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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
LA POLITICA D’ESSAI Nelle sale “Post Mortem” di Pablo Larraín
di Anselma Dell’Olio
retroscena che coinvolgono il film al quale ci dedichiamo questa settimana d’accordo con la giuria di Venezia 67 al completo, da lui presieduta, di aver lasciasono curiosi e divertenti; conoscerli aumenterà il gusto di vederlo e vato la politica fuori dalla porta durante le deliberazioni. Ha detto pressappoC’è chi lutarlo in un contesto. Post Mortem del cileno Pablo Larraín è il co: «Abbiamo deciso di prescindere dalla politica nelle riflessioni sulle film dell’ultima Mostra di Venezia che molti festivalieri ritengoopere da premiare», e nel proferire la parola politica ha fatto l’ital’ha considerato lianissimo gesto di sfiorare il mento con il dorso della mano, no il «vincitore morale», in contrapposizione al Leone d’oro il “vincitore morale” con una smorfia eloquente interpretabile come «Non c’è assegnato a Somewhere di Sofia Coppola (da noi pienadell’ultimo festival di Venezia. mente condiviso). Il primo è ascrivibile nel registro trippa per gatti politicizzati». Una parte dei giornalidei film politici d’essai, mentre il secondo è posti, fedeli nei decenni a un polveroso credo poliAmbientato nei giorni del golpe cileno litico solo con la p minuscola, e se si pensa altico bocciato dalla storia, era talmente infuriache rovesciò Allende, il film è godibile ta per il Leone alla regista di Lost in Translation, la millenaria guerra culturale tra valori opposti: yin e yang, soft power e hard power, figli e genitori. Poda mettere in giro l’esilarante fandonia che gli esimi ma troppo metaforico. Aspetto st Mortem ha chiari riferimenti a vicende politiche, contromembri della giuria (tra i quali Gabriele Salvatores, Guillerche si consiglia di ignorare mo Arriaga, Arnaud Desplechin, Danny Elfman) erano stati verse ma non troppo, che piacciono ai festivalieri (il golpe violenper una buona «plagiati» dal diabolico californiano, novella Mamma Ebe, che li to e mortifero guidato dal generale Augusto Pinochet che ha deposto avrebbe convinti con la magia nera a votare per la sua ex-fidanzata, a mo’ il presidente socialista Salvator Allende nel 1973). Quentin Tarantino ha visione... di consolazione per averla scaricata all’epoca. annunciato dal palcoscenico del Palazzo del cinema, prima della premiazione,
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Parola chiave Parlamento di Gennaro Malgieri Il nuovo romanzo di Chiara Gamberale di Maria Pia Ammirati
NELLA PAGINA DI POESIA
L’opera totale di Pier Paolo Pasolini (35 anni dopo) di Francesco Napoli
Genio e sregolatezza: ritratto di Prince di Alfonso Francia I presagi involontari di Allan Folsom di Antonio Picasso
La Bibbia di Adi Nes in tableaux vivants di Marco Vallora
la politica d’
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d’ossa, non piace più, è licenziata, torni quando ha messo su qualche chilo. Lei si difende, insiste d’aver sempre avuto lo stesso peso, che è una donna di classe come lui non ha visto mai, vive in una casa piena di libri e quadri (scopriremo che è di famiglia comunista); finiscono per insultarsi a vicenda. Il funzionario si fa avanti quando Nancy rimane sola e lei lo riconosce come suo vicino. L’uomo si offre di accompagnarla a casa con la sua macchina e lei accetta. Le offre da bere ma non la porta in un bar, le compra una bevanda che sorseggiano per strada; non è un tipo che sa corteggiare una stella del varietà. Dirigendosi verso casa incappano in una manifestazione di comunisti. Un leader della protesta riconosce Nancy e la fa uscire dall’auto. Lei protesta che queste cose non l’interessano, vuole andare a casa. «Sei pazza?», chiede l’uomo, un suo spasimante, come scopriremo. «Nessuno va a casa oggi, non vedi cosa sta succedendo?». La mora con gli occhi azzurri trasparenti, imbruttita da un’orrida parrucca bionda, è prelevata di peso e portata via. Mario rimane solo, abbandonato nella sua auto rossa in mezzo alla folla che scandisce slogan inneggianti al partito comunista cileno.
Hanno altresì accolto Tarantino in conferenza stampa con un salve di fischi. Stavolta l’autore di Bastardi senza gloria, trasformato da oracolo e idolo indiscusso in nemico acerrimo, ha risposto con un gesto ancor più eloquente del primo, che indicava una dedizione all’onanismo dei fischiatori. È stato un finale stravagante per una mostra zeppa di film ottimi, anche se forse mancava quello dell’innamoramento assoluto. Siamo consapevoli che molti non hanno apprezzato Somewhere, ma una giuria assai qualificata ha deciso in piena autonomia che era il migliore. Il cileno non ha preso nulla: bello ma troppo politico, troppo metaforico. Dalla prima inquadratura di Post Mortem ci troviamo immersi in un mondo formalmente specifico, impassibile e carico d’emozioni e d’attesa, stabilendo da subito lo sguardo d’autore. La prima immagine è di un carro armato inquadrato rasoterra dietro i cingolati, mentre avanza scricchiolando. Passa in mezzo a una strada deserta, cosparsa di volantini e cartacce, chiaramente il lascito di una manifestazione sedata e dispersa dai militari.Vediamo un uomo con capelli grigio ferro, lisci e lunghi e l’espressione deadpan, affascinante e repellente, prima attraverso una piccola finestra di casa sua, poi in strada mentre innaffia le piante del suo giardino. È un quartiere tranquillo, pulito, né ricco né povero. Mario Cornejo (l’indimenticabile Alfredo Castro di Tony Manero, apprezzata opera seconda di Larraín, premio per miglior film e miglior protagonista al Torino film festival 2008) è un cinquantenne funzionario dell’obitorio, addetto alla trascrizione dei risultati delle autopsie, dettati dai medici forensi. È una persona dalla vita ordinata, regolare, casa e lavoro. Non ha famiglia né amicizie evidenti. Verrebbe da dire che è un uomo senza qualità, un solitario anaffettivo e distaccato che guarda la vita «alla finestra», dove l’autore spesso lo mostra, taciturno e abitudinario. Non è però, né equidistante da tutto né «senza qualità», anche se appare neutrale di fronte agli sconvolgenti avvenimenti politici che gli scoppiano intorno. Mario ha un universo morale e affettivo con due punti molto fermi: non ammette la promiscuità, ed è perdutamente innamorato di un’estranea, una showgirl del cabaret Bim Bam Bum, Nancy Puelmas (la mirabile, inquietante Antonia Zegers), la sua dirimpettaia.
Al centro del film ci sono due amori non corrisposti: quello di Mario per Nancy e quello di una parte del Cile per il socialismo di Allende. Contro il presidente c’erano i conservatori, guidati dai leader militari antagonisti a un centralismo di tipo comunista, dall’altra la sinistra estrema che voleva una svolta ancora più radicale di quella messa in atto dal primo leader socialista democraticamente eletto in Sudamerica. C’era la guerra fredda: il mondo era diviso come il Cile. Mentre i generali preparano il golpe e i simpatizzanti comunisti manifestano, due persone apolitiche qualunque vengono risucchiate dalla storia. Mario frequenta il cabaret dove Nancy lavora. Paga il biglietto mentre il padrone si lamenta col dipendente al botteghino dei tipacci che frequentano il locale. Entra, si siede, ascolta le barzellette del comico di turno, d’infimo livello. Un entertainer che fa ridere il pubblico con storielle riciclate da commesso viaggiatore, anziché con monologhi articolati, scritti ad hoc, il fondo del barile per i professionisti. Mario si diverte, poi s’alza e sgattaiola nel backstage, finché non trova il camerino di Nancy. Origlia la strigliata del padrone Patricio alla sua ex star: è troppo magra, non ha più le tette, è invecchiata, un sacco anno III - numero 38 - pagina II
essai
Sappiamo come la pensa Mario, il suo
Alcune immagini storiche del colpo di stato in Cile. Sopra, due scene di “Post Mortem” e il regista insieme agli attori protagonisti fotografati all’ultima Mostra del cinema di Venezia
POST MORTEM GENERE DRAMMATICO DURATA 90 MINUTI PRODUZIONE GERMANIA, MESSICO, CILE 2010 DISTRIBUZIONE ARCHIBALD ENTERPRISE FILM
REGIA PABLO LARRAÍN INTERPRETI ALFREDO CASTRO, ANTONIA ZEGERS, JAIME VADELL, AMPARO NOGUERA, MARCELO ALONSO, MARCIAL TAGLE
codice morale, perché quando Sandra, la giovane collega e medico forense, lo invita da lei dopo il lavoro, lui la fredda: «Non hai portato a casa tua il dottor Castillo qualche giorno fa?», le chiede. «Sì, è un mio amico, che male c’è?», ribatte lei. La risposta è lapidaria e colma di portenti minacciosi: «Non vado a letto con donne che vanno a letto con altri uomini. È una brutta cosa, Alexandra, una brutta cosa». Tutti i personaggi del film, a parte i militari e Mario, sono sostenitori di Allende e del nuovo corso politico. Sandra è una donna sessualmente disinvolta, libera e progressista, e anche il primario Castillo vuole «la rivoluzione», con le armi se necessario, vista come una specie d’igiene che rinnoverà il Paese. Mario no, ma il suo desiderio di non condividere la propria donna con altri, preferendo un mesto onanismo, è proposto dall’autore come una deriva moralista, nefasta e riprovevole. Una sera a casa di Mario, senza preavviso Nancy piange a dirotto, e lui con lei; poi fanno sesso, una scena agghiacciante. La situazione degenera. I militari irrompono nelle case dei comunisti, tra cui quella di Nancy; arrestano padre e fratello, lei è introvabile. Mario teme che sia morta, la cerca, dice che è sua moglie. Del resto l’aveva chiesta in sposa subito, senza ottenere risposta. L’orrore della repressione monta, diventa mostruoso, indicibile e Mario si trova in un obitorio invaso da montagne di cadaveri che i militari lo incaricano di catalogare. È arruolato anche nell’autopsia di Allende stesso. I pareri sul finale del film sono discordi: molti lo trovano eccezionale, altri troppo metaforico. In ogni caso il film ha una forza propulsiva che spinge in avanti lo spettatore e invoglia a vedere come andrà a finire. È da notare che tra le poche critiche negative trovate, c’è quella di una nota rivista yankee d’orientamento marxista, The Nation: «Mario diventa complice del golpe militare perché nei festival è un articolo di fede che maschi lugubri che si masturbano in tristi camerette si convertiranno sempre al fascismo». Se si riesce a ignorare la metafora, il film è molto più godibile. N.B. Dopo 17 anni al potere, Pinochet permise un referendum che mise fine alla dittatura; due anni dopo lasciò il potere e tornò la democrazia, caso più unico che raro. È un particolare non trascurabile che nessuno ricorda mai, chissà perché. Da vedere.
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parola chiave
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PARLAMENTO ovrebbe essere il luogo nel quale si concentra la rappresentanza popolare. Dovrebbe produrre leggi (buone, naturalmente) per i cittadini. Dovrebbe essere il motore della politica e della partecipazione della gente alla vita pubblica. Dovrebbe, attraverso i rapporti internazionali, legarsi, nella prospettiva di un fattivo dialogo, ai parlamenti di tutto il mondo e in particolare di quelli dei Paesi vicini. Dovrebbe favorire lo scambio di esperienze legislative e dare il proprio contributo agli organismi rappresentativi internazionali, così come statuito da leggi, trattati e protocolli. Dovrebbe essere il laboratorio di idee innovative, bruciando quindi l’antica e stereotipata immagine del sinedrio di un notabilato poco incline al confronto e arroccato nella difesa delle clientele che lo sostengono. Dovrebbe essere tutto questo e molto altro ancora, a prescindere ovviamente dalla funzione legislativa e di controllore degli atti dell’esecutivo. Eppure il Parlamento sembra essere scaduto, non soltanto nella considerazione dei cittadini, ma degli stessi parlamentari a un impalpabile spazio poco frequentato e sostanzialmente improduttivo.
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Non c’è bisogno delle filippiche dei soliti giornalisti che si accaniscono sulle (poche secondo loro) ore di permanenza a Montecitorio e a Palazzo Madama di deputati e senatori, o che amano indugiare sul prezzo del supplì e su quello della barberia, sulla gratuità dei viaggi in treno e in aereo, all’interno dei confini nazionali beninteso, per dire che il Parlamento vive la sua stagione forse più buia. Le ragioni sono altre. E molto più profonde. Tutte riconducibili al distacco, dovuto anche a cronisti che non sanno raccontare le deficienze del parlamentarismo e le sue pochissime virtù pur frequentando dalla mattina alla sera gli ambulacri dei Palazzi, tra le istituzioni rappresentative e la pubblica opinione, tra eletti ed elettori insomma per il semplice fatto che la politica, così come è praticata da qualche decennio, non interessa più nessuno. Anzi, infastidisce, annoia, irrita. È questo divario che bisognerebbe preliminarmente colmare se si vuole che il Parlamento torni centrale nella vita pubblica. Ma niente lascia bene sperare. Quanto alla produttività, non è una questione che afferisce alla pigrizia dei parlamentari, ma al semplice fatto che se le leggi non hanno copertura di spesa non possono essere approvate. E visto che non ci sono soldi, le Commissioni che cosa licenziano per l’Aula, il nulla? È vero: dal primo gennaio di quest’anno l’assemblea di Montecitorio si è riunita 126 volte
Dovrebbe essere il motore della politica, il laboratorio di idee innovative. Ma sembra essere scaduto, e non solo nella considerazione dei cittadini ma degli stessi parlamentari, a spazio improduttivo
La rappresentanza? Non abita più qui di Gennaro Malgieri
È lo specchio del clima che si respira nel Paese, diviso, avvelenato. Ecco perché nell’Aula raramente si attiva un dibattito ampio, articolato sui grandi temi. Per riportarlo alla sua funzione di strumento rappresentativo dell’intera nazione, bisognerebbe rivederne oltre ai regolamenti anche le strutture (ma non si tiene conto delle sedute dedicate settimanalmente al sindacato ispettivo) e il Senato soltanto 92. La produzione legislativa è stata scarsa, come dimostrano i numeri. Non è che la qualità del lavoro di un Parlamento si misura sulla quantità di norme che produce: vorremmo meno leggi, ma migliori. Settantaquattro provvedimenti, comunque, approvati non sono pochi nel Paese che detiene il primato della produzione legislativa. Poco male se, come è stato osservato con la solita malizia, il 18 ottobre scorso la Gazzetta ufficiale ha pubblicato una legge varata l’8 ottobre. E se poi sono più le leggi di iniziativa governativa che parlamentare ad arrivare in porto, questo è un dato fisiologico proprio di tutte le legislature. Si documentino le
scandalizzate vestali del parlamentarismo violato. Il problema è un altro, come accennavo nelle righe iniziali. È di percezione dell’utilità del Parlamento tra i parlamentari stessi e tra il popolo. Manca, innanzitutto, una cultura che trasmetta il significato della rappresentanza; il reclutamento e la selezione della classe parlamentare non sono eccelse, come ognuno sa; la vita parlamentare si concentra esclusivamente per responsabilità dei partiti, nell’Aula dove raramente (anzi, quasi mai) si attiva un dibattito ampio, articolato, tale da restare negli annali, come pure avveniva un tempo, sui grandi temi. I regolamenti hanno ristretto i tempi di intervento a balbettii: non ne ha guadagnato il prestigio dell’istituzione, ne è derivato lo scadi-
mento del mandato stesso. E poi la campagna denigratoria, oltre ogni accettabile limite, ha fatto il resto. Qualificarsi parlamentare oggi è come professarsi più o meno come delinquente. Ma la democrazia può reggersi su pregiudizi che ne minano gli istituti che dovrebbero qualificarla? Certo che il Parlamento è in crisi. Lo si vede anche esteticamente. Nei lunghi corridoi di Montecitorio sembra che si muovano anime morte alla ricerca di qualcosa che non trovano. C’è un’aria polverosa, si tocca con mano la stanchezza, forse l’inutilità di esercitare una funzione che non soltanto non viene riconosciuta, ma è addirittura irrisa quando non ignorata. Non è un bel clima. Ma è la conseguenza del più generale clima politico del Paese. Di un Paese diviso, incattivito, avvelenato. Perciò, leggendo le parole con le quali chiudeva il suo Moribondi di Palazzo Carignano, Ferdinando Petruccelli della Gattina, agli albori dell’unità nazionale, non posso che sentirmi partecipe di un disagio profondo, come cittadino e, momentaneamente, anche come parlamentare. Scriveva l’uomo politico: «L’esistenza del Parlamento all’interno è il faro su cui si poggiano e riposano gli occhi di tutte le provincie: esso è la fede, la sua coscienza. L’Italia sente che è una; e come tale pensa, ordina, obbedisce, agisce. L’antica geografia, che palpita forse ancora nei brani dei vecchi interessi, diviene un solecismo politico dal momento che si ode la voce che parla dalla tribuna italiana… Cuore e cervello, dal Parlamento sgorga la vita, la volontà, il pensiero e la coscienza, la forza, la fede; procede da tutti, ed è tutto. Esso è la legge».
Nel tempo della disunità nazionale è fatale che anche il Parlamento ne risenta. Non è questione di «produttività» da parte dei legislatori, ma di una missione nuova che le assemblee legislative dovrebbero darsi, al passo con i tempi. Per esempio partecipando di più e meglio alle attività internazionali delle quali fanno parte e, con supremo scorno, per taluno vengono viste come perdita di tempo. Certo, se si ritiene che la funzione parlamentare debba ridursi a pigiare un bottone, hanno ragione i «minimalisti» del parlamentarismo funzionale alla difesa delle maggioranze. Ma se, come crediamo, il Parlamento, oggi soprattutto, dovrebbe dedicarsi a ben altro, come strumento rappresentativo non dei collegi, ma dell’intera nazione, sarebbe il caso che si ripensasse e rivedesse non soltanto i suoi regolamenti, ma anche le proprie strutture. Una democrazia che vive nel passato, è una democrazia destinata a deperire. In Italia ci siamo vicini.
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Pop Philip Selway
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musica
unplugged (aspettando i Radiohead) di Stefano Bianchi he fine hanno fatto i Radiohead? Sono pronti, il nuovo disco è cosa fatta. Anzi, no: devono tornarci sopra. Contrordine: forse lo cancellano e ripartono da zero. Ma nell’attesa che la band dell’Oxfordshire artefice di OK Computer, Kid A e Amnesiac - si rifaccia viva per rivoluzionare ancora un po’ la musica, il batterista Philip Selway è uscito dal gruppo per fare il solista. Divorzio? Tutt’altro: «I miei compagni non hanno fatto che incoraggiarmi», ha precisato. «E siccome i Radiohead sono democratici, ognuno di noi è contento se l’altro se ne va per la sua strada dimostrando quel che vale. Dopodiché, soddisfatta la voglia, ritornare a casa è ancora più bello». Dopo il vocalist Thom Yorke (The Eraser), il chitarrista Jonny Greenwood (Bodysong e la colonna sonora di There Will Be Blood) e l’altro chitarrista Ed O’Brien (la colonna sonora di Eureka Street), tocca a Selway: «In questi anni ho imparato cosa vuol dire comporre canzoni. Ero convinto di voler incidere un album solista, ma lo ritenevo un progetto troppo ambizioso. Senonché, il dolore per la morte di mia madre Thea (grande fan dei Radiohead) e l’aver superato la boa dei quarant’anni, mi hanno fatto prendere la decisione giusta». Che s’intitola Familial e ruota attorno agli affetti più intimi, schietti, nostalgici. Proprio per questo motivo, Philip ha abbandonato la batteria, ha imbracciato la chitarra acustica e s’è messo a cantare. Le bacchette, per una volta, le
C
Jazz
ha lasciate in mano a Glenn Kotche dei Wilco che lo segue in quest’avventura col chitarrista Pat Sansone (idem: Wilco), il bassista Sebastian Steinberg dei Soul Coughing e la cantante Lisa Germano. Che ci sapesse fare con la chitarra e il canto, Selway l’ha capito dal vivo, a Melbourne, quando nel 2009 ha intonato la sua The Tie That Bind Us nel concerto benefico intitolato The Sun Came Out e organizzato da Neil Finn dei Crowded House, che comprendeva anche Kotche, Sansone, Steinberg e la Germano. Valeva la pena, quindi, rimettersi in gioco proprio con loro («Ho avuto la sensazione di aver formato una
band ready-made, come certe opere d’arte») e dar vita a Familial, disco che più distante dai tormenti, dalla visionarietà e dalle sperimentazioni dei Radiohead non potrebbe essere. «Quando ho cominciato a inciderlo, mi sono fatto guidare dalla musica che più amo: quella di Nick Drake e Will Oldham». E si sente. Musica disossata, intimista, unplugged. Un folk che in qualche passaggio ricorda Paul Simon e Crosby Stills Nash & Young. Philip Selway ci sa fare con le ballate. E se per caso gli è sfuggita qualche interferenza elettronica che fa rima con Radiohead, è capitato solo in Beyond Reason: accanto alla sua voce in falsetto e a un bel po’ di ritmi tribali. Tutto il resto è dolce, talvolta serioso, perfino leggero e leggiadro. Le vellutate carezze e lo scorrere cristallno di A Simple Life e della conclusiva The Witching Hour, convivono con la disarmante, ipnotica nudità di All Eyes On You e Patron Saint, la convincente solennità di Broken Promises, le toccate e fughe dolcemente cameristiche di The Ties That Bind Us e Falling. E ancora By Some Miracle, sinuosa ballata con chitarra acustica e sbuffi orchestrali, che si mette a dialogare con Don’t Look Down: altra ballad, capace di crescere un poco alla volta incorniciata dal canto che è un sussurro, dalla chitarra e da un pianoforte che a sorpresa scivola nel jazz crepuscolare. Adesso, però, sotto coi Radiohead. Philip Selway, Familial, Bella Union, 17,90 euro
zapping
di Bruno Giurato
ALLA RISCOPERTA del music-in-Italy a notizia è che noialtri italiani abbiamo scoperto il musical, perché a quanto pare il nostro musical l’hanno scoperto gli americani. Si dice che la versione dei Pooh di Pinocchio abbia riscosso il grande successo newyorkese. Una consacrazione, ma anche qualcosa che assomiglia al sushi a Milano o ai gamberi argentini in Costiera Amalfitana. Rimane un po’ difficile da credere, almeno a noialtri diffidenti e malfidati, dopo che a Broadway si videro spettacoli indigeni con orchestre di cento musicisti e tutti gli attori che erano anche cantanti e ballerini sui pattini (non stiamo scherzando, parliamo di Starlight Express). E dato che qualunque italiano che va in Usa torna con racconti mirabolanti, anche se poi alla fine si scopre che era un grande riscontro alla cena sociale del circolo amici di Montemarano a Broccolino, qualche dubbio resta. Che poi l’Italia abbia scoperto il musical è un dato di fatto: da Mamma Mia!, in cartellone in questi giorni ad altri successoni come Il gobbo di Notre Dame, che ha fatto rinascere il cervo a primavera Cocciante, il musical spopola. È comodo perché non macchia d’erba i pantaloni e non fa passare attraverso i tristi stornelli degli stadi, come succede per i concerti tradizionali. Ma è anche rock invece che lento, ossia offre emozione e cinematica rock, laddove nella nostra tradizione c’erano la classica e l’opera, troppo formali. Allo stato attuale il musical è la soluzione per le compagnie, per i teatri, per i musicisti: coi tempi di crisi nera che corrono non è poco. Resta la sensazione di prodotto autarchico più che originale, di orto di guerra, di caffè alla cicoria, di downshifting del sentimento. Insomma resta il sapore di gambero argentino pescato molti mesi fa, surgelato a tempo debito. Più che music-hall, music-ddu camere e cucina.
L
Django Reinhardt, tre dita di genio hristian Cascio è un giovane regista televisivo e cinematografico francese di origine italiana che ha già realizzato numerose trasmissioni e cortometraggi. Recentemente ha presentato al Forum des Immage des Halles di Parigi, in una serata a inviti, alla presenza del pubblico parigino del jazz, il suo ultimo lavoro, Django Reinhardt, trois doights de genie, prodotto da Françoise Gazio con il contributo, fra gli altri, dell’Ina (l’Istituto dell’audiovisivo francese) e di France Télélevision. Il soggetto: la vita del grande chitarrista manouche Django Reinhardt, che perdette l’uso di due dita della mano sinistra durante un incendio della sua roulotte e di cui ricorre quest’anno il centenario della nascita. Oggi che il jazz ha perduto tutti o quasi i musicisti che l’hanno reso immortale, questi stessi musicisti e soprattutto la loro musica vengono fatti rivivere attra-
C
di Adriano Mazzoletti verso documentari e film anche di lunga durata, come questo su Django, autentico capolavoro della cinematografia jazzistica. Essere riusciti a realizzare un’opera di cinquantadue minuti, tanto dura il film di Cascio, solo con le sequenze di pochi minuti che rimangono di Django, ha del prodigioso. Le uniche immagini filmate conosciute in cui è possibile vedere Django mentre suona con il Quintette du Hot Club de France o in duo con Stephane Grappelli, nella straordinaria interpretazione di Tornerai, la celebre canzone di Dino Olivieri, si riducono a non più di cinque o sei minuti. Cascio e i suoi collaboratori sono invece riusciti a rintracciare altre immagini dimenticate o sconosciute, in cui si vede Django suonare negli accampamenti con suoi amici manouche oltre a una veloce sequenza dal film di copro-
duzione italo-francese del 1953, l’anno della sua scomparsa, uscito in Italia con il titolo Saluti e baci e in Francia come La route du bonheur. Si vede Django durante un viaggio in treno, mentre suona per le persone che si trovano nello stesso scompartimento. È davvero sconcertante, come rimanga così poco, da un punto di vista dell’immagine sonora, di uno dei geni della musica del XX secolo. Il film che racconta la breve esistenza di questo straordinario musicista è ricco però di altri documenti. Sequenze relative alla vita dei manouche all’inizio del secolo scorso, la Parigi negli anni Venti, quando Django iniziava a suonare con i complessi dei fisarmonicisti impegnati nei bal-musette, oltre a testimonianze di grande interesse di alcuni dei suoi vecchi compagni, il batterista Roger Paraboschi, il contrab-
bassista Alf Masselier e soprattutto Stephane Grappelli, il suo partner più fedele. La sorpresa del film risiede però nella presenza di un chitarrista di soli ventiquattro anni, la cui somiglianza fisica con Django è davvero impressionante. Si tratta di suo nipote David, figlio di Babik, uno dei suoi figli. Le qualità di questo ragazzo sono notevoli. Un nuovo Django? Forse. Il film che ci auguriamo possa giungere presto anche in Italia è stata trasmesso dalla televisione francese e sarà presto pubblicato in dvd.
arti Fotografia
MobyDICK
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di Marco Vallora
elusione. O meglio, cattive speranze sul futuro. Questa l’impressione che si desume visitando, sia pure in fretta, confessiamolo per onestà, la mostra dal titolo promettete di Futur Perspectives: per scoprire che cosa ci attende nel futuro fotografico. Con «obiettivo» più che ambizioso: «può la fotografia interpretare il futuro»? No, si direbbe, a sguardo sommario. Quindi tutto bene, sino al momento della verifica: bene accorpare le varie sedi del FotoGrafia Festival di Roma (nona edizione) in un unico luogo concentrato, senza vezzi vernissagici e corsette di navette. Nonostante poi i connessi inghippi politici e i lentori burocratici. Bene i vari curatori, forse troppi, che coadiuvano il fondatore Delogu. Bene il tema, forse troppo ambizioso, però, che costringe a pescare non nella buona fotografia e basta, ma s’intrippa nei no man’s land del critichese e dei paesaggi-no, tra paroloni concettosi e presunzioni nulle: futuribile, sostenibile, virtuale, rete, editoria del non ancora, intermedialità e bla e bla: così poi i risultati si vedono. Desolazione e basta. Forti della convinzione, confusamente Roland Barthes, che uno scatto sia già morto quand’è scattato (gabbata la sacralità del presente) e ci parli solo del passato, mentre qui si vorrebbe ipotizzare il futuro, a base di lande desolate straviste, di chiesine improvvisate nel mondo «selvaggio» delle missioni (le migliori?), di non-luoghi autostradali e banlieustici stra-Augiè, e bambini del futuro che strillano disillusi, con però le solite cinesine stra-munte e consumistiche di O Zhang, pestate nella zangola buddistica del déjà déjà déjà vu. Il problema è un altro, ed già tra noi, spettro allarmante. Che la fiorente saggia fotografia che spesso segnaliamo e ringraziamo come unica alternativa valida e monitoria e sana, rispetto a un’arte sempre più asfittica e fasulla, rischi, per non essere fotografia
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Architettura
bleaux vivants, va vissuto però come provocazione stridente: un Bruce Weber sarcastico, alle soglie di una morte «truccata». Così il topos, ormai insostenibile dell’Ultima Cena riaddobbata (nell’insopportabile versione femminista & stop della debole Sam Taylor Wood o nell’operazione più indegna e razzista che l’arte contemporanea abbia conosciuto: l’ultima cena-becera di Vanessa Beecroft, rifatta al Pac, con clochard veri a piedi nudi, deportati dai centri di smistamento e offesi-prigionieri del delirante pubblico snob dei soliti vernissagiste) acquista qui un significato più autentico. Una tavolata normalissima di commilitoni, sciolti non dall’iconografia dell’ultima cena ma dagli stereotipi del contemporaneo, che dialogano mangiano scherzano in una naturalezza coinvolgente, il Cristo-soldato astratto in una solitudine pensosa e un quattordicesimo milite imprevisto, che sopraggiunge a rompere il leonardesco effetto-stereotipo, facendosi accendere la sigaretta della sorpresa. Con augurio, dice l’artista-commilitone, che non sia l’ultima, di cena (nessuno «tradisce» del resto quest’aura di cameratismo virile). Coraggioso, quando rifà la celebre copertina di Life Magazine sulla vittoria della guerra dei Sei Giorni, quasi fosse una pubblicità di Vogue, Adi Nes dà il meglio di sé quando reincarna la Bibbia, in sequenze caravaggesco-pasoliniane. Abramo clochard sacrifica Isacco portandolo in un carrello di supermercato, Ruth e Naomi raccolgono i resti di cipolle in un sgombero di mercato, Giacobbe ed Esaù si contendono la progenitura in un piatto da ricovero per sbandati.
La Bibbia di Adi Nes in tableaux vivants e basta, ma solo per farsi più concettuale e «artistica non-artistica», rischi di snaturarsi e d’infiacchirsi, come capita appunto qui, vanificandosi nella fumosità postavanguardistica. Allora forse preferiamo, un po’estetizzante (ma cerchiamo di capire perché) la sommovente retrospettiva dell’israeliano Adi Nes, a Palazzo Poli, nel quadro dello stesso festival (lo avevamo già conosciuto in una mostra al Museo Andersen sempre di Roma). Israeliano è troppo poco: ebreo «nero», figlio di padre iraniano e madre curda (leghisticamente e bestialmente potremmo dire che «le ha tutte, su di sé»), gay dichiarato nel kibbutz dove è vissuto e nell’esercito più viriloide
che ci sia (con cedimenti camerateschi, che il cinema ci ha già ampiamente narrato), israeliano ma critico del regime, marxista-polemico, in un mondo guastato dal capitalismo, Adi Nes porta su di sé questa stimmate dannate, ma le volge in un paradossale angelismo provocatorio. Si guardi per esempio la turbante fotografia del soldato ferito, come Cristo deposto nella paglia impastata di guerra, con stimmata aperta nel costato un po’ Madame Tussauds e curato da un altro soldatinosanta Irene, che non lo sana con un bisturi, ma con un piumino da trucco. L’effetto dolce e gabbana ed apparentemente gay pride, che pennella anche altri scatti-ta-
Adi Nes. Deposizione, Roma, Istituto nazionale per la grafica, fino al 15 novembre
Uso e usura: se l’ispirazione nasce dallo “smorzo” ra i padiglioni nazionali della Biennale d’architettura di Venezia, quello del Belgio si distingue per originalità e impegno etico. È ideato dal gruppo Rotor, composto da sei architetti di varia nazionalità (Belgio, Francia, Germania), sotto i quarant’anni. Attivi a Bruxelles, i Rotor vennero alla ribalta nel 2007, allorché allestirono un atelier con materiali di reimpiego, incastrato tra i puntoni di cemento armato di sostegno di un edificio a rischio dopo la demolizione del palazzo attiguo. Il piccolo atelier che, appollaiato su un vacuo urbano, dimostrava le potenzialità sia dei detriti edilizi che delle accidentali falle nella compagine urbana, divenne vivace luogo di incontro fino al suo smantellamento nel marzo 2008. L’impegno progettuale dei Rotor, dimostrativamente materializzato dall’atelier temporaneo, si distingue per la concreta sostenibilità dell’edificare, finalizzata al riuso dei residui di demolizione e di dismissioni edilizie. Gli stessi interni della sede dei Rotor in rue Laeken a Bruxelles sono stati allestiti con materiali reperiti in sistematici sopralluoghi nelle discariche edilizie intorno alla ca-
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di Claudia Conforti pitale belga, dove sono stati estratti una scala elicoidale in acciaio e sistemi di illuminazione, provenienti da uffici dismessi. I pregiati pannelli di legno invece sono stati asportati appena prima dello smantellamento attuato per fare spazio al nuovo Bruxelles Casino a De Brouckère. Riadattare in opere di nuova progettazione interi pezzi di costruzioni abbattute, se comporta ulteriori vincoli al progetto, contribuisce a eliminare, reimpiegandoli virtuosamente, notevoli quantità di detriti. Dunque un doppio esito: risparmio costruttivo e beneficio ecologico. Oltre a ciò il reimpiego comporta una particolare attenzione ai materiali di potenziale riuso e alle tracce che usi e usure vi hanno impresso. Per questa via si può trarre insegnamento dagli errori impressi sulla materia dal progetto che sovrintese alla loro originaria messa in opera: polveri annose depo-
sitate in punti non raggiungibili dagli aspiratori e dalle scope; impronte di utensili, graffi e solchi su superfici troppo vulnerabili per l’uso; parziali alterazioni cromatiche indotte dal contatto ripetuto e identicamente localizzato o dalla diversa esposizione alla luce; e così di seguito. Nei depositi di materiali da demolizione, quelli che a Roma si chiamano «smorzi», abbondano porte di sicurezza in acciaio, termosifoni, tubi, sanitari, placchette, ringhiere, plafoniere e altri materiali che possono facilmente essere reimpiegati. Per pubblicizzare questa scelta metodologica, dal forte impegno sociale, è necessaria una messa in scena suggestiva ed efficace. Perciò a Venezia i Rotor espongono in mostra una selezione di materiali, tutti recuperati sul territorio belga e provenienti da edifici (o parti di essi) intensamente usati, e subitaneamente dismessi: quali gradini di legno, pannelli in granito con portacenere del metrò, pavimenti di gomma, piani di lavoro, corrimani metallici, moquettes. Tali frammenti di edifici distrutti sono esibiti su pareti di intonaco bianco e astratto: isolati come feticci autoriali, mentre dimostrano il fascino che può emanare dai residui di architetture morte se illuminato dallo studio inventivo della realtà materiale, ammiccano maliziosamente alla tradizione artistica, squisitamente novecentesca, del ready made.
MobyDICK
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il paginone
Ascese e cadute, primati e bizzarrie dell’unico, vero innovatore della musica nera degli ultimi trent’anni. Che martedì si esibirà a Roma (dopo 25 anni di assenza dalle scene della Capitale) per presentare la nuova fatica, “20Ten”. Che però non si trova nei negozi e neanche su Internet. L’ennesima stranezza di…
Quel genietto di PRINCE di Alfonso Francia l primo musicista a disdire un contratto con una major. Il primo artista nero a vedere un suo video passato a rotazione continua su Mtv. Il primo a vendere dischi su internet. Il primo a regalarli come allegato a una rivista. Sono credenziali sufficienti per incoronare Prince come il più innovativo artista rock che l’industria discografica ricordi. Fa quindi una certa impressione sapere che oggi, superati i 50 anni e con 27 album alle spalle,
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è uscito neanche negli Stati Uniti). I fan italiani sapranno senza dubbio perdonare l’eccentrica star, anche perché non saranno certo le canzoni più recenti le più richieste durante gli show. Questa ennesima stranezza è comunque l’occasione per elencare alcuni dei primati e delle bizzarrie dell’unico vero innovatore della musica nera (hip hop escluso) degli ultimi trent’anni. Un musicista talmente dotato da potersi permettere di sprecare il suo enor-
Fu il primo a vendere i suoi dischi in Rete, ma ora non esita a decretarne la morte: «È completamente out - dice - e in ogni caso il digitale non fa bene. La musica è meglio suonarla dal vivo» per farsi notare il genietto di Minneapolis sia costretto a ricorrere alla forma di pubblicità più elementare: una serie di concerti in giro per l’Europa. Per l’Italia in effetti si tratta quasi di un evento. Prince, atteso a Roma al Palalottomatica martedì prossimo (il giorno successivo sarà al Forum di Assago a Milano), non suonava nella Capitale dal 1990 e non si faceva vedere nel nostro Paese dal 2002, quando regalò al pubblico meneghino una performance eccezionale. In questa occasione l’artista si dovrebbe esibire con una band ridotta all’osso per presentare l’ultimo lavoro, intitolato 20Ten. Fin qui nulla di strano, se non fosse che il disco non è mai arrivato nei negozi e neanche è disponibile legalmente in download digitale. Prince ha deciso di distribuirlo assieme ad alcune riviste in vari Paese europei, ma non in Italia (se non altro siamo in buona compagnia, l’album non anno III - numero 39 - pagina VIII
me talento in decine di progetti senza capo né coda, come colonne sonore scritte a quatto mani con il padre, album tripli assemblati in tutta fretta solo per il gusto di regalare musica nuova ai suoi estimatori e film improbabili che - per fortuna non hanno quasi mai raggiunto le nostre sale.
Il catalogo delle imprese del nostro è inverosimile, degno di un eroe omerico, eppure non c’è nulla di inventato nella lista dei suoi traguardi. Il piccolo
Prince Roger Nelson, nato a Minneapolis il 7 giugno 1958, cominciò a suonare il piano a sette anni, la chitarra a 13, la batteria a 14. I genitori non dovettero neanche svenarsi per pagare maestri di musica, perché il ragazzo faceva tutto da solo, imparando da autodidatta. Pure il suo esordio ha qualcosa di mitologico: il primo LP - pubblicato per la Warner Bros quando ha appena vent’anni presentava un solo nome nell’elenco dei musicisti accreditati, il suo. Fino a Purple Rain Prince suonò da sé ogni singola nota presente sui suoi dischi, facendosi accompagnare da una band solo dal vivo. Tempo cinque anni e diede alle stampe il suo primo doppio, 1999, che si arrampicò fino alla vetta della top ten. Da esso venne estratto il singolo Little Red Corvette, che in versione video fu trasmesso ossessivamente da Mtv. Il fatto non sarebbe così eccezionale, non fosse che Prince è
nero e sulle frequenze del canale musicale gli artisti di colore raramente venivano ammessi. Galvanizzato da questi risultati, Prince decise di raddoppiare e fece scrivere un film su misura per lui, nel quale recitava la parte del protagonista e per il quale realizzò la colonna sonora. Il risultato fu Purple Rain: l’album vendette ben 13 milioni di copie e restò in cima alle classifiche statunitensi per 24 settimane (e stiamo parlando del 1984, l’anno in cui uscì Born in the Usa di Bruce Springsteen!); il film si aggiudicò l’Oscar per la miglior canzone originale. Era dai tempi dei Beatles che un artista non riusciva a occupare contemporaneamente il primo posto della classifica dei film più visti, degli album e dei singoli più venduti. Una delle tracce, la sboccatissima Darling Nikki, diede poi occasione a Prince di farsi incoronare paladino del diritto di espressione. Il testo, che tra i
vari riferimenti a sfondo sessuale comprende anche un accenno alla masturbazione, venne considerato talmente oltraggioso dalla scrittrice e attivista Tipper Gore (la moglie del futuro vice-presidente Al), da indurla a lanciare una crociata perché sui dischi che contenevano testi volgari venisse apposta un’etichetta che avvisasse del contenuto esplicito dei testi. Lo sticker, che recava l’ormai celebre dicitura Parental Advisory Explicit Lyrics, divenne un inatteso veicolo pubblicitario: si scoprì che i giovani preferivano comprare album che avessero la controversa etichetta sulla copertina e quindi fossero certificati come «oltraggiosi».
Ma Prince non seguì più di tanto queste beghe da tribunale: a metà degli anni Ottanta era completamente concentrato sulla sua musica, che mostrava un’irresistibile inclinazione a fondere sonorità fino
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dell’album, una raccolta di canzoncine raffazzonate e condizionate dal tronfio hard rock da stadio che impazzava in quegli anni. Il ritrovato feeling con il mondo della celluloide lo convinse a fare un nuovo tentativo con il cinema. Nel 1990 uscì nelle sale Graffiti Bridge, scritto, diretto e interpretato da Prince in persona. Si trattava di un sequel dell’applauditissimo Purple Rain, ma il pubblico non gradì e disertò le sale. Pure questa volta il grande artista era troppo preso da nuovi progetti musicali per trovare il tempo di affliggersi: nel 1992 rinnovò il suo contratto con la Warner per l’astronomica cifra di 100 milioni di dollari ottenendo anche - caso unico nella storia del pop - la qualifica di vicepresidente dell’etichetta. Sembrava l’inizio di una fase finalmente tranquilla nella sua vita professionale, ma il nostro cominciò proprio allora a dare strani segni di irrequietezza. Prima ripudiò il suo nome, pretendendo che ci si riferisse a lui semplicemente come The Artist o come Tafkas (impronunciabile acronimo di The Artist formerly known as Prince, l’Artista una volta conosciuto come Prince); poi pubblicò un disco bellissimo ma privo di titolo, battezzato dai fan Love Symbol Album a causa di uno strano ghirigoro in copertina, raffigurante la fusione tra il simbolo del sesso maschile e di quello femminile; infine, nel 1994, riuscì a farsi scaricare dalla Warner e decise di pubblicare per una piccola etichetta indipen-
Cinquant’anni suonati e 27 album alle spalle. Da autodidatta cominciò a suonare il piano a 7 anni, la chitarra a 13, la batteria a 14. E nel 1984, con “Purple rain” dominò le classifiche ad allora considerate inavvicinabili. Tra il 1985 e il 1986 pubblicò una coppia di album solari e pop, Around the World in a Day e Parade, che molti critici interpretarono come un omaggio ai soliti Beatles. A dir la verità il secondo sarebbe la colonna sonora del nuovo film di Prince, intitolato Under the Cherry Moon, ma nessuno se ne ricorda perché la pellicola fu un fiasco clamoroso. Praticamente ignorata dal pubblico, si aggiudicò i Razzie awards - celebre parodia degli Oscar - per il peggior film e per il peggior attore protagonista (Prince ovviamente). Sembrava insomma che l’artista non potesse convivere con le mezze misure: non esisteva una terza via tra la consacrazione e la figuraccia. Il nostro non sembrò accusare il colpo: in quel periodo era infatti impegnato con le registrazioni di quello che doveva essere il suo lavoro definitivo: un album triplo - registrato in buona
parte da lui solo - che contenesse la sua intera visione musicale, intitolato Crystal ball. Unico musicista esterno alla band a venire coinvolto fu sua maestà Miles Davis, che in effetti suonò la tromba in una delle canzoni ma non venne accreditato. Il progetto fu però ridimendalla sionato Warner, timorosa di vedersi rifiutare dal pubblico un’opera tanto estesa e complessa, e il 33 giri, ribattezzato Sign o’ the Times, uscì come «semplice» doppio nel 1987. Nonostante si trattasse di un indiscutibile capolavoro (forse il suo miglior disco in assoluto, un viaggio nella psichedelica hendrixiana mediata da una suprema conoscenza del funk e resa accessibile da una serie di melodie orecchia-
bilissime), Prince ne restò sempre insoddisfatto perché lo considerava incompleto. Per di più il lavoro si arrestò al sesto posto della classifica americana, risultato onorevole per chiunque ma un mezzo fiasco per uno che aveva dominato qualunque top ten nei tre anni precedenti. Cominciò a manifestarsi allora la sua insofferenza nei confronti dell’industria discografica, che negli anni Novanta lo indusse a scelte temerarie ma economicamente suicide.
Nel 1989 l’artista tornò comunque in vetta alle classifiche firmando la colonna sonora del primo Batman: il successo di vendite purtroppo non riuscì a nascondere la scarsa qualità
dente proprio mentre i più improbabili gruppi underground, sulla scia del successo dei Nirvana, riuscivano a firmare un contratto con i giganti dell’industria discografica.
Da allora Prince dimenticò anche il solo significato del termine «misura». Finalmente libero di assecondare le sue manie di iperproduttività, diede alle stampe sei album nel triennio 1994-‘96, per poi ritirarsi a lavorare su un progetto mostruoso, una raccolta di inediti intitolata Crystal Ball. Il lavoro uscì nei negozi nel 1998 suddiviso in quattro compact disc, mentre un’edizione arricchita, con un cd di musica strumentale, venne venduta solamente su internet. L’intero progetto fu un disastro commerciale, anche perché il grande pubblico non era ancora pronto ad acquistare online. La critica d’altra parte non si spellò le mani, anzi stabilì che l’artista era ben avviato lungo il
viale del tramonto. In effetti, anche se la monumentale opera presentava parecchi momenti di pregio (soprattutto The ride, Dream Factor e Crucial, outtake registrate dieci anni prima), questi risultavano annegati in una marea di tracce dozzinali e poco incisive. Ma il colpo non bastò a curare la bulimia produttiva dell’artista, che di lì al 2001 diede alle stampe altri quattro cd, tutti più o meno velocemente dimenticati. Con il nuovo millennio, fortunatamente, l’artista recuperò una certa misura. Riprese il vecchio nome di Prince, limitò le uscite discografiche e festeggiò la sua conversione alla fede dei Testimoni di Geova con un lavoro finalmente ben riuscito e organico, intitolato The Rainbow Children, nel quale si cimentò per la prima volta con atmosfere jazz. Il ritorno alla normalità venne però sancito dall’introduzione nella Rock’n’roll Hall of Fame nel 2003 e soprattutto con l’uscita di Musicology, disco nuovamente pubblicato da una major che nel 2004 segnò il ritorno in grande stile sulle copertine delle riviste specializzate. Ebbe buona accoglienza anche il successivo 3121, simile al predecessore e fin troppo misurato per gli standard del suo autore. Ma il desiderio di osare tornò presto a farsi sentire: nel 2007 venne annunciata l’uscita di Planet Earth, l’ennesimo album, ma questa volta furono le edicole e non i negozi a ricevere le prime copie. Nel giorno della pubblicazione il compact venne infatti allegato gratuitamente al tabloid Mail on Sunday. Il progetto è stato ripetuto nel 2009 con il triplo Lotus Flower e ancora quest’anno con 20Ten, distribuito in Regno Unito, Francia, Germania e Belgio con altrettanti magazine. Per l’occasione Prince ha detto addio a quella Rete che aveva così entusiasticamente abbracciato quando internet era ancora un affare per appassionati e addetti ai lavori. Motivando la sua contrarietà a rendere disponibile l’ultima fatica in formato digitale, Prince ha spiegato a un giornalista del Daily Mirror che «internet è completamente finito, e non vedo perché dovrei dare la mia musica a iTunes o a chiunque altro». «Internet è come Mtv ha rincarato - per un certo periodo era di moda ma ora è completamente out. A ogni modo tutti questi dispositivi digitali non fanno bene, ti riempiono solo la testa di numeri». Insomma, il Prince del nuovo decennio ha sentenziato che la rivoluzione digitale è già finita, e che un artista deve concentrarsi sul cuore della sua attività, ovvero la musica, meglio se suonata dal vivo. Per quanto le sue opinioni siano discutibili, c’è da scommettere che i fortunati spettatori dei due concerti italiani gli daranno entusiasticamente ragione.
Narrativa
MobyDICK
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Chiara Gamberale LE LUCI NELLE CASE DEGLI ALTRI Mondadori, 392 pagine, 20,00 euro
ncor prima di assurgere ai clamori delle cronache, il condominio è stato uno spazio eletto dalla narrativa e dalla letteratura. Senza andar lontano, che pure sarebbe un bel tragitto, Georges Perec ha dato una lezione di grande stile su come si può costruire una storia con mille intrecci se il luogo d’elezione diviene un grande caseggiato, dove, sia il buco della serratura o una finestra illuminata di notte, si può spiare le vite degli altri. Le luci nelle case degli altri, di Chiara Gamberale, esplicita nel titolo questo strumento introspettivo classico e moderno insieme, fusione di voyeurismo e realismo. Per esser poi un tema sfruttato a cui l’intreccio delle storie, ottenuto dalla quantità di porte e di famiglie che abitano un grande caseggiato, fa da intricato plot che funziona da collante spesso di costellazioni vaganti. Deve aver pensato questo la Gamberale, quando ha cercato un modo perché il condominio non fosse solo un utile contenitore, ma divenisse esso stesso protagonista del romanzo. Ecco quindi che lo spunto originale viene prima d’ogni cosa dal fatto che il condominio non è uno smistamento di porte o semplici luci accese nelle case degli altri, ma una sorta di personificazione degli effetti di un mondo vorticoso e pur sempre di passaggio dei suoi abitanti. Il condominio eccolo, disegnato a matita nella prima pagina del romanzo situato a via Grotta Perfetta 315, periferia residenziale cittadina, lentamente risalito dal primo fino all’ultimo piano che è il lavatoio, in una prima descrizione sommaria che presenta i suoi abitanti: una donna sola abita il primo piano,Tina Polidoro, una coppia al secondo, una coppia di omosessuali al terzo e due famiglie al quarto e al quinto piano. La voce narrante di cui andremo tra poco a parlare, descrive il caseggiato con una dose di lucida freddezza: «I quartieri dormitorio agli occhi di chi non ci abita hanno un che di sconveniente, come se ci fosse qualcosa di male ad aspettare ognuno a casa sua che un giorno finisca e un altro cominci». La storia del condominio è in sintesi la storia di una ricerca da compiersi fra le mura del palazzo, una ricerca che comincia il giorno in cui Maria, giovane e gioio-
A
libri
Mandorla
sa amministratrice, muore in un incidente mentre va a lavoro con il motorino. Maria lascia attoniti i condomini e vicini di casa, perché è la mamma di una bimba di sei anni che non ha altri al mondo. In una burrascosa e dolorosa riunione al lavatoio, dove si erano sempre svolte le riunioni condominiali indette da Maria, spunta una lettera- testamento, nella quale Maria confessa che il padre della bimba, fino ad allora sconosciuto, è uno degli abitanti del palazzo in via di Grotta Perfetta 315 «nell’ex lavatoio del sesto piano, l’ultima parola di quella lettera si dimenava come una mosca in trappola». Da qui con la voce della bimba, Mandorla, che diviene l’io-narrante, e frammenti in forma di flashback che illuminano il passato dei vari personaggi, la storia si snoda per undici anni seguendo le bizzarre peripezie di un condominio che ha preferito adottare la bambina, crescendola di piano in piano a turno, piuttosto che affrontare la verità attraverso l’esame del Dna. Tutti hanno paura che le vite proprie possano d’improvviso essere sconvolte da un incidente che frugherebbe nel privato.Tutti antepongono la propria tranquillità al diritto di Mandorla di sapere chi è il padre: «viviamo tutti all’oscuro di qualcosa che ci riguarda». Col procedere della storia, l’oscuro che ci riguarda, si faranno i conti col tratto caratteristico degli abitanti del condominio, una sorta di grettezza o ristrettezza d’animo, una protezione degli spazi e dei perimetri che somiglia al mondo animale. Il libro per tradizione contiene delle sorprese, alcune di troppo francamente, ma anche la qualità che più appartiene allo stile della Gamberale scrittrice, che tende a scomporre la storia per sperimentare strutture narrative sempre nuove.
e i segreti di un condominio Cinque piani a Via Grotta Perfetta e i rispettivi abitanti sono i protagonisti del nuovo romanzo di Chiara Gamberale
Riletture
di Maria Pia Ammirati
L’esistenza parallela di Juan María Brausen
crive Mario Vargas Llosa nella presentazione della Vita breve di Juan Carlos Onetti (riproposto da Einaudi, 361 pagine, 22,00 euro) che il romanzo dell’uruguayano (trasferitosi a Buenos Aires) «è uno dei più ambiziosi della letteratura latinoamericana, di un’audacia e originalità paragonabili a quelle dei migliori narratori del Novecento». Dissento parzialmente, e con obbligata deferenza, verso il neopremio Nobel per la scelta della parola «paragonabili». A mio avviso l’opera di Onetti è uno dei libri migliori del secolo: il riferimento al Sudamerica suona restrittivo. Lo completò in due anni, dal 1948 al 1950, riservando alla scrittura una totale attenzione nel fine settimana, dovendo lui lavorare in un’agenzia pubblicitaria (il riferimento autobiografico lo appiccica poi alla pelle del protagonista, Juan María Brausen). Onetti, che ha un debito letterario verso Faulkner - soprattutto per la creazione di un mondo parallelo e fantastico - così come lo ebbero tanti sudamericani tra cui García Márquez con il suo Macondo - pone su pagina la sua visione pessimistica della vita. Ma se il narratore americano descrive il destino che distrugge le persone ma anche persone che lottano e si ribel-
S
di Pier Mario Fasanotti lano, Onetti fa danzare sulla scena personaggi che mai si tolgono la maschera della sconfitta. Il suo eroe Brausen è un anti-eroe, così come gli altri sono passivi e autolesionisti. Muñoz Molina notò come questi personaggi siano «i più pacifici, i più pigri, i più inutili del mondo». Brausen, vicino al licenziamento, vive tormentosamente la malattia della moglie Gertrudis, sottoposta alla «ablazione del seno», e nello stesso tempo è alla ricerca di una preoccupazione che sia davvero propria e non sempre legata a lei. Pubblicitario precario, accetta l’invito di scrivere una sceneggiatura. Ed è così che s’infiltra nel mondo della finzione, l’unico, secondo Onetti, a porsi come via di uscita da un mondo opaco, doloroso, frustrante.Vicende personali, tutte incentrate sulla donna che soffre per la ferita alla sua femminilità, ma anche sul proprio terreno esistenziale «molle e di disamore, di conti non saldati, di sorrisi falliti anche se lungamente progettati». Onetti, che usa un linguaggio ricco e preciso, straordinariamente efficace ed elegante, dona al suo personaggio un pensiero vero e struggente: «Questa è l’età in
Riproposto una delle opere più ambiziose del Novecento: dell’uruguayano Onetti
cui la vita comincia a essere un sorriso sbilenco». Il lavoro di sceneggiatore lo porta a inventare un’esistenza parallela, ed ecco che compare Elena Sala dai seni integri e provocanti, il medico Dìaz Grey ancora più «piccolo e invecchiato» dinanzi a una femmina bionda che altro non può far venire in mente se non l’amore. E poi c’è la vicina di casa, la prostituta Queca che lui nella finzione tratta male e poi uccide. Infine ci sono balordi e malavitosi, così coerenti con la passione di Onetti per il noir. Se Onetti si distanzia con orrore dalla disintegrazione morale delle persone, si prende una rivincita con l’andirivieni tra realtà e finzione. Se Onetti si distanzia con orrore dalla disintegrazione morale delle persone, si prende una rivincita con l’andirivieni tra realtà e finzione. «Ripugnante» ogni inizio di giornata di Brausen, ma lo è altrettanto il mondo finto che rotola nella volgarità gangsteristica e trafficona, nell’incubo materialista tra prodotti in decomposizione. Il protagonista, abbandonato da Gertrudis, scavalla nella fantasia facendosi «bestia» al pari di quelle che vede attorno a sé e considera Queca corpo su cui sfogare bassi istinti e come occasione, finalmente, di un sesso sterile, a suo avviso l’unico possibile. Noi siamo fatti anche delle nostre fantasie: questa la «lezione» di Onetti.
L’intervista
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elettore deve stare attento a non finire vittima dell’eletto, perché l’abuso di potere è un pericolo sempre dietro l’angolo». Allan Folsom, scrittore made in Usa, è appena uscito con un nuovo romanzo che sembra essere una fotocopia chiaroveggente della realtà. Il dossier Hadrian (Longanesi, 456 pagine, 19,60 euro) è un thrilling in cui la cronaca di un disastro petrolifero si intreccia con un complotto internazionale, nel quale la Casa Bianca rischia il default politico. Nel frattempo, i protagonisti vivono un’esperienza che potrebbe mettere a rischio il sistema coronarico di chiunque. Leggendo Il dossier Hadrian, è difficile non pensare all’Iraq - che del resto è esplicitamente nominato - ma anche alla marea nera che, alla fine di aprile, ha devastato le acque del Golfo del Messico. Eppure il libro è stato scritto prima del disastro della Louisiana. «Giuro, non sono Nostradamus», scherza l’autore quando lo incontriamo in un hotel di Roma, in occasione della sua visita in Italia. «Così come non voglio avanzare nessuna denuncia sociale», aggiunge. «Scrivo romanzi di intrattenimento. Questo è tutto». O forse no. L’autore si schernisce dicendo che il suo genere narrativo non vuole essere quello dell’engagé. Tuttavia, è difficile assecondare questa considerazione a romanzi così avvincenti in cui, parole dell’autore, «chi legge deve sentirsi personalmente inserito nella vicenda». L’incontro si sviluppa all’insegna dell’informalità. Più che un’intervista, si potrebbe parlare di uno scambio di opinioni di fronte a un caffè. L’autore americano lascia intendere che preferisce divagare, invece che restare ingessato in un filone argomentativo ben preciso.
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ALTRE LETTURE di Riccardo Paradisi
ASCESI DEL QUOTIDIANO
«L’
Allan Folsom, nato nel 1941, bostoniano trapiantato in California per interessi cinematografici, è uno di quei romanzieri americani dalla cui penna sono sgorgati fiumi di fantasia. Da Il giorno dopo domani - romanzo d’esordio che nel 1994 raggiunse 1,2 milioni di copie vendute - a La regola di Machiavelli, Folsom non ha mai bucato in libreria. Lo stesso si può dire per le sue sceneggiature televisive. Heart to heart, in Italia Cuore e batticuore, serie tv della prima metà degli anni Ottanta, portava già la sua firma. E lo stesso successo sembra che si stia verificando anche con Il dossier Hadrian. Questo non basta, tuttavia, per descrivere la sua personalità. «Ho cominciato a scrivere quando mi sono accorto che il mondo non è come appare». Ci spiega. «In passato sono stato gestore di una discoteca a Boston. Mi sembrava straordinario il backstage, in ogni senso, di quella esperienza in cui mi ero tuffato per professione. Così decisi di lasciare la vita notturna. O meglio, scelsi di farne l’argomento dei miei primi racconti e romanzi». Folsom spiega che, a un certo punto, gli sembrò più stimolante raccontare a qualcuno quello che vedeva e viveva, piuttosto che conservalo per se stesso.
n rumore di sottofondo lavora come un tarlo nell’anima collettiva di quest’epoca: è un fastidio che non possiamo più eliminare, è il disagio etico suscitato dalla constatazione che «così non possiamo più andare avanti» e che, dunque, ogni persona debba seriamente lavorare su se stessa per essere e rimanere all’altezza delle sfide del nostro mondo. Dopotutto, cosa accomuna un pizzaiolo e uno yogi, un sacerdote e una modella, un economista e una biologa se non il continuo esercizio teso a migliorare il proprio rendimento? Peter Sloterdijk in Devi cambiare la tua vita (Raffaello Cortina editore, 564 pagine, 36,00 euro) spiega che questo sentimento non riguarda solo il successo sulla vita pubblica, bensì un’elevazione che continuamente slitta dal piano fisico a quello sessuale e dal piano individuale a quello planetario. Al tempo degli antichi greci era l’obiettivo della saggezza; oggi che tale parola sembra desueta non perde il suo mordente la stessa «pericolosa» pratica della filosofia.
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I presagi involontari di Allan Folsom Per i suoi romanzi rivendica l’appellativo di letteratura d’intrattenimento, senza risvolti politici o sociologici. Eppure leggendo “Il dossier Hadrian”, un thriller scritto prima del disastro della Louisiana, non si può non pensare alla marea nera che ha devastato il Golfo del Messico e ai retroscena della guerra in Iraq di Antonio Picasso Dato che l’atmosfera dell’incontro si è fatta alla mano, ne approfittiamo e gli suggeriamo che, a questo proposito, lo spunto per un prossimo romanzo potrebbe essere il calcio italiano. «Perché?» Chiede lui incuriosito. «Anche quello non è come appare», gli replichiamo. L’incontro però passa da un argomento all’altro. È interessante, in particolare, capire cosa significhi essere scrittore nell’era della multimedialità, quando tutti si improvvisano creativi e opinionisti. «Il nostro mestiere è sempre stato difficile», riflette Folsom. «Ma non è un problema dello strumento di comunicazione, bensì del tema». «I miei romanzi, soprattutto l’ultimo, seguono lo stesso canovaccio della narrativa del 1850, sono solo più veloci». Gli chiediamo quale sia il concetto di velocità di comunicazione per uno scrittore del Terzo millennio. «Mia figlia - dice Folsom - ha sedici anni. È lei che arriva ogni giorno con una novità tecnologica e che la spiega ai suoi genitori. Non siamo noi a presentarle il mondo». A suo giudizio, quindi, la rivoluzione tecnologica di internet avrebbe sovvertito anche i ruoli in ambito familiare e generazionale. Questo rappresenta un’opportunità rivoluzionaria, per «tutti gli uomini di buona volontà». «Bisogna stare attenti però. Credo che le informazioni che abbiamo a disposizione siano troppe e che ci arrivino in modo esasperatamente affrettato. Il cittadino medio non riesce a scremare ciò che è rilevante e che merita la sua attenzione, da quello che, al contrario, è tossico per il suo bagaglio culturale». Folsom, in
questo senso, auspica un maggior impegno, da parte della classe dirigente, per il miglioramento dell’istruzione di tutti. E così si ritorna all’abuso di potere da parte della classe dirigente. «Chi viene eletto ha la possibilità di guidare indiscriminatamente senza farsi accorgere dai propri elettori. Nei miei libri, cerco di mettere in guardia l’opinione pubblica da questo pericolo».
A questo punto, cerchiamo di fargli notare che i suoi romanzi non possono essere declassati al semplice intrattenimento, come ci ha detto egli stesso. Al contrario, sembrano dettare un chiaro orientamento politico. Le domande, di conseguenza, passano all’appuntamento delle mid term election di novembre. «Sono una voce dell’opinione compubblica», menta con semplicità. «Non voglio fare previsioni sulle elezioni del mese prossimo. Anche perché non è il mio mestiere». Folsom ha capito dove si vuol andare a parare e - come nel Dossier Hadrian - anticipa la domanda. «D’altra parte non mi sottraggo dall’osservazione dei fatti». Prendendo la palla al balzo, gli ricordiamo che, se quattro anni fa George Bush dovette fare in conti con Katrina, oggi Obama si trova di fronte la vicenda Bp: un disastro naturale di maggiori proporzioni rispetto all’uragano del 2006 e soprattutto dai contorni poco chiari. Dall’inchiesta starebbe emergendo che la Guardia costie-
LA SOCIETÀ? SI FONDA SULLA RELAZIONE *****
gni società, in ogni epoca storica, si pone la domanda: dov’è Dio? E dà una risposta che indica un modo prevalente di intendere la religione. Questa è la sua matrice teologica. La società moderna ha dato una risposta altamente ambivalente, non sapendo reggere la distinzione fra immanenza e trascendenza di Dio. La tesi che Pierpaolo Donati, sociologo dell’Università di Bologna, sostiene in La matrice teologica della società (Rubbettino, 232 pagine, 18,00 euro) è che la società post-moderna, dia una risposta tanto semplice quanto enigmatica: Dio è nella relazione perché è relazione. La matrice teologica della società dopo-moderna è all’insegna di una trascendenza che non è solo un andare oltre ma anche soprattutto uno «scendere tra», nel senso di andare alla radice delle relazioni umane e sociali.
O
ra Usa avrebbe inizialmente sottovalutato la portata dell’accaduto. Se così fosse, sarebbe difficile rimandare tutte le responsabilità alla Bp. «Non è ancora tempo di stilare bilanci completi della vicenda. Comunque è tutto vero. Salvo il fatto che, a suo tempo, Bush non si rese nemmeno conto di quanto fosse successo. La devastazione della Louisiana, quattro anni fa, non venne percepita nella sua totale gravità. Obama, dal canto suo, si è dimostrato personalmente più coinvolto nel problema». Obiettiamo che, a questo punto, è facile passare dalla lettura dei giornali e della attualità, a quella dei suoi romanzi, trovandovi quindi un esplicito collegamento. «Può esserci - obietta Folsom - ma non l’ho fatto apposta. Ripeto: i miei lavori non sono una denuncia sociale».
spettacoli Teatro Le folgorazioni di Testori L’AVANGUARDIA DEL CINEMA DA MAN RAY A JORIS IVENS per una superba Erodiade D MobyDICK
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DVD
di Enrica Rosso tanding ovation per Maria Paiato l’altra sera al Piccolo Eliseo al termine del monologo Erodiade di Giovanni Testori. Un’attrice che stordisce per la sua capacità di farsi personaggio, sia esso una povera disgraziata che si vende al miglior offerente o una fine intellettuale che si intristisce in un forzato isolamento, Paiato trova la strada e la percorre con magistrale perizia, divertendosi, dedicandovisi fino a ipnotizzare il pubblico con la sua superba bravura. Non dà giudizi sul personaggio, esegue, fino a incarnare la scrittura. Prodotta da Teatro Eliseo e Teatro Stabile del Veneto, Erodiade inaugura una stagione dedicata alla drammaturgia contemporanea e ai nuovi linguaggi teatrali ad ampliare l’offerta dell’Eliseo. Un grande ruolo per una grande attrice, primo dei tre testi dedicati al personaggio di Erodiade, fu composto a cavallo tra il 1967 e l’anno successivo pensando a una Valentina Cortese che non ne fu mai interprete. La messa in scena curata da Pierpaolo Sepe brilla per intelligenza e gusto e immerge la protagonista posseduta da un flusso incandescente di parole in un’atmosfera algida, straniante, senza possibilità di appigli. La scena di Francesco Ghisu, fredda, liscia, con pareti compatte, invalicabili, striate da colature argentee come bave di perfidia che costituiscono il muro divisorio, la tana di Erodiade che poggia su un pavimento che sgorga luce (disegnate da Pasquale Mari) e suggerisce scale che conducono a un trono scheletrico. In questo vuoto si sublima la scrittura e prende corpo la tematica religiosa tanto
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Televisione
cara all’autore di origine milanese. In questo caso Dio è vissuto come l’altro, il rivale in amore, colui che ha rapito il cuore dell’amato e che gli impedisce di corrispondere l’amore della regina. Un’Erodiade folgorata dalla carnalità di Giovanni Battista, selvaggiamente invaghita, posseduta da uno strazio dilaniante acuito dal pensiero di sua figlia Salomè tra le braccia del perduto sposo Erode. Lei meravigliosa, potente nel suo dolore che la scarnifica, traccia linee nell’aria come fos-
sero ragnatele in cui nessuno più rimarrà intrappolato. Un’Erodiade ingioiellata, in abito da gran sera che si dibatte per ciò che non ha avuto, per ciò che ha perso, per ciò a cui ha rinunciato e da cui è ora esclusa. Lei viziata, coccolata, donna superba che aveva il mondo ai suoi piedi, magnifica preda caduta in disgrazia, costretta nel ruolo dell’innamorata respinta che non può sopravvivere a tale smacco. Regina dissoluta e torbida si ritrova disarmata di fronte alla purezza di Iokanaan, lei che dato sua figlia in pasto al patrigno, solo dopo averlo fatto decollare realizza l’inutilità di un vivere senza ideali. Lei stessa ha distrutto il suo perseguendo sogno, l’orrore e soccombendo alla furia della delusione, in ultimo si toglierà la vita per arginare il vuoto che la pervade (e non soltanto nel senso della carne). Un personaggio estremamente complesso di cui ci resta addosso una sensualità oscena e precaria come un vestito strappato che fa intravedere altre trame, quelle dell’anima.
Erodiade, Roma, Piccolo Eliseo Patroni Griffi, fino al 14 novembre. Info: 06 4882114 www.teatroeliseo.it
a Le retour a la Maison di Man Ray a Rhythmus 21 di Hans Richter, da Ballet Mecanique di Marcel Duchamp a Pioggia di Joris Ivens. L’Avanguardia degli anni 20 e 30 sfila nella pregevole raccolta che Ermitage dedica alla cinematografia sperimentale maturata nel post Lumiere. Un caleidoscopio di arti e scuole, dal cubismo al surrealismo, che trovano in Francia il terreno di coltura ideale all’incrocio tra l’icona e il fotogramma, lungo un percorso che normalizzerà l’innovazione tra le pieghe del cinema classico. Due ore e mezzo all’insegna di opere semiclandestine, che pure hanno fatto la Settima Arte.
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IL MAGLIONE GIALLO DI KURT COBAIN asce a Seattle, presso l’Experience Music Project la mostra che celebra il mito dei Nirvana, Taking Punk to the Masses.A partire dal prossimo aprile, per il tempo di due anni, l’evento è il più grande mai dedicato alla band americana. In mostra oltre duecento cimeli, da un quadro che Cobain fece alle superiori ai testi manoscritti di canzoni come Spank Thru e Floyd The Barber. E poi anche alcuni pezzi della prima chitarra che l’irriverente frontman della band ruppe durante un concerto, e il maglione giallo che indossò nei primi anni Novanta, divenendo un capo d’abbigliamento di culto.
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di Francesco Lo Dico
Dopo “Flash Forward”, la famiglia incredibile non basta olo gli snob o quelli in continua malafede culturale disprezzano il desiderio, che ha radici nella nostra infanzia, di possedere poteri straordinari. Tutti intanto guardano con simpatica invidia a Superman, a Spiderman, a Batman e ad altri eroi fantastici. Il canale Fox di Sky ha per molto tempo annunciato con gran suonar di trombe la serie No Ordinary Family. In America è iniziata il 28 settembre, in Italia il 6 ottobre. Quasi una contemporanea, dunque. Poteri straordinari in collettivo familiare, nel senso che i quattro componenti di casa Powell, a seguito di una brutta avventura in Amazzonia, si accorgono d’essere diversi dagli altri. Il capofamiglia salta da un palazzo all’al-
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di Pier Mario Fasanotti tro, alza un camion a mani nude e fa scudo ai proiettili. Lei, biologa, acquista una velocità incredibile. La figlia ha facoltà telepatiche. Il figlio, un somaro a scuola, si trova ad avere un cervello come Einstein. L’attenzione s’incentra sul padre, Jim, che di mestiere fa il disegnatore di identikit per la polizia. Avendo al fianco una donna volitiva e ben più realizzata professionalmente, si considera, ed è considerato, il coniuge debole. È la moglie che decide tutto, è lei «che paga le bollette». I superpoteri allargano la sua autostima e riequilibrano il rapporto coniugale: oltretutto lei, Stephanie, ha più tempo a disposizione perché ultraveloce e allora può dedicarsi alla tenerezza co-
niugale in tempi non canonici, alle riunioni scolastiche, alla preparazione di torte, a una gioiosa gestione del tempo libero. Una specie di Fantastici quattro, soltanto che la strabiliante novità non ha un riverbero solo muscolare o spettacolare, ma incide anche, e profondamente, nelle dinamiche familiari e nella riflessione che ognuno fa sopra e attorno a sé. Coccolati l’anno scorso dalla serie Flash Forward - che purtroppo non ha avuto un’audience americana tale da far continuare il lavoro dei soggettisti - No Ordinary Family (13 puntate, per ora) ci pare un prodotto minore: per una tensione narrativa un po’ bassa e per il mancato aggancio a quesiti universali come capitava invece per Flash Forward (il tempo che si ferma, sogni preveggenti, il destino dell’umanità, l’interrogarsi su morte e vita). Le avventure della famiglia Powell, media borghesia americana con villetta e barbecue, sono state
scritte da Greg Berlanti e Jon Harmon Feldman per la Abc. È una versione seriale in live action del film d’animazione Gli incredibili. Interessante, psicologicamente, la figura di Jim Powell: frustrato e un poco sottomesso, deve ora vedersela con la misurazione e la gestione d’un potere che gli ribalta l’esistenza, nel lavoro e in famiglia. Jim è interpretato da una faccia nota, quella di Michael Chicklis, alias il Commissario Scali, disinvolto e credibile sul set. Nei panni della moglie l’attrice Julie Benz, già nel ruolo zuccheroso di Rita, consorte di Dexter, e in quello della spogliarellista in Desperate Housewife. Scene divertenti non mancano, a causa anche di George, il procuratore col quale Jim Powell si confida. Il magistrato pare a volte Eddy Murphy, nella gesticolazione e nella tenacia battagliera contro i «cattivi», inevitabili. Abbondano le «citazioni» tratte da Modern Family, Settimo cielo e Brothers and Sisters. In tv è raro che qualcosa sia davvero nuovo, come Lost per esempio.
MobyDICK
poesia
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Pasolini dal verso all’opera totale di Francesco Napoli lberto Moravia, intorno alla fine degli anni Ottanta, era solito affermare che in politica e nella società «uno scrittore vale zero», congiungendo a quelle parole le ossuta punte del pollice e del’indice. Ora: non so se questo fosse vero allora, certo lo è oggi. E dire che aveva sottocchio scrittori e intellettuali del calibro di Pasolini o Calvino o Sanguineti che, qualsivoglia sia l’idea di letteratura che uno ha maturato, erano presenze forti e non solo nel dibattito culturale dei tempi ma anche nella carne della società e della politica italiana di quegli anni, al punto che tanto li rimpiangiamo oggi. Simbolicamente proprio la scomparsa di Pasolini e quel 1975 che lo segna può esser preso come punto di partenza di un inesorabile declino del ruolo dell’intellettuale in Italia. Non ci credeva più Moravia e in qualche intervista televisiva lo stesso Pasolini mostrava un certo scetticismo a riguardo, soprattutto sulle finalità della scrittura, e dello scrittore. Ma Pasolini molto probabilmente provocava. Eppure su di lui, sull’intellettuale friulano nato a Bologna nel 1922 e tragicamente scomparso nel 1975, come detto, ancora ci si interroga e si scrive come non vien fatto su altri protagonisti di quegli anni. Basti allora ricordare almeno l’appassionato intervento di Gianni D’Elia, che in poesia ne ha seguito più da vicino le tracce e le indicazioni di poetica, che nel 2007 scrive la sua sulla morte di Pasolini con Il petrolio delle stragi. Interventi del genere che si sono ripetuti diverse volte, prima e dopo quello di D’Elia, quasi che quel lutto per la cultura italiana stenti a essere elaborato e superato.
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AI LETTERATI CONTEMPORANEI Vi vedo esistere, continuiamo a essere amici, felici di vederci e salutarci in qualche caffè, nelle case delle ironiche donne romane … Ma i nostri saluti, i sorrisi, le comuni passioni, sono atti di una terra di nessuno: una … waste land, per voi: un margine, per me, tra una storia e l’altra. Non possiamo più realmente essere d’accordo: ne tremo, ma è in noi che il mondo è nemico al mondo.
Da ultimo con Castelvecchi ha ripreso le carte in mano Lucia Visca, la prima giornalista ad arrivare sulla scena del delitto di Ostia con Pier Paolo Pasolini. Una morte violenta (140 pagine, 16 foto inedite, 15,00 euro). Un resoconto oggi, a distanza di 35 anni dalla scomparsa (il 2 novembre), davvero particolareggiato, redatto con attenzione meticolosa su quelle prime due o tre ore dal rinvenimento del cadavere, decisive per la ricostruzione come per l’occultamento, l’unico modo attraverso il quale poter risalire davvero alla elaborazione di ipotesi realistiche su quella fine. Ma non solo la sua morte continua a far interrogare i posteri anzi,
il club di calliope
presentando Pasolini senz’altro una poesia del tutto propria e originale, sulla distanza forse hanno tenuto molto di più voci poetiche a lui coeve come quella di Bertolucci o di Luzi. Nasce come dialettale, prendendo a prestito la lingua materna con un atteggiamento duplice insieme di coinvolgimento profondo e di distacco sperimentale di fronte a quella materia linguistica, definito meglio da Pasolini stesso come coesistenza di «un eccesso d’ingenuità» con un «eccesso di squisitezza». Scaturiscono così gli esordi di Poesia a Casarsa (1942) subito positivamente valutate da Gianfranco Contini che insieme a successive prove in altre varietà friulane e venete daranno forma a La meglio gioventù (1954). Lontano da ogni possibile eco del verismo regionale ottocentesco, qui Pasolini sente in questo suo friulano sia il linguaggio del «regresso lungo i gradi dell’essere», come disse lui stesso, e la materia prima per esperimenti iperletterari, certo un po’ di maniera, per tradurre Rimbaud o Eliot.
Pier Paolo Pasolini in La religione del mio tempo
la sua vita, intesa proprio come vita letteraria, ha portato Roberto Carnero a confezionare un bel libricino, Morire per le idee (Bompiani, 202 pagine, 10,50 euro). Proprio alla luce di queste limpide pagine vien da dire che è davvero impossibile circoscrivere l’opera e la figura di Pier Paolo Pasolini alla sua pur notevole attività di poeta. Perché come ha dimostrato qui Carnero l’opera pasoliniana va letta come un tutt’uno in cui il suo complesso lavoro artistico e culturale fatto di poesia e narrativa, teatro e cinema, giornalismo e critica letteraria, si interseca indissolubilmente in un’opera totale «all’interno della quale è difficile scindere i diversi generi». Ma per fortuna lo stesso Roberto Carnero consola questo tentativo di campire un ritratto poetico di Pier Paolo Pasolini che «nasce come poeta e quindi è da questo aspetto della sua multiforme produzione che conviene partire» e lì mi fermerò, non come poi ha fatto Carnero capace di scandagliare con brillante sintesi i differenti aspetti dell’ingegno pasoliniano. Pur rap-
Salta così a pie’ pari il dominante ermetismo coevo - pur restando in qualche misura affascinato dal melodismo di un Alfonso Gatto per andare verso Pascoli e fino ai trobadorici, questi ultimi non a caso ripresi anche dal suo miglior erede Gianni D’Elia. Domina tematicamente il triangolo madre-giovinezza-morte che nel prosieguo della sua opera vedrà forse il primo membro del trinomio svanire, o quantomeno andare in sottofondo, emergendo gli altri due con più forza, in Le ceneri di Gramsci (1957), forse l’apice del suo cammino poetico, e in La religione del mio tempo (1961) dove sa riprendere con sapienza la forma-poemetto di un Pascoli legandola a un endecasillabo narrativo confacente alla forza affabulatrice del suo fare poetico e al quale deve aver pur visto un Giorgio Caproni.Verso gli ultimi anni della sua attività, Pasolini affida alla poesia la sua voce un po’ oracolare della contestazione del presente, avendo individuato nella forma poetica, come ha scritto Fortini, «una sorta di immunità dalla confutazione». Con la sua morte secondo Alberto Moravia «abbiamo perso prima di tutto un poeta, e di poeti non ce ne sono tantissimi nel mondo, ne nascono tre o quattro soltanto dentro un secolo; quando sarà finito questo secolo Pasolini sarà tra i pochissimi che conteranno, come poeta». Troppo apodittico e categorico il romanziere romano, ma finito il secolo Pasolini è più che mai presente.
EMILY E LE SUE COMPAGNE (VISTE DA GABRIELLA SICA) in libreria
EFFETTO MAREA L’estate gocciola senza peso dal campanile livido di pioggia, il mare ritirandosi ha rimesso a nudo l’occhiata vuota di una distesa di sabbia. Ferma sulla tua sponda non domandarti i nomi di quanti domani appariranno all’orizzonte, non agitare bandierine segnaletiche o accendere il fuoco nel camino e preparare la tavola per l’ospite: è bassa marea, avvistata la luce del faro ogni naviglio - prudente - rallenta s’arresta. Adriana Oggero (Da Pronipoti delle stelle, Raffaelli Editore)
di Giovanni Piccioni
mily e le altre di Gabriella Sica (Banda Larga Editore, 12,00 euro) è un libro partecipe, appassionato e intrigante. È dedicato a Emily Dickinson e, per parafrasare il titolo dell’Introduzione, alle compagne della sua anima. Si trattta di una costellazione di poetesse che incontrano la poesia della Dickinson o con le quali è lei stessa a incontrarsi. Ci sono le antenate Charlotte e Emily Brontë, Elizabeth Browning e le eredi Sylvia Plath, Margherita Guidacci, Elizabeth Bishop, Cristina Campo, Nadia Campana e Amelia Rosselli. Queste ultime sono state tutte traduttrici della Dickinson. La Sica adotta un taglio critico composito che ha come esito una rete di connessioni strettamente poetiche ma anche psicologiche e biografiche. Disegna ritratti di donne inquiete, di poetesse estreme, che rompono un silenzio doloroso con
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la vitalità della loro voce, si affidano a una tradizione e si influenzano. La voce dell’una risuona in quella dell’altra. Lo sterminato Canzoniere della Dickinson diventa il luogo di molteplici influenze e analogie e di una straordinaria apertura verso la modernità. La sua scrittura è «concentrata e fulminante, rapida e sconcertante», sintatticamente irrregolare. Il nodo che stringe amore, morte e poesia ricorre nella Plath, il senso dell’assoluto che si cela nel quotidiano rinvia a Emily Brontë, l’eternità come tempo dell’anima è l’insegnamento raccolto da Margherita Guidacci.Alla fine di ogni capitoletto compaiono alcune poesie della Dickinson tradotte dalla stessa Gabriella Sica. In totale le poesie comprese nel libro sono 56, come gli anni della vita della grande poetessa: le traduzioni restituiscono il «ritmo spasmodico» degli originali.
Viaggi
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MobyDICK
ai confini della realtà
di Gianfranco de Turris
n vecchio detto recita: «Partire è un po’morire». Certo, si dirà, nei secoli passati con tutti i pericoli che c’erano sulle strade… con quei mezzi di trasporto… con i tempi di percorrenza… Ma non è solo questo: gli antichi sapevano che lasciare un luogo per un altro significava anche un cambiamento di status non solo materiale ma anche mentale e spirituale: il viaggio, il posto nuovo che si raggiungeva potevano veramente significare molto. Oggi non ci pensiamo più, siamo cosmopoliti si diceva un tempo, oggi si dice globalizzati; la velocità, poi, ci impedisce di pensare, di adeguarci, di trasformarci… Antonio Franchini tutto questo lo sa: «In ogni viaggio è contemplata la possibilità di non tornare molto di più di quanto la fine non sia implicita nella vita di tutti i giorni». E subito dopo: «Le condizioni ordinarie non sollecitano la resa dei conti quanto quelle fuori della norma». Nel suo Signore delle lacrime (Marsilio), un eterodosso «diario di viaggio» in India dedicato a Shiva, Franchini ci presenta qualcosa - appunto - «fuori della norma» anche perché non è un viaggio standardizzato, ma, come diceva una pubblicità, «fai da te». Il titolo è un appellativo della seconda divinità della trimurti indù e racchiude il senso del libro: Shiva è il Distruttore, come Brahma è il Creatore eVishnu il Conservatore, ma distruttore di una universo/realtà che, secondo la teoria ciclica dell’induismo deve avere per forza una conclusione ma dai cui Residui nascerà una nuovo universo/realtà. Ed è quanto pare ciò che è avvenuto a Franchini che, pur essendo uno dei più potenti anche se non dei più noti direttori editoriali italiani, e per questo si occupa più delle opere altrui che - purtroppo - delle proprie, non è uno di sola scrivania, ma anche uno per così dire «di azione» praticante com’è di arti marziali e di sport. Franchini ha quindi quella che si suol definire una «cultura del corpo» ma non disdegna la «cultura dell’anima» che - sembra di capire - riscopre e approfondisce in questo singolare viaggio indiano che ha come sfondo mentale la morte.
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Noi, italici di oggi, di fronte a questa parola non sappiamo far altro che le corna o attaccarci a vari amuleti, ma per le culture orientali le cose non stanno così: glielo consente proprio quella teoria del tempo ciclico che non fa pensare a una fine definitiva e assoluta, così come il destino individuale che si basa sul concetto di reincarnazione. Nel suo diario c’è al fondo tutto questo insieme a moltissimo altro perché il viaggio di Franchini è esteriore e interiore, turistico e cultuale, sicché i rimandi interno/esterno, India/Italia, oggi/ieri sono frequentissimi: c’è subito Benares che sembra una Napoli (città natale dell’autore) moltiplicata per mille; ci sono gli alberghi modernissimi (e semi-costruiti) con nomi occidentali nei luoghi più impensati; ci sono le discese nelle rapide organizzate dalle guide; ci sono le
La resa dei conti sulle rive del Gange visite a villaggi ancora presuntivamente non raggiunti dalla «civiltà»; ci sono i ritratti dei compagni di avventura; ci sono le descrizioni soprattutto di come gli indù si rapportano con la morte, là sulle rive del Gange, il più sacro dei fiumi, con le pire dei defunti che si accendono e si spengono ma non si possono fotografare (e c’è chi da buon indù/napoletano,
gnore delle lacrime dato che dà veramente l’idea di un Wanted dead or alive?). Di digressione letteraria in digressione artistica, di ricordo di giovinezza in ricordo di adulto, confrontandosi con la religione/religiosità induista rispetto a quella cristiana/cattolica, Franchini giunge alla fine a un duplice risultato: la curiosa accettazione di una
Un’esperienza fuori dalla norma, turistica e interiore, con un approdo imprevedibile: la rivelazione di un tradimento, fatto di indifferenza e silenzio, ormai non più praticabile. È il diario di Antonio Franchini, editor di successo, praticante di sport estremi e di cultura dell’anima come si suol dire «ci marcia»). Da qui, a sprazzi e a tratti, iniziano i pensieri e i ricordi di Franchini sulla morte: la sua improvvisa fissazione che durante il viaggio morirà, il ricordo del padre, la reminiscenza dell’annuncio della scomparsa di un caro amico via cellulare mentre era a una festa di un letterato viaggiatore (Manfredi?), la vicenda dell’autore calabrese e del suo amico scultore «futurista» avviato alla morte inesorabile. E quindi le considerazioni sul senso e il valore dell’Io che prendono spunto dalle fotografie, dalla morte «che sviluppa le più nitide fotografie della vita», per poi virare sulla reminiscenza di una «ragazza stramba» che un giorno si presenta al nostro autore per chiedergli una foto dato che lei vuole immortalare i letterati «specie in via di estinzione» (e non si tratterà per caso di quella che illustra Si-
verità che fu J.R.R.Tolkien a enunciare per primo nel suo saggio Sulla fiaba (1939), e cioè che «l’uomo è il piccolo creatore del mondo, dio il grande»: il che vuol dire che ogni uomo, nella sua creazione (letteraria, ma anche personale) è un piccolo demiurgo. E poi l’intuizione che «gran parte della loro vita gli uomini la vivono così, da sonnambuli, e quando si svegliano è troppo tardi, e gli occhi che aprono, il più delle volte, sono occhi sgomenti»: il che vuol dire che Franchini ha raggiunto la consapevolezza che è stata di tutti quegli scrittori che si sono occupati non dirò di occulto, ma di certo di spiritualità, di sacro, in primis Gustav Meyrink, autore alquanto bistrattato, che del passaggio dal «sonno» alla «veglia» ha fatto il cardine di tutti i suoi romanzi esoterici. Ma a mio parere c’è di più, almeno per come ho letto io le ulti-
me pagine del suo diario di viaggio: il tutto si muove in Franchini nel ricordo di una critica mossa da un sacerdote conosciuto da ragazzo al suo primo libro, Camerati (Leonardo, 1991), eccezionalmente ben scritto, ma in cui «non c’era dentro nessun sentimento religioso». Una critica non-letteraria, ma che a ripensarla quasi vent’anni dopo in India provoca come un «effetto valanga» perché dalla considerazione degli uomini «sonnambuli» si passa a quella su «quali principi ispirassi il mio agire diurno», poi al ricordo del padre alla fine del suo percorso terreno e che si preparava forse inconsciamente alla morte, e quindi ai concetti indù di «liberazione» e di «estinzione del dolore», per infine approdare a una considerazione che ritengo decisiva: «Perché si può tradire anche qualcosa in cui non si crede e c’è una forma più irrimediabile di tradimento, quella che non passa per la negazione ma per l’indifferenza e il silenzio, ed è questo il tradimento per il quale non ho giustificazione».
E, dunque, alla conclusione del viaggio Antonio Franchini è un «turista liberato», non obbligato «a vedere le cose che si dovrebbero vedere», ma che ha raggiunto, credo, una nuova consapevolezza: è partito agnostico, diciamo, e alla fine si è reso conto che «l’indifferenza e il silenzio» sono ingiustificabili.Tradimento e silenzio nei confronti di se stessi e della propria interiorità. Sì, «partire è un po’ morire», ma poi rinascere proprio come insegna Shiva, il Signore delle lacrime (ma anche della danza e dell’eros).