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SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
Il boom della matematica nel noir
SHERLOCK NUMBERS di Filippo Maria Battaglia el 1980 Kim Rossmo ha pressappoco vent’anni. È un giovane agente delrato di ricerca in criminologia presso la Simon Fraser University. Lo fa con due catDai la polizia, lavora a Vancouver e ha uno spiccato talento per la matedratici di tutto rispetto. Si chiamano Paul e Patricia Brantingham e sono ritematica. Come raccontano Keith Devlin e Gary Lorden nel nomati a livello internazionale in quanto pionieri dell’applicazione di numeri primi Matematico e il detective (traduzione di Elisa Faravelmodelli matematici al comportamento criminale. Ma da buon alla soluzione dei misteri. li, Longanesi, 254 pagine, 18,60 euro) fino a qualche anno sbirro, l’interesse del nostro non è l’astrazione. Il suo obietprima è stato il genere di studente che innervosisce tivo è assai più specifico e, se vogliamo, più utilitaristiIn un libro la storia del poliziotto compagni e insegnanti: «Si racconta che duranco di quello di qualsiasi altro studioso: «In quacanadese inventore del programma informatico te l’ultimo anno della scuola superiore, annoiato lità di agente di polizia, non intendeva studiare i che utilizza aritmetica e algebra dalla lentezza con cui procedeva il suo corso di matemodelli del comportamento criminale, bensì utilizzare matica, abbia chiesto di sostenere l’esame finale nella seconi dati effettivi sui luoghi di reati collegati a un singolo delincome strumenti investigativi. da settimana del semestre. Dopo aver ottenuto un punteggio del sconosciuto come strumento investigativo per aiutare la Perno di una fortunata poliziaquente cento per cento, fu esonerato dal resto del corso». Ma Rossmo ha ana scovare il criminale». fiction tv che un’altra passione, le indagini. Per questo diventa agente, anche se nel continua a pagina 2 frattempo decide di diventare il primo poliziotto canadese a conseguire un dotto-
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9 771827 881004
81011
ISSN 1827-8817
Parola chiave Globalizzazione di Sergio Belardinelli La lounge music di Nicola Conte di Stefano Bianchi
NELLE PAGINE DI POESIA
Cesar Vallejo prosatore di versi di Filippo La Porta
Bruno Zevi, profeta della modernità di Claudia Conforti La guerra? È una droga di Anselma Dell’Olio
Lo sguardo di Goethe nell’occhio di Horvat di Marco Vallora
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segue dalla prima L’arcano - è convinto Rossmo - sta tutto in una formula: è così che dopo un periodo di frenetiche ricerche tira fuori dal cappello inquisitivo un coniglio destinato a scompaginare tutti gli schemi inquirenti d’Oltreoceano, e non solo quelli. Il suo metodo ha il nome di un acronimo, CGT, che sta per Criminal Geographic Targeting, e ciò targeting geografico dei criminali. Spiegano Jeith Devlin e Gary Lorden che altri studiosi «chiamarono il metodo profiling geografico, in quanto faceva da complemento alla ben nota tecnica di profiling psicologico impiegata dagli investigatori per trovare i criminali sulla base delle loro motivazioni e caratteristiche psicologiche». Sia come sia, il piano anti-serial killer nasce su un treno giapponese, appuntato alla bell’e meglio su un tovagliolo di carta. Qualche ritocco, e all’inizio degli anni Novanta il sistema, che nel frattempo si è trasformato in un programma informatico elaborato, è pronto per essere diffuso e venduto alla polizia e alle altre agenzie di investigazioni di mezzo mondo. Oggi, quel metodo è diventato il perno di una fortunata fiction, NUMB3RS, che dopo aver sbancato negli Stati Uniti spopola anche sul digitale nostrano.
La puntata pilota della seguitissima serie poliziesca della Cbs prodotta da Tony e Ridley Scott è infatti tutta incentrata su una storia realmente accaduta. E il suo successo planetario ha inevitabilmente contribuito a creare una fortunata variazione a trame e
romanzi, in forma di cifre. Successo - va ricordato - che si è ulteriormente alimentato anche grazie agli ultimi fatti di cronaca (è di qualche settimana fa la scoperta a opera di un team universitario della California di un numero primo con 13 milioni di cifre). In soldoni, la tesi della fiction, è questa: matematica e poliziesco sono parenti stretti, e forse per questo anche nemici odiatissimi. Il motivo è semplice semplice: la prima sarebbe
MOBY DICK e di cronach
di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa a cura di Gloria Piccioni
l’antidoto a ogni mistero che si annida nel secondo. A tal proposito, Il matematico e il detective racconta dei mille casi risolti grazie ad algebra e ad aritmetica. Ma getta anche più di uno spettro d’ombra su come i numeri possono inavvertitamente deformare una realtà che non è affatto chiara. Tra gli esempi virtuosi che gli autori citano, c’è infatti il caso di Kristen Gilbert: «Trentatreenne, madre di due figli di sette e dieci anni e infermiera nel reparto C del Veteran’s Affairs Medical Center di Northampton, nel Massachussets, si era fatta una certa reputazione tra i suoi colleghi d’ospedale. In diverse occasioni era stata la prima a notare che un paziente stava per avere un arresto cardiaco e a suonare un “codice blu” per chiamare la squadra di rianimazione. Rimaneva sempre calma, ed era competente ed efficiente nel seguire il paziente.Talvolta aveva cercato di riattivare il battito cardiaco dei pazienti, prima dell’arrivo della squadra d’emergenza, con un’iniezione di epinefrina, un cardiostimolante, e così a volte aveva loro salvato la vita. I colleghi le avevano dato il soprannome di “angelo della morte”. Ma quello stesso anno tre infermieri si rivolsero alle autorità per esprimere i loro crescenti sospetti che la faccenda non fosse del tutto chiara. A loro avviso, si erano verificati troppi decessi per arresto cardiaco in quel particolare reparto. Erano state rilevate anche molte inspiegabili diminuzioni delle scorte di epinefrina. Gli infermieri iniziavano a temere che Kristensen Gilbert somministrasse ai pazienti forti dosi del farmaco per indurre gli stessi attacchi cardiaci, in modo da poter recitare la parte dell’eroina che cercava di salvarli. Il soprannome “angelo della morte”cominciava a suonare ancora più azzeccato di come lo avevano concepito inizialmente». In assenza di molti indizi, e per avere più chiara la situazione, ecco dunque che entrano in campo i numeri e gli statistici. I primi tentativi non sono incoraggianti. Poi, aggiustata la mira e circostanziata la materia, i risultati diventano assai più confortanti. La rete investigativa si stringe così attorno al collo dell’infermiera e, assicurano gli autori, è una rete senza scampo che porta dritta dritta all’incrimanzione. Durante il dibattimento, il giudice bandisce l’uso di numeri e tabelle (la motivazione è che i giurati non sono avvezzi a dialogare con disinvoltura con le cifre), ma la corte trova co-
Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento)
munque prove sufficienti per dichiarare l’imputata colpevole di tre omicidi di primo grado, di un omicidio di secondo grado e di due tentati omicidi. Non sappiamo quali siano state le motivazioni della giuria. Certo è che i dubbi, leggendo il resoconto di Devlin e Lorden, affiorano, e non sono di certo dubbi di poco conto. Perché se è vero che i numeri possono tornare utili alle indagini (e in tal senso Il matematico e il detective ne è una lunga, appassionata ed entusiasmante testimonianza), è altrettanto vero che investigazioni e ricerche devono poi fermarsi e confrontarsi con uno dei moloch della civiltà giuridica occidentale: il principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio. Una regola, questa, che impone di non soffermarsi sui nessi di causalità generali ma che spinge invece a indagare proprio sugli specifici collegamenti tra un determinato fatto e una determinata conseguenza.
inizio del racconto, il commissario di polizia se la prende così con la genia dei giallisti: «Non mi riferisco solo alla circostanza che tutti i vostri criminali trovano la punizione che si meritano. Perché questa bella favola è senza dubbio moralmente necessaria. Appartiene alle menzogne ormai consacrate, come pure il pio detto che il delitto non paga - mentre basta semplicemente considerare la società umana per capire dove stia la verità a questo proposito -, ma lasciamo correre tutto questo, se non altro per un principio puramente commerciale, dato che ogni pubblico e ogni contribuente ha diritto ai suoi eroi e al suo happy ending, e tanto noi della polizia quanto voi scrittori di mestiere siamo tenuti a fornire nella stessa maniera. No, quel che mi irrita di più nei vostri romanzi è l’intreccio. Qui l’inganno diventa troppo grosso e spudorato. Voi costruite le vostre trame con logica, tutto accade come
Per essere chiari: non basta dimostrare scientificamente che una massiccia dose di smog aumenti il rischio di cancro ai polmoni. E non basta neppure provare che statisticamente quell’emissione ha incrementato radicalmente le metastasi. Quello che è necessario dimostrare è che l’origine di quella specifica malattia non ci sarebbe stata in un’altra condizione atmosferica. Logica e filosofia corrono dunque a fianco della matematica per evitare che il cerebralismo dei numeri possa distorcere una realtà, del resto ancora tutta in divenire. E a fare da sentinella saggia in questa ricerca scettica può tornare buona anche la letteratura. Se si scorre infatti l’ultimo secolo di trame giallonere, rievocando all’ingrosso alcuni dei capolavori occidentali, si scopre presto che spesso il vero noir è quello che resta irrisolto. E qui bastano tre nomi: Friedrich Glauser, Carlo Emilio Gadda, Friedrich Dürrenmatt; e tre opere: Il Regno di Matto (Sellerio), Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (Garzanti), La promessa (Feltrinelli). Trame ambigue e complicate, dove filtra solo una flebile luce utile ad accertare le ombre e gli spettri che aleggiano tra le righe dei racconti. Ma dove - sorpresa - l’intreccio resta irrisolto e non coincide affatto con la perfezione di un’equazione. Ecco che allora tornano valide le parole del dottor H., uno dei protagonisti del romanzo di Dürrenmatt. Senza andare troppo per il sottile, a
in una partita a scacchi, qui il delinquente, là la vittima, qui il complice, e laggiù il profittatore; basta che il detective conosca le regole e giochi la partita, ed ecco acciuffato il criminale, aiutata la vittoria della giustizia. Questa finzione mi manda in bestia». È vero: quello di Dürrenmatt è solo un romanzo, una tragica storia che resta una storia di carta. E tuttavia sembra assai più reale di molte fiction che spopolano oggi in tv.
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GLOBALIZZAZIONE ppartiene un po’alla doxa sociologica contemporanea l’idea secondo la quale la globalizzazione radicalizza l’esperienza della modernità che George Simmel, all’inizio del secolo Ventesimo, aveva concettualizzato come differenziazione e interconnessione delle diverse sfere sociali, oggi potremmo dire, dei diversi sistemi sociali. Occorre tuttavia intendersi su che cosa realmente significhi questa radicalizzazione. A questo proposito mi sembra particolarmente utile indicare quelle che nello scenario contemporaneo si presentano ormai come le tre principali linee interpretative della globalizzazione: a) la linea del cosiddetto «iperglobalismo», secondo il quale siamo di fronte a una nuova epoca di ridefinizione delle relazioni sociali sulla base di una nuova integrazione economica del mondo, grazie ai mercati sempre più aperti, alle nuove tecnologie, a internet, ecc.; b) la linea del cosiddetto «scetticismo», secondo il quale la globalizzazione economica finirà per suscitare aspre e assai pericolose reazioni «localiste»; c) la linea, diciamo così, «possibilista», secondo la quale parlare di globalizzazione significa parlare di un processo molto complesso, a diverse dimensioni, non soltanto economiche, tutte autonome ma anche connesse tra loro, che ne fanno un fenomeno tutt’altro che unidirezionale, bensì contingente, aperto e multidirezionale.
A
La prima linea di interpretazione, quella dell’iperglobalismo, pur avendo il merito di richiamare l’attenzione sulla crescente dominanza del sistema economico in ordine alle vicende umane in generale, mi sembra che soffra di una sorta di marxismo di ritorno, che fa dell’economia il solo e vero elemento «strutturale» della società. La seconda, quella scettica, soffre per certi versi di un pregiudizio economicistico analogo, esasperando per giunta il rischio di uno «scontro tra civiltà» che sarebbe generato dalla globalizzazione (si pensi alle tesi di Huntington). Molto più promettente mi sembra invece la terza linea di interpretazione, quella che ho definito possibilista: la sola che, grazie all’apertura che la caratterizza, potrebbe aiutarci a comprendere ed, eventualmente, a modificare il fenomeno di cui stiamo parlando, senza chiudere gli occhi né sul pericolo che l’economia possa colonizzare l’intero universo della vita sociale, né sul pericolo che si creino irriducibili conflitti di identità tra gli individui e tra i popoli. A questo proposito sappiamo che occorrerebbe una sorta di catarsi culturale riguardo all’autocomprensione che gli individui e i popoli hanno di se stessi e nel contempo un’azione incisiva come non mai da parte degli Stati. Ma per una specie di ironia della sorte la globalizzazione sembra contrastare anche questa possibilità. Sappiamo infatti che la differenziazione e l’interconnessione dei diversi sistemi sociali - la politica, l’economia, ecc. - che hanno prodotto le odierne società complesse, oggi non avvengono più all’interno di
“Società elettronica”, “villaggio globale”, “mcdonaldizzazione del mondo”. Certi slogan sempre più diffusi tendono a indicare soprattutto il pericolo omologante insito nei processi che da essa derivano. Ma non è questo l’unico esito possibile...
La vera sfida di Sergio Belardinelli
La “politica dell’identità” non può semplicemente essere ridotta all’opposizione tra globalismo e tradizionalismo. È al paradigma della persona umana che occorre far riferimento per produrre una cultura in grado di gestire, senza conflitti, l’eterogenità quello spazio ben delimitato, rappresentato dai vecchi Stati nazionali. Fino a ieri, per fare un esempio, la politica, l’economia o la cultura tendevano a configuararsi come sistemi autonomi dentro lo spazio di una nazione; oggi essi stanno perdendo questo radicamento «nazionale»; di qui le grandi sfide che si profilano all’orizzonte, soprattutto per quanto riguarda la riorganizzazione delle istituzioni politiche. Per qualcuno, come è noto, tutto ciò starebbe a significare il tramonto degli Stati nazionali. Ma forse è più corretto parlare di una loro riorganizzazione, secondo una logica che sicuramente farà indebolire o addirittura per-
dere agli Stati alcune loro funzioni, diciamo pure, alcune loro «sovranità», ma che altrettanto sicuramente ne rafforzerà altre. In ogni caso quello politico è soltanto un lato, se così si può dire, del problema. E sarebbe sciocco trascurarne altri, come l’economia, le tecnologie, i mass media e via di seguito. A me sembra piuttosto che la vera sfida che abbiamo di fronte sia di impedire che questi diversi «sistemi sociali» funzionino in modo autoreferenziale, secondo gli auspici di un sempre più invadente funzionalismo. Quando, per fare un esempio, si dice che l’economia ha il suo codice nel profitto e la politica nel potere e poi si so-
stiene che i due sistemi (al pari di ogni altro sistema sociale) funzionano ciascuno autopoieticamente, guardando cioè soltanto a se stesso, al proprio codice, in realtà si rischia di fornire una pericolosa legittimazione teorica delle peggiori tendenze che vediamo all’opera, anche su scala globale, nel sistema economico contemporaneo. Altro che necessità di «governare» secondo criteri etici, ossia umani, il processo di globalizzazione.
In una prospettiva rigorosamente funzionalista, non ci sono buone ragioni per riporre fiducia o essere quanto meno «possibilisti» rispetto al fatto che i nuovi processi messi in moto dalla globalizzazione possano essere ricondotti al paradigma della persona umana. Invece è proprio a questo paradigma che occorre fare riferimento, specialmente se consideriamo l’impatto che la globalizzazione ha sull’identità dei popoli e delle culture. Certi slogan con pretese onnicomprensive, tipo «la società elettronica», «il villaggio globale», la «mcdonaldizzazione del mondo» o «l’epoca dell’informazione», tendono invero a indicare una sorta di pericolo omologante, implicito nei processi di globalizzazione, ma non credo che questo sia necessariamente il solo esito possibile. Non escludo ovviamente che tale pericolo ci sia. Del resto anche negli slogan c’è sempre qualcosa di vero. Ma forse le obbiettive tendenze omologanti della globalizzazione rischiano di farci perdere di vista le sue altrettanto obbiettive tendenze a produrre eterogeneità, dal momento che, messi a contatto tra loro (e la globalizzazione è anche questo), diversi contesti socio-culturali producono diverse reazioni all’impatto con la diversità. In altre parole, la cosiddetta «politica dell’identità» non può essere semplicisticamente ridotta all’opposizione tra «globalismo» e «tradizionalismo»; né sembra sufficientemente esplicativa la metafora del «glocale». Specialmente dopo i tragici eventi dell’11 settembre 2001, occorre insomma considerare, forse con più attenzione di quanto si sia fatto finora, anche le eterogeneità che la globalizzazione produce, interrogandoci, soprattutto, sul tipo di cultura che potrebbe essere in grado di gestire tale eterogeneità senza produrre conflitti irriducibili, né indifferenza. Due parole infine sulla cultura occidentale, la madre certa del fenomeno che definiamo globalizzazione. I classici della sociologia, a cominciare da Max Weber, non hanno mai avuto dubbi sul fatto che ciò che profondamente caratterizza questa cultura, dalla scienza, alla tecnica, all’economia capitalistica, allo Stato di diritto, fosse un prodotto delle sue radici cristiane. Il paradosso vuole che l’Occidente espanda su scala mondiale alcune di queste sue caratteristiche (lo fa in modo differenziato, espande cioè più la tecnologia e l’economia, di quanto non espanda i suoi diritti) proprio nel momento in cui le sue radici cristiane conoscono una crisi drammatica. Forse si nasconde qui l’arcano della globalizzazione e il senso vero della sua sfida.
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cd
Nicola Conte La lounge music che sa di Rinascimento C’ di Stefano Bianchi
è lounge music e lounge music. Il «facile ascolto» stuzzicarello, e l’easy listening per palati fini. Nicola Conte, va da sé, si rivolge ai buongustai della musica con pensieri e azioni dal respiro internazionale, se pensiamo agli applauditissimi concerti al Blue Note di Milano e al Jazz Cafè di Londra, al Montreaux Jazz Festival e al Jazz Open di Stoccarda. Parolina magica: jazz. Che il chitarrista, compositore e disc jockey barese ha distillato in Jet Sounds (1999), Other Directions (2004) e ora nobilita alla grande con Rituals. Un jazz che da acid, spesso e volentieri votato al remix, è indietreggiato agli anni Cinquanta e Sessanta della nouvelle vague, dell’appassionata letteratura Beat, dei morbidi assoli del trombettista Boris Vian. Ma allora, la lounge music, che c’azzecca? Questione di stile. Permettere al jazz, cioè, di dialogare col vintage delle colonne sonore di Ennio Morricone e Piero Piccioni, e poi danzare con la musica brasiliana in direzione bossanova. Prendete questi ingredienti, shakerate-
tutti i giorni. Per questi 13 pezzi, registrati in varie session dall’autunno 2005 all’inverno 2007, l’elegante Nicola non solo si è affidato a fior di jazzisti (apprezzateli, nel brioso chiacchiericcio di fiati che contraddistingue Macedonia), ma ha puntato vocalmente in alto: su Chiara Civello, che ricorda la miglior Sade nella bossanoveggiante Karma Flower e in Paper Clouds è brava quanto Astrud Gilberto; Alice Ricciardi,
li, aggiungete nei testi riferimenti al poeta inglese Dylan Thomas e all’americano Langston Hughes, e otterrete quella maiuscola lounge music che vede Nicola Conte mattatore assoluto fin dai tempi del Fez, movimento musicalculturale creato agli inizi dei Novanta fra vinili di culto, proiezioni di film e Bari che somigliava un po’ a St. Germain des Près. Non va dimenticato, poi, il Conte produttore di gruppi come Quartetto Moderno e Schema Sextet, ma soprattutto della vocalist brasiliana Rosalia De Souza gratificata nel 2002 dall’album gioiello Garota Moderna. Ragion per cui, Rituals equilibra ancor di più il cocktail «contiano» regalandoci il fine dicitore d’atmosfere di cui l’Italia dovrebbe menar vanto, dal momento che di compositori così non ne nascono
in libreria
IGGY POP, CUORE DI NAPALM
musica impeccabile nella lounge jazzata di Song Of The Seasons; Kim Sanders, a proprio agio nei preziosi effluvi melodici di Red Sun e nello swing che griffa Love In. Ugole di gran classe, cui vanno aggiunti i crooner Josè James e Philipp Weiss: il primo, superlativo nelle fibrillazioni di The Nubian Queens e un po’ Chet Baker fra le pieghe di Awakening ; il secondo, perfetto nella rivisitazione della ellingtoniana Caravan. Alessio Bertallot, conduttore di Radio Deejay, apprezza di Nicola Conte «il modo “rinascimentale”di essere musicista: una bottega d’arte, dove il musicista crea in autonomia e genera uno stile». Facendo di Rituals un progetto: lounge nell’approccio, jazz nella sostanza. Altro che il solito disco. Nicola Conte, Rituals, Schema Records/Family Affair, 18,90 euro
mondo
riviste
L’ALBUM “ARROGANTE” DEI DEPECHE
ASPETTANDO BERLIN LIVE
J
ames Newell Osterberg viene al mondo il 21 aprile 1947, vicino al Lago Michigan. Sua madre è impiegata in una ditta aerospaziale e il padre insegna letteratura inglese in una high school.Tutto normale: uno scenario middle class che potrebbe facilmente far immaginare un futuro da imprenditore o da colletto bianco per Jimmy. In realtà c’è qualcosa di particolare, nella vita del piccolo, fin dal primo gior-
I
Depeche Mode non sanno ancora definire come sarà il loro prossimo album, ma hanno comunque tenuto a precisare che «il materiale è tale da poter pubblicare un triplo album. Il titolo c’è ma a riguardo possiamo solo dire che sarà arrogante». Durante la conferenza stampa tenutasi allo Stadio Olimpico di Berlino («Ci è piaciuto quando abbiamo visto la finale dei mondiali di
opo più di trent’anni anni dall’uscita dell’album Berlin (1973), che all’epoca creò tanto scalpore per i suoi contenuti, la rivista musicale Rolling Stone.com torna a parlare del mitico Lou Reed e del tanto discusso lavoro musicale. L’ex leader dei Velvet Underground ripresenta in una versione teatrale e con nuovi arrangiamenti la tormentata e barocca storia della crisi di una
Da gracile ragazzino a indistruttibile ”rettile” del rock and roll: una biografia a quattro mani
Il popolare gruppo ha annunciato l’uscita del nuovo lavoro e il prossimo Tour of Universe 2009
La riedizione dal vivo del disco di Lou Reed che suscitò scalpore all’epoca della sua uscita nel ’73
no. Si tratta della curiosa abitudine degli Osterberg di condurre un’esistenza ai limiti del nomadismo, occupando una roulotte invece che una tradizionale abitazione. Ecco l’humus che ha fatto schiudere l’uovo dell’iguana del rock, sua maestà Iggy Pop: un gracile ragazzino trasformato in un indistruttibile rettile guizzante, capace di assumere ogni droga in circolazione e di esibirsi in performance virulente sui palchi di tutto il mondo, prima coi fidi Stooges, poi come solista. Ora un libro edito dalla Nuovi Equilibri, Iggy Pop. Cuore di Napalm (289 pagine, 15,00 euro), scritto a quattro mani da Andrea Valentini e Gabriele Lunati, ne ripercorre la storia pazza.
calcio 2006»), hanno annunciato il loro Tour of Universe 2009, che toccherà prima l’Europa, poi l’America del Nord e quella del Sud: «Si chiama Tour dell’Universo», ironizza Dave Gahan, «perché l’esercito americano ci ha assicurato che c’è vita su altri pianeti, e così noi saremo i primi». «Non vogliamo suonare in Paesi dove c’è la guerra», ha aggiunto Fletcher, «ma non consideriamo Israele un Paese in guerra permanente e quindi vogliamo ritornarci». Il prezzo del biglietto sarà di 80 euro: «Non è troppo, cerchiamo di tenere il prezzo il più basso possibile. Considerate che Madonna e gli U2 costano molto di più».
coppia americana bohemien che vive a Berlino. Questa volta l’album è in versione live: Berlin, Live at St. Ann’s Warehouse, in uscita il prossimo 21 ottobre. Un appuntamento assolutamente da non perdere e da scrivere nell’agenda per la sua importanza. Un’artista che, a differenza di molti altri padri del rock, non ha perduto né la presenza scenica, né l’intensità interpretativa. E il disco in uscita ne è la prova. Un grande della musica che riesce ancora a creare una palpabile emozione con l’esecuzione di brani come Sad Song e The Bed. Oggi Berlin è riconosciuto come un capolavoro da tutta la critica musicale.
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zapping
Per favore, abbassate “DEATH MAGNETIC” di Bruno Giurato ra, qui non vorremmo passare per misoneisti, pauperisti e antiglobalisti d’ospizio, ma da queste parti ci sembra che nella musica stia capitando quello che è capitato con il latte, le pesche e il culatello. La tecnologia va avanti e la qualità peggiora. Tredicimila fan dei Metallica firmano una petizione perché Death Magnetic, l’ultimo disco della band di San Francisco, venga rimasterizzato o rimissato. Non perché la musica non piaccia, ma perché il volume a cui è registrato Death Magnetic è troppo forte, e il suono è pessimo: gli stumenti non hanno dinamica, i piano si confondono con i forte rendendo l’ascolto una pappa sonora. In effetti la corsa al volume alto, quella che viene chiamata loudness war, è una costante della musica di questi anni. I dischi di oggi vengono sottoposti a un processo di masterizzazione sempre più spinto. Vuol dire che la musica viene compressa, cioè che i volumi degli strumenti deboli vengono alzati tramite processori o software, fino a ottenere un livello costante il più alto possibile, per avere una presenza sonora imponente anche alla radio o negli i-Pod. Gli studiosi di psicoacustica rilevano che in questo modo l’orecchio non percepisce differenze di dinamica, e il risultato è che ci si stanca subito di una canzone, si preme il bottoncino fatale e si passa al pezzo successivo. Conclusione a filo di verità scientifiche. Vengono prodotti dischi il cui scopo è non essere ascoltati dal pubblico. E qui si vede come a volte l’industria scimmiotti l’avanguardia senza saperlo. Giusto una trentina d’anni fa gli Skiantos pubblicatono il loro primo, geniale disco. Titolo, l’inascoltabile.
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teatro
Delirio in rosso per la donna di cuori di Enrica Rosso ltimo delirio, il terzo per l’esattezza. Diluiti nel tempo, ma concentrati in un unico luogo simbolo. Segue in ordine di esecuzione, e si suppone di urgenza, Delirio n. 1 il bianco evocato dall’arte umanissima della poetessa Alda Merini, e Delirio n. 2 il nero ispirato a Che fine ha fatto Baby Jane?, un classico noir degli anni Cinquanta. Entrambi andati in scena la passata stagione. Delirio n. 3 il rosso, lo spettacolo di apertura del Teatro di Documenti nella seconda stagione dalla scomparsa del Maestro Luciano Damiani, insuperato creatore di contenitori immaginifici, è un progetto concepito, realizzato e reso da Elena Fanucci. Se il bianco simboleggia la purezza e l’integrità, il nero ci rimanda ad atmosfere luttuose e pregne di mistero. Il rosso, di contro, regala immediata energia vitale e sgorga passione. Siamo quindi invitati al purpureo banchetto nuziale di una dama scarlatta che, cadenzando il passo, si approssima all’altare che la incoronerà non fulgida sposa, bensì fiammeggiante vedova. E mentre la calda voce della Signora Piafh si inerpica sulle note struggenti del suo repertorio di amante a tutti i costi, la donna di cuori si inoltra in un percorso a ritroso, vale a dire per detrazione di vita, mettendo insieme ciò che resta del suo perduto universo amoroso. Lo fa con la forza del ricordo, compressa in un linguaggio alto e fortemente poetico, distillato potente di un amore totalizzante, che profuma di paradiso. Una scrittura inebriante e rara che si desidera ripercorrere per nulla tralasciare e non smarrire le immagini liriche evocate da questa smania, sublime tiranna. Elena Fanucci si impresta, anima e corpo, con piglio sacrificale, pronta a farsi lapidare e soccombere sotto i colpi della furia amorosa, lei stessa in prima linea come l’oggetto di tanto desiderare. Eppure, la sensazione che permane durante la liturgia dello spettacolo è di non essere ammessi alla carne viva di questo cuore così esposto. Come se non fosse sufficiente il trovarsi faccia a faccia con l’interprete per esserne emotivamente coinvolti. Seppure avvolti in questo spazio. Nato al pubblico nel 1981 per mano dello stesso Luciano Damiani, artista eclettico e infaticabile, in sinergia crea-
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tiva con il regista Luca Ronconi e il Maestro Giuseppe Sinopoli, un miraggio che rapisce per la sua unicità, straordinaria bellezza e versatilità. Per la dominante chiara, assolutamente inusuale in un teatro, ma soprattutto per la scomposizione dello spazio e del suono tramite lo schiudersi e srotolarsi di scale e grotte e anfratti e grate. Uno spazio onirico che si offre come un ventre materno a essere posseduto e continuamente reinventato in un gioco sapiente di rimandi resi possibili dalla sua geniale semplicità. Un gioiello che non si limita a essere il con-
tenitore di documenti di Teatro, ma è la somma di «schemi architettonici di teatro, dell’assistere», del «partecipare» e «della libera scelta». Un luogo incredibile da frequentare per la programmazione, incentrata sulla drammaturgia contemporanea (il cui filo conduttore sarà quest’anno la figura della donna), per i laboratori, per gli spettacoli per i ragazzi, per gli eventi (il 16 ottobre dalle 19.30 proiezioni multiple per Medici senza frontiere) o più semplicemente, per entrare a far parte di un sogno che va dall’ombra alla luce.
Delirio n. 3 il rosso di Elena Fanucci, Teatro di Documenti, Roma, fino al 12 ottobre, Info: 06/5744034 - teatrodidocumenti@libero.it
Cinquant’anni di carriera: omaggio a Giovanni Tommaso di Adriano Mazzoletti iovanni Tommaso contrabbassista, compositore, leader di gruppi storici come il Quartetto di Lucca e il Perigeo ha festeggiato con un concerto durato oltre tre ore all’Auditorium di Roma, i suoi cinquant’anni di professione nel mondo del jazz. Caso emblematico quello del contrabbassista lucchese che si può considerare il primo esempio italiano di «professionista del jazz». Infatti dal 1958 anno del suo debutto ufficiale a un Festival del Jazz al Teatro Quirino di Roma, Giovanni Tommaso non si è mai allontanato dalla musica che iniziò ad amare da ragazzo quando con suo fratello Vito e il vibrafonista Antonello Vannucchi, diede vita a un quintetto che si impose immediatamente. Quei ragazzi toscani seguivano l’esempio del Modern Jazz Quartet e Milt Jackson, Percy Heath, John Lewis erano i loro idoli.Tre anni dopo parteciparono alla seconda edizione della Coppa
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del Jazz radiofonica che vinsero sbaragliando i pianisti Franco D’Andrea e Amedeo Tommasi che proprio da quel concorso mossero i primi passi nel mondo della musica. Per Giovanni Tommaso quei primi successi non bastarono. Si imbarcò come musicista a bordo di una nave da crociera sulla rotta New YorkCaraibi, che gli consentì di ascoltare di persona i grandi del jazz. Quando fece ritorno era ormai il miglior contrabbassista italiano di jazz. Incontrò Amedeo Tommasi e con il batterista torinese Franco Mondini formò un trio che venne sempre scelto per accompagnare i musicisti americani in tournée in Italia. Quando Leone Piccioni all’epoca direttore dei programmi radio,
decise, caso unico nella storia del nostro ente radiofonico, di istituire una Stagione concertistica pubblica dedicata al jazz, Tommaso e Franco D’Andrea erano sempre presenti per accompagnare i grandi solisti americani. Fu poi la volta del Perigeo, primo complesso jazzrock italiano e in seguito di molti altri gruppi, spesso con giovani musicisti da lui stesso scoperti e lanciati. Da venticinque anni alla sua attività di strumentista affianca quella di insegnante. È infatti il responsabile delle clinics che la Berklee School organizza ogni anno a Umbria Jazz. Tutto questo è stato ricordato nel corso del lungo concerto all’Auditorium. Il pubblico che gremiva la Sala Petrassi ha potuto riascoltare dopo
quasi cinquant’anni il Quartetto di Lucca, con Vannucchi e Vito Tommaso, e la loro musica non è apparsa per nulla datata come quella del trio di Amedeo Tommasi tornato al jazz dopo anni di attività come autore di colonne sonore cinematografiche. Una standing ovation ha poi accolto Stefano Bollani che quando vuole e in questa occasione lo ha dimostrato, può essere un eccellente pianista di jazz. Per la gioia degli amanti del jazz rock, si è poi presentato il Perigeo con gli elementi originali del gruppo, il sassofonista Claudio Fasoli, il chitarrista Tony Sidney, il batterista Bruno Biriaco. Il concerto è terminato con l’esibizione del nuovo gruppo Apogeo con gli eccellenti solisti Daniele Scannapieco, sassofonista, e Bebo Ferra, chitarrista. La lunga serata si è poi conclusa, prima della rituale jam session, con Jasmine Tommaso, giovane e bellissima figlia di Giovanni, che pur con qualche esitazione ha cantato anche la difficile strofa di Someone to Watch Over Me.
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narrativa
libri
Diario familiare della storia d’Italia di Maria Pia Ammirati l baule di zinco è il libro di esordio di Cesarina Minoli, 85 anni, traduttrice e giornalista, arrivata alla narrativa attraverso il più classico degli espedienti che fondano il canone romanzesco: il ritrovamento delle carte di famiglia che ricostruiscono le vicende di tre generazioni, «quattro cassetti traboccanti di carte, atti notarili, documenti, bilanci, contabilità di tre generazioni». Un memoir rigoroso, nel suo svolgersi per tappe salienti che mettono in luce lo scavo profondo e doloroso dell’autrice sulle proprie radici ma anche un genere che ha contatti con la narrativa senza esserlo. Questo libro è infatti volontariamente un non-romanzo costruito sull’albero genealogico delle famiglie Falco, Minoli e Bronzini: il capostipite,Vincenzo Falco, nasce nel 1826, ed è il nonno di Amelia, madre di Cesarina. «I morti ce li portiamo sulle spalle ed è molto difficile parlare di loro», scrive in premessa la Minoli; sono, quelle dei nostri morti, vite che ci appartengono e nello stesso tempo estranee, le cui storie hanno dell’incredibile e dello straordinario. Quello che è curioso di questi libri - come il già più volte citato Un cappello pieno di ciliege della Fallaci, poderosa storia familiare - è lo scarto che la Storia pratica sulla vita, l’inquietante piccolo particolare che determina la vita e la morte. Certo i due libri a confronto hanno differenze marcate, ancor più quando il senso del narrare è dettato da una narrazione per accumulo, come nel caso della Fallaci dove il termine romanzo è accostabile a feuilleton. Ma nel caso della Minoli il termine più appropriato è documentazione, la scrittrice si documenta, produce atti,
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fotografie, lettere, tutto materiale che trova spazio dentro il libro senza appesantire, senza debordare ma compilando un diario familiare nostalgico, dentro cui però non solo spiare una famiglia, una storia d’amore, ma la Storia d’Italia vissuta tra due guerre mondiali, tra la povertà e la discriminazione razziale. Proprio un affresco così ampio dà alla scrittrice la possibilità di praticare opportunamente un’equidistanza dai personaggi e dalle loro vite, con una sola piccola parentesi dedicata alla madre Amelia, una donna dentro cui trovare le contraddizioni del tempo, amarezza, dolore, ma anche forza adamantina ed ebbrezza della vita. Una donna istruita e moderna per l’età che vive, ma anche pronta a fare la madre e a tirare avanti la casa quando il marito la lascia con i tre figli per andare in guerra. Capace quindi di inventarsi il lavoro per far mangiare i bambini, di tenere testa alla famiglia del marito e ai servitori della tenuta per i lunghi anni di assenza di Edgardo, per poi perdersi, in vecchiaia, nelle malattie del corpo e della testa.
Questa è la vita, una paradossale parabola. Amelia è il centro di questa narrazione affettiva che cerca sempre alimento nel conosciuto, nel documentato e non nell’invenzione. «Ho amato moltissimo Amelia», scrive ancora la Minoli cedendo alla sua necessità di distanziarsi dai fatti e descrivendo le sue
bizzarrie: «In viaggio portava con sé una buona bottiglia di barolo… ma le piaceva anche sedersi nella hall di un albergo e fare conversazione». Cesarina Minoli, Il baule di zinco, Campanotto editore, 221 pagine, 21,00 euro
riletture
Esplorazioni (dinamiche) di un’opera d’arte di Renato Cristin
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uesta raccolta di saggi, strettamente unitaria, ristampata ora a quarant’anni di distanza è utile almeno per due scopi: per capire i fondamenti linguistico-semantici delle odierne teorie del simbolo e dell’arte; e per gettare uno sguardo retrospettivo alla genesi della svolta linguistica che a partire dagli anni Sessanta ha coinvolto la filosofia continentale e quella anglosassone. Ed è importante sottolineare che, per quanto riguarda entrambi i contesti, Nelson Goodman (1906-1998) rappresenta il livello alto di elaborazione filosofica. Il suo obiettivo non è tanto quello di sviluppare una ricerca intorno alla percezione e alla valutazione dell’arte, e neppure in primo luogo di elaborare una teoria estetica,
quanto piuttosto di «impostare una teoria generale dei simboli». Egli concepisce la realtà come una serie di «sistemi simbolici» equivalenti sotto il profilo semantico, interpretati in una prospettiva nominalistica, che nega cioè l’esistenza di proprietà simboliche che siano, per se stesse, in grado di farci distinguere le opere d’arte da qualsiasi altra forma espressiva del sistema simbolico esaminato. Anche in questo nominalismo linguistico, che sul versante gnoseologico si collega a un problematico relativismo, c’è tuttavia un residuo che Goodman non riesce a eliminare e sul quale, anzi, egli fonda la sua teoria generale: si tratta dei «sintomi dell’estetico», individuati nella «densità sintattica», nella «densità semantica», nella «saturazione sintattica» e nel «tratto che distingue il mostrare dal dire», i quali non
sono «contrassegni di merito» (come se un’opera d’arte fosse più estetica di un’altra), perché lo scopo principale dell’estetica non è il criterio di merito e, quindi, nemmeno la valutazione del grado di bellezza, poiché «l’essere estetico non esclude l’essere insoddisfacente o l’essere esteticamente brutto». Il sintomo - piccolo indizio, sottile traccia - viene invocato come fondamento teorico dopo che ogni tentativo «di trovare una formula per distinguere le esperienze in estetiche e non estetiche» si è rivelato un fallimento. Da questo scacco Goodman trae la convinzione che sia necessario ripensare il concetto di realtà in una prospettiva che si distanzi sia dall’essenzialismo idealistico sia dal realismo positivistico. Guardare un’opera d’arte significa fare un’esperienza sensibile e, soprattutto, cognitiva. Le arti - e le loro ope-
re - hanno un linguaggio e l’esperienza dell’opera d’arte implica la lettura e la comprensione del suo linguaggio. In questo senso «l’esperienza estetica è dinamica e non statica», perché fondata su un «atteggiamento mobile», esplorativo, non diretto a fini pratici ma neppure centrato in una mera e passiva contemplazione. Sotto un profilo filosofico-culturale più ampio, leggere Goodman significa capire i fondamenti di una teoria linguistico-estetica che si inscrive nella grande corrente della filosofia analitica anglossassone ma che, al tempo stesso, contiene elementi che ne superano quell’oggettivismo che la caratterizza e che la rende inadeguata a cogliere l’essenza delle cose. Nelson Goodman, I linguaggi dell’arte, Il Saggiatore, 238 pagine, 12,00 euro
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saggi
Camus, la forza dell’indignazione
di Massimo Tosti i sono riflessioni che appaiono profetiche. Per esempio questa (che risale al 1946): «Lo scontro fra gli imperi è già sul punto di diventare secondario rispetto allo scontro tra civiltà. Le civiltà coloniali, infatti, fanno sentire da ogni parte la propria voce.Tra dieci, tra cinquant’anni, sarà la preminenza della civiltà occidentale a essere messa in discussione». Oppure questa (che denuncia l’imbarazzo dell’intellighenzia progressista all’indomani dell’invasione dell’Ungheria: «È un regime normale quello in cui l’operaio si vede costretto a scegliere tra la miseria e la morte». Albert Camus
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letteratura
era un intellettuale scomodo, scomodissimo. Era stato comunista, ma si era dimesso dal Pc d’Algeria (il paese nel quale allora viveva) a metà degli anni Trenta. Era di sinistra ma non sopportava le menzogne dei regimi comunisti. Organo dell’ideologia, scriveva «visto che non viviamo più i tempi della rivoluzione, impariamo a vivere almeno il tempo della rivolta». Il titolo della raccolta dei suoi scritti - Mi rivolto, dunque siamo - riprende una frase che aveva adottato come slogan della ribellione individuale nei confronti di un mondo che preannunciava già le difficoltà (e le tragedie) future. «Ci spiegano che esiste una grande differenza tra la tirannia reaziona-
ria e la tirannia progressista. Quindi ci sarebbero campi di concentramento che vanno nel senso della storia e un sistema di lavori forzati che presuppone la speranza. Anche ammesso che questo fosse vero, ci si potrebbe almeno interrogare sulla durata di questa speranza. Se la tirannia, anche quella progressista, dura più di una generazione, implica un’esistenza da schiavi per milioni di persone e nient’altro che questo». Invi-
tava gli uomini, i singoli uomini, a non essere né vittime né carnefici. «Il futuro del mondo non può fare a meno della forza della nostra indignazione e di quella dell’amore». Era un libertario autentico, che rifiutava il ruolo di vittima pur essendo straniero, strano, libero, indipendente, isolato, non omologato e onesto. Albert Camus, Mi rivolto, dunque siamo, Elèuthera editore, 120 pagine, 12,00 euro
Perché il mondo cattolico ha trascurato Leopardi? di Maurizio Schoepflin
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uando si indagano i rapporti che intercorrono tra cristianesimo e cultura si è soliti valutare con particolare attenzione gli influssi esercitati dal primo sulla seconda. Enzo Noè Girardi, professore emerito di Letteratura italiana dell’Università Cattolica, invita il lettore a porsi in una prospettiva diversa. Egli, infatti, esaminando l’opera di alcuni giganti della nostra vicenda letteraria, si preoccupa «di precisare se e in che misura la letteratura e la sua storia abbiano influito sulla religione, e ciò in virtù di quella funzione laicamente religiosa che tutti i nostri maggiori scrittori o anche artisti del passato hanno rivendicato come propria della loro arte». E a questo proposito, secondo Noè Girardi, è estremamente interessante notare come anche uomini quali Leopardi, Carducci, Pirandello o Pavese, che certo non si sono distinti per la precisa adesione a una fede, si mostrano in
mitologia
possesso di un’indiscutibile sensibilità religiosa. D’altra parte, già gli Illuministi - Baumgarten e Kant in testa - riconobbero e spiegarono razionalmente che i poeti sono custodi e portatori di un ricco patrimonio di religiosità. Dopo aver appurato questo punto essenziale,
l’autore propone un altro contributo assai suggestivo che, in estrema sintesi, coincide con la tesi secondo cui sarebbe stato un fatto assai positivo per la cultura italiana se il mondo cattolico avesse prestato maggior ascolto a scrittori e poeti piuttosto che correre dietro alla «tendenza a conciliare la religione con la modernità progressista dei filosofi e dei politici». Invece - avverte Noè Girardi -, non è andata così, e si è finito per trascurare l’invisibile e l’infinito dei Manzoni e dei Leopardi, preferendo la cultura «dei promettitori di “magnifiche sorti e progressive” garantite da scienziati e ideologi». E non bisogna dimenticare - avverte l’autore - che «ideologi e politici non possono che produrre disastri, se intelligenza e volontà non s’accompagnano in loro con il sentimento, naturalmente religioso, del mistero». Enzo Noè Girardi, Letteratura italiana e religione negli ultimi due secoli, Jaca Book, 244 pagine, 22,00 euro
Dioniso, dio del miele e delle donne
di Alfonso Piscitelli a tremila anni a questa parte Dioniso accompagna il cammino dell’uomo: le sue prime tracce si fanno riconoscere a Creta, dove è il dio del miele ancor prima che del vino. E neppure il declino del paganesimo antico riesce a oscurarlo del tutto, se è vero che alla fine dell’Ottocento a invocarlo è Friedrich Nietzsche. Ha scritto Kerenyi che Dioniso è «lo Zeus delle donne». A dispetto della sua figura spesso languida, tale da lasciar presagire equivoci sulla sua effettiva tendenza, il dio della gioia e dell’ebbrezza ama le donne. E dalle donne è riamato. Esse lo seguono
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nella foresta, si abbandonano all’estasi dionisiaca; dimentiche della loro individualità si perdono nell’abbraccio del dio che fonde estasi ed eros, misticismo e sensualità. Dioniso esprime una cruda gioia di vita che si manifesta laddove vengono recuperate le energie vitali primordiali. La follia dionisiaca è un momento di estasi che mette tra parentesi le categorie dell’anima razionale, così acuta presso i Greci. Il pasto crudo, la familiarità con le belve, le corse notturne nella foresta sono i sintomi di un ritorno a una condizione primordiale: innocente, anche se non sempre innocua… Evidentemente
le donne più degli uomini custodiscono in sé il ricordo di una arcaica natura, poi imbrigliata nelle reti della razionalità. Per questo le donne come scrive Leda Bearnè nel suo saggio - sono le ambasciatrici perfette del dio. Ma i Greci ebbero l’accortezza di affratellare Apollo e Dioniso: due forze contrapposte
vennero considerate complementari, come il giorno luminoso e la notte arcana. La storia comparata delle religioni ha sottolineato le analogie tra Dioniso e il dio indù Shiva, che incarna l’ebbrezza, la trasgressione, ma anche la terribile energia psico-fisica con la quale gli yogin operano la loro trasmutazione. Ma in verità già gli antichi alludevano a questa «parentela divina» quando facevano giungere proprio dall’India questo dio straniero e il suo variopinto corteo. Leda Bearné, Dioniso e le donne, Edizioni della Terra di mezzo, 200 pagine, 20,00 euro
altre letture In tempi di crisi finanziaria globale l’ultimo libro di Serena Zoli Il lavoro smobilita l’uomo (Longanesi, 216 pagine, 14,60 euro) non consola ma certo aiuta a capire meglio che cosa sta succedendo, anche a livello psicologico, alle persone e alla qualità delle loro vite. Negli ultimi due decenni il lavoro, scrive la Zoli, ha subito uno stravolgimento che lascia smarriti. Perché il lavoro, oltre alla sicurezza economica, sostanziava le nostre identità e i nostri sogni, individuali e collettivi e dava un forte senso di appartenenza a un’azienda, a un progetto a una società. Poi il lavoro si è corrotto: ristrutturazioni, informatizzazione, nuove tecnologie, delocalizzazioni, soprattutto l’imporsi dell’ideologia del profitto hanno intaccato il valore portante del Novecento rendendolo flessibile, effimero, incerto. Serena Zoli ripercorre queste tappe anche con testimonianze e interviste a studiosi, esplorando il senso di precarietà e l’insicurezza che stanno invadendo i singoli e la società. Quanto la fede, la religiosità, la tensione verso la trascendenza fanno parte della natura dell’uomo? Oreste Tolone, docente di Antropologia filosofica all’Università di Chieti, cerca di rispondere a queste domande prendendo in esame nel suo saggio Il sorriso di Adamo (Marietti, 156 pagine, 18,00 euro) pensatori come Plessner, Guardini, Gehlen, Welte, Husserl e Heidegger. Da questo dialogo con loro l’autore porta alla luce una nuova antropologia filosofica le cui riflessioni sul corpo, l’abito, la follia, dimostrano la capacità di non identificarsi completamente col proprio corpo, lo Stato, le istituzioni. Da qui anche il piacere del sorridere, l’abilità al fair play, emblemi di come nell’uomo la natura sappia innalzarsi al di sopra di sé. Le donne hanno più confidenza col dolore: è un compagno di vita, è un nemico tanto famigliare da risultare quasi amico. Concita de Gregorio nel suo Malumore. Esercizi di resistenza al dolore (Mondadori, 167 pagine, 16,00 euro), mette insieme storie paradigmatiche di donne che hanno trasformato il dolore in forza. Maria Malibran, leggendario mezzosoprano, che impara a nascondere le lacrime durante le terribili lezioni di canto inflitte dal padre. Denise Karbon che scia ingessata o Vanessa Ferrari che volteggia con una frattura al piede.
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ritratti
BRUNO ZEVI
LO SPAZIO E NON LO STILE O IL LINGUAGGIO ERA PER LUI IL NUCLEO FISICO E CONCETTUALE DELL’ARCHITETTURA, CHE PER PRIMO SEPPE DIVULGARE CON UNO STILE DISINVOLTO E SPREGIUDICATO, ANCHE ATTRAVERSO I MEZZI DI COMUNICAZIONE DI MASSA. UN LIBRO CHE NE RIPERCORRE LA VITA E L’OPERA LO CONSACRA TRA I MAESTRI DEL NOVECENTO
Il profeta della modernità di Claudia Conforti el secondo dopoguerra Bruno Zevi è stato il profeta dell’architettura contemporanea in Italia. Irruento, brillante, polemico e appassionato, come si addice a un profeta, il giovane architetto - è nato a Roma nel 1918 - seppe informare ed educare gli italiani, traumaticamente usciti dal fascismo, alla modernità internazionale sotto specie di architettura. Zevi è morto a Roma nel 2000, ma i suoi libri fondamentali Verso un’architettura organica, Saper vedere l’architettura e Storia dell’architettura moderna, gli ultimi due ancora oggi ristampati e venduti, conservano quella «portata storiografica immensa» che gli riconobbe negli anni Novanta Manfredo Tafuri, un altro padre fondatore della storiografia architettonica del Novecento. È dunque molto opportuna l’iniziativa della casa editrice Laterza di inserire Bruno Zevi nella collana dedicata ai «Maestri del Novecento» con il volume Introduzione a Bruno Zevi (198 pagine, 12,00 euro): un’iniziativa assistita dalla fortuna che ha intercettato nel milanese Roberto Dulio un autore giovane e un talento critico maturo. Talento che Dulio ha nutrito, nel corso del suo dottorato di Storia dell’architettura dedicato a Zevi e al suo ruolo nel dibattito architettonico del dopoguerra, con i materiali di prima mano conservati alla Fondazione Bruno Zevi, istituita dagli eredi nel villino di famiglia
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quenta il liceo classico «Torquato Tasso», una scuola tradizionalmente colta, elitaria e progressista, dove si lega al gruppo di giovani intellettuali fascisti d’avanguardia riuniti intorno a Vittorio Mussolini, figlio di Benito: proprio sul periodico studentesco fondato dal rampollo del regime Zevi pubblica nel 1935 i primi scritti di architettura, ingenui e spregiudicati fino all’insolenza nei confronti della cultura dominante. Anche se la sua aspirazione è rivolta più alla storia dell’arte - «volevo fare il letterato, il critico d’arte» scriverà nell’autobiografia - le esortazioni paterne a intraprendere studi scientifici lo spingono a iscriversi alla neonata Facoltà di Architettura di Roma che, sotto la presidenza di Marcello Piacentini, persegue un ideale equilibrio tra estro artistico e coerenza tecnicoscientifica. Zevi frequenta brillantemente i primi due anni di Architettura, appassionandosi agli esami di storia, corredati dalla lettura degli scritti teorici e critici di Lionello Venturi, che lasceranno un’impronta decisiva nella sua formazione. Ma nell’estate del 1938 le leggi razziali costringono il giovane, che è di religione ebraica, a lasciare dapprima l’università e quindi, il 22 marzo 1939, il paese e a emigrare a Londra, mentre il resto della sua famiglia emigra in Palestina, dove si stabilirà definitivamente. Londra è la prima tappa di un esilio forzato e doloroso, che solo l’esube-
Dai primi scritti del ’35 al rapporto con Lionello Venturi, decisivo nella sua formazione. Poi l’opposizione al regime fascista, gli studi americani nel Dipartimento diretto da Gropius e l’incontro decisivo con Frank Lloyd Wright sulla via Nomentana 150. Con un piglio narrativo limpido e immediatamente comunicativo, Dulio affronta all’unisono le vicende esistenziali, culturali e politiche di Bruno Zevi, dalla prima formazione liceale fino alla vigorosa vecchiaia, che lo vede polemista indomito e presidente onorario del Partito Radicale. È una scelta audace quella di Dulio, che richiede tocco letterario e tensione critica: essa è in un certo senso obbligata dal soggetto, la cui esistenza intreccia intimamente i fili pubblici e privati.
La giovinezza di Zevi è nomade e tumultuosa, riflesso delle turbolenze politiche e sociali che travagliano il «secolo breve». Nato in una famiglia romana borghese, il padre Guido è un affermato ingegnere che collabora con Armando Brasini, Zevi «appartiene alla generazione naturaliter fascista, cresciuta ed educata nel Ventennio» del consenso a Mussolini. Fre-
rante vitalità e la straordinaria intraprendenza intellettuale del giovane Zevi sa trasformare da trauma psicologico e sociale in un’eccezionale esperienza culturale, politica e umana. A Londra si iscrive alla prestigiosa Architectural Association School of Architecture, una tra le scuole di architettura più all’avanguardia del mondo anglosassone, probabilmente incoraggiato da Cyril Sjöstrom, un architetto finlandese docente della Scuola, presso il cui studio londinese Bruno ha iniziato il tirocinio professionale. Durante l’esilio inglese incontra e stringe amicizia con Carlo Ludovico Ragghianti, lo storico dell’arte fiorentino esule a causa della sua dissidenza politica. Non è escluso che sia proprio questa amicizia, che continuerà anche nei decenni successivi, a incoraggiare Zevi alla redazione di un breve saggio, rimasto inedito, dedicato a Brunelleschi, nel quale rivendica l’assoluta novità e la totale autonomia del
genio toscano dal Medioevo e, soprattutto, dal mondo romano. Una tesi quest’ultima che, sostenuta dall’esaltazione imperiale del regime, aveva incontrato particolare fortuna tra gli storici fascisti. Il precipitare degli avvenimenti verso una conflagrazione bellica europea convince Zevi a un rischioso viaggio attraverso la Manica e la Francia fino a Roma, dove giunge alla fine di gennaio del 1940, per imbarcarsi in febbraio da Napoli verso gli Stati Uniti. Durante tali avventurosi spostamenti attraverso paesi che avevano appena dichiarato guerra alla Germania nazista, alleata dell’Italia, Zevi incontra gli esuli italiani di Giustizia e Libertà, rifugiati a Parigi, con i quali rimarrà in contatto anche negli Stati Uniti, dove organizza, non senza difficoltà, un’azione sistematica di opposizione al regime fascista.
A New York incontra Lionello Venturi, uno degli undici professori italiani che rifiutarono il giuramento di fedeltà al fascismo, che egli reputa suo maestro ideale e al quale dedicherà molti anni dopo, nel 1992, uno scritto intitolato Lionello Venturi e l’architettura. L’esilio americano significa per Zevi il completamento degli studi di Architettura in due prestigiosissime sedi: dapprima si iscrive alla Columbia University poi, insofferente dei metodi troppo tradizionali della scuola, passerà alla Graduate School of Design di Harvard, il cui Dipartimento di architettura era diretto da Walter Gropius, architetto tedesco fondatore della Bauhaus, la scuola che ha forgiato la modernità dell’architettura europea. Contemporaneamente Zevi coltiva i legami politici con la comunità dei fuorusciti italiani antifascisti, collaborando ai Quaderni di Giustizia e Libertà, la voce laica e illuminata della resistenza intellettuale italiana, la cui redazione era ospitata nell’abitazione di Giuseppe Calabi, un avvocato milanese cacciato dall’Italia dalle leggi razziali. Lì Zevi incontra la giovane e brillante Tullia Calabi, che nel dicembre del 1940 diventa sua moglie. Nel dopoguerra Tullia Zevi diviene una prestigiosa firma del giornalismo internazionale e, negli anni Ottanta, sarà la prima donna a presiedere l’Unione delle Comunità ebraiche italiane. Gli anni americani sono per Zevi una formidabile palestra politica e intellettuale, che ne disciplina l’irruenza polemica in una persuasiva eloquenza dialettica. Oltre al completamento degli studi di architettura in una delle scuole più vivaci e di avanguardia, la militanza politica lo proietta in un’azione di propaganda antifascista a tutto campo, che comprende, oltre agli scritti, una sistematica comunicazione radiofonica. Dapprima dagli Stati Uniti, poi dal 1943 da Londra, la voce stentorea e inconfondibile di Bruno Zevi diffonde via etere parole di libertà tra gli italiani
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In senso orario: Bruno Zevi; Frank Lloyd Wright, Carlo Ludovico Ragghianti e Zevi a Firenze nel 1951; Wright, Zevi e Carlo Levi a Roma nel 1956; Pier Luigi Nervi, Zevi ed Ernesto Nathan Rogers; Giulio Carlo Argan, Zevi e Carlo Scarpa; Zevi e Giovanni Michelucci a Firenze nel 1981 oppressi dal fascismo e dalla guerra. Fu probabilmente la necessità di comunicare temi politici complessi a un pubblico vasto e impreparato, oltre che indottrinato dall’informazione faziosa del regime, a spingere Zevi a elaborare modi espressivi colloquiali, sintetici e incisivi. Questo linguaggio verrà adottato dal critico anche negli scritti di architettura e sarà una componente non trascurabile del loro successo e della loro diffusione anche tra il pubblico dei non addetti. La disinvolta eloquenza acquisita negli anni della propaganda radiofonica diventa una caratteristica del magistero di Bruno Zevi.
Tornato in Italia nel luglio del 1944 con le forze alleate, Zevi pubblica nel 1945 con Einaudi il volume Verso un’architettura organica, senza illustrazioni, con la casa sulla cascata di Wright in copertina. Il libro, redatto a Londra, ripercorre i più recenti sviluppi dell’architettura in Europa e in America, e ha una tempestiva flagranza culturale, in vista della ricostruzione fisica, morale e politica dell’Italia, per la
del 1951 a Firenze, e da allora in poi l’aggettivo organico in architettura sarà associato invariabilmente alle opere dell’architetto americano. L’azione critica di Zevi, declinata attraverso le pagine della rivista L’architettura cronache e storia che dirige fino alla morte, i numerosi libri, le mostre e le conferenze, è finalizzata sia alla divulgazione della storia dell’architettura prossima e remota, sia al riscatto intellettuale e morale dell’attività progettuale, compromessa dall’intimità con il fascismo. La storia, tuttavia, per Zevi non può e non deve fornire modelli stilistici e formali alla progettazione. Lo spazio e non
Al centro della sua azione critica e didattica il tentativo di individuare una tradizione italiana del moderno che superasse il razionalismo e che fosse capace di trasmettere una moralità nuova da porre al centro dell’atto progettuale quale egli suggerisce l’opera di Wright come paradigma di modernità. In effetti il problema di una tradizione italiana del moderno è posto da Zevi al centro della sua azione critica e didattica: occorre individuare una modernità che non sia stata contaminata dall’abbraccio del fascismo - come il razionalismo - e che sia pertanto foriera di una moralità nuova e intatta da porre al centro dell’atto progettuale. Il libro di Zevi conquisterà a Wright una straordinaria popolarità in Italia, culminata nella trionfale mostra
lo stile o il linguaggio epidermico, è per Zevi il nucleo fisico e concettuale dell’architettura, un’arte della quale egli rivendica l’importanza della materialità e dei processi costruttivi. Si colloca in quest’ottica moderna e civile la fondazione, nel 1959, dell’Istituto Nazionale di Architettura (In/arch), che svolge un ruolo culturale importante negli anni del grande sviluppo edilizio del paese, anche se non riesce a diventare quel tavolo della trattativa tra competenze progettuali e impresa che Zevi aveva sognato.
L’impegno culturale di Zevi è anche direttamente politico: il critico milita nelle file del Partito socialista e, insieme alla moglie Tullia, nel 1962 sarà il tramite dell’incontro tra Arthur Schlesinger, consigliere del presidente Kennedy, e Pietro Nenni per ottenere la legittimazione americana del governo di centrosinistra. Ma Zevi fu innanzitutto un didatta formidabile e trascinatore nella sua lunga carriera di professore di Storia dell’architettura, prima a Venezia e, dal 1963, all’università di Roma. Tuttavia le aule accademiche stavano strette all’esuberanza dialettica di Zevi, che, disinvolto e spregiudicato, sa usare i mezzi di comunicazione di massa per diffondere la conoscenza dell’architettura moderna. Così riesce a inserire nel settimanale politico L’Espresso una rubrica di architettura; grazie alla sua personalità carismatica l’architettura diviene oggetto di trasmissioni radiofoniche e televisive destinate a un vasto pubblico. Nel 1976, intuendo le potenzialità delle televisioni libere, Zevi fonda Teleroma 56, una delle prime emittenti private romane, che trasmette dal villino sulla Nomentana. La convinzione che in democrazia solo una diffusa cultura architettonica poteva opporsi alla distruzione del territorio e del paesaggio a opera di un’edilizia volgare e incolta, fa sì che Zevi non disdegni gesti apparentemente provocatori, come la partecipazione ad Ars Amanda, una trasmissione dove appunto il critico, sdraiato in un letto con Amanda Lear, continua anche in età venerabile a propagandare le ragioni della buona architettura.
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tv
l sabato alle 21 circa su Retequattro c’è un appuntamento che definirei rassicurante. E tutti sanno di quanta rassicurazione abbia bisogno il telespettatore bersagliato da nuovi prodotti televisivi che più che riuscire offrono lo spunto ai critici e ai sociologi per dissezionare quello che ormai viene chiamato «il cadavere», ossia la televisione di questi tempi. La rassicurazione, nello specifico, viene dal serial televisivo di marca francese Il commissario Cordier. Puntata dopo puntata ci offre l’illusione di poter fare a meno del vecchio Maigret. Viene anche da pensare che un personaggio e un ambiente come quelli, disegnati appositamente per la tv, potrebbero avere un indiscusso successo come libri. Peccato che dietro lo schermo non ci siano libri, ma solo sceneggiature (confezionate superbamente). A interpretare Cordier, della polizia di Parigi, è l’attore Pierre Mondy, di estrazione teatrale e con un curriculum cinematografico di gran rispetto. La cosa straordinaria è che Cordier, così come lo si vede sullo schermo, dimostra all’incirca 65 anni, tanto è vero che rimanda il giorno della pensione e viene affiancato da un «comandante» al quale un giorno dovrà passare il testimone. Ebbene, Pierre Mondy è nato nel 1925: di ottantenni così se ne vedono pochi. Cordier ci rallegra da alcuni anni. Nella prima fase dei serial era affiancato da Bruno Madinier, nelle vesti di figlio del commis-
I
Consoliamoci con Cordier di Pier Mario Fasanotti
sario e di giudice. La coppia lavorava insieme, in barba a un normale conflitto di interessi. Gli episodi finivano immancabilmente a tavola, a casa del po-
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liziotto, con la lagnosissima ed enfatica moglie Lucia (Antonella Lualdi), e i due figli tra cui una ragazza maniaca dell’impegno sociale, aspirante gior-
games
video
nalista. La nuova serie mette in ombra, per fortuna, la consorte italiana: macchietta mal riuscita. Il commissario vive con la nipote, la studentessa universitaria Lara. In ufficio Cordier duella garbatamente con il «comandante» Sorensen, rappresentante della nuova generazione di sbirri: metodo, conoscenze scientifiche, ma poca dimestichezza con le dinamiche emotive. Sorensen pare sempre a disagio, è diligente ma pedante e senza alcun carisma (anche fisico). Si staglia quindi la figura di Cordier, che come ogni buon francese ha la sua mimica facciale che ondeggia tra l’ironia, l’ira e la bonarietà latina. È gelosissimo del suo spazio privato, ama la famiglia ma non molla la professione: «Mi pongo domande su tutto altrimenti mi annoierei». I casi semplici, semmai ci siano, li evita. Ha detto in una delle ultime puntate: «I colpevoli troppo collaborativi mi deprimono». E lo spettatore segue i suoi passetti tenaci verso la soluzione di un enigma, mai banale e mai così contorto da far perdere le tracce del canovaccio narrativo. Cordier ha problemi col telefonino nuovo, con il computer, non sa che cosa significhi super-trash, diffida della cucina giapponese. Ma non è antiquato. Punta dritto verso l’animo umano, percorre un sentiero investigativo dove non ci sono mai concessioni alle sdolcinature. Non è il clone di Maigret, semmai il suo più verosimile erede nel genere poliziesco televisivo.
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NASCE LA RADIO ONLINE PER BAMBINI
FIFA 09: IL RIVALE DI “PES” FA SUL SERIO
HELLBOY, DETECTIVE INFERNALE
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a esordito la scorsa settimana laradiolina.it, la prima web radio dedicata ai bambini. Ideata da un gruppo di educatori milanesi, l’emittente ha ottenuto il patrocinio del Comune di Milano e della Polizia Postale e delle Comunicazioni, garante della sicurezza online. Il palinsesto della radio è calibrato su misura per un audience di under 14. Radiolina trasmette 24 ore
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on qualche settimana d’anticipo sul rivale di sempre - Pro Evolution Soccer della Konami - esce anche in Italia l’ultimo capitolo della saga calcistica di Electronic Arts. Il mondo dei videogiocatori, come sempre, si dividerà in due fazioni agguerrite, con l’unico scopo di esaltare la propria simulazione preferita e denigrare quella «avversaria». Anche se, statisticamente, Pes re-
n’edizione per collezionisti con 2 dvd pieni di contenuti speciali (compreso un making of di 140 minuti) per fare la felicità di chi ha appena scoperto Hellboy 2 al cinema e si era perso la prima puntata della saga diretta da Guillermo Del Toro: Hellboy: the Golden Army. La trama del film presenta il demoniaco detective Hellboy - per gli amici Red - in forza a un fantomatico «Dipartimento per la Ri-
”laradiolina.it” trasmette tutti i giorni, 24 ore su 24, proponendo musica e giochi altamente educativi
Ritmo compassato e grafica superlativa nell’ultima simulazione calcistica di Electronic Arts
Esce la “collectors’ edition” per chi ha scoperto in ritardo la saga di Guillermo Del Toro
su 24, dalla mattina, con il «Buongiorno de laradiolina.it», alla sera con le «Favole di Nonna Lina», fino a notte con i programmi «Baby Classic» e «Baby Relax». Durante la giornata propone tra l’altro le più famose hits degli ultimi anni, dalle colonne sonore dei cartoni animati più amati, alla baby dance, fino agli ultimi successi dei più importanti concorsi canori italiani, come lo Zecchino e l’Ambrogino d’Oro. Il portale Web costruito intorno alla radio offre una vasta gamma di servizi interattivi: i bambini potranno cioè imparare a leggere, a cucinare o scoprire nuovi giochi, da fare da soli o in compagnia.
sta il favorito di una larga fetta del mondo video ludico, soprattutto in Italia, non c’è dubbio che con la versione del 2008 e con quella di quest’anno Electronic Arts si è messa nella posizione di poter insidiare seriamente la supremazia di Konami. Disponibile, come al solito, per personal computer, Playstation 3 e XBox 360, Fifa 09 ricalca le orme del suo predecessore nel ritmo compassato - del gameplay e ne aumenta (anche se sembrava impossibile) le potenzialità grafiche. All’uscita di Pes 09 sarà possibile fare un paragone preciso: nel frattempo, Ea è più che in grado di sfamare gli affamati di calcio.
cerca sul Paranormale e la Difesa». Red (Ron Pearlman) è la vittima sacrificale del suo capo (Manning) che vorrebbe impedirgli di mostrarsi, in tutta la sua spettacolare bruttezza, di fronte agli umani. Il tutto si intreccia con la storia d’amore (bizzarra, quantomeno) tra Red e la sua fidanzata Liz (Selma Blair). Ma un pericolo più grande incombe sul mondo intero: il principe delle Tenebre, Nuada, ha risvegliato un esercito di macchine assassine. E solo Red è in grado di fermarlo. Fantasy/horror puro? Neanche per sogno, perché la brillantezza dei dialoghi - oltre alla visionaria macchina da presa del regista - rende Hellboy un film in grado di appassionare tutti.
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cinema La guerra? MobyDICK
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È una droga di Anselma Dell’Olio l protagonista del film Zohan: tutte le donne vengono al pettine, è una superspia e un supereroe delle Forze speciali israeliane, uno stendine-settecon-un-colpo che cova un sogno segreto: fare il parrucchiere per signore a New York. È una commedia demenzial-politica di eccezionale godimento, ma sappiamo già di promuovere una causa (quasi) persa. Zohan è Adam Sandler, la star lanciata da Saturday Night Live, programma che ha regalato al cinema tanti attori comici, da John Belushi a Will Farrell. Sandler è formidabile anche in ruoli drammatici, per esempio in Ubriaco d’amore di Paul Thomas Anderson. Il suo nome in America è garanzia d’incassi almeno per il primo weekend. È un peccato mortale che film come Spanglish, in cui fa un cuoco famoso alle prese con una moglie californiana fedifraga (Tea Leoni) e una cameriera messicana bellissima (Paz Vega) non siano esplosi sul mercato italiano, così povero di commedie ben fatte e che non sfruttino culi, tette e turpiloquio per far ridere. Ma Sandler in Italia non è amato né dai critici, né dagli spettatori, che in quantità industriale girano alla larga dei suoi film. Nemmeno gli altri successi che escono dalla premiata bottega di Judd Apatow (rinnovatore della commedia americana, con titoli come 40 anni vergine, Molto incinta, Talledega Nights: la ballata di Ricky Bobby, Superbad, Non mi scaricare) incassano all’estero. Nella lista delle «50 persone più intelligenti di Hollywood», stilata dalla bibbia del cinema Entertainment Weekly, Apatow è al primo posto in classifica. La vena nuova che ha trovato è la smitizzazione del maschilismo truce, dallo sfottò di piloti supermacho delle corse automobilistiche (La Ballata di Ricky Bobby) alla fissazione maschile con l’onanismo e il sesso in generale (Superbad), fino all’iperbolico canto al superdotato seduttore di tutte le gonnelle, purché respirino (Zohan), che sogna una carriera «da frocio». In più Zohan prende di mira il leggendario machismo delle Forze speciali israeliane e pure quello di Hamas e Hezbollah: perché il film sbertuccia da par suo il sanguinoso, infinito conflitto mediorientale.
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La nemesi di Zohan è Phantom (John Turturro), un terrorista palestinese: si scontrano in un combattimento feroce che l’israeliano usa per fingersi incenerito, per poi imbarcarsi clandestino nella stiva di un aereo diretto alla Grande Mela. Snobbato dai saloni di bellezza chic di Paul Mitchell (un product placement che coinvolge lo sponsor nella vicenda: Zohan studia in segreto le acconciature del suo mentore virtuale, ma su un catalogo anni Ottanta che nasconde come fosse pornografia), arriva in un quartiere d’immigranti dove una
parrucchiera palestinese s’innamora delle sue performirabolanti mance e delle acconciature datate. Anche Phantom si è trasferito a Manhattan, dove gestisce una catena di fast food con lo hummus (purée di ceci) al posto degli hamburger, con l’aureola di «quello che ha sconfitto l’imbattibile Zohan». I due nemici si riaffrontano in scontri scorrettissimi e geniali; ma il divertimento è anche nei dettagli minimi, come quello in cui un moccioso fa i capricci dal parrucchiere. Zohan lo stende con una mossa da 007 (la pressione dietro l’orecchio) e quando la testa del bimbo si piega in KO, dice al collega: «Ora puoi rasargli la nuca».
È di altra natura The Hurt Locker, un film di guerra stupendo che meritava di vincere almeno uno dei premi principali alla Mostra di Venezia, ma non ha avuto niente. La regista, la favolosa Kathryn Bigelow, merita un film lei stessa. Alta oltre il metro e ottanta, lunghi capelli fulvi, pettinatura alla Gilda, intellettuale, bella come una star, atleta (pare che ospite in una precedente Mostra lasciò un conto abnorme per uso di motoscafi… per lo sci d’acqua). Di formazione pittrice, vince una borsa di studio al Whitney Museum di New York e poi studia cinema alla Columbia University. Detesta la categoria di «regista donna» e si limita a dire «si può fare»; è divorziata da James Cameron, il te-
nascondono bombe in cumuli di macerie o d’immondizia, case diroccate, animali morti, e come vediamo nel film, nella pancia di cadaveri di bambini. Il film non è un militante manifesto pacifista, anche se la regista tosta con il fisico da vamp è una liberal di stretta osservanza, come quasi
Questa la tesi del bellissimo “The Hurt Locker”, dedicato a una squadra di artificieri americani in Iraq, snobbato alla Mostra di Venezia perché privo di “tensione etica”. Mentre “Zohan” si diverte a raccontare il conflitto mediorientale in chiave comica stosteronico regista di Titanic. I film della Bigelow raccolgono aggettivi come virile, violento, visionario. Point Break (1991), Strange Days (1995), K-19: the Widowmaker (2002) e questo nuovo si guadagnano quei giudizi. Di sicuro non sono film per gli svenevoli, caratterizzati come sono da atmosfere tese e drammatiche che a malapena si reggono. The Hurt Locker prende il nome dai bauletti dei soldati che contengono gli effetti personali, che nell’esercito americano si tengono ai piedi delle brande. Se un soldato muore, è spedito alla famiglia: bauletto del dolore, appunto. È la storia di una squadra di artificieri in Iraq, una guerra in gran parte combattuta da terroristi che non solo armano attentati kamikaze, ma
tutti quelli che lavorano nel cinema. C’è solo un attimo, che riguarda un iracheno maltrattato perché sospettato di essere un attentatore, poi rilasciato perché innocente, in cui un soldato dice: «Ora sì che diventerà terrorista».
L’unica tesi del film è: «La guerra è una droga». La sceneggiatura è scritta con Mark Boal, da un suo reportage per Playboy. Sempre da un suo articolo era tratto La Valle di Elah, solenne e ricattatorio film pacifista, floppato al botteghino come tutti gli altri film contro la guerra in Iraq. The Hurt Locker merita un risultato diverso. Per due ore e undici minuti la regista mette lo spettatore negli anfibi di uno specialista che disinnesca
materialmente gli ordigni, armato solo di un paio di pinze. Gli artificieri hanno un altissimo tasso di mortalità, ma sono uomini (secondo il film) che non possono più fare a meno dell’adrenalina che pompano per fare giorno dopo giorno un lavoro che, se va male, uccide tutto ciò che vive in un raggio di 300 metri. E se fossero solo uomini nati per fare questo mestiere? Se sono «tossici», sono anche eroi che salvano molte vite, mettendo volontariamente a repentaglio la loro. Un giornalista italiano, lui sì drogato, ma di demagogia marcia, ha chiesto alla regista: «Non crede di avere troppo umanizzato i soldati americani?». Boal, che ha convissuto mesi con quei soldati, era disgustato, e noi con lui. Valeria Golino, membro della giuria di Venezia, così ha giustificato il mancato premio al più bel film di una Mostra moscia: «Non aveva quella tensione etica necessaria». Forse non le avevano spiegato che si giudicava «l’arte cinematografica» e non il «tasso di correttezza» dei film. La giuria di cui ha fatto parte ha invece assegnato due premi ciascuno a un incomprensibile film russo e a un film etiope con almeno venti minuti di pura noia. The Hurt Locker non ha mai un calo di ritmo: ogni secondo è teso, potente e quasi da arresto cardiaco. Con Jeremie Renner nel ruolo del «tossico d’adrenalina» James, è nata una stella. Da non perdere.
MobyDICK
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poesia
Cesar Vallejo prosatore di versi di Filippo La Porta on so se il Novecento latino-americano ha espresso un narratore che sia veramente all’altezza di un poeta come Cesar Vallejo (Rulfo? Garcia Marquez? Vargas Llosa? Arguedas?), benché sia da noi quasi sconosciuto. Anche perciò la piccola casa editrice Gorée ha fatto una scelta meritoria, e quasi spericolata, pubblicandone l’intero canzoniere in due volumi con il testo a fronte, la cura di Roberto Paoli e un prologo di Antonio Melis, che ha riordinato l’intera opera (per il testo italiano su riportato ho fatto un mix tra la versione di questo libro e un’altra versione dello stesso Paoli apparsa in un bel volume Lerici del 1964). Forse la poesia di Vallejo (1892 Santiago de Chuco, Perù - 1938, Parigi) - potente, cristallina e al tempo stesso inafferrabile potrebbe costituire un ottimo test per capire la nostra percezione, perlopiù deformata, dell’America Latina e della sua cultura. Da quel subcontinente ci aspettiamo il realismo magico, le emozioni primarie o i canti rivoluzionari (sempre conditi da un sentimentalismo esibito). Perfino Garcia Marquez non era esente da certa retorica dolciastra, mentre Neruda ci incantava con la sua retorica sentimental-umanistica. Ignoravamo il poeta più grande del subcontinente latino-americano, più difficile, più ombroso, e meno demagogico di Neruda. Ma proprio Vallejo evita qualsiasi retorica, sia quando parla dell’amore che quando parla dell’essere umano («Considerando a freddo, imparzialmente… che è un oscuro mammifero e si pettina») o della lotta antifascista. Le effusioni liriche sono sempre temperate dal richiamo della coscienza e dall’impegno a capire. I suoi versi sono asciutti, tersi, come l’aria della Cordigliera. La sua tristezza ancestrale, incaica (parlando di un asino solitario del Perù si scusa perfino della «tristezza» dell’immagine…), diventa amore primigenio per l’esistenza nella sua interezza: «La vita oggi mi piace molto meno/ ma mi piace ancora vivere: che dicevo?(…) in modo enorme mi piace la vita/ ma, naturalmente/ con la mia morte amata e il mio caffè».
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PIETRA NERA SU UNA PIETRA BIANCA Morirò a Parigi con la pioggia, di un giorno che ho già vivo nel ricordo. Morirò a Parigi - non m’inganno forse, come oggi, un giovedì d’autunno. Di giovedì sarà. Oggi che proso questi versi e gli omeri ho malmesso, è giovedì e mai come oggi giunsi, con tanta strada, a rivedermi solo. Cesar Vallejo è morto, lo picchiavano tutti senza che lui facesse nulla; lo legnavano sodo e duramente. lo cinghiavano: sono testimoni i giorni giovedì, l’ossa degli omeri, la vita sola, la pioggia, le strade… CESAR VALLEJO
La sua produzione poetica - raccolta in tre libri: Araldos negros, Trilce, Poemas humanos procede sempre più verso un linguaggio personalissimo, verso un realismo espressionistico, inclassificabile che, come nota Paoli, si alimenta del surrealismo (e di un barocco quasi prosciugato) e se ne distacca polemicamente. Ci voleva il punto di vista straniato di un indio, di un «barbaro», a Parigi negli anni Trenta, per vedere sia il valore dirompente e sia l’artificiosità pretenziosa di tante avanguardie! «Un uomo passa con un pane a spalla/ Posso scrivere dopo sul mio sosia? (…) Passa uno zoppo che dà il braccio a un bimbo./ Posso leggere, dopo, André Breton?/ Un altro ha freddo, tossisce, sputa sangue./ È ancor lecito un cenno all’io profondo (…) Un muratore cade da un tetto, muore e non desina più./ Innovare poi il tropo, la metafora?». Nella sua poesia la realtà inorganica, la natura inanimata sembra partecipare del dolore universale: gli oggetti si lamenta-
no in silenzio, le cose sanguinano e anche una cipolla può piangere. Rileggiamo la poesia qui riprodotta dai Poemi umani (composti a Parigi fra il ’32 e il ’37). Il ricordo balenante del futuro (passato e futuro si sovrappongono entro una diversa percezione del tempo cosmico, della sua circolarità). E poi: i versi che lui «prosa» (basterebbe questa espressione per concludere definitivamente l’annoso dibattito sui rapporti poesia-prosa). L’autocompatimento non è mai lacrimevole. Nei versi finali il poeta sta enunciando una verità oggettiva su di sé, sul proprio quotidiano patire (la sua biografia lo vede prima ingiustamente arrestato in Perù, poi in Europa spesso malato e poverissimo), e invoca dei testimoni improbabili ma anche fedeli: i giovedì in mezzo alla settimana (in cui si rapprende la malinconia un po’ sospesa della vita), la pioggia delle giornate autunnali, le tante strade percorse da sole…
La raccolta Spagna allontana da me questo calice è forse la più alta poesia civile espressa dalla guerra fratricida spagnola. Cito solo questi versi di Soleva scrivere col suo dito grande nell’aria, dedicati a un eroico combattente miliziano, quasi una microepica condensata in un folgorante ritratto individuale: «Lo hanno ucciso, obbligato a morire, / Pedro Rojas, l’operaio, l’uomo, quello/ che nacque piccolino, gli occhi al cielo,/ e che poi sviluppò, diventò rosso/ e lottò con le sue cellule, i suoi no, i suoi ancora, le sue fami, i suoi brandelli». E in un’altra di queste poesie - Inno ai volontari della Repubblica - troviamo il verso che Elsa Morante mise a epigrafe del suo romanzo La Storia: por el analfabeta a quien escrivo («per l’analfabeta al quale scrivo»). Vallejo diventò comunista e scrisse un reportage sull’Urss, ma la sua vocazione comunitaria ha radici più antiche. Il suo socialismo, come quello di Silone, si mescola a un cristianesimo creaturale. La sua singolarissima passione «politica» si traduce spesso in un sentimento di amore evangelico, «mondiale, interumano e parrocchiale», per l’intera umanità, anche per chi ci odia: «Mi viene a giorni una voglia uberrima, politica/ di amare, baciare i due volti dell’affetto…» («uberrimo» lo dico per i giovani lettori - è superlativo irregolare, e sta per «fertilissimo»). Di questa poesia mi piace citare ogni tanto a memoria, quasi viatico dell’esistenza - definizione sintetica di un classico: colui che è memorabile! - due versi straordinari che qui trascrivo. Nell’elenco delle diverse azioni che la sua «voglia politica» invita a fare - riordinare la treccia a chi gli parla, stirare un fazzoletto a chi non può piangere, lavar il piede allo zoppo, assistere i malati fino a irritarli - ci sono anche queste due cose: «Voglio aiutare il buono a essere un tantino cattivo», e poi «mettere un uccellino al malvagio in piena nuca». Concludo ricordando però un altro verso di Vallejo - da Intensità e altezza -, che bisognerebbe mettere sulla porta d’ingresso di ogni corso di scrittura creativa: «Voglio scrivere, e mi vien fuori schiuma».
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il club di calliope ORFEO La luna pende sul terrazzo, torce le strade un vento, aspetto la goccia che distillano le piogge. Vado spiando nei muri l’occhio che mi spia. L’ubriaco vomita birra, il vigile lascia messaggi alle porte, i mesi non hanno nome, ho un maglione rosso e un motivo da poco. (Orfeo dal fondo del pozzo intona il canto.)
UN POPOLO DI POETI La pioggia è scesa fitta stanotte ma ora il cielo è luminoso e l’ignoto si è allontanato e ora vedo passare la gente e guardo felice il mio respiro si è fatto fonte di primavera credo che camminerò a lungo in questa giornata. Maria Luisa Tulli
Un occhio m’azzurra di cielo, il naso sprofonda in pensiero, ho sorrisi per i giorni chiari e il giuramento di andare. Presto i cani randagi udranno la mia cetra e ogni pietra gemerà al canto. Poi cresceranno muschi e latrati, al silenzio.
Elio Pecora
FACCIA A FACCIA CON LA FINITUDINE in libreria
di Loretto Rafanelli on sempre l’età matura porta il meglio dei poeti, vi sono clamorosi esempi di declino o di ripetizione quasi fastidiosa del già detto. Non è questo il caso di Alberto Cappi, che già nel 2004 con La casa del custode scrisse un eccellente libro. Ora esce del noto autore mantovano Il modello del mondo (Marietti, 120 pagine, 14,00 euro), un libro che, diciamo subito, ci pare non solo il suo lavoro più impor-
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rispetto per la nostra fine. Un sentire pieno di speranza quindi, che è poi il presupposto di una condizione che definiremmo, ricordando il libro della Sapienza, «l’arte della gioia». Intense anche le poesie dedicate a Giovanni XXIII, l’amorevole attenzione a un Papa che ha fatto la storia del Ventesimo secolo e che l’autore sente come «il mio Dio, appeso per un filo alla finestra». Cappi ha scritto un libro essenziale, con poesie brevi,
“Il modello del mondo”, la nuova raccolta di Alberto Cappi, è un confronto continuo con la storia dell’uomo e con la sua condizione. Un sentire pieno di speranza... tante, ma sicuramente una delle raccolte più belle uscite di recente.Versi intensi, profondi, di strenua forza. Un confronto continuo con la storia dell’uomo e con la sua condizione; con la natura, con le cose, con gli animali. Ma è forse il dialogo sulla finitudine, che qua e là emerge, il lato che più ci ha coinvolti. Un dialogo senza concessioni al senso di vuoto che essa genera, una poesia priva di retorica, un faccia a faccia coraggioso, venato certo dal timore del declino, ma senza lamento e pena, nel doveroso
quasi lapidarie, che è poi nel suo stile, dove si evidenziano una pulizia e un nitore esemplari, versi che nulla concedono al clamore, pur affrontando temi che potrebbero sollecitare all’eccesso. Pensiamo che questa raccolta darà ancor più risalto a un poeta (che è poi anche valente saggista e traduttore dal francese e dallo spagnolo) colto e riservato, che come pochi altri ha dato un contributo essenziale al movimento poetico generale, con la creazione di eventi e di iniziative culturali ed editoriali.
Vedo venire il mio piccolo fino alla mia curva di vita, sembra un soldato corre sull’erba non ha paura e sente scorrere su di sé la luce, vedo venire il mio bambino lo sento vicino come il vento che mi sfiora la faccia, so che la mia luce è diversa ma come un pittore voglio tracciare la sua gioia il suo sorriso. Cesare Minetti
c’è una parte di me che t’accarezza è il tempo della mano nella mano con favole da inventare ma non una parte ma tutto di me vive in te e in ogni albero in ogni filo d’erba in ogni rudere scoprirò ancora e sempre un tuo sorriso C’è una parte di me Lino Giarrusso «Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma
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mostre
Lo sguardo di Goethe nell’occhio di Horvat P di Marco Vallora
arola di poeta. Di Hugo von Hoffmannsthal: «La macchina fotografica è in grado di superare di gran lunga il modesto acquerello settecentesco e comporre immagini alla cui vista il nostro ricordo s’accende meravigliosamente». Frank Horvat, ungherese 1928, ma nato ad Abbazia, educato a Lugano, italiano di formazione (studia a Brera), condotto alla celebrità dalla rivista Life, nel 1981 accetta la proposta dell’editore Novecento, di «ri-fotografare» i luoghi di Goethe, del Viaggio in Italia siciliano. Anche qui le sue belle foto, un po’ antiche, di grana come archeologica, son affiancate a stralci della prosa vivace di Goethe, così viva che quasi dimentichi la verità documentale dell’immagine, per godere della vivezza della scrittura e del suo esser onnipresente, nello scorrere fluido della pagina. Davvero la abita, la pagina, come quando stenta ad abbandonare il piroscafo, che l’ha avvicinato a Palermo e osserva, puntuale (ma mai pedante): «Non cedemmo all’impazienza di scendere a terra e rimanemmo sul ponte, finché non ci cacciarono: dove avremmo potuto, altrimenti, sperare in un simile punto di vista, un momento così esaltante?». Oppure a dorso di mulo, «lo sguardo sempre rivolto indietro», come l’Angelus Novus della storia di Klee, secondo Benjamin. Spesso Goethe «prende a ragion veduta le distanze», come quando accetta i consigli d’un vecchio venditore di lava e rinuncia a montare sull’Etna, troppo innervosito: molto meglio disporsi astutamente di fronte, là dove la «vista è magnifica e nitida, e quanto al resto è me-
glio farselo raccontare». Goethe non è come Stendhal, che simula sfrontatamente un viaggio virtuale in Sicilia, per paura dei banditi, e ri-racconta quello che ha udito narrare. No, lui ci va davvero, con spirito pioniestico, assieme al suo maestro d’acquerello, Kniep, che ogni tanto si ferma, a depositare il suo «ovetto» peasaggistico. Talvolta più da osservatore scientifico, che non da letterato-poeta. Nell’andare, scopre via via «le pietre di minerale di ferro», studia la situazione geologica e i fossili, mette in pratica le sue investigazioni deduttive. Per esempio sostiene che il Tempio di Segesta non sia in perenne rovina, ma che sia rimasto incompiuto (un po’ ingenua, come indagine: «Non ci sono macerie intorno») e scopre che certe insistenze negli abachi dei capitelli sono «sporgenze destinate probabilmente a reggere gli stucchi». Ti par di vederlo, mentre si piega, s’inginocchia, s’appiattisce, pur di aprire la visione. Magari attraverso effetti-pizzo molto barocco-von Sternberg: «Vidi ardere delle lampade sotto l’altare, mi inginocchiai quanto più accosto potei e spiai attraverso gli interstizi». «Guardando dalle fessure d’una gran cancellata di ot-
arti
tone rabescato, all’interno c’è un’altra grata di fili d’ottone intrecciati, così che ciò che ch’era posto nel fondo si distingueva, come dietro la trama di un velo». L’occhio «siciliano» di Goethe, spesso, trasalisce per questa «azzurrinità luminosa», che permea ogni vista e permette di vedere le cose secondo un paradossale nitore nebuloso, che distanzia le cose. Immortalata nel marmo, Santa Rosalia, laggiù, sembra trasalire: «la testa e le mani sono di marmo bianco, non oso dire di stile elevato, tuttavia rese con tanta naturalezza e grazia da far credere che la figura respiri e si muova. Un angioletto le sta accanto e pare ventilarla con lo stelo d’un giglio». Tutto il contrario della scolastica kantiana: non è vero che l’arte non abbia a che fare con la vita e con l’utile, e soprattutto non è così certo che la natura si ponga all’opposto dell’arte, anzi: «Ciò che si vedeva non era più la natura ma una serie di quadri che un provetto pittore avesse ottenuto graduandone una a una le velature». Sempre più spesso, però, l’occhio «pittorico» di Goethe (così lo definisce lui stesso) che ha le sue idiosincrasie, lascia il posto al moralista o allo scienziato. Guai alle sculture grottesche del Principe di Palagonia, che esaltavano tanto Sciascia che il Professor Praz. «Oggi l’intera giornata andò perduta nela visita che abbiamo dedicato alle stravaganze del principe Palagonia», persino parlarne è già una debolezza, perché significa «conferire considerazione a qualcosa, che è un nulla che pretende d’esser stimato per qualche cosa (...)». Meglio la rovina pittoresca, piuttosto che non la finta monumentalizzazione dell’Estate. Anche se il tempo della Poesia è come minacciato. «È proprio una disdetta esser incalzati e tentati da ogni sorta di spiriti! Stamani andai al giardino pubblico col risoluto e calmo proponimento di tener dietro ai miei sogni poetici, quando fui afferrato alla sprovvista da un altro fantasma che già da qualche giorno m’inseguiva furtiva»: e cioè l’idea fissa della «pianta originaria» («è impossibile che non esista!») da cui tutte le altre sarebbero derivate. E il fatto di vederle lì, rigogliose e in combattimento naturale, «felici sotto il cielo naturale» (invece che nelle patrie serre anemiche, sacrificate «in cassette e vasi») «ridestò in me la vecchia idea fissa della pianta unica, originaria, da cui tutte le altre si sarebbero divaricate (...) Vedevo sconvolto i miei piani poetici, il giardino d’Alcinoo scompariva e mi si schiudeva invece un giardino universale. Perché mai siamo così distratti, noi gente d’oggi? Perché inseguiamo chimere al di là della nostra portata?». Horvat-Goethe, Viaggio in Sicilia, Roma, Casa di Goethe, sino al 19 ottobre
autostorie
Quando Nuvolari sorpassò Varzi a luci spente di Paolo Malagodi eccezionale storia del pilota che ha dominato la scena delle corse nella prima metà del Novecento, funge da filo conduttore a una panoramica valutazione delle complesse vicende dell’automobile. Dai primi semoventi a vapore, come il carro realizzato intorno al 1770 dal francese Joseph Cugnot e in grado di spostarsi a pochi chilometri orari; tecnica evolutasi sino a fine Ottocento nei sofisticati veicoli di Amedée Bollée, quali nel 1873 la Obeissante dal regolare funzionamento e nel 1881 la Rapide, con quasi sessanta chilometri di velocità. Tanto che, ancora a inizio Novecento, le automobili a vapore non a torto erano ritenute migliori di quelle con propulsori a combustione interna. Ma i rapidi progressi del
L’
motore a scoppio sgombrarono presto il campo da ogni questione, con il proliferare di gare considerate dai costruttori la miglior forma di pubblicità, per accrescere le vendite dei modelli vincenti e con la formazione di squadre corsa in tutte le maggiori case, tra cui la stessa Fiat e con piloti di spicco quali Felice Nazzaro e Vincenzo Lancia. Il mondo delle corse metteva, infatti, in moto rilevanti risorse economiche e l’Alfa Romeo è, forse, la marca che ha meglio cercato di identificare le qualità di velocità e tenuta di strada, essenziali in gara, con gli standard tecnici delle vetture di normale serie. Nata nel 1910 con il nome di «Anonima Lombarda Fabbrica Automobili» (Alfa), l’azienda milanese già nel 1911 mise in vendita il modello 24 Hp che, alla Targa Florio di quell’anno, rimase in testa per due terzi prima di ritirarsi per in-
cidente. All’inizio della prima guerra mondiale, una profonda crisi finanziaria venne superata grazie all’ingegner Nicola Romeo, un imprenditore napoletano che associò il proprio cognome all’originaria sigla, divenuta così Alfa Romeo. Proseguendo, tuttavia, nel parallelismo tra produzione di serie e vetture da competizione in un crescendo culminato nei modelli progettati da Vittorio Jano, maneggevoli e veloci anche per la normale clientela. Succedeva così che, già sul finire degli anni Venti, guidando un’Alfa Romeo ogni proprietario si sentisse accomunato ai campioni del volante. Che aspiravano, parimenti, a un posto nella squadra corse del Portello e come avvenne nel 1930 a un pilota ormai trentottenne; essendo nato il 16 febbraio 1892 a Castel d’Ario nei dintorni di Mantova, con
una carriera avviata nel motociclismo e proseguita al volante di una Bugatti 35C su cui ottenne, l’11 marzo 1928, la vittoria nel Gran Premio di Tripoli e dopo aver lungamente duellato con Achille Varzi. Che passerà nel 1929 all’Alfa Romeo, cogliendo un successo dopo l’altro, sin quando non troverà nel compagno di squadra Tazio Nuvolari il più serio antagonista. Capace di batterlo nella Mille Miglia del 1930, dopo il lungo inseguimento concluso da Nuvolari in un temerario sorpasso a luci spente. Famoso episodio che, fra i tanti, ci ricorda Giuseppe Chinnici in un piacevole testo (Tazio Nuvolari e i grandi compagni d’avventura che hanno fatto la storia dell’automobile, Palombi editore, 216 pagine, 15,00 euro), contornato da suggestivi scatti in bianco e nero dell’epoca.
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11 ottobre 2008 • pagina 15
architettura
Schematic design, la parola ai progetti di Marzia Marandola
l disegno di un progetto può avere diversi gradi di elaborazione in rapporto alle diverse esigenze di comunicazione: dallo schizzo a mano libera che fissa la prima idea, fino al disegno di dettaglio che definisce materiali e dimensioni di piccoli elementi. Nonostante la normalizzazione che regola nell’universo globale la rappresentazione grafica dell’architettura, negli studi di progettazione sono utilizzati specifici modi grafici alternativi di comunicare. Sono per lo più disegni a mano libera, che sintetizzano in modo schematico e immediato concetti complessi del repertorio tecnico progettuale; essi sono spesso accompagnati da scritte, che aggiungono informazioni al disegno. Lo schizzo inteso come segno schematico e sintetico non è tema circoscritto e marginale, come può apparire: lo dimostra con abbondanza di argomenti Schematic Design, un volume scritto da due ingegneri: Marco Imperadori, professore al Politecnico di Milano e Alfonso Senatore di Ove Arup, lo studio londinese celebre nel mondo per le sue consulenze tecnico-costruttive. Il volume, che inaugura la collana Arketipo dell’editoriale Il Sole 24 Ore, diretta da Giuseppe Turchini, analizza valenze e modalità del cosiddetto «disegno schematico», ovvero quel segno grafico che si presta, meglio della rappresentazione architettonica convenzionale, per comunicare con immediata leggibilità un progetto o anche solo un’idea. Nella progettazione contemporanea gli elaborati grafici sono numerosissimi e sono il risultato di competenze diverse, prestate da architetti, strutturisti, impiantisti, spesso disseminati in diverse e talvolta lontanissime città del mondo: ebbene tutti costoro possono utilizzare il disegno schematico, come agile lin-
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moda
guaggio universale per trasferire velocemente idee e proposte. Nella prefazione al volume Stefano Saldini, project manager di Macegroup Londra, ripercorre la propria esperienza di giovane ingegnere italiano, che arrivato a Londra incontra per la prima volta questo metodo grafico, tipicamente anglosassone, utilizzato per comunicare il progetto, e ne resta folgorato. La grafica schematic è intuitiva e chiara e permette anche a interlocutori inesperti - committenti, investitori, amministratori pubblici - di comprendere un progetto architettonico più semplicemente che attraverso le convenzionali e astratte rappresentazioni di pianta, prospetto e sezione. Nel volume due saggi introduttivi, rispettivamente di Imperadori, che firma anche l’introduzione, e di Senatore, illuminano sulla teoria alla base della progettazione schematica e di come semplici disegni possano essere lo strumento prioritario di comunicazione del progetto, in ogni fase di elaborazione. La parte più corposa del volume, curata da Andrea Vanossi, è un catalogo di 100 casi studio, organizzati secondo 6 diversi registri comunicativi del disegno: pensare sulla carta, progettare per costruire, opzioni e schemi funzionali, schemi strutturali, schemi tecnologici e schemi fisico-tecnici e impiantistici. I numerosi esempi che corredano la trattazione rendono godibile per un vasto pubblico il volume, che è in primo luogo un utile strumento di divulgazione di «trucchi del mestiere» che facilitano la comunicazione dell’architettura e dei progetti. Marco Imperadori e Alfonso Senatore, Schematic Design. Tecniche ed esempi di comunicazione del progetto, Il Sole 24 Ore, 251 pagine, 65,00 euro
“Oggetti architettonici” di David Eland
2009: per l’Eva globale è d’obbligo il pitone di Roselina Salemi on magnifica noncuranza, mentre crollano le Borse di tutto il mondo e alcuni ricchi diventano meno ricchi, a Parigi si discute di cowgirl o non cowgirl. Per la prossima primaveraestate vogliamo la nuova ragazza del West, la lady-gaucho in versione sadomaso (Givenchy), la Calamity chic ( basta un cappello o un cinturone, l’ha dimostrato Jean Paul Gaultier con Naomi Campbell) o preferiamo la signora di lusso anni Cinquanta, che riscopre le crinoline sotto ampie gonne plissé? Detto così non sembrerebbe un gran dilemma, ci sono, in teoria, problemi più seri. Ma le donne non sono mai state tanto corteggiate dagli stilisti: fiabeschi Kenzo da Alice nel paese delle meraviglie e hollywoodiani Eli Saab costruiti per le dive e per le poche principesse e regine rimaste in giro, Alexander McQueen ricamati con cristalli che pesano quasi quanto le modelle e incredibili Hermès da far inorridire gli animalisti: blazer di coccodrillo, gilet di vacchetta, valigia e jeans di serpente.Tutto e il suo contrario: fiori e pastello, pelle nera e teschi ricamati, sfilate virtuali e vere, dentro giardini immaginari, o all’obitorio, (idea ironico-macabra di McQueen), e Dior by John Galliano che riesumano atmosfere alla Marlene Dietrich. Insomma, se vedete una tizia che va in ufficio con
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un obi sul tailleur, i capelli cotonati e quantità di orpelli etnici al collo e alle orecchie, allora saprete che si è ispirata a Louis Vuitton. Mentre la gonna a balze con il bolerino (ma non mancano fiocchi e tailleur) è l’ultima incarnazione di Chanel, che la mitica Coco benedice sicuramente dal paradiso della moda. Di fronte al ventaglio di possibilità suggerite a Parigi, con le rituali follie, come la scarpa-trampolo di Celine, il gioiello a scheletro, mano ossuta e preziosa di Delfina Delettrez e l’eco-plastica di Stella McCartney, ci sarebbe da rimanere disorientati, nel caso si volesse rintracciare
A sinistra un modello della collezione Chanel. Qui accanto una borsa in pitone
un modello comune di identità femminile, e dare un senso un po’ meno commerciale, un po’ più culturale, all’orgia di balze, sbuffi, frange, drappeggi, lini, tulle, croquet, pezzi di bravura che tolgono il fiato. Come un immenso specchio andato in frantumi, ogni scheggia rimanda un’immagine diversa di donna, seduttrice o sedotta, cinica o romantica, austera o sfacciata, languida o sportiva, e vanno bene tutte, o nessuna. E non potrebbe che essere così: nel mercato globale, non c’è un’icona femminile che possa significare qualcosa per le giovani compagne degli oligarchi russi, lanciate in un gioioso esibizionismo, come per le sempre meno sprecone americane, per le europee, ogni giorno più tentate dalla moda low cost come per le giapponesi, disperate fashion victim. E siamo arrivati alla formula ipermercato, dove chiunque trova qualcosa, un modello concettuale di Hussein Chalayan, un abito-scultura in metallo di Sophie Kolosalaki, un tessuto marmorizzato di Costume National, un simple chic di Dries Van Noten. Nota di tendenza: pare sia indispensabile avere qualcosa in pitone, nel 2009. Il serpente tentatore ha fatto una brutta fine. La nuova Eva globale, che non ha mangiato la mela, lo porta come gilet.
pagina 16 • 11 ottobre 2008
i misteri dell’universo
Milano, presso la Galleria, c’è il centro Bet Shlomo, o Casa di Salomone, gestito dal rabbino Samuel. Dopo averlo invano cercato per una settimana, indovinai che il signore basso, tarchiato e immensamente barbuto che stavo per incrociare in Galleria un lunedì mattina assai presto, fosse lui. «Shalom, è lei il rabbino Samuel padre di diciassette figli?», chiesi. «Diciassette per ora», rispose. Gli chiesi del silenzio biblico sui figli che Salomone ebbe dalle settecento mogli; la risposta fu che non erano vere mogli. Una sera poi a Mestre notai un altro signore barbuto e col cappello che muoveva nella mia direzione, un rabbino israeliano, e gli chiesi: «Dov’è la tomba di Salomone?». Risposta: «Nessuno lo sa». Due temi importanti questi che ho presentato nei due aneddoti, la cui risposta non sta nella Bibbia, né nella Settanta né nel Masoretico, per un motivo preciso: mentre la Bibbia, a mio parere e salvo alcuni ovvi errori di traduzione e di trasmissione, non racconta mai il tuttavia falso, spesso tace e lascia una impressione dei fatti lontana alla realtà. Ma esistono altre fonti ed è spesso possibile recuperare un quadro dei fatti soddisfacente. Su Salomone sappiamo dalla Bibbia che visse nel decimo secolo a.C., regnò quarant’anni, ebbe da Dio il dono della più grande saggezza, fu capo di un regno esteso dal Nilo all’Eufrate, ebbe centinaia di mogli e concubine, ricevette la visita della bellissima regina di SabaSheba, che per vederlo fece un viaggio senza precedenti; costruì il tempio a Gerusalemme, distrutto da Nebuchadnezzar nel 887 a.C.
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Sappiamo da Giuseppe Flavio, che appartiene a una delle famiglie sacerdotali che si alternavano nella cura del tempio (ricostruito in epoca persiana), persona coltissima e poi legata a Vespasiano e a Tito da cui ebbe in dono la biblioteca del tempio prima che questo fosse di nuovo distrutto, che Salomone andò al potere a quattordici anni e regnò per ottanta; avendo chiesto il dono della saggezza, Dio gli concesse anche quello della gloria e della scienza. Oggi molti studiosi, fra cui il rabbino De Benedetti che insegna al Seminario Teo-
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ai confini della realtà
Sulle tracce di
Salomone di Emilio Spedicato
Visse nel decimo secolo a.C. e regnò per quarant’anni su un territorio che si estendeva dal Nilo all’Eufrate. Ma oggi alcuni studiosi affermano che non è mai esistito. Una tesi confutabile sulla base di informazioni tratte dalla Bibbia e dai testi di Giuseppe Flavio... logico di Milano, affermano che Salomone non è mai esistito, e come lui Davide e Mosè! Anche se non espliciti come De Benedetti, sulla sua linea sono molti biblisti italiani, e quindi i preti escono dai seminari con l’idea che la Bibbia sia una raccolta di favole del sesto secolo a.C., utili solo a suggerire personali riflessioni teologiche e morali. È inutile che Odifreddi si affatichi a spiegarci perché non si può essere cristiani, già ci pensano i docenti dei seminari. E alzi la mano chi negli ultimi vent’anni ha mai sentito un prete parlare di un tema biblico nella sua predica domenicale… Lasciando da parte l’origine delle idee di De Benedetti (da ricercare nell’errata geografia biblica e nel colossale errore di Lepsius e Champollion nel datare
l’anno sotico di Censorino!), vediamo di estrarre un quadro coerente dalle informazioni di origine biblica e flaviana.
Quaranta e ottant’anni si spiegano con la ragionevole ipotesi che, dopo quarant’anni di amministrazione effettiva e terminata la costruzione del tempio, Salomone decise di visitare il suo vasto impero e di restituire le numerose mogli con i figli alle famiglie originarie, quelle dei re che gli si erano sottomessi volontariamente, inviando tributi, fra cui figlie o sorelle. Salomone è infatti criticato nella Bibbia per avere avuto mogli straniere, e avere permesso culti stranieri, segno di una tolleranza e una saggezza assai malviste dai «fondamentalisti» che gli stavano vicini; alla sua morte
mogli e figli sarebbero certo stati sterminati. Del viaggio di Salomone restano tracce nei monumenti, rispettatissimi in loco, chiamati Takht e Suleiman,Troni di Salomone, che esistono in Iran (Hamadan), regione indiana (Taxila, Srinagar…), persino nel lontano Fergana, la fertile valle dove si allevavano i cavalli più cari. Il regno era esteso dal Nilo all’Eufrate. Se l’Eufrate è l’attuale fiume della Mesopotamia, sarebbe stato un regno di deserti, ma esistono forti argomenti, basati sulla diComenticata smographia di Aethicus Ister, su un passo di Nearco e sulla geografia dell’Eden, del Kharsag, dei viaggi di Gilgamesh, che Eufrate fosse il nome originario dell’Indo. Questo mutò dopo l’invasione dei Sindhi al tempo dell’Esodo ma a lungo fu conservato nei popoli come il nome originario. Quindi un regno vastissimo, forse più ampio di quello di Alessandro. I testi non parlano di guerre, quindi va concluso che il regno si formò per adesione volontaria dei vari re, impressionati dalle superiori capacità intellettuali di Salomone. Un regno che si formi in tale modo non sarebbe stato un caso unico nella storia, così avvenne in India per Ashoka e in Cina per Yu. Partito per il lungo viaggio, il regno affidato ai figli decadde. Salomone negli anni perdeva le mogli e alla fine si trovò, per scelta sua, in India, forse povero. Probabilmente si dedicò alla meditazione e alla scrittura di libri, alcuni dei quali (Proverbi, Qoelet…) in epoca ellenista furono tradotti nella lingua del tempo (ma crediamo nella validità della tradizione che li attribuisce a lui). Sono libri che presagiscono l’insegnamento di Budda, che fu attivo meno di due secoli dopo la sua morte. Notata questa analogia, mi sono venuti i brividi quando in un articolo del grande Tucci, gloria fra le massime della cultura italiana del Novecento, lessi che la tomba di Salomone si trovava vicinissima alle rovine del palazzo di Budda, nella giungla nepalese del Terai (Ta ra i, grande santo re), dove una colonna fu eretta da Ashoka. Sembra che nessuno abbia letto questo articolo di Tucci, che è sconosciuto a tibetologi e indologi! E forse che Budda ebbe l’illuminazione mentre sotto un albero leggeva i lavori di Salomone?