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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
Elementi per una nuova letteratura
IL ROMANZO
IERI OGGI E DOMANI di Pier Mario Fasanotti
acchilide era un poeta greco coetaneo del più celebre Pindaro. Della so ormai disinvolto dell’elettronica pone quesiti nuovi. Già Singer asseriva sua vastissima produzione ci è rimasto purtroppo poco. Nel 450 con straordinaria lucidità che «più avanza la tecnologia, più le persone Entusiasmi a.C. scrisse: «Un autore rubacchia il meglio da un altro e lo saranno interessate a quello che saprà produrre la mente umana chiama tradizione». Il commediografo romano Terensenza l’ausilio dell’elettronica». La frase viene riportata nella e critiche zio (circa 160 a.C.) sosteneva che «è impossibile dire ripubblicazione di alcuni importanti saggi comparsi su ha suscitato in America qualcosa che non sia già stato detto». Queste due ciThe Paris Review (a cura di Philiph Gourevith, Fantazioni servono a rinfrescare la memoria sul dango editore). In essi ricompare quanto Faulkil libro di David Shields fatto che il ragionare sulla scrittura, sia ficner disse a proposito del suo «mestiere»: (ora pubblicato in Italia) che ribalta tion sia saggistica, è un’attività antica. Che, «L’artista è completamente amorale, per cui la prospettiva tradizionale visto che l’interrogarsi continua, ha inevitabilnon esiterà a rapinare, prendere in prestito, elemente lasciato domande aperte. In questi ultimi anni si mosinare o rubare da tutto e da tutti, pur di portare a della narrazione. All’insegna è ripresa in mano l’affermazione secondo cui «il romanzo è termine la sua opera». Lo stesso concetto è stato ribadito del copia-incolla morto». Ma più seriamente, in questi mesi, s’infittisce la discusda altri in tempi diversi. Picasso: «L’artista è un ladro». Eliot: «I sione attorno all’opera narrativa, alla sua essenza, a come è stata fibravi poeti citano, i grandi rubano». Emerson: «Il genio prende edunora, a come è oggi e a come potrebbe essere domani o dopodomani. L’ucatamente in prestito».
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Parola chiave Roma di Sergio Belardinelli La via crucis del Duca bianco di Stefano Bianchi
NELLA PAGINA DI POESIA
Il cuore indomito del moderato Carducci di Filippo La Porta
Una lettera inedita di Ungaretti a De Gasperi con interventi di Leone Piccioni e Mauro Canali
“Fair game” un’occasione mancata di Anselma Dell’Olio
Islam, la geometria al servizio del divino di Guglielmo Bilancioni
il romanzo ieri oggi e
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Sulle orme di Keats eterno apprendista he ne pensa del romanzo, o del futuro del romanzo, Zadie Smith, una delle più brillanti scrittrici inglesi? È importante, anzi essenziale, dar retta a chi suda sul computer. L’autrice di Denti bianchi, L’uomo autografo e Della bellezza (tutti editi dalla Mondadori) è nota anche per la sua affilata intelligenza. L’editore minimum fax ha appena mandato in libreria una sua raccolta di saggi (Cambiare idea, 422 pagine, 19,00 euro) che sono un ragionare sottile sull’arte del romanzo. Nella prima parte viene riportato quanto la Smith disse in una conferenza alla Columbia University. Il tema era «Parlare di qualche aspetto del proprio mestiere». Zadie comincia a indicare due diverse specie di scrittori: il Macropianificatore e il Microgestore (categoria cui lei afferma di appartenere). Il primo prende un sacco di appunti, elabora minuziosamente la trama ed elabora la struttura narrativa. «Conosco Macropianificatori - racconta la Smith - che sostituiscono ossessivamente un finale con un altro, tolgono personaggi dal libro e ce li rimettono, invertono l’ordine dei capitoli e compiono frequenti e ra-
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Il collage o il copia-e-incolla è seriamente e meticolosamente analizzato dall’americano David Shields, che ha scritto un bizzarro saggio, a forma di citazioni, sulla narrativa. L’editore gli ha consigliato di citare le fonti e lui, obtorto collo, ha obbedito, considerando però marginale l’apporto delle note. In America ha già sollevato entusiasmi e critiche (l’inglese Zadie Smith disapprova in quanto tradizionalista e promette una replica). Il testo di Shields è ora tradotto in italiano: Fame di realtà (Fazi editore, 262 pagine, 18,50 euro). Pagine eccezionalmente stimolanti proprio perché non vanno in un’unica e ossessionante direzione, semmai sollevano quesiti e riflessioni senza sosta. L’autore ha come baricentro la consapevolezza che oggi non è più possibile (o auspicabile) scrivere come cinquanta o duecento anni fa. Dice che il cinema, passando dal muto al parlato, si è inevitabilmente trasformato, e non solo nel suo apparire formale. Lo stesso vale per la letteratura. C’è una citazione sulla quale varrebbe la pena di soffermarci: «Viviamo un tempo di notiziari». Di qui il ragionare sul rapporto tra realtà, rappresentazione della realtà e fantasia.
La tesi abbracciata da Shields è che il romanzo, inteso come opera di immaginazione, con trama e punti di vista, sia davvero atrofizzato. O che comunque siano atrofizzati gli scrittori, in specie quelli che si ostinano a «mescolare» la propria vita, o quella altrui, pur di narrare. Spunti di novità non mancano: il premio Nobel Coetze scrive una simil-autobiografia, la stessa Zadie Smith salta su terreni non ortodossi, e Dave Eggers si sperimenta in «docu-romanzi». Fiction o non fiction? Risposta: esiste solo la letteratura, poco importa come sia costruita. E poi basta con lo snobismo in base al quale si deve giudicare sempre e aprioristicamente male le telenovelas o i reality show. Se questi generi trasmettono alla fine qualcosa, che siaanno III - numero 38 - pagina II
domani
dicali interventi sul romanzo». Come arredatori che spostano di continuo poltrone, divani e tavoli da una stanza all’altra. Il Microgestore invece costruisce pian piano la casa, «procedendo per singoli elementi fino all’interezza». Ognuno, precisa la scrittrice inglese, è ovviamente libero di far quel che vuole. La sua esperienza la porta a insistere sulle prime venti pagine. Fondamentali. Le è capitato di riscriverle per quasi due anni. Ma se funzionano, lei procede velocemente. Cinque mesi per un romanzo. Sempre col rispetto degli altri, sempre senza sentirsi un dio: «Basta con la dissezione umana, basta entrare nella testa dei personaggi, spaccarla come una noce, estirparne ogni segreto». E a questo punto cita una frase fondamentale di Derrida: «Se non si mantiene il diritto al segreto si entra in uno spazio totalitario». E Zadie aggiunge: «In realtà il personaggio nasce da una pennellata leggerissima».Verissimo! E questo vale a ribaltare l’idea sbagliata che spesso abbiamo dei lettori, ossia persone sprovvedute, ignoranti, soprattutto impazienti. Chi scrive romanzi deve vedersela con il problema delle impalcature: danno sicurezza a chi non ne ha, creano un obiettivo, riducono il senso dello smarrimento. E che male c’è, lei aggiunge, leggere altri testi quando se ne scrive uno proprio? «Le parole altrui sono il ponte che si usa per passare da dove si è a dove si vuole andare». Lo sapeva bene John Keats che divorava le pagine degli altri mentre ne scriveva di sue, anche plagiando e citando. Keats è un modello in quanto eterno apprendista, mai timoroso delle «influenze». «Anzi racconta Zadie Smith - se ne pasceva con avidità: voleva imparare dagli altri, anche a rischio di lasciare che le loro voci sommergessero la sua. Cosa che, si sa, non successe: Keats è un grandissimo poeta». (p.m.f.)
no considerati una sfida e non più un oltraggio. È comunque certo che Shields non le manda a dire. I colpi li dà con una certa violenza: «Amo la letteratura, ma non perché ami le storie in sé.Trovo quasi tutte le mosse del romanzo tradizionale incredibilmente prevedibili, fiacche, improbabili ed essenzialmente inutili. Non ricordo mai i nomi dei personaggi, gli snodi della trama, i dialoghi, i dettagli dell’ambientazione. Non mi è chiaro cosa dovrebbero rivelare sulla condizione umana narrazioni simili. Invece sono attratto dalla letteratura come forma di pensiero, di coscienza, di sapienza. Mi piacciono le opere che mettono a fuoco non solo pagina dopo pagina ma riga dopo riga quello che importa veramente allo scrittore, invece che sperare che tutto questo emerga chissà come misteriosamente dalle crepe della narrazione, che è quello che accade oggi in quasi tutti i racconti e i romanzi. Le opere-collage parlano quasi sempre di quello di cui parlano - che può sembrare un tantino tautologico - ma quando leggo un libro che mi piace davvero, sono emozionato perché sento l’emozione che in ogni paragrafo sta palesemente esplorando il suo soggetto». Parti di questa asserzione sono francamente arroganti, ascrivibili forse al logorio di Shields come lettore. Il quale, nell’indicare la direzione dei suoi sogni letterari, non dovrebbe essere così irriverente proprio verso quei giganti della prosa che gli hanno permesso di formulare ipotesi nuove o speranze di invenzioni. Del resto lo ricorda lui stesso: romanzo in inglese si chiama novel, contiene cioè un germe di novità. Ma dovrebbe ben sapere che le stagioni di fioritura sono più lunghe rispetto al tempo elettronico della nostra epoca.
David Schields e la copertina del suo discusso saggio dedicato al romanzo. In alto, John Keats modello della scrittrice inglese Zadie Smith (nella foto a destra)
Come dovrebbe essere più prudente quando afferma che «il romanzo in quanto romanzo è una forma di nostalgia». Sacrosante le sue preferenze: «I romanzi che mi piacciono sono quelli che non hanno l’aria di esserlo». Furia di novità, insomma.
Tanto è vero che il terreno sul quale il disincantato e brillante americano saltella è intriso da una consapevolezza difficilmente contestabile. Ossia che il cosiddetto spirito del tempo (zeitgeist in tedesco) contiene la possibilità, anzi il dovere, di abbattere certi schemi, di superare quei limiti entro i quali siamo comodamente o pigramente abituati a stare, come scrittori e come lettori. I tributi alla sua opera non mancano. Coetze scrive che Fame di realtà «è un manifesto per la nuova generazione di scrittori e artisti. Shields ci conduce in un viaggio intellettuale affascinante e, a tratti, esilarante». Jonathan Lethem: «Questo libro mi ha illuminato, intossicato, entusiasmato, sopraffatto. È un vetro attraverso cui guardare il mondo». Ci sono in effetti certi passaggi shock che non possono non indurci a ragionare. Per esempio: «La trama è roba per gente morta»; «Il genere è un carcere di minima sicurezza»; «La trama sembra affermare che tutto accade per una ragione, mentre io voglio dire: eh no che non è così». Davvero interessante quanto riportato in uno dei brevissimi capitoli del libro di Shields. Riferisce che nel 1830 il bostoniano Ralph W. Emerson si dichiarò stufo dei sermoni con tutte le loro «fredde, meccaniche preparazioni per un’enunciazione più decorosa - il giusto, il bello, il saggio - ma prive di alcuna freccia, alcuna scure, alcun nettare, alcun ringhio». E si ricorda di quando un ciarlatano tedesco di nome Maelzel sbarcò in America con il suo panharmonicon, un organo senza tasti. Faceva girare tre volte la manovella e la macchina sputacchiava una sorta di sinfonia. Questo congegno era visto da Emerson come sorta di nuova letteratura. Perché tutto diventava ammissibile, tutto era mischiato. A briglia sciolta. Episodio da ricordare a coloro che considerano la prima metà del XIX secolo come «il paradiso perduto del romanzo».
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parola chiave
ono venuto per imparare Roma». Con questa espressione un po’ insolita Giovanni Paolo II si rivolse una volta agli studenti e alla autorità accademiche di una celebre Università pontificia. «Imparare Roma», dunque. Ma che c’è di così importante da imparare in una città certamente bellissima nei suoi monumenti e nei suoi musei, grondante di storia un po’ da tutte le parti, ma anche più caotica e, per molti versi, più trasandata di tante altre? Mi è capitato spesso di riflettere su questa domanda e la risposta è sempre stata la stessa; una risposta che ha forse il difetto di essere un po’romanocentrica o italocentrica, ma che tuttavia mi sembra plausibile: a Roma si impara qualcosa che è autenticamente universale (cattolico) e nel contempo autenticamente «sensibile alle differenze», secondo la nota espressione di Juergen Habermas; si impara il senso dell’appartenenza a una storia antichissima e variegata, incompatibile con qualsiasi forma di fanatismo etnocentrico; il senso di un’identità flessibile, aperta, mai esclusiva o aggressiva; si impara ad apprezzare la bellezza, il gusto per la vita e - perché no?- a prendere la vita con la giusta misura, con distacco e allegria: tutte caratteristiche che la città di Roma e molti suoi abitanti sanno rendere visibili in modo incomparabile e che qualificano non soltanto lo spirito di una città, ma la vitalità e la ricchezza di tutta una cultura: un patrimonio di dimensioni gigantesche che potrebbe essere estremamente utile proprio in un momento storico difficile quale è quello che stiamo attraversando. Eppure di tutto questo né i romani, né gli italiani sembrano rendersi conto.
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N at u r al m e n t e
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ROMA C’è ancora qualcosa da imparare da questa bellissima e caotica città, antica come i nostri vizi decisamente italiani più che romani. E, a guardare in controluce, ecco che affiorano anche le virtù...
La contraddizione come risorsa di Sergio Belardinelli
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bene i problemi, alcuni dei quali addirittura drammatici, della città di Roma e dell’Italia; so bene che, a Roma come altrove, il limite tra le nostre principali virtù e i nostri peggiori difetti risulta spesso quasi impercettibile. Il disincanto, l’inventiva, la flessibilità, legami familiari ancora piuttosto forti, un marcato policentrismo socio-economico degenerano facilmente in incredulità, birberia, cinismo, «familismo amorale», esasperato particolarismo. Ma questo nostro deficit endemico di «cultura civica», le difficoltà che abbiamo a trasformare le nostre grandi risorse culturali in una cultura e in istituzioni politiche veramente efficienti e all’altezza di una liberaldemocrazia europea, una certa nostra inclinazione al campanilismo e alla tifoseria, che qualche volta sembra mandare in frantumi tutto ciò che il nostro popolo ha costruito nei secoli, non possono costituire un alibi per accantonare ulteriormente i nostri doveri civili, per addormentarci nel torpore della decadenza o addirittura per assecondare l’idea che l’Italia non sia mai esistita e che Roma sia semplicemente la «ladrona». Già nel 1824, circa quarant’anni prima che la difficile unità d’Italia si realizzasse, il grande Giacomo Leopardi,
La nostra lunga storia, le vestigia dell’Urbs Aeterna, culla del cattolicesimo, rendono la nostra cultura «la più difficile ad esser mossa da cose illusorie». E grazie alla nostra tradizione conserviamo una sensibilità per i valori universali, che ci pone al riparo dai fanatismi ideologici, comunque questi si manifestino nel suo celebre Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani, denunciava invero come gli italiani, anziché occuparsi dell’«onore» e dell’«opinione pubblica» come facevano gli altri popoli «civili» dell’Europa, coltivassero invece il «passeggio, gli spettacoli e le Chiese». Sono queste, commentava amaramente Leopardi, «le principali occasioni di società che hanno gli italiani, e in essi consiste, si può dir, tutta la loro società», e con essi, si potrebbe aggiungere sempre con le parole del poeta e pensatore marchigiano, si spiega «il poco o niuno amore nazionale che vive tra noi». Assai antichi sono dunque i nostri vizi e hanno principalmente a che fare, co-
me del resto abbiamo già accennato, con l’egoismo, il particolarismo, il cinismo, la sostanziale mancanza di «amor proprio» e la conseguente «indifferenza per la propria reputazione», come direbbe Leopardi, che sicuramente non hanno favorito né lo sviluppo della «morale privata», né lo sviluppo della «morale pubblica». Su questo nostro deficit di cultura civica si è sviluppata negli anni una ricca letteratura anche internazionale. Ricordo soltanto il celebre studio del 1958 di Edward Banfield sul mitico paesello di Montegrano, Le basi morali di una società arretrata; l’altrettanto celebre volume su The civic culture di Almond e Verba, pubblicato nel 1963; il
libro di Robert Putnam, su La tradizione civica nelle regioni italiane, pubblicato nel 1993; per non dire della ricchissima letteratura italiana sull’argomento, sviluppatasi soprattutto a seguito del triste fenomeno di Tangentopoli. Nel suo famoso studio sulla fiducia (Trust, 1995), Francis Fukuyama parla addirittura di «confucianesimo italiano». L’Italia sarebbe cioè un Paese, la cui struttura socio-culturale sarebbe più simile alla Cina non comunista che ai Paesi occidentali. Come nelle società cinesi non comuniste, anche in Italia esisterebbe insomma una strutturale debolezza del grado di cittadinanza e di identificazione con le istituzioni pubbliche a tutto vantaggio di quello che Edward Banfield aveva definito come «familismo amorale».
L’inefficienza delle nostre istituzioni pubbliche, il diffuso particolarismo clientelare, certo «confucianesimo» che contraddistingue la nostra cultura civile e altro ancora che mi voglio risparmiare sono purtroppo qualcosa di più che un semplice stereotipo; esprimono vizi reali dell’Italia, su alcuni dei quali ci dilunghiamo ormai da circa duecento anni. Ma questa, lo ripeto, è soltanto una faccia della medaglia. I nostri vizi mostrano infatti in controluce anche le nostre virtù. La nostra lunga storia, le vestigia di Roma e del cattolicesimo romano, possono indurre senz’altro a guardare il mondo e gli uomini con disincanto e scetticismo. Ma forse anche per questo la nostra cultura, uso ancora parole leopardiane, è «la più difficile ad esser mossa da cose illusorie»; è sicuramente grazie alla nostra tradizione millenaria che conserviamo una particolare sensibilità per i valori universali, ponendoci così al riparo da pericolosi fanatismi ideologici, comunque questi si manifestino. Siamo pressoché privi di senso dello Stato, quindi del bene comune, ma abbiamo un numero incredibile di persone impegnate nel volontariato (circa cinque milioni); l’individualismo sembra prendere il sopravvento su qualsiasi forma di solidarietà sociale, eppure devolviamo cifre ingenti in opere di carità; la famiglia e il campanile della propria città sembrano essere i nostri unici valori comunitari, ma siamo anche uno dei popoli più aperti e cosmopoliti. Nemmeno l’immondizia che vergognosamente ricopre alcune nostre città o la cultura mafiosa che persiste in diverse regioni del nostro Paese tolgono ai cittadini italiani l’ironia e la voglia di vivere. Siamo insomma un coacervo di contraddizioni. Ma resta pur vero che, specialmente nei momenti in cui la nostra crisi sembra più profonda, quando occorre soprattutto capacità di lavorare sodo, «ragionare» e di utilizzare l’«immaginazione», la nostra abitudine a convivere con le contraddizioni potrebbe rivelarsi come una preziosa risorsa. Pur con tutti i problemi, e concludo, mi piace pensare insomma che a Roma (anche per i romani) ci sia ancora qualcosa da «imparare».
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Miti
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musica
C’erano una volta I CENTRI SOCIALI di Bruno Giurato
di Stefano Bianchi tation To Station del 1976, sta giusto a metà strada fra la black music di Young Americans e la virata elettronica di Low. È il breve (trentotto minuti per sei brani) ma intenso capolavoro di David Bowie or ora ripubblicato con l’aggiunta del doppio cd Live Nassau Coliseum ’76. L’anno prima, Bowie è reduce dal film L’uomo che cadde sulla Terra di Nicholas Roeg. Torna a Los Angeles che pesa a malapena quaranta chili, sopraffatto com’è dall’abuso di cocaina. Dichiara: «Ho fatto la mia parte. Non ci saranno più dischi di rock and roll né concerti, per quanto mi riguarda. La musica rock è morta. È come un’imbarazzante, vecchia sdentata». Ma poi ci ripensa (come nel ’73, quando si rilanciò dopo aver «ucciso» l’alter ego Ziggy Stardust) e incide Station To Station ai Cherokee Studios di Hollywood alternando stati di grazia e precipizi depressivi. Thin White Duke, si fa chiamare: Sottile Duca Bianco. Difficile per i musicisti stargli dietro, perché Station To Station è la sua via crucis: umana e professionale. Per poter risorgere dalle ceneri, deve raggiungere l’Albero della Vita descritto nella Kaballah. Nel 2006, in un’intervista, ricorderà: «È stato uno dei più cattivi periodi della mia vita. Una sfuocatura, alimentata da un’ansia cronica che sconfinava nella paranoia». Eppure, quel miscuglio di nichilismo e misticismo produce pezzi che entrano di diritto nell’eccellenza bowiana: gli undici, trascinanti minuti di Station To Station, con quello sferragliare del treno che omaggia i Kraftwerk di Autobahn; il funky perfetto di GoldenYears (l’album, all’inizio, doveva intitolarsi così) registrato e completato in una decina di giorni; la melodia, la soul music, lo struggimento e la catarsi di
S
Jazz
zapping
Milano si sgombera un centro sociale (la Bottiglieria okkupata, nome che fa simpatia da subito) e non si mobilita nessuno, nessuno fa manifestazioni, appelli, bevute, suonate grunge e reggae, nessuno chiama Manu Chao che faccia almeno ciao. Niente. E non è che i centri sociali fossero un prodotto ideologico a ben pensarci, per tutti gli anni Novanta, a Muro abbondantemente caduto, erano diventati il rifugio di una bella fetta di ragazzi non ideologizzati, no global, solo sui bordi e per caso. Gente che lì, nel centro sociale, rimaneva ottimamente, solo perché si entrava a prezzo politico, si beveva a prezzo politico, e si faceva l’amore in modo impolitico. I gruppi rock and reggae giravano, i rapper delle posse inventavano, mezzo in dialetto e mezzo no, e la gente ci andava. Il Leoncavallo a Milano con tutti i guai giudiziari era solo un caso estremo, a Roma c’era il Villaggio Globale sempre pieno, le macchine parcheggiate fino al Lungotevere ogni sabato. C’era una volta il «centro sociale occupato/ e mo c’o cazz ce cacciate» (99 posse) e adesso a girare per gli stessi posti e gli stessi quartieri si incontrano posti riconvertiti, con un grado di confort maggiore, per esempio certe librerie/vinerie dove entri e senti (questa volta sì), l’aria ideologizzata, in genere sintonizzata sul clima di Sinistra critica. Sinistra va bene, ma «critica”» non tanto ti va giù, sa di critica di tutto. Tipo: «Andiamo al cinema?»; «Ma....»; oppure: «Ci beviamo una birra?»; «Ma...». Sui centri sociali non abbiamo molte speranze ormai, adesso che anche Manu Chao li ha abbandonati. Ma continuiamo a sperare per la sinistra, noialtri impolitici cattolici meridionali. E speriamo che arrivino presto alla critica della critica, cioè tornino felicemente acritici e ricomincino a fare rap.
A
La via crucis del Duca bianco Word On A Wing, col pianoforte suonato da Roy Bittan (preso in prestito dalla EStreet Band di Bruce Springsteen) in primo piano; l’eleganza sgangherata di TVC15, con le sue bizzarre virate nell’honky-tonk; l’alchimìa di funk, soul e hard rock che riempie Stay fino all’orlo; l’epilogo, ardentemente romantico, di Wild Is The Wind: scritta nel ’56 da Ned Washington e dal compositore Dimitri Tiomkin, già tema conduttore dell’omonimo film western. Poi c’è la tournée, che culmina nel concerto del 23 marzo ’76 al Nassau Coliseum di Uniondale, nello Stato di New York. Bowie, scheletrico dandy dai capelli impomatati, indossa pantaloni neri, gilet, camicia immacolata. Sembra un cantante di kabarett della Repubblica di Weimar. Si fa precedere da una sequenza di Un chien andalou, il cortometraggio muto di Luis
Buñuel e Salvador Dalí. Poi, accompagnato da Carlos Alomar e Stacey Heydon (chitarre), George Murray (basso), Tony Kaye (tastiere) e Dennis Davis (batteria), serve su un piatto d’argento le vertigini di Station To Station e il rock and roll di Suffragette City, Queen Bitch e Panic In Detroit; declina i Velvet Underground di Waiting For The Man e dipinge Rebel Rebel di rhythm & blues; schiaffeggia il funk con Fame e Stay; fa l’entertainer con TVC15 e il visionario con Diamond Dogs; distilla ineffabili melodie con Life On Mars?, Changes, Five Years e Word On A Wing. Alla fine, con The Jean Genie, si mette a cavalcare il rock-blues. Sta per uscire dal suo anno sabbatico, il Duca Bianco. C’è Berlino, ad attenderlo. Dal ’77 al ’79, risorgerà definitivamente con Low, Heroes e Lodger, complice Brian Eno. Ricorderà Station To Station come «un’opera tenebrosa concepita da un uomo totalmente diverso». Ma una tappa fondamentale della sua carriera. David Bowie, Station To Station + Live Nassau Coliseum ’76, Emi, 21,90 euro
Quel genio (trascurato) di Art Tatum di Adriano Mazzoletti er tutti, musicisti, critici e storici, è stato il più grande pianista di tutti i tempi. Unica voce controcorrente quella di André Hodeir, uno studioso francese che in un famoso saggio pubblicato nel 1955 - un anno prima della morte di Tatum - sulla rivista americana Down Beat, apriva una discussione riferendo anche l’opinione di Lucien Malson, altra personalità della critica francese: «Un solista brillante come Art Tatum, le cui“improvvisazioni”seguono un lavoro di preparazione alquanto evidente appare come un professore che, nello svolgere una serie di scintillanti dimostrazioni alla lavagna, con un colpo di spugna annulli quella appena terminata per affrontarne un’altra di soggetto del tutto differente. Tatum ha tutti doni possibili, fuorché quello della continuità». Le reazioni furono violente. Hodeir dovette af-
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frontare pesanti critiche provenienti non solo dai colleghi, ma anche e soprattutto dai musicisti, soprattutto quelli che avevano suonato con Tatum. Ciò che colpì sfavorevolmente fu la l’affermazione che le «improvvisazioni» fossero preparate. Il chitarrista Everett Barksdale che suonò a fianco di Tatum per un decennio, smentì drasticamente Hodeir: «Art diceva sempre che non“udiva”in anticipo ciò che si accingeva a suonare, ma che si limitava a “sentirlo”e, poiché gran parte di ciò che facevamo era improvvisato, qualche volta se ne usciva con delle trovate che mi lasciavano disorientato». Altri come i chitarristi Oscar Moore e Tiny Grimes hanno più volte affermato che «l’assoluta imprevedibilità delle sue improvvisazioni ci metteva spesso in difficoltà». Chi invece eresse a Tatum un vero e proprio monumento fu Norman Granz. Fra il 1953 e il ’56, il celebre impresario americano, che aveva costituito anche una
casa discografica, la Verve, pubblicò un numero impressionante di incisioni che apparvero con il titolo The Genius of Art Tatum in cui il cinquantenne pianista suonò da solo, in trio e con alcuni grandi del jazz come Benny Carter, Ben Webster, Roy Eldridge. Fu probabilmente l’imponente numero di queste incisioni che spinsero Hodeir e Malson a trovare una mancanza di continuità nello stile di quello straordinario pianista le cui caratteristiche erano la grande velocità della mano destra e la grazia e la sensibilità armonica che anticiparono anche le strutture del Bebop. Da almeno vent’anni però la sua popolarità è diminuita.Tutti i pianisti moderni discendono da Bud Powell e Thelonious Monk e dai loro allievi, Bill Evans e McCoy Tyner e in epoca successiva da Keith Jarrett. Mentre la scuola di Tatum si è fermata ad Oscar Peterson. La recente pubblicazione, da parte della Poll Winners, di due cd in cui Ta-
tum suona con Ben Webster e Roy Eldridge e in cui sono state inseriti altri brani in Trio, giungono in un momento in cui il jazz è caratterizzato da una sempre maggiore assenza di musicisti di genio e dimostrano, se ancora ce ne fosse bisogno, il suo grandissimo talento.
Art Tatum-Ben Webster Quartet, Poll Winners; Art Tatum-Roy Eldridge Quartet, Poll Winners, Distribuzione Egea
arti Architettura MobyDICK
uarda l’intimo della cupola, è lì che vedrai meraviglie». Così dice l’Altissimo e Sommo a Maometto, in Il Viaggio Notturno e l’Ascensione del Profeta. «Guardai con attenzione e vidi che la cupola era a portata di sguardo. C’era dentro un’altra cupola fatta di smeraldo verde, e all’interno di questa un divano d’ambra bianca tempestato di diamanti e di pietre preziose». «Il Trono fa da soffitto, l’interno è fatto della misericordia di Dio, gli angeli lo abitano e il Compassionevole è il vicino di casa». La cupola, kubba, è il fiore più prezioso offerto al mondo dall’architettura islamica. Graduale e amoroso adattarsi alla totalità della volontà divina, l’architettura sacra crea uno spazio per la preghiera e per la prostrazione collettiva, fra muqarnas scavate come alveolate absidiole a stalattite e gli orientati mihrab aperti sulla qibla, perpendicolare alla Mecca, i minbar per le predicazioni, giganteschi ivan aperti come nicchie su grandi recinti, elevati minareti -al-manara «torri lucenti», chioschi per le abluzioni e giardini che sono il Paradiso. In poligoni di smalti purissimi parati a cerimonia e mirabili arabeschi, Sacra Scrittura stilizzata, la Geometria fa apparire il divino. Alireza Naser-Eslami ha scritto una storia dell’architettura islamica, la prima in lingua italiana: Architettura del mondo islamico. Dalla Spagna all’India (VII-XV secolo) (Bruno Mondadori, 403 pagine, 38,00 euro). L’autore mostra da subito i limiti di una storiografia eurocentrica, e cristocentrica, che ha limitato, fin dal Medioevo, la piena conoscenza della civiltà islamica e dei suoi capolavori. Questo fondamentale libro mostra gli sviluppi dell’architettura islamica nelle sue differenti qualità, finora nascoste o ignorate, e permette di superare la percezione ottocentesca di tutto il Medio Oriente come un unicum esotico, spaziale e temporale. Errori e omissioni gravi che hanno ritardato, e anche deformato, la comprensione
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Design
Geometrie dell’Islam al servizio del divino di Guglielmo Bilancioni piena dell’Islam, Terra Incognita, e della sua grande arte. In questo studio vengono analizzate le reciproche influenze culturali, fecondazioni incrociate o «contaminazioni» di strati e sedimenti, traversando le quali si perviene a quella «complessa trasformazione sincretica», al «sincretismo come modello progettuale» che ha prodotto edifici meravigliosi proprio in virtù della mescolanza di stili. Il Gotico ad esempio, con i corsi a colori alternati e con gli archi appuntiti: «se ne attribuisce l’invenzione ai saraceni», diceva già Francesco Milizia. Con la precisione che tende alla comple-
tezza, Naser-Eslami studia tutte le tipologie dell’architettura islamica, sacre e secolari: il caravanserraglio, il mercato, la madrassa, la darsena dar as-sina o arsenale, e ospedali, torri, castelli, osservatorî astronomici, mura poderose, riserve d’acqua, i padiglioni che derivano dalle tende regali, i palazzi dei califfi, i giardini, i mausolei e le strutture militari. Questo libro, come gli edifici che studia, è un tesoro di cultura. Offre molte conoscenze: la grandiosa fioritura di forme e la loro ciclica decadenza, il «disuso» che impone trasformazioni alle forme e al significato degli edifici, la raffinatezza lussuosa di
grandi monumenti e gli elaborati assetti urbani, la liturgia e la politica, le tecniche costruttive e l’avvicendarsi di potenti dinastie: gli Omayyadi di Siria, gli Abbasidi della Mesopotamia, i Selgiuchidi, i Fatimidi, gli Idrisidi, i Mamelucchi e gli Ottomani. E i Moghul dell’India. Punto di origine dell’architettura islamica è la Casa del Profeta, attorno alla quale venne tracciato il primo sacro recinto. Fra i numerosi esempi esaminati hanno grande rilievo il Santuario della Ka’ba, che custodisce la pietra cubica nera e velata portata dall’Angelo, la Cupola della Roccia di Gerusalemme, «paragonabile al prestigioso Santo Sepolcro» e modellata nella poligonale concentricità dei Martyria protocristiani, in una di quelle terre-crogiolo dove si fondono, non senza contese, culture differenti: come a Tiro, Antiochia, o Bisanzio. E il leggendario minareto a spirale di Samarra, una città il cui nome significa «gioisce chi la vede», che evoca nella forma l’antico ziqqurrat di Babilonia; la Moschea di Ibn Tulun al Cairo, perfetta geometria con una fonte a cupola che è sintesi di tutte le forme dell’Islam; la Moschea di Cordoba, il cui spazio magico si moltiplica in una «selva di colonne»; e ancora la Cuba di Palermo, la Casa della Gioia a Samarcanda, le Türba, torre-tomba a pianta centrale in Anatolia, e la Moschea di Ahmadabad, nel Gujarat in India, di stile originale e di splendida fattura. Il trattato di NaserEslami infiamma il desiderio di sapere, di viaggiare e di vedere, spinge a venerare la bellezza, e conferma che soltanto il sacro è il «completamente altro». È scritto nel Corano che «Allah ama che quando uno porta a compimento un’opera, la perfezioni», e, sempre e dovunque, l’architetto deve essere «l’umile servitore di Dio».
Mobili, anzi edifici in miniatura: firmati Bugatti n occasione della XXIV Edizione della Rassegna di Antiquariato Nazionale che si svolge annualmente a Vaprio d’Adda, una rara occasione è stata offerta agli amanti del design d’antan. La Villa Castelbarco Albani ha ospitato un evento collaterale: una mostra dedicata a Carlo Bugatti (fino a domani, salvo eventuale proroga), artista mobiliere che merita un capitolo speciale nella storia delle arti decorative italiane del Novecento. Milanese, figlio d’arte (suo padre è Giovanni Luigi, scultore e architetto), già nella seconda metà dell’Ottocento, durante gli anni di frequentazione dell’Accademia di Brera, dimostra una forte inclinazione verso l’architettura che gli suggerisce una visione dell’arredamento come un insieme di edifici in miniatura. I suoi mobili saranno quindi composti da archi, colonne, capitelli, torri merlate, intagli e intarsi secondo una moda eclettica, allora molto in voga, con palesi richiami all’arte orientale. Dopo aver completato la sua formazione presso la scuola di Belle Arti di Parigi è di nuovo a Milano, fre-
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di Marina Pinzuti Ansolini quenta Giacomo Puccini e il pittore Giovanni Segantini; alla fine degli anni Ottanta dal suo laboratorio diVia Castelfidardo, dove si avvale della collaborazione del raffinato ebanista Eugenio Quarti, escono pezzi unici, per i quali il concetto di funzione sarà sempre più pretestuoso. Nel 1902 presenta, alla Prima Esposizione Internazionale d’Arte Decorativa Moderna di Torino, la Toilette, un insieme composto da una sedia e da un piccolo tavolo con specchio. Come in un quadro futurista, attraverso una composizione elegante di archi, cerchi e semicerchi, i due oggetti sono protesi l’uno verso l’altro, creando l’illusione del movimento. Sempre meno «mobili» e sempre più «sculture», le sue creazioni abbandonano la rigida simmetria architettonica degli esordi; le forme sono dinamiche e la realizzazione di altissimo livello artigianale. I materiali rappresentano una vera novità rispetto a quelli della tradizione italiana: cuoio, madreperla, pelle di cammello, avorio, rame, crine, corda e seta.
All’inizio del secolo gli italiani, da sempre appassionati collezionisti ma decisamente conservatori nel gusto dell’abitare, non sono forse ancora pronti ad arredare la propria casa come la tenda di un re berbero. Allora Bugatti si trasferisce in Francia dove già nel 1900 i suoi mobili erano stati premiati all’Esposizione Universale di Parigi. Nel 1907 il mercante d’arte Adrien A. Hèbrard esporrà, nella sua galleria, una serie dei suoi «mobili scultura». Bugatti non è affascinato dalla riproducibilità seriale dell’oggetto, lo immagina piuttosto come un’opera unica; la sua espressione artistica rappresenta quel delicato e complesso passaggio tra la tradizione del passato e il concetto moderno dell’arredamento, passando ancora attraverso l’artigianato. Fu vero designer? La domanda è lecita e la risposta può essere affidata ai collezionisti che oggi si contendono i suoi mobili come delle vere e proprie opere d’arte. Carlo morirà nel 1940 in Alsazia, a Molsheim, dove il figlio Ettore aveva aperto la fabbrica delle rinomate automobili Bugatti (in mostra anche la storica T 23 Brescia). Oltre a una serie completa di mobili, arredi e vetrate firmati da Carlo Bugatti, a Villa Castelbarco sono esposte 500 piastrelle in ceramica provenienti da una collezione privata italiana. Piccole delizie floreali in ceramica create per decorare l’architettura del periodo liberty e provenienti dalla Germania, dall’Inghilterra, dal Belgio e dall’Austria.
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il paginone
Una lettera inedita di Ungaretti ad Alcide De Gasperi emersa dall’epistolario conservato da Un memoriale accorato per chiarire una volta per tutte i suoi rapporti con il fascismo, alla vigil definitiva, affidata al Ministero dell’Istruzione dopo il ricorso di Scoccimarro, sugli esiti del proc
Autodifesa di un po Pubblichiamo il promemoria redatto da Giuseppe Ungaretti per Alcide De Gasperi, emerso dalle trecento lettere di Ungaretti conservate da Leone Piccioni, in allegato a una lettera inviata dal poeta al suo allievo prediletto. L’epistolario è in corso di pubblicazione a cura di Silvia Zoppi Garampi.
di Giuseppe Ungaretti Ad Alcide De Gasperi Presidente del Consiglio dei Ministri Roma, il 7 luglio 1946
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ignor Presidente,
mi permetta di esporLe per dovere alcune osservazioni, prima che venga presa dal Consiglio dei Ministri una decisione nei miei riguardi. La questione fu posta, e doveva essere posta, dalla Commissione d’epurazione. Essa si chiese: era avvenuta la mia nomina a professore nell’Università di Roma per ingerenza indebita delle gerarchie fasciste, oppure era essa realmente dovuta ad alta fama? Su relazione di Luigi Salvatorelli, la Commissione, archiviando la pratica e dichiarando che nessun addebito poteva venirmi mosso, riconosceva la mia alta fama non solo in Italia, ma fuori d’Italia; ma an-
che riconosceva che avevo reso segnalati servizi alla nostra cultura nel Brasile, dove avevo tenuto per cinque anni la cattedra di letteratura italiana all’Università di San Paolo, e che si doveva a me se nell’ordinamento delle Università brasiliane l’insegnamento dell’italiano era stato reso obbligatorio in tutte le facoltà di lettere e nei due anni di scuola preuniversitaria.
Alla constatazione della Commissione d’epurazione aggiungerò che, terminata appena la guerra, e in occasione della solenne distribuzione delle lauree ottenute quell’anno all’Università di San Paolo, il deputato a prendere la parola a nome dei neolaureandi, Paolo Emilio Salles Gomes, consacrava, per in-
carico preciso dei suoi compagni, il suo discorso a fare l’elogio dell’opera incancellabile che avevo svolto in Brasile. La sentenza della Commissione d’epurazione venne confermata dai giudici di secondo grado.
Non sono un giurista, ma credo che a questo punto la questione nei miei riguardi dovesse ritenersi chiusa. È sempre stato in facoltà del Ministro fare nomine per alta fama, e Flora, uno dei due periti (l’altro era Pancrazi)
chiamati dal Consiglio Superiore a pronunciarsi sul mio caso, pare osservasse nella sua relazione che un Ministro tanti anni fa, credo Ruggero Bonghi, ne nominasse addirittura un’infinità in una volta.
I retroscena. Il ruolo del comunista Mauro Scoccimarro, commissario per l’epurazione
Il mondo diviso in buoni e cattivi lla caduta del fascismo, il governo del Cln avviò una resa dei conti con il regime mussoliniano che passava anche attraverso la ricerca delle responsabilità individuali di chi si era eccessivamente compromesso con esso. Venne istituito per questo l’Alto commissariato per le sanzioni dei reati fascisti. Vennero passate al vaglio le responsabilità dei gerarchi e dei politici, e il grado di compromissione con il regime da parte degli intellettuali. Particolare attenzione venne riservata a coloro che, secondo le accuse, avevano fatto carriera e avevano ricevuto riconoscimenti e prebende a fronte del loro attivismo a sostegno del regime. Per i colpevoli vi era l’e-
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di Mauro Canali purazione, cioè l’allontanamento da qualsiasi incarico che costoro avessero in precedenza ricoperto nella pubblica amministrazione. Naturalmente anche i docenti universitari vennero passati al setaccio e molti di loro vennero in prima istanza epurati. Occorre anticipare che, passata la prima fase di furore epurativo, alla fine nessuno pagò per il proprio passato. Tutti colpevoli e nessuno colpevole. L’amnistia Togliatti del giugno 1946 venne a sanare tutto e, sull’onda della necessità di una riconciliazione nazionale, si passò un colpo di spugna su provvedimenti epurativi e su procedimenti e sanzioni penali.
La vicenda di Ungaretti è molto significativa del momento storico per diversi motivi. L’iter epurativo nei confronti di Ungaretti era stato avviato nel luglio del 1944, quando l’allora ministro della Pubblica Istruzione del
governo Bonomi, Guido De Ruggiero, aveva firmato il decreto di sospensione di Ungaretti dall’insegnamento presso l’Università di Roma, poiché, - come sosteneva l’accusa egli era stato nominato senza concorso e senza che venisse raccolto il parere della Facoltà. Si adombrava, tra i motivi della nomina, la sua antica amicizia con Mussolini, che risaliva al primo dopoguerra. Pronta era stata la replica del poeta, che, in un memoriale difensivo presentato in agosto, sosteneva che la nomina era venuta con l’applicazione della legge Casati che prevedeva appunto tale riconoscimento per personalità intellettuali in possesso di chiara fama e competenza nella materia. In questo caso, celiava Ungaretti, si trattava di «fama e competenza che da nessuno può essermi negata». Ungaretti ricordava anche di aver preso a un certo punto le distanze dal regime a causa delle scelte sciagurate di Mussolini relative alle leggi razziali e alla decisione di far entrare il Paese in guerra. La commissione di prima
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Leone Piccioni. lia della decisione cesso di epurazione
oeta
Sulle mie doti di insegnante, che solennemente mi furono riconosciute dai miei colleghi e dai miei discepoli dell’Università di San Paolo (un’Università di prim’ordine, dove hanno insegnato o insegnano, accanto a professori
Quella “perla” di Pancrazi iuseppe Ungaretti fu nominato negli ultimi anni del fascismo (lui reduce dal Brasile) per «chiara fama» professore all’Università di Roma per la letteratura moderna e contemporanea. Fu sottoposto a processo di epurazione per la sua adesione al fascismo e l’amicizia con Mussolini che risaliva al tempo dell’intervento nel 1914. Fu assolto da ogni addebito. Ma entrò in funzione il Consiglio Superiore del Ministero dell’Istruzione per decidere di annullare questa nomina (e anche quella di Giuseppe De Robertis che era un caso analogo). Il ministro dell’Istruzione Guido Gonella saggiamente non tenne conto della decisione del Consiglio Superiore e demandò alle singole facoltà universitarie la decisione di confermare o meno le nomine di Ungaretti a Roma e di De Robertis a Firenze. Le facoltà decisero che i due professori rimanessero all’insegnamento. Ungaretti si difese anche se preso da forte scoramento. In una lettera ai primi di luglio del ’46 mi scriveva: «Tutta questa iniqua faccenda è stata architettata dai De Ruggero e dagli Omodeo (studiosi di origine crociana e militanti nel Partito d’azione, pur criticato dallo stesso Croce, ndr) che volevano diventare i dittatori della scuola. Si sono aggregati - siccome di Letteratura Contemporanea non c’era nessuno a saperne
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tra i migliori delle nostre università, insigni maestri tedeschi, ebrei rifugiati, francesi, portaghesi), non si pronuncerebbero diversamente gli studenti romani, per i quali sono uno dei professori più amati, che vengono in gran numero ad assistere alle mie lezioni, tenute nell’aula magna della facoltà, che si presentano agli esami della mia materia (circa 80 quest’anno), che preparano accuratamente con me tesi di laurea, fra le quali alcune condotte con novità di metodo critico e profondità di gusto. L’istituzione della mia cattedra fu richiesta per pressione dell’opinione pubblica. Essa è sorta a
istanza chiamata a decidere su Ungaretti era costituita da tre personalità, tra le quali spiccava lo storico Luigi Salvatorelli, designato a quel ruolo dal commissario per l’epurazione, il comunista Mauro Scoccimarro. Nel novembre del 1944, la commissione decise per l’archiviazione degli atti, perché nessun addebito poteva essere mosso al professor Ungaretti. Salvatorelli in particolare non riteneva che le espressioni di ammirazione e talvolta di esaltazione del fascismo indubbiamente manifestate da Ungaretti potessero rientrare nella categoria dell’apologia di regime. La sentenza sollevò le ire di Scoccimarro che, convinto della fervida adesione di Ungaretti al fascismo e della nomina a docente di carattere politico, la impugnò presentando ricorso, nel gennaio 1945, contro di essa. Scoccimarro sottolineava che la nomina di Ungaretti era stata decisa da Mussolini in persona, e ricercava i motivi di essa nel lungo periodo, 1936-1942, trascorso da Ungaretti in Sud-America, come docente di letteratura italiana all’Università di San Paolo, nel corso del quale maggiormente, secondo Scoccimarro, il poeta si era compromesso nella propaganda a favore del regime fascista. A prova di ciò, Scoccimarro esibiva lettere dal Brasile di Ungaretti a Bottai, Galeazzo Ciano e Federzoni, nelle quali il poeta cal-
nulla al Consiglio Superiore - per il caso di De Robertis e mio, quella perla di Pancrazi con i suoi rancori da sfogare: il rancore specialmente di non essere mai stato preso sul serio come critico da nessuno in Italia». A queste righe Ungaretti allegò il promemoria per Alcide De Gasperi del 7 luglio 1946 qui pubblicato. P.S. Non sorprenda la candida espressione di Ungaretti quando si definisce «forse il maggior poeta vivente». Un grande poeta deve essere sicuro della sua forza. Ne erano giustamente sicuri in quegli anni Montale, Saba e altri. Altrimenti perché rinunciare a una vita comoda e senza pensieri, perché soffrire sempre entro se stessi e per gli altri, perché sostituire il sonno a una veglia sempre pronta a illuminarsi nelle tenebre per far scattare l’ispirazione, perché sacrificare all’ispirazione stessa il quieto pensiero, perché tanto amore da soffrirne dentro e da distribuire al mondo intero? Del resto Carlo Ossola nella sua introduzione al nuovo Meridiano Mondadori del 2009 sulla poesia di Ungaretti indicando, a suo parere, i quattro poeti più grandi del secolo, nominava proprio Ungaretti.
Leone Piccioni
somiglianza di quelle già esistenti in Università straniere, e che dovunque hanno dato ottimi risultati. Esse vengono affidate a scrittori che, sulla base dell’arte da essi esercitata e dalla dimostrata diretta conoscenza delle lingue e delle letterature straniere contemporanee, siano in grado di recare sui fatti letterari, tecnici e spirituali, un’esperienza sofferta.
Così furono nominati Valéry al College de France, Eliot in Inghilterra. Non era cattedra che sorgeva in contrasto con altre, di carattere necessariamente più filologico, ma che veniva a inte-
deggiava una sistemazione in una università italiana. Scoccimarro esibiva anche le prove del pagamento mensile da parte del Minculpop di 1500 lire a favore del poeta per un arco di tempo che andava dal 1934 al 1942.
Questa volta, nella replica a Scoccimarro, Ungaretti dovette affrontare la questione dei finanziamenti ricevuti. Questione che nel precedente memoriale aveva prudentemente taciuto. E non poté che rifarsi ai sistemi di finanziamento del Minculpop, sostenendo, con non poche ragioni, che tali finanziamenti erano stati elargiti a quasi tutti gli scrittori e gli artisti, per la maggior parte «persone onorevolissime». E quindi le sovvenzioni non potevano rappresentare un capo d’accusa serio. In realtà, Scoccimarro sbagliava a insistere nell’accusa che il denaro era stato elargito «ai servi più fedeli del regime», poiché troppo esteso era il numero dei beneficiati per poter concludere che si trattasse di tutti servi fedeli. Naturalmente vi era nella visione del dirigente comunista un errore di prospettiva che gli impediva di comprendere la natura totalitaristica del fascismo e la sua capacità di penetrare in tutti gli strati della popolazione. Inoltre vi era la volontà testarda e assurda di giudicare il mondo in modo ma-
grarne la funzione educativa. Sulla mia eccezionale competenza dal lato tecnico e spirituale della materia ch’ero chiamato a insegnare, cioè la letteratura romantica e contemporanea che le necessità della mia espressione poetica mi portavano a studiare, nelle sue manifestazioni italiane e nelle sue manifestazioni straniere, attraverso saggi e traduzioni, nessuno, credo, potrebbe in buona fede, muovere contestazione. Lo prova il fatto che fui chiamato a dirigere per cinque anni, fino alla cessazione delle pubblicazioni al momento dell’occupazione tedesca della Francia, la rivista Mesures, che
nicheo, in cui da una parte vi erano i buoni antifascisti e dall’altra i rei, cioè tutti coloro che avevano avuto in qualche modo rapporti col regime. Ungaretti era stato naturalmente un fascista convinto, ma certo non un fanatico e un apologeta del regime. Era stato fascista come lo erano stati quasi tutti gli intellettuali vissuti sotto il regime mussoliniano e che con esso avevano dovuto in un modo o nell’altro convivere o scendere a patti, chi più che meno in modo convinto. Era opera alquanto velleitaria cercare di perseguire e punire chi si era sentito almeno una volta vicino al regime, chi aveva simpatizzato per esso. Tanto più che nello stesso partito di Scoccimarro, il Pci, non pochi erano i militanti intellettuali con trascorsi fascisti, in alcuni casi più imbarazzanti di quelli di Ungaretti.
fu la principale rivista internazionale di studi estetici e di documentazione letteraria uscita negli ultimi cinquant’anni. La condirigevano insieme a me, uomini come Jean Paulhan, Bernard Groethuysen, Henry Church, Henry Michaux.
Confermando che la cattedra era stata reclamata per me dall’opinione pubblica, lo prova anche il fatto che i principali scrittori e critici italiani senza distinzione di partito (dai comunisti ai liberali) hanno chiesto recentemente con lettera al Ministro dell’Educazione che fossi mantenuto al mio posto e fosse mantenuto al suo De Robertis. Dico tutti i principali critici (da De Benedetti a Apollonio, da Solmi a D’Amico, da Bo a Bellonci, da Anceschi a Falqui, da Contini a Luzi, da Macrì a Cavazzeni, da Gatto a Ferrata, ecc.), compreso uno dei due periti nominati dal Consiglio Superiore, Francesco Flora, il quale mi fece dire che non firmava la lettera, data la delicatezza della sua posizione verso il Consiglio Superiore (s’era del resto astenuto d’intervenire alle sedute, ma l’approvava). Non ho da insistere sulla mia alta fama di poeta. Le richieste che mi giungono da riviste di ogni Paese per la pubblicazione di cose mie tradotte, le prove di deferenza che continuamente ricevo da parte di eminenti personalità di ogni Paese, ne sono quotidiana testimonianza. Mi permetta solo, Signor Presidente, di rivolgermi la domanda se può recare giovamento all’Italia diminuire moralmente e danneggiare, nella difficile vita economica della sua famiglia, un uomo che da molti critici nel mondo è considerato come forse il maggior poeta vivente. Ho fede nella sua giustizia e in quella del Consiglio dei Ministri. In alto, un soldato guarda un’immagine sfigurata di Mussolini. A sinistra, Giuseppe Ungaretti. Sotto, Alcide De Gasperi
Narrativa
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l linguaggio è apparente neutro o distaccato, ma pagina dopo pagina si comprende che è questo lo strumento più efficace, e anche letterariamente alto, per descrivere la vita quotidiana. In queste vicende, poco importa se ambientate negli Stati Uniti e non in Europa, ci siamo noi, tutti noi: con la fatica del vivere, le piccole gioie, i ricordi, i rimpianti, le sopportazioni, la volontà di andare avanti. Ma soprattutto con la straordinaria capacità di circoscrivere emotivamente quanto accade o può accadere tra le persone, spinte dalle circostanze a esprimersi con una sessualità che non è mai violenta o narcisistica, semmai rispondente a bisogni ficcati nel fondo dell’anima. L’autrice di questa serie di racconti inanellati dal leit motiv cui ho accennato è Amy Bloom, che insegna scrittura creativa alla Yale University ed è stata finalista al National Book Award con Come me (la Einaudi ha pubblicato di recente il suo Per sempre lontano). Come si intuisce facilmente dal titolo (Dove si aggira il Dio dell’amore) è quel che si chiama amore e ha mille sfaccettature ad attraversare le istantanee di vita ordinaria. Nel racconto Lionel e Julia si parla d’una donna, Julia appunto, rimasta vedova di un musicista di colore (lei è di origini italiane, e bianca). Rimane con il figlio naturale e con Lionel junior, nato dal precedente matrimonio del coniuge. I funerali non sono cosparsi di lamentazioni. Al contrario, viene posta in evidenza l’accanita volontà di tirare avanti, di vivere guardando il mondo pur nella consapevolezza che la vedovanza è ferita sempre aperta («Mi dico che non sto aspettando nessuno, è solo che non sono ancora sveglia»). Se il figlio più piccolo, Buster, ha bisogno di piangere sul grembo della mamma, che lo coccola, l’altro, diciannovenne, ha sbandamenti tipici dell’adolescenza. Compresi quelli che lo portano ad agire con la madre adottiva in modo non del tutto intimamente corretto. Ma Julia com-
I
libri
Amy Bloom DOVE SI AGGIRA IL DIO DELL’AMORE Neri Pozza, 243 pagine, 16,00 euro
Una specie di amore chiamato
famiglia
La fatica del vivere, gioie, rimpianti, sopportazione e la volontà di andare avanti nei racconti “americani” di Amy Bloom
Autostorie
di Pier Mario Fasanotti
prende, così come comprende la propria nostalgia verso la giovane età. Tenta di allontanarlo di casa, per il suo bene, e alla fine, con estrema dolcezza, riesce nell’intento: sarà il ragazzo a decidere di andare a studiare a Parigi. L’episodio scabroso è vissuto e ricordato come appartenente ai milioni, e tutti diversi, casi della vita. La stessa descrizione dell’accaduto allontana, senza peraltro annullarlo, quel pizzico di «orrore» che altri, forse, denuncerebbero con parole enfatiche: «Lion alzò la testa e mi fissò, gli occhi come pozze di caffè che brillavano alla luce della luna. Mi sfiorò la guancia, poi mi diede un bacio e il mio cervello smise di funzionare. Chiusi gli occhi». Nel racconto intitolato Da qui a qui c’è il ritratto di una famiglia della middle class americana ove comanda il marito e padre, sgarbato, insensibile, fortemente egotico. La figlia Alison confida il desiderio di vederlo morto: sarebbe una liberazione per la madre che vive sopportando, immersa com’è nella dolorosa accettazione di un destino. Ma è la madre a morire per prima. Alison e il fratello si occupano a distanza del benessere di un uomo che invecchia inacidendosi, che non riesce a considerare gli altri come persone indipendenti e buone ma solo se stesso e le sue piccole e arroganti esigenze. Un borghese di basso profilo che fa un dramma se le costolette d’agnello non sono cotte a puntino. Quest’uomo ha inciso troppo, e ovviamente male, sulla crescita dei figli. Una famiglia che poi non è tanto diversa da altre, un’America normalmente odiosa, mediocre, disgregata nel suo nucleo fondante. Anni dopo Alison torna periodicamente nella casa dei genitori per verificare se il padre, assistito da una ordinatissima badante polacca, stia bene e abbia tutto il necessario. Gli parla, con la disinvoltura dettatale dall’età: «Noi cerchiamo di essere gentili con te. Ci proviamo, ma non è facile, perché sei un egoista anafettivo, un figlio di puttana più freddo ed egocentrico che abbia mai conosciuto. Ci sforziamo in ricordo di nostra madre». Quando la polacca deve assentarsi, è lei a preparargli pranzo e cena. Lui riconosce la premura con un vago «sei una brava ragazza». Tutto qui. Il fratello non si fa illusioni, non ne ha mai avute d’altronde. E il «papà cattivo», in una delle rarissime riflessioni sulla propria vita, conclude una sera: «Be’, siamo stati una famiglia fortunata… la gente divorziava a destra e a manca… sai, alle feste o roba del genere ripetevo sempre: “Questa è la mia moglie originale”. Siamo stati fortunati». Lui sì, gli altri molto meno.
Peugeot, un’avventura lunga duecento anni li entusiasmi suscitati, sul finire dell’Ottocento, dalle prime quattroruote a motore portarono in pochi anni al proliferare di molti costruttori. Diversi poi scomparsi, mentre alcuni hanno tagliato un traguardo centenario, come è accaduto quest’anno ad Alfa Romeo; dopo la fondazione, nel 1910, di quell’Anonima Lombarda Fabbrica Automobili la cui originaria sigla fu associata, nel 1915, al cognome del nuovo proprietario Nicola Romeo. Vi è però una casa, nell’intero panorama automobilistico mondiale, che nel corso del 2010 si è permessa di celebrare ben due secoli di storia: apparente paradosso temporale ma inattaccabile record industriale, legato a una vicenda che prende l’avvio in una regione collinare della Francia nord-orientale, solcata da fiumi la cui corrente turbinosa fornisce energia alle attività molitorie. In questo contesto operano i fratelli Peugeot, che nel 1810 decidono di trasformare il mulino di famiglia in industria metallurgica, mettendo a punto un innovativo sistema di laminazione a freddo che permette di realizzare attrezzi da lavoro e per l’agricoltura,
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di Paolo Malagodi ben presto ricercati anche all’estero per robustezza e durata.Vengono così aperte nuove fabbriche e a cavallo del 1850 compare sui prodotti dell’azienda il marchio del «leone», destinato a distinguersi in vari settori. Il primo approccio, nel 1882, fu con la mobilità delle persone e con la presentazione di un velocipede a ruota anteriore alta, presto seguito da una più moderna e agile bicicletta con trasmissione a catena e dotata di cambio di velocità a due o tre marce, mentre le opzioni comprendono manubrio piatto o sport, copricatena e sterzo con cuscinetto a sfere, sella rigida o a molle. La diffusione della bicicletta inizia però a essere affiancata dall’applicazione di motori sia a vapore sia a scoppio ed è Armand Peugeot a installare, nel 1889, una piccola caldaia a vapore su un triciclo a due grandi ruote posteriori. È la Peugeot Tipo 1 che se non raccoglie consensi apre la strada alla prima vera automobile della casa francese: un quadriciclo biposto, con motore a petrolio della tedesca Daimler che sospinge
Il successo della marca francese dal mulino di famiglia a un futuro tutto elettrico
la Tipo 2, subito evoluta in una quattro posti denominata Tipo 3, della quale si avvia la produzione in piccola serie dal febbraio 1892 e per un totale di sessantaquattro esemplari. Tra questi figura la prima vettura circolante in Italia, condotta da Gaetano Rossi sulle strade della provincia vicentina in avvio del 1893 e oltre sei anni prima della nascita, nel luglio 1899, a Torino di Fiat. Il successo della marca francese è accompagnato, nel 1896, dal primo motore di progettazione propria e alla morte di Armand, nel 1915, Peugeot è ormai una grande industria, destinata a svilupparsi sotto l’egida della stessa famiglia fondatrice sino a figurare tra i massimi produttori automobilistici del mondo e con una produzione che si evolve oggi verso l’ibrido e il tutto elettrico. Come ben documenta uno splendido volume (Moments choisis, ed. L’Aventure Peugeot, 246 pagine di grande formato, 39,00 euro) curato da JeanLouis Loubet, docente di storia contemporanea, con la collaborazione di vari autori. Per un testo di piacevole lettura e riccamente illustrato, che può essere richiesto via web (www.boutiquemusee.peugeot.com) nell’edizione italiana, rivista da Fabrizio Taiana quale segretario del Club Storico Peugeot Italia.
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poesia
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Il cuore indomito di Carducci di Filippo La Porta robabilmente non c’è poeta di cui io, e molti altri miei coetanei, abbia mandato a memoria tanti versi come Carducci! Ora, può darsi che oggi il Carducci più interessante sia quello ultimo, delle Odi barbare, in cui sdogana il verso libero, ma non potevo evitare di scegliere una poesia tratta dalle precedenti Rime nuove, che ogni tanto, nei momenti più imprevedibili, mi canticchio tra me e me - Davanti San Guido -, quella che comincia con la celebre quartina «I cipressi che a Bólgheri alti e schietti/ Van da San Guido in duplice filar,/ Quasi in corsa giganti giovinetti/ Mi balzarono incontro e mi guardâr». Carducci è un poeta per definizione memorabile. Come scrisse perfidamente Carlo Dossi nelle Note azzurre «la forza che molti vantano della poesia di Carducci è di quelle imparate a memoria». Anche perciò la sua poesia conserva così spesso un sapore scolastico. Più tardi ho cominciato a ridimensionarla drasticamente, anche perché la mettevo a confronto con quella coeva del simbolismo, con I fiori del male di Baudelaire, che escono nel 1852, mentre appena quattro anni dopo Carducci conclude la sua Alla musa odiernissima (Juvenilia), con questi versi rivolti contro la poesia che rivendica il «brutto» e il deforme: «or ti/ conosco io tutta,/ O barattiera svergognata putta./ Deh via, sudicia e brutta,/ Lascia, via, di menar tanto fracasso;/ Uccella a’ barbagianni, e statti in chiasso».
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Perfino il suo radicalismo roboante a favore della Rivoluzione francese (si veda Ça ira, dove «Udite, udite, o cittadini. Ieri» riecheggia involontariamente il più bel verso della poesia italiana secondo Saba: «Udite udite del mio cor gli affanni» dall’Ernani verdiano), la sua fama di repubblicano mangiapreti che denuncia il tradimento degli ideali risorgimentali, avevano a ben vedere un segno moderato. Perfino la celebre A Satana rivela una fiducia nelle magnifiche sorti. Se si pensa alla sua irresistibile vocazione pubblica me lo immagino come un coerente Foscolo di fine Ottocento. Anche in poesia l’avversione al sentimentalismo romantico non era disgiunta dalla condanna degli eccessi scapigliati. Dunque, poeta professore (Nicola Merola ha osservato che tutti i poeti italiani fine-secolo sono professori, di università, di liceo o anche mancati come D’Annunzio, che pure si presentava come «sgobbone»), abile e pedante metricologo, cantore della classicità (si legga al-
il club di calliope
DAVANTI SAN GUIDO (…) O nonna, o nonna! deh com’era bella Quand’ero bimbo! ditemela ancor, Ditela a quest’uom savio la novella Di lei che cerca il suo perduto amor! (…)
meno l’ode Alle fonti del Clitunno), senatore Deh come bella, o nonna, e come vera a vita, premio Nobel. L’uomo tende a sparire dietro il monumento a se stesso. La sua vita È la novella ancor! Proprio così. affettiva, appassionata e dolente (disseminaE quello che cercai mattina e sera ta di lutti), quasi si dissolve nello sterminato repertorio di metri (classici e moderni) che Tanti e tanti anni in vano, è forse qui, volle dispiegare: distici elegiaci o pitiambici, strofe saffiche, alcmanie, alcaiche... Eppure non tutta la sua opera andrebbe relegata enSotto questi cipressi, ove non spero, tro un ambito nobilmente «istituzionale» (quella in prosa meriterebbe un discorso a Ove non penso di posarmi più: parte: alcuni saggi sulla letteratura italiana Forse, nonna, è nel vostro cimitero sono straordinari). Fin dall’inizio in Carducci accanto alla figura del vate (ripieno di eruTra quegli altri cipressi ermo là su. dizione) e dell’eroe civile, c’è quell’altra, di misantropo refrattario alla mondanità e al «chiasso», nostalgico della sua Maremma, Ansimando fuggìa la vaporiera degli animali domestici come il mite bue e Mentr’io così piangeva entro il mio cuore; l’umile asino, tutto ripiegato su una dimensione intima - di amori segreti e trepidi - o ciE di polledri una leggiadra schiera miteriale. I versi che ho scelto - a testimoAnnitrendo correa lieta al rumore. nianza della sua vena malinconico-intimistica - sono di una sincerità disarmata, e forse anche Battiato si sarà ricordato nella sua canzone di quel «perduto amor»... Ma un asin bigio, rosicchiando un cardo Nella celebre Alla stazione (1875), dalle Odi Rosso e turchino, non si scomodò: barbare, che è una poesia d’amore per Lidia, ossia Carolina Cristofori Piva (moglie Tutto quel chiasso ei non degnò d’un guardo di un garibaldino), Carducci percepisce se E a brucar serio e lento seguitò stesso come un fantasma, e la realtà intorno a lui come fantasmatica («il cielo e il mattino Giosuè Carducci d’autunno/ come un grande fantasma m’è intorno»). Il da Rime nuove Poeta Laureato, la massima autorità letteraria del proprio tempo, che qui canta l’elogio del suo amore proibito (con il petrarchesco ve, o cari, in breve - tu calmati, indomito cuore -/ giù al «stellanti occhi di pace») avverte una silenzio verrò, ne l’ombra riposerò». pulsione regressivo-estatica: alla fine esprime il desiderio di sprofondare in un In una lettera a Lina nel 1875 dopo aver protestato «tedio che duri», in un torpore quieto e sme- contro la condanna «ai lavori forzati della simulazione morato. E chissà che in questi versi il poeta non nelle galere della nostra società», aveva scritto la sua sentisse come evanescente il proprio mondo, quella utopia: «Ecco, una cosa che io dovrei avere: una bella stessa idea di letteratura, di impegno civile. Sempre dal- villa con bosco, lago, cani, asini… lì porterei tutti i miei le Odi barbare trascrivo questi versi di Nevicata (1881), libri, e addio!». In Davanti San Guido quest’uomo dagli che mi evocano indirettamente il bellissimo racconto di ardori foscoliani rievoca da adulto la favola della nonJoyce I morti: «Lenta fiocca la neve pel’ cielo cinereo: na, smarrita tra i cipressi: «come vera è ancora la novelgridi/ suoni di vita più non salgon de la città/ (...)/ In bre- la...». Più vera della Storia e di ogni sfera pubblica.
SEDIA, FORBICI, SCIARPA... GLI OGGETTI IN VERSI in libreria
DONNE Quando le donne ridono mostrano i denti bianchi come perle preziose e allargano le bocche a mezzaluna, rischiarano il buio della notte, o anche il buio in pieno giorno. Il grigio dell’anima che piange vede il sorriso e si ravviva come un uomo che torna a respirare dopo una brutta malattia. Quando le donne sorridono con gli occhi hanno sollevato l’anima dall’affanno che il mondo ha destinato loro. Antonella Berni
certamente originale il libro bilingue Tangible RemainsToccare quello che resta di Barbara Carle, che inaugura una nuova collana di poesia dell’editore Ghenomena di Formia. È un libro sulle cose di cui ci serviamo: sedia, guanciale, forbici, sciarpa, scarpe, finestra, ecc. È un libro curioso che si può quasi intendere come un gioco enigmistico, perché le poesie non sono titolate e quindi si può cercare di indovinare a cosa l’autrice si riferisce. Ma, attenzione, non è un libro che sa di divertissement, sono poesie che ci calano nella quotidiana vita, nel bisogno di strumenti necessari, nella dimensione semplice delle necessità; ma pure dicono del fluire del tempo. Quella tenaglia che ci incalza e a cui paradossalmente loro, le cose, in buona parte è destinata a resistere. Sono le «reliquie che esistono da centinaia o migliaia di anni e sono sopravvissute ai vari crolli delle civiltà» e che, intatte o logorate, conservate o meno, ci sopravanzano da generazioni e sono la testimonianza di una applicazione umana infinita.
È
Teatro Nel nome di Scarpetta per la spina bifida MobyDICK
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spettacoli
di Diana Del Monte
abato prossimo, 30 ottobre sarà la Giornata nazionale della spina bifida e idrocefalo, momento dedicato all’informazione e all’aggiornamento sull’evoluzione della ricerca in questo ambito. Per l’occasione, l’Associazione «La strada per l’arcobaleno» Onlus ha organizzato una raccolta di fondi affidandosi all’arte teatrale del celebre comico Eduardo Scarpetta e alla sua più fortunata commedia ‘Na santarella. Presso il Teatro Auditorium San Leone Magno, dunque, andranno in scena le disavventure della maschera resa celebre dal comico napoletano, Felice Sciosciammocca, alle prese con i ricatti della giovane di Nannina, detta Santarella. ‘Na santarella, rappresentata per la prima volta il 15 maggio 1989, è stata senz’altro una delle commedie che ha dato a Scarpetta il maggior successo di pubblico. La gratitudine per i lauti guadagni derivanti dalla commedia fu tale che Scarpetta pose all’ingresso del palazzo di sua proprietà nel centro di Napoli tre statue raffiguranti i personaggi principali della commedia. Rappresentata al teatro Sannazaro di Napoli per centodieci sere consecutive, la commedia è entrata nella storia anche grazie a Villa Santarella, la piccola Versailles di Scarpetta, che l’attore e autore napoletano si fece costruire con i proventi della commedia, in cima alla collina del Vomero con la facciata rivolta verso il mare; «nu comò sotto e ‘ncoppa!», la definizione di Scarpetta per l’aspetto dell’edificio, caratterizzato da quattro torrette poste ai quattro angoli, con la dicitura incisa nel granito del portale della villa, «Qui rido io», hanno fatto il giro del mondo incre-
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Televisione
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CHELSEA HOTEL, L’ARTE È PASSATA DA QUI lla numero 100 finì nel sangue la storia di Sid Vicious e Nancy. Alla 822 una giovane e pressoché sconosciuta Madonna accalappiò Basquiat. E al piano di sotto, strimpellava un certo Bob Dylan. Sono molte le vite transitate al Chelsea Hotel, albergo bohemienne costruito sul finire dell’Ottocento a New York. Un luogo di arti e perdimenti, che un grande irregolare come Abel Ferrara racconta in Chelsea on the rocks attraverso filmati d’archivio, interviste e testimonianze degli ospiti celebri. Lavoro prezioso: Ferrara ci porta nella reception dell’arte contemporanea.
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PERSONAGGI
TALENT-SHOW IDIOTI, L’INVETTIVA DI SIR JOHN mentando il mito di questo «re borghese». Lì, Scarpetta organizzava feste memorabili, come quelle in onore della figlia Maria, che si concludevano a mezzanotte con degli spettacoli pirotecni offerti dal commediografo ai suoi ospiti e a tutta la cittadinanza. «Io so’ Sciosciammocca», dichiarava esplicitamente Scarpetta. Il personaggio protagonista di tante commedie napoletane, inclusa ‘Na santarella, è stato interpretato per la prima volta da Scarpetta in un’opera di Antonio Petito - Totonno ‘o pazzo - al fianco della maschera di Pulcinella. Sciosciammocca entra nella tradizione napoletana in un momento di profondo mutamento della gestualità teatrale partenopea, volta a rispondere alle nuove esigenze estetiche, più pacate e moderate, della borghesia di fine Ottocento. Il nome Sciosciam-
mocca, che letteralmente significa «soffia in bocca», descrive un personaggio un po’ svampito, credulone, che cerca di districarsi da una serie di equivoci e di guai nei quali viene immancabilmente a trovarsi. Al centro di numerose farse, Sciosciammocca, oltre al volto di Scarpetta, ha avuto le sembianze di Eduardo De Filippo, figlio naturale di Scarpetta, e di Totò che nella versione cinematografica della commedia scarpettiana Miseria e nobiltà, interpretava proprio il ruolo che fu del grande drammaturgo. I proventi dello spettacolo andranno a sostenere le attività della «Strada per l’arcobaleno»; istituita nel 1992, l’associazione opera in stretto contatto con il Centro spina bifida del Policlinico Gemelli per promuovere la prevenzione, la cura e la riabilitazione di questa grave patologia.
reality ti proiettano subito nello stardom, ma non ti danno gli strumenti: l’unico modo per reggere alla fama è fare gavetta nei piccoli locali e conquistarsi ogni piccolo successo». Contro il dilagare del collaborazionismo catodico, Elton John racconta il suo disprezzo per i talent show in un’accesa intervista a una radio britannica. Una filippica senza risparmio che denuncia lo scadimento del pop a genere senza più inventiva. Colpa degli autori («oggi fanno pietà»), e di una televisione sempre più omologata da format narcotizzanti che sfornano semplici interpreti in balia dei brani altrui, e incapaci di sviluppare creatività in proprio. Meno male che Elton c’è.
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di Francesco Lo Dico
Chiambretti archeologo del para-erotismo er capire meglio la penosa deriva dello spettacolo Chiambretti night (Canale 5 dopo le 23) con un ex Pierino che fa spogliare le sue ospiti nel tentativo di raddrizzare l’audience, vale la pena passare in veloce rassegna quella che ormai è l’archeologia del para-erotismo televisivo italiano. Nel 1977 c’era un’antenna commerciale che si chiamava Tele Torino. Divenne famosa, anche sui giornali stranieri, perché trasmise lo spogliarello di una casalinga (con maliziosa mascherina sul viso). Lo spettacolino s’intitolava Spogliamoci insieme, lo share fu notevole. Poi venne Colpo grosso (su reti della Fininvest, che ora si chiama Mediaset) con il cabarettista Umberto Smaila. Studio arredato alla maniera di un casinò. Una Las Vegas «de noantri». I concorrenti giocavano e scommettevano: il premio era una donna che si spogliava poco alla volta (alla fine si poteva vedere anche il volto, ma che stupor nell’accezione latina ovviamente). Ci furono varie edizioni: Portafortuna, Ragazze Cin Cin. Antesi-
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gnane delle attuali veline, di diverse nazionalità. Il made in Italy pecoreccio attecchì in Germania. Nel 1990 il format venne esportato in Spagna (trasmesso da Telecinco). Altri giochinishow finirono in Giappone, Turchia, Brasile, Albania. Nel 1994 la soubrette Carmen Russo, assente da diversi anni dagli schermi italiani perché impegnata in Spagna, fece la conduttrice di Notte italiana (su Italia 7) assieme al comico Ric (partner di Gian). Sempre spogliarelli, con otto «ragazze bon-bon». Ora tocca a Chiambretti, il dispettoso torinese che ha così dimostrato d’avere nessuna fantasia nel costruire uno show.Tutto è replica, dai perizoma della bellona di turno alla petulante e nevrotica raffica di battutelle, ammiccamenti e risate che vorrebbero (sic!) essere scorticanti e sardoniche e invece appartengono solo all’infanzia spettacolare di
chi si ostina a pronunciarle. Che guaio non procedere avanti, che guaio (personale) scegliere di fare il guitto, che è poi plateale autocondanna di chi non ha mai avuto il talento del mattatore nel gabbione comico. Il pubblico è scarso? Il rimedio è la sentina dell’Italia volgarotta, della parolaccia al posto della parola. Piero chiama Nina Senicar, che oggi si potrebbe definire il lato più morbido della Serbia (dopo quel che è capitato allo stadio Marassi di
Genova), e Melissa Satta. Il penoso tentativo di recuperare lo share va in onda venerdì su Canale 5. La ridottissima lingerie delle ospiti note a chi sfoglia giornali pettegoli e a chi si beve d’un fiato i talk-show pomeridiani è la bandiera del fallimento televisivo in onda in certi, anzi tanti, canali. Qualcuno si dice sicuro che Chiambretti recupererà ascolti. Se vince la scommessa - e può darsi - noi tutti perdiamo la fiducia nei confronti di una televisione che non deve necessariamente mettere sotto il burka le donne (anticipo un’obiezione idiotissima), ma che deve cominciare a ragionare, inventare, far divertire evitando di pensare che l’Italia non è solo uno sgangherato bar di periferia, dove imperano la pernacchia, il rutto da birra e il grido «la vogliamo nuda». Per l’altra Italia non sono disponibili (p.m.f.) ripetitori tv.
MobyDICK
Cinema
air Game, del regista d’azione Doug Liman (Bourne Identity, Bourne Ultimatum, Mr. & Mrs. Smith) è un film scisso. Nella prima parte, la più affascinante, è un thriller politico realista, parecchio romanzato ma basato sulle vicende di una coppia vera. Valerie Plame (Naomi Watts) era un agente Noc della Cia (sotto copertura non ufficiale), corpo di tale segretezza, pare, che gli agenti non si riconoscono nemmeno tra loro. Ufficialmente la bionda e bella spia era manager in una società di capitali a rischio. Suo marito Joe Wilson (Sean Penn), un ambasciatore in pensione, aveva trattato con Saddam Hussein nella ritirata delle truppe dal Kuwait; si era riciclato come consulente finanziario internazionale. Plame era addetta al reparto anti-proliferazione nucleare, che indagava su voci di una vendita del Niger all’Iraq d’uranio arricchito (yellowcake). L’amministrazione Bush era alla ricerca di armi di distruzione di massa irachene per giustificare l’immediata destituzione del brutale tiranno, e una trasferta simile di un minerale essenziale per le «bombe sporche» sarebbe stata la classica «pistola fumante», ragione sufficiente (insieme ad altro materiale sospetto intercettato) per invadere il principale regime-canaglia del Medio Oriente. Valutare il film prescindendo dalle posizioni politiche pro o contro la guerra al terrore di Bush, Blair, Aznar e Berlusconi è arduo ma non impossibile.
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non rinunci alla facile soluzione del melò sulla coppia in crisi. Se ci fosse fino in fondo lo scontro tra opposte visioni politiche (ambiguità e scaltrezza del potere liberale, legittimate da un mondo pericoloso, contro una salvifica sincerità assoluta, igiene della democrazia) sarebbe un film indimenticabile. N.B. Lo script fa dire a Wilson, forse per fugare ogni dubbio sulle sue simpatie politiche: «Saddam diceva, dopo aver ucciso un fedele collaboratore,“Preferisco uccidere gli amici per errore, che lasciare in vita i nemici”. Per me, è la definizione di un mostro». Se quel giudizio arrivasse alla fine del film, anziché a metà, la coppia sarebbe meno eroica e le conclusioni politiche ben diverse.
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La Cia chiede a Wilson, ottimo conoscitore del Niger, il favore di andarci in missione per cercare le prove della vendita di yellowcake all’Iraq. Al ritorno riferisce di non averne trovato traccia, mentre il trasferimento di una merce tanto sensibile in quelle quantità lascerebbe indizi burocratici (paper trail). Forti della convinzione che Saddam, che nega l’accesso libero ai siti iracheni agli ispettori Onu, vada rimosso a ogni costo, Bush e Cheney decidono che la guerra si fa e danno per certo l’acquisto di yellowcake. Wilson, una notoria testa calda (cosa insolita per un diplomatico) scrive un editoriale sul New York Times sbugiardando la storia dell’uranio arricchito, usata per dare urgenza all’invasione. In seguito una soffiata svela l’identità top secret di Valerie alla stampa, rovinando per sempre la sua carriera. (È inventato di sana pianta lo scienziato iracheno collaboratore degli Usa, che nel film è ucciso da Saddam con tutta la famiglia, e che Plame non riesce a salvare come promesso, poiché la Cia sospende tutte le sue operazioni dopo l’outing.) A questo punto inizia una sparatoria mediatica tra oppositori e sostenitori della guerra, e la famiglia Wilson è il bersaglio più esposto. Il titolo Fair Game deriva dalle parole attribuite a Karl Rove, lo stratega di Bush, secondo cui dopo il «tradimento» di Wilson, la moglie era preda legittima. Terminata la parte politica, inizia una telenovela matrimoniale, scontata e melodrammatica. Lei, allenata da 18 anni a servire il suo Paese in silenzio, ha orrore della battaglia pubblica con la Casa Bianca ingaggiata dal marito rompiscatole e pieno di sé. Watts è perfetta, e non solo perché è quasi sosia della Plame. È eccezionalmente brava, trattenuta e credibile in ogni sfumatura del personaggio. Penn delude, paradossalmente perché allinea fin troppo con il cavaliere tutto d’un pezzo e la sua furiosa insistenza su una verità assoluta; sembra recitare con il pilota automatico. L’attivista Sean Penn si sovrappone a Joe Wilson, togliendo verosimiglianza e immedesimazione. La Watts è da Oscar; Penn rende un cattivo servizio alla sua causa. È un peccato che il film
Fair Game
occasione mancata di Anselma Dell’Olio
Sarebbe stato un film indimenticabile quello di Doug Liman basato sulla vicenda di Valerie Plame e Joe Wilson, personaggi realmente coinvolti nella ricerca delle “bombe sporche” di Saddam Hussein. Se non avesse ceduto ai richiami melò... Da non perdere “Uomini di Dio” e “Séraphine”, dedicato alla pittrice Senlis
Des hommes et des dieux, titolo superiore a Uomini di Dio, ha vinto il Gran premio della giuria all’ultimo Festival di Cannes. Il regista Xavier Beauvois ha girato una delle più limpide apologie della vocazione religiosa mai vista. È liberamente ispirata alle vicende di monaci trappisti cistercensi francesi, realmente esistiti, che fino ai primi anni Novanta vivevano pacificamente con la popolazione musulmana sulle stupende alture del Maghreb, in Algeria. Il racconto alterna la quotidianità del monastero, il lavoro nell’orto e nei campi che nutrono l’economia della comunità, le lezioni per i bambini, le cure mediche nel piccolo ambulatorio di frére Luc (il sempre incisivo Michael Lonsdale, memorabile capofamiglia in Munich di Steven Spielberg) con preghiere e liturgie monacali. I brani religiosi recitati sono scelti con sapienza, e illuminano azioni e decisioni dei frati nel corso degli eventi. Otto anni prima dell’attacco alle Due Torri, 14 operai edili croati immigrati sono assaliti e sgozzati nel cantiere da terroristi islamici algerini. Il capo del comando assassino arriva in minacciosa visita al monastero, e nasce la paura. Alcuni monaci vogliono partire ma il priore frére Christian (un perfetto Lambert Wilson) vuole restare e rifiuta la protezione dell’esercito, non confacente alla loro regola di neutralità. Infatti curano un ribelle ferito e la situazione degenera. Il vero soggetto del film non è la spaventosa violenza scatenata, ma lo sforzo di onorare fino in fondo la vita che si è scelta, senza negare la paura, fedeli alla propria missione. La fotografia è bellissima, la regia semplice e senza ricercatezze, affidata a una recitazione corale superba, spesso silente. Si astengano i nichilisti. Da vedere subito. Il film di Martin Provost sul mistero della creatività è la migliore introduzione possibile a Séraphine Louis, in arte de Senlis (18641942) orfana, povera, incolta. A 18 anni la ragazza fa la domestica in un convento, poi presso famiglie borghesi del paese. L’angelo custode le dice di lottare, ma non per un re, come Giovanna d’Arco, ma per l’arte. Per potersi permettere di dipingere (di notte) mangia poco e non paga l’affitto. È la schiodata, innocua e utile del paese, finché nel 1912 un raffinato collezionista tedesco, Wilhelm Uhde, scopritore del Douanier Rousseau e di Picasso, è folgorato dal talento della strana governante, scoperto casualmente; chiama il suo stile primitif modern, termine che preferisce a naif. In due periodi diversi si fa suo benefattore, le regala benessere e successo, poi sparisce. Alla terza, tremenda delusione della vita (la prima riguarda il suo unico fidanzato), l’intensa spiritualità dell’artista sfocia in psicosi. Un film biografico ispirato, elegiaco, terragno, panico, misterioso. La regista, sceneggiatrice e attrice belga Yolande Moreau (Louise-Michel), d’inaudita bravura, ottiene una perfetta fusione con l’anima dell’anomala pittrice. Séraphine ha vinto sette meritati Oscar francesi (i César) per miglior attrice, film, sceneggiatura, fotografia, scenografia, costumi, musica. Da non perdere.
Fantascienza
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di Gianfranco de Turris
ell’arco della sua quasi sessantennale esistenza la fantascienza italiana - la cui data di nascita si pone convenzionalmente nel 1952 con l’uscita di Urania - non ha mai avuto al suo attivo una vera e propria rivista: quelle che ci sono state sono durate assai poco non avendo avuto così il tempo di incidere sui gusti dei lettori. Le eccezioni sono due: Oltre il Cielo, il quindicinale (di nome non di fatto) pubblicato a Roma fra il 1957 e il 1975, fondato e diretto da Armando Silvestri e Cesare Falessi, che però era sostanzialmente una rivista di divulgazione scientifica specializzata in astronautica e missilistica che pubblicava anche racconti di fantascienza (solo dal 1961 le due parti vennero nettamente divise) ma sulle cui pagine esordirono tutti i maggiori autori degli anni Sessanta-Ottanta; e Robot (1976-1978), mensile milanese diretto da Vittorio Curtoni, l’unica vera rivista in senso proprio che però durò troppo poco tempo per dare una svolta al gusto dei lettori italiani. Che sarebbe stata poi un maggior gusto per la narrativa breve e l’attenzione per la parte critica grazie a recensione di libri, film, fumetti, nonché informazioni varie. Magari, come già avvenuto prima della guerra negli Stati Uniti, avrebbe potuto essere anche l’occasione di un contatto fra i vari appassionati.
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A questa tendenza generalizzata dell’editoria e del pubblico si è aggiunta da qualche anno la rivoluzione prodotta dall’elettronica con l’avvento del computer e soprattutto del Rete. Oggi non esistono
MobyDICK
ai confini della realtà
Benvenuti nel peggiore
dei mondi possibili
Tolkien e pubblicò parecchi libri fantasticofantascientifici, e alla passione del suo direttore Carlo Bordoni, narratore, critico e sociologo della letteratura. Al loro coraggio si deve questo trimestrale dedicato, così la sua sigla, all’Insolito e al Fantastico nella più vasta delle accezioni,pur ricordando il termine inglese che vuol dire «se», anch’esso significativo, e che si può acquistare o direttamente per abbonamento (rivistaif@yahoo.it), oppure nelle librerie specializzate il cui elenco si trova anche qui in Rete (www.insolitoefantastico. blogspot.com/2001/01/librerie), dato che l’unico modo per garantirne la continuazione è ovviamente acquistarla. Perché
che induce a leggerla. Infatti, Bordoni da «specialista» ma anche da sociologo ha pensato bene di dedicare ogni fascicolo a un tema o genere diverso poiché ritiene, come ha scritto nell’editoriale del quarto fascicolo: «Non dovremmo dimenticare che il fantastico è il grande oceano comune da cui tutti i generi si alimentano. Ben venga la contaminatio a ridare vigore, perché di una cosa siamo certi: la nuova letteratura del terzo millennio sarà fantastica e passerà attraverso i generi letterari». E poi: «La narrativa“non mimetica”è il più grande patrimonio dell’uomo perché fondata sulla sua straordinaria facoltà di immaginare. L’Insolito e il Fantastico da cui pren-
Compie un anno la rivista trimestrale “IF”, laboratorio dell’Insolito e del Fantastico, che, senza faziosità e rissosità, promuove la “letteratura di genere”. Dopo “Oltre il Cielo” e “Robot”, un felice ritorno specialistico nel mondo della carta stampata più da un bel pezzo riviste professionali o amatoriali (i cosiddetti fanzines) «su supporto cartaceo» (ugh!), ma tutte sono affondate nel Web, sono discese negli abissi di Internet dove forse ne esistono anche troppe accanto a molti blog e siti specializzati. Tutte, eccetto una che oggi raggiunge l’anno di vita: IF dovuta alla testardaggine (è abruzzese doc) dell’editore Marco Solfanelli che non ha dimenticato gli amori giovanili degli anni Ottanta e Novanta quando ideò il Premio
mai lo si dovrebbe? Perché è una pubblicazione fatta bene, seria ma non seriosa, al di sopra delle fazioni e aperta alla collaborazione dei saggisti e dei narratori delle più diverse tendenze e idee con l’unico scopo di analizzare e promuovere la «letteratura di genere».Il che non è poco in un ambiente che ha fatto nel corso dei decenni della rissosità e di un certo tipo di faziosità una delle sue peculiari caratteristiche. «Letteratura di genere» si è detto, ed è uno dei suoi punti di forza
de il titolo la nostra rivista, è proprio il terreno ideale su cui sperimentare insoliti innesti per una letteratura non realista senza più distinzioni». Non può non essere d’accordo con queste affermazioni - che ricordano anche il Borges secondo cui «tutta la letteratura è fantastica» - chi usava i termini contaminatio, nonmimetico, nonrealistico sin dagli anni Settanta, quando la faziosità era giunta all’acme… Ora che le riscopra Carlo Bordoni, che fu uno dei protago-
nisti di quegli anni, fa indubbiamente piacere anche perché ne fa un uso corretto. Che le rialtri, scoprano pensando di averle inventate loro, quasi di possederne il copyright fa meno piacere: ma per fortuna il tempo è galantuomo. Si consideri poi che queste parole Bordoni le ha scritte nel fascicolo dedicato a… Giallo & Noir, per capire cosa egli abbia in mente, che cosa intenda per «narrativa di genere». Infatti altra caratteristica di IF è, come detto, di essere monografica: in precedenza gli argomenti sono stati nell’ordine Robot e Androidi, Oltretomba, Ucronia. Chi volesse avere una informazione ampia e variegata su questi temi può essere sicuro di venire accontentato: segnaliamo, dati i nostri interessi, soprattutto il numero sulla storia alternativa, il più ampio contributo critico sull’argomento sino a oggi edito in Italia, con sette saggi e sei racconti per tutti i gusti e i punti di vista.
Rassegne varie e recensioni completano ogni fascicolo splendidamente illustrate dalle copertine di Franco Brambilla.Anche l’occhio vuole la sua parte. Il fascicolo n. 5 gronderà sangue: sarà infatti dedicato aiVampiri & C. che da un po’impazzano nei libri e sugli schermi, anche qui con saggi e racconti. In seguito si passerà dalla fantascienza tradizionale con Altrimondi (che si può riferire a molte cose diverse) e Alieni (qui non si può equivocare) a quella dai risvolti politici e sociali con Distopie (altrimenti dette Antiutopie) che sono il contrario delle Utopie: quindi non il migliore dei mondi possibili, ma il peggiore dei mondi possibili. Lunga vita a IF e buona lettura.