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E chi muore senza portare nella tomba almeno una pedata ricevuta in dono da un amico? William Shakespeare

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 18 MAGGIO 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Il Cavaliere sempre più cupo: ha ottenuto solo 28 mila preferenze contro le 53 mila del 2006

Chi non cambia è perduto Un terremoto: come nel ‘93. Il voto dice che nulla può restare come prima Il Pdl minimizza. La Lega, per ora, reprime l’ira. Il Pd esulta e finge di non vedere che è ostaggio della sinistra radicale. Ma gli italiani hanno lanciato un segnale chiaro di svolta: guai a ignorarlo Pdl Dopo il ballottaggio la resa dei conti 1 Terzo Polo 2 Andare oltre E adesso Tre ore di riunione: Berlusconi, costruiamo il Carroccio dà prima che sia una vera i 15 giorni al premier troppo tardi alternativa Casini: «La nostra vera sfida di Rocco Buttiglione

di Giancristiano Desiderio

Berlusconi ha politicizzato queste elezioni, in modo particolare quella di Milano, invocando una specie di giudizio di Dio. Negativo per lui.

Letizia Moratti commentando la Caporetto berlusconiana di Milano ha detto: «Serve una fase nuova». Certo, se si perde bisogna pur cambiare.

si misurerà alle politiche. Oggi decideremo insieme la posizione sui ballottaggi» Marco Palombi • pagina 2

Lega 3 Abbandonare l’illusione di poter vivere di rendita

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Il riformismo vincesoloaTorino. Il resto è la solita zuppa estremista

di Errico Novi

di Riccardo Paradisi

C’è una rarefatta eppure percepibile sensazione di panico, a via Bellerio. Mai vista. Inattesa. E impossibile da spiegare con il mero conteggio dei voti.

Che “loro” abbiano perso, come dice Bersani, è sicuro. Che abbia vinto il Pd, purtroppo per lui non è vero.

Pd

Retroscena di una sconfitta

Milano ha spezzato il patto di ferro tra Silvio & Umberto La capitale del Nord non sopporta più accordi segreti di potere sulla propria pelle

da pagina 2 a pagina 5

Giancarlo Galli • pagina 6

Allarme terrorismo: disinnescati due ordigni

Grande attesa per il discorso al mondo arabo di domani

Elisabetta in verde

La tela di Obama

Dopo cento anni un Windsor a Dublino

L’incontro con Abdullah di Giordania

di Maurizio Stefanini

di Antonio Picasso

l sovrano d’Inghilterra va in visita in Irlanda, c’è una guerra sanguinosa in Libia, l’Italia festeggia l’Unità Nazionale, e l’Inter non è riuscita a confermare lo scudetto vinto l’anno prima: di che anno stiamo parlando? Sì: è questo che sta trascorrendo, 2011. Ma è anche cent’anni fa: il 1911. Le differenze: nel 1911 all’Unità Nazionale mancano ancora Trento e Trieste. a pagina 10

l ruolo della Giordania è cardinale nella ripresa del processo di pace tra israeliani e palestinesi». A leggere il Jordan times di ieri, si ha la percezione che la visita del re di Giordania, Abdallah II, a Washington possa cambiare le sorti del Medioriente. Il sovrano ashemita si è confrontato con il presidente Obama, dopo che, nei giorni precedenti, aveva visto Biden e Clinton. a pagina 12

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seg1,00 ue a p(10,00 agina 9CON I QUADERNI) • ANNO XVI • NUMERO 95 • WWW.LIBERAL.IT • CHIUSO IN REDAZIONE ALLE ORE 19.30 EURO


pagina 2 • 18 maggio 2011

il dopo elezioni

Tre ore di confronto a via Bellerio. Via dell’Umiltà abbozza una difesa d’ufficio ma resta l’imbarazzo del premier sull’analisi della sconfitta

Bossi dà 15 giorni a Silvio

Dopo i ballottaggi la Lega chiederà una verifica di governo. Verdini minimizza il tracollo e attacca il Terzo polo. Casini: «Pensi al Pdl» di Marco Palombi

ROMA. Giorgio La Malfa la mette così: «Adesso Berlusconi è di fronte al dilemma di Nanni Moretti». Cioè? «Davanti ai ballottaggi, come il protagonista di Ecce Bombo, si chiede ‘mi si nota di più se vengo e resto in disparte o se non vengo per niente?’. Per il Cavaliere è così: se fa campagna elettorale e i suoi candidati vengono sconfitti, è lui che perde. Però se non la fa, i suoi candidati possono sempre accusarlo di averli abbandonati”. E infatti il presidente del Consiglio - che non è «di buon umore» assicura Adriano Galliani - ci sta ancora pensando: ieri, nel momento in cui andiamo in stampa, non aveva ancora trovato il modo di dire due parole

sul risultato del Pdl nelle amministrative che dovevano rinnovare la fiducia al governo e nemmeno sul regalo che gli hanno fatto i milanesi (28mila preferenze personali contro le 52mila di cinque anni fa). Il Cavaliere s’è fatto anticipare dai vari leaderini del Pdl in una surreale conferenza stampa il cui scopo era sostenere che Milano a parte - le elezioni erano state «un pareggio», che il Partito democratico ora è in difficoltà e che il vero sconfitto è il Terzo polo, di cui però il Pdl adesso chiede i voti perché, suvvia, siamo sempre tra moderati. Riflessi sul piano nazionale? Nemmeno per sogno, an-

zi «la legislatura si allunga» (dice La Russa).

Il frontman del partito è stato di nuovo Denis Verdini, che ieri s’è buttato in una pencolante analisi numerica di cui non è stato possibile capire i criteri, ma che serve a sostenere che «il Pdl nei comuni sopra i 15mila abitanti è al 27 per cento mentre il Pd è solo al 21». Peccato che messa così anche la Lega Nord risulti poco sopra al 5 per cento. Ma a Napoli avete dimezzato i voti rispetto alle politiche? S’azzarda un cronista.Verdini rinserra la presa sugli specchi e s’arrampica: «Ma con le liste civi-

che siamo lì». Le liste civiche? «Non ha capito nulla», commenterà poi Gianfranco Miccichè, «Forza del Sud non è roba sua». Torniamo alla conferenza stampa: lo sgomento aleggiava ancora nella sala per le liste civiche quando il banchiere toscano ha dichiarato che non ha «nessuna intenzione» di dimettersi e invitato i presenti ad andare «a chiedere le dimissioni di Bersani». Spiega Ignazio La Russa: «Abbiamo solo dei dubbi che facciate domande così cattive anche a sinistra». Il ministro della Difesa, però, non ha fatto certo da spettatore: ha annunciato che domani vedrà Urso e Ron-

Sul tavolo, una posizione comune per Palazzo Marino

Oggi l’incontro su Milano Manfredi Palmeri e i moderati per decidere di Massimo Fazzi

ROMA. «Non riesco a capire perché si dice che il Terzo Polo cala se non eravamo presenti nelle grandi città. Noi avevamo attese realistiche, e i nostri candidati hanno fatto una campagna elettorale senza mezzi rispetto alle forze messe in campo dagli altri». È la lucida analisi, il giorno dopo il voto, di Pier Ferdinando Casini rispetto ai risultati delle amministrative di ieri. Il leader dell’Udc, intervenendo ai microfoni di Radio anch’io, ha aggiunto: «Terzo polo ago della bilancia nella prossima tornata elettorale? Domani mattina - dice Casini - riuniamo i nostri candidati con l’intento di fare cose di senso per i nostri elettori». Casini ha poi osservato che questi «non appoggeranno l’uno o l’altro candidato nei ballottaggi se non c’è coerenza programmatica o candidature che non risolveranno problemi della città». Schernendosi dicendo che «non vota a Milano», il leader dell’Udc non si è espresso in merito alla preferenza su Moratti o Pisapia. Ma è indubbio che sarà il Terzo Polo a decidere molti dei ballottaggi previsti fra due settimane. Ieri Casini ha ricordato che «Moratti significa il Pdl, non col volto mite di Maurizio Lupi, ma con quello della Santanché. Pisapia è un vero garantista ma la sua coalizione è

del tutto sbilanciata». In ogni caso, come hanno scritto i tre leader in un comunicato diffuso subito dopo i primi risultati elettorali, «è evidente che senza il Terzo Polo non si governa, perché la soluzione dei problemi dei cittadini non può essere affidata a coalizioni condizionate da radicalismi ideologici e populisti». Nel frattempo, oggi si riuniscono a Roma i vertici del Terzo Polo per parlare di cosa fare al secondo turno delle elezioni comunali di Milano dove si affronteranno il sindaco uscente Letizia Moratti e il candidato del centrosinistra Giuliano Pisapia (in netto vantaggio). Con Manfredi Palmeri, che il Terzo Polo aveva candidato sindaco, dovrebbero essere presenti nche il presidente della Camera, Gianfranco Fini, il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini, quello dell’Api Francesco Rutelli, Bruno Tabacci, il responsabile lombardo di Fli Giuseppe Valditara e il coordinatore regionale dell’Udc Savino Pezzotta.

Mentre i grandi sconfitti, i dirigenti del Pdl, hanno “chiamato” il Terzo polo per i ballottaggi di Milano e Napoli e blandito la Lega, definendola “alleato fedele e leale”. In una conferenza stampa fiume in via dell’Umiltà, lo stato maggiore del partito ha cercato ieri di minimizzare il passo falso di Letizia Moratti, rintuzzando le critiche sulla gestione della campagna elettorale, bollata dal Carroccio come ’troppo personalizzata’.

chi, gli oriundi del Pdl dentro Fli in procinto di tornare a casa, e ci ha regalato un assaggio di campagna elettorale. «Moratti è contro la droga, Pisapia no». Insomma, tutto bene madama la marchesa, in attesa della riunione serale di partito a casa Berlusconi.

Nel frattempo però a via Bellerio si riuniva la Lega. Anche Umberto Bossi, mentre mandiamo in rotativa il giornale, non ha ancora parlato ufficialmente, ma intanto è rimasto chiuso tre ore a via Bellerio con i suoi, e comunque i risultati del Carroccio sono sotto gli occhi di tutti: i lumbàrd arretrano in tutto il Centronord con l’esclusione di Bologna e, almeno in parte, del Veneto. Al di là delle dichiarazioni di prammatica sull’impegno nei ballottaggi, ieri è toccato a Roberto Calderoli dettare il suo “all’armi” e rifiutare «le seduzioni» del Pd, i leghisti sono arrabbiati, moltissimo. Prendiamo Attilio Fontana, il sindaco di Varese (la città di Bossi e Maroni), costretto per un’inezia al ballottaggio col centrosinistra: «Se votassi al ballottaggio di Gallarate voterei Partito democratico e non Pdl», ha messo a verbale. Di più: «Credo che all’interno della Lega si sia creata un’attenzione a tutte quelle parti politiche che cercano di fare discorsi riformisti seri, perché c’è una parte del Pdl che è riformista e una parte che non lo è. Ed è quella che abbiamo visto in questi mesi». Informalmente, dal consiglio di guerra del Carroccio, si lascia trapelare che Bossi potrebbe chiedere, dopo gli appuntamenti elettorali, una sorta di verifica di governo e di maggioranza, soprattutto se i ballottaggi andranno male. A partire da cosa? Dal secondo tempo del rimpasto promesso da Silvio Berlusconi agli scalpitanti Responsabili: «Un ddl per altri dieci sottosegretari», aveva spiegato di recente il premier, ma pare che dovrà ripensarci. Il giorno giusto per dare l’avvertimento al Cavaliere potrebbe - si dice - essere l’ormai tradizionale quanto bizzarro raduno di Pontida fissato per il 19 giugno. Risposta


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TERZO POLO

Ora costruiamo una vera alternativa di Rocco Buttiglione

erlusconi ha politicizzato queste elezioni, in modo particolare quella di Milano, invocando una specie di giudizio di Dio. Il giudizio è arrivato, e non è stato quello che Berlusconi aspettava. Certo, si trattava di elezioni amministrative, ma il Capo del Governo le ha trasformate in un referendum sulla sua persona. Ha detto, durante la campagna elettorale, che il Capo dello Stato ha troppi poteri ed il Capo del Governo troppo pochi. La stessa cosa ha detto della Corte Costituzionale e della Magistratura in genere. Ha dato l’impressione di chiedere tutti i poteri per se stesso. Gli italiani questa richiesta la hanno bocciata in modo inequivocabile. Questa richiesta, emersa con chiarezza nel corso di questa campagna elettorale, è la vera causa della crisi del primo centrodestra e della “svolta del predellino”. Berlusconi lo ha detto con chiarezza: «Ho cacciato l’UDC e poi anche Fini perché “non mi lasciavano fare quello che volevo». E quello che voleva era appunto prendere per sé un potere illimitato, esattamente la pretesa bocciata adesso dagli elettori. A Milano va male anche la raccolta delle preferenze personali; scendono a poco più della metà delle 53000 guadagnate la volta scorsa. È la sua città che gli volta le spalle.

B

ritorio per attirare tutti consensi che i sondaggi ci attribuiscono. Questa volta abbiamo fatto solo la somma dei voti dei partiti ma anche così la nostra prospettiva strategica esce confermata e rafforzata: siamo decisivi. Dobbiamo adesso esercitare questa forza con grande senso di responsabilità, sapendo che questioni locali (assicurare il buon governo delle comunità) e questioni nazionali si intrecciano fra di loro in modo strettissimo. Dobbiamo decidere insieme con i candidati sindaci che abbiamo sostenuto e insieme con tutto il Terzo Polo. Senza nessuna pretesa di anticipare la risposta finale, che verrà data dalle istanze competenti e nei tempi opportuni, mi permetto però di fare alcune considerazioni generali.

Forse sarebbe sufficiente, come prima cosa, che il governo rinunciasse al delirio di onnipotenza ed agli atteggiamenti di sfida contro tutto e tutti

Berlusconi è stato

A sinistra, Letizia Moratti. Sopra, Giuliano Pisapia. A destra, uno scatto di Silvio Berlusconi durante il predellino ufficiale: «Supposizioni prive di fondamento».

Nelle opposizioni, ovviamente, la situazione è più tranquilla. Il Pd ha detto in ogni sede e a tutti i livelli che a Napoli appoggerà senza riserve Luigi De Magistris, che ci sia un apparentamento formale o meno. Così ha fatto pure Sel. Pierluigi Bersani - incassato lo scontato no a qualunque apparentamento di Beppe Grillo ha chiesto al Terzo polo di schierarsi col centrosinistra perché«“gli estremisti sono Pdl e Lega» e predetto che «senza una maggioranza parlamentare la strada sono le elezioni». Antonio Di Pietro invece, il cui partito non è andato bene rispetto a elezioni recenti, non ha rinunciato a fare il maestrino con gli alleati:

«Noi chiediamo il consenso ai cittadini napoletani e un gesto di responsabilità a quei partiti che all’inizio non ci hanno appoggiato: oggi possono comunque dare una mano, certo però non riproponendoci gli stessi nomi o gli stessi finti programmi». Pier Ferdinando Casini, invece, ha voluto in primo luogo rispondere alla numerologia verdiniana: «Dice che noi siamo il quarto polo? Fossi in lui mi preoccuperei del Pdl. Noi abbiamo dati diversi, ma anche stando a quelli letti da Verdini la somma di tutti i partiti del Nuovo polo è il 7 per cento e ci fa pensare che alle politiche prenderemo almeno il dieci. Quella è la nostra vera sfida - dice il leader dell’Udc le amministrative erano la nostra prima uscita e ci va più che bene».

sconfitto. Va tutto bene, dunque? No, tutt’altro. L’estremismo di Berlusconi ha fatto passare davanti agli occhi dei milanesi Pisapia per un moderato. In realtà non lo è. Personalmente Pisapia è professore di diritto di buona qualità, un grande avvocato, un garantista che non ha esitato più volte a dissociarsi dal giustizialismo della sua parte politica. Suo padre è stata anche lui un grande avvocato e si tratta di un esponente della buona borghesia milanese. Politicamente però Pisapia è l’espressione della sinistra estrema che afferma la propria egemonia sulla sinistra moderata.

Ancora peggio vanno le cose a Napoli dove De Magistris va al ballottaggio contro Lettieri. Qui è direttamente l’ala giustizialista della opposizione, il partito di Di Pietro, a guidare la coalizione di sinistra. Il Partito Democratico, nonostante il suo risultato complessivamente positivo, è adesso più condizionato dalle estreme. Il Terzo Polo è diventato l’ago della bilancia. Molto, se non tutto, dipende dalle nostre scelte. La nostra prospettiva politica è troppo recente o troppo poco calata sul ter-

Ber lusc on i (con l’aiut o

della Lega) ha lanciato una campagna per distruggerci, noi d’altro canto abbiamo lottato e lottiamo per contestargli la guida dell’area moderata. Non possiamo essere noi a salvarlo nel momento in cui gli elettori decretano la fine del suo ciclo politico. L’alternativa a Berlusconi che si delinea non ci piace. È guidata dalla sinistra estrema. Come facciamo a garantirla davanti agli elettori? E se aprissimo il cammino, in questo modo, ad una resurrezione della sinistra parolaia ed irresponsabile che ci è antagonista sul terreno dei valori fondamentali? Sarebbe più facile decidere se la sfida tornasse sul terreno del governo delle comunità, e se su questo si potessero registrare significative convergenze, ma non sembrano esserci molte probabilità che questo avvenga. Giustamente la Signora Moratti ha detto che sarebbe auspicabile che si ricostituisse l’unità dei moderati in Italia. Noi abbiamo però l’obbligo di aggiungere che a rompere quella unità è stato Berlusconi ed essa non si può ricostituire sotto la guida di chi la ha rotta. Forse sarebbe sufficiente, in via di prima approssimazione, che il governo rinunciasse al delirio di onnipotenza ed agli atteggiamenti di sfida contro tutto e contro tutti che hanno caratterizzato l’ultima fase della sua azione.

Se, infine, come è possibile , non dovesse verificarsi nessuna di queste eventualità è sempre possibile rifiutarsi di dare indicazioni di voto. Non siamo obbligati a consegnare il governo delle comunità in mani che ci sembrano incapaci di esercitarlo.


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il dopo elezioni IL PDL

Andare oltre Berlusconi, prima che sia tardi di Giancristiano Desiderio

etizia Moratti commentando la Caporetto berlusconiana di Milano ha detto: «Serve una fase nuova». Certo, se si perde qualcosa bisogna pur cambiare.Tuttavia, quel che va cambiato nell’alleanza tra Popolo della libertà e Lega è l’idea che il cosiddetto “asse del Nord” sia o rappresenti il centrodestra o il miglior centrodestra possibile. Quel che va cambiato, dunque, è un dogma che molti nell’“asse” hanno sempre dato, come ogni dogma, per indiscutibile. Sono ora disposti a metterlo in discussione? Tutto lascia pensare che si persevererà nell’errore. Si sa che le vittorie hanno padri, molti mentre le sconfitte sono figlie di “enne enne”. Silvio Berlusconi ci ha messo del suo e coloro che dicono e ripetono che se il presidente del Consiglio non ci avesse messo la faccia e la candidatura il risultato sarebbe stato anche peggiore dicono una sciocchezza.

L

definita “capitale morale” poi è stata declassata a “capitale economica”. Ma è pur sempre solo una città, importante ma una città. Eppure, è diventata un simbolo perché è la città in cui è nato il centrodestra e perché è la città del predellino. Se Milano dice no a Berlusconi, allora, sta dicendo no alla deriva plebiscitaria che lì è stata pensata per interrompere la naturale evoluzione dalla Casa delle libertà alla istituzionalizzazione dell’area politico-culturale del centrodestra. La “fase nuova” evocata dalla Moratti non deve pensare l’effetto la sconfitta di Milano - ma la causa: il centrodestra senza nazione. L’estremismo politico, verbale, propagandistico che il Pdl ha espresso durante la campagna elettorale non è un errore accidentale, bensì il frutto di una scelta a monte: il berlusconismo in luogo della cultura moderata. L’estremismo, che ha avuto per molto tempo il volto arrabbiato e il pensiero monocorde della Santanché, si è manifestato con convinzione. Le teste pensanti del Popolo della libertà - ad esempio Fabrizio Cicchitto non hanno saputo opporre nulla alla “linea Lassini”perché l’origine di quella linea di propaganda era direttamente in Berlusconi. Ma oggi anche Cicchitto sa che quella “linea Lassini”è stata respinta dagli elettori. Ma ci voleva il voto per sapere che un partito di maggioranza relativa deve avere ben altri pensieri e nutrire ben altre azioni?

Ciò che deve davvero cambiare è l’«asse del Nord»: un male che ha divorato il centrodestra

I numeri e le preferenze dimezzate sono lì a testimoniarlo in modo inequivocabile: 28 mila preferenze significa, come abbiamo evidenziato ieri, che la leadership del Cavaliere è entrata ufficialmente in crisi. Ma anche se Berlusconi ha perso, la sconfitta milanese non è solo di Berlusconi. Si può dire così: ha perso Berlusconi in quanto rappresenta con la sua stessa persona la maggioranza di governo e il centrodestra fatto a sua immagine e somiglianza. Il centrodestra a tradizione unica è sul viale del tramonto. Il punto è proprio questo: la sconfitta berlusconiana non è la semplice sconfitta di un uomo ma di una politica che è ormai giunta ai confini della sua realtà. La “fase nuova” richiamata dalla Moratti può nascere dal brusco capitombolo milanese, ma con la consapevolezza che il “caso Milano” è solo l’occasione che ha messo in luce l’idea maldestra di un “asse del Nord” che ha divorato il centrodestra. Piaccia o no è questo che c’è nella sconfitta di Milano. La riprova, se si vuole, è data proprio da Milano e dal destino di Letizia Moratti. Milano è una città importante: un tempo era

In questa prospettiva anche le cose, come sempre intelligenti, di Giuliano Ferrara assumono un altro valore. Il direttore de Il Foglio, infatti, riduce tutto alla persona di Berlusconi e dicendogli di passare «dal monologo al contraddittorio» riduce il tutto a un problema di tecnica della condotta politica. Come a dire, se funziona Silvio Berlusconi funziona tutto e non c’è niente da dire. Invece, pur in un tempo diverso rispetto a quello della Prima repubblica, ciò che conta davvero non è il funzionamento di un individuo e di un leader, ma lo svolgimento della vita di partito e soprattutto delle istituzioni. Detto in due parole: il leader non può

rappresentare se stesso, ma la sintesi di una politica per la nazione. È qui che il centrodestra nella versione “asse del Nord” mostra tutti i suoi limiti che la sconfitta di Milano ha fatto risaltare ancor di più. Dopo Milano il centrodestra dovrà necessariamente rivedere nientemeno che l’idea di quello si è chiamato “asse del Nord”. In fondo, la più grande sbandata del governo Berlusconi è arrivata sulla politica estera proprio per la pretesa della Lega e di Bossi di giudicare le cose dell’Europa e del Mediterraneo con il “localismo”. La sconfitta di Milano non nasce da una strategia elettorale non indovinata ma ha la sua radice nel governo. Nasce a Palazzo Chigi. Il futuro lo dimostrerà ancora meglio.

Eppure, ancora non è detto tutto. I nostri eroi sono in grado di aprire la “fase nuova” con una discussione sulla natura dell’area politica e culturale che hanno così snaturato fino al punto da mettere in crisi il bipolarismo? Tutto lascia immaginare che si cercherà di metterci una pezza alla bene e meglio e nulla più. Bisogna invece andare oltre Berlusconi, prima che per l’Italia sia troppo tardi. Si attenderanno, come si dice, gli eventi, compreso il destino del rapporto tra Berlusconi e Bossi che una volta era perfetto e oggi è contrassegnato dalla reciproca diffidenza.

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LA LEGA NORD

Abbandonare l’illusione di poter vivere di rendita

ROMA. C’è una rarefatta eppure percepibile sensazione di panico, a via Bellerio. Mai vista. Inattesa. E impossibile da spiegare con il mero conteggio dei voti. Crolla una strategia, viene meno il castello di certezze in cui il partito di Bossi si è rinserrato dall’inizio della legislatura. Lo schema era chiaro: spolpare Berlusconi. Approfittare della solitudine in cui il Cavaliere si era volutamente cacciato. Capi-

di Errico Novi talizzare al massimo la rottura con i moderati e dunque la destrutturazione del vecchio centrodestra. Rimasti soli a controllare la golden share dell’alleanza, i leghisti erano convinti di poter erodere comodamente i consensi del Cavaliere. L’esito delle amministrative ora smonta l’intero disegno. A farlo saltare è soprattutto l’insuccesso clamoroso di Milano, che è una Caporetto per il premier ma an-

che per il Carroccio. C’è la netta sensazione, nel quartier generale di Bossi, di essere arrivati all’osso. Non c’è più nulla da spolpare. La narrazione politico-carismatica di Berlusconi si è esaurita, e lo stesso Bossi si trova ora in un vicolo cieco.

Dalle politiche del 2008 in poi i lumbàrd hanno esercitato una forte egemonia sul governo. Sono da attribuire a loro le


il dopo elezioni

4 In alto Giuliano Pisapia, ex esponente di Rifondazione comunista, che con il 48 per cento dei voti ha strappato Milano al Pdl e ha costretto la maggioranza al ballottaggio. In basso il leader del Pd Bersani. A sinistra in alto il sindaco Moratti e in basso il ministro dell’Interno, il leghista Maroni

poche iniziative assunte dall’esecutivo e non lasciate per strada. A parte i colpi a vuoto sulla giustizia e la tenuta assicurata da Tremonti sui conti dello Stato, il poco realizzato fa parte dell’agenda di Bossi. I decreti sul federalismo, il primo pacchetto sicurezza – quello in cui sono finite anche le fantomatiche ronde: nonostante mortificassero chiaramente le componenti moderate del Pdl, i pedaggi alla Lega sono stati regolarmente pagati. Anche sull’incapacità di opporre un’autonoma proposta politica, si è consumata un anno fa la rottura tra Berlusconi e Fini. Con il passare dei mesi la capacità di influenza dell’alleato padano si è ingigantita. Ha acquisito sempre maggiore consistenza la prospettiva di una successione leghista, per interposto Tremonti, a un Cavaliere declinante. Scena che si è svolta tra lo sconcer-

IL PD

Il riformismo vince a Torino Il resto è il solito estremismo di Riccardo Paradisi

he “loro” abbiano perso, come dice Pier Luigi Bersani, è sicuro. Che abbia vinto il Pd, come sostiene ancora lo stesso segretario democrat, purtroppo per lui non è vero. Il Pd non ha vinto queste elezioni amministrative, affatto. Anzi le ha perdute come Berlusconi. Diciamo che è una sconfitta meno percepita e dunque, per ora, meno dolorosa, quella del Pd. Ma si lasci passare l’euforia per la sconfitta Moratti-Berlusconi a Milano, una specie di seppuku da setta dei suicidi, e si vedrà come certe vittorie possano far male. Del resto non basta passare a Torino con Fassino in continuità con Chiamparino, ma con dieci punti percentuali meno di lui, per cantare vittoria; né basta il dato di Bologna, dove il Pd s’evita il ballottaggio ma vince di misura subendo l’erosione del suo elettorato da parte del movimento qualunquista di Beppe Grillo, che sfonda in tutta l’Emilia Romagna con percentuali al 10 per cento. Piuttosto il segnale di Napoli dovrebbe essere sufficiente per far capire a Bersani, sempre che possa permettersi di comprenderlo, che se si resta nel guado tra il rigore riformista della linea Chiamparino-Fassino e le tentazioni giustizialiste dipietresche, il destino che ci si scava è quello di vedersi umiliati in una metropoli strategica come Napoli – e dopo vent’anni di governi – da un ex pm accampato per ora nell’Idv. Un esponente di quell’ala militante della magistratura che ha dato un suo personale contributo a picconare lo stesso Romano Prodi, l’unico esponente del centrosinistra che in

C

to ma anche nell’assoluta inerzia del Pdl.

Improvvisamente però il Senatùr si trova di fronte a una circostanza che né lui né i suoi colonnelli avevano messo in conto: la stagione del berlusconismo si è esaurita, la polpa non c’è più, resta solo l’osso, e loro stessi non trovano più nulla da mangiare. È qui che nasce lo sconcerto. È da qui che vengono i silenzi del Senatùr, e le telefonate gelide con il premier dopo il tracollo di Milano. Non c’è più la convenienza, per la Lega. Viene meno il senso che si era dato a questo governo e a quest’alleanza. Ed emerge il risentimento della base. La rabbia di un elettorato che ha accettato il sostegno alle forzature sulla giustizia, gli accomodamenti sul bunga bunga, le contorsioni sulla politica estera, in nome di un profitto politico improvvisamente

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16 anni sia riuscito a battere, seppure infruttuosamente, Berlusconi.

Ma anche Milano per il Pd è, a ben vedere, una vittoria di Pirro. Anzi è proprio una sconfitta. Perché tu puoi cavalcare l’onda emotiva che genericamente attraversa il vasto fronte antiberlusconiano dopo i dati del primo turno che rompono il mito dell’invincibilità del Cavaliere a Milano, e soprattutto dopo anni di sconfitte e di arretramenti. Poi però a freddo devi prendere atto che quello li è il candidato di Nichi Vendola, l’incubo delle tue primarie. E che se Pisapia o Vendola vanno bene per battere Berlusconi in una battaglia – seppure importante come quella di Milano – al Nazareno hanno qualche residuo di cultura politica per sapere che non è con questo “materiale umano” che si vince la guerra per il governo del Paese. Il caravanserraglio da fronte popolare può coagulare sentimenti e risentimenti ma da questo blob non nasce un programma politico, un progetto credibile per l’Italia, una visione del Paese. Al limite può riesumarsi una qualche riedizione dell’Ulivo, ma insomma, gli italiani hanno già dato e anche il Pd, si spera.

nora è stata parzialmente immobile rischia di percorrere la sua parabola conclusiva nella palude dei veti e dello scontro politico e istituzionale permanente, con un governo e un premier ricattati da minoranze interne organizzate e condizionati da una Lega sempre più nervosa e insofferente. A meno che non si torni a considerare il jolly d’un governo d’emergenza o di larghe intese. Un esito tutt’altro che impossibile a ben vedere la situazione presente e considerando il rischio che la crisi economica s’avviti su se stessa in vista della manovra di lacrime e sangue già concordata con l’Ue dal nostro Tremonti per rientrare del debito e restare nel sempre più esigente girone dei cosiddetti Paesi europei di serie A. Per un governo di questo tipo – come sospetta Berlusconi – Giulio Tremonti non ha mai smesso di essere a disposizione, attendendo un segnale chiaro da Bossi, mentre sul Colle Giorgio Napolitano non avrebbe difficoltà a benedire una simile soluzione. Per tornare al Pd basta aspettare il superamento dei ballottaggi per avere conferma di come i problemi che Bersani aveva sino ad oggi li vedrà moltiplicati dall’alchimia di queste elezioni. Che non hanno premiato nessuno, se non quelli che in nome del contropotere, dell’antipolitica e della loro dubbia purezza possono solo sfasciare tutto. O almeno quel poco che in questo Paese sta ancora in piedi.

Da Vendola all’Idv, i democratici restano ostaggio di alleati inadatti a governare il Paese

Se queste amministrative dimostrano che al centro ora s’è aperto un nuovo spazio politico tuttavia non consentono ancora di vedere schemi di potere alternativi al lento tramonto d’una legislatura che se fi-

svanito. In più all’orizzonte si vede avanzare un nuovo fronte di forze antipolitiche e protestatarie in chiara concorrenza con il partito di Bossi. Grillo, Vendola, il dipietrismo ultraradicale di De Magistris sottraggono al capo leghista l’esclusiva del voto protestatario. Svelano anche l’avidità di un partito di lotta, di governo e di organigrammi. Ai rimpastini responsabili corrisponde sempre qualche nomina gradita a via Bellerio, come quella recente di Giuseppe Orsi in Finmeccanica.

imporre i propri temi nell’agenda di governo. Si afferma piuttosto il profilo di un Carroccio in grado sì di piantare bandierine, conquistare postazioni strategiche nelle partecipate, locali e di governo. Ma la forza di stimolare in positivo il cambiamento non esiste più. Almeno, non è più realizzabile con un Berlusconi così indebolito. Adesso Bossi sembra voler trarre delle conseguenze. Lascia intravedere ultimatum e fa degradare un clima, nella maggioranza, già ampiamente compromesso dalla frattura sulla Libia. C’è da fare i conti con uno storico tracollo a Milano. Se Pisapia come sembra molto probabile si aggiudicasse il ballottaggio, la Lega dovrà rinunciare al controllo di

Dal 2008 il Carroccio segue un’idea precisa: spolpare Silvio. Ora è arrivata all’osso

Comincia ad essere complicato, diciamo pure improbabile, per la Lega, reggere ancora questo doppio ruolo. Capace di ascoltare le voci dal basso e di

aziende partecipate e a quote consistenti di potere reale.

Ma prima ancora di contare le perdite Bossi assisterà, probabilmente senza impegnarsi nella battaglia, a questi dieci giorni difficilissimi per Berlusconi. Già sconfitto in modo clamoroso, il premier non potrà sottrarsi a una sfida disperata. Scena che incoraggerà quell’ampia corrente interna al partito del Senatùr già sfibrata dalle ultime stranezze del Cavaliere e ora sempre più persuasa che «Silvio ha fatto il suo tempo». Un magma di risentimento, delusione, dissenso profondo che Bossi non può più ricacciare indietro. Così come gli è sempre meno lieve il suo lavoro di mediazione tra le componenti che all’interno del partito si fanno la guerra. Tensioni che un’eventuale, ulteriore proroga concessa a Berlusconi potrebbe far esplodere definitivamente.


il dopo elezioni

pagina 6 • 18 maggio 2011

Nell’intera Lombardia la maggioranza ha subito enormi colpi di maglio dal voto. E l’alleanza di ferro scricchiola

Il patto si è sfatto

I colpevoli della sconfitta? Berlusconi e Bossi. È finita la tolleranza per una coabitazione sempre più rissosa. Le urne hanno dimostrato che la capitale del Nord non sopporta segreti, intrighi e scambi sulla propria pelle di Giancarlo Galli erremoto a Milano (e pure in Lombardia da Gallarate a Varese a Pavia), che sta togliendo il sonno tanto a Silvio Berlusconi che ad Umberto Bossi. E il motivo del clamoroso flop del centrodestra nella Capitale del Nord & dintorni va proprio individuato nella sotterranea rivalità tra i due leader. Illudendosi di avere in tasca la vittoria al primo turno, si sono azzannati dietro le quinte, creando scompiglio nelle loro stesse legioni oltre che nel gran serbatoio dei moderati (altissima l’astensione), che ritenevano esclusiva riserva di caccia.

T

Avanti di ragionare su Milano, alcune annotazioni su Varese e Gallarate, terre che conosco, essendoci nato. Nel capoluogo provinciale, prossimo al confine svizzero, storico feudo del Carroccio, il sindaco Attilio Fontana, leghista doc, marciava sicuro verso la riconferma. S’è dovuto fermare al 49,2 per cento. Motivi: la diserzione dei mo-

derati (appena il 64 per cento di votanti) attribuibile oltre a lotte intestine al diktat leghista che aveva preteso ed ottenuto di emarginare Mauro Morello dell’Udc. Ora Morello, con un bottino personale del 7 per cento può vantare una “rivincita morale”. Intricatissimo lo scenario di Gallarate.

Nella ricca cittadina con oltre 50mila abitanti e tanti immigrati musulmani che lavorano nelle industrie manifatturiere si dibatteva sull’opportunità di costruire una moschea. Assolutamente contraria, la Lega ha schierato un grosso calibro: Giovanna Bianchi Clerici, consigliera di amministrazione Rai. Contrapposta al berlusconiano Massimo Bossi e ad Edoardo Guenzani, democristiano di vecchia data, ora con la casacca del centrosinistra. Risultato: sia pure per una manciata di voti, la signora Giovanna è stata eliminata. Brutta risposta dell’elettorato al ministro Maroni, arrivato per

il comizio finale a dire che a Gallarate si sarebbe celebrato in anteprima un divorzio della Lega dal Pdl. Queste premesse aiutano nella difficile ricerca del perché la Moratti, stravolgendo ogni pronostico, è finita nella polvere; disperatamente costretta a rincorrere al ballottaggio un Giuliano Pisapia, ex Rifondazione comunista, che dall’alto del suo 48 per cento la sopravanza di 6 lunghezze. Rimonta “quasi” impossibile. Certo, Donna Letizia ci ha messo, e molto, del suo

Pesa anche la gestione “morattiana”. Oltre l’Expo, poco o nulla

con l’arroganza sfoggiata nei telecomizi, un quinquennale bilancio poco esaltante con l’eccezione della conquista dell’Expo 2015. Il che non è però sufficiente a spiegare la Caporetto della sindachessa.

Ben altro ha pesato. E qui torniamo alla guerriglia (sotto traccia, ovviamente) tra Silvio Berlusconi e Umberto Bossi. Dai capi, scendendo poi giù giù ai gregari. Sino a gennaio, ritenendosi col vento in poppa, il

leader del Carroccio aveva accarezzato il disegno di un leghista a Palazzo Marino, storicamente un “gran ritorno”, considerata la vittoria del poi “eretico” Marco Formentini nel ’93 in piena stagione di Mani Pulite. Berlusconi lo indusse a ripensarci, facendo rientrare la suggestiva ipotesi di Roberto Maroni. Non che al Cavaliere Donna Letizia piacesse.

Però gli appariva sgarbato licenziare un sindaco, sì azzurro di complemento (nel 2006 s’era presentata da indipendente) ma esponente di una famiglia dell’alta borghesia ambrosiana. In quest’ottica, Berlusconi ha pure bocciato la candidatura di Gabriele Albertini, europarlamentare azzurro, amatissimo sindaco per due legislature. Albertini gli aveva oltretutto promesso di “ricucire” con i finiani milanesi e l’Udc. Conclusione del mercatino delle poltrone: riconferma della Moratti, garanzia alla Lega del vicesindaco con Matteo Salvini al


18 maggio 2011 • pagina 7

Il personaggio. È Pisani l’erede di Vassallo, il sindaco ucciso dalla criminalità

Stefano al posto di Angelo, la staffetta anti-camorra

Il “modello Acciaroli”: anche nel Cilento la gente chiede legalità, ordine, salvaguardia del territorio e sviluppo ecocompatibile di Pierre Chiartano tefano Pisani, oltre a essere stato il vice del sindaco di Pollica Angelo Vassalo, era un «suo amico». Ora è il nuovo primo cittadino del comune campano. Una vittoria «senza festeggiamenti». La mano della criminalità organizzata e la volontà di una squallida rete di spacciatori decise, nel settembre del 2010, che il sindaco ambientalista del porto di Acciaroli, una piccola perla incastonata nella costa campana a sud del Cilento, doveva morire. Muretti a secco, case di pietra e una terra rossa che non riesce a nascondere le bellezze di un panorama assolutamente splendido. Si è parlato di piccole speculazioni e vendette di pusher che Vassallo non voleva a casa propria, ma per gestire l’omicidio di un sindaco servono interessi più «corposi». E da quelle parti da qualche tempo, stando molto attenti a non esporsi, si stanno muovendo i vory i zakone (ladri per legge) della mafia russa che spesso utilizzano bassa manovalanza locale per operare da dietro le quinte. Movimenti che non sono sfuggiti ai radar investigativi, ma che al momento restano lontani, sullo sfondo di una vicenda che aspetta che giustizia sia fatta. Ora che i fari della politica nazionale si sono accesi su questo comune campano, «dove il controllo del territorio c’è», conferma a liberal Stefano Pisani sindaco appena eletto, anche il lavoro di chi ha raccolto il testimone di Vassallo può dirsi più semplice. Ma solo in apparenza. Ciò che colpisce di questa comunità è come il sindaco tragicamente scomparso sia riuscito a seminare la voglia di riscatto, d’indipendenza, il senso civico o più «semplicemente», come ci suggerisce Pisani, «il rispetto per chi si prende cura di una comunità». Pisani ci racconta del programma per i prossimi cinque anni e dalla sua voce traspare serenità di sente gli obiettivi a portata di mano, l’impegno di chi sa bene cosa voglia dire essere l’elemento di continuità con il passato. Ma si punta sempre alla salvaguardia del territorio all’energia rinnovabile a una crescita che non distrugga la casa di tutti, per il vantaggio di pochi. La Campania è un terra strana c’è Afragola e c’è Salerno. Ci sono i comuni vesuviani e Positano e Ravello.

sale dai territori più vessati dall’illegalità e anche la vittoria di Pisani «ha superato ogni aspettativa». Ha vinto con quasi il 60 per cento di voti con la lista «Insieme per la politica». Alle volte per capire certe regioni del nostro Paese servirebbe farsi un viaggio all’estero, magari dalle parti di Tijuana o nel Sinaloa, dove i pasadores del traffico di droga comandano e ammazzano. Non perché la violenza, i morti e la devastazione sociale siano a quei livelli, ma perché le dinamiche politiche economiche e sociali sono figlie della stessa madre.

S

«Oggi i problemi della nostra comunità sono più legati alla crisi economica che alla criminalità» A dimostrazione che la presenza dello Stato si muove attraverso le gambe di pubblici amministratori, cittadini, stampa libera e organi giudiziari. Siamo nelle ore del grande balzo di Luigi De Magistris, della voglia di cambiamento che

Stefano Pisani, nuovo sindaco di Pollica con le liste del Terzo Polo. In alto Angelo Vassallo, suo predecessore ucciso dalla malavita. Nella pagina a fianco: in alto i sostenitori di Pisapia esultano dopo le proiezioni che danno il loro candidato al 48 per cento. In basso, il simbolo dell’Expo di Milano

I meccanismi e gli ingranaggi che muovono le commistioni tra interessi diversi, leciti e illeciti, sono simili, anche se con esiti diversi. Basta poco per segnalare la presenza dello Stato, e altrettanto poco per far sentire amministratori locali e cittadini soli. «Non è il caso del nostro comune. Oggi i problemi sono più legati alla crisi economica che alla presenza della criminalità», sottolinea il neosindaco del Terzo polo. Il successo è maturato grazie l’intelligenza degli elettori che ha compreso la necessità di continuare il lavoro cominciato da Angelo». Ma dopo la tragedia cosa è successo? Pisani oltre alla scomparsa di Vassallo, di per sé una perdita enorme, non ha riscontrato problemi particolari. A dimostrazione che quando c’è chiarezza e trasparenza la macchina pubblica funziona e bene. Ma è una verità che molti vorrebbero nascondere, specialmente al Sud. Funziona meglio la favola dei problemi irrisolvibili, delle tare storiche, delle disfunzioni ataviche. Insomma la narrazione che permette ai pochi che malversano di continuare a farlo liberamente. Il nuovo sindaco da vice aveva gestito per otto mesi la vecchia amministrazione, ottenendo risultati «importanti». Per un piccolo comune anche portare a buon fine l’appalto per una strada o per le fogne è un «risultato». Ascoltando le parole di Stefano si capisce che le rivoluzioni, quelle vere, sono fatte da gente normale che semplicemente fa ciò che deve. E che bastano poche persone, convinte di questo “assioma”per generare grandi cambiamenti. Ma anche questa è una verità che non si deve rendere nota: troppo rivoluzionaria. «La levata di scudi del settembre dello scorso anno è stata fortissima. Ed è stata ben compresa da chi era fuori da questo territorio e vi rimarrà», spiega Pisani. Alcune ipotesi investigative facevano riferimento a infiltrazioni d’interessi calabresi – parliamo di ‘ndrangheta – che volevano pascolare in Campania. «Ora dobbiamo solo capire se riusciremo in cinque anni a fare tutto ciò che è necessario». I nove colpi di pistola che uccisero Vassallo rimangono vivi nella memoria di chi lo ha conosciuto, ma sono ormai coperti dalla risacca del mare per chi ora deve continuare il suo lavoro.

posto dell’ex An Riccardo De Corato; una ripartizione del bottino al tavolo dei vincitori e la presa di distanza dal Polo di Centro, inclusi gli assessori Udc ed il presidente del consiglio comunale Manfredi Palmeri. A trattative segretissime in quel di Arcore, infine, l’impegno di Berlusconi ad indicare quale futuro successore a Palazzo Chigi Giulio Tremonti. Come è avvenuto, tra stupore ed interrogativi.

Senonché la ditta Berlusconi&Bossi ha ricevuto uno di quegli schiaffi che lasciano il segno. Primo, a Milano la Lega anziché trionfalmente avanzare come i sondaggisti vaticinavano, ha subito una pesantissima battuta d’arresto: dal 14,5 per cento delle Regionali dell’anno scorso al 9,6. Secondo, esiste ormai il concreto rischio che Palazzo Marino passi al listone di sinistra di Giuliano Pisapia. Nel qual caso, addio alle poltrone del sottogoverno! Terzo, nel tentativo di evitare il peggio, Bossi ha dovuto concedere a Berlusconi, in un colloquio telefonico ad alta tensione, carta bianca per trattare con il Terzo Polo, il cui 5, 5 per cento sarà decisivo al ballottaggio. Basterà il colpo di reni (per il momento a tavolino), a bloccare Giuliano Pisapia, che raggiunta “quota 48” è alla soglia del balzo finale? Mettiamola così: nel centrodestra e fra i moderati, in molti ci sperano, in pochi credono al miracolo. Saranno giorni al calor bianco fino al 29-30 maggio. Se il centrodestra perde Milano, roccaforte e bandiera, a barcollare oltre al governo Berlusconi sarà la stessa figura, fin qui carismatica, di Umberto Bossi. Bossi aveva contratto una scommessa elettorale con polizza assicurativa: un possibile smacco del Cavaliere controbilanciato da una strepitosa avanzata del Carroccio. Le urne lo hanno messo in un vicolo semi-cieco. Quanto a Milano, gli interrogativi si moltiplicano. Se è indubbio che il voto abbia sanzionato la Moratti, trattasi di avvertimento o licenziamento in tronco? E che ne sarà dell’Expo? Anche quanti vanno celebrando il successo di Giuliano Pisapia si chiedono quale sia il suo programma, mai avendo ricoperto cariche istituzionali, e se non si lascerà suggestionare dalle sue frange ecologiste e contestatrici. Proprio per questo Berlusconi – Bossi – Moratti & Co. hanno riunito i loro stati maggiori, quegli opinion-maker che hanno tutto o quasi sbagliato, ad impostare nuovi piani e programmi di emergenza. Poiché se alle armate di Pisapia, magari scomposte ma esultanti, riesce la spallata finale, l’intera politica italiana non potrà sottrarsi ad una riflessione profonda e radicale.


pagina 8 • 18 maggio 2011

il paginone

Da bin Laden a Gheddafi passando per Assad: ovvero la tendenza a rimanere al el 1677 usciva postuma in Olanda l’Ethica more geometrico demonstrata di Baruch Spinoza, nella quale il filosofo ebreo di origine spagnola poneva un problema morale e politico essenziale: i despoti hanno bisogno della tristezza dei loro sudditi, e in generale i governi non realmente democratici per sopravvivere devono infliggere ai loro governati quelle che egli chiama passioni tristi.

N

Al filosofo che pagò sulla propria pelle la persecuzione dell’intolleranza del potere e che rifiutò, per poter rimanere uno spirito libero, la cattedra ad Heidelberg vivendo del suo lavoro di molatore di lenti per cannocchiali, parve infatti che tali passioni rendessero gli uomini schiavi. E come la lente serve a mettere a fuoco e a vedere meglio, solo la ragione può aprire un nuovo orizzonte e ispirare una visione libera del mondo. Spinoza era certo che se la politica non governa la paura, l’odio e l’ambizione smisurata dovrà governare attraverso queste passioni tristi facendo di esse un’ideologia che le assicuri il consenso. C’è chi recentemente ha definito la nostra un’epoca delle passioni tristi sia per l’intormentimento del sentire, sia per una sorta di incapacità di agire, legati ambedue non solo alla crisi globale che stiamo attraversando, ma anche alla coscienza individuale e collettiva. Che siamo impotenti di fronte alla disarticolazione delle soggettività. Schiavi, cioè. C’è una sorta di sentimento di resa, una frammentazione delle identità che indebolisce anche la forza di immaginare un agire sociale o un qualsiasi tipo di partecipazione attiva alla vita pubblica. E la tecnologia non aiuta in questa direzione perché ci isola sempre di più dal mondo dando l’illusione ad alcuni di poter invece dominarlo attraverso la consolle. I media visuali poi hanno omologato il nostro sentire e anestetizzato i nostri sguardi. Le esigenze di sicurezza che seguono la paura dei nostri giorni, conseguenza di un odio seminato in più

L’esercizio del dominio è legato alla perdita delle passioni gioiose e connesso al mantenimento di un’egemonia che spegne l’anelito alla felicità parti del mondo da un’intolleranza fanatica, e le ambizioni sfrenate che caratterizzano sempre più frequentemente l’accesso alla politica in generale, sembrano ormai essere i criteri dominanti di organizzazione delle più importanti istituzioni sociali. Il punto cruciale è proprio quello dell’esercizio di un dominio legato alla perdita delle passioni gioiose e connesso invece al mantenimento di un

La solitudine dei ti potere che spegne l’anelito alla felicità, e dunque il bisogno di democrazia. Di questi tempi circolano immagini che rappresentano al meglio la nostra era di passioni tristi. Una in particolare ha fatto il giro del mondo, anche se sulla sua veridicità siamo stati messi in guardia: bin Laden che osserva se stesso su un piccolo schermo televisivo, controllando nei minimi particolari, con un telecomando in mano, le immagini e i messaggi diretti ai suoi seguaci. E ammesso che il video sia originale e non invece una creazione dell’intelligence americana, cosa che se fosse vera la renderebbe semplicemente geniale, è certo una fonte assai ricca di indizi rivelatori della tristezza della nostra epoca e di come il potere mediatico abbia inquinato anche quelle forze che dicono di opporsi allo strapotere economico e dei media visuali della cultura occidentale, vale a dire di quello che viene da esse definito l’impero del male. La regia appare curata nei minimi particolari: la barba tinta di scuro per non apparire troppo vecchio (forse anche lo sceicco era divenuto ormai schiavo delle regole mediatiche, dimenticando, lui che ha sempre affermato di essere geloso custode della purezza della sua tradizione, che i saggi sono per definizione vecchi e dunque con barba e capelli bianchi e che, da sempre, da loro si impara il mondo), la ripetizione del messaggio in attesa della luce giusta, i colori degli indumenti che assieme allo sfondo, oltre a rappresentare un corredo simbolico di segni, servono a dare maggiore incisività al volto enfatizzando le parole.

Le nuove informazioni personali su bin Laden raccontano inoltre dell’esistenza di video pornografici e di Viagra alle erbe, e ci restituiscono un’immagine certamente non nuova né originale, a volte anche risibile, degli infiniti ma sempre più tristi intrecci tra sesso e potere (maschile!) che non sembrano risparmiare nessuno degli uomini politici nel mondo e a cui purtroppo, specie in Italia, siamo ormai adusi. E che mettono in evidenza oltre alla solitudine dell’individuo anche la banalità un po’squallida del suo quotidiano. Altro che figura ascetica o guru trascinatore di folle. Pura banalità del male. Infine lo sceicco che guarda se stesso in una stanza scarna e con una coperta sulle spalle che lo fa somigliare a un vecchio pensionato ormai stanco ci restituisce l’immagine di un potere davvero triste e ormai privo di carisma (glo-

Per governare, hanno assoluto bisogno di un popolo schiavo, triste e impaurito. Lezione e attualità di Baruch Spinoza di Anna Camaiti Hostert ria all’intelligence se è un suo prodotto!) ripiegato su stesso e su riti di autoreferenzialità degni solo delle icone dello star system hollywoodiano ormai al tramonto.

E come ormai è noto questo essere alla fine non solo mostra una scarsa dignità, ma stimola una mancanza di affabilità e di umanità che porta questi personaggi anche a trattare coloro che li circondano e li servono alla stregua di despoti che governano dei sudditi tristi. In questa direzione si muove l’articolo divertente e irriverente fin dal titolo “Old Man with Clicker” (Il vecchio con il telecomando) di Maureen Dowd,

famosa editorialista del New York Times e vincitrice del premio Pulitzer, che paragona Osama bin Laden a Norma Desmond, la protagonista dell’ormai famosissimo film Viale del tramonto. Impersonata magistralmente da una splendida Gloria Swanson, la diva in disgrazia è divenuta l’emblema della stella cadente che sogna di ritornare alle vecchie glorie. E per questo fa di tutto calpestando il proprio decoro. Tra le caratteristiche in comune tra i due, la giornalista annovera infatti, oltre al coinvolgimento sentimentalmente con partner che hanno la metà dei loro anni, vivendo in ville isolate dal resto del mondo, anche la tendenza


il paginone

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l potere attraverso lo sconforto e l’indebolimento collettivo dei propri “sudditi”

iranni numeri uno In senso orario: il filosofo olandese Baruch Spinoza, Osama bin Laden, Muammar Gheddafi e Bashar Al Assad

a guardare se stessi in video nella speranza di un ritorno ai fasti del passato e all’adorazione dei loro fan.

Un riflettersi in uno specchio scuro che accentua più l’implosione del solipsismo che una rinnovata capacità di azione. Questo bin Laden in versione “diva al tramonto”in un articolo scritto da una donna per di più occidentale, è certamente l’immagine più beffarda anche se postuma che potesse essere dedicata allo sceicco del terrore, così attento alla virilità dei suoi comportamenti e alla rappresentazione di un’immagine capace di suscitare reverenza, paura e rispetto. Senza cedere al cattivo gusto sul piano mediatico, quest’articolo è molto più irriverente di tutte quelle manifestazioni di piazza che in molte città americane si sono spontaneamente formate per celebrare la morte di Osama bin Laden e che sul piano umano non hanno certamente giovato all’immagine degli americani come popolo civile. Queste infatti sono un’ulteriore dimostrazione che i nostri sono tempi di passioni tristi, se si può

gioire con tale entusiasmo della morte di qualcuno, per quanto in parte queste pubbliche espressioni di giubilo possano essere comprensibili alla luce dei tremila morti delle Torri Gemelle e del terrore che è seguito all’11 settembre del 2001. Certo è sicuro che la partita con al Qaeda non è chiusa e che le recenti minacce tentano ancora di creare paura, sconcerto e impotenza in tutti coloro che ne sono investiti. E come allora gli americani saranno chiamati a resistere e a non cedere alla spirale della paura.

Ma l’immagine di bin Laden non è certo la sola a parlarci di un solipsismo malato di tristezza, perché anche l’altro grande “cattivo” dei nostri giorni, Gheddafi, dà di sé una rappresentazione molto simile a quella del signore di al Qaeda. E per coglierla basta ripercorrere le fasi del suo lungo viaggio semplicemente attraverso il suo look. Dopo avere usato, nel periodo in cui flirtava con il terrorismo, uniformi militari che lo rendevano simile anche in questo caso ad un divo dello spettacolo alla Mi-

L’alternativa secondo il filosofo olandese era rendere la politica il luogo per condividere affetti e desideri e per instaurare percorsi comuni di conoscenza chael Jackson, più che a un capo di Stato, il rais è infatti passato a una fase diversa del suo più che quarantennale potere, contraddistinta da un ritorno alle origini beduine che lo hanno visto vestirsi con caffetani di stoffe preziose e di fattura raffinata sempre coordinati con il fez . Questa nuova fase più stabilizzata e più consolidata è stata caratterizzata da una sorta di ostentata onnipotenza e di rimozione sul piano personale dei segni del tempo e dell’invecchiamento. Così si è alterato i lineamenti del volto attraverso diverse plastiche facciali ad opera di chirurghi brasiliani fatti volare apposta a Tripoli, con tragitti tenuti segreti fino all’ultimo momento. E si è fatto fare due volte un trapianto di capelli. Questo «perché il Paese non poteva essere guidato da un

vecchio». Il rais libico ormai sicuro del consenso della gente, preoccupandosi troppo della propria immagine e troppo poco delle condizioni di vita del suo popolo, lo ha tenuto nella miseria e all’oscuro delle sue sterminate ricchezze circondandosi di un lusso sfrenato e vivendo in uno sfarzo degno di despoti di altri tempi. Ad un certo punto però tutto ciò non è più stato tollerato e la gente gli si è ribellata e continua a battersi pur di cacciarlo.

Sembra quasi che ci sia nella mente di questi despoti mediorientali un legame direttamente proporzionale tra l’eccessiva cura dell’immagine quasi da divo hollywoodiano e la necessità di governare attraverso passioni tristi. Ma ciò non basta a garantire un dominio esente da critiche e da azioni eversive come hanno dimostrato le rivolte di piazza e gli esodi di massa verso l’Europa di questi mesi. L’intorpidimento della ragione ad un certo punto finisce. È accaduto e sta accadendo in molti paesi del Nord Africa: dall’Egitto alla Tunisia alla Siria, dove la gente, rischiando la vita, ha manifestato e manifesta contro i tiranni di turno che non si sono avvisti prima della necessità di concedere maggiori libertà e condizioni migliori di vita, e che non esitano ad affogare queste rivolte in bagni di sangue. E così quasi tutti sono stati cacciati o se ne sono andati, con l’esclusione di Assad in Siria e di Gheddafi. Il quale dichiara di volere resistere, sebbene proprio la sua gente non lo voglia più e si ribelli alla sua dittatura. I barconi che arrivano a Lampedusa sono pieni di migliaia di uomini e donne che compiono un esodo non solo da Paesi dove non ci sono condizioni di vita tollerabili, ma anche da quelle passioni tristi che li tenevano prigionieri. Essi rischiano la vita nelle loro traversate e molti di essi non ce la fanno. Ma pur tuttavia continuano a fuggire. Sono l’opposto dell’immagine dei tiranni che per anni hanno abusato del loro potere e che hanno avuto bisogno della loro tristezza per poter governare. Questi uomini e donne rappresentano l’istinto e la gioia di sopravvivere a cui l’Europa, che ha colonizzato questi Paesi depauperandoli e aprendo gli spazi riempiti dai tiranni che oggi vengono contestati, non riesce a rispondere adeguatamente. La maggior parte di essi, quasi tutti giovani, chiede lavoro e libertà e non ha niente a che vedere con le deliranti minacce di al Qaeda che, come i despoti che li hanno oppressi con la paura alimentando l’odio, li ha tenuti prigionieri entro una confusione lontana dalla ragione. Ma alla fine questi giovani si sono ribellati alla passività della subordinazione e hanno scelto i dettami di una ragione chiarificatrice. Vivere secondo ragione, secondo Spinoza, esprime la massima potenza di essere e di agire dell’uomo e, dunque, è causa di gioia autentica. Questo processo di affrancamento dalla servitù della tristezza è processo in corso di gioiosa e consapevole liberazione. Davanti a ciò l’alternativa spinoziana, che propone di rendere la politica il luogo adatto per condividere affetti e desideri e per instaurare percorsi comuni di conoscenza, si offre ancora come un’importante base di riflessione per chi intenda di nuovo ripensare l’attualità della democrazia.


mondo

pagina 10 • 18 maggio 2011

Paura per i possibili attentati contro la sovrana Windsor: tre giorni fa sono stati bloccati due attivisti repubblicani con un lanciarazzi. Ieri un ordigno sulla strada

Elisabetta, regina verde La sovrana sbarca a Dublino 100 anni dopo il nonno Ma l’isola è divenuta indipendente (e democratica) di Maurizio Stefanini l sovrano d’Inghilterra va in visita in Irlanda, c’è una guerra sanguinosa in Libia, l’Italia festeggia l’Unità Nazionale, e l’Inter non è riuscita a confermare lo scudetto vinto l’anno prima: di che anno stiamo parlando? Sì: è questo che sta trascorrendo, 2011. Ma è anche cent’anni fa: il 1911. Le differenze: nel 1911 all’Unità Nazionale mancano ancora Trento e Trieste. In Libia non si combatte tra gheddafisti e antigheddafisti, ma in seguito all’impresa coloniale italiana. L’Inter lo scudetto non lo ha passato al Milan, ma alla Pro Vercelli. E l’Irlanda nel frattempo è diventata indipendente. E sì. Nel 1911 re Giorgio V fu accolto da una folla entusiastica e salutato dai soldati del suo esercito. Adesso invece Elisabetta II è stata salutata dai soldati dell’esercito irlandese indipendente. È sbarcata all’aeroporto Roger Casement: che prende il nome dal diplomatico irlandese protagonista dell’ultimo romanzo di Mario Vargas Llosa, che quando scoppiò la Prima Guerra Mondiale diede le dimissioni per contattare i tedeschi e convincerli a organizzare una legione con gli irlandesi prigionieri, che lottasse al loro fianco in nome dell’indipendenza irlandese; sbarcò poi in Irlanda su un sottomarino al momento della Rivolta della Pasqua 1916, fu catturato e finì impiccato come traditore. Lei era vestita di verde smeraldo: colore tradizionale del nazionalismo irlandese, emblematico dei prati dell’isola.

I

Ad accoglierla, assieme a un bambino con un mazzo di fiori, Eamon Gilmore: oggi ministro laburista degli esteri del governo di Dublino; da giovane militante dell’Ira. La presidentessa Mary McAleese ha poi salutato l’arrivo di Elisabetta e del Duca di Edimburgo alla sua residenza ufficiale come un “evento straordinario”, regina e principe consorte hanno firmato il libro degli

invitati, e sono stati presentati al premier Enda Kenny. Che è di quel Fine Gael,“Stirpe Irlandese”, che al Parlamento Europeo sta con i dc, ma è essenzialmente il partito che nel 1921 accettò la pace di compromesso con Londra, sulla base di un’indipendenza come Dominion e della rinuncia alle sei contee dell’Ulster; di contro al Fianna Fail, “Guerrieri del Destino”, che è il suo storico avversario ancorché ultimamente azzoppato dalla cri-

Tutto sembra simile a un secolo fa: l’Italia diventa unita (ma mancano ancora Trento e Trieste), in Libia si combatte la nostra prima impresa coloniale e l’Inter non conferma lo scudetto si, e che sta al Parlamento Europeo con i liberali ma è essenzialmente il partito di chi l’accordo del 1921 lo rifiutò, e poi quando andò al governo cercò di proclamare la repubblica il prima possibile.

Per chi ha visto il film, insomma, Michael Collins versus Eamon De Valera. A quel punto, la regina ha passato in ras-

segna la guardia d’onore dell’esercito irlandese. «Maestà, la guardia d’onore è pronta per l’ispezione», ha gridato il capitano con la sciabola in mano. Successivamente la regina ha piantato una quercia irlandese in un angolo del palazzo presidenziale, dedicandola al processo di pace nell’Ulster. Una tradizione portata avanti da visitatori illustri come De Gaulle o Kennedy, ma in effetti iniziata dalla sua ava Regina Vittoria.

E tra gli invitati c’erano anche i due Nobel per la Pace del negoziato in Irlanda del Nord: John Hume e David Trimble. Di qui a venerdì, prima di tornare in patria la regina farà in tempo a visitare i luoghi più simbolici del nazionalismo irlandese. Fino a depositare una corona di fiori nel giardino in memoria dei caduti per l’indipendenza, ed a visitare quello stadio di Croke Park dove l’esercito britannico uccise 14 La presidente della Repubblica irlandese Mary McAleese, che ha accolto ieri la regina. In alto la “White House” irlandese. In alto la regina Elisabetta II

persone sparando loro a bruciapelo. Ma se tutti questi simboli di pacificazione e riconciliazione erano altamente significativi, altrettanto significativi sono stati invece altri elementi che alla pacificazione e alla riconciliazione non richiamavano invece affatto.

Ad esempio gli effettivi dell’esercito e della polizia che hanno occupato militarmente la città e sigillato gli accessi al centro, impedendo ogni possibile bagno di folla dei sovrani. Un gruppo dissidente dell’Ira aveva infatti annunciato l’intenzione di fare un attentato, e nelle ore immediatamente antecedenti all’arrivo di Elisabetta e Filippo gli allarmi si erano susseguiti, a Dublino e nell’isola. La mattina presto, in particolare, gli artificieri avevano dovuto disattivare un ordigno esplosivo pronto a esplodere che era stato nascosto in una valigia, a bordo di autobus di linea nella località irlandese di Maynooth. E altri pacchi sospettosi erano stati esaminati dagli artificieri nei parchi di Fairview e Phoenix. E sì che, stando ai sondaggi, quattro irlandesi su cinque sarebbero favorevoli a questa vi-

sita. Ma il rimanente quinto esprime antiche rabbie e frustrazioni: forse rinfocolate e ridestate dalla recente crisi economica che ha azzoppato il boom di quella che era stata definita “la Tigre Celtica”.

Non solo a fine aprile da Derry un incappucciato ha fatto sapere che Elisabetta II era ricercata “per crimini di guerra”. Ma la stessa visita è stata definita “offensiva” e “prematura” anche da Jerry Adams: leader del partito ultra-nazionalista Sinn Fein (= Noi Soli) che è stato sì il braccio politico dell’Ira, ma che da ultimo aveva accettato gli accordi di pace, partecipando anche al governo nord-irlandese. Anzi: la cosa curiosa è che si tratta tecnicamente di un baronetto. Da ricordare che per la legge irlandese la cittadinanza è conferita anche ai nord-irlandesi, ma per la legge britannica anche gli ir-


mondo

i che d crona

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

ruolo consultivo nell’Ulster in cambio di un riconoscimento dello status qui fino a quando non ci sarebbe stata una maggioranza nord-irlandese favorevole all’annessione alla Repubblica; istituendo inoltre quella Conferenza IntergoverAnglo-Irlandese namentale che l’ulteriore Accordo di Belfast ha trasformato 13 anni fa in Conferenza Intergovernamentale Britanico-Irlandese, affiancata da un Consiglio Britannico-Irlandese con i rappresentanti non solo dei governi di Regno Unito, Irlanda e Irlanda del Nord, ma anche di quelli di Scozia e Galles, istituiti con la devolution di Tony Blair; e di Guernsey, Jersey e Isola di Man, tradizionali dipendenze dirette della Corona di Londra.

Una stretta cooperazione, malgrado per esempio l’Irlanda non abbia mai aderito alla Nato, che spiega il perché ad esempio Regno Unito e Irlanda assieme abbiamo aderito al Patto di Schengen con la riserva però di poter mantenere i controlli doganali. Mentre i cittadini irlandesi, come già ricordato, hanno non solo pieno diritto di residenza nel Regno Unito, ma sono esattamente equiparati ai cittadini britannici nei diritti elettorali, attivi e passivi. Il fatto è che da quando nel 1171 Enrico II fu il primo re d’Inghilterra ad arrivare sul suolo irlandese, in tutto i sovrani prima inglesi e poi britannici a fare lo stesso tragitto sono stati 10, per 12 visite. Insomma, alla media di un re inglese ogni secolo o giù di lì gli irlandesi ci erano già abituati anche da prima dell’indipendenza. Oltretutto, i primi tre vennero nell’isola

zione della Chiesa Cattolica: preoccupata per l’evoluzione troppo autonoma che il cattolicesimo irlandese aveva avuto negli anni in cui dopo la predicazione di San Patrizio era fiorito senza contatti con un Continente dove imperversavano le invasioni barbariche!

Una situazione che si rovesciò del tutto come una frittata al momento dello scisma di Enrico VIII, che rese eretica la monarchia ortodossa e trasformò in campioni spesso fanatici dell’ortodossia cattolica quegli irlandesi in passato così eretici. Poi venne Giorgio IV nel 1821: che aveva una moglie segreta cattolica, e sotto il cui regno avvenne nel 1829 quell’”emancipazione dei cattolici” che dava ai cattolici irlandesi i diritti politici. Ma da allora a Londra divenne popolare quel detto secondo cui “ogni volta che gli inglesi davano agli irlandesi una risposta, gli irlandesi cambiavano la domanda”. Ottenuta la parità di diritti, gli irlandesi iniziarono infatti a chiedere l’autonomia. La protesta crebbe in particolare con la grande carestia della patata del 1845-49, e infatti la regina Vittoria venne una prima volta nel 1849, e offrì 2000 sterline per le vittime. Poi un primo progetto di legge sulla Home Rule irlandese fu bocciato dalla Camera dei Comuni nel 1886; un secondo fu approvato dai Comuni ma bocciato dai Lord nel 1893. E infatti ci fu un secondo viaggio della Regina Vittoria nel 1900. Entrambe queste occasioni ebbero un grande successo di immagine, ma un minimo risultato politico. Fu appunto suo figlio Edoardo VII che tentò di pren-

Ad accoglierla, insieme a un bambino con un mazzo di fiori, Eamon Gilmore. Che oggi è il ministro laburista degli esteri del governo di Dublino, ma da giovane era un militante dell’Ira landesi del sud sono equiparati ai britannici quanto a godimento dei diritti civili e politici. Dopo aver partecipato al Parlamento nord-irlandese, dunque, Adams si è fatto eleggere anche alla Camera dei Comuni. Però, non ci è mai andato, proprio per contestare la sua non accettazione di principio della sovranità britannica.

Sul prendere regolarmente lo stipendio da deputato, è vero, non ha fatto obiezioni. Dopo di che, quando ha deciso di candidarsi anche per il Parlamento irlandese, ha dato le dimissioni. Il problema: una legge del 1642 stabilisce che ci si può dimettere dai Comuni solo per accettare dalla Corona un incarico remunerato. Cameron ha dunque risposto alla lettera Adams nominandolo di Steward and bailiff of the Manor of Northstead: in pratica, appunto, baronetto. Adams ha

risposto di non aver accettato formalmente l’incarico, ma che non vuole impedire agli inglesi di seguire le loro tradizioni: per quanto bizzarre siano.

Insomma, è una polemica un po’ sospesa tra tragedia e farsa. Ma non è stato solo per paura di questa se i predecessori di Elisabetta hanno disertato l’Irlanda per un secolo. Di ottantanove anni di indipendenza irlandese, ricordiamolo, per i primi ventisette il monarca del Regno Unito ha comunque continuato a essere anche monarca del Dominion di Irlanda. E anche dopo che l’Irlanda nel 1949 ha lasciato il Commonwealth per trasformarsi in repubblica, sono comunque trentotto anni da che Regno Unito e Irlanda sono di nuovo assieme nella Comunità Europea, poi Unione Europea. E ventisei da quell’Accordo Anglo-Irlandese che diede al governo di Dublino un

non in visita di cortesia, ma per combattere contro i locali indipendentisti: dopo Enrico II, anche Giovanni Senza Terra nel 1210 e Riccardo II nel 1394. Nel 1690, addirittura, ci furono due pretendenti al Trono di Londra che si combatterono sul suolo irlandese in una serie di micidiali battaglie seguita allo sbarco del protestante Guglielmo d’Orange in Inghilterra su richiesta del Parlamento contro il cattolico Giacomo II Stuart: Boyne fu la battaglia più famosa, Aughrim quella decisiva.

I cattolici irlandesi appoggiarono il perdente, e si trovarono così oppressi da una minoranza di coloni protestanti provenienti soprattutto dalla Scozia, che in particolare in Ulster divennero maggioranza. Il bello è che in origine Enrico II per invadere l’Irlanda si era procurato la giustificazione ideologica di un’autorizza-

dere il toro per le corna: le sue tre visite in soli nove anni di regno rappresentano la più grossa esposizione della Corona di Londra in Irlanda, e furono in effetti seguite dalla Terza Home Rule approvata nel 1911.

Sul trono dall’anno prima, Giorgio V fece infatti quella sua ultima visita un secolo fa, e fu accolto con calore. D’altronde nel 1912 gli irlandesi avrebbero accolto con calore anche il futuro Giorgio VI: all’epoca, solo secondo nella linea di successione al trono. Ma l’applicazione di quel regime di autonomia sarebbe stata poi sospesa per lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, e quando nel 1920 la Quarta Home Rule fu infine approvata gli irlandesi dopo la rivolta del 1916 avevano definitivamente cambiato la propria domanda nel senso dell’indipendenza. E ora il cerchio si chiude.

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Domani l’atteso discorso al popolo musulmano, venerdì il vertice con Netanyahu. Il presidente-Nobel ci riprova

L’ultimo alleato Obama incontra Abdallah di Giordania. Per capire se una road map è possibile di Antonio Picasso l ruolo della Giordania è cardinale nella ripresa del processo di pace tra israeliani e palestinesi». A leggere il Jordan times di ieri, si ha la percezione che la visita del re di Giordania, Abdallah II, a Washington possa cambiare le sorti del Medioriente. Il sovrano ashemita si è confrontato con il presidente Usa, Barack Obama, dopo che, nei giorni precedenti, aveva visto Joe Biden e Hillary Clinton. Gli incontri, in particolare quello alla Casa Bianca, hanno avuto come core issue la necessità di riaprire un dialogo fra il governo Netanyahu e l’Autorità palestinese. Soprattutto alla luce della fresca riconciliazione tra Fatah e Hamas. Re Abdallah ha valutato positivamente proprio questo accordo. Sulla stessa posizione, si è trovata l’Amministrazione Usa. Tuttavia, il summit di Washington non si è concentrato unicamente su questo tema. Bensì può essere interpretato come il tentativo degli Stati Uniti di ridefinire la propria agenda mediorientale, nella sua generalità. Amman appare a Obama ogni giorno più strategica. Con il vuoto di potere che si è creato in Egitto, re Abdallah resta l’unico alleato su cui gli Usa

«I

Gli Usa cercano di ridefinire una nuova agenda mediorientale. E Amman appare sempre più strategica. Con il vuoto di potere che si è creato in Egitto, il re giordano è l’unico amico su cui contare possono davvero contare in Medioriente. Neanche l’Arabia Saudita è così affidabile. Questo perché la Giordania manca di indipendenza economica e di risorse energetiche. Riyadh è in grado di dettare legge sul mercato mondiale del petrolio. Amman, dal canto suo, è costretta a domandare e ricevere l’aiuto esterno per il proprio sviluppo industriale. Opportu-

nisticamente Israele e Stati Uniti sono i primi a offrirsi in questa operazione. Ovviamente, in cambio pretendono l’indiscusso appoggio politico. Ed è in questa chiave che va visto anche l’incontro fra il sovrano e una rappresentanza delle organizzazioni ebraiche americane. La visita di re Abdallah ha richiamato l’attenzione di 150 imprenditori Usa da un lato e

giordani dall’altro. La comunità ebraica, data la vicinanza di Israele con il regno ashemita, si è seduta in prima fila per sfruttare le occasioni di investimento. Il tutto a prescindere dalle rinnovate richieste del governo di Amman di avviare le trattative per la creazione di uno Stato palestinese indipendente con i confini pre-1967.

A questo proposito, e in attesa della visita di Benjamin Netanyahu nella capitale Usa, la situazione non promette bene per gli israeliani. Lunedì il premier, in un discorso alla Knes-

set, ha alluso a possibili rinunce territoriali in Cisgiordania, in favore di un futuro Stato palestinese smilitarizzato e sottoposto a strette misure di sicurezza. Ha evitato, d’altra parte, ogni riferimento al ritorno alle divisioni territoriali antecedenti la Guerra dei sei giorni. Infine è tornato a escludere una spartizione di Gerusalemme, che danneggerebbe il cammino di riconoscimento internazionale della Città santa come capitale del costituendo Stato ebraico. In termini ancora più generali, Netanyahu ha di fatto rigettato l’accordo Fatah-Ha-

Il premier turco lavora alacremente a un progetto: l’Unione mediorientale, con tanto di moneta unica. E non prevede Israele

Il disegno nascosto di Erdogan amuel Phillips Hungtington, il professore di Harvard la cui teoria del conflitto tra civiltà l’Occidente ha sempre cercato di esorcizzare negandola a parole ma in segreto credendoci, in effetti era uomo che sapeva vedere lontano. Già nel 1993 riteneva infatti che «…prima o poi la Turchia sarà pronta a rinunciare al suo frustrante e umiliante ruolo di mendicante per l’ingresso in Europa e ritroverà il suo più pregnante ruolo storico come principale interlocutore dell’Islam e antagonista dell’Occidente!». Da allora sono trascorsi diciotto anni, e la realtà quotidiana ci sta dimostrato che probabilmente quel momento è vicino. La Turchia di Erdogan, infatti, se da un lato

S

di Mario Arpino riafferma la volontà di entrare a pieno titolo nell’Unione, dall’altro sta dimostrando chiari segni di stanchezza e di irritazione per questi “esami che non finiscono mai”e, memore del suo passato ottomano, sta rivolgendo la sua attenzione altrove. Non che manifesti un ritorno di velleità imperiali sulla fascia nordafricana e il Medioriente, ma è certamente in questa direzione che sta cercando di ritagliare un proprio ruolo. E ci sta riuscendo alla grande.

Da almeno tre anni la Turchia sta tentando di riposizionarsi sul quadrante mediorientale, dove l’islamico

“moderato”Erdogan ha fatto propria la dottrina del suo ministro degli esteri Davatoglu, ritenuto l’ideologo ispiratore. «Nessun problema con i paesi confinanti», questo sembrerebbe essere il nuovo imperativo in politica estera. Bastano uno sguardo alla carta geografica e l’osservazione – anche senza approfondire troppo – degli ultimi comportamenti a darci subito delle conferme evidenti. Oltre che con l’Europa, la Turchia confina con Georgia, Armenia, Iran, Iraq e Siria. Ed è infatti nell’Asia Minore che Ankara intende riguadagnarsi quel ruolo di potenza regionale perduto cento anni or sono.

Ma assai simili sono anche i piani dell’Iran, per lo meno dell’Iran di Ahmadinejad, che su questi temi e non solo sta ingaggiando un poco dissimulato braccio di ferro con gli Ayatollah.

Non a caso Erdogan , pur mantenendo aperta la via per l’adesione all’Unione, vagheggia anche l’istituzione di un’unione economica e forse monetaria in un’area che va dal Caspio fino alla penisola arabica, e oltre. Si tratterebbe di una vera e propria Unione Mediorientale che, partendo da economia e moneta per arrivare alla distanza ad una politica estera comune, sulle tracce dell’Unione Europea punterebbe a una sorta di


mondo

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78enne quale è Mitchell. Dopodomani, il suo posto sarà ricoperto dall’attuale numero 2 della missione, David Hale. Tuttavia agli occhi delle cancellerie arabe e di quella israeliana, l’ormai ex inviato rappresentava una garanzia di capacità negoziale ed esperienza diplomatica, rispetto a un’Amministrazione eccessivamente sicura di poter risolvere le criticità locali. Nel dibattito che si è creato intorno alla questione, emerge che Mitchell avrebbe scelto di ritirarsi in seguito alla poca fermezza dimostrata dal suo comandante in capo. Motivo di attrito proprio

stato di Mitchell fino a pochi giorni fa. Questo avrebbe provocato l’incompatibilità fra i due. La Casa bianca e il Dipartimento di Stato pagano lo scotto di incaricare troppi inviati speciali per il medesimo quadrante. A questo punto, se Obama non può contare sulla propria diplomazia – a suo giudizio perché scoordinata nel suo interno e non al passo con i suoi progetti – tanto vale rivolgersi all’estero. Ecco che la Giordania assume davvero quel ruolo cardinale decantato dalla stampa nazionale. Inoltre, a Washington devono aver studiato attentamente la carta geografica dell’area.

Il Paese, in questo momento, costituisce il punto di transito dall’Egitto verso la Siria ed eventualmente in direzione dell’Arabia saudita, per tutte le correnti estremistiche che stanno sfruttando la grande rivolta dei gelsomini, con l’intenzione di creare nuovi epicentri di crisi in Medioriente. Non è un caso che la frontiera con la Siria sia chiusa da quasi due mesi. E men che meno appare una coincidenza il persistente stato di allerta, per le autorità del Cairo, a seguito del continuo ingresso di elementi salafiti. In qualità di unico Paese sostanzialmente tranquillo, nel cuore mas. Sorprendentemente, proprio a questa linea si starebbero avvicinando le posizioni di Obama. Almeno in parte. Secondo le anticipazioni dei media israeliani, il discorso che pronuncerà il presidente, poche ore prima del vertice con Netanyahu, sarà focalizzato sulla richiesta a Israele di tornare ai confini pre-1967. D’altro canto, si presume che la Casa Bianca assuma una posizione contraria al riconoscimento, in sede Onu, dello Stato palestinese. È un cerchiobottismo, quello statunitense, inatteso, ma prevedibile. Nasce dalla

speranza (e dall’urgenza) di riavviare i colloqui, dopo le tante sconfitte diplomatiche registrate nel 2010, seppure in controtendenza con la situazione dell’intero quadrante. Il tutto è giustificato dall’avvicinarsi della campagna elettorale per le presidenziali del 2012. Non può essere una coincidenza che, ieri – appena dopo aver congedato re Abdallah – Obama abbia ricevuto una delegazione del Jewish American Heritage Month, lobby ebraica politicamente trasversale e tradizionalmente attiva sulle rive del Potomac. La Casa Bianca aspi-

ra a recuperare terreno in sede elettorale, come pure sul fronte diplomatico.

Come detto, la congiuntura internazionale non è delle migliori per un’operazione del genere. In un Medioriente dove il caos fa da padrone, gli esperti suggeriscono cautela. Washington, al contrario, sembra che preferisca agire di impulso. Le dimissioni del suo inviato speciale, George Mitchell, sono state accolte finora con diffusa freddezza. Fonti ufficiali parlano di un allontanamento volontario e per motivi di età, da parte di un

Sì a uno stato palestinese entro i confini dei territori occupati da Israele nel 1967, no alla richiesta unilaterale di riconoscimento dinanzi all’Onu. Questa la possibile linea della Casa Bianca la impasse nel processo di pace. Inoltre, si parla di un conflitto permanente fra Mitchell e Dennis Ross, Consigliere speciale presso il Dipartimento di Stato per al Golfo persico e Sud-Est asiatico. Il problema di Ross è quello di essere anch’egli un esperto del “nodo Gerusalemme”. Durante l’Amministrazione Clinton era lui a ricoprire un incarico simile a quello che è

integrazione tra Turchia, Siria, Libano e Giordania, con relazioni assai strette anche con la ricca regione curdo-irachena. Seguirebbero con il tempo paesi africani, e forse anche Libia e Sudan, in un arco che si estenderebbe dal Bosforo al Mar Rosso.

Se ciò fosse davvero nei piani – cosa di cui alcuni analisti si dicono certi – allora alcuni comportamenti avrebbero immediatamente una loro chiave di lettura. In primo luogo, il recente rafforzamento delle relazioni con i Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo, dove, con il vertiginoso incremento dell’interscambio, è facile intravvedere motivazioni economiche più che politiche. A seguito del Free Trade Agreement, c’è stato anche un Memorandum of Understanding nel cui quadro ci sono una partnership strategica con il Consiglio e un importante accordo con l’Arabia Saudita.Tra gli interessi strategici condivisi, infatti, troviamo la stabilità dell’Iraq, la non

della Mezza luna fertile, la Giordania fa involotariamente da cinghia di trasmissione e centro di smistamento delle istanze rivoluzionarie – buone o cattive che esse siano. Gli Usa, per questo, hanno bisogno della garanzia di re Abdallah che almeno la situazione interna al suo regno sia sotto controllo e che i progetti di destabilizzazione siano bloccati sul nascere.

proliferazione WMD, con in mente l’Iran, e la questione israelo-palestinese. Ciò spiegherebbe anche il recente voltafaccia nei rapporti con Israele – di cui la questione dell’attacco alla nave diretta a Gaza sarebbe solo un casus belli - e il comportamento schizofrenico che distingue la posizione turca tra le rivolte di piazza nordafricane, tutte guardate con favore, e quella delle piazze siriane, dove la Turchia continua a sostenere il dittatore al-Assad. Si notano anche dei tentativi di pace armata con Teheran, che avrebbero il duplice scopo di bloccare l’influenza di questo Paese nella regione e di proporsi come intermediario con la comunità internazionale.

Il progetto tende ad arrivare a una politica estera comune sulle tracce dell’Unione Europea. In un arco che si estenderebbe dal Bosforo al Mar Rosso. I membri? Oltre alla mezzaluna rossa, Siria, Libano, Giordania e Iraq. E forse anche Libia e Sudan

Se tale visione delle cose fosse almeno in parte plausibile – ma su questo i dubbi non sarebbero eccessivi – allora andrebbe rivalutata in chiave prospettica, ma in termini di vantaggi, anche la questione dell’accoglimento in seno all’Unione Europea.


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grandangolo Il governo deve puntare su infrastrutture, occupazione e riforme

India, un gigante sospeso fra miracolo e tracollo

C’è chi ancora la considera la potenza emergente di questi Anni Dieci del Terzo millennio. Non considerando che è ormai diventata un interlocutore fondamentale nelle dinamiche internazionali ben da prima. Ricca di ambizioni su scala globale, per imporsi deve però completare molte riforme: in economia e nel lavoro di Stefano Chiarlone economia indiana, oggi, mostra una serie di particolarità strutturali che meritano attenzione nonostante i successi macroeconomici. In primo luogo, essa si basa soprattutto sui servizi (oltre il 50 per cento del Pil). Il settore industriale è piccolo (circa il 30% del valore aggiunto) e meno competitivo. Il resto del Pil viene generato da un’agricoltura arretrata e di sussistenza, le cui performance sono estremamente suscettibili all’andamento delle piogge. Sebbene la crescita dei servizi sia comune ai processi di modernizzazione di molti paesi, in India vi sono caratteristiche inconsuete. In primo luogo, il declino dell’agricoltura si è tradotto prevalentemente in un aumento del peso dei servizi e non dell’industria. In secondo luogo, questa evoluzione non ha avuto corrispondenza nell’occupazione: nel 2006 l’agricoltura continuava a impiegare (o sotto-impiegare) oltre il 50 per cento della forza lavoro indiana, i servizi circa un quarto e l’industria un quinto. L’integrazione economica internazionale indiana mostra poi un ritardo rispetto alla Cina, sia nell’import-export, sia negli Ide. In parte perché il percorso di riforme e liberalizzazio-

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ne è iniziato più tardi; ma anche per le lentezze burocratiche e la scarsa dotazione infrastrutturale che hanno reso poco attrattiva l’India per le imprese straniere e rallentato la crescita di quelle domestiche. Le esportazioni indiane, per esempio, sono costituite da prodotti manufatti in misura pari solo al 33 per cento, mentre oltre la metà è costituita da servizi.

il 10 per cento del totale. Dati che fanno sembrare che lo sviluppo tecnologico dell’India sia inferiore a quello della Cina. L’implicito però è dato dal fatto che la minore partecipazione dell’India alla disintegrazione internazionale della produzione suggerisce che le esportazioni indiane di prodotti tecnologici si collegano prevalentemente all’attività di imprese domestiche e meno a quella delle multinazionali straniere, a differenza di quanto avviene in Cina.

L’agricoltura continua Infatti, i beni intermedi a sotto impiegare il 50 per cento della mano d’opera indiana Per ciò che riguarda la specializzazione manifatturiera, tuttora, come negli anni ’80 e ’90, i tre quarti delle esportazioni indiane sono costituiti dai settori tessile, alimentare, chimico e della gioielleria, mentre la produzione di apparecchiature elettriche e non elettriche rappresenta circa

rappresentano la quota principale delle importazioni cinesi, cioè oltre il 50 per cento, un peso molto superiore ai circa 2/5 dell’India. I beni capitali, invece, rappresentano un quinto delle importazioni cinesi, sempre superiore rispetto al poco più del 10% dell’India. Infine, la debolezza indiana nei settori ad alta tecnologia è controbilanciata dalla sua forza nel terziario avanzato: le esportazioni indiane di servizi, infatti, sono superiori all’1,5% del totale mondiale e consistono soprattutto di servizi business (software, finanza, telecomunicazioni, comunicazioni, e consulenza legale, medica e diagnostica), in questo caso anche grazie

alle attività di outsourcing di imprese straniere. Alla luce di queste considerazioni, il ruolo dell’India nella divisione internazionale del lavoro appare diverso da quello delle altre economie emergenti dell’Asia: invece di seguire un modello basato sull’esportazione di produzioni manifatturiere intensive in forza lavoro poco qualificata e assemblate per conto di multinazionali straniere, in India si è sviluppato particolarmente il settore terziario, prevalentemente avanzato. Questa situazione, oltre che alla bontà del modello di sviluppo del settore tecnologico terziario indiano, potrebbe essere collegata – in ottica negativa – ai ritardi infrastrutturali del paese, al peso residuo della burocrazia e alla mancanza di interventi incisivi sul mercato del lavoro e al residuo favore verso le piccole imprese che, da un lato, rendono tuttora difficile per l’India divenire paese destinatario di attività di delocalizzazione produttiva, e dall’altro danneggiano le grandi imprese indiane. Questa debolezza fa sorgere dei dubbi circa la sostenibilità della crescita indiana, in quanto essa sembra essere stata incapace di garantire una propagazione diffusa dei benefici della crescita

Le analisi di Risk Da oggi in edicola l’ultimo numero di Risk: “La scalata dell’India” interamente dedicato al gigante asiatico e alle sue prospettive e ambizioni sullo scacchiere internazionale. A partire da quello della Difesa e dell’Industria. In queste pagine pubblichiamo due estratti dedicati all’economia, per capire quali sono i suoi punti di forza e di debolezza. Perché tutti ne parlano ma nessuno la conosce davvero.


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Parla Giancarlo Elia Valori, presidente de La Centrale Finanziaria Generale Spa

Qual è il vero peso di Nuova Delhi?

Nel 2050 sarà la più grande economia mondiale. Sempre che Pechino non le metta i bastoni fra le ruote... di Vincenzo Faccioli Pintozzi economia indiana «potrebbe superare quella cinese entro il 2015, ma la sfida con Pechino si gioca anche nel campo della competitività e dello sviluppo settoriale. Non bisogna dimenticare i problemi etnici, come quello del Kashmir, e la struttura democratica dell’Unione. Insomma, una sfida a tutto campo per la quale l’Italia non si sta preparando come dovrebbe». Giancarlo Elia Valori, presidente de La Centrale Finanziaria Generale Spa, è uno dei più attenti osservatori dello scacchiere mondiale. Il suo nome campeggia all’Università di Pechino e a quella di Gerusalemme, e i suoi contatti con l’establishment mondiale sono di primo livello. In questa conversazione con Risk analizza luci e ombre del colosso indiano e la sfida che pone non soltanto al continente asiatico, ma al mondo. Presidente, qual è l’attuale peso dell’India nello scacchiere internazionale? Sul piano strettamente strategico, Nuova Delhi si trova a sostenere il peso di una nuova alleanza nucleare Cina-Pakistan in reazione al legame UsaIndia. Cina e India, peraltro, non sono competitori globali con le stesse chances. La Cina sta per sorpassare il Giappone come seconda economia globale, e entro il 2035 la Banca Mondiale prevede che Pechino diverrà, da “fabbrica globale”, mercato mondiale. E il progetto di passare da industria globale a basso tasso di valore aggiunto alla leading factory sul piano tecnologico, almeno, secondo Pechino, entro il 2020. Sul piano economico, è stato predetto che Nuova Delhi potrà sopravanzare Pechino, nel tasso annuo di crescita, a partire dal 20132015, ma l’India è al 51° posto nel Global Competitiveness Report, mentre la Cina si pone al 27°. La Cina si sta sviluppando nel settore manifatturiero, ma Pechino si trova di fronte ad un progressivo invecchiamento della manodopera, e il divide cinese sul piano demografico dovrebbe invertirsi nel 2015. Le variabili indiane sono quelle di attendere il passaggio strutturale della Cina da paese con sovrabbondanza di forza-lavoro a basso costo ad un’area con costi standard di produzione simili a quelli delle zone meno sviluppate della penisola europea del continente nord- e sudamericano, per giocare le proprie carte di sviluppo sulle imbalances strutturali degli altri competitori. Come potrà sanare – o vincere – la sfida con la Cina? Sul piano delle Purchasing Power Parities (l’equilibrio a lungo termine misurato su un paniere di beni) l’India è la quarta economia del

L’

ai vari strati della popolazione. Il persistente elevato peso della popolazione in povertà mostra che il Paese ha bisogno di garantire opportunità occupazionali diffuse nelle diverse aree geografiche del paese e per persone con diversi livelli educativi. La modernizzazione della infrastrutture fisiche e immateriali (incluso il completamento delle riforme) sembra cruciale per mantenere un tasso di crescita elevato e allargare la diffusione del benessere alle fasce più povere. E invece il percorso di riforme dell’economia indiana ha lasciato irrisolti una serie di nodi strutturali. Fra gli aspetti

Lentezze burocratiche e scarsa dotazione infrastrutturale l’hanno resa poco attrattiva che richiedono particolare attenzione per scioglierli, un ruolo primario lo rivestono gli investimenti in infrastrutture e le politiche di contorno che li rendano sostenibili. Le autorità indiane hanno sottolineato che infrastrutture e investimenti in capitale umano sono cruciali per raggiungere il loro obiettivo di crescita del 9-10 per cento annuo del Pil nel medio termine. Secondo il Fmi (si veda il rapporto ex Articolo 4 del 2011), il dodicesimo Piano Quinquennale dovrebbe prevedere investimenti infrastrutturali superiori a mille miliardi di dollari, una cifra che porterebbe il loro peso al 9 per cento del Pil. Raggiungere questo obiettivo richiede la mobilitazione di tutte le risorse

disponibili; pubbliche, private e straniere. Perché quello indiano è uno dei programmi di partenariato pubblico-privato più ambiziosi del mondo.

Il completamento del risanamento del bilancio pubblico è necessario per liberare le risorse necessarie a finanziare gli investimenti in aree in cui la partecipazione privata non sarà disponibile, come le infrastrutture urbane e la distribuzione di energia. Il governo ha disposto una tabella di marcia ambiziosa per ridurre il debito pubblico e deficit e la forte crescita dovrebbe agevolare il raggiungimento degli obiettivi. Nonostante l’atteso aumento del risparmio nazionale, collegato a favorevoli trend demografici ed economici, si prevede un maggior ricorso al risparmio estero che richiede una particolare attenzione al disavanzo delle partite correnti. La combinazione di una forte domanda interna e di una crescita globale debole sta allargando il disavanzo delle partite correnti indiane e accrescendo i flussi di capitale in entrata. Sinora il disavanzo delle partite correnti è stato finanziato principalmente da Ide. Esso dovrebbe ridursi nel medio periodo grazie alla crescita delle esportazioni collegata ai potenziali guadagni di produttività anche favoriti dall’investimento in infrastrutture. Tuttavia, il potenziale rischio di una inversione di flussi di capitali richiede vigilanza. In conclusione, il completamento delle riforme economiche, la competitività futura dell’economia indiana, la sua crescita economica e il suo grado di inclusività sociale richiedono un investimento significativo in infrastrutture, che deve essere posto al centro delle priorità di politica economica finalizzate alla stabilizzazione dell’economia.

globo, secondo il Fondo Monetario Internazionale, mentre uno studio Citigroup del 2010 sostiene che Nuova Delhi comanderà, nel 2050, la più grande economia mondiale. Sempre in quell’anno, le agenzie internazionali prevedono che l’India avrà una popolazione di 1,66 miliardi di esseri umani in rapporto a quella cinese, all’epoca, di 1,3 miliardi di uomini. La classe media, quella che compra, dovrebbe essere, in India, secondo McKinsey, dai 50 milioni a ben 583 milioni di uomini e donne nel 2050, con un investimento verso i consumi indiano che potrà essere sostenuto ancora da un rapporto favorevole tra occupati giovani-anziani che in Cina inizia ad essere debole. Chi di demografia ferisce… Quali sono i campi in cui Delhi dovrebbe migliorarsi, per affermarsi ancora di più? I fondamentali economici indiani sono sotto controllo. La spesa pubblica dovrebbe crescere almeno del 4% annuo tra oggi e il 2015, con una banca centrale indiana che controlla in mondo restrittivo la spesa pubblica. Sia la spesa pubblica che la crescita del Pil dovrebbero salire, secondo l’Economist Intelligence Unit, di circa l’8,6% annuo, in parallelo. I prezzi al consumatore finale dovrebbero calare, sempre secondo l’Eiu, del 5,2% rispetto ai livelli del 2010, per il periodo del 2015-2020. Tutti dati che già espongono cosa dovrebbe fare Nuova Delhi per migliorarsi. Sul piano geopolitico, l’India farà da punto di riferimento per tutto il sistema dal Golfo Persico fino all’Indocina, e avrà la scelta tra giocare questo rilievo strategico per gestire di fatto la Shangai Cooperation Organization con la Cina, od operare in proprio con un canale geopolitico tra il Vecchio Medio Oriente, l’Africa centro-meridionale (dove Nuova Delhi è storicamente presente) e la vecchia Europa. L’India, più che la Cina, non può non giocare su due tavoli: l’egemonia nell’Asia Centrale “dal mare”, connettendo quel quadrante con il Golfo Persico, e i diritti di passo sulla linea marittima e terrestre, a Nord, tra Europa e Asia Centrale. Una Via della Seta a direzioni spesso invertite. Quali sono, per l’Europa, i ricaschi economici dell’avanzata indiana? Sul piano del commercio globale, l’India è un ente di ancora scarso rilievo. Gli Investitori Esteri Diretti nell’area di Nuova Delhi sono ancora concentrati in pochi attori (15, per l’esattezza) e quindi gli effetti di contrasto dall’India verso l’Ue non sono, in ogni caso, rilevanti.


ULTIMAPAGINA Nokia personalizza i navigatori con la voce del celebre cantante, una scelta che ha già coinvolto persino Berlusconi

Nella terra dei cachi insieme di Francesco Lo Dico a buona notizia è che nella disperante intifada che viviamo ogni giorno a zonzo nella terra dei cachi, quando ogni speranza di giungere a destinazione in tempi certi tramonterà in un orizzonte di smog, saremo seppelliti da una risata. In un Paese sempre più a corto di santi e inventori, non resta che puntare tutto sui navigatori. Quelli della generazione precedente, dal tono contrito e monocorde anche di fronte a un tamponamento a catena lungo quanto la Salerno Reggio Calabria hanno un po’stufato tutti, bisogna dirselo. E così niente suona più terapeutico, per i conducenti inghiottiti dal raccordo anulare, che essere guidati allo sbaraglio dalla voce di Elio. Lungo le storie tese di bretelle chiuse, caselli cari, partenze non tanto intelligenti, non ci resta che impostare tra i preferiti proprio lui che per piacerci si epilerebbe tutto il santo giorno. Stefano Belisari, in arte Elio, presterà il suo inconfondibile eloquio a Ovi mappe di Nokia, grazie a un’applicazione che porta il suo nome: Elio ti guida.

L

«Collaborare con un artista come Elio è stata un’esperienza straordinaria – spiega Carlo Brianza, Head of Services – Sales & Marketing di Nokia Italia – si tratta di un servizio utile e facile da utilizzare e che, allo stesso tempo, è in grado di far sorridere chi lo utilizza». La moto non dà pene perché funziona bene, è vero. Ma visto che la strada è sempre quella ma l’agente ti è nemico, perché non

Il mercato Gps è in fermento: c’è la possibilità di affidare i propri viaggi a comici di Zelig e attori famosi montare in macchina e non lasciarsi carezzare i capelli, anche quelli che sono andati via e non torneranno mai, in compagnia del nostro John Holmes? Alla fiera del gps, d’altra parte, l’offerta è sempre più selvaggia e fantasiosa, e i principali competitor del settore si contendono le grazie dei clienti a colpi di ugola. TomTom, uno dei leader in campo, consente già da tempo di personalizzare l’esperienza di guida assistita sul sito SatNav Voices, dove è possibile scegliere tra un folto corredo di

vip. C’è la voce stentorea del gladiatore Crowe (vi consigliamo vivamente di obbedire agli ordini), ad esempio, o persino l’indisponente sequela di frasi smozzicate dello Special One Mourinho, che alla minima infrazione sarà pronto magari a inondarvi di lamentazioni sulla vostra condotta di gara. Perché non hai girato? Perché non hai scalato di marcia? Perché non rispetti le decisioni del mister? Se siete alla guida, non fatevi venire la strana idea di vestire t-shirt blaugrana. Per il popolo italiano, c’è poi un’ampia scelta di navigatori dialettali, che tra un ocio e un mona, riuscirebbero forse a convincere il trota, che la destinazione “Padania” non è presente sulle carte geografiche.

E ancora il servizio AVMap, che punta invece sull’imitazione di personaggi come Bongiorno, Biscardi e Costanzo. Tra le opzioni ci sarebbe anche il miglior navigatore degli ultimi centocinquant’anni, Berlusconi, ma se siete residenti a Milano meglio evitare. Potreste essere derubati da un ladro d’auto. O magari es-

A ELIO sere assaliti da una strofa di Meno male che Silvio c’è ad ogni ordine correttamente eseguito. E a proposito di comiche, esiste poi anche Tom Tom in versione Colorado, che permette di scegliere il compagno di viaggio preferito tra sedici comici dell’omonima trasmissione tv, dopo la redditizia esperienza che ha coinvolto di recente i personaggi più amati di Zelig.TomTom annuncia una nuova e originale collaborazione con il Ranzani di Cantù per le voci dei propri navigatori satellitari. E sempre sul versante parodistico c’è anche la possibilità di farsi guidare dall’irascibile Marco Ranzani, il mobiliere brianzolo creato da Dj Albertino che vi squasserà le orecchie con preziosi consigli quali preparare la mancia per il casellante o cambiare l’auto quando il portacenere è pieno.

Impossibile sapere che cosa ne pensa il Belisari. Interpellato l’altro giorno per commentare la sua nuova performance da navigatore, Elio ha risposto alla sua maniera: «Non distrarmi, sto guidando un sacco di gente».


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