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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
Nelle sale “Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti”
CANTO D’ADDIO IN 16 MM
di Anselma Dell’Olio
o zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti è il film di Apichatpong me impenetrabile, enigmatica oltre ogni comprensione, non-lineare, un miscuWeerasethakul che ha vinto la Palma d’oro all’ultimo Festival del glio di stili formali, imperscrutabile (il più vieto luogo comune per gli asiaÈ una cinema di Cannes. Erano vent’anni che non vinceva un film tici) e il giudizio più tremendo di tutti, «un purissimo film da festiasiatico, ed è stata la prima volta in assoluto che un film val», raramente un complimento. Ci si aspettava, dunque, un storia soffusa tailandese ha portato a casa l’ambito premio. C’erano rafilm difficile da leggere e da apprezzare, statico, troppo lundi pietas quella raccontata gioni per diffidare del film. Molti critici hanno parlato go e molto noioso, temibile, da vedere solo dopo molti da Weerasethakul nel film che ha vinto di «opera d’arte» - e il film lo è - e non soltanto caffé o come cura per l’insonnia, come alcuni criperché l’autore, che ha il soprannome usertici delusi hanno scritto. la Palma d’oro a Cannes. Un’opera d’arte, sospesa Non s’immaginava, date le premesse, di goderfriendly di «Joe», è più noto come importante tra realismo e mitologia, sulla morte intesa si il film seguendo ogni sequenza, dall’inizio alla fiartista visivo, «celebrato nelle principali gallerie ne dei suoi 113 minuti, senza un attimo di stanchezza, ma d’arte contemporanea più di quanto non sia conosciuto come trasformazione (anche così è andata. Certamente non è un film tradizionale. Alterna al cinema» (dalla prefazione al pressbook di Alberto Barbesu quella del cinema riprese di puro realismo (le cure mediche per un malato grave) con ra, critico, direttore del Museo Nazionale del Cinema di Torino e in pellicola) quelle di un mondo sospeso, galleggiante, in cui s’incrociano miti, fanmembro della giuria che ha assegnato i premi). Altre opinioni, invece, tasmi, fiabe, ricordi, passato e presente. di spettatori semplici e colleghi, vertevano sulla descrizione dell’opera co-
L
Parola chiave Gulag di Maurizio Ciampa Torna il synth-pop di Andy & Paul di Stefano Bianchi
NELLA PAGINA DI POESIA
Ezra Pound nella babele della modernità di Francesco Napoli
Le sfide del patafisico Alfred Jarry di Pasquale Di Palmo La ricetta di Riemen in difesa della civiltà di Gabriella Mecucci
Sante Monachesi cent’anni dopo di Marco Vallora
canto d’addio in
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de il padrone. «Dai, non dire così, che presto guarirai», gli risponde il più giovane con affetto. «Joe» dice che ha semplicemente riprodotto i medicamenti e gli attrezzi che ricordava nella camera di suo padre, morto della stessa malattia. (Your life comes in handy, dicono gli artisti anglofoni: la propria vita torna utile). Torna utile anche la storia violenta della regione in cui si trova la proprietà di Boonmee. Un altro testimone del declino dello zio è sua cognata Jen (Jenjira Pongpas) che osserva i braccianti laotiani al lavoro nei frutteti di tamarindo (spesso immigrati clandestini): «I laotiani hanno un cattivo odore». Il cognato respinge il luogo comune, osservando che i laotiani sono molto più lavoratori dei tailandesi, piuttosto pigri, secondo lui.
Si prova a riferire alcune sensazioni e punti fermi dell’opera, nella certezza che nemmeno una pletora di descrizioni potrà pienamente comunicare (e nemmeno rovinare, perciò) l’esperienza di farsi catturare da un universo unico, fantasioso, semplice, arcano e profondo, appassionante e rasserenante. I film in pellicola sono divisi in rulli; in questo caso ce ne sono sei, ognuno girato in uno stile diverso. Il più straordinario e memorabile, a nostro avviso, è il primo, che l’autore descrive come il suo personale: immagini di persone in auto e animali affascinanti, iconici. Il viaggio del film inizia con la sagoma di un bisonte che entra nella radura di una foresta tropicale tailandese del nordest, nella regione di Isan, al confine con il Laos. Dopo alcuni minuti di questa avvolgente, misteriosa apparizione notturna, sovrannaturale e terrena insieme, entra in scena un indigeno a torso nudo vestito con un copribacino, che lo conduce, dapprima con difficoltà, fuori scena; dunque non siamo nel presente ma nel passato, il costume dell’uomo è d’epoca. È forse la prima delle vite precedenti dello zio Boonmee, che potrebbe essere il bisonte, l’uomo o nessuno dei due. Il regista lascia la scelta allo spettatore. L’immagine mistica, trattenuta a lungo e d’immensa bellezza formale, penetra nello spirito con una forza dolce, persuasiva, commovente e probabilmente indelebile. Non mi sorprenderei di ritrovarlo nei miei sogni, come parte di un personale patrimonio interiore di visioni incorporate dalle fonti più varie, oniriche o reali.
Nella sequenza successiva, sempre nella foresta notturna illuminata da una luce lunare, scopriamo una scimmia d’altezza umana con gli occhi di un rosso incandescente. Anche questa visione è trattenuta a lungo senza stancare, e ha la medesima potenza mistica della precedente. Ci si domanda il significato degli occhi rossi luminosi della bestia: colpiscono la fantasia. Weerasethakul dice che una delle sue tante fonti d’ispirazione, oltre ai film horror e ai fumetti tailandesi, sono gli sceneggiati televisivi in 16mm della sua infanzia. «Erano girati in pellicola in studio con un’illuminazione molto forte, diretta, le battute venivano suggerite agli attori, che le ripetevano meccanicamente. I mostri erano sempre avvolti nella penombra, per nascondere i costumi rimediati. Avevano luci rosse al posto degli occhi, perché il pubblico potesse identificarli meglio». In seguito alle scene nella foresta conosciamo lo zio Boonmee (Thanapat Saisaymar), un vedovo e possidente terriero gravemente malato di reni, che ha deciso di trascorrere i giorni che gli restano da vivere nella sua azienda agricola a Nabua. Nel libro da cui la storia è tratta, un monaco buddista trascrive il racconto di un anziano, arrivato al monastero per aiutare con i riti e imparare a meditare. L’uomo diceva di vedere scorrere le sue vite passate mentre stava a occhi chiusi in meditazione, di volta in volta si sentiva un bisonte, una mucca e vari fantasmi o spiriti incorporei. Il religioso che aveva sentito le testimonianze sulle passate trasmigrazioni dell’anima, delle avvincenti evocazioni del vecchio in meditazione ne ha fatto un libro. «Joe» Weerasethakul, che all’inizio pensava di girare un film sui ricordi delle lontane metempsicosi di Boonmee, si è, alla fine, distaccato dal racconto originale, preferendo esperienze e ispirazioni intime e personali. Il fattore e assistente principale dello zio è Tong (Sakda Kaewbuldee, un ex monaco buddista che lavora spesso con Apichatpong). È un bell’uomo aitante, che s’improvvisa infermiere per prestare le cure che tengono in vita il datore di lavoro assai malato. «Resterai con me fino alla fine,Tong?», chieanno III - numero 37 - pagina II
16 mm
LO ZIO BOONMEE
CHE SI RICORDA LE VITE PRECEDENTI GENERE COMMEDIA, DRAMMATICO DURATA 113 MINUTI PRODUZIONE GERMANIA, SPAGNA, FRANCIA, GRAN BRETAGNA,THAILANDIA 2010 DISTRIBUZIONE BIM
REGIA APICHATPONG WEERASETHAKUL INTERPRETI THANAPAT SAISAYMAR, JENJIRA PONGPAS, SAKDA KAEWBUADEE, NATTHAKARN APHAIWONK, GEERASAK KULHONG, KANOKPORN THONGARAM
Boonmee cerca di capire le ragioni karmiche che gli hanno provocato, secondo la sua cultura, la penosa malattia. «Ho ucciso troppi comunisti», dice a Jen. Lei cerca di consolarlo dicendo che lo ha fatto per dovere e «con le migliori intenzioni», ma Boonmee non è persuaso né consolato. La scena è sottilmente comica. Il film tratta temi come la memoria, la trasformazione, l’estinzione; con il rammarico espresso dal protagonista, l’autore sfiora con delicatezza la violenta repressione dei simpatizzanti comunisti da parte dell’esercito tailandese del 1965. Come ha suggerito il critico del Daily Telegraph, è una tentazione interpretarla come antesignana delle violente, sanguinose proteste combattute dalle Camice Rosse, che hanno agitato per le nuove elezioni nel Paese la scorsa primavera. AsiaNews di Bangok ha scritto di «conflitti irrisolti radicati nel passato». Secondo quanto afferma il regista, la forte censura nel suo Paese non permette di approfondire oltre temi politici. In una scena sorprendente,Tong, Jen e Boonmee cenano in veranda, quando si materializza il fantasma di Huay, la moglie del malato, scomparsa anni prima. Il bello è che non la vede solo Boonmee, ma anche gli altri due. È tornata per fare da guida al marito, e sarà lei a prestargli le cure fino alla fine, al posto di Tong. Dopo poco compare la scimmia con gli occhi rossi vista all’inizio. È Boonsong, morto anche lui da tempo.Visto in pieno viso, o muso, l’espressione ricorda la Bestia in La bella e la bestia di Jean Cocteau, uno dei più bei film fantasy di tutti i tempi; non è peregrino vederli come imparentati, tenendo conto ma non troppo, delle differenze temporali, culturali e delle fonti. Il film di Cocteau è una favola per bambini trasformata in parabola surreale per adulti; l’opera tailandese trasforma in favola le vicende della vita reale. Boonsong racconta che quando è scomparso per sempre, inseguiva un branco di scimmie. Vedeva i falò che il padre aveva fatto accendere per aiutarlo a ritrovare la via di casa, ma non poteva resistere al richiamo della foresta. Era stato trasformato in scimmia dopo aver copulato con una femmina del branco. Molte scene del film restano elusive, segrete, evocative, ma non si sa di cosa, come la principessa sfigurata che brama la bellezza e copula con un pesce gatto per ottenerla, o il monaco che alla fine entra nella stanza d’albergo di Jen e di una sua amica. Le donne lo canzonano perché un monaco solitamente non frequenta camere di femmine. Mentre le donne guardano la tv, lui si spoglia dei panni arancioni, fa un lunga doccia in tempo reale, indossa abiti civili ed esce. Reincarnazione, trasformazione, e le cure amorevoli che si prestano alle persone sofferenti sono i temi toccati, e la storia è soffusa di pietas e di carità. Apitachatpong sente anche la morte simbolica del cinema in pellicola, ormai quasi tutto si è «trasformato» in digitale. Il fllm, girato in 16mm, è anche l’elegiaco canto d’addio dell’artista per un’epoca cinematografica in via d’estinzione.
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parola chiave
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GULAG curiosa l’origine della parola «gulag». È inizialmente una sigla burocratica. Vuol dire: «Direzione centrale dei campi di concentramento». Spesso le parole del linguaggio burocratico occultano il nero che si cela nel funzionamento degli Stati, soprattutto se totalitari. È vero anche per la parola «gulag», che, negli oltre sessant’anni della sua storia, ha preso risonanze sempre più sinistre, stipando nel suo nucleo una drammaticità senza precedenti. Ci sono ovviamente altre parole («lager», «campo») che, con «gulag», rivaleggiano, andando a formare un dizionario di morte, un lessico dell’annientamento, una lingua dell’anti-umano largamente diffusa nell’Europa del Novecento. Vale la pena tornare, oggi, a sfogliare questo dizionario inaudito per arrivare a capire che il gulag, come d’altra parte il lager, non sono semplicemente delle anomalie o delle propaggini deformi della storia dell’Occidente, ma fanno parte di questa storia, la nostra, sono la sua ombra, le nostre ombre.Tutto è accaduto qui, poco lontano da noi, nel centro e all’estrema periferia della vecchia Europa. Ed è bene che il comune patrimonio della memoria sociale continui a elaborarne il senso, non smettendo di considerare «gulag» una parola assolutamente chiave della nostra storia, comunque fondamentale per la sua comprensione.
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È l’estrema regione dell’umano che la cultura contemporanea deve sempre tornare ad attraversare. Perché, insieme al lager, non è solo un’anomalia della storia dell’Occidente, ma è la nostra storia, la nostra ombra
L’ultimo denudamento di Maurizio Ciampa
« E p p u r e q u e g l i u o mi n i erano pur sempre uomini» dice Vasilij Grossman in Tutto scorre. «E - cosa fantastica, meravigliosa - lo volessero o no, essi avevano impedito che la libertà morisse; perfino i più terribili fra di loro l’avevano custodita nelle loro orrende, deformi, ma pur sempre umane anime». Ha dell’incredibile lo sguardo di Vasilij Grossman. L’ostinata intelligenza, l’amorosa attenzione che animano i suoi occhi, sono capaci di stanare l’umano anche là dove l’umano viene perentoriamente negato, nel gulag, nel lager, a Stalingrado, nelle fosse comuni di Berdicev e della Galizia, che hanno inghiottito migliaia di ebrei ancor prima che la Shoah avesse inizio. Grossman è lì, testimone di ogni orrore, e senza mai abbassare gli occhi. Vede tutte le notti del secolo e tutte le attraversa e le racconta. Per noi, vorrei dire. Per noi umani del terzo millennio, quasi più ciechi e storditi di chi ci ha preceduto. Vita e destino (che il lettore italiano può finalmente leggere nella splendida traduzione di Claudia Zonghetti pubblicata nel 2008 da Adelphi, un lavoro straordinario - oltre ottocento pagine - che consente di accedere a un testo davvero fondamentale per la comprensione del Novecento) è una grandiosa epopea dell’umano che lascia
Scriveva Salamov a Pasternak: «... giorno dopo giorno l’immensa maggioranza delle persone capisce che si può vivere senza carne, senza zucchero, senza abiti, senza scarpe, ma anche senza onore, senza coscienza, senza amore, né senso del dovere. Tutto viene a nudo... ed è terribile» senza fiato, il dolente inventario delle sue ferite e delle sue grida, un’esplorazione degli inferni che gli uomini hanno costruito per altri uomini (L’inferno di Treblinka è l’ultimo resoconto uscito da poco, sempre da Adelphi). Vita e destino porta in eredità al suo lettore, fra le pieghe di un racconto sterminato, quasi stordente per la sua ampiezza, porta il peso di una verità da cui forse la nostra intelligenza del gulag e del lager oggi dovrebbero ripartire: «La storia - scrive Grossman - è la lotta del grande male che cerca di macinare il piccolo seme dell’umanità. Ma se anche in momenti come questi l’uomo serba qualcosa di umano, il male è destinato a soccombere». Difficile da
capire la verità di Grossman. E difficile da accogliere. Nel gulag il male non sembra «destinato a soccombere». Pare piuttosto non avere argine, come una travolgente forza d’annientamento. Un’infezione che non si arriva a contenere. E, intaccherà, nei decenni, l’intero corpo della Russia. «Qui non c’è la legge dei Soviet, qui c’è la nostra legge», annunciavano i carcerieri accogliendo le loro vittime all’arrivo dei treni o sulla porta dei gulag. Così si presentavano, custodi, giudici e, insieme, boia: gli amministratori di un arbitrio assoluto. Mentre gli uomini, i prigionieri, risucchiati dal «tritacarne» (così i prigionieri chiamavano il gulag), diventavano enti astratti, evapo-
ravano in cifre, numeri, segni assolutamente esili, irrilevanti nei registri di un’«utopia modernizzante» e di un’«ingegneria sociale» che si pretendeva «purificatrice e civilizzatrice», come ha osservato lo storico Nicolas Werth. Dalle Solovki, le isole sul Mar Bianco dove tutto è iniziato nel 1923, alla Vorkuta, oltre il Circolo polare, al punto estremo della Kolyma (enorme «complesso concentrazionario» aperto dagli zar), si estendeva un mastodontico teatro, un’articolata geografia del lento sterminio, di cui è difficile persino disegnare la mappa. Erano oltre 400 i gulag, e non sempre utilizzavano edifici pre-esistenti, talvolta neppure baracche, spesso tende, precari e improvvisati accasamenti nel gelo della tundra, dove, qualche volta, gli uomini sono diventati «sciacalli» cibandosi gli uni degli altri, come è accaduto, nel 1933, a Nazino, un’isola lungo il fiume Ob (ribattezzata l’«isola dei cannibali»). «Sull’isola di Nazino l’uomo ha cessato di essere uomo», scrisse nel suo rapporto l’istruttore dell’epoca,Velicko.
Ma forse non è neppure questo il fondo dell’orrore, non è questo il pozzo nero del gulag, per quello che oggi possiamo capire. Dov’è allora? Dove lo possiamo intravedere con gli occhi di oggi? Credo in quello che Varlam Salamov in una lettera a Pasternak ha definito l’«ultimo denudamento». Di Salamov voglio ricordare ai nostri lettori Visera (da poco uscito per Adelphi), dove Salamov arriva nel ’29 per scontare la sua condanna ai lavori forzati, e Alcune mie vite (uscito da Mondadori), in cui sono riportati i documenti dei suoi tre processi, ma non va dimenticato quell’assoluto capolavoro che è Racconti di Kolyma (nei tascabili Einaudi), inarrivabile resoconto della vita, o della non-vita, nel gulag. Scrive Salamov a Pasternak: «… quando giorno dopo giorno l’immensa maggioranza delle persone capisce sempre più chiaramente che in fin dei conti si può vivere senza carne, senza zucchero, senza abiti, senza scarpe, ma anche senza onore, senza coscienza, senza amore, né senso del dovere. Tutto viene a nudo, e l’ultimo denudamento è terribile». Nel gulag l’uomo è stato portato fino all’«ultimo denudamento», in quell’estrema regione dell’umano che la cultura contemporanea deve costantemente tornare ad attraversare, come ha fatto Paolo Mieli (sul Corriere della Sera del 27 luglio), salutando come un evento l’uscita (da Jaca Book) del libro di Sergej Mel’gunov, Il terrore rosso in Russia, novant’anni dopo la sua prima edizione in Germania. Un altro pezzo importante nel terribile mosaico della storia dell’Urss. Occorre andare avanti.
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Cd
musica
LA VITA NUOVA di George Michael di Bruno Giurato
di Stefano Bianchi bbiamo fatto di tutto per essere moderni. Dopo architettura, arte e design, negli anni Ottanta la musica pop era l’ultimo grande baluardo modernista. Di conseguenza, avevamo la presunzione di poter cambiare il mondo con brani pop lunghi tre minuti e mezzo». Il mondo, elettronicamente parlando, Andy McCluskey e Paul Humphreys non sono riusciti a cambiarlo. Ma a migliorarlo sì, nel loro piccolo, con pezzi che hanno fatto storia: Enola Gay su tutti e poi Statues, Promise, Joan Of Arc, Souvenir… Canzoni dolcemente glaciali, figlie dei Kraftwerk e del Bowie di Station To Station, Low e Heroes. Suonavano a meraviglia, negli anni Ottanta, i sintetizzatori. Se lo ricordano bene, Andy e Paul. Nel 1976, ispirandosi al krautrock, formano i VCL XI che modificano in Hitlers Underpantz e poi in ID. Sigle che non funzionano. Ci vuole un nome più efficace: Orchestral Manoeuvres In The Dark, da abbreviare in OMD. I due tastieristi del Merseyside, nell’80, intitolano così anche il disco di debutto puntando sui medesimi clangori post-industriali e i ritmi da metronomo del loro amico/nemico Gary Numan. Sempre in quell’anno, con l’aggiunta di Malcolm Holmes e David Hughes, incidono Organisation addolcendosi. Adesso lo chiamano synth-pop, il loro suono decadente e melodico. Scorza gelida, cuore di panna. E lo ribadiscono, vieppiù romantico e suadente, con Architecture & Morality (’81), Dazzle Ships (’83), Junk Culture (’84) e Crush (’85). Inevitabilmente, però, quando il pop elettronico perde quota, le manovre orchestrali s’inceppano. Escono altri dischi, nel ‘93 Liberator cerca perfino un trait d’union con l’house music, ma i tempi sono cambiati e i sintetizzatori non tira-
«A
Jazz
zapping
uole una nuova vita, George Michael, esce dal carcere e vuole una nuova vita dopo che era stato arrestato per cannabis. La frase suona tutta storta. Innanzitutto per quel cannabis, che la Mariagiovanna possa innescare la spirale del pentimento mediatico è una barzelletta, una parodia involontaria del business moralista. Non crediamo di avere frequentazioni più depravate della media, ma alcune nostre conoscenze, lo ammettiamo senza vergogna, usano cannabis e non hanno nessuna voglia di nuove vite. Ma è l’accoppiata aggettivo sostantivo, il «nuova vita» che fa cascare tutto. Ci scommetteremmo che George vuole la vecchia vita, non la nuova. La vita in cui tutti i ragazzi più belli shampati e docciati cantavano Wake me up before you gogo dietro all’onda dei suoi capelli alla giovane eroe. Il successo è un’onda che congela il tempo al momento dell’acme, e lascia a chi ci capita in mezzo il sentimento postumo di dover aderire a quel modello eterno. La vecchia vita. Passeggi in centro a Milano e vedi il famoso stilista che ha assunto un color mattone per le lampade. Anche lui vuole la vecchia vita. Un collega ti racconta di quella rockstar che una volta cantava canzonette negli stadi e ora lo massacra di telefonate. Vuole anche lui, la rockstar, la vecchia vita. L’autore arrangiatore cantante ex giudice di Xfactor vuole anche lui una nuova vita, ma in realtà la vecchia. Se ci fosse uno psichiatric help a 5 centesimi come quello di Lucy nei Peanuts, sarebbe il caso di raccogliere un po’ di questi personaggi, che a volte spietatamente vengono chiamati «morti di fama» e dirgli il segreto in un orecchio. Basta aver scritto una bella canzone, la vecchia vita è assicurata per molto tempo, forse per sempre. L’opera - se c’è - è più viva della vita, anche di una nuova vita.
V
Torna il synth-pop di Andy & Paul no più. Nel ’96, fine degli OMD in attesa di tempi migliori. Che arrivano nove anni dopo, quando McCluskey & Humphreys si esibiscono alla tivù tedesca. Piovono applausi e i due nel 2007 decidono (con Malcolm Holmes e Martin Cooper, che aveva nel frattempo rimpiazzato Hughes) di eseguire dal vivo Architecture & Morality. C’è voglia di ricominciare, insomma. Tanto più che in giro viaggiano band che si ispirano agli Orchestral Manoeuvres In The Dark senza nasconderlo: The Killers, XX, LCD Soundsystem… Si riparte, allora, dalla sala d’incisione. Anche solo per lo spazio d’un revival, ora che gli Eighties sono tornati di moda. L’undicesimo album del quartetto, History Of Modern, è stato concepito «senza preoccupazioni e tantomeno pressioni», ha sottolineato Andy McCluskey. «Non abbiamo
dovuto garantire vendite record, né dare chissà quale svolta alla nostra storia. Ci è bastato dire: siamo qui, siamo gli OMD e questo è ciò che combiniamo nel 2010». Nel nome della modernità, si divertono a giocare col passato dividendo il cd in due «facciate» come succedeva coi vecchi ellepì. Si mettono a fare rock cibernetico (New Babies: New Toys) e da qui ridisegnano/riaggiornano le atmosfere che li hanno resi famosi: orecchiabili melodie (If You Want It; Sometimes; Green), ritmi robotico/danzanti (History Of Modern Part 1 & 2; Pulse), algide orchestrazioni da odissee nello spazio (RFWK; Bondage Of Fate), contrappunti elettronico-cameristici (New Holy Ground), dance music intergalattica (The Future,The Past And Forever After; Sister Marie Says), rumori & umori «kraftwerkiani» (The Right Side?). History Of Modern, dicono, «è solo un altro frammento del nostro puzzle». Bene così. Bentornati negli anni Ottanta. OMD, History Of Modern, Blue Noise/ Spin-Go!, 17,50 euro
Quando Chet Baker rese omaggio all’hard bop ul secondo soggiorno italiano di Chet Baker sono corsi fiumi di inchiostro. Tutto è stato detto, forse di più e anche con qualche inesattezza. Chet ritornò in Europa dagli Stati Uniti nel luglio 1959.Venne ingaggiato da Sergio Bernardini per la Bussola di Focette e dopo pochi giorni partecipò al Terzo Festival di Roma che nell’occasione ebbe luogo a Fregene. Dopo il Festival andò a Parigi e in agosto suonò al Blue Note di rue D’Artois con la sezione ritmica regolare del club, René Urtreger, Pierre Michelot e Kenny Clarke. A settembre tornò in Italia per una tournée di dieci giorni, accompagnato dal Quintetto di Lucca. Vennero dati concerti a Firenze, Roma, Perugia, Rimini, Bologna e Gorizia. Al termine della tournée Chet si trasferì a Milano dove, fra il 25 settembre e il 6 ottobre, incise per la casa discografica Music. Era giunto a Milano il 17 per un ingaggio al Santa Tecla con Glauco Ma-
S
di Adriano Mazzoletti setti, Franco Cerri, Renato Sellani e il batterista Gene Victory. Prese poi parte alle incisioni, le prime realizzate in Italia, con lo stesso complesso a cui, in alcuni titoli, si aggiunse Gianni Basso. Il supervisore, ma soprattutto l’arrangiatore di quelle sedute fu Giulio Libano, mentre per le altre effettuate nei giorni successivi, fu Ezio Leoni che, sotto lo pseudonimo di Len Mercer, diede vita alle prime incisioni di Chet Baker con un’orchestra che comprendeva oltre a trombone, tre sassofoni e sezione ritmica anche 16 violini, 4 viole, 4 violoncelli, 2 contrabbassi, corno francese, flauto e clarinetto basso. Ezio Leoni dimostrò l’eccellenza
della sua scrittura. A ottobre Chet si trasferì a Roma per partecipare alla registrazione di due colonne sonore. La prima, per il mediocre film di Lucio Fulci, Urlatori alla sbarra, dove apparve anche in alcune sequenze con Mina e Celentano, il secondo per il nuovo lavoro di Mario Monicelli, Audace colpo dei soliti ignoti. In ambedue i casi, le musiche vennero scritte da Piero Umiliani. Il compositore italiano utilizzò alcuni fra i migliori solisti delle due orchestre Rai, oltre a tre musicisti americani all’epoca in Italia, Bill Gilmore, e Ralph Ferraro Jimmy Pratt. Queste incisioni uscite a suo tempo in longplaying,
vengono oggi ripubblicate in due cd dalla Solar e mai riedizione giunge più opportuna. Chet in queste incisioni dimostra uno straordinario cambiamento nel suo stile. Non più il Chet Baker del quartetto con Gerry Mulligan di sette anni prima, ma grande velocità di esecuzione e sonorità più corposa, in omaggio, forse, agli hardboppers del momento. Oltre ai diciannove brani incisi a Milano fra il 25 settembre e il 6 ottobre pubblicati a suo nome, nei due cd sono stati anche inseriti alcuni temi dai film Urlatori alla sbarra, Audace colpo del 1960 e Smog del ’62, importanti per conoscere a fondo l’opera di uno dei più significativi solisti che il jazz ha avuto, la cui tragica vita si è misteriosamente conclusa la notte del 13 maggio 1988 su un marciapiedi di Amsterdam. Chet Baker, Complete Milan Session, Solar Records, Distr. Egea
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arti Mostre
on stupisce che la figlia del pittore Monachesi, Luce, con questo nome così futurista e marinettiano, sigli il suo festoso ricordo del padre (che di prima mattina, a colazione, «teneva lezione» alle sue piccole, tra marmellate e cuccume, a suon di «scomposizione cubista delle Madonne di Raffaello» o «linea barocca da Michelangelo a Boccioni») con il felice sigillo d’uno «scherzo» di Maccari che schizza Monachesi quale spadaccino, dalla sciabola sguainata, che avanza correndo sul foglio, al grido di: «All’attacco, miei prodi, qui si fa la pittura o si muore». Perché in effetti, con la sua statura da gigante buono e i suoi generosi baffoni, tra Stalin e Gentilini (che creavano divertiti solletichi, non soltanto alle guancie delle figlie bambine), il troppo trascurato Sante Monachesi era di natura insurrezionale e pirotecnico, indomito. E bastano certi elementi fulminanti, in questa doverosa mostra di ricordo, per il centenario della sua nascita, a dimostrarlo: per esempio quelle sculture che, in anni meno liberati e più confessionali, si intitolavano Incazzatura (siamo nel 1940 e la pasta smaltata-policroma annuncia già quella dei «ceramisti» atipici Leoncillo, Fontana, Melotti) oppure, ben esplicita e inscatolata (pur senza conoscere, probabilmente, l’Origine del mondo di Courbet, tenuta in quegli anni segreta, nello studio di Lacan) la Vulva totemica, del 1937. Che pare già un’opera nostra contemporanea, del compianto Cerone, che molto sembra dovergli, chissà se avendone avuto una conoscenza diretta. Perché Monachesi è uno di quegli artisticarsici della nostra cultura, che son stati piuttosto esposti (e anche assai venduti: forse questo gli ha nuociuto, conferendogli un ingiusto profilo commercial-marguttesco, con i suoi Fiori fauvescamente vistosi o le sue Clownesse nude, un po’ troppo alla van Dongen) ma che poi sono stati come rimossi, deglutiti da un disinteresse ingiusto. Mi pare, una delle sue rare opere aver visto esposta alla mostra su Emilio Villa, curata da Parmiggiani: ed era una vera sorpresa, in quel contesto (dun-
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Moda
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Le insurrezioni
di Sante Monachesi di Marco Vallora que anche la critica «difficile» si interessava di lui, il poeta Villa e l’antropologo Cagnetta, Marchiori, Trucchi e Passoni. Curioso in mostra si dimentichi il capitolo del suo rapporto con Basaglia e i malati di mente). Monachesi nasce futurista, in una sonnolenta Macerata, risvegliata dagli shrapnel futuristi delle conferenze di Marinetti e dall’entusiasmo organizzativo d’un altro eccentrico quale Ivo Pannaggi. Diventa anche lui aero-pittore, come l’a-
rea adriatica induce, ma privilegia un aspetto assai interessante e originale, quello dei Bombardamenti e degli Aerei in picchiata, visione sdoppiata, pure dalla carlinga, che quasi lo sospingono verso la soglia dell’informale-espressionista (certi sfondi di città bersagliate ricordano Alessandro Papetti). E doveva essere un ben pericoloso «cantore» del Duce, se nel 1932-‘33 riesce a firmare e datare (esporre?) un ritratto del «Dittatore», ch’è prati-
camente un monumentale torso di mela sbocconcellata (bocca aperta dell’arringatore?) che fa più pensare a Oldenburg che non a certe piaggerie ufficiali, anche futuriste. Ma aveva già cominciato a disturbare presto, giovanissimo, quando espone a Recanati, in un’impettita occasione anniversaria, per le commemorazioni di Leopardi, e riesce a infiltrare, tra i Lotto e i Guercino della pinacoteca, le sue provocatorie (ma anche assai belle e innovative, vagamente boccioniane) Fusioni in alluminio e Astrazioni Plastiche a luce mobile, per di più allarmate, appunto, da rotanti proiezioni luminose: un vero scandalo cittadino. Poi la lezione di Brancusi, chissà se del Giacometti surrealista, certo Archipenko, Lipchitz e Laurens, gli scultori vicini al cubismo: nessun dubbio, il precoce viaggio a Parigi, per lui già precoce, è decisivo. Il curatore Stefano Papetti parla giustamente di influenze difficili da fermare, in questa corsa a perdifiato (diciamo pure à but de souffle, visto che siamo a Parigi e Monachesi ha studiato cinema al Centro Sperimentale, e le sue immagini lo immortalano spesso vicino a Chaplin, De Sica, Joan Fontaine o Ava Gardner, con cui balla dopo averla ritratta): Utrillo, Marquet, Dufy. Ma certo se il filo diretto con Matisse è addirittura sfacciato, qui, con il Nudo Bianco 1953 o l’Attesa a Parigi, che usa la tecnica del collage, per sparare i suoi strali, appesi in un manifesto, contro la Biennale di Pallucchini, forse il nome più influente sarebbe quello, mai ricordato, di Magnelli, pur così importante per tutta una generazione di «emigranti». Non solo nelle Diagonali del ‘34, ma soprattutto nella sorprendente serie dei Muri ciechi di Parigi, del ‘47-‘48, ancora in attesa di ricostruzione bellica o dell’arrivo delle affiches consumistiche. Notevoli. Più noto, perché già affrontato dalla Gnam, l’ultimo periodo dei Plexiglass trasparenti (di concerto con Marotta): luce piegata e fiammante. O quello «agravitazionale» degli Evelpiuma, in morbida gommapiuma impacchattata ad libitum (lo poteva fare anche il pubblico), volteggianti al soffitto, come navicelle spaziali finite alla deriva.
Sante Monachesi, Roma, Fondazione Roma Museo, fino al 24 ottobre
Tremate top model, le tonde son tornate
i voleva Jean Paul Gaultier per mandare in passerella Beth Ditto, cantante omosessuale dei Gossip Girl che porta con gioiosa sfrontatezza i suoi cento chili. È una provocazione, d’accordo. È un’esagerazione, che fa quasi da contrappeso alla mistica della magrezza, alla taglia trentotto che è la nuova quaranta, alle stiliste emergenti che si fermano alla quarantaquattro, perché «dopo, i vestiti non cadono bene». E mentre Milano 2010 ha escluso Elena Mirò dalle sfilate primaveraestate, («non era in sintonia con i canoni della settimana della moda»), Gaultier glorifica le tonde. Beth Ditto ha aperto lo show con tacchi alti, cinturino alla caviglia, calze a rete e un abito corto guarnito di veli e rose. Ha anche cantato una canzone di Tina Turner e ha rubato la scena alle top model, giurando di non sentirsi affatto cicciona. Lei, la bambina esclusa, ha fatto del suo corpo ingombrante un punto di forza (non riesce a tutte), tanto che, ipocrita-
C
di Roselina Salemi mente, c’è chi parla di un’epoca nuova, «la fine della dittatura delle magre». Non è così e chi ha visto le sfilate lo sa. Gli stilisti non amano vestire le innominabili taglie sopra la 46 (si chiamano «conformate», «comode», «più», perché la vergogna ha sempre bisogno di dare alla verità un altro nome) anche se alcuni, causa chirurgia estetica dilagante, si sono rassegnati alla presenza di un seno, spesso ingombrante, montato su vitini sottili. Gaultier però dice che basta, la moda non può fare riferimento soltanto alle magre: basta guardarsi in giro per vedere che esistono anche le 48 e oltre e hanno anche loro il diritto di vestirsi dalle grandi firme. Tutto questo per lanciare, in tempi grami, abiti senza taglia con geniali plissé che si estendono a piacere e vanno bene a chiunque. Funzionano per le magre e vanno bene anche alle tonde, sostiene lui. Certo, i plissé ci sono sempre stati, tristissimi, ef-
fetto premaman, quel tipo di abitoni-tenda che le molto incinte evitano a qualsiasi costo, certo, una bella fetta del mercato va a marchi come «Persona», «Marina Rinaldi», e appunto, «Elena Mirò», ma le tonde sono sempre rimaste fuori dalla porta, escluse dal Tempio della Moda. Da un mondo di giacchini avvitati, minibustier, tunichette, leggins e strati di voile. Dopo l’uscita di Gaultier, fashion director e stylist sono divisi: c’è chi pensa che sia una trovata a effetto, (di Beth Ditto ce n’è una sola), c’è chi legge, nella sottile furbizia del gesto, un altro segno della crisi, il bisogno di donne morbide, rassicuranti, rilassate. Insomma, meglio curvilinee che ossute come levrieri in corsa verso non si sa dove. E si insinua, in effetti, il dubbio che la Gran Madre, antico simbolo di fertilità e prosperità, torni ad affacciarsi nel mondo lieve della moda e, fasciata in un comodo abito da sera di Sonia Rykiel, colorato, portato con le scarpe basse, o coccolata da Gaultier faccia scricchiolare la passerella e le sue certezze. Che il corpo delle donne, levigato, ridisegnato, scolpito, si prenda simbolicamente una rivincita, straripando dai confini che gli sono stati imposti.Tremate, le tonde son tornate.
MobyDICK
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Geniale figura di innovatore, surrealista ante litteram e protofuturista, ha reso possibili gli approdi delle più importanti avanguardie del “secolo breve”. Ora quattro uscite editoriali ci consentono di rivisitare la sua affascinante e controversa opera. Dalla passione per il ciclismo al suo alter ego Ubu
il paginone
Le sfide del
di Pasquale Di Palmo azione surrealista più semplice consiste, rivoltella in pugno, nell’uscire in strada e sparare a caso, finché si può, tra la folla». Quest’asserzione di André Breton, tratta dal Secondo manifesto del Surrealismo, può idealmente introdurre all’opera di Alfred Jarry, geniale figura di innovatore che, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, scrisse pagine dal tratto perentorio e corrosivo, senza le quali non sarebbero concepibili alcuni approdi delle più importanti avanguardie operanti nella prima metà del cosiddetto «secolo breve». Jarry divenne, al pari di Sade, Lautréamont, Rimbaud e pochi altri, come il prototipo del surrealista ante litteram, capace di annullare «la distinzione fra arte e vita che a lungo si era ritenuta necessaria», per usare le parole adoperate dallo stesso Breton nella sua Antologia dello humour nero, nonché di impugnare una pistola in pubblico e, appunto, «sparare a caso, finché si può, tra la folla».
«L’
Non ci si deve dimenticare, d’altronde, che il maestro dichiarato di Breton fu un personaggio che aveva la provocazione nel sangue, quel Jacques Vaché che con il suo comportamento iconoclasta e le sue Lettere di guerra, pubblicate postume nel 1919 a cura dello stesso Breton, si può considerare come il trait d’union tra l’opera multiforme di Jarry e la rêverie derivante dalla scoperta dell’inconscio freudiano, tipica dei surrealisti. A più riprese Vaché aveva indicato, nonostante la sua dichiarata avanno III - numero 37 - pagina VIII
versione per la letteratura, Jarry come il suo unico e indiscusso modello, tanto da imitarlo quando minacciò di sparare all’impazzata durante la prima delle Mammelle di Tiresia di Apollinaire. Lo stesso Jarry fu un vero e proprio maestro nell’arte della provocazione. Nel suo Il fu Alfred Jarry, Apollinaire abbozzò una serie di indimenticabili ritratti dell’amico: «La sera di cui parlo, Alfred Jarry mi apparve come la personificazione di un fiume, un giovane fiume senza barba, in abiti bagnati da annegato. Baffetti cadenti, redingote dalle falde ciondolanti, una camicina leggera e scarpe da ciclista: tutto aveva qualcosa di tenero, di spugnoso; il semidio era ancora umido, sembrava fosse uscito inzuppato poche ore prima dal letto in cui sciabordava la sua onda». L’esistenza di Jarry è costellata da una serie memorabile di scherzi e screzi nei confronti dell’odiata borghesia francese e, al tempo stesso, dalla frequentazione con gli artisti più significativi del tempo: beniamino di Rachilde Vallette, moglie del direttore del Mercure de France, Jarry praticava abitualmente Mallarmé, il Doganiere Rousseau, Paul Gauguin, Apollinaire, Picasso, l’Oscar Wilde del melanconico esilio parigino. In linea con il personaggio di Ubu e con le stravaganti teorie sulla patafisica, Jarry sembra impegnato in una sorta di costante, reiterata sfida alle istituzioni e all’imbecillità del potere costituito che si esprime attraverso le forme variegate di un’ironia devastante e spietata. Non a caso l’Ubu roi, dramma basato sul canovaccio
teatrale improvvisato dai compagni di liceo dell’autore a Rennes, comincia proprio all’insegna del neologismo «Merdre!» che assurgerà a tratto distintivo della sua stessa opera. Ubu diventa così una maschera, un alter ego di Jarry dietro le cui sembianze grottesche e crudeli si coltiva in segreto l’aspirazione all’annientamento, sistematicamente perpetrata attraverso una vita dissoluta e deprimente, cadenzata da ogni sorta di eccessi, compresi alcolismo, malnutrizione e pederastia. Non a caso Sergio Solmi parlerà di «vita come allucinazione volontaria».
Nell’eccellente saggio Montmartre & Montparnasse di Dan Franck sono riportate con dovizia di particolari alcune prodezze del nostro: «Una sera va a un concerto.All’ingresso si presenta con indosso una camicia di carta sulla quale è dipinta a china la cravatta. La sua tenuta non viene ap-
Cultore di una scienza delle soluzioni immaginarie, per lui la bicicletta era la realizzazione dell’uomo macchina. E sulla sua Clément luxe 96 da corsa intraprese spericolate escursioni per le strade francesi prezzata, e lo mandano in loggione. Non dice niente. Ma quando si fa silenzio e il maestro sta per dare inizio alla musica, Jarry si alza e grida:“È uno scandalo! Perché fanno entrare in sala gli spettatori delle tre prime file? Non vedete che danno fastidio a tutti con i loro strumenti?”». Non meno stravagante è il suo appartamento (condiviso con un gufo) che si trova in rue Cassette. Quando Apollinaire vi mette piede ne rimarrà letteralmente stupefatto: «Del resto, le riduzioni abbondavano nella dimora di Alfred Jarry. Il terzo e mezzo non era che una riduzione di piano nella quale il legittimo inquilino stava comodamente in piedi, mentre io, più alto di lui, ero obbligato a piegare la schiena. Il letto non era che una riduzione del letto, cioè un giaciglio, ma Jarry mi disse: i letti bassi sono di moda. Il tavolo per scrivere non era che una riduzione di tavolo, dato che Jarry scriveva steso supino con la pancia sul pavimento. La mobilia non era che una riduzione di mobilia, composta dal solo letto. Al muro era appesa una ri-
duzione di quadro. Si trattava di un ritratto di Jarry, di cui lui aveva bruciato quasi tutto, lasciando solo una testa che lo faceva molto simile al Balzac di una litografia che conosco. La biblioteca non era che una riduzione di biblioteca, ed è dir molto. Era costituita da un’edizione popolare di Rabelais e da due o tre volumi della “Biblioteca rosa”. Sul camino si ergeva un gran fallo di pietra, di fattura giapponese, dono di Félicien Rops a Jarry, che teneva quel coso sovradimensionato sempre coperto da un panno di velluto viola, dal giorno in cui l’esotico monolito aveva gettato nell’imbarazzo una poetessa, affannata per essere salita al terzo e mezzo e spaesata da quella spoglia grande chasublerie. È una fusione? Aveva chiesto la signora. - No, aveva risposto Jarry, è una riduzione». Uno dei passatempi preferiti di Jarry era rappresentato dalle rivoltelle. Esistono al riguardo numerosi aneddoti ma senz’altro uno dei più divertenti (e sconcertanti al tempo stesso) è quello che vede lo scrittore esercitarsi a spa-
rare in un cortile dove stanno giocando alcuni bambini. Arriva, trafelatissima, la madre di uno di questi, facendo tutte le rimostranze del caso e lo scrittore seraficamente le risponde, sillabando accuratamente le parole, con la cadenza metallica e gracchiante del suo Ubu: «Non si preoccupi, signo-ra, glie-ne fa-re-mo de-gli altri, glie-ne fa-re-mo de-gli al-tri».
In un’altra occasione mentre assiste in compagnia di Apollinaire a uno spettacolo circense terrorizza i vicini agitando una pistola, con il proposito di convincerli riguardo alla propria abilità di domatore. Un’altra delle passioni di Jarry erano gli sport: tennis, scherma, pesca alla lenza, canottaggio e, soprattutto, ciclismo (in una delle rarissime fotografie che lo ritrae, si vede lo scrittore di profilo, tutto vestito di nero, in sella alla sua amatissima bicicletta mentre si reca da Corbeil a Parigi). Jarry verrà citato in giudizio dal commerciante che gliela vendette, un certo Jules Trochon contro cui si scagliò il poeta inadempiente scrivendo con Eugène De-
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l patafisico Jarry Alfred Jarry in primo piano e, sotto, in bicicletta. Intorno incisioni e disegni dello scrittore, in particolare quelli dedicati alla sua creatura Ubu. Nella pagina accanto alcune copertine delle opere di Jarry appena riproposte. Jarry morì a trentaquattro anni il 1° novembre 1907 di meningite tubercolare. Venne sepolto nel cimitero di Bagneux, dove, dopo qualche anno, la sua tomba scomparve, venduta dalla sorella che fece disperdere i resti in una fossa comune
molder un’opera buffa a lui ispirata sin dal titolo, fin troppo eloquente, di Pantagruel: Troccon (la cui traduzione è Pantagruel:Troppo cretino). La relativa vertenza giudiziaria durò dal 1896 fino alla morte di Jarry. Il modello di bicicletta era una Clément luxe 96 da corsa del valore di 525 franchi, cifra considerevole all’epoca cui vanno aggiunti 20 franchi per i cerchi in legno. Jarry verserà soltanto 10 franchi, altri 15 saranno sborsati dalla sorella, probabilmente braccata dal creditore. Proprio all’insegna della passione ciclistica di Jarry sono uscite diverse pubblicazioni che ci permettono di rivisitare la sua affascinante e controversa opera. Si tratta di volumetti che presentano, in curatele e traduzioni differenti, pressoché i medesimi testi, basati sull’antologia francese Ubu Cycliste: Écrits vélocipédiques d’Alfred Jarry, curata da Nicolas Martin nel 2007 per le Éditions Les Pas d’oiseau. Bisogna segnalare innanzitutto le Acrobazie in bici, tradotte da Carla Scaramella nella collana «Incipit» di Bollati Boringhieri (104 pagine,
Era un maestro nell’arte della provocazione e la sua breve esistenza è costellata di memorabili scherzi specialmente ai danni dell’odiata borghesia, delle istituzioni, dell’imbecillità del potere costituito 10,00 euro), ricavate direttamente sull’edizione francese curata da Nicolas Martin che firma la prefazione. Si tratta di un florilegio di testi scritti da Jarry intorno alle sue pionieristiche escursioni in bicicletta o che prendono l’abbrivo da tali spericolate vicissitudini, definite così dallo stesso curatore: «Allo stesso modo dell’assenzio o del revolver, la bicicletta è un prolungamento materiale della maschera ubuesca che Alfred Jarry ha portato per tutta la vita, mostrandosi in ogni circostanza sotto le sembianze della creatura che aveva inventato».
La bicicletta rappresenta per il protofuturista Jarry la realizzazione dell’agognato «uomo-macchina», un veicolo in cui il corpo del conducente sembra fondersi
con il mezzo che lo trasporta. In un capitolo del romanzo Il supermaschio l’autore immagina una gara tra una locomotiva e una quintupletta che «senza accelerare né rallentare» regala l’impressione della «stessa apparente immobilità». Da qui a sostenere che «l’acrobazia e la velocità consisteranno un giorno nel restare immobili» il passo è breve. Non sembra un presagio fantascientifico del mondo virtuale contemporaneo? Nella prosa intitolata I pedoni pirati della strada, dopo aver disquisito sull’opportunità di ridurre gli incidenti stradali sempre più frequenti, l’autore puntualizza: «A giustificazione del nostro titolo aggiungiamo che il pedone corre meno rischi rispetto al ciclista o all’automobilista; egli si espone a una
semplice caduta dalla sua altezza, e non a essere proiettato da una macchina in corsa, né rischia la distruzione del suo prezioso veicolo; quindi fino al giorno in cui non avrà avuto fine questa follia di lasciar circolare gente a piedi sprovvista di autorizzazione, targa, freni, campanello, tromba e fanali dovremo sconfiggere tale pericolo pubblico: il pedone pirata della strada». In questi testi Jarry rivisita da par suo alcuni miti che hanno profondamente influenzato il pensiero occidentale: Issione è attaccato per l’eternità a una ruota di bicicletta, Sisifo obbliga l’Eterno a «fare dell’uomo una macchina che duri a lungo, perlomeno un secolo», perfino la passione di Cristo è concepita alla stregua di una gara ciclistica in salita che si svolge
sul Golgota. «Autentica macchina per decervellare», come la definisce Nicolas Martin, la bicicletta diventa paradossalmente una sorta di «carapace» metafisico, l’estensione di un «corpo senza organi» già artaudiano, attraverso la quale risulta possibile fuggire verso altre dimensioni temporali, come in The time machine, scritto da H.G. Wells pressappoco nel periodo in cui Jarry, ispirandosi a un professore realmente esistito di un liceo di Rennes, crea, con la complicità di un manipolo di coetanei, la maschera farsesca e mordace di Ubu. Ubu in bicicletta, stampato da Piano B Edizioni (80 pagine, 10,00 euro) nella traduzione di Martina Grassi, propone gli stessi testi dell’edizione di Bollati Boringhieri, con l’aggiunta del celebre Il fu Alfred Jarry di Apollinaire. Ciclismo Patafisico, curato da Igor Longo per Shake Edizioni (144 pagine, 15,00 euro), oltre a brani di Jarry, accoglie scritti sul tema di vari autori, tra cui Allais, Clemenceau, Mallarmé e Zola. Interessante l’apparato iconografico dove spicca la riproduzione del ready-made di Marcel Duchamp del 1913, intitolato Ruota di bicicletta. Bisogna segnalare inoltre il volumetto intitolato Scritti patafisici. La macchina, il tempo e altri epifenomeni (144 pagine, 9,00 euro) pubblicato, nella versione di Elena Paul, dalle edizioni palermitane :duepunti che avevano meritoriamente riproposto, qualche anno fa, anche le Lettere di guerra di Jacques Vaché. La raccolta degli Scritti patafisici ospita solo in parte brani dedicati da Jarry alla sua passione per la bicicletta, recuperando una serie di componimenti che si ispirano, direttamente o indirettamente, alla concezione della patafisica, «scienza delle soluzioni immaginarie» che deriva dal libretto, edito postumo nel 1911, Gesta e opinioni del dottor Faustroll, patafisico. L’edizione, molto accurata dal punto di vista filologico, presenta un’esauriente nota biografica e un’utile bibliografia.
L’ultima provocazione di Jarry consistette nel chiedere, in punto di morte, al suo «merdico» uno stuzzicadenti. Era il 1° novembre 1907, l’autore aveva trentaquattro anni. Il referto dell’autopsia parlò di «meningite tubercolare, tipica per le sue lesioni caratteristiche, ma che, clinicamente, aveva avuto uno sviluppo quasi torpido e, in più, del tutto anormale». A SaintSulpice pochi amici seguirono il feretro, tra cui Valéry e Léautaud che per nulla al mondo si perdeva un funerale. Fu necessario ricorrere a una colletta per pagare le spese delle esequie. Venne sepolto nel cimitero di Bagneux, dove, a distanza di una manciata d’anni, la sua tomba scomparve: la sorella Charlotte la vendette e i resti dello scrittore furono dispersi in una fossa comune. Sembra l’ennesimo, atroce scherzo di Jarry alias Ubu.
Narrativa
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Stefania Bertola IL PRIMO MIRACOLO DI GEORGE HARRISON Einaudi, 120 pagine, 14,50 euro
no dei personaggi del libro di Stefania Bertola, Il primo miracolo di George Harrison, è il chitarrista dei Beatles George Harrison, chitarrista e cantautore morto nel 2001. Chiamato in causa dalla scrittrice torinese proprio in virtù del suo non essere in vita, ma per gli strani e comici accostamenti di possibile officiante di miracoli. Il primo miracolo di George Harrison doveva certamente ricadere nel campo più proprio della star di Liverpool e per questo Harrison viene eletto a protettore dei musicisti, e in particolar modo protettore di giovani chitarristi. La vena surreale che connota i 17 racconti che compongono la breve raccolta della Bertola, si compone di brevissime illustrazioni, fulminanti per brevità, alcune decisamente comiche altre spiazzanti. Il racconto che dà il titolo alla raccolta narra dell’incontro di due persone nella chiesa della Consolata alla vigilia del Natale. I due, una giovane ragazza e un vecchio, si ritrovano di fronte alla parete delle opere votive. La ragazza ha appena appeso un piccolo quadretto che ritrae l’oggetto del suo voto «un ragazzo con una chitarra rossa al collo, una Gibson Sg 42. Il chitarrista si trovava sul palco, esattamente sotto un grande poster di George Harrison… dalla mano appoggiata alle corde della chitarra schizzavano tre fulmini brevi ma molto arancioni». L’anziano sopraggiunge alle spalle della ragazza e si presenta come l’autore di uno strano ex-voto in cui si raffigura un omicidio avvenuto esattamente cinquant’anni prima. Strano duo, una ragazza che affigge un ex voto per il fidanzato scampato alla folgorazione (intitolato a una pop star), e un assassino che torna al suo strampalato ex-voto dove racconta che tipo di grazia abbia ricevuto, e cioè come dopo l’omicidio sia riuscito, con i gioielli sottratti alla morta, ad avviare una normale attività lavorativa «ho venduto i gioielli e con i soldi ho realizzato la mia ambizione professionale». I due appartengono al mondo degli stralunati personaggi di questo libro, molti adolescenti, qualche bambino e adulti disadattati e maldestri. Particolari osservati con la lente di ingrandimento dilatano spazi microscopici, tinelli e bagni descritti a
U
libri
Corto circuiti con la realtà
17 racconti di fulminante brevità compongono la nuova raccolta di Stefania Bertola, che eleva George Harrison agli onori degli altari
Riletture
di Maria Pia Ammirati
volte minuziosamente come nel racconto più efficace dal titolo Mambo Bar, una storia che sembra soave e nasconde, accennandole, crudeltà familiari infilate una dentro l’altra. Una storia che tratteggia una giornata estiva, una domenica, passata tra mare e pranzi luculliani, ma il cui protagonista, un ragazzo handicappato, fa la spola tra il convitto e la casa della famiglia traghettato tra assistenti sociali disinteressati e genitori che risolvono la funzione affettiva ingozzando tutti e «due ore dopo è tutto finito. Mangiata la pasta con gli zucchini, la parmigiana, il pesce fritto, il pezzetto di caciocavallo, due fave, le percoche, le percoche nel vino, il vino senza percoche». Tutti i racconti si allestiscono attorno a un corto circuito che avviene con la realtà. Una realtà che per lo più sfugge o è completamente artefatta dai protagonisti, che spesso seguono mitografie inconsistenti nate dalla televisione o dai giornali. È proprio il disturbo che si crea tra il reale vissuto e quello immaginato che crea uno spazio di surrealtà, l’ipotesi di un mondo possibile che per lo più fa sorridere o, come abbiamo notato nel racconto intitolato ad Harrison, ci mette in sospensione, in attesa. Succede anche in Spigola, il racconto in cui cane e padrone conversano amabilmente fino al momento del pasto quando l’amata bestiola mostra la sua vera natura «ma lei non mi risponde più e ficca il naso nel sacco dei croccantini». Il riso amaro della solitudine, lo stridore di un mondo affollato in cui si è sempre in tempo a scambiarsi le parti e a chiamare un cane con il nome di un pesce.
A lezione dal “cattivo maestro” Pannella
on la pubblicazione di Le cose della vita (540 pagine, 24,00 euro), le edizioni Sugarco hanno completato la nuova riedizione dei libri antologici del giornalista e scrittore cattolico Vittorio Messori. Libri composti della ricca antologia tratta dagli articoli scritti da Messori per la rubrica Vivaio pubblicata per anni sulle colonne dal quotidiano Avvenire. I fatti della cronaca vengono letti da Messori come occasioni per delle riflessioni di lunga durata, in un’ottica di lettura cattolica della storia. È Messori stesso, nell’introduzione, a inquadrare il metodo e il senso del suo libro: «Nei frammenti sono quasi sempre partito dall’attualità fornita dalla pirotecnica fine degli anni Ottanta e dall’inizio dei Novanta del Novecento. Se dunque lo spunto per iniziare il discorso potrà sembrare talvolta datato mi sono sforzato che non lo fosse la riflessione sui fatti di una cronaca che qui ha lasciato il suo polline: sotto il quale spero resista un modo, un metodo per riflettere cattolicamente e dunque in profondo e durevolmente sul mistero della vicenda umana». Speranza e auspicio che le pagine di Le cose della vita non tradiscono. Un paio di esempi per dimostrare la freschezza del-
C
di Riccardo Paradisi le pagine di Messori. Il primo è la polemica che Messori incrocia con Geymonat, l’anziano filosofo marxista (scomparso nel 1991) che alla fine degli anni Ottanta, per difendere l’idea del comunismo morente, sostiene che ciò che è fallito non è il comunismo ma «un» comunismo. Non insomma il comunismo ideale, quello vero, quello che lui ha in mente. A conforto della sua tesi Geymonat aggiunge: «Non solo il comunismo, pure il cristianesimo, tutte le volte che si è storicamente realizzato, non ha coinciso con gli ideali di Cristo». Argomentazione capziosa, risponde Messori, perché la riuscita del cristianesimo non è anzitutto sociale, la sua riuscita è soprattutto personale. «Non a caso il successo del Vangelo non è lo Stato pontificio o qualche presunto regno cristiano ma è il santo. È in costui che il messaggio di Cristo si realizza storicamente». Partita chiusa a favore di Messori grazie a un’argomentazione ferrea e al tempo stesso ispirata. Utilissima ancora oggi visto che gli attacchi al cristianesimo, dopo Geymonat, si sono moltiplicati divenendo quasi ossessivi.
In “Le cose della vita”, uno dei libri antologici di Messori, il ritratto spietato del leader radicale
Il secondo esempio riguarda il ritratto spietato e lucidissimo che Messori fa dei radicali e di Marco Pannella. Per Messori Pannella è un nichilista dai modi suadenti, un politico e un ideologo che col suo partito radicale ha messo a tema molte battaglie per i diritti civili come lui le chiama, che per Messori sono invece, quasi sempre, battaglie di morte: l’aborto, la legalizzazione delle droghe, l’eutanasia. Eppure se dell’ideologia radicale, la più compiuta ideologia di questo mondo, deve essere respinta in toto è dal metodo pannelliano che i cristiani e i cattolici, dovrebbero molto imparare. «Dobbiamo essere consapevoli - dice Messori - che, per vocazione, siamo e sempre saremo minoritari. Ma dobbiamo anche renderci conto che si può essere minoritari senza essere marginali. Questa è la lezione impartitaci da Pannella sorretto soltanto da un piccolo gruppetto con pochi mezzi e un’organizzazione risibile che è riuscito a imporre più e più volte l’agenda a lui gradita». Perché nel bene e nel male le cose sono decise e imposte da minoranze attive. I pochi possono convincere i molti, ma solo se quei pochi hanno un pensiero, una visione del mondo. «Proprio ciò che manca ormai da decenni a troppo cattolicesimo. Bien penser pour bien agir, diceva Pascal: è il pensiero che guida l’azione».
L’intervista
MobyDICK
a nostra civiltà per salvarsi si deve liberare da ciò che la corrode: la fine dei grandi valori umanistici e il trionfo del nichilismo, della cupidigia di danaro, dell’ideologia del successo a tutti i costi. È tempo di recuperare la nobiltà di spirito di cui portavoce e incarnazioni sono alcuni grandi: da Socrate a Spinoza, da Walt Whitman a Thomas Mann. È un’illusione retrò? No, secondo il filosofo Rob Riemen è una necessità improcrastinabile. Per sostenere questa tesi ha scritto un libro che sta raccogliendo un grande successo: è stato già tradotto in 10 lingue. S’intitola proprio La nobiltà di spirito (Rizzoli) ed è una sfida ai conformismi della nostra epoca in nome della cultura e dell’etica. Nel pantheon dei grandi «inattuali» a cui ritornare, Riemen mette anche un intellettuale italiano, purtroppo poco ricordato in patria. Si tratta di Leone Ginzburg. Per quali vie il saggista olandese, cofondatore di Nexus, luogo d’incontro dei principali uomini di cultura del mondo, è approdato a uno degli eroi dell’antifascismo italiano? Professor Riemen come è nata la sua passione per Leone Ginzburg? Ho invitato per una conferenza a Nexus Carlo Ginzburg e ho fatto una ricerca per capire meglio chi fosse e da dove venisse. Mi sono così imbattuto prima in sua madre e poi in suo padre. Ho letto l’ultima lettera di Leone a Natalia che si conclude in modo per me folgorante: «Sii coraggiosa». Quelle due parole finali mi hanno colpito profondamente: quante volte leggiamo una lettera d’amore fra un uomo e una donna che contiene l’esortazione a essere coraggiosi? Stimolato da quella straordinaria missiva, ho cercato di saperne di più e ho scoperto la grande personalità di Leone Ginzburg, che mi è apparso come un esempio fulgido di quello che era l’umanesimo europeo. Il problema della società di oggi è che abbiamo creato una cultura fatta di menzogne. Riteniamo che la grandezza sia rappresentata dalla ricchezza, dalla celebrità, dalle cose di cui è espressione Berlusconi. Ci siamo dimenticati perché Ginzburg dedicò la sua vita alla lotta per la libertà. Lo fece perché aveva capito in profondità il significato della parola cultura. Nella prefazione al suo libro, George Steiner scrive: «Il nostro è il mondo di Galileo e di Darwin. La sfera della parola (il logos) a cui questi testi si rivolgono in accorata celebrazione, si sta restringendo». Non c’è dunque speranza per la sua sfida? Steiner ha ragione. Ed è proprio per questo che ho scritto il libro. Credo che se non riscopriremo i grandi valori umanistici perderemo il senso della dignità della vita. Il senso della vita si fonda su tre cose: saper dire la verità, fare giustizia e creare bellezza. Ecco cosa avevano capito Socrate, Mann, Ginzburg e gli altri grandi che menziono. Nel bellissimo romanzo di Vasilij Grosmann, Vita e destino, il protagonista si batte per tutta la vita contro lo stalinismo.Verso la fine del libro però riceve una telefonata da Stalin in persona che gli assicura tutti i finanziamenti di cui ha bisogno. Il giorno dopo gli viene chiesto di sottoscrivere accuse tanto pesanti per quanto false
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ALTRE LETTURE
PRETI PEDOFILI ATTACCO A RATZINGER di Riccardo Paradisi
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a tragedia dei preti pedofili ha fatto più danni alla Chiesa delle grandi persecuzioni, di cui pure la storia è piena. La colpa anzitutto, è degli stessi preti pedofili, «vergogna» e «disonore» per la Chiesa secondo le parole del Papa. In Preti pedofili. La vergogna, il dolore e la verità sull’attacco a Benedetto XVI (San Paolo, 96 pagine, 8,00 euro) Massimo Introvigne si chiede come una vicenda simile sia stata possibile nella Chiesa e dalla realtà dei preti pedofili Introvigne distingue l’amplificazione del loro numero attraverso statistiche fasulle e il sospetto generalizzato gettato sui sacerdoti nel loro insieme, sulla Chiesa e su Benedetto XVI da una lobby laicista, i cui argomenti sono smontati con dati scientifici e argomentazioni solide.
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Nobili di spirito, voi vi salverete
LEONARDO SCIASCIA SECONDO MACALUSO *****
Incontro col filosofo Rob Rieman, autore di un libro (già tradotto in 10 lingue) che sfida i conformismi della modernità in nome dell’etica e della cultura. Proponendo un “pantheon” di riferimento in cui compare anche Leone Ginzburg. Una singolare idea di umanesimo da cui viene escluso il messaggio cristiano di Gabriella Mecucci
manuele Macaluso è stato un grande amico di Leonardo Sciascia, un’amicizia percorsa anche da polemiche roventi ma che ha retto fino alla morte del grande scrittore siciliano. Grazie a questo rapporto Macaluso in Leonardo Sciascia e i comunisti (Feltrinelli, 157 pagine, 14,00 euro) ha la possibilità di ripercorrere con un’ampia documentazione e con inedite interpretazioni l’itinerario politico di Sciascia attraverso il suo impegno letterario e civile: dalle polemiche suscitate dal Giorno della civetta fino a quelle innescate dall’articolo sul Corriere della Sera sui professionisti dell’antimafia, negli anni Ottanta, passando per le tappe del percorso politico di Sciascia, dalle candidature e le elezioni negli organismi locali nelle liste del Pci a quella nel partito radicale.
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contro i suoi colleghi. Firma e così li con- avendo scelto come testimoni di ciò che danna al gulag. Ha corrotto la propria ani- voglio proporre personaggi come Socrate ma. Non vive più nella verità. o come Thomas Mann, che alla fine della A questo proposito, lei verso la fine vita divenne sempre più un uomo religiodel suo libro fa incontrare a Ginzburg so, o come Camus, non avevo bisogno di una sorta di Grande Inquisitore… trovarne altri legati al cristianesimo. La Si tratta di un sacerdote fascista che lo in- Chiesa cattolica, poi, in questo momento vita ad adattarsi, ad accettare le cose come è circondata da un aurea tutt’altro che posono. Così tutto andrà bene per lui. Ginz- sitiva a causa dei terribili scandali sessuaburg non ha nessun argomento razionale li che sono emersi.Vorrei farle notare che da contrapporre. È vero infatti che se si tali fatti hanno conquistato le prime pagiadeguerà all’esistente avrà una vita tran- ne di tutti i grandi giornali e solo in Italia quilla. Ma lui si ispira a un altro principio: le notizie sono state date in tono minore. mai venir meno al dovere della verità. Per- Di fronte a questo orrore sarebbe stato cino alle scelte degli Usa, qual è la ché la realtà è ciò che siamo ora, la verità è controproducente tirare in ballo la tradisua opinione? ciò a cui dobbiamo arrivare. È un ideale. zione cattolica e, comunque, io non ne ho La grande menzogna di oggi è che fare sentito alcun bisogno. Penso poi che la Ho come punti di riferimento personalità una vita piacevole sia sufficiente, che basti. Chiesa di Roma ha accantonato ogni for- come Martin Luther King e i movimenti Non è così. La comunità degli intellettuali ma di umanesimo cattolico. E ritengo Jo- per l’ambientalismo e per l’affermazione umanisti europei, sebbene piccola, sebbe- seph Ratzinger uno dei principali colpe- dei diritti umani. Sono per cambiare la sone in minoranza, è riuscita in passato a te- voli di questo indirizzo. Anzi forse è pro- cietà ma con metodi non violenti. Osama stimoniare che cosa significa essere uomo. prio lui il Grande Inquisitore. Bin Laden e quelli come lui ammazzano inOggi, la comunità degli intellettuali postNon condivido quest’ultimo giudizio, vece degli innocenti. Ciò detto noi sappiamoderni sostiene che, poiché non esiste ma lo riferirò fedelmente. La mia ul- mo benissimo ciò che non va nella nostra una verità assoluta, dobbiamo accontentima domanda riguarda l’11 settem- società. Nutro moltissime preoccupazioni e tarci di vivere nel benessere.Abbandonare bre. Lei riporta nel suo libro due pa- il mio prossimo libro s’intitolerà L’eterno rila tensione verso la verità e imboccare la reri opposti: uno fortemente critico torno del fascismo. Ciò detto, abbiamo costrada dell’acquiescenza alla menzogna. verso Bush e l’America, l’altro più vi- se importanti come la libertà d’espressione e di parola. Abbiamo uno spazio Professore, lei parla di etica, per costruire il cambiamento. Ho di verità, perché fra i grandi orrore per chi ha indulgenza - cerintellettuali umanistici eurote volte questa tendenza affiora pei non ne cita nemmeno anche fra gli intellettuali socialdeuno che sia cristiano? Innanzitutto, io ho un retroterra mocratici, alla cui area mi sento da teologo: ho studiato teologia vicino - verso chi ha ucciso tremiper dieci anni. Tuttavia vivo nei la innocenti. Come intellettuali, di Paesi Bassi, uno dei luoghi più fronte al relativismo e al nichililaici del mondo. Se io avessi tensmo dobbiamo dire che nella notato di collegare il mio messagstra società ci sono dei valori mogio al cattolicesimo o al cristiarali e noi lottiamo per questi. Il nesimo, lo avrei condannato almio libro è una sorta di grido che Sopra, Leone Ginzburg (secondo da sinistra) con Cesare Pavese, l’irrilevanza. In secondo luogo, sgorga dal cuore. Franco Antonicelli e Augusto Frassinelli negli Anni Quaranta sulle colline delle Langhe. In alto, il filosofo Rob Rieman
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di Jacopo Pellegrini ogliamoci subito il rospo dallo stomaco, che non è mica facile scrivere un articolo con un batrace grosso così piazzato in fondo all’esofago. Si chiama Festival Verdi e a dar retta alla locale Gazzetta farebbe della città padana il centro nevralgico del melodramma, la Salisburgo italica. Ma al di là della spocchia campanilistica, siamo pur sempre nel Paese del melodramma, com’ebbe a battezzarlo Bruno Barilli, in una località dove il giorno della prima e quello seguente non si parla d’altro che dell’opera rappresentata al Regio; anche chi non c’è stato o non l’ha vista in tivvù (ambo le reti cittadine la trasmettono in diretta) vuole dire la sua. Siamo, l’avrete capito, a Parma, dov’è di scena Il trovatore. Tutti, dico tutti - direzione artistica, direzione d’orchestra (nientemeno che Yuri Temirkanov), regia (Lorenzo Mariani) accondiscendono a un «vezzo» sedimentato nella prassi esecutiva, ma non previsto dall’autore: alla fine dell’Atto II, quando Leonora intona per la seconda volta da sola la frase «Sei tu dal ciel disceso, o in ciel son io con te?», il tenore raddoppia il soprano. Vezzo, oltretutto, privo di senso logico, giacché Manrico sa benissimo di non essere disceso dal cielo ecc. ecc., e drammaturgico, trattandosi d’un sommovimento interno della donna, d’un pensiero espresso «a parte», non d’un proclama pubblico. Una gaffe tanto madornale mal s’attaglia all’idea di una rassegna spettacolare dalle ambizioni internazionali e alla presenza di una bacchetta insigne qual è Temirkanov. Meno m’inquieta il taglio della ripresa nelle cabalette: se il tenore non vuol fare il «da capo» in «Di quella pira», preoccupato dai due do di petto imposti da un’altra tradizione ineludibile (si naturali, prego: Marcelo Alvarez la esegue mezzo tono sotto), è ragionevole e opportuno eliminarli tutti. Alle prese con un’orchestra piena di zelo, ma tutt’altro che immacolata, e con un coro davvero buono, il maestro russo persegue un Trovatore nel quale indugi cantabili e violente scariche di energia vengano ricondotte
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Televisione
Opera
MobyDICK
spettacoli DVD
Voci mancanti
e vezzi imbarazzanti
NERONE, INCENDIARIO PER PASSIONE CIVILE raxi e de Gaulle, Cavour e Garibaldi, Pio XI e Lutero. Per li rami della storia, gli studi revisionisti sono discesi fino alla Roma imperiale. La riabilitazione stavolta riporta in auge Nerone, per duemila anni pacificamente ritenuto un folle sanguinario e depravato. Ritratto non del tutto fedele, che viene tratteggiato di nuovo in Nerone salvatore di Roma. Alla luce delle ultime scoperte, l’imperatore incendiario organizzò una vasta operazione di assistenza agli sfollati, decise efficaci interventi nell’economia della capitale per risollevarla e avviò un imponente piano di ricostruzione. Il falò ci fu, insomma, ma a fini urbanistici.
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MEDIA
RADIOSCA, A SCAMPIA C’È UNA NUOVA SINTONIA
Yuri Temirkanov che ha diretto al Regio di Parma “Il trovatore” e assoggettate a una tensione sotterranea e tuttavia chiaramente percepibile, ottenuta mediante la sottolineatura dei disegni affidati agli strumenti gravi dell’orchestra, disegni spesso riconducibili alla sfera dell’ansia, del turbamento, della paura (tremoli, ribattuti, rulli di timpano). Il tutto potenziato dall’accuratezza nel riprodurre le indicazioni dinamiche di Verdi, più inclini al piano che al forte. Di qui a scambiarlo per un Trovatore esclusivamente lirico, «notturno» come usa dire, il passo sarebbe breve, a non prestare la dovuta attenzione a queste serpeggianti striature nere, alle fosche notturne spoglie sonore, che attraversano e unificano la partitura. E poi, almeno nel corso della prova generale (alla quale si riferiscono queste impressioni), non si può dire che i luoghi deputati mancassero di vigore o
incisività, né che i tempi fossero inclini alla stasi. Il trovatore, però, vuole soprattutto voci; e su questo fronte Temirkanov e i parmigiani (abbandonatisi a contestazioni furibonde) non hanno avuto fortuna. Troppo inferiore alla parte Marianna Tarasova (Azucena); Teresa Romano, Leonora del secondo cast (ma la titolare Norma Fantini dopo la prima si è data alla macchia), è da sperare che non voglia accontentarsi di un bel timbro ingolfato da una tecnica difettosa; Alvarez ha il colore carezzevole e sensuale che sappiamo, ma, parafrasando una ben nota lettera di Verdi, canta come sessant’anni fa, mentre io vorrei che cantasse (e agisse) come un artista d’oggi o, meglio, di domani; il veterano Leo Nucci, giunto in extremis a sostituire un collega ammalato, riscuote i dividendi dell’esperienza e della scaltrezza.
on solo droga e camorra a Scampia,dove è nata da pochi giorni una nuova emittente radiofonica gestita da giovani allo scopo di promuovere l’aggregazione sociale. Si chiama RadioSca e trasmette sul web dai locali di piazza Telematica di via Labriola. «RadioSca nasce dalla voglia di vivere Scampia come si vive in un qualsiasi altro quartiere della città – spiega l’ideatrice del progetto Laura Russo – come si vive in qualsiasi altro posto del mondo. Per condividere con gli altri il mio naturale modo di stare a Scampia». Playlist h24, intrattenimento e giovani volenterosi: un progetto che nasce dal basso, che merita attenzione.
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di Francesco Lo Dico
“Caternoster” e le ambizioni malriposte di Rai 3 gni tanto Rai 3 rotola nel vecchiume, mantenendo l’ambizione (e questo è peggio) di innovare e di provocare. La discesa nel girone dei luoghi comuni si accentua se il repertorio è, o vuole essere, comico. Siamo tra gli «impegnati», quindi il comico «deve» avere una valenza socio-politica. Guai alla risata slegata dal ruggito della missione. Esempio di tutto questo è Caternoster. Sottotilolo: L’ultima messa… in onda. Scelta lessicale penosa prima ancora d’essere volgare (e offensiva per molti). In studio Massimo Cirri (noto alla radio per Caterpillar) e Filippo Solibello, ragazzo occhialuto che più che far la spalla ha il compito di spiccicare due o tre frasicerniera, con quel sorrisetto d’ordinanza che significa «noi la sappiamo lunga e chi non apprezza è un cretino o un tardoconservatore». Ospite di turno Marina Salomon, imprenditrice sfiduciata dalla politica, donna arguta che s’impegna a
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di Pier Mario Fasanotti pronunciare verità sentite e risentite migliaia di volte. A proposito del ruolo marginale delle donne in Italia, il ritornello è sempre il medesimo: «La politica è molto più vecchia della gente, e anche del mondo produttivo». Lo spunto è il prossimo ballottaggio per la presidenza in Brasile. Vincerà una donna, la delfina del presi-
diacitorio» al posto di «Montecitorio». Qualche buona battuta la fa, ma non riesce a staccarsi dal suo repertorio a senso unico. La prevedibilità è l’opposto dell’umorismo. In studio l’eterno Rai 3 David Riondino con la sua chitarra. Francamente muove a tristezza: pare uno di quegli intrattenitori chiamati dagli amici
dente Lula. Josè Altafini, ex calciatore, ha il compito di reporter-commentatore, e mischia linguaggio politico e fraseggio sportivo. Risultato scadente. Il comico Antonio Cornacchione fa l’inviato dal futuro, e ovviamente ci parla di Berlusconi, «presidente del Consiglio d’amministrazione della società Italia» (non più sSato ma azienda). Sullo sfondo la scritta «Me-
per aiutarlo nel sorreggere la sua autostima. Un altro «inviato dal futuro» (2018) ci parla del nuovo Papa, Ernesto I, il cattocomunista che ha vinto le elezioni (proprio così) contro Raztinger. Nuovo incarico per il disegnatore Vauro, un altro sempre-presente di Rai 3: ridisegnare la Cappella Sistina, «per volere di sua comunisticità». Peccato che a sorridere in studio
ci sia don Gino Rigoldi, il quale si sbilancia: «Be’, un Papa più comunista di quello che c’è oggi sarebbe una speranza». Per fare quello che è sempre immerso nella comunità giovanile, racconta di una maglietta che alcuni ragazzi gli hanno regalato. Con questa scritta: «Dio c’è ma non sei tu, rilassati». Già sentita. I riferimenti all’America li fa Franco Di Bella, seduto su poltrona rosso fiamma (già vista pure quella).Altro ospite è Antonio Padellaro. Quale domanda porgli? La solita: ci spieghi il grande successo del quotidiano Il fatto. Ennesimo spot pubblicitario, con lui a dire le stesse cose e a enfatizzare l’«euforia» e la libertà nella sua redazione (ci sono molte colleghe donne: per carità, chi l’avrebbe mai dubitato!). Il conduttore è Cirri, come abbiamo detto. Spigliato pur se ripetitivo alla radio, per nulla comunicativo sullo schermo. Dovrebbe accorgersi di questo handicap, visto che ha studiato Psicologia.
MobyDICK
poesia
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Pound e la babele della modernità O
Nato nel cuore degli Stati Uniti nel 1885, mostrò da subito grande interesse verso quelle lingue e culture romanze che avrebbero dato linfa alla sua attività di poeta. L’Europa, e l’Italia in particolare, rappresentano ai suoi occhi la culla ideale per l’espressione poetica. Giunge in compagnia del padre a Venezia una prima volta nel 1898 e ritorna definitivamente in Europa nel 1907. Nella città lagunare, poi, pubblica l’anno dopo a sue spese la prima raccolta di versi (A lume spento, emistichio di un verso dantesco). Si stabilisce a Londra, conosce Yeats, poeta già affermato, e nel 1914 dà corpo all’Imagismo, una corrente poetica che s’innesta nel fervore di quei primi del Novecento così ricco di propositi tesi a cambiare alle radici la poesia. Sono per lui anche gli anni delle iniziali conoscenze della cultura cinese e di pubblicazioni che si susseguono l’una dietro l’altra in un febbrile lavorìo. Tra il 1921 e il 1924 si stabilisce a Parigi dove si erge a paladino delle avanguardie artistiche e di più giovani autori dei quali intuisce la grandezza: il già citato Eliot ma anche Joyce, sul quale produrrà una sostanziosa elaborazione critica. Ma per Pound, preso tra gusto orientaleggiante e grandezza degli stilnovisti italiani, Dante in particolare, sono gli anni di composizione dei Cantos, avviati nel 1916. Intuisce da subito che si tratta dell’opera che lo terrà impegnato per tutta la vita. La sfida è titanica, ma non si spaventa. E per dare corso al suo progetto avverte di dover stringere un «patto» con un grande padre della poesia americana. In Lustra (1915) getta le fondamenta di questo riavvicinamento: «Stringo un
il club di calliope
Io, proprio io, sono colui che conosce le strade Del cielo, e di vento è fatto il mio corpo. Ho veduto la Signora della Vita, Io, proprio io, che volo con le rondini. Verde e grigia è la sua veste, Trascinata dal vento.
di Francesco Napoli ggi si riconosce a La terra desolata di Thomas Stearn Eliot un valore fondamentale nella poesia del Novecento. E alla teoria del «correlativo oggettivo» teorizzata dal suo autore, una posizione predominante in alcune poetiche novecentesche anche italiane, da Montale a Luzi, da Mussapi a Conte. Eppure l’importante poema ha avuto una sua composizione alquanto travagliata, così come confessa lo stesso Eliot che nel 1922 a Parigi consegnò a Ezra Pound «il manoscritto di un poemetto disarmonico, caotico, chiamato The Waste Land che uscì dalle sue mani, ridotto a circa metà della sua lunghezza, nella forma in cui appare stampato». Pound, dunque, è stato vigile maestro di un nume del Novecento al quale riservò ben più di una lezione. E sì, perché forse la più grande passione di Pound, accanto naturalmente alla scrittura, è stata la didattica. Insegnare gli piaceva e gli è sempre piaciuto avere un ruolo di guida, e anche la figlia Mary de Rachelwitz in diverse interviste ricorda quel loro rapporto quasi sempre più da docente-discente che da padre-figlia.
DE AEGYPTO
patto con te, Walt Whitman./ Ti ho detestato ormai per troppo tempo». Mentre i Cantos vanno componendosi su un dichiarato modello dantesco di sottofondo, Pound non sembra in grado di resistere all’uso eccessivo del montaggio, a una sorta di processo creativo che procede per accumulo seriale di materiali diversi e di tradizioni lontane tra loro. Insieme a quella trobadorica a Cavalcanti e a Dante, mette in circolo anche altre disparate suggestioni: Corbière, Laforgue e Gautier da un lato, innesti di sanscrito e altre lingue con scrittura musicale e teorie economiche (come nel canto XLV, dedicato all’usura, e tra i più compiuti), e annotazioni storico-politiche e molto altro ancora. Può essere il tentativo di mettere in evidenza la babele linguistico-culturale della modernità? Forse, ma c’è ancora una patina classicheggiante che smalta i Cantos decisamente graffiata e usurata dal tempo. Nonostante questo apparente carattere retrogrado della sua poesia, Pound suscitò un interesse immenso tra i poeti a lui coevi o appena successivi. In Italia poi, dove si stabilì dal 1925 in avanti, in pianta pressoché stabile tra Rapallo e Venezia, occupò un ruolo tutt’altro che marginale se a cimentarsi nella traduzione dei suoi versi sono stati poeti come Bertolucci, Giudici, Margherita Guidacci, Montale, Quasimodo, Sanesi, Sereni e Ungaretti, e se alla sua azione letteraria intrisa di autonomia di pensiero e volontà di rottura hanno probabilmente guardato negli anni Settanta Roberto Mussapi, Giuseppe Conte e l’area vicino alla rivista Niebo, arrivando infine a suggestionare in qualche misura il giovane Alessandro Rivali in La caduta di Bisanzio (2010).
Io, proprio io, sono colui che conosce le strade Del cielo, e di vento è fatto il mio corpo. Manus animam pinxit, Nella mia mano è la penna Per scrivere la parola accettabile … La mia bocca per cantare il canto puro! Chi ha bocca che lo riceva, Il canto del Loto a Kumi? Io, proprio io, sono colui che conosce le strade Del cielo, e di vento è fatto il mio corpo. Sono la fiamma scaturita dal sole, Io, proprio io, che volo con le rondini. La luna è sulla mia fronte, I venti sotto le mie labbra. La luna è una grande perla in acque di zaffiro, Fresca sotto le mie dita scorre l’acqua. Io, proprio io, sono colui che conosce le strade Del cielo, e di vento è fatto il mio corpo. Ezra Pound da Personae
Resta ancora un vistoso nodo critico e biografico da sciogliere. Alla vigilia della seconda guerra mondiale, dopo che aveva certamente avuto stretti contatti con il regime di Mussolini, cercò di allentare la tensione tra Italia e Stati Uniti ma invano. Nel 1945, all’arrivo delle truppe americane, viene rinchiuso in un carcere militare vicino Pisa. Ha in tasca il suo amato Confucio e dopo settimane di stretto isolamento gli viene concesso di scrivere. Nascono in questa cattività i Pisan Cantos. Processato poi negli Stati Uniti, si scatena, all’indomani della re-
clusione in un manicomio criminale, un’accesa polemica sul suo «caso» e sui suoi meriti letterari: fascista e antisemita, l’accusa, ma già nel 1949 gli viene conferito l’importante Premio Bollingen. Nel 1958 viene rilasciato, anche su pressione di intellettuali e scrittori. La sua terra è ormai l’Italia dove gli si riconoscono almeno in parte i meriti letterari che ha. Voleva essere giudicato per un’idea alla volta, idee alle quali non è venuto meno in termini di coerenza, anche letteraria. Sull’opera c’è ancora da discutere e leggere. Lui, l’artista, il suo l’ha fatto: «l’interpretazione la deve lasciare ad altri e al futuro» (Jung).
IL MARE, L’AMORE E ALTRI ANIMALI in libreria
Tutti i sapori che ricordo non mi basteranno fino alla fine, vedrai, che dovrò aggiungerne altri. Oramai vecchio dovrò masticare e inghiottire e continuare a chiedermi a interrogare le mie facoltà, incurante (farò finta, naturalmente) che siano disperse, tutte, nel giardino che circonda il palazzo. Davvero, ricorda quello che ti dico: mi perderò in continuazione. Userò il fischietto che usava lo zio e andrò avanti fra i vialetti. Crederò (farò finta, naturalmente) che tutto questo sia continuare una dinastia. Sarò piccolissimo, vedrai. Pier Damiano Ori
di Loretto Rafanelli
osita Copioli ci sorprende con questi nuovi versi e mostra di sapersi ancora una volta rinnovare» dice Maurizio Cucchi nella prefazione di Animali e stelle (Stampa, 8,50 euro), il lavoro poetico che segue il mondadoriano Il postino fedele; un giudizio che condividiamo appieno, perché questo esile libretto mostra, a nostro avviso, uno dei migliori esiti della poetessa riminese. La Copioli, qui, allenta i toni lirici, e assume un linguaggio piano e un poco prosastico, che dispone in modo perfetto la materia trattata, fatta di mare, d’amore, di animali (dal riccio alla tarantola
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mauritana). Ci sono anche componimenti dove c’è una forte denuncia morale e sociale, come in una bella poesia ispirata al filosofo Ivan Illich, «che parlò con l’assolutezza del disperato dell’ispirato/ di tutti i cancri del Novecento». Nell’ultima parte, alcune luminose poesie d’amore, uno dei temi privilegiati della Copioli, dai toni più lievi rispetto al passato, ma molto intense, come in questi versi finali: «Ma brilla la stella/ della carne ancora,/ perché mi chiedi/ di accendere la luce./ Non vedi che sale il chiarore/ è ancora seta,/ percorsa, come non fu,/ da una forza strana,/ diversa».
ai confini della realtà I misteri dell’universo
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i tempi in cui io frequentavo le scuole elementari, medie e superiori valevano ancora abitudini poi considerate da sapienti pedagoghi come follie. Fra queste l’imparare a memoria le tabelline (i miei studenti universitari non sanno moltiplicare due numeri a mano, un amico che costruisce lampadari assume solo operaie dell’Est perché sanno ancora fare i conti a memoria), lo studiare nella geografia i nomi degli Stati, dei fiumi, dei monti (per i miei studenti la distanza fra Bergamo e New York fu stimata, dall’unico che ebbe il coraggio di rispondere, intorno ai 300 km), e di imparare i fatti della storia antica, in particolare romana, di quella Roma che ebbe gravi difetti ma fu anche il più straordinario successo del popolo italiano. Quindi nelle elementari si parlava dell’invasione dei Galli, prima di quella dei Celti che guidati da Brenno giunsero alle porte di Roma e furono respinti grazie agli schiamazzi delle oche, e poi di quella ancora più pericolosa del 225 a.C., quando centinaia di migliaia di Celti discesero per la penisola verso Roma. Circostanza che fu affrontata da quell’esercito romano straordinario per disciplina, audacia e competenza dei generali alla sua guida, che nei pressi di Talamone fermò gli invasori in una delle più sanguinosa battaglie dell’antichità.
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Ma i Celti non si erano mossi solo contro l’Italia. Partendo probabilmente dall’Europa centrale - la loro presenza era nota dai confini della Spagna sino alle pianure della Russia, con un grosso nucleo nella Boemia di oggi - molti si spostarono lungo il Danubio verso il mar Nero, entrando nella penisola anatolica occidentale. Qui si installarono nel territorio poi noto come Galazia, dove la città principale era oggi Ancyra, Ankara. Conquistato dai romani nel 70 AD, poco prima della rivolta di Gerusalemme, fu uno dei luoghi importanti della predicazione paolina. La lingua celtica lì parlata si conservò sino al tempo di Girolamo, contemporaneo di Agostino, e quindi sino agli inizi del quinto secolo. Girolamo osservò infatti che avevano una lingua assai simile a quella
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Ecco perché i Celti
marciarono contro Roma di Emilio Spedicato che ancora si parlava in Germania dalle parti di Treviri.Perché queste due importanti migrazioni, una fermata dal braccio inesorabile delle legioni romane, l’altra che portò alla formazione di un popolo in un territorio lontano migliaia di chilometri da quello originario, popolo che per secoli conservò la sua lingua? In passato mai si pensò a spiegare la prima con cause precise. Ora questa spiegazione si offre come conseguenza di
suolo della regione, è assai recente, e chi ne parla ne è venuto a conoscenza durante il convegno organizzato ogni anno dal Centro sugli studi di Quantavolution, fondato dal professor Alfred De Grazia, a 90 anni ancora una persona in piena attività scientifica. La comunicazione è stata data dal professor Gunnar Heinsohn, dell’Università di Brema, noto in particolare per la sua critica spietata a vari aspetti delle cronologie ufficiali, fra
Un oggetto celeste, esploso in Baviera nel terzo secolo a.C. o nel quinto, spiegherebbe le due grandi migrazioni, verso l’Italia e verso l’Anatolia, del popolo nordico. Un evento di una potenza devastante portato alla luce da una recente scoperta geologica una importante e imprevista scoperta geologica: la Baviera meridionale fu il luogo dove un oggetto celeste, del tipo esploso in Siberia sul fiume Tunguska Petrosa il 30 giugno 1908, esplose devastando migliaia di chilometri quadri, terrorizzando i sopravvissuti su un territorio esteso per un terzo della Germania di oggi, lasciando le sue tracce in una serie di laghi poco profondi che caratterizzano la regione bavarese a sud di MonaQuesta co. scoperta, basata sull’analisi di foto satellitari e resti dell’oggetto individuati come sferule microscopiche nel
cui la sua affermazione, certo da prendersi con le pinze, che la storia medioevale sia stata artificialmente allungata con la duplicazione di dinastie. Heinsohn è figlio di uno dei grandi ammiragli del Reich, dell’uomo che diede materialmente inizio alla seconda guerra mondiale sparando il primo colpo di cannone contro la Polonia. E la moglie di Gunnar è ora una polacca di Danzica...
Nella Baviera è noto da molto tempo il cosiddetto cratere di Ries, sito vicino alla cittadina medioevale (una delle poche in Germania! la guerra dei trent’anni distrusse quasi tutto, compreso tre quarti della popolazione...) di Nördlingen, circondata da mura, facente parte del cosiddetto itinerario della Romantische Strasse. Questo cratere è molto antico, si stima originato da un impatto di 15 milioni di anni fa. La sua struttura è ben
visibile, sebbene sia ampiamente colmata da sedimenti depositatisi negli anni successivi alla sua formazione. L’evento legato alla migrazione dei Celti invece è associato a un’ottantina di crateri poco profondi situati appena a Nord delle Alpi, il più grande dei quali ingloba il lago di Tüttensee, di circa mezzo km di diametro e profondo meno di venti metri. La datazione dell’evento, fatta sulla base di radiocarbonio e materiale archeologico, lo collocherebbe fra il 500 e il 200 a.C. La zona è oggetto di studi da parte di un gruppo di ricerca sull’impatto del Chiemgau, nome della regione dove l’evento avvenne. La scoperta è assai recente e quindi restano ampi dubbi da risolvere. L’energia dell’evento è stimata simile a quella dell’oggetto Tunguska, per il quale è ora accettata una stima di circa 50 MT, ovvero milioni di tonnellate di tritolo, ovvero l’energia prodotta dall’esplosione di 50 bombe all’idrogeno da un megatone (tale fu l’energia della superbomba che Kruscev fece esplodere sulla penisola del Taymir nella Siberia occidentale). Un evento del genere avrebbe devastato varie migliaia di km quadri della regione, che era alquanto popolata allora, portando forse alla morte un centinaio di migliaia di persone. Avrebbe terrorizzato le genti nel raggio di centinaia di chilometri, portandole alla decisione di allontanarsi da un luogo visto come oggetto di ira di qualche divinità. E quindi si spiegherebbero le migrazioni verso l’Italia e l’Anatolia, se l’evento avvenne nel terzo secolo a.C., o quella di Brenno se l’evento avvenne nel quinto secolo...