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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

L’uomo secondo Shakespeare

SULLA SCENA DELLE PASSIONI di Maurizio Ciampa

ul libro di Nadia Fusini (straordinario fin dal suo titolo: Di vita si verso i colpi al cuore di questo pathos, Shakespeare guarda il mondo e lo conosce. E ce lo mostra. Sulla scena. muore, appena pubblicato dall’editore Mondadori) si dovrà rifletIn tempi Di vita si muore è destinato a inquietare non tanto l’accademia ortere a lungo. Ammesso che nel nostro Paese circoli ancora mai sprofondata nel sonno, e neppure la critica militante, da una qualche forma di appassionato e gratuito esercizio in cui non si distingue tempo uscita di scena, e senza troppo rumore. È destinato dell’intelligenza. Fanno comunque ben sperare le osservapiù il confine tra tragedia a inquietare chiunque voglia condividere la passione a zioni che, al libro, ha dedicato Massimo Cacciari e farsa, l’opera del poeta inglese ci rivela lungo accumulata (sono di oltre trent’anni fa le («Shakespeare desnudo» su L’Espresso del 30 prime riflessioni di Nadia Fusini su Shakesettembre). Davvero incisive (al contrario del la vera natura del mondo. Un percorso accidentato speare), la passione che tempra ogni parola titolo). L’opera di Shakespeare esprime un che si spinge alle periferie del cuore, del libro, e l’elevata temperatura della mente in cui «pathos… senza redenzione», come una ferita che il libro si sviluppa. Attraverso un bagaglio di parole che, non si rimargina, una lacerazione, una crepa o un abisin cui ci guida Nadia Fusini fin dall’inizio, appaiono strategiche. Parole dense e dalla lunso in cui scivolano e talvolta precipitano il senso dell’uomo e con il suo “Di vita ga memoria. Ebbrezza è una di queste parole, quasi una condizioil suo operare. «Si scopre la ferita e la si lascia così: aperta», dice si muore” ne di conoscenza, come, d’altra parte, era per i greci. la Fusini quasi a conclusione del suo libro. «È questo il pathos che la stessa Fusini sopporta e ci invita a sopportare», commenta Cacciari. Attra-

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Parola chiave Merito di Sergio Valzania Rileggendo Luigi Santucci di Leone Piccioni

NELLA PAGINA DI POESIA

Nei misteri del mutante Bonnefoy di Roberto Mussapi

Prima e dopo John Lennon di Stefano Bianchi

con un intervento di Claudio Trionfera

Tom & Cameron fanno scintille di Anselma Dell’Olio

Quando l’arte è cosa mentale di Angelo Capasso


sulla scena delle

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passioni

Un’altra è immaginazione, la sua capacità di azzardo, il suo dinamismo sregolato, ma, al tempo stesso, vengono invocati, per temperare ebbrezza e immaginazione, l’«esercizio dell’ascolto» e la «disciplina dello sguardo». Ebbrezza, immaginazione, ascolto e sguardo si combinano e s’intrecciano, spingendo il cammino di chi s’inoltra nello «spettacolo delle passioni» del teatro di Shakespeare. Non uno spazio geometricamente ordinato, come si può ben immaginare, ma un paesaggio spezzato e in costante movimento, una fitta selva. Alla fine, quello che qui viene proposto è semplice, addirittura lineare. Mi è venuto alla mente, e forse l’accostamento potrà apparire improprio o forzato, il poeta Walt Whitman. «Ora, non voglio che ascoltare», dice Whitman. Tendere l’orecchio verso i suoni del mondo, tutti i suoni per quanto possano risultare stridenti. Niente altro. Semplice. «Legare le parole di Shakespeare l’una all’altra, e ad altre parole prima e dopo di lui, aprendo così il linguaggio shakespeariano alla propria profondità, scoprendo nella lingua shakespeariana le fonti della sua medesima comprensione». Semplice. Ed è il programma, è la proposta di Nadia Fusini. «Ora, non voglio che ascoltare». O leggere, che è anche una forma di ascolto. Solo leggere, piegandosi verso l’elementare vibrazione delle parole, l’eco, il suono, il rimbombo. Accostandole, sovrapponendole.Vivere nella «vita delle parole», respirando dentro il loro stesso respiro.

Tutti i saperi del testo, il potente armamentario metodologico stratificato nel tempo, affilato, sperimentato, tutti i saperi vengono utilizzati e, al tempo stesso, azzerati. Come sfogliare via via un libro, assimilarne le pagine e buttarle via. Resta soltanto Shakespeare, una sola scena costantemente illuminata, in cui è l’uomo a essere rappresentato, o ascoltato. Naturalmente, ciò che è semplice, almeno nell’ordine delle umane cose, ed è a queste che qui ci atteniamo, ciò che è semplice è anche il più difficile. C’è una strada da percorrere, molta strada, e non sempre battuta. C’è un processo da fare. Ci sono ostacoli da superare e virtù da acquisire. Ma tutto accade nel corso dello «spettacolo», nel momento stesso in cui va in scena, lì, in quello spazio precario, quell’arena polverosa. Nell’arco di tempo dedicato al serio svago della «tragedia». Un inizio, una fine, in mezzo il mondo.Tutto il mondo. Basterà guardare per sapere, guardare e sentire, farsi trovare, farsi attraversare dalle emozioni che la rappresentazione sprigiona. Scintille, scosse. Cosa seria le emozioni. Sarà bene avvertire gli spettatori, come fa Marston nel prologo alla Vendetta di Antonio, e come fa Nadia Fusini riportando, nelle prime pagine del suo Di vita si muore, quelle parole di doveroso avvertimento, una specie di allarme. Attenzione! Pericolo! Gli indifferenti lascino la sala, fuori chi ha sentimenti saldi, alla porta chi si difende dalle passioni; restino, invece, gli uomini dall’animo accidentato, benvenuti i cuori instabili, le anime ansimanti, gli abitanti delle periferie del cuore, gli extra-comunitari del sentire. Quello che vedrete è per loro, è per voi; per loro, per voi è riservato il posto. Queste le parole di Marston: «E perciò proclamo: se c’è in questo cerchio/ Chi sia incapace di potenti passioni, / chi storca il naso e si rifiuti di conoscere/ come erano e sono fatti gli uomini,/ e preferisca non sapere come/ dovrebbero essere, che s’affretti/ a lasciare i nostri tetri spettacoli:/ si spaventerebbe. Ma se c’è un petto/ inchiodato alla terra del dolore, se c’è/ un cuore trafitto dalla sofferenza, in questo cerchio…/ sia il benvenuto». Chiaro, no? Questo teatro, quello di William Shakespea-

re letto e ricostruito, quasi patito da Nadia Fusini, mette in scena passioni che sono di tutti gli uomini («passioni che muovano l’anima, che gonfino il cuore e pulsino in petto, strappino le lacrime agli occhi più avari, strazino la mente»). Ma non sono per tutti gli uomini. C’è anche chi non vuole sapere «come erano e sono fatti gli uomini», secondo le parole di Marston. Conoscere, che è patire, non è per tutti. Conoscere può escludere dalla vita. E «di vita si muore».

Ma vediamo che cosa accade a chi non lascia il «tetro» spettacolo. Intanto cambia la luce. La metamorfosi comincia sempre dal luogo, solo dopo viene quella dei cuori. Come l’inizio di una tempesta, quando si alza il vento, un presagio, il rituale di un’attesa.Tutto cambierà, ma non sappiamo come. Sono lenti i mutamenti più incisivi, impercettibili. Per piccoli passi. Poco a poco cambia la luce, avanza l’oscurità, si fa buio. «La stanza si trasforma in una caverna buia». Ma abitata, affollata da incubi e fantasmi. A loro appartengono queste voci, sottili, sinistre, sgradevoli. Doppie. Ci viene incontro Bruto, «vessato da passioni» che lo lacerano. Porta la guerra dentro di sé. E in sé, nella sua «caverna», nelle cavità di un’anima desolata, Bruto trattiene un veleno della mente, che via via si fa infezione, cancrena, putrefazione. Le immagini sono il veleno che lo consumano. Vive d’immagini Bruto, ne è infestato. Vive nel loro niente, un tempo vuoto, votato all’allucinazione, tra «il pensiero e l’atto». Lì, si estende il tempo infinito, il tempo immisurabile. Lì niente consiste, tutto passa Nadia Fusini ma senza esito, e dunque tutto ristagna in e la copertina acque immobili, acque morte, maleodoranti. del suo libro «Tra il pensiero e l’atto» c’è un punto vuoto, un interstizio, un interim, dove ogni cosa si fa impalpabile, evapora, e tutto si dilata, si deforma. Bruto scivola, frana, precipita su quel terreno dove non c’è modo di fare presa. Sabbie mobili. Poi, Amleto. E il dolore si fa voluttà, il lutto languore. Come se nessuno di questi sentimenti, di queste passioni forti, facilmente riconoscibili e a lungo esplorate, fosse destinato a restare nel suo naturale solco. Forse - azzardo - le passioni, i sentimenti, non hanno

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un loro naturale solco, non hanno natura, sono di per sé inclassificabili, anche se qualche scienziato ancora si affanna a stendere disperanti tavole classificatorie in cui poi, inevitabilmente, è destinato a inciampare. Le passioni, i sentimenti, la loro ribollente materia, vive nel disordine che avvolge ciò che muta, ciò che si muove sotto il cielo. E, qui, nell’Amleto, il movimento è uscito dai suoi cardini. C’è un bellissimo verso dei Fiori del male di Baudelaire che dice: «Il mondo è uscito dai Numeri e dagli Esseri». E cioè non ha più misura, non ha sostanza. Nell’Amleto il movimento si fa «tragedia», questa la sorprendente indicazione di Nadia Fusini: l’Amleto «è soprattutto un dramma sulla natura del movimento»: «La questione del moto finito e infinito, la meraviglia, lo stupore di fronte al movimento, di fronte a una differente rotazione dei pianeti, della terra, sono assolutamente centrali nella struttura logica del secolo. La trasformazione intellettuale che ne deriva è strabiliante.Vertiginosa. Nell’Amleto il movimento del dramma è senz’altro accidentato, va a sussulti: il caso domina prevalentemente l’intreccio». Sussulti, azioni a vuoto, movimenti squilibrati senza un asse cui riferirsi. Shakespeare ne è colmo. Pare un sismografo impazzito a inseguire il suo «sciame». Dappertutto la terra trema, e trema il senso, trema perfino il tempo che pare azzerato, un orologio rotto. Le passioni sono lo specchio in frantumi di questo terremoto vasto come il mondo.

Amleto dopo Bruto, e poi Otello, re Lear, Macbeth, articolano il racconto del mondo scosso. E questo racconto è una «scienza nuova», forse simile ai gesti dell’anatomia, forse analoga alle procedure della sismografia, o forse, ed è più probabile, vicina all’«esercizio dell’ascolto» e alla «disciplina dello sguardo» di cui si è detto, e alla vita precaria delle parole, da cui Shakespeare estrae il «poco» o il «nulla dell’esistenza». «Un bottino scarso», dice Nadia Fusini giunta alle fine del suo lungo itinerario. Oppure un bottino ricchissimo, a giudicare da tutto quello che è passato davanti agli occhi dei nostri strabiliati e stralunati, storditi spettatori, quelli che hanno scelto di restare, i precari dell’anima, che pensano di aver vissuto guardando e hanno pianto vedendo passare ombre. Ma è così che accade in questi tempi in cui si è assottigliato non solo il confine fra realtà e finzione, ma anche quello fra tragedia e farsa. Questo occorre «sopportare».


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parola chiave

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MERITO erito, parola infida. Nasconde l’arroganza dell’uomo di fronte al grande mistero del libero arbitrio. È davvero possibile meritare qualcosa? Se sì, davanti a chi, agli uomini o a Dio? Qualcuno può stare davanti al Signore e dire «Mi devi questo perché l’ho meritato»? Quelli che pretendiamo essere i nostri meriti sono in realtà i doni che Dio ci ha elargito. Nessuno ha meritato di essere intelligente, volonteroso, bello, simpatico, capace, per non dire di quanto proviene da una nascita fortunata che porta con sé ricchezza, cultura, rapporti, conoscenza delle lingue, status sociale. Ogni talento ci viene regalato, nella concezione più radicalmente atea dal semplice caso, dall’incrociarsi dei cromosomi e da una culla fortunata. Lo stesso tutti sono pronti a sostenere che il merito va premiato, riconoscendo che ogni talento ricevuto può venire con coltivato maggiore o minore sapienza, costanza e dedizione. Anche se una gara di questo genere parte con qualcuno molto favorito. La parabola dei talenti sembra aggiungere un dato sconfortante. Dei tre servi ai quali il padrone, in partenza per un lungo viaggio, affida il compito di custodire i beni, è il terzo, quello che ha ricevuto di meno, a mostrarsi incapace di fare fruttare l’unico talento che gli è stato consegnato. A questo si accompagna l’ammonimento «A chi ha sarà dato, mentre a chi non ha sarà tolto anche quel poco». Un Dio ben strano e capriccioso sarebbe quello che prima assegna dei doni e poi giudica sulla base di quello che ha dato.

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Forse sbagliamo il punto di vista, quando arriviamo a queste conclusioni. Oppure la nostra prospettiva è viziata da un accoglimento del caso, per sua natura ingiusto, come dominatore della realtà. È lo stesso Cristo che minaccia di perdizione quelli che hanno poco, a pronunciare il discorso delle beatitudini, avvertendo di quali siano le vere ricchezze, di dove si nascondano i talenti che Dio ci affida. Che non si tratti di denaro le scritture lo ripetono spesso, i poveri sono più vicini a Dio dei ricchi, non solo nel racconto che si conclude con la considerazione relativa alle difficoltà del cammello a passare attraverso la cruna di un ago. Isaia scrive (25,4) «Tu sei sostegno al misero, al povero nella sua angoscia», Geremia

Si sostiene che vada premiato, a seconda che si coltivi il proprio talento con maggiore o minore dedizione. Ma solo se si riconosce la sua natura di privilegio si può comprendere il suo vero significato

Il dono e l’arbitrio di Sergio Valzania

Il senso del fare umano non può essere finalizzato alla gloria e al vuoto benessere personali. Occorre mantenere un rapporto tra meriti individuali e finalizzazione sociale del loro manifestarsi. Altrimenti si rischia che tutto si giochi solo sulla contesa anziché sulla collaborazione (20,13) afferma che Dio ha già «liberato la vita del povero dalle mani dei malfattori», i Salmi confermano che Dio «si è messo alla destra del povero» (109,3), «difende la causa dei miseri, il diritto dei poveri» (140,13). Matteo e Luca (11,7 e 7,22) ricordano che «la buona novella è predicata ai poveri», mentre Giacomo scrive nella sua lettera «Dio non ha forse scelto i poveri nel mondo per farli ricchi con la fede ed eredi del regno che ha promesso a quelli che lo amano?» (2,5). Frasi sulle quali dovrebbero riflettere quelli che abitano nei Paesi ricchi del mondo, che godono per nascita di grandi privilegi e che di frequente si accapigliano per avene di più ancora. Quello che si suole chiamare merito è una forma di privilegio, la sua natura

profonda consistere nell’essere un dono di Dio e acquista il suo significato solo dopo essere stato riconosciuto come tale. Non siamo più abituati alla vecchia locuzione «A maggior gloria di Dio», sotto la quale venivano comprese tutte le realizzazioni effettuate in epoche nelle quali la Sua presenza veniva colta come più prossima all’uomo di quanto non lo sia oggi, almeno nel nostro continente. Essa racchiude il senso del fare umano, che non può essere finalizzato alla gloria, e neppure al vuoto benessere, dell’uomo stesso. Il mondo non è una valle di lacrime, non è vero che siamo nati per la sofferenza, né Dio ha creato l’universo e vi ha posto l’uomo perché lo attraversi nel dolore. Una vita protesa alla gioia è un dovere prima che un diritto, una

risposta alla chiamata di Dio, un modo di cogliere il senso del Suo sacrificio, che è accoglienza su di sé delle nostre inadeguatezze, dei nostri limiti, dei nostri errori, dei nostri peccati quindi. Il grande dono di Dio all’atto della creazione sta proprio nell’averci resi liberi, quindi capaci di sbagliare, e nell’averci liberato anche dalle conseguenze ultime dei nostri errori. La questione sta nel fatto che la gioia non può derivare dalla sopraffazione, dall’egoismo, i doni di Dio elargiti in maniera misteriosamente diversa a tutti gli uomini non sono dati per divenire lo strumento della prepotenza di alcuni sugli altri. Essi sono dati per venire divisi. Perciò deve mantenersi un rapporto fra meriti individuali e finalizzazione sociale del loro manifestarsi. A nessuno è chiesta la santità, ma a nessuno è lecito un atteggiamento di totale insensibilità per i bisogni degli altri, la difesa esclusiva di beni che al fondo non gli appartengono.

Se il rapporto fra gestione dei talenti individuali e comunità si spezza il rischio primo sta nell’impossibilità del loro riconoscimento. Se i meriti sono una ricchezza personale non si vede perché l’uno sia tenuto a riconoscere quelli dell’altro. Anzi, ciascuno si sforza di far prevalere i propri, negando valore a quelli altrui. Si tratta di un’esperienza che stiamo vivendo, più o meno consapevolmente. Qual è il vero merito infatti, se lo si misura solo nell’ottica della sua capacità di garantire un’affermazione sociale in gara con tutto il resto del mondo? La bellezza, la spregiudicatezza, l’abilità nel giocare a calcio o in borsa sono qualità che valgono allo stesso modo dell’intelligenza, della capacità di studiare o del senso estetico. Quando i rapporti sociali si basano esclusivamente sulla contesa e mai sulla collaborazione, sul piacere del contribuire al progresso comune, ciascuno è legittimato a far valere i propri talenti come meglio gli riesce. È inutile allora pensare di imporre gerarchie diverse da quella dell’evidenza dei risultati. Se il denaro, la fama, il successo divengono la misura della riuscita di una vita, allora ogni mezzo è lecito per conquistarli e ciascuno usa i talenti di cui dispone in tal senso. Può capitare però che chi crede di aver accumulato molto rischi di trovarsi in realtà con poco, talmente poco che anche quello gli sarà tolto.


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Rock

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musica

LA VERA AVANGUARDIA? Il carpaccio di Lady Gaga di Bruno Giurato

di Stefano Bianchi amma mia, come mi piacciono le band che non danno mai nulla per scontato! Come gli Arcade Fire di Montreal, capeggiati da Win Butler e da sua moglie Régine Chassagne che nel 2004, con Funeral, centrifugarono rock, sinfonismi, folk ed elettronica guadagnandosi un bel 10 con lode da parte di David Bowie. Il quale, l’anno successivo, nello special tv Fashion Rocks non mancò di dividere con loro il palcoscenico intonando Wake Up, Life On Mars e Five Years. Poi, alla pattuglia di aficionados di questo collettivo canadese (7 elementi) si sono via via aggiunti David Byrne, Bruce Springsteen, gli U2 e Chris Martin dei Coldplay. Merito del loro repertorio fatto di frementi sinfonie e fiammate rock, maestose orchestrazioni e chitarre acidule. Il pensiero, inevitabilmente, corre agli anni Settanta e Ottanta: all’Art Rock di Split Enz ed Electric Light Orchestra, alla New Wave darkeggiante di Echo & The Bunnymen e Psychedelic Furs. A Funeral, autentico fiore all’occhiello, ha fatto seguito (2007) l’altrettanto valido Neon Bible con le sue folate di fisarmonica, i suoi guizzi di pianoforte, le sue chiimbizzarrite. tarre Qualsiasi altro gruppo, dopo simili precedenti, avrebbe campato di rendita poppeggiando alla meno peggio. Gli Arcade Fire, invece, con The Suburbs chiudono idealmente il cerchio replicando la loro tattica vincente: al primo ascolto, cioè, dischi come questo ti lasciano di stucco. Non sai se dirne bene oppure male. Poi, però, ti conquistano e non riesci più a toglierteli dalla testa. Qui, realisticamente, si cantano i sobborghi: quelli di Woodlands, Texas, ai margini di Houston. Periferie dell’American Dream, dove il californiano Win Butler è cresciuto prima di trasferirsi a Montreal,

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Jazz

zapping

on è che il personaggio da queste parti riscuota tanta simpatia. Ma poi in fondo perché no? Lady Gaga non è propriamente una musicista, ma basta non considerarla tale per amarla almeno un po’. Le sue canzoni sono dimenticabili, e allora basta dimenticarle e (non prendeteci per fricchettoni post), guardare la sua esibizione su internet in cui canta con addosso un bikini fatto di carpaccio, cioè di carne cruda. Carne su carne, anzi carne su plastica pop, ché di plastica (o pongo) è fatto, ci scommettiamo, il corpo di questa stella in metamorfosi. Le fettine sono più carnali dell’incarnato; è un’inversione metaforica non di poco conto. E a proposito di plastica, leggiamo anche che la Lady è salita sul palco insieme alla Plastic Ono band dell’ineffabile Yoko. E qui le cose cominciano a farsi pericolose proprio per la vedova Lennon. Pensate: una vita intera a fare l’artista d’avanguardia, dischi inascoltabili pubblicati, provocazioni nel letto e fuori, teorizzazioni politologiche, appelli alla pace all’amore, una fama (meritata) di scassabeatles. E alla fine che succede: la non-musicista Ono si trova sul palco con Lady Gaga, che in fatto di provocazioni in un paio d’anni l’ha surclassata, vendendo anche molti più dischi di lei (col mercato, discografico e artistico la Ono ha litigato da piccola). Certo, dal punto di vista del prestigio nei tea party artistici la Ono è piazzata meglio, ma questo semmai dimostra un’altra cosa. Che il mondo intellettuale-radical delle mostre è ormai una succursale del pop da classifica. Insomma: avanguardia per avanguardia ormai quella dell’arte non ha più niente da dire da un pezzo e bisogna rivolgersi alle star patinate dell’ultima generazione, è meglio e costa meno. Anche per avere un po’ di carpaccio.

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Gli Arcade Fire I più bravi di tutti

che al confronto è un giardino pieno di rose senza spine. Non-luoghi. Sobborghi dove «prima costruiscono la strada e poi costruiscono la città», si canta in Wasted Hours. Paesi per vecchi, dove gli unici hanno le bambini «braccia incrociate» (City With No Children). Speranze? Zero. Però la musica cresce, si inorgoglisce pezzo dopo pezzo, si mette a urlare che potrà esserci un futuro. Basta cercarlo, tra quelle file omologate di case. Ecco, allora, la title-track: ballata soffice, da mandar giù a memoria, con un tocco di follia alla Split Enz. Da qui, si dipanano sequenze musicali degne d’un film neorealista: la martellante, ma poi sempre più rallentata Ready To Start; il rock sfuggente di Modern Man, memore di Tom Verlaine e dei Television; la melodrammatica, rumorista Rococo; Empty Room, coi suoi

violini a pioggia e i suoi ceffoni punk; l’epica City With No Children, inno che bisognerebbe proporre a Bruce Springsteen; Half Light 1 e Half Light 2: sinfonia d’archi la prima, che s’immalinconisce pedinando il folk; cortocircuito elettrico la seconda: U2 e un battito elettronico che ricorda Giorgio Moroder. E ancora, inanellando emozioni contrastanti, la «springsteeniana» Suburban War; il rock & roll torrenziale di Month Of May; una ballata cristallina (Wasted Hours: leggi Neil Young) e una ballata asprigna (Deep Blue); il piano che incornicia We Used To Wait e Paul McCartney + Jacques Brel che si rincorrono in Sprawl 1 (Flatland), mentre Sprawl 2 (Mountains Beyond Mountains) si mette a citare con sapienza Heart Of Glass dei Blondie. The Suburbs (Continued), è il capitolo finale. Apocalittico e sognante come i 7 di Montreal. Dire che sono i più bravi di tutti, non è più un azzardo. Arcade Fire, The Suburbs, Mercury/Universal, 14,90 euro

Quei grandi bianchi dimenticati dalla storiografia on Il Jazz. L’era dello swing. Le orchestre bianche e i complessi si è finalmente conclusa, per i tipi della EDT di Torino, l’opera omnia di Gunther Schuller nella traduzione di Marcello Piras. Sei volumi che coprono l’intero arco del jazz dalle origini alla fine dell’era dello swing. Si tratta della più esaustiva storia di quel periodo, mai pubblicata fino a oggi. L’ottantacinquenne musicista e musicologo americano aveva iniziato a occuparsi di jazz quando, dopo essere stato cornista nell’orchestra del Metropolitan di NewYork diretta all’epoca da Arturo Toscanini e compositore di musica atonale, si trovò il 13 marzo 1950, quasi inaspettatamente, a ricoprire il posto di corno francese nel corso dell’ultima seduta per Capitol dell’ottetto di Miles Davis. Quel giorno Davis con Jay Jay Johnson, Lee Konitz, Gerry Mulligan, John Lewis, Al McKibbon e Max Roach registrarono le ultime quattro pagine di

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di Adriano Mazzoletti quel gruppo di composizioni che in seguito furono pubblicate in un album dal titolo The Birth of the Cool. Gli arrangiamenti di Miles Davis, Gerry Mulligan e Gil Evans di Deception, Rocker, Moon Dreams e Darn That Dream prevedevano anche la presenza di un corno francese e di un basso tuba. Per il primo venne scelto Gunther Schuller. Fu una scelta felice soprattutto per Gunther che si trovò in un ambito musicale per lui sconosciuto che lo colpì profondamente. Già nel 1951 era ormai inserito nel mondo musicale del jazz, non solo come strumentista, ma anche arrangiatore, compositore e direttore d’orchestra. Musicologo sentì la necessità di approfondire la conoscenza di tutto ciò che il jazz aveva creato dal suo apparire. Nel

1968 pubblicò Early Jazz: Its Roots and Musical Development, un volume di 500 pagine dove per la prima volta venivano analizzate, trascrivendo su pentagramma anche parti di assolo, le opere incise dal 1917 agli anni Trenta, da parte di musicisti noti come King Oliver, Jelly Roll Morton e Louis Armstrong, ma anche di altri meno noti e studiati come Sam Morgan, un eccellente solista di tromba i cui

lavori discografici erano rimasti nell’ombra. Ventitre anni dopo, Schuller pubblicava il secondo volume, The Swing Era: The Development of Jazz, 1930-1945. Questi due libri, dal 1996, sono stati pubblicati in sei tomi dalla EDT: il primo dedicato alle Origini, il secondo al Periodo classico, il terzo ai Grandi maestri, il quarto alle Grandi orchestre nere, il quinto ai Grandi solisti e infine il sesto alle Grandi orchestre bianche. Nell’ultimo pubblicato da pochi giorni, Schuller esamina con grande intuizione l’opera di Woody Herman, Artie Shaw, Glenn Miller e di altre orchestre e complessi che spesso la storiografia del jazz aveva ignorato o dimenticato. Gunther Schuller, Il Jazz. L’era dello Swing. Le orchestre bianche e i complessi - Glenn Miller, Artie Shaw, Woody Herman, Nat King Cole, EDT, 288 pagine, 18,00 euro


arti Mostre

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arte concettuale è indubbiamente il movimento artistico che ha avuto maggiore influenza sull’arte degli ultimi cinquant’anni e continua mietere successi tra le nuove generazioni di artisti. È l’arte del concetto puro, l’arte che non ha come obiettivo ultimo la creazione di immagini, ma l’esposizione del pensiero attraverso immagini, oggetti, situazioni. Attingendo dalla filosofia, dalla semiologia, dalla linguistica, l’arte concettuale è una moderna interpretazione del principio leonardesco secondo cui l’arte «è cosa mentale». La mostra The Panza Collection. Conceptual Art è un grande evento sull’arte concettuale, attraverso cui il Mart, il Museo di Trento e Rovereto, rende omaggio a uno dei più grandi collezionisti internazionali di arte concettuale (ma non solo) del secondo dopoguerra, scomparso di recente: Giuseppe Panza di Biumo. La mostra prevede circa sessanta opere di artisti di fama internazionale, tra cui Robert Barry, Hanne Darboven, Jan Dibbets, Hamish Fulton, Robert Irwin, Joseph Kosuth, Lawrence Weiner, Sol LeWitt, David Tremlett, Franco Vimercati, Ian Wilson, Peter Wegner, tutte opere appartenenti alla collezione del conte Panza di Biumo, grande sostenitore del Mart fino dalla metà degli anni Novanta. Idealmente l’arte concettuale ha le sue radici nel dadaismo francese dei tre grandi artisti Marcel Duchamp, Man Ray e Francis Picabia. I tre dadaisti hanno prosciugato l’arte portando in primo piano il pensiero e il concetto rispetto all’immagine riprodotta. È stato nel 1961, grazie all’artista del gruppo Fluxus, Henry Flint, che è nato il termine «Arte concettuale» coniato da Flint per teorizzare un’arte nella quale le idee e i concetti prevalessero sulla dimensione estetica e

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Architettura

Quando l’arte è cosa mentale di Angelo Capasso percettiva dell’opera d’arte. Ma è sul finire degli anni Settanta che l’arte concettuale assume un ruolo di primo piano, anche grazie a movimenti come Art & Language e artisti come John Kosuth e Sol Lewitt. L’opera d’arte per gli artisti concettuali è formulata come un progetto; la sua dimensione ideale, astratta deve prevalere su quella estetica, percettiva e tangibile. L’oggetto d’arte quindi diventa importante in quanto manifestazione e rappresentazione del pensiero, e resta quindi del tutto slegato dall’esecuzione. Si viene a delineare così un nuovo tipo di estetica, che si scontra direttamente con il modo di

fare arte inteso in senso tradizionale: un’estetica concreta e in aperta opposizione con la produzione artistica tradizionale. Uno dei principi fondamentali dell’arte concettuale è inoltre lo schierarsi contro le regole del mercato, del capitalismo dell’arte. Esso, infatti, rappresenta il mondo del consumo che muta le opere da arte in merce da vendere. L’arte, invece, secondo gli artisti concettuali, deve essere intesa come rappresentazione del pensiero, della sua libertà e impossibilità a essere coagulato in un semplice quadro o oggetto d’arte. Ne è un esempio One and three chairs di Joseph Kosuth (1965), un’o-

pera in cui la «sedia» è presente sotto tre diverse forme: l’oggetto che usiamo quotidianamente, una sua riproduzione fotografica e la sua definizione presa da un vocabolario. L’opera, in pura tradizione concettuale, è una riflessione sul linguaggio e sulla rappresentazione di esso. In quest’opera abbiamo l’idea di sedia, cioè un noumeno non esistente nel mondo fisico, usando la terminologia kantiana, e le possibili rappresentazioni della stessa nel reale: una sedia vera, una fotografia e la definizione di sedia data dal linguaggio umano. Tutti e tre tentativi e interpretazioni di un concetto, di un’idea. Ha scritto Giuseppe Panza: «Usiamo suoni, segni e immagini per esprimere la nostra volontà, i nostri pensieri e le nostre emozioni, nonché per comprendere quelli degli altri. È una condizione fondamentale per vivere e per costruire una società, ma come può esistere tutto questo in una società solo con un unico strumento, le parole, siano esse scritte e pronunciate oralmente?». Si tratta di una domanda importante che centra perfettamente il valore che l’arte concettuale ha avuto negli ultimi cinquant’anni di cultura artistica. Oltre che alla villa varesina, in Italia la più grande raccolta di opere del conte Giuseppe Panza di Biumo è conservata fra il Mart di Rovereto e il Palazzo Ducale di Sassuolo, ma la grande collezione Panza di Biumo oggi è fruibile al pubblico in alcuni dei più importanti musei del mondo. Ciò a dimostrazione che con le sue collezioni Panza di Biumo ha fornito un modello per altri musei contemporanei: l’idea di costruire le loro collezioni permanenti aggiungendo gruppi coerenti di opere, che si possono assemblare solo grazie alla rigorosa concentrazione dei grandi collezionisti su determinati artisti e periodi.

The Panza Collection. Conceptual Art, Mart, il Museo di Trento e Rovereto, fino al 27 febbraio 2011

Con Tobia Scarpa nel laboratorio di “Casabella” Milano è nato un nuovo spazio per conferenze, esposizioni e mostre dedicate all’arte e all’architettura. Promotrice dell’iniziativa è la storica, leggendaria, rivista di architettura Casabella, che dal 1928, anno della sua fondazione, costituisce un termine di riferimento per la cultura architettonica italiana e internazionale. Francesco Dal Co, che da oltre un decennio ha riportato alla grande tradizione Casabella esporta l’eleganza grafica e l’accuratezza pro-

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di Marzia Marandola gettuale che distingue la rivista nel nuovo spazio milanese, denominato Casabella Laboratorio. diretto dalla giovane Carlotta Tonon, redattrice di Casabella. Situato in via Marco Polo 13, in un piccolo edificio manifatturiero dismesso, articolato da un atrio, un ampio salone e un piccolo giardino ombreggiato da una pergola di vite, il nuovo spazio espositivo è serrato tra vecchi alti edifici di abitazioni operaie e il grande cantiere delle Varesine, dietro Porta Nuova. L’ambiente espositivo, a pianta rettangolare, inserito tra due cortili aperti, è spartanamente allestito dallo studio Tassinari/Vetta, grafici di Casabella, con espositori a struttura metallica e vetro, della Unifor, illuminati da corpi luce Guzzini: le due imprese sono anche sponsor del progetto. A inaugurare lo spazio è stata allestita la mostra Tobia Scarpa. Monili per San Lorenzo (fino a oggi): dedicata ai gioielli e ai relativi disegni di progetto, realizzati dall’architetto e designer veneziano Tobia Scarpa. La piccola e incantevole mostra è interamente dedicata alle eleganti composizioni di forme geometriche pure, di volumi perfetti; come sferette, cilindri e fili metallici, elementi

spesso direttamente estratti dalla meccanica, ingentiliti dalle grazia del disegno, dalla preziosità della materia (argento, pietre dure e murrine) e dalla accuratezza sofisticata della lavorazione. Anelli rettangolari con castone a pentagramma dove si incastrano sferette metalliche configurano una composizione a metà tra un pallottoliere miniaturizzato e un meccanismo a cuscinetti a sfera; collane «conchiglie» e ad «arco» imprimono il disegno a eleganti monili, realizzati dalla storica manifattura San Lorenzo, che da quarant’anni realizza gioielli sofisticati. Figlio del grande architetto Carlo,Tobia è progettista di molte architetture, come testimonia il corposo e accurato volume, dalla grafica dinamica e divertente di Roberto Masiero e Michela Maguolo con Evelina Bazzo, Afra e Tobia Scarpa architetti 1959-1999.Tobia Scarpa architetto 2000-2009 (Electa, 528 pagine, 100,00 euro).Tra i progetti troviamo case e fabbriche, parti di città e nuovi edifici, restauri e oggetti di arredo e di design, gioielli e mazze da golf, vasi di vetro ed etichette per il vino.Tobia Scarpa collabora con la moglie Afra Bianchin fino al 1999, per proseguire poi in solitario la progettazione. Alla chiusura della mostra di Scarpa si avvicenderà, dal prossimo venerdì 15 ottobre, l’esposizione dedicata a due personaggi: l’architetto e designer Michele De Lucchi e il fotografo e artista belga Filip Dujardin dal titolo Vero, falso, verosimile.


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Musicalmente coraggioso, creativo, spesso e volentieri geniale, libero pensatore e pacifista. Oggi avrebbe spento 70 candeline. Se l’8 dicembre di trent’anni non fosse stato ucciso da un fan a New York. Ricordo del più eclettico dei Fab Four, a cinquant’anni dal primo concerto della band col nome di Beatles e a quaranta dallo scioglimento. Un marchio, quello dei quattro di Liverpool che segna uno spartiacque…

il paginone

Prima e dopo LENNON

di Stefano Bianchi ieccola, Yoko Ono. Proprio oggi atterrerà sull’isola islandese di Vioey, non lontano da Reykjavik, per riaccendere la Imagine Peace Tower. Lo fa ogni 9 ottobre, dal 2007, quando fece incidere su un pannello la scritta I dedicate this light tower to John Lennon. My love for you is forever, Yoko Ono. Anche stavolta, farà rivivere le colonne di luce con le parole Imagine Peace tradotte in ventiquattro lingue. Stavolta, però, è un 9 ottobre particolare: John Lennon avrebbe compiuto settant’anni se la sera dell’8 dicembre 1980 quello psicopatico di Mark Chapman non gli avesse sparato addosso cinque revolverate. Settant’anni dalla nascita e trenta dalla morte. Una doppia ricorrenza che ha messo in moto la Definitiva Santificazione Lennoniana, che come tutte le Santificazioni del Rock è fatta di buone cose ma anche di colossali patacche: come la recente vendita alla Beatles Convention di Liverpool, per undicimila euro e passa, del WC di casa Lennon a

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Tittenhurst Park, utilizzato dal ‘69 al ‘72. O la penna stilo griffata Mont Blanc, col simbolo della pace tatuato sul pennino, la clip a forma di manico di chitarra e una targhetta con inciso il suo celebre autoritratto.

Nel bene o nel male (purché se ne parli), ecco l’inizio e la fine di John Winston Lennon. Che il destino ha voluto fossero anticipati, nei mesi scorsi, dal prologo (cinquant’anni fa) e dall’epilogo (quaranta) dei Beatles. 17 agosto 1960: il gruppo si esibisce per la prima volta con un contratto a nome The Beatles all’Idra di Amburgo, sulla Große Freiheit vicino alla Reeperbahn, via a luci rosse del quartiere di St. Pauli. 10 aprile 1970: a poche settimane dall’uscita del long playing Let It Be, Paul McCartney annuncia alla stampa di non voler più incidere dischi coi Beatles. Ma la premiata coppia Lennon/McCartney, in realtà, era già scoppiata dal ‘68, da «separati in casa». Lo scorso 10 aprile, fra l’altro, l’Osservatore Romano non solo ha riabilitato i Fab Four («Attraverso la loro musica quei quattro ragazzi di Liverpool, splendidi e imperfetti, sono stati capaci di leggere e di esprimere i segni di un’epoca che a tratti hanno persino indirizzato, imprimendovi un marchio indelebile. Un marchio che segna lo spartiacque tra un prima e un dopo. E dopo, musicalmente, nulla è più stato come prima»), ma ha dato un bel colpo di spugna a ciò che John Lennon esternò, il 4 marzo ‘66, al London Evening Standard: «Non so chi morirà per primo, se il Rock and Roll o il cristianesimo. Ma ora siamo più popolari di Gesù Cristo». Yoko Ono, oggi più che mai, tiene sotto controllo il mito. E i beatlesiani continuano a vederla come il fumo negli occhi: Yoko la cinica, l’opportuni-

sta, la responsabile dello scioglimento dei Beatles. «Lei è il mio professore, io il suo allievo», affermò John Lennon. «Ho la notorietà, ma è lei che mi ha insegnato tutto. Ho una mano destra, una mano sinistra e Yoko. Anzi: Yoko sono io». Immedesimazione totale. I beatlesiani, prima o poi, dovranno pur farsene una ragione. Se il Lennon post-Beatles non si è adagiato sugli allori, il merito è anche dell’artista concettuale già coinvolta nel movimento Fluxus, conosciuta il 9 novembre ‘66 all’i-

redato dalla celebre, scandalosa copertina che li ritrae totalmente nudi), Life With Lions e The Wedding Album, registrati insieme nel ‘68 e nel ‘69, sono dischi impossibili da digerire. Ma rappresentano l’incipit dell’artista che verrà: musicalmente coraggioso, creativo, spesso e volentieri geniale. E libero pensatore. E pacifista.

Dal 25 al 31 marzo ’69, nella camera 1902 dell’Hotel Hilton di Amsterdam, con Yoko dà vita a una particolarissima luna di

prese di posizione estremiste della coppia, negano il permesso di soggiorno negli Stati Uniti. Green card che John & Yoko otterranno, dopo estenuanti rinvii, nel ‘75. E ancora: il sostegno alle Black Panthers, al movimento femminista americano… Yoko Ono, in memoria di John, tira dritto e gestisce le celebrazioni da par suo. Dando cioè una bella riverniciata al mito, a cominciare dal canzoniere. La settantasettenne, anzitutto, ha voluto mettere le cose in chiaro evi-

Stasera Yoko Ono riaccenderà la Imagine Peace Tower come ogni 9 ottobre. Ma questa volta la celebrazione prevede moltissime altre iniziative. Come la rimasterizzazione dell’opera omnia da solista di John naugurazione di una sua mostra all’Indica Gallery di Londra. Fra i due è amore a prima vista, coronato dalle nozze del 20 marzo ‘69 a Gibilterra, dopo il divorzio di Lennon da Cynthia Powell e di Yoko da Anthony Cox. Lei lo «ipnotizza» dal punto di vista emotivo e culturale. Ma lui ha bisogno di una figura materna, oltre che di una moglie, per potersi riscattare da un’infanzia difficile. Con lei, John è meno fragile. E si scopre addosso la voglia di sperimentare. Certo: Two Virgins (cor-

miele: un Bed-In sulla pace nel mondo e contro le dissennate spese militari. Ne seguirà un altro al Queen Elizabeth Hotel di Montreal, dal 26 maggio al 2 giugno, con registrazione di Give Peace A Chance inclusa: dal vivo, fra le lenzuola, con la partecipazione straordinaria ai cori di Allen Ginsberg, Timothy Leary, Petula Clark, fotografi, giornalisti e hare krishna. E poi le battaglie a favore di Bob Sinclair e Angela Davis. Nel ‘72 il governo Nixon e l’Fbi, intimoriti dalle

denziando: «In questo anno molto speciale che avrebbe visto il mio marito e compagno di vita compiere settant’anni, mi auguro che questo programma di ristampe rimasterizzate possa avvicinare le nuove generazioni alla sua incredibile musica. Spero, poi, che queste centoventuno tracce che coprono l’intera carriera solista di John permettano a chi ha già familiarità con le sue opere di ricavare rinnovata ispirazione dalle sue incredibili doti di cantautore, musicista e can-


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Quel revolver in bianco e nero di Claudio Trionfera inque proiettili nella sera fredda di New York, solo uno fuori bersaglio, l’aria già elettrica e croccante del Natale in arrivo, quel Natale del 1980. «Hey Mr. Lennon, sta per entrare nella storia» aveva appena gridato Mark Chapman prima di sparare davanti all’ingresso del sontuoso Dakota Building sulla 72ª nell’Upper West Side. Era là che John Lennon abitava e stava rientrando per l’ultima volta accanto a Yoko Ono, dopo essere uscito dallo studio di registrazione dove aveva da poco inciso Double Fantasy che Chapman, poche ore prima, si era fatto autografare. E fu così che la leggenda dei Beatles si spezzò veramente. «Fisicamente». In un folle, esoterico incrocio di numeri e di presagi, di suoni e di simboli, come quello del revolver che aveva ucciso Lennon e richiamava il titolo del vinile numero sette della discografia dei Beatles, uscito nell’estate del ’66 con una indimenticabile copertina in bianco e nero e soprattutto Eleanor Rigby e il sitar e il rock psichedelico esibito per la prima volta. Quella notte dell’8 dicembre aveva risucchiato in un vortice scuro ricordi e musica e perfino la speranza lontana di rivederli, un giorno, tutti insieme di nuovo sullo stage. Risacca di lacrime e di nostalgia tra i lumini dei fans attorno al simbolo spirituale della band che aveva cambiato il mondo e la lunghezza dei capelli. E che con quella definizione - fusione di beat e beetles dunque coleotteri-beat - inventata proprio da John campione di calembour, aveva concluso una serie di passaggi attraverso quei nomi che erano stati una sorta di percorso di avvicinamento: da Johnny and the Moondogs, Quarrymen, Long John and

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Alcune copertine dei dischi da solista di John Lennon. Accanto il musicista ausculta simbolicamente la condizione del mondo. Nelle altre immagini tre momenti-simbolo dell’opera dei Beatles: quello di “Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band“ (1967), di “Abbey Road” (1969) e di “Yellow Submarine” (1969)

tante e dal suo carismatico potere di esprimersi sulla condizione umana. I suoi testi, oggi come allora, sono fondamentali. E io non potevo che intitolare questo progetto con le sue semplici, e ancora dirette parole: Gimme Some Truth». Datemi un po’ di verità, cantava Lennon nel ‘71 in una delle più intense canzoni di Imagine: «Sono stanco e disgustato di sentire discorsi da ipocriti conformisti, gente dalla vista corta, dalla mente limitata. Tutto quello che cerco è la verità. Datemi solo un po’ di verità…».

E le tante, lennoniane certezze trovano spazio nel florilegio di dischi che l’etichetta Emi ha prontamente pubblicato. Incisioni strutturate su fragori e melodie, avanguardia rock e pop d’autore. Capolavori, grandi e piccoli, che sempre hanno scandito l’imprevedibilità caratteriale di Lennon: uomo e artista tenero, collerico, romantico, nevrotico, passionale. C’è Power To The People - The Hits (versione singola, 19,50 euro; Experience Edition con cd e dvd, 21,50 euro), che raccoglie quindici fra i suoi più famosi successi: da Woman a Imagine, transitando per Mind Games, Happy Xmas (War Is Over) e Whatever Gest You Thru The Night. Ci sono i quattro cd a tema di Gimme Some Truth

(41,90 euro), efficacemente intitolati Roots: John’s Rock’n’Roll Roots And Influences; Working Class Hero: John’s Socio-Political Songs; Woman: John’s Love Songs e Borrowed Time: John’s Songs About Life. C’è l’opulenza del John Lennon Signature Box (164,90 euro), cofanetto di undici cd che sciorina uno dopo l’altro gli otto album solisti rimasterizzati in digitale negli Abbey Road Studios di Londra e negli studi Avatar di New York: John Lennon/Plastic Ono Band del ‘70, incisione al vetriolo; Imagine, ‘71, classico fra i classici; il doppio, radicale Some Time In New York City, ‘72, registrato dal vivo, che inanella pezzi furenti e politicizzati; Mind Games, ‘73, l’esatto opposto: crepuscolare, morbido, intimista; Walls And Bridges,‘74, idem come sopra, più pop che rock; Rock’n’Roll, ‘75, scrigno di classici anni Cinquanta brillantemente rivisitati; Double Fanta-

sy, ‘80, sette canzoni pop & rock per John e altrettante per Yoko; il postumo Milk And Honey,‘84, che sublima con tenerezza l’amore eterno della coppia. A questi, vanno aggiunti un extended play coi singoli che non sono mai stati inclusi su album (sei: da Power To The People a Give Peace A Chance) e un altro disco pieno zeppo di rarità e incisioni casalinghe come Love, God, Nobody Told Me, One Of The Boys, Serve Yourself e I Don’t Wanna Be A Soldier Mama I Don’t Wanna Die.

E come se non bastasse, Double Fantasy rivede la luce anche nella versione «spogliata» (21,50 euro) remixata ex-novo da Yoko Ono e Jack Douglas, già co-produttori insieme a Lennon del mix originale. «Double Fantasy

the Silver Beetles, Silver Beates, Silver Beats, Silver Beetles. Impasti quasi magici e misteriosi di numeri, di ricorrenze, di segni del destino marcati allo scadere dei decenni, ritmiche rotonde a seguire la musica nella scrittura armonica che non ha soluzione di continuità. Oggi Lennon avrebbe 70 anni - era nato la notte del 9 ottobre del ‘40 al Maternity Hospital in Oxford Street, durante un bombardamento tedesco - ed è morto da trenta. Settantenne anche Ringo Starr. Nel 1960, dunque cinquant’anni fa, il primo concerto del gruppo col nome fatidico di Beatles. Dieci anni dopo, lo scioglimento e l’inizio di carriere separate e soliste. Sembra che una regia invisibile abbia giocato coi numeri del tempo per rendere tutto ancora più «leggendario». D’altra parte quella di John è destinata forse a restare la leggenda più duratura, insieme con quella di tutto il gruppo. Era il ribelle dalla giovinezza tormentata, era colui che, da artista totale, determinava le «svolte» dei Beatles a ondate progressive, dall’epopea orientale a quella pacifista, ai rivoli psichedelici, al matrimonio con Yoko Ono che cancellava il passato di Chyntia Powell. Un impulso intellettuale inesauribile e irrequieto dall’alba al tramonto, motore perfino di quello scioglimento prematuro della band: era il 1970 e lui con la mente era già lontano, immerso in prospettive altre. Resta la musica. E restano le parole, anche quello yeah-yeah che aveva fatto di She Loves You una sorta di inno generazionale. Resta, non cancellabile, un po’ struggente e crepuscolare, effimera e perpetua allo stesso tempo, la sua Imagine visiva e sonora, ancora capace di provocare emozioni.

Stripped Down permette di focalizzare i sorprendenti vocalizzi di John», puntualizza la giapponese. «Ho voluto utilizzare nuove tecniche per dar forma a questi incredibili brani rendendo la sua voce più essenziale e “nuda” possibile. Dopo aver eliminato il suono di qualche strumento, il potere d’ogni singola canzone ha cominciato a brillare d’una nuova luce». Spostandoci più in là col tempo, giusto a metà strada fra la prima e la seconda celebrazione, il 12 novembre al Beacon Theatre di New York andrà in scena The 30th Annual John Lennon Tribute, organizzato dall’associazione benefica Playing For Change Foundation, che vedrà alternarsi sul palcoscenico Patti Smith, Jackson Browne, Cyndi Lauper, Joan Osborne, Shelby Lynne, The Kennedys e altri artisti. Dieci giorni dopo, l’emittente americana Pbs manderà in onda Lennonyc, il documentario diretto da Michael Epstein che racconta l’arrivo e la permanenza dell’ex Beatles a New York: dal domicilio del ‘71

nel Greenwich Village, fino al mortale agguato dell’80. Il tutto corredato dalle testimonianze dell’immancabile Yoko, Elton John, musicisti degli Elephant’s Memory che suonarono con John & Yoko dopo aver partecipato alla colonna sonora del film Un uomo da marciapiede, del presentatore televisivo Dick Cavett e del fotografo Bob Gruen.

Di Paul McCartney, neanche l’ombra: «Se avessi inserito anche lui», ha dichiarato il regista, «il film si sarebbe sbilanciato troppo sulla relazione fra i due. Così, invece, è al cento per cento John Lennon». Ultima annotazione: oggi, al Rock and Roll Hall of Fame and Museum di Cleveland, verranno sigillate tre «capsule del tempo» che racchiudono preziosi «reperti»: tutte le registrazioni del dopo Beatles, le copertine degli ellepì, regali dei fans, memorabilia e altri oggetti-chiave… Due rimarranno a Cleveland, una prenderà il volo per Liverpool, destinazione John Moores University School of Art & Design. Tutte e tre, verranno riaperte il 9 ottobre 2040, quando scoccherà il fatidico centenario. Chi vivrà, vedrà. Di sicuro, mancherà la vedova.


Narrativa

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Belle Poitrine

seguire le vicende, divertenti e leziose, di Belle Poitrine con destino da attricetta viene spesso in mente Marilyn Monroe quando sullo schermo era così ingenua o fintamente ingenua da parere una scema. La Belle di cui parliamo è la protagonista di una biografia sotto forma di autobiografia di Belle Schlumpfert, nata nella bifolca cittadina di Venezuela (Illinois), poi sbalzata nella Chicago delle «sciccherie», un termine, questo, che la starlet fisicamente ben dotata usa di continuo. Una storia di vita con un sense of humor sempre offerto come se fosse involontario: e qui sta la bravura di Patrick Dennis. L’autore (1921-1976) scrisse questo testo, Povera piccina, nel 1961 dopo aver goduto del grande successo piovutogli addosso con Zia Mame (nel 1956), che la Adelphi ha fatto conoscere agli italiani poco tempo fa. Non siamo certo ai fuochi d’artificio letterari del precedente romanzo, ma Dennis corre disinvolto sulla corda della leggerezza arguta. Il rischio del tono ripetitivo indubbiamente c’è, ma ha la gravità continua del difetto. Belle è talmente sprofondata nella sua stupidaggine mascherata con chiffon che è facile credere agli applausi tributati all’omonimo spettacolo messo in scena a Broadway da Neil Simon e Bob Fosse. Belle è entusiasta del mondo fin da quando apre gli occhi, grata a «Mammina» (il padre non l’ha mai conosciuto), la donna che le ha inculcato il brivido di essere sempre in scena. Una fille de joie nel senso letterale, anche quando nella realtà lo diventava secondo l’accezione che questo termine ha nella lingua francese. Lei, che non la racconta mai giusta, ammette di aver «intrattenuto» bei giovanotti e ricchi signori, ma guai a essere scambiata per «una di quelle». Già questo guaio era capitato a Mammina nell’ammuffita e ottusa Venezuela (novemila abitanti) solo per il fatto che lei, «un fiorellino del Sud», rallegrava i pomeriggi di alcuni uomini nella disinibita residenza di Madame Louise. Fin da quando sgambetta per le strade, la precocemente flessuosa Belle capisce «che il destino che aveva in serbo era una carriera da grande attrice drammatica». Immagina esordi strabilianti: «Il mio unico scopo nella vita è stato esibirmi, regalare al pubblico americano felicità e sorrisi, tormenti e lacrime». Si sente già «esibita» quando un maturo signore le mette la mano sulle ginocchia, al cinema. Lei ha undici anni, va matta per il cinema.

libri

Patrick Dennis POVERA PICCINA Adelphi, 341 pagine, 22,00 euro

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importa se solo di Chicago, debba essere sempre descritto con abbondanza di parole francesi, anche questo è «sciccheria». Tutto quel che le pare attraente è «carinissimo»: il topo di campagna finalmente veste abitini attillati. Ha l’illusione d’aver sposato un riccone, poi si trova moglie del soldato Poitrine, occhialuto, gracile, zoppicante, e poco dopo vedova di lui. Ma tutto è teatro, per Belle. Anche quando va in carcere, anche quando spara al ricattatore che ha in mano le sue foto hard, anche quando il suo livello di vita scivola fino alla miseria e all’alcolismo. C’è poi la resurrezione, come capita nelle storie americane. Belle trova la fede e un’incrollabile fiducia in sobrie regole di vita. «Alla fine ho vinto io» dice. È comunque appagata. La donna che conquistò una certa fama, di cui parla Dennis, è anche l’insieme delle parti interpretate nella vita, professionale e di spettacolo, di Jeri Archer. Nei panni, appunto di Belle Portine, di Mammina, di Pupina e di Divi. Sul come sia nata l’idea di questa falsa autobiografia, ce lo spiega Matteo Codignola nella postfazione: Dennis incontrò il fotografo Cris Alexander, rimase incuriosito dalle foto di tante attrici. «Partì più che da una storia da una serie di immagini». Nacque così la vita di «una star sui generis, di nascita discutibile come Billie Holliday, di inizi oscuri come Lucile LeSuer (in arte Joan Crawford), di carattere non accomodante come Bette Davis. Una star che avrebbe trasformato tutto quanto toccava in un’immane e risibile catastrofe, secondo l’invidiabile legge solo americana in base alla quale nello spettacolo non conta la presunta“qualità”, ma lo spettacolo di per sé». Un’opera buffa le foto di Alexander, quasi a rasentare la formula del rotocalco.

il destino di un’attricetta

Riletture

Dopo “Zia Mame”, “Povera piccina”: una storia di vita piena di umorismo apparentemente involontario di Pier Mario Fasanotti Afferra al volo quell’occasione che proprio limpida non è. Seguono le cosiddette «foto artistiche», poi una sgangherata quanto osé pellicola dove compare come contadinella senza veli. Imbarazzo, ma poco male: «La mia corsa verso il successo era cominciata». In avanti va, tra alti e bassi, tra un début e l’altro. Ovvio che l’haute monde, non

Santucci, Orfeo e il coraggio della memoria

iene ristampato Orfeo in Paradiso di Luigi Santucci che vinse nel ’67 il Premio Campiello. È l’opera più importante che Santucci ci abbia dato da un versante lirico e poetico dove la memoria e il tempo scorrono anche drammaticamente. Orfeo è un giovane che ha perduto la madre, Eva, e non si dà pace arrivando alla disperazione. Si aggira all’inizio del romanzo tra le guglie del Duomo di Milano con l’intenzione di buttarsi giù e suicidarsi. In sogno tornano in mente a Orfeo i momenti di quella disperazione: e ancora sul Duomo: «In verità le guglie, le tettoie e il Duomo tutto sembravano fatti di quella caligine chiara e opaca, le sue pietre non erano che nebbia rappresa, era come se la Cattedrale fosse un enorme mantice di nebbia e la spandesse sulla città intorno fino alle estreme casupole». Così nel sogno. Quanto a Milano, patria di Santucci, è il luogo dove nel ’63 aveva ambientato anche Il velocifero. Mentre Orfeo pare deciso a farla finita con la vita, compare un signore che verrà chiamato Des Oiseaux, il quale resterà presente poi per tutta la narrazione inviando via via lettere di consenso e di approvazione per il comportamento di Orfeo che dopo quell’incontro non pensa più al

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di Leone Piccioni suicidio. Si tratta di «comprendere il problema del tempo…: la riconquista del tempo passato, da Lei compiuta è un’operazione che a Lei può sembrare magica ma lo è più in apparenza che in realtà. Il passato appartiene di fatto e di diritto, come il possesso reale, all’uomo e quindi l’uomo può ritornarne padrone e ospite… egli non sa che il passato non è un flatus mentis, ma piuttosto un paese la cui realtà gli è dato di rintracciare e di snidare». Tutto si può dunque riconquistare dal passato: «Il paradiso favoleggiato dal Poeta - insiste Des Oiseaux - non è fatto di angelicate rose né di cori sovrapposti né di larve o bei canti; bensì di strade, caffè, creature che ci sono state restituite per merito del nostro coraggio mnemonico». È un concetto del tempo che si può definire agostiniano e il libro si apre proprio con una citazione da Sant’Agostino. Orfeo decide così di ripercorrere i momenti della vita della madre identificandosi in essi con la soluzione di riportare al presente quello che invece è passato. Così quando Eva nasce, Orfeo è presente ed

Torna il romanzo con cui lo scrittore vinse nel 1967 il Premio Campiello

è presente quando da bambina la portano a passeggio al giardino, quando adolescente la portano al primo ballo, quando è corteggiata, quando i suoi si trasferiscono all’estero perché il padre è socialista, nei giorni di lutto, nell’incontro con Leandro, che sarà suo marito, nel momento del concepimento del figlio che sarà Orfeo: «Eva e Leandro sedevano sul divano, le dita intrecciate, guardavano immobili un punto davanti a sé. I loro occhi erano carichi di visione, e quella visione pareva avere come bersaglio la serratura dietro cui Orfeo si nascondeva, tanto che per un istante egli si temette scoperto». E arriveremo alla nascita o rinascita di Orfeo. Grandi pagine della storia avvenuta durante la vita di Eva ricompaiono nel racconto: i tumulti di Milano, quando il generale Bava Beccaris fa sparare sulla folla, la guerra di Libia, Caporetto del 1917. Scrive Daniele Piccini nel postfazione del libro che Santucci «quando si accinge a questa impresa narrativa, ma anche lirico-filosofica, ha all’attivo la sua raggiunta maturità» dopo l’uscita nel 1963 del Velocifero «che resta il suo più vasto affresco narrativo». Ma della vena di scrittore di Santucci non si può dimenticare neanche in questa sede la sua straordinaria ironia e anche la comicità, che ha saputo spargere in tanti altri suoi libri.


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poesia

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Bonnefoy, i misteri di un mutante di Roberto Mussapi ouve, la mitica Douve, personaggio nato dall’immaginazione di Yves Bonnefoy, uno dei massimi poeti viventi. Douve è uno dei miti e dei misteri della mia formazione poetica, lo è ancora, oggi. Douve è uno dei pochi miti creati da un poeta nel Novecento. Chi è Douve? Solo leggendone l’epopea, Movimento e immobilità di Douve, potremo accostare quel mistero. Bonnefoy mi colpì subito perché la sua poesia creava immagini e le dileguava, contemporaneamente. La poesia di Bonnefoy appare e svanisce con la rapidità attimica in cui la realtà stessa della poesia è nata. Ecco il suo desiderio violento di cose, di realtà, di pieno, la sua angoscia di gnostico.Tutto appare come in uno schermo, non per tornare in volti o immagini, ma per rinascere metamorfosato in te che scrivi. Bonnefoy non scrive la poesia per la pagina, dove peraltro splende, ma per la zona aborigena di ogni poeta e lettore in cui la visione si genera. Forse, in questo senso, è il più grande poeta vivente. Poiché in lui coesistono la modernità drammatica della domanda di cosa, di entità, e la presenza di una cosa che è mobile e mutante come la poesia. Dal punto di vista della crisi e del dilemma dei nostri tempi è il più attuale, il più contemporaneo. Ma dal punto di vista del sortilegio, dell’incanto poetico, della strana trasparenza che la poesia investe sulle cose, è un grande continuatore della poesia antica e originaria. In lui tutto è mistero, ma il mistero non è mai confuso, si declina e prende forma come nei millenni avvenne nella nostra mente. La sua statura è decisamente superiore, poiché fa tremare le cose della cui esistenza non è certo, e, facendole tremare, le rivela vive e esistenti.

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Douve, la mitica Douve. È un paesaggio silvestre, quello della fondazione del mondo di Bonnefoy, vale a dire quello di Douve: polverizzando ogni memoria di Arcadia il poeta ripresenta la selva nella drammatica concezione dantesca, che poi è quella della fiaba, densa di crudeltà ma anche di incanti, di catture e prodigi: le streghe di Macbeth ma anche Puck e gli incantesimi del sogno, la maledizione che addormenta nella morte Aurora e il suo castello, ma anche il bacio del principe che la ridesta rivelando sonno quella che pareva morte. Douve appare correndo sulle terrazze, lottare contro il vento, evocare l’edera che si aggrappa alle pietre, in lotta tra l’aggrapparsi alla vita, ascendere spinta dalla fame di luce della linfa, o abbandonarsi al vento. Un vento più forte delle nostre memorie, ed eccola, invisibile ma certamente presente, là fuori, Douve, «E tu infine regnavi assente dalla mente»,

il club di calliope

La gamba smobiliata dove penetra il grande vento,

come Artemide, al margine delle spingendo davanti a sé teste di pioggia, mura e delle pareti del ricordo, solo alla soglia del regno vi farà luce, già nuovamente fuggente verso gesti di Douve, gesti già lenti, gesti neri. lo spazio inesplorato del bosco e della notte. È lei la presenza cer(…) cata, la certezza di cui non si può Il tuo viso stasera rischiarato dalla terra, fare a meno, e ha il volto di una ma vedo corrompersi i tuoi occhi, donna, come il volto di una donna e la parola “viso” non ha più senso. assunse da allora e per sempre la realtà stessa in Alighieri. BeatriIl mare interiore schiarito d’aquile che volteggiano: ce, certo, la realtà che rende poeta il poeta, ma anche Elena, «colei questa è un’immagine. che fece gonfiare mille vele», la Ti tengo, fredda, a una profondità dove ragione del conflitto primordiale, le immagini svaniscono. la prova della realtà stessa su questa terra, con l’enigma della Yves Bonnefoy loro inafferrabilità ultima: «ad ogni istante ti vedo nascere, Douda Movimento e immobilità di Douve ve,/ Ad ogni istante morire». EcTraduzione di Roberto Mussapi cola, ora, fuggente verso la morte, inutilmente chiamata dal poeta come Euridice, alle soglie di quel regno, «Gesti di Douve, gesti già fatti lenti, gesti neri». Il presa del ritorno, nella certezza della sua luce. E qui, nel pallore, il fiume sotterraneo, l’incuboso regno di Ade, una trionfo della selva, rivolto agli alberi che si annullarono al nebbia crescente gli strappa il suo sguardo: Euridice che passaggio di lei, che richiusero su di lei le loro strade, gli si allontana, mentre Ermes detta a Rilke il suo pianto, «al- alberi, «solenni mallevadori che Douve anche se morta/ beri di un’altra riva», ma anche Beatrice che vien meno, resterà luce senz’esser più nulla». prima del poema, nella Vita Nuova, là dove morte e presenza confliggono e stabiliscono il dilemma. Foglie, roccia Da questo momento Douve ha rivelato i fondamenti ardesia: dalle volatili entità cadute con cui Sibilla scrive stessi del reale, nella sua natura di presenza-assenza, dall’antro di Cuma i suoi oracoli, al sogno della pietra, di movimento e immobilità. Quando il libro di Douve si ciò che è, della presenza, di ciò contro cui batti e ti ferisci. conclude, Douve non cessa di esistere, ma è ormai ricoLa selva regna, la forra penetra nella bocca, le cinque dita nosciuta altrove, senza ormai bisogno di identificarne le si disperdono a caso in foresta, la testa per prima scorre apparizioni, di disperare alle scomparse: Douve, nella tra le erbe, il petto si orna di sua scomparsa fatta luce, si è transustanziata, parleranneve e lupi, e per due volte, al no per lei le voci di un teatro, un teatro-selva, che conferYves Bonnefoy. termine di questi due versi, meranno rafforzandolo il teatro di voci di Bonnefoy, inAll’intera sua opera maintenant, «ora»: tutto sta scenandolo in un dramma tra attori che non si vedono, poetica è stato appena avvenendo, è metamorfosi in ma in realtà comunicano in una storia la cui trama è indedicato un volume dei atto, ma la metamorfosi non ci visibile a noi spettatori, quanto al drammaturgo, capace Meridiani Mondadori, basta, non ci appaga, vogliamo però di inscenarla, senza vederla, ciecamente ascoltancon testo francese a la presenza. «Presenza esatta done il dettato lontano e misterioso. L’immagine di Doufronte. Il volume è curato da Fabio Scotto che ormai nessuna fiamma ve si è sdoppiata nella pura presenza delle voci e nella che firma anche, con può ridurre… Oh più bella e permanente realtà della pietra. Al teatro di queste voci Diana Grange Fiori, la infusa la morte nel tuo riso!». Il che si cercano di lontano, che appaiono come in una seltraduzione dei testi. dramma delle scomparse e va tra vapori magici per poi dissolvere, si contrappone la Per i tipi dei Quaderni delle apparizioni continua in- voce della pietra, le pietre scritte che non portano epigradel Battello Ebbro sta cessante, e continuerebbe se fi recenti, tracciate da una mano, ma voci e parole ormai per uscire La pietra e il proseguissimo fino al termine incorporate nelle fibre della pietra come conchiglie e pevento. Scritti sull’opera la parafrasi di Movimento e sci che vediamo incorporati nei marmi rosa di Verona. di Yves Bonnefoy di immobilità di Douve. Ma il nu- Quelle voci sono pietra e quelle pietre sono voci, l’altra Roberto Mussapi cleo agonico è la dove la mor- faccia del fuggevole ma certo mondo delle voci fluttuante, la scomparsa, rende più cer- ti, il grande teatro doveYves Bonnefoy rimette in scena il ta la presenza, sul modello, o direi l’archetipo dantesco: tempo moderno e riparte per l’impresa estrema, la visiol’acme della Vita Nuova non è altro che il vestibolo della ne della luce ultima, quella che segnalò la Presenza e che Commedia: la morte di Beatrice dà il via al viaggio, all’im- la illumina anche a occhi abbagliati o spenti.

VIAGGIO DENTRO L’ABBANDONO in libreria

A

C.

di Loretto Rafanelli

Questo tetto che affiora nella notte ci protegge più di una croce o un santo. Ora che improvvisamente piove è benedetto. In un’abside di plastica bagnata splende una pianta di ortensie azzurro-fuoco.

Antonella Anedda

è una guerra che insanguina la notte/ …che ci schianta…/ …che ci annienta» e «il mio corpo è un luogo pubblico», «cosa ci faccio in questo circo disgraziato?». Ma «ho continuato ad esserci,/ diversa, ad ascoltare il mondo/ da lontano, le vostre voci». Sì, «è stato un viaggio/ …dentro l’abbandono,/ il corpo immobile come controfigura» con la «lama nella gola,/ e non sapere cosa viene ancora». Chi urla da questo dolore, da questo «muro oltrepassato» è la poetessa Giovanna Rosadini, che in versi ci riporta alla sua incrinata vita (Unità di risveglio, Einaudi, 11,50 euro), all’oceano di buio vissuto, «perduta nel crepuscolo straniero»: il coma, la

«C’

quasi morte. Ed è un racconto che emoziona e travolge e ci fa intimi al suo percorso di vita nell’«oblio artificiale». Da lì, da quell’esperienza, la poesia diviene testimonianza profonda, lacerata, ma pure composta parola, forte nei suoi tratti, precisa nei suoi alti connotati lirici. E c’è la forza di «ricominciare» sapendo che «la persona/ che eravamo è ormai solo passato…», un «corpo naufragato», una vita guastata «in un istante dilatato come un mare». Ma è bene «sentirci partecipi a un sorriso, al germoglio di un sentimento condiviso». Seppure ci sia sempre un dubbio: «sapremo mai/ la sostanza perduta, ritroveremo/ il luogo, il corpo che abbiamo abitato?».


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di Pier Mario Fasanotti on è certo questa la sede per fare la storia dei cartoni animati e di come siano cambiati. Ma è occasione per manifestare stupore dinanzi a una virata brusca. Adolescenti e preadolescenti, da alcune settimane anche italiani, seguono con entusiasmo The Cleveland Show (Fox di Sky). A tutte le ore grazie al videoregistratore, per cui sarebbe inutile e ipocrita invocare la «protezione» della fascia oraria. Dico questo perché questa serie cartonata ricorre alle parolacce, a continui riferimenti sessuali e inneggia alla scorrettezza: in teoria sarebbe da ora tarda. È irriverente verso la famiglia, la gerarchia sociale. Gli episodi, divertenti a piccole dosi, ripetitivi nel loro insieme, riassumono lo sbandamento, anzi lo slabbramento, dell’epoca in cui viviamo. Se la realtà è in un certo modo, non c’è verso di riproporre personaggi e scenari disneyani, che francamente paiono preistorici e leziosi, e ormai appartengono alla letteratura del passato. Cleveland è il nome del capo-famiglia (tutti sono di colore, e questa è una novità), un disoccupato neo marito di una donna lavoratrice. Rallo, il più piccolo dei tre figli, è il classico bambino terribile (cinque anni) da prendere a schiaffi. Ai giovani telespettatori piace perché dice «cazzo» (ecco il salto rispetto al «cacchio» di Homer Simpson), perché al padre intima «via dalla mia sedia, ciccione» e chiude la bocca della mamma con un «basta predicozzi, bella!». Al ciccioncello, goffo e ingenuo fratello Cleveland junior (doppiato molto bene da Davide Perino), che in uno dei primi episodi parte per Washington in gita scolastica «scortato» dalla sorella Roberta, l’irritante Rallo dà questo augurio: «Rimorchia qualche troietta». Non ci sono tabù. Padre e madre (Donna Tubbs) restano a casa e guardano programmi televisivi trash come The barf family («La famiglia vomito»), ossia speculare alla loro.

N

Teatro

Televisione

MobyDICK

spettacoli DVD

I Cleveland

troppo oltre i tabù

LE VIE DEI FARMACI NON PORTANO IN AFRICA uasi quarantamila persone al giorno. A tanto ammontano le persone che ogni ventiquattro ore perdono la vita nei Paesi in via di sviluppo. Quasi sempre, ma non inspiegabilmente, per malattie del tutto curabili. Un tema complesso e luttuoso, sul quale indaga con coraggio Le vie dei farmaci , documentario di Michele Mellara e Alessandro Rossi. Grazie al ricco supporto di materiali e testimonianze, i due registi delineano un quadro assai fosco che adombra le forti responsabilità di un grande colosso farmaceutico come Big Pharma. Opera d’inchiesta lucida e vibrante.

Q

PERSONAGGI

TRE STAR AL TOTO-SANREMO uasi ufficiale Morandi, è bagarre sulla vedette che accompagnerà l’intramontabile Gianni sugli assi dell’Ariston. A contendersi le luci del Festival tre grossi calibri dello show-business nostrano. Che però, ormai è ufficiale, non includono la bella e ribelle Rodriguez, giubilata dal consigliere Rai AntonioVerro: «Abbiamo bisogno di modelli positivi, spero che Belen non sia nel cast». In rampa di lancio restano secondo indiscrezioni Manuela Arcuri, non proprio una novità nella kermesse sanremese, Elisabetta Canalis (che metterebbe sul piatto anche il cameo di mister Clooney), e più defilata,Vanessa Incontrada.

Q

I Cleveland sono moderni nel senso che il capo-famiglia è padre vero di Junior, mentre gli altri figli sono del precedente matrimonio di Donna. L’attualità, mutuata dallo squallore di una larga parte della borghesia americana (siamo in Virginia), consiste anche nella sempre crescente vicinanza dell’Europa allo sciattume e alla dissacrazione che negli States fanno tendenza. Nulla è corretto. I frammenti di bontà che compaiono in scena sono considerati unanimemente «pallosi», ridicoli, ostacoli alla piccole e rabbiose quotidianità. La serie è stata creata da Seth MacFarlane, Mike Henry e Richard Appel nel 2009. È una costola (spin-off) dei Griffin,

che sono somiglianti, per la scorrettezza, ai Simpson. Però più volgari e intimamente cattivi. Se Homer Simpson ha valori dai quali nemmeno la sua approssimazione socio-morale si distanzia, i Griffin e anche i Cleveland sguazzano nella caricatura esasperata dell’antibuonismo. Rallo e Stewie Griffin si assomigliano in quanto finti bambini: in realtà sono adulti che impongono in famiglia regole e ricatti, che sindacalizzano su tutto avendo come bussola il tornaconto e la perfidia. Sintesi di ciò che accade in molte famiglie vere, in specie per la resa dei genitori, la loro debolezza, il loro credere che tutto il cinismo aggressivo dei minori non sia mai da contestare o correggere.

di Francesco Lo Dico

Lo sguardo di Cristo (parte II) dritto negli occhi mpossibile non segnalare l’occasione che anche quest’anno Romaeuropa Festival 2010 ci regala per assistere a performance di pregio. In particolare è doveroso sottolineare, per chi non li avesse mai sentiti nominare o per chi non si perde un loro spettacolo, le giornate a cavallo di questo fine settimana dedicate alla «Societas Raffaello Sanzio», esponenti di punta del teatro d’avanguardia italiano, osannati dalla critica mondiale e prodotti a gara dai maggiori festival europei. La compagnia fondata nel 1981 da Romeo Castellucci, Chiara Guidi e Claudia Castellucci ha la sua sede ufficiale al Teatro Comandini di Cesena sebbene sia quasi sempre in tournée all’estero. «Il teatro non è la mia casa, la prima forma di nutrimento è passato attraverso la pittura, la scultura, il mio modo di lavorare non è letterario, non è legato alla presentazione di un testo teatrale», avverte Castellucci e aggiunge a proposito della tecnologia: «…è importante quando permette di riuscire a rivelare dei corpi, fantasmi che altrimenti non potresti realizzare in altro modo» - giusto per farsi un’idea di ciò a cui si andrà ad assistere.

I

di Enrica Rosso Tre le diverse opportunità per approcciarsi al lavoro di una delle compagnie più strutturate e proficue d’Europa, fino a domani, alle Officine Marconi, la prima nazionale del loro ultimo lavoro Sul concetto di volto nel figlio di Dio. Vol. II, performance di 45 minuti che prosegue il progetto biennale sul rapporto con l’immagine del Cristo. «Voglio incontrare Gesù nella sua lunghissima assenza», ha chiarito Castellucci in occasione del primo episodio già messo in scena. Ed ecco a materializzare quello sguardo una scia luminosa sorprendere le azioni di varia natura che si sviluppano in scena, in un dialogo diretto

con l’immagine cristica proveniente dalla tradizione pittorica occidentale che le sovrasta e che, in questo caso, a differenza di ciò che accade solitamente nella pittura sacra, guarda dritto negli occhi dell’osservatore. La religione con il suo corredo iconografico viene dunque messa al servizio dell’uomo al di là dell’essere manifestazione mistica o teologica. Sarà poi Villa Medici a ospitare, anche in questo caso fino al 10 ottobre, un altro importante capitolo della produzione artistica della Societas: Storia dell’Africa contemporanea. Vol. III. La performance, della durata di 12 minuti, sarà replicata tre volte al giorno con

la seguente cadenza: 17.00, 17.40 e 18.20. Uno studio incentrato sulla ritualità di un movimento estremamente semplice, realistico, simbolicamente potente: l’atto di inginocchiarsi. In scena lo stesso Castellucci & family a restituire il significato della genuflessione alle sue possibili varianti senza perderne di vista la matrice ancestrale a cui si fa riferimento nel titolo. Sempre a Villa Medici, oggi e domani alle 20.30, è inoltre possibile assistere alla proiezione del ciclo filmico della Divina Commedia suddivisa in Inferno 1h36mn, Purgatorio 1h13mn, Paradiso 6mn. Realizzati nel 2008 per il Festival d’Avignon in collaborazione con La Compagnie des Indies e prodotta e realizzata dalla televisione franco-tedesca Arte, l’operazione ha segnato una punta estrema dell’ardore creativo di Castellucci salutata da Le Monde come una tra le dieci produzioni culturali che hanno segnato il primo decennio del Duemila. Assolutamente da non perdere. Societas Raffaello Sanzio, Roma, Officine Marconi e Villa Medici, fino al 10 ottobre - Info: 06 45553050 romaeuropa.net


Cinema

MobyDICK

9 ottobre 2010 • pagina 21

Tom & Cameron

nnocenti bugie è un divertente, galoppante thrillercommedia in cui brillano due star di prima grandezza: Cameron Diaz e Tom Cruise. Letteralmente esplosivo, è un film che sfrutta il genere con spirito e ironia, fregandosene della logica secondo cui ogni cosa deve tornare. Così saltiamo molte spieghe su perché e per come, ridotte al minimo. Roy Miller (Cruise) è un agente segreto in fuga: ha prelevato un aggeggio superpotente creato da un ragazzogenio (Paul Dano) - una sorta di batteria nucleare che non si esaurisce mai - ambito da malviventi e dalla Cia, il suo datore di lavoro. È inseguito da tutti, anche dai suoi, perché Fitzgerald (Peter Sarsgaard), un agente antagonista, ha convinto il capo che Miller è una canaglia che si è impossessato dell’aggeggio e del suo inventore a scopo di lucro personale. La trama serve per ordire spettacolari scene d’azione ed effetti speciali: atterraggi di fortuna notturni con un aereo di linea in mezzo a un campo di grano, inseguimenti d’auto con un morto ammazzato al volante e una bionda che guida dal sedile posteriore cercando di evitare scontri multipli senza poter toccare i pedali, salti da palazzi molto alti e furiose sparatorie uno-contro-tanti con armi automatiche e molti cadaveri, anche all’interno di un aereo in volo. June Havens (Diaz) è nell’aeroporto di Wichita, Kansas, diretta a Boston per il matrimonio della sorella. Si scontra fisicamente con Miller, uno sconosciuto, che vuole servirsi di lei, poi si scoprirà perché. Il loro meeting cute è ben congegnato e brillante, nella nobile tradizione dell’incontroscontro della commedia romantica. Il film è stato criticato per il troppo spazio dedicato agli effetti speciali Cgi e il troppo poco dato all’approfondimento dei personaggi, tutti bravi attori, e alla storia d’amore tra i protagonisti. Effettivamente la chimica tra Diaz e Cruise è notevole e avrebbe meritato più attenzione. Torneranno un giorno i film di cassetta che uniscono con più equilibrio azione e storia d’amore. Nel frattempo non stracciamoci le vesti. Il film ha charm e nemmeno un attimo di noia: se attori come Viola Davis, Paul Dano e Celia Weston sono sotto utilizzati, le scintille comico-romantiche tra i due divi fanno pensare a vecchie glorie del genere come Charade o All’inseguimento della pietra verde. James Mangold è il regista di Quando l’amore brucia l’anima e Quel treno per Yuma, mica bruscolini. Da vedere.

I

fanno scintille

The Town, di e con Ben Affleck, è un poliziesco classico, tratto dal romanzo di Chuck Hogan, Prince of Thieves. Fa piacere che un attore, con la carriera a pezzi dopo il floppone di Gigli, si sia ritirato su prima come regista e poi come commediante. Il suo esordio nella regia è stato l’ottimo Gone Baby Gone (2007), con il suo affascinante fratello Casey come protagonista, e il

di Anselma Dell’Olio secondo film è molto godibile. Affleck resta attaccato alle sue radici a Beantown anche stavolta. Una voce fuori campo racconta che a Boston ogni anno ci sono 300 rapine in banca; la maggior parte ha origine nel quartiere di Charlestown, un miglio quadrato che contiene «più rapinatori di banca che il resto degli Stati Uniti messi insieme». Doug (Affleck) è il rampollo di una schiatta di professionisti del ramo. È molto legato al padre, che sconta una lunga pena (è il fantastico camaleonte Chris Cooper, il rigido militare omofobo di American Beauty). Gli altri attori sono di rango. Rebecca Hall (Vicky Cristina Barcelona) è Claire, la direttrice della banca rapinata da Doug e dai suoi compliciamici di una vita. È un ruolo un po’ tinca: non offre molti spazi per brillare, come la Hall sa fare. Jem è Jeremy Renner, il protagonista di The Hurt Locker, talmente autentico da far credere che fosse un vero artificiere arruolato per fare se stesso nel tesissimo film premio Oscar di Katherine Bigelow, schizzato a Venezia perché non politicamente corretto. Trasformista anche lui, qui sembra un balordo nato e cresciuto a birra e patatine a Charlestown. Jon Hamm (Mad Men) è il pubblico ministero che sospetta di Claire, e Pete Postlethwaite (In nome del padre) è un boss spietato. Il punto centrale è l’incontro tra Claire, presa in ostaggio dopo la rapina della sua banca, e Doug, che dopo averla liberata scopre che abita nel suo quartiere, che si va imborghesendo. Architetta un incontro con lei in lavanderia per capire se la donna ha notato qualche dettaglio fisico, intravisto nei travestimenti da suora dei rapinatori, che potrebbe incastrarli. A sorpresa s’innamora di lei, e il loro rapporto gli fa scoprire la possibilità di un’altra vita. Affleck, che ha partecipato allo script, aveva l’ambizione

di raccontare qualcosa sulla cultura criminale. Non gli è riuscito perfettamente, ma ha fatto un poliziesco di buon livello. Da non perdere, principalmente per la straordinaria interpretazione di Renner, che ruba la scena a tutti.

Avevamo letto e apprezzato Quella sera dorata, il romanzo di Peter Cameron con l’evocativo titolo The City of Your Final Destination, ora un film di James Ivory (Camera con vista, Howard’s End). Era al Festival di Roma l’anno scorso, accolto senza entusiasmo. Il film è molto fedele all’atmosfera rarefatta del libro. L’oro del romanzo è tutto nei lunghi dialoghi, sfaccettati e rivelatori di pulsazioni segrete, taciute, represse. Il film non se li poteva concedere che limitatamente. Omar (Omar Metwally), un giovane dottorando in letteratura, vince una borsa per scrivere la biografia di Jules Gund, uno scrittore d’origine ebraico-tedesca cresciuto in Uruguay. Il libro è fondamentale per la carriera accademica del giovanotto, come non cessa di ricordargli la sua organizzata, ambiziosa e comandina fidanzata Deirdre (Alesandra Maria Lara). Il problema è che la famiglia Gund rifiuta l’autorizzazione per la biografia del loro parente, suicidatosi dopo aver pubblicato un solo libro. Deirdre spinge il sognante e timido Omar a recarsi alla tenuta dei Gund in Sud America, per far cambiare idea agli eredi: il fratello Adam Gund (Anthony Hopkins), la vedova Caroline (Laura Linney) e la giovane amante Arden (Charlotte Gainsbourg). Il viaggio gli cambierà la vita. È un film di sentimenti delicati, sopraffini, come sempre nei film di Ivory. Qui sono addirittura estenuati, quasi impalpabili, eppure il film si segue con attenzione, e se alla fine non rimane molto se non l’eleganza rarefatta di una famiglia i cui sentimenti sono sempre trattenuti, non dispiace affatto passare un paio d’ore in sua compagnia. U na s c o n fi n a t a g i o v i ne z z a

Non concede un attimo di noia “Innocenti bugie” con Cruise e la Diaz: un film che fa pensare a vecchie glorie come “Charade”. Buono il poliziesco di e con Ben Affleck (“The Town”) e il film di James Ivory tratto dal romanzo di Peter Cameron: impalpabile, come nello stile del regista. E poi c’è Pupi Avati...

è il film di Pupi Avati escluso da Venezia. Prolifico come Woody Allen, l’autore ha una filmografia divisa tra i suoi ruvidi e più autentici film «popolani» (Il cuore altrove, Gli amici del Bar Margherita) e quelli borghesi (Il papà di Giovanna, La cena per farli conoscere). Il nuovo si gioca tra un presente agiato e un passato povero. Lino è un giornalista sportivo (Fabrizio Bentivoglio) sposato con una ben nata docente di filologia medievale (Francesca Neri) da 25 anni. Non hanno figli, un dolore, ma sono molto legati. Lino comincia a perdere la memoria del presente, mentre la sua infanzia torna fresca come allora. La discesa nell’Alzheimer è ben documentata, ma preferiamo l’Avati più demotico, scaltro e cinico di La seconda notte di nozze.


Fantastico

pagina 22 • 9 ottobre 2010

è un luogo comune duro a morire fra i critici che si occupano di narrativa popolare, gli storici della letteratura che si interessano anche di questo argomento e gli studiosi soprattutto accademici. Vale a dire che l’Italia è un Paese arretrato, sia rispetto alle altre nazioni europee, figuriamoci nei confronti degli Stati Uniti, per quanto ha riguardato l’elaborazione e poi la pubblicazione di una narrativa dell’Immaginario (orrore, fantastico, fantascienza) tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. Non è quasi esistita e non si è diffusa per motivi diversi, che secondo gli studiosi vanno ricercati nella nostra arretratezza culturale, nei condizionamenti politici e religiosi, nella mancanza di una industria avanzata eccetera eccetera. È una leggenda metropolitana, consolidata poi dall’aver preso per buone, da parte delle élites intellettuali, delle teorie prima di Todorov (1970), secondo cui in sostanza il «fantastico» è un che di effimero basandosi soltanto sulla «esitazione» del lettore (quindi non qualcosa in sé presente nella narrativa), e poi di Italo Calvino (1970), secondo cui c’è un fantastico italiano dell’Ottocento caratterizzato dall’emotività e un fantastico del Novecento caratterizzato dal suo «uso intellettuale». Tesi accettate acriticamente.

MobyDICK

ai confini della realtà

C’

C’era una volta

Così non è. Tutti questi pregiudizi e queste teorie nascono semplicemente dalla mancanza d’informazioni e quindi di conoscenza dei fatti. Credo di aver dimostrato, documenti alla mano, nel mio lungo saggio introduttivo all’antologia Le aeronavi dei Savoia. Protofantascienza italiana 1891-1952 (Nord, 2001) che il luogo comune nasce da una percezione diffusa: non aver guardato nei posti in di Gianfranco de Turris cui si doveva guardare, cioè le riviste popolari italiane di quel periodo. Rivi- Corriere e ne ha tratto un saggio do- credo - riscrivendoli per adattarli con ste che sono invece piene di racconti e cumentatissimo che fa capire come luoghi e nomi italiani (per questo, riromanzi di questo genere. Inoltre - con quel settimanale siano in effetti tengo, Foni non è riuscito a trovare le elemento fondamentale - la storia edi- approdati in Italia un giornalismo e fonti originali di alcune storie il cui toriale italiana non ha seguito quella anche una letteratura che potremmo autore è indicato con una sigla o con degli altri Paesi, ma soprattutto quel- definire «sensazionalistici», giunti, un nome ignoto, come è il caso della la statunitense, e quel genere di rac- nella loro formula di base, identici si- Morte purpurea di A.Adler), poi incrementando sempre più le firme itaconti non ha trovato più il suo spazio. no ai nostri giorni. Bisognava scartabellare i supplementi domenicali dei È falso sostenere che tra fine dell’800 e prima quotidiani dell’epoca, le riviste popolari, le pubblicametà del ’900 l’Italia trascurasse la narrativa zioni specializzate, le apdell’Immaginario. Lo dimostra un documentato pendici di mensili e addirittura i grandi settimanali saggio di Fabrizio Fonti dedicato alla prima annata d’intrattenimento letterario del mitico settimanale di Luigi Albertini. che oggi non esistono più. Che già nel 1899 raggiunse le 200 mila copie Spulciando quelle vecchia pagine ci si sarebbe imbattuti in una marea di storie fantastiche, fantascientifiche, orrorifi- In Piccoli mostri crescono. Nero, fan- liane, spesso con semplici lettori o che, spiritiche. Essendosi invece i no- tastico e bizzarrie varie nella prima scrittori d’occasione. Come afferma stri ricercatori, con in prima fila i pe- annata de «La Domenica del Corrie- Foni La Domenica del Corriere divenraltro benemeriti Ghidetti e Lattarulo re» (Perdisa, 250 pagine, 16,00 euro), ne un potente catalizzatore dell’Imcon il loro Notturno italiano (1984) brutto titolo ma accattivante coperti- maginario collettivo dell’epoca. Comper finire al recente, ma per nulla in- na, Foni ci fa scoprire quell’universo plici naturalmente anche le tavole di novativo (anzi ripetitivo) Fantastico meraviglioso che il genio di Luigi Al- Achille Beltrame. italiano a cura di Costanza Melani bertini fece scoprire agli italiani Si legge in una risposta della «picco(2009), limitati a scremare i testi dei giunti alla vigilia del nuovo secolo la posta» del settimanale: «Il lettore è grandi autori del mainstream disde- abituandoli a tutto quanto di singola- ristucco del solito terzetto amoroso e gnando la «paraletteratura». re, strano, eccezionale si poteva ra- preferisce quelle curiosità, quelle Ora, riprendendo quel mio spunto di strellare nelle notizie di ogni parte stravaganze che molte volte sono la dieci anni fa, un giovane studioso co- del mondo e, ovviamente, anche pub- verità del dimani». Tutto un programme Fabrizio Foni ha preso in mano ed blicando racconti sulla stessa falsari- ma, che se era valido ieri figuriamoci esaminato con cura certosina la pri- ga. Che inizialmente furono tradotti dopo cento anni e più! Così si precima annata (1899) della Domenica del dall’inglese o dal francese, spesso - io sa nella susseguente risposta a un al-

tro aspirante scrittore: «Non è adatto perché troppo semplice ed i lettori hanno bisogno di sale, di droghe, di eccitanti». Con questo programma La Domenica passa dalle iniziali 70 mila alle 200 mila copie. E siamo nel 1899: quante riviste italiane oggi possono permetterselo? E allora la percentuale degli alfabetizzati era assai inferiore a quello di 110 anni dopo. Foni segue l’annata raggruppando capitolo per capitolo le sue tematiche-guida: in primis delitti di tutti i tipi, processi che avvincono l’opinione pubblica, descrizioni macabre e realistiche di morti efferate; quindi l’alienità che viene dall’estero, le usanze più singolari e crudeli, i riti più raccapriccianti, i fachiri, i cannibali, i disastri naturali in lontani Paesi; quindi il vasto settore di spiritismo, occultismo e i fenomeni di quella che oggi si chiama parapsicologia e allora metapsichica; infine le «meraviglie della scienza» con ampi spazi a invenzioni mirabolanti come quelle di Tesla l’«avversario» di Edison, e tutto quel che ha a che vedere con l’elettricità, la nuova energia che sembrerebbe consentire tutto.

Intelligente l’idea di avvicinare al tema degli articoli anche l’esame della pubblicità del settimanale, le cui reclame più singolari e grottesche nell’arco di 70 anni meriterebbero un libro a sé. Infine, i racconti (che avrebbero meritato in verità assai più spazio) con una analisi generale dei temi e in particolare dei più interessanti e curiosi di essi. La Domenica del Corriere, dice l’autore si presentava come una «inesauribile macchina dei sogni», un «apparato per sognare» e per far ciò non poteva occuparsi della normalità ma della patologia del reale: l’abnorme, il diverso, il disgustoso, l’orrido, il curioso. E quando non lo era a sufficienza i redattori davano un aiutino, come si suol dire: «La realtà ha sempre bisogno di un piccolo aiuto, di qualche dettaglio in aggiunta che la renda più romanzesca». E infatti la rubrica di maggior successo fu «La realtà romanzesca» affidata allo scrittore «salgariano» Aristide Gianella. Infatti, «il bizzarro può annidarsi dappertutto». Leggere Piccoli mostri crescono dà la sensazione di entrare in una terra incognita di cui si era snobbata l’esistenza, per la prima volta esplorata come si deve, una inesauribile fonte di meraviglie e sorprese, che ci consente anche di capire come fossero curiosi e originali i giornalisti e gli scrittori di oltre un secolo fa. Altro che Italietta umbertina! Peccato che nuoccia un po’ al libro, dal punto di vista della leggibilità, il tono eccessivamente sostenuto (certe volte addirittura legnoso) dello stile quasi paraccademico, una pignoleria bibliografica che giunge ai limiti del feticismo, un uso esagerato del sic, un eccesso di excursus collaterali (penso a quello su Barnum). A mio parere un libro del genere, rivolto al grande pubblico e con lo scopo di divulgare certi temi, avrebbe dovuto essere più sorvegliato da questi punti di vista.


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