplice

ARS POETICA Sia musica, sia innanzi tutto musica! Tu devi dunque preferire il Dispari, Più vago e più vaporoso nell’aria, E niente che vi pesi o vi si posi.

di Francesco Napoli

Ed è indispensabile scegliere Un poco ambiguamente le parole: Sia benvenuta la canzone grigia, Che il Preciso sa unire all’Indeciso.

e volesse o meno una vita spericolata non è poi così certo, lui, Paul Verlaine (18441896), borghese nato, in cerca di stabilità, non solo emotiva, desideroso di rispettabilità e di riconoscimenti pubblici: ambiva all’Académie ed era conformista in religione come in politica. Ma non è il suo ritratto pieno, lo si sa, c’è il lato maudit della sua figura che si delinea soprattutto nella breve e burrascosa relazione con Rimbaud. Verlaine nasce a Metz e si trasferisce con la famiglia a Parigi nel 1851 dove studia con risultati scolastici non proprio eccellenti, ma il contatto con la letteratura lo affascina. Nel 1862, dopo aver conseguito il baccalaureato in lettere trova un impiego al Comune, guadagna più che dignitosamente, da buon borghese, e frequenta caffè e salotti letterari parigini collaborando al Parnasse contemporain dove, nel 1866, inizia a pubblicare i Poemi saturnini nei quali si riconosce già quello «sforzo verso l’Espressione, verso la Sensazione raffigurata» (lettera a Mallarmé) che caratterizza la sua miglior poesia. All’insegna di Saturno, del presentimento di un destino travagliato, malinconia, tristezza, umor nero caratterizzano questi versi nati sotto l’influsso di Baudelaire. Il Parnasse contemporain vide la luce solo altre due volte, nel 1871 e poi nel 1876, ma si coagulò attorno a essa un gruppo di poeti che tendeva al recupero di alcuni aspetti del classicismo e a un’arte impeccabile che esclude l’emotività e il sentimentalismo e che si astiene da ogni forma di impegno sociale e politico. Insomma quell’ideale di «arte per l’arte» - lo scrittore si pone dinnanzi all’opera come il cesellatore, cura i minimi dettagli, non importa l’argomento che si sta trattando, deve semplicemente essere perfetto dal punto di vista stilistico - già propugnato nel 1835 da Gautier, nell’introduzione alla sua Mademoiselle de Maupin. Del 1869 la seconda raccolta, le Feste galanti, comparsa nel silenzio generale della critica, dove viene confermato l’orientamento parnassiano. Ma è in arrivo il ciclone Rimbaud all’orizzonte della vita di Verlaine che nel 1870 sposa Mathilde Mauté alla quale dedica La canzone buona. Nel 1871 partecipa alla Comune di Parigi, perdendo perciò l’impiego, e gli nasce il figlio Georges. È l’inizio del turbine esistenziale. L’anno successivo si materializza dinanzi a lui il diciassettenne Rimbaud. Chiamato da Verlaine a cui ha inviato qualche lirica, Rimbaud intrattiene con lui una relazione intima e una vita di vagabondaggio.Verlaine lascia la moglie e il figlio per seguire il giovane poeta, in Inghilterra prima e Belgio poi. Durante questi viaggi Verlaine scrive Romanze senza parole adottando una tecnica nuova per una poesia «antica», confermandosi un «classico» suo malgrado. Il tumulto si chiude tragicamente due anni dopo: quando Rimbaud minaccia di voler chiudere la loro relazione,Ver-

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Sono occhi belli dietro alcuni veli, è la luce tremante a mezzo il giorno, In un cielo ancor tiepido d’autunno, L’azzurro intrico delle stelle chiare! E inoltre noi vogliamo lo Sfumato, Colore no, soltanto lo sfumato! La sfumatura che sola fidanza Il sogno al sogno e il flauto al corno! Fuggi da lungi la Punta assassina, Lo Spirito crudele e il Riso impuro, Che fan piangere gli occhi dell’Azzurro, Fuggi quest’aglio di bassa cucina! Piglia l‘eloquenza e torcile il collo! Faresti bene, in vena d’energia, A tenere un po’ a bada anche la Rima. Fin dove giungerà, se non la guidi? Chi mai dirà gli abusi della Rima? Quale bambino sordo o negro pazzo Ha inventato quest’orpello da un soldo Stonato e vuoto sotto la lima? Sia musica, ancora e sempre musica! Il tuo verso sia cosa dileguata Che si intuisce in fuga da un’anima involata Verso altri cieli, verso altri amori. Sia il tuo verso sia la buona ventura Sparsa nel vento aspretto del mattino Che va odorando di menta e di timo… Ed è, tutto il resto, letteratura. PAUL VERLAINE da Sonetti e altri versi, in Poesie e prose, Mondadori, traduzione di Diana Grange Fiori

laine, ubriaco, gli spara due colpi di pistola, ferendolo leggermente. Viene così incarcerato e, mentre l’amico raggiunge la fattoria di famiglia nelle Ardenne dove compone Una stagione all’inferno, la prigione e il dolore lo conducono a una conversione al cattolicesimo coincidente con la composizione di Saggezza. Il suo nome e la sua fama inizia a circolare con sempre maggior insistenza a partire dal 1884 e dalla pubblicazione del saggio su tre «poeti maledetti» (Mallarmé, Corbière e Rimbaud). Con Mallarmé viene considerato tra i precursori del Decadentismo e del Simbolismo, una poetica alla quale però non sembra essere poi così aderente. Se non in quel sentire la parola-musica (de la musique avant toute chose), resta distante dagli altri elementi portanti del movimento: la poesia come rivelazione del mistero che circonda la realtà; il poeta veggente e scopritore dell’ignoto, che è percepibile attraverso le illuminazioni (Rimbaud); il rinnovamento dell’espressione: parola-rivelazione, parola-musica, uso dell’analogia e del simbolo. Mentre i giovani simbolisti francesi guardano con sempre maggior interesse a verso libero e poème en prose, lui resta fedelissimo alla tradizione metrica francese, insiste sulla necessità della rima e dell’assonanza. Per Verlaine «prima di tutto l’arte deve essere e apparire sincera/ E chiara, assolutamente: è la legge necessaria (…) Evviva un verso semplice davvero, se no è prosa». In Italia, dopo una infatuazione fin de siècle del D’Annunzio del Poema paradisiaco, la rimozione verlainiana nelle nostrane lettere coincide con quella pascoliana, complice i giudizi negativi di Croce sul Decadentismo e, naturalmente, su Pascoli: i crepuscolari (Corazzini in particolare) preferiscono attingere alla poesia di Laforgue, Jammes, Maeterlinck o di quel Mallarmé al quale i futuristi di Marinetti sembrano rivolgersi per «torcere il collo all’eloquenza» e per quelle innovazioni tipografiche del Colpo di dadi. Nell’anno in cui Jean Moréas annuncia la fine del Decadentismo pubblicando sul Figarò il manifesto del Simbolismo, e siamo nel 1885,Verlaine divorzia dalla moglie, rientra nel tunnel dell’alcol e nel momento di riconosciuto prestigio letterario cade nella miseria più nera. E solo nel 1894, quando viene incoronato «principe dei poeti» e gli viene elargita una pensione, trova una serenità tardiva che dura appena due anni: il 7 gennaio 1896 il poeta si confessa, il giorno seguente, ormai consunto dalla vita, muore a Parigi. Chissà se quasi cinquant’anni dopo ha sentito risuonare i versi della prima strofa del suo poema Canzone d’Autunno - «I singulti lunghi/ Dei violini/ D’autunno/ Mi struggono il cuore/ D’uniforme/ Languore» - utilizzati da Radio Londra per comunicare alla resistenza francese l’imminente avvio dello sbarco in Normandia: l’arte, la sua arte, messa al servizio del sociale e della politica.


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il club di calliope

Ecco le cose che ancora sanno di noi, il semplice che come nostro vive nella mano e nel gesto, negli occhi e nel cuore. Le cose felici, perché nostre, perché di noi ricolme. Pierre vide il soldato, l’ometto nei suoi gesti tondi, accurati, sciogliersi le cordicelle della gamba, appendere a un uncino le scarpe, mettersi a posto gli abiti che odoravano di lui. Tutto il male, pensava, non viene dalla mancanze delle cose, ma dal loro superfluo.

UN POPOLO DI POETI oggi le cornacchie della penna volano basse si posano sui pali della carta a quadretti. seduto mi guardo come da un palco, ma è lo specchio l’unico drammaturgo. seduto dalla finestra del cortile ho lanciato una pietra così, per mancanza di una rosa Francesco Balsamo

L’albero carico Sei tu. Dove più insistono le gemme. Ed è aprile di nuovo come a maggio. Affacciata alla sera cerchi il ramo dove volare è tornare. Hai il suo mazzo nel taccuino. Così sbocciano le pagine. È un figlio l’amore a cui Sorridi. Ed è per te. Niente sa essere così per te. Alice Laura Vallieri

Maurizio Cucchi

«Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma

NUOVE VOCI E NUOVI LINGUAGGI DALL’OFFICINA SPAGNA

in libreria panorama poetico nomi nuovi. Negli ann certi casi, quando tenta/ di ni Ottanta nasce un nuovo movimento scrivere e risulta vano/ l’impeespressivo, denominato poesia de expegno e si dispera,/ contro l’ostile rencia. L’antologia si conclude con due carta bianca,/ all’improvviso di Giovanni Piccioni poeti messisi in luce negli ultimi venti accade, per sorpresa, / dopo molto, e anni. molto tempo/ di tentativi, di pazienza,/ qualcosa d’inatteso, qualche/ cosa che il cielo ricom- ignorare l’opera di intelligenza della grande poesia In particolare Jaime Gil De Biedma emerge con pensa/ i dispiaceri: un miracolo./ E, quasi non cer- spagnola del secolo scorso svolta in anni lontani da grande prepotenza. Di origine alto borghese, profondo conoscitore della poesia inglese, è attratto cando, trova / la parola giusta, il vocabolo/ che gli Carlo Bo e, più recentemente, da Dario Puccini. occorreva, la maniera/ per cui lo scuro si fa chiaro./ L’antologia di Luti colma quindi un vuoto e propone prevalentemente dal tema degli effetti del passagViene la luce. Tutto prende forma/ Sulla carta si po- poeti poco conosciuti dal nostro pubblico e spesso gio del tempo. È con una sua poesia, intitolata De sa il canto./ E quando infine giunge la poesia/ al suo di grande rilievo. Il nucleo delle scelte operate dal Senectute, che concludiamo il nostro breve discorperfetto compimento,/ chi l’ha scritta, confuso, pen- curatore è costituito da poeti nati tra il 1925 e il so sul pressoché imprescindibile lavoro di Luti: «Non è il mio questo tempo./ Pur sa/ che non è vero, che sta sognando». Questa poesia, dal titolo L’ispiContinuando l’opera di Oreste Macrì, in “Poesia spagnola del secondo Novecento” essendo ben mio il fremere dei passeri/ qui fuori nel giardino,/ razione, è di Eloy Sanchez Rosillo Francesco Luti antologizza 21 poeti da noi poco conosciuti ma di grande rilievo per foglioline sparsi, inquietando(Murcia, 1948), uno dei ventuno poeti antologizzati da Francesco Luti nella sua Poe- 1934, formatisi alla fine della guerra civile e operan- mi/ come a intimazioni,/ dice qualcosa d’altro./ Mi sia spagnola del secondo Novecento, edita da Val- ti a partire dagli anni Cinquanta. La loro visione risveglio/ come quando si sente un respirare/ oscelecchi. L’antologia intende porsi come continuazio- della poesia muove da un’esigenza di approfondi- no. È quando è l’alba./ Alba d’un nuovo giorno senne della fortunata antologia curata dal grande ispa- mento della conoscenza della realtà ed esercita un za nessun invito/ né a un istante felice. E nemmeno nista Oreste Macrì, dal titolo Poesia spagnola del forte influsso sulle generazioni successive. Madrid e un pentimento/ che, non essendo antico,/ - ah, SeiNovecento uscita per Guanda nel 1952 e poi per Barcellona sono i centri culturali in cui queste nuo- gneur, donnez moi la force et le courage! -/ per davGarzanti nel 1974 e comprendente i grandi nomi ve voci ricercano il loro linguaggio, opponendosi al- vero mi inviti a pentirmi/ con qualche resto di sincedella prima parte del secolo, da Machado a Lorca, a la vigente poesia sociale. Morto Franco, e sempre at- rità./ E nulla temo più che le mie pene./ Mi ricordo Unamuno e Jimenez tra gli altri. E qui non si può tivi i gruppi di Madrid e Barcellona, compaiono nel la vita, ma dov’è».

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mostre

arti

Pascali & Leoncillo armoniche dissonanze di Marco Vallora nestamente, proposto così, a freddo, l’incontro-sfida tra Pascali e Leoncillo, risultava all’immaginazione un po’ forzato e quasi snobistico, un impossibile. Accoppiamento poco giudizioso, per storpiare Gadda. Un postscriptum dell’indomito propugatore-ideatore di questo curioso matrimonio, Giovanni Carandente, segnalava: «Un’altra singolare coincidenza ha accomunato il destino dei due artisti. Sono morti entrambi quarant’anni fa, a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro». Che poi sembrava in fondo l’unica motivazione forte: morti nel 1968, data epocale, Pascali sognificativamente in motocicletta, parevano chiudere in modo quasi antitetico un periodo significativo dell’arte italiana. E invece, appena si entra nel bellissimo salone settecentesco di Palazzo Collicola, fresco di restauro, si è come via via rapiti da questo confronto, dissonante, enarmonico, ma assolutamente ipnotico. «È un sacrilegio, un gioco infantile, un’impostura?», si chiede Carandente, il critico che tanto ha fatto per la storia della nostra scultura. E post-scultura, perché qui stiamo davvero scivolando - sì, anche con Leoncillo - verso le spiagge infide della materia-scultura che sguscia dal proprio ventre materno e fuoriesce per sempre dal proprio involucro. Leoncillo con questo viluppo tragico e placentare di materia informale, che pare non solidificarsi mai, altro che nella crosta cedevole delle cicatrici, strappate e accecate di luce, anche plumbea, di grès, Pascali che stacca ilare e sarcastico pezzi prefabbricati dalla propria coda lampeggiante di satiro, come un se-

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maforo, che apre sempre più alle stoltizie inconfessabili del contemporaneo. Non potrebbero essere più diversi, e lo si vede anche dal simbolico apparato fotografico: Leoncillo vorrebbe sottrarsi alla bocca dell’obiettivo, e bruciare di misantropia la vernice dell’inamato omaggio fotografico. Pascali macho-teppista, che spara verso di noi, per sottrarci la premazia dello sguardo. D’ora in avanti lo sguardo sarà per sempre terremotato. Certo, chissà (non bisogna mai essere certi di nulla) Leoncillo avrebbe sofferto molto e magonato, per quest’accoppiata, per di più col nome di Pascali - più celebre e glamour - che lo precede nel titolo della mostra, anche ribaltando le cronologie (sono nati esattamente a un giorno, un mese e vent’anni di distanza: 1915, 1935). Ma allora che sarà, solo una questione di fascino d’allestimento, con la Ricostruzione del dinosauro bianco-cucina in formica, che scavalca le sale come un enjambemant poetico, per venire ad aggredire il magico ammasso di neri del capolavoro Al limite della notte? O l’arco mitico di spugnette in ferro da cucina

spasmodicamente teso verso il San Sebastiano acefalo di Leoncillo, torso squartato e clamante? Non è una questione di scambi tematici, dio ne scampi, come fanno dalla parti della Tate Moderne, ma di rabdomantica con-dissonanza: vedi la Contraerea armata dell’uno contro il ceramico Bombardamento di notte, duello che autorizza Carandente a dire: «È semplicemente il potere dell’arte che riesce a dare un senso a cose che altrimenti non l’avrebbero». Esito crociano, chi lo sa, ma convincente. Spiega Leoncillo: «La ceramica permette di dare quelle condizioni visive, quasi tattili, con cui si esprime uno stato d’animo. Mi pare che alcuni giovani oggi usino la natura come mezzo espressivo, cioè come la pop aveva usato foto o immagini convenzionali, oggetti di consumo. La “natura” che cerco è un’altra, interna, cerco una natura artificiale, voglio dire un’espressione della natura interna in modo chiaramente artificiale... la creta è la carne mia...». In un intelligente saggio, Marco Tonelli spiega proprio questa distanza che poi si bacia, paradossalmente. Curioso: Leoncillo auspica una «natura artificiale», forse non s’accorge che Pascali già la fa (anche se gli regala un secondo premio, in una giuria). «L’anima come pelle, corteccia dolorosa segnata da lacerazioni» predica San Leoncillo, immolando la propria carne. Pascali, come una star, si toglie la pelle e la vende al mercato, bricoleur divino. Ma per fortuna non vende ancora l’anima al diavolo dell’inganno mercantile.

Pascali Leoncillo. Due artisti a confronto, Spoleto, Galleria Civica d’arte moderna, sino al 15 ottobre. Altre iniziative per Pascali, alla Galleria Sargentini di Roma

autostorie

Dalle vecchie signore alle “concept cars” di Paolo Malagodi n tempi di inarrestabile corsa dei prezzi, il salasso collegato al pieno di carburante può provocare irritate sensazioni verso l’automobile. O smorzare, quantomeno, il feeling di solito provato nei confronti di un oggetto importante non solo per il suo utilizzo quale mezzo di trasporto, ma amato per i suoi caratteri estetici e i contenuti tecnici. Può valere, quindi, la pena di concedersi una pausa di relax, scorrendo pagine nelle quali «sono ritratte le varie anime dell’automobile, illustrate dalle immagini più che dalle parole come tanti fotogrammi di un film che racconti una storia che non è ancora finita, ma che anzi è destinata sempre più a essere testimonianza esemplare delle capacità di evoluzione e

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di innovazione». Come annota il giornalista Enzo Rizzo nell’introdurre un volume dal basilare titolo (Automobili, edizioni White Star, 736 pagine, 16,90 euro) che sin dalla squadrata misura di sedici centimetri e mezzo, con robusta rilegatura cartonata si presta a essere agevolmente sfogliato. Anche per il particolare formato cubico, che racchiude una nutrita scansione di capitoli in grado di offrire altrettanti punti di vista su passato, presente e futuro delle quattro ruote. Dalle indimenticabili «vecchie signore», le cui prerogative erano legate sino agli anni Venti alla ricerca di praticità ma non necessariamente di bellezza. Invece negli anni Trenta, forse per esorcizzare la scampata crisi economica, l’auto ricercò forme e colori raffinati; insieme allo sviluppo tecnologico di scocche autoportan-

ti che, incorporando i parafanghi e il cofano in una stessa sezione anteriore, realizzarono un’automobile dalle forme odierne e non più parente delle carrozze, sia pur motorizzate. Una rassegna conclusa da futuristiche concept cars, la cui funzione «è fondamentale per i costruttori di automobili: servono per sondare il gradimento del pubblico che, a seconda dell’entusiasmo o dell’indifferenza dimostrati, decreta il destino di un’automobile». Evoluzione che viene documentata in sezioni riccamente illustrate, da foto a colori su carta patinata e per lo più sviluppate a doppia pagina, con particolare risalto dato alle vetture più lussuose ed esclusive; come a quelle veloci e sportive, inquadrate anche in episodi di tipo rallystico o in competizioni su pista. Non manca la parte dedicata ad automo-

bili «create per il grande pubblico, che avevano l’obiettivo di raggiungere il massimo risultato con la minima spesa. In realtà, a volte, sono stati creati dei veri capolavori e la definizione di utilitarie non rende merito alla vera essenza di queste vetture». Ma spiccano anche temi curiosi, come il capitolo sulle art cars dipinte sia da illustri artisti, sia oggetto di una moda che alla fine della seconda guerra mondiale vide i giovani americani impegnati in estrosi rifacimenti di vecchie carrozzerie. Non meno interessante la sezione che tratta i «marchi di famiglia», con dettagliate foto sui simboli che connotano l’appartenenza a una casa automobilistica più o meno blasonata: scultoree creazioni che ornavano dapprima la sommità di prestigiosi cofani, oggi per lo più risolte in forme grafiche.


MobyDICK

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moda

Catapultate nell’era della semplificazione di Roselina Salemi utto finito. Finite le esagerazioni, a parte i sandalissimi di Gucci: 18 centimetri, un’istigazione al suicidio o, a scelta, una congiura organizzata dalla lobby degli ortopedici. Finiti i beati anni dello sperpero, degli Chanel buttati perché della collezione passata, dei Versace pre-Donatella dati via gaiamente perché datati. La moda al tempo della recessione e del tracollo di Wall Street, cerca almeno di non apparire sprecona, sintetizza il guardaroba, amministra con parsimonia anche i colori.Vento di sobrietà su Milano Fashion Week. Certo, ci sono sempre i sontuosi abiti da sera di Roberto Cavalli, l’organza pitonata di Donatella Versace, i pigiami barocchi di Dolce & Gabbana (Madonna ne ha ordinati tre) che occhieggiano ai nuovissimi ricchi, ci sono gli spacchi, gli strascichi, le citazioni snob (Camille Claudel da Marras, e il tris Oriana Fallaci-VeruschkaGeorgia O’Keefe da Gucci), ma alcuni, e non i meno importanti, si sono sintonizzati sulla semplificazione.

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danza

Perciò, a interpretare il difficile copione della crisi sono arrivati Tommaso Aquilano e Roberto Raimondi al loro debutto con Ferrè (rigidi vestiti bianchi e neri e solo due accessori, cinture di metallo e scarpe con tacco di plexiglas), ma anche Miuccia Prada che, a sorpresa, dopo la donna stravestita di pizzo, ne fa uscire in passerella una «primitiva», con gli abiti stropicciati che si modellano addosso grazie all’anima di metallo, alle stringhe e ai laccetti copiati dalla lingerie di un tempo. Abiti essenziali, gonne sotto il ginocchio, reggiseno, short, mantelline e pochissimi colori (nero e bianco, ferro e oro). Una moda fai-da-te (anche se è facile soltanto all’apparenza) che regala alle donne l’illusione di essere stiliste di stesse, come i «quattro salti in padella» le convincono di essere eccezionali in cucina. E poi

c’è Armani, anche lui a dire basta alle divise, a proporre giacchette di chiffon come golf, orli incerti quanto gli indici di Borsa, tuniche, tagli morbidi e capelli spettinati, compatibili con tempi in cui si hanno problemi più seri che andare dal parrucchiere. Dice Re Giorgio: «Non c’è più bisogno di sembrare virago per comandare». Vero. Anzi, chi ha la pit-bull attitude, la grinta di un barracuda alla Sarah Palin, dovrà indossare dolci gonne sopra il ginocchio, gonfie al fondo, meglio se dai colori luminosi, per farsi sottovalutare e mordere al momento giusto. Pochi riflettono su quanto sia faticoso il gioco, all’apparenza lieve, della moda: vestirsi e travestirsi, annotare nuove tonalità (zafferano, terra di Siena, biscotto e cognac), mescolare il vecchio e il nuovo, il vintage all’appena arrivato in negozio, e non sbagliare mai scarpe e borsa. C’è chi ha il fisico e chi il personal shopper, ma per tutti gli altri funziona l’idea pratica, svelta, un po’ furba. Quattro salti in padella e siamo tutte chef. Un pigiama di Dolce & Gabbana (o un clone) e ci sentiamo Madonna. Un vestito stropicciato e addio stress. Non si stira nemmeno, vuoi mettere il risparmio di energia?

Abiti della Collezione Armani

Marguerite e Armand? Sempre appassionanti di Diana Del Monte l drammatico amore tra Marguerite Gautier e Armand Duval, da ieri è tornato protagonista del palcoscenico scaligero. Dopo Carmen e Giulietta, infatti, il Teatro alla Scala ha scelto di affidare a un’altra emblematica figura femminile, Marguerite appunto, la chiusura della stagione dei balletti con La Dame aux Camèlias. La coreografia di Neumeier in scena a Milano è uno spettacolo di sicuro interesse: il coreografo americano, che ha fatto della drammaticità e della passionalità la cifra stilistica della sua scrittura coreografica, è infatti considerato uno dei maestri della «generazione di mezzo» e questa sua opera, da poco nel repertorio della compagnia, è un raffinato esempio di balletto drammatico dal vocabolario neoclassico. La Dame aux Camélias, ispirata al racconto di Alexandre Dumas figlio, è già nota al pubblico milanese. Nel 2007, infatti, Alessandra Ferri, la danseuse dramaticienne, dava il suo addio alle scene e al pubblico italiano proprio nelle vesti della protagonista. In quell’occasione

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i due ruoli principali erano affidati a una coppia artistica che è già in odore di leggenda: a una Ferri all’apice della sua carriera si affiancava un Roberto Bolle in piena ascesa. Si trattava, allo-

scrittura coreografica di Neumeier. L’attuale messa in scena ripropone Roberto Bolle nel ruolo di Armand, affiancato stavolta dalla spagnola Lucia Lacarra, artista ospite del teatro mila-

ra, di una combinazione particolarmente riuscita che univa alla pulizia tecnica una particolare e felice alchimia degli interpreti con i ruoli e con la

nese (alla coppia Bolle-Lacarra si alternano Massimo Murru, altra etoile del teatro, ed Emanuela Montanari). Se da una parte Bolle rappresenta or-

mai una garanzia di successo, dall’altra la sua nuova partner, dalle notevoli capacità tecniche, è splendida. Al di là dell’eventuale difficoltà di cancellare dalla mente le immagini della versione precedente, lo spettacolo presentato a Milano non perde il suo fascino. Nel suo lavoro, infatti, Neumeier, che ama definirsi un coreo-regista, presta attenzione tanto alla coreografia quanto alla messa in scena nel suo insieme per creare un tutto che, dall’apparato scenico alle luci, quest’ultime curate direttamente dal coreografo, contribuisce alla riuscita dello spettacolo. La vicenda di Marguerite Gautier e Armand Duval si snoda così, accompagnata dalle struggenti note di Chopin, attraverso appassionanti passi a due, scene di balli per l’ensemble e importanti momenti di evidenza per i solisti, che li valorizzano appieno. Alla fine il sipario si chiude, senza rendersene conto, su quasi tre ore di spettacolo. C’è da chiedersi: quale modo migliore per tornare a teatro?


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fantascienza

l 4 ottobre 1957 l’Unione Sovietica lanciò a sorpresa il primo satellite artificiale della Terra, lo Sputnik I, il 31 gennaio 1958 gli Stati Uniti lanciarono il loro primo satellite, l’Explorer I: un lento recupero che portò pian piano alla prevalenza americana nella «corsa allo spazio» con lo sbarco sulla Luna appena undici anni dopo. Era cominciata quella che retoricamente venne chiamata l’Era spaziale (non fu così con buona pace di 2001 di Kubrick e Clarke), ma era contemporaneamente nata la fantascienza italiana. Sì, perché proprio intorno alle date del lancio dei due satelliti era uscita e si era sviluppata una rivista che ormai a buon diritto si può considerare la «madre» della science fiction made in Italy.

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Il 15 settembre 1957 era apparso nelle edicole italiane un quindicinale dal formato insolito e dal titolo ancora più insolito: Oltre il Cielo lo aveva fondato Armando Silvestri (1909-1990), ingegnere, giornalista aeronautico di vaglia, direttore della rivista Ali nuove che pochi anni prima aveva assorbito un altro periodico, Cielo, di cui la nuova rivista riprendeva il nome e lo lanciava al di là dell’aeronautica: verso l’astronautica allora nascente (lo Sputnik, come si vede dalle date, non era stato ancora lanciato) e la fantascienza. Condirigeva la rivista Cesare Falessi (1930-2007), allora giovanissimo, ma poi valente giornalista, tra i fondatori e poi anche presidente dell’Ugai, Unione giornalisti aeronautici (poi aerospaziali) italiani, divulgatore scientifico, storico militare. La fantascienza aveva ufficialmente visto la luce in Italia appena cinque anni prima con Scienza fantastica (aprile 1952) e Urania (ottobre 1952), ma ormai dopo qualche tentativo iniziale pubblicava soltanto scrittori stranieri ignorando gli italiani, un’inversione di tendenza rispetto alla narrativa popolare fra le due guerre che inve-

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ai confini della realtà

La conquista

tricolore dello spazio di Gianfranco de Turris ce aveva privilegiato la narrativa nazionale. Silvestri e Falessi, che scrissero anch’essi di fantascienza (anzi del secondo è in uscita presso la casa editrice Elara di Bologna I segreti dell’astronave, la raccolta completa di tutti i suoi racconti) vedevano la questione in maniera diversa: in primo luogo intesero la fantascienza come un modo di avvicinare i giovani di quell’epoca (noi e tanti altri con noi) all’idea della «con-

Sulle pagine di Oltre il Cielo per i dieci anni in cui visse e i 155 fascicoli che pubblicò, esordirono o si consolidarono le firme della prima e seconda generazione di tutti i più importanti scrittori di fantascienza italiana: Vincenzo Croce, Sandro Sandrelli, Ivo Prandin, Gianni Vicario, Renato Pestriniero, Lino Aldani; e poi Piero Prosperi, Ugo Malaguti. G.L. Staffilano, Antonio Bellomi,Vittorio Curtoni,Tiberio Guerrini,

Il lancio dello Sputnik, il 4 ottobre 1957, segna anche l’inizio della science fiction italiana. Sviluppata dalla rivista “Oltre il Cielo”, che tentò di avvicinare i giovani di allora a nuovi orizzonti extra terrestri. Con l’aiuto di grandi scrittori di casa nostra quista dello spazio», dell’uscita dai limiti terrestri, dell’ampliamento del punto di vista antropocentrico, un mezzo per far diventare «popolare» l’astronautica; in secondo luogo diedero man mano sempre più pagine agli autori italiani che in seguito furono gli unici a essere pubblicati. Inoltre, dopo una iniziale «ortodossia» spaziale e astronautica, gli orizzonti della fantascienza pubblicata dalla rivista romana andarono sempre più ampliandosi.

Antonio Bellomi. Alcuni di questi presero poi altre vie, diversi interruppero la loro attività fantascientifica, parecchi l’hanno continuata con ottimi risultati come critici, direttori di collane e riviste. Sta di fatto che Oltre il Cielo capì le loro qualità, credette nella loro narrativa, aprì loro le pagine, fu palestra e trampolino di lancio per l’allora giovane fantascienza autoctona. Che difese a spada tratta quando, nella seconda metà degli anni Sessanta si svi-

luppò una polemica proprio nei suoi confronti, fra chi prediligeva quella angloamericana per cui ogni romanzo o racconto straniero era in assoluto un capolavoro, e coloro che difendevano le qualità di quella nazionale. Per inciso una scrittrice italiana oggi scomparsa e rapidamente dimenticata come spesso succede, Luce D’Eramo, in un suo complesso romanzo di extraterrestri in incognito sulla Terra (Ritorneranno, Mondadori, 1986) che meriterebbe una ristampa, racconta fra le righe la storia di Oltre il Cielo e degli uomini che la realizzarono: infatti, era la figlia di Publio Mangione, uno degli editori di Cielo, oltre che bravissimo disegnatore... Ma del particolare nessuno si accorse. Il problema all’epoca era che la nostra narrativa fantascientifica non sembrava esistere dato che le grandi collane specializzate in edicola (da Urania Mondadori, a Cosmo Ponzoni soprattutto, ma anche la miriade di testate che si svilupparono soprattutto in seguito negli anni Settanta), se pubblicavano opere italiane obbligavano i loro autori a utilizzare pseudonimi inglesi e francesi.

Anche qui lentamente, troppo lentamente, le cose sono mutate: prima con la collana Cosmo Nord che cominciò a pubblicare romanzi a firma italiana negli anni Ottanta, e poi con il Premio Urania che con la sua prima edizione del 1990 ha permesso di inserire nella collana mondadoriana le opere vincitrici del concorso. Era una questione di abitudine: i lettori rifiutavano le opere di italiani solo perché non abituati a leggerle. Oggi, anche con una nuova generazione di appassionati, le cose sono totalmente cambiate e Urania, grazie anche all’impulso del nuovo direttore editoriale Sergio Altieri, ha finalmente incrementato la presenza di nostri autori non solo con novità ma anche con interessanti riproposte di opere del passato, importanti ma dimenticate.


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