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Non sono i fatti a turbare gli uomini, ma le opinioni intorno ai fatti Epitteto

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 1 GIUGNO 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Forte discorso nell’ultimo appuntamento con le «Considerazioni finali» prima di traslocare alla Bce

Ora fate come dice Draghi «L’Italia è insabbiata, bisogna tornare alla crescita: ecco la ricetta» Meno tasse ai lavoratori e alle imprese. Ridurre fortemente la spesa: ma non con i tagli lineari. Rilanciare produttività, infrastrutture, istruzione. Ma il Governatore aggiunge una parola: «Subito» Sei interventi sull’analisi del voto

Il berlusconismo licenziato (O ha ragione lui a dire che non è ancora tempo di funerali?) Nel Pdl è sempre più caos: rinviato il vertice. E a fine giugno, la verifica chiesta da Napolitano

MESSAGGIO AL GOVERNO

di Antonio Picasso

Ascoltate la sua predica «non inutile»

ROMA. Ci si poteva aspettare più aggressività da Mario Draghi? L’appuntamento annuale delle considerazioni finali della Banca d’Italia ha rispettato la tradizionale sobrietà. Il Governatore non si è esposto in considerazioni post-elettorali, non ha attaccato il governo, come non ha nemmeno osannato Tremonti. ma ha insistito: «Bisogna puntare sulla crescita». a pagina 2

Parla Giorgio La Malfa

di Gianfranco Polillo

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La corsa alla successione

«Idee giuste Per l’autonomia, per un governo il sostituto sbagliato» è Saccomanni

Ora un nuovo partito dei moderati

«La crescita avrebbe richiesto un lavoro paziente. Invece Silvio ci lascerà un disastro»

Diventa sempre più forte l’asse con Napolitano per una soluzione interna

La crisi del Pdl apre grandi spazi al Terzo Polo

Francesco Lo Dico • pagina 3

Alessandro D’Amato • pagina 5

ROCCO BUTTIGLIONE

ornare alla crescita: è stata questa la parola d’ordine delle ultime considerazioni di Mario Draghi, prima di trasferirsi alla Bce. La fine, ma anche l’inizio di un lungo ciclo, che per oltre cinque anni l’ha visto sedere nella scomoda poltrona di Palazzo Koch. Quella stessa esortazione aveva costituito l’incipit della sua prima relazione. E, nel mezzo, anni di delusione, visti i risultati raggiunti dalla nostra economia: da tempo fanalino di coda del mondo. Delusione, quindi, ma anche autoironia nel citare Luigi Einaudi e la sue “prediche inutili”: una tradizione che si rinnova nella prestigiosa storia della nostra Banca centrale. a pagina 4

SAVINO PEZZOTTA

Amici del Pd, attenti a non sbagliare

La Corte dei diritti umani non riconosce la natura politica del processo

Il rischio è ripetere la “gioiosa macchina da guerra”

Ultima beffa a Khodorkovsky

PAOLO DEL DEBBIO

Non si vive di solo carisma L’errore di Berlusconi rischia di distruggere il Pdl

Solo una mini-multa alla Russia dalla Corte Europea

GIUSEPPE BAIOCCHI

La Lega non capisce più il Nord Qui il partito di Bossi è diventato “vecchio”

UMBERTO RANIERI

Alleiamoci con il Terzo Polo Non rifare l’Unione: serve una coalizione riformista

BARBARA CONTINI

Una sola strada: governo di unità La politica ha toccato il fondo: ora ricominciamo

da pagina 6 a pagina 11

di Luisa Arezzo opo il danno, per Mikhail Khodorkovsky, è arrivata la beffa. E questa volta non per mano del suo acerrimo nemico, Vladimir Putin, o dell’ambiguo Medvedev (che continua a “giocare a scacchi” con lo zar di Mosca senza mai fare un passo più lungo della gamba), ma per mano del’Europa. Quella stessa Europa che dal 2003, anno del suo arresto, si è spesa in dichiarazioni e risoluzioni tese a ristabilire la verità.

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a pagina 12

Parla Francesca Gori, di Memorial Italia

«Vince il Cremlino, giustizia non è fatta» di Pierre Chiartano rancesca Gori, presidente di Memorial Italia non ha dubbi sulla sentenza europea: «È un’occasione mancata abbastanza grave perché quello a Khodorkovsky è un processo politico: lui è in prigione per il semplice fatto di non aver rispettato gli accordi con Putin». a pagina 13

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gue a (10,00 pagina 9CON I QUADERNI) • ANNO XVI • NUMERO 105 • WWW.LIBERAL.IT • CHIUSO IN REDAZIONE ALLE ORE 19.30 EUROse1,00


prima pagina

pagina 2 • 1 giugno 2011

il fatto Il governatore di Bankitalia lascia l’incarico e ammonisce l’Italia: «Siamo appesi a un filo, serve un vero cambiamento»

«Combattiamo il declino»

Non è un destino ineluttabile, ma servono subito interventi efficaci di Antonio Picasso

ROMA. Ci si poteva aspettare più aggressività dal Governatore Draghi? La domanda resterà senza risposta. L’appuntamento annuale delle considerazioni finali della Banca d’Italia ha rispettato la tradizionale sobrietà. Il numero uno di Palazzo Koch non si è esposto in considerazioni post-elettorali, non era suo compito, non ha attaccato il governo, come non ha nemmeno osannato Tremonti. È stato un intervento low profile, il suo. Quasi a dire: «La Banca d’Italia è un’istituzione super partes le cui considerazioni non vanno lette, bensì estrapolate dai suoi interventi fattuali dell’anno appena concluso».

Non a caso, nel documento di ieri, il termine “vigilanza” – mansione fondamentale della banca centrale – è citato almeno sette volte. Draghi non ha fatto fishing for compliments. Si è limitato a evidenziare le iniziative partite da via Nazionale. C’è anche da dire che il governatore ha ormai un piede fuori dall’ufficio di Roma e, come presidente della Banca centrale europea in pectore, ormai è proiettato a pensare in una misura continentale. Nessun biasimo, di conseguenza, per l’aplomb da lui mantenuto. Resta da chiedersi, tuttavia, quanto possa essere efficace rimanere fuori dalla mischia in uno scenario politico-economico nazionale tanto criti-

co. Perché è vero che il discorso era stato scritto prima degli scrutini delle amministrative, d’altra parte non è pensabile che nulla sia stato cambiato dopo i risultati di lunedì sera.

Ed è stata, forse, l’intenzione di non voler sparare sulla Croce rossa ad aver spinto Palazzo Koch su una strada di moderazione? Draghi ha messo in evidenza la crescita ridotta e la perdita di competitività del Paese. Tuttavia, si è concesso uno spiraglio di ottimismo quando ha ammesso che il declino in cui versiamo «non è ineluttabile». La nostra sarebbe una condizione di insabbiamento. Verrebbe da pensare che si tratti solo di sottigliezze lessicali. A difesa dell’esecutivo, Draghi ha detto che «il federalismo fiscale può aiutare, responsabilizzando tutti i livelli di governo, imponendo rigidi vincoli di bilancio e avvicinando i cittadini alla gestione degli affari pubblici». Il Governatore è assurto difensore (seppure pacato) di una riforma che l’intellighenzia economica nazionale, quasi nella sua totalità, sta bocciando. È una mossa politica per evitare il crollo delle istituzioni centrali, dopo le sconfitte elettorali? È una lancia spezzata a difesa di Tremonti? Un’ipotesi non esclude l’altra. Del resto, il federalismo alla Draghi resta possibile nel rispetto di

due condizioni che, a giudizio dello stesso Governatore, «sono cruciali». «I nuovi tributi locali siano compensati dai tagli di quelli decisi centralmente e non vi si sommino. Che si preveda, inoltre, un serrato controllo di legalità sugli enti a cui il decentramento affida ampie responsabilità di spesa».

E poi una stoccata a difesa proprio di Berlusconi. La riforma della giustizia merita di essere conclusa anche per un miglioramento dell’economia. «La durata dei processi ordinari in primo grado supera i mille giorni e colloca l’Italia al 157esimo posto su 183 Paesi nelle graduatorie stilate dalla Banca Mondiale». Del resto, non è necessario avere dei processi a carico, oppure governare la Banca d’Italia, per capire come questo sia una zavorra indecorosa per una democrazia che si rispetti. Il tutto nell’ottica della crescita e del pareggio del bilancio. Per entrambi gli obiettivi, Draghi offre il sostegno alla politica dei tagli fiscali e della spesa pubblica, oltre che alle riforme promesse dal premier. Tuttavia, c’è un quarto pilastro che rappresenta un passaggio necessario, a compensazione della riduzione delle entrate. È la lotta all’evasione fiscale e ai redditi non dichiarati (ormai oltre 50 miliardi di euro), di cui il governo non fa

La “manovra” del Governatore • Basta tagli indiscriminati. Risanare significa tagliare le spese inutili, ma non significa tagliare indistintamente: questo non farebbe altro che deprimere ulteriormente la crescita. Per ridurre la spesa in modo permanente e credibile non è consigliabile procedere a tagli uniformi in tutte le voci: essi impedirebbero di allocare le risorse dove sono più necessarie. Tanto che una manovra siffatta inciderebbe sulla già debole ripresa dell’economia, fino a sottrarle circa due punti di Pil in tre anni. • Il primato dell’istruzione. Occorre proseguire nella riforma del nostro sistema di istruzione. Secondo le valutazioni dell’Ocse il distacco del sistema educativo italiano dalle migliori pratiche mondiali potrebbe implicare a lungo andare un minor tasso di crescita del Pil fino a un punto percentuale. • Le riforme sono indispensabili. Se da un lato occorre rendere più efficienti le amministrazioni pubbliche, tagliando le spese inutili, ci sono una serie di settori dove occorre spendere invece di più e meglio. Occorre rilanciare la produttività, che ristagna da tempo perché il sistema non è ancora bene adattato alle nuove tecnologie, alla globalizzazione. • Ridurre le aliquote. È fondamentale una riduzione significativa delle aliquote sui redditi dei lavoratori e delle imprese, compensando il minor gettito con ulteriori recuperi di evasione fiscale. • Riportare il lavoro al primo posto. Le retribuzioni reali dei lavoratori dipendenti nel nostro Paese sono rimaste pressoché ferme nel decennio, contro un aumento del 9 per cento in Francia. Ma i più penalizzati in un mercato del lavoro che risente della stagnazione generale sono giovani e donne. I giovani sono vittime di un pronunciato dualismo, intrappolati in una vasta sacca di precariato, con scarse tutele e retribuzioni. Dobbiamo riequilibrare la flessibilità del mercato del lavoro. • Puntare al pareggio di bilancio. Obiettivo fondamentale della politica economica deve essere innanzitutto il pareggio di bilancio. Ma non basta. Oggi bisogna in primo luogo ricondurre il bilancio pubblico a elemento di stabilità e di propulsione della crescita economica, portandolo senza indugi al pareggio, procedendo a una ricomposizione della spesa a vantaggio della crescita.


l’intervista Il deputato del Terzo Polo commenta le considerazioni di Palazzo Koch

«La ricetta è giusta, ma il governo no»

Giorgio La Malfa: «La crescita avrebbe richiesto un lavoro paziente. Silvio invece ci lascerà un disastro» di Francesco Lo Dico

ROMA. «Le proposte avanzate da Draghi sono

mai menzione e che, al contrario, dovrebbe rappresentare il suo primo avversario. Sul fronte critico invece, Draghi non ha mancato di puntare su un’istruzione che dovrebbe innalzare i livelli di apprendimento. Essendo questi tra i più bassi del mondo occidentale, a parità di spesa per studente. Su un’industria e un sistema infrastrutturale che non battono lo stesso passo. La prima è nelle mani di un processo di «privatizzazioni senza controllo».

L’altra è vessata da «spesa pubblica eccessiva, programmi incerti e inadeguatezza delle norme». Il tutto corredato dall’esplicita inefficienza di gestione dei fondi europei per lo sviluppo regionale. Messa così, Draghi non è stato tenero nei confronti di Palazzo Chigi, come pure nei riguardi di via Venti settembre. Stessa linea verso il mondo industriale e dei sindacati. Perché il mercato del lavoro manca ancora di una giusta rappresentazione dell’universo femminile, ma soprattutto di «quegli investimenti nelle risorse umane», che darebbero soddisfazione alle aspirazioni dei giovani, oltreché alla innovazione produttiva. Silenzio, invece, su un nervo scoperto com’è la sicurezza nelle aziende, tema delicato per i dipendenti e spesso sottovalutato in tutti i comparti produttivi. Certo, non si tratta di una questione precipua della Banca d’Italia. Tuttavia, non lo è nemmeno la riforma della giustizia. Salvo che entrambi incidono, in via tangenziale, sull’andamento dell’economia nazionale. Ecco allora che il governatore avrebbe potuto completare il suo scenario planando anche su questo argomento. Ciò che sta a cuore a Draghi è il pareggio del bilancio. E con esso il debito pubblico. Priorità condivisa da Tremonti e dalla

maggior parte degli osservatori. «In Italia il disavanzo pubblico, prossimo quest’anno al 4% del Pil, è inferiore a quello medio dell’area dell’euro. Nelle previsioni ufficiali scenderà sotto il 3% nel 2012. Il debito è tuttavia vicino al 120% del prodotto». Anche qui: buona una parte, insufficiente l’altra. La Banca d’Italia non intende offendere nessuno.

Con un cambio al vertice ormai prossimo e quindi con un futuro in divenire, di cui non si prevedono i contorni, l’istituto vuole evitano strappi inutili. Tanto più che l’incertezza non è data dal successore a Palazzo Koch, forse Lorenzo Bini Smaghi, bensì dal contesto politico in cui il passaggio avverrà. C’è chi vuole le elezioni politiche. Altri le reclamano. Lo scorso anno, di quest’epoca lo scandalo Tulliani era in fase embrionale, e si facevano gli stessi pronostici. La Banca d’Italia è un’istituzione troppo ben inquadrata per non sapere che, quando si naviga a vista, la velocità va tenuta davvero ridotta. E per non essere, al contempo, sprezzante di fronte a congiunture politiche poco favorevoli. Draghi, indici e dati alla mano, sta pilotando tra secche e scogli. Per quale motivo esporre il fianco a critiche e polemiche gratuite? Un ultimo appunto sul futuro del governatore. «La sorveglianza europea sulle politiche di bilancio nazionali, indebolita a metà dello scorso decennio, si è dimostrata carente proprio nel momento in cui diventava essenziale». Con il biglietto per Francoforte già prenotato, è possibile che Draghi abbia inviato un messaggio chiaro alle economie nazionali. La Bce, nei prossimi anni, sarà ancora più vigile. Onde evitare problemi come quelli di Grecia, Irlanda e Portogallo. Che anche l’Italia se lo segni.

tutte molto giuste e condivisibili. Il problema è che un vero rilancio dell’economia avrebbe richiesto l’uso del bisturi, e invece questo governo ha usato l’accetta con tagli indiscriminati che ci hanno gettato in una depressione economica senza precedenti. Intervenire sugli sprechi e attuare misure strutturali avrebbe richiesto un lavoro paziente che avrebbe dovuto cominciare nel 2008 per dare qualche risultato già oggi. Ma la verità è che questo esecutivo si è fatto in quattro solo per trovare soluzioni alla vita privata del presidente del Consiglio, lasciando gli italiani al loro destino attraverso politiche improvvisate e irresponsabili. Il Paese ha finalmente capito che al Cavaliere non interessa nient’altro che se stesso. Ma non si può tacere che questo disastroso quinquennio di legislatura, lascerà al nuovo governo un’eredità spaventosa che costringerà gli italiani a durissimi sacrifici». Le prove tecniche di fine berlusconismo sono un’ottima notizia per Giorgio La Malfa. Ma il deputato del Terzo Polo accoglie l’ultima relazione dell’uscente governatore di Bankitalia, Mario Draghi, con un misto di rammarico e preoccupazione. I tagli alla cieca azzerano lo sviluppo, spiega Draghi. È la sonora bocciatura di Tremonti? I tagli alla spesa erano necessari, ma affinchè risultassero anche utili avrebbero dovuto essere mirati. Naturalmente ciò avrebbe richiesto un diligente lavoro di analisi in grado di sfrondare la spesa sociale dai gravami e di finalizzare i margini recuperati a un piano di sviluppo. La conseguenza è la stagnazione attuale, che per quanto sia drammatica non è ancora giunta alla fase acuta. Che cosa manca per farci gridare al capolavoro? Manca tutto il tempo sprecato da questo governo a negare la crisi, a fabbricare leggi ad personam e a inneggiare al popolo sovrano che invece è stato l’ultimo dei pensieri di questa maggioranza. Se questo governo riuscirà a trascinarsi fino alla fine della legislatura, nel 2014 scatterà il piano di rientro imposto dall’Europa: tagli immediati senza se e senza ma. E allora saranno dolori, per chi dovrà sanare questo disastro. Se non sono capaci nemmeno di capire perché hanno perso queste elezioni, come possiamo sperare che si rendano conto di aver affossato il Paese? Chi avrà il coraggio di dire al capo di dimettersi e andare a casa, se molti di loro sanno che senza Berlusconi un partito che non è mai esistito smetterà di esserci anche nella forma?

Draghi sostiene che per rilanciare i consumi, bisogna rilanciare il mercato del lavoro. In particolare per giovani e donne. Gli interventi legislativi sul mercato del lavoro non sono mai stati molto efficaci. Servono piuttosto operazioni macroeconomiche, e cioè investimenti in grado di sostenere la domanda aggregata. E il governatore parla anche di aliquote più basse e lotta all’evasione fiscale più efficace. È soltanto grazie alla riduzione delle aliquote che l’evasione fiscale può diminuire. Al contrario, ipotizzare che un maggior gettito possa tradursi in tasse più basse non è molto credibile. Per abbassare le aliquote occorre tagliare la spesa in modo mirato. Draghi valuta le mancate riforme dell’istruzione e della giustizia civile in due punti di pil. Sono stime attendibili. E inoltre va considerato il discredito lanciato sul sistema Italia dalle tragicomiche sortite del premier e dei suoi festini bizzarri. Gli investitori stranieri hanno bisogno di sapere che i loro soldi finiscono in un Paese serio e stimabile. Senza contare quante risorse potrebbero essere recuperate da un’offerta turistica all’altezza delle bellezze della Penisola. Le recenti aggressioni ai turisti, i disservizi e le speculazioni allontanano i visitatori. “Quale Paese lasceremo ai nostri figli?”, si è chiesto Mario Draghi. Ha fatto una domanda, diamoci una risposta. È una domanda che richiederebbe lunghe riflessioni e giudizi drammatici. Ma la vera questione è: chi sarà in grado di applicare la ricetta di Draghi? Questo governo è fuori tempo massimo e sa bene che nel 2013 perderà le prossime elezioni. Sa che non ha il tempo e forse nemmeno i numeri per varare le riforme, ma allo stesso tempo farà di tutto per non passare la mano. Lasciare ogni speranza da parte per i prossimi due anni? Occorrerebbe un gesto di amore verso il Paese da parte della Lega, e dei veri responsabili che militano nelle fila del Pdl: staccare la spina e approntare un piano di emergenza che tenti di mettere in salvo il Paese. Sarebbe tempo prezioso per cominciare finalmente a fare sul serio, per studiare le carte e rilanciare il Paese sulla base di misure che hanno premiato tutto il resto d’Europa, tranne noi. Nel momento in cui molti Paesi cominciano a uscire dalla crisi, l’Italia non l’ha ancora affrontata.

«Nel 2014 scatterà il piano di rientro imposto dall’Europa: serviranno tagli immediati e non ci sarà il tempo per studiare soluzioni mirate. A meno che...»


l’approfondimento

pagina 4 • 1 giugno 2011

Prima di approdare alla Bce, il banchiere ha voluto lanciare un “ultimo” messaggio al proprio Paese

La “predica utile”

Per l’addio a Palazzo Koch, il Governatore cita Einaudi e traccia i piani di sviluppo per un’Italia “da salvare” tornando a pensare alla crescita. Il problema adesso è capire se questo governo ha la forza (politica) per farlo di Gianfranco Polillo ornare alla crescita: è stata questa la parola d’ordine delle ultime considerazioni di Mario Draghi, in procinto di trasferirsi alla BCE. La fine, ma anche l’inizio di un lungo ciclo, che per oltre cinque anni l’ha visto sedere nella scomoda poltrona di Palazzo Koch. Quella stessa esortazione aveva costituito l’incipit della sua prima relazione, quando era stato chiamato a quell’alto incarico. E, nel mezzo, anni di delusione, visto i risultati raggiunti dalla nostra economia: da tempo fanalino di coda nei confronti del resto del mondo. Delusione, quindi, ma anche autoironia nel citare Luigi Einaudi e la sue “prediche inutili”: una tradizione che si rinnova nella prestigiosa storia della nostra Banca centrale. Questa volta, tuttavia, c’è un pizzico d’amarezza in più. L’Italia resta un grande Paese, capace di affrontare e superare momenti ancora più difficili. È avvenuto all’indomani delle due guerre mondiali:

T

quando un duplice grande balzo – con un aumento del Pil del 30 e del 140 per cento – lo collocò nel novero dei grandi Paesi del Globo. Se ci siamo riusciti, allora, quando le fratture ideologiche e la frammentazione sociale erano una palla al piede, perché non dovremmo riuscirci oggi? Bella domanda. Sono le risposte a essere difficili. Non dimentichiamo la debolezza della politica. Può sembrare ingeneroso richiamare questo elemento in un momento così difficile della vita economica non solo italiana. Quando tutto – modo di fare impresa, ruolo del sistema bancario, rapporti di lavoro – è in discussione. Ma è la politica la leva più potente per dare al Paese quella coesione nazionale che è il presupposto per cambiare pagina. Per riprendere un cammino interrotto e tornare a crescere: non solo sul terreno economico, ma civile ed – oseremo dire – morale. Puntare sulla politica significa, tuttavia, fare i conti con un male antico del

suo modo di manifestarsi: quella “doppiezza” che negli anni bui della “guerra fredda”salvò il nostro Paese da esperienze traumatiche, ma che oggi rappresenta un freno che è, innanzitutto, culturale. Ma proprio per questo ancora più potente della difesa a priori delle immense corporazioni che peggiorano il nostro vivere quotidiano. È vero – come sostiene il Governatore – che esiste una grande convergenza sulle analisi? Fino ad un certo punto. In

Cambiano i ministri ma non l’attitudine a dare retta solo agli apparati

teoria siamo tutti d’accordo, nella pratica molto meno. E allora piuttosto che misurarci sulle parole, dobbiamo guardare ai comportamenti effettivi, per leggervi, in controluce, le posizioni effettive che la “doppiezza” occulta e nasconde. In questi lunghi anni, che corrispondono al suo governatorato, si sono succeduti Governi diversi. Ma la musica è stata sempre la stessa. La maggioranza che difende il rigore, anche se cambia il mix delle politiche seguite – più tasse o meno spesa pubblica – l’opposizione l’idea, a volte un po’ astratta, della forza dell’economia. Non c’è stata molta differenza, ad esempio, tra Tommaso Padoa Schioppa e Giulio Tremonti. In entrambi l’esigenza della quadratura del bilancio, da ottenere semmai con strumenti diversi, è stata prevalente. Obiettivo irrinunciabile, ma anche riduttivo se non accompagnato da una politica di riforme non destinate, necessariamente, a gravare sui conti pubblici. Giulio Tremonti

ha incontrato difficoltà maggiori. Le proposte dell’opposizione – non va dimenticato – erano le vecchie ricette keynesiane: un punto in più di deficit per accrescere il tasso di sviluppo complessivo dell’economia. Ricetta discutibile, che avrebbe esposto l’Italia ai venti che stanno sconvolgendo i Paesi più deboli dell’Eurozona.

Mario Draghi si colloca nel terreno di mezzo. Riconosce i meriti, ma anche i limiti di una gestione prudente della finanza pubblica. Bene il pareggio di bilancio che si dovrebbe conseguire per il 2014, ma questo non basta. Nella cultura anglosassone il termine usato per aggredire problemi di questa complessità è fine tuning: vale a dire operazioni chirurgiche in grado di asportare i tumori senza uccidere il paziente. In questo caso lo strumento non può essere quello dei tagli lineari, come si è fatto in tutti questi anni. Essi sono troppo rozzi e rischiano di produrre effetti


1 giugno 2011 • pagina 5

«Prima di tutto, l’autonomia», ha ripetuto ieri Draghi pensando al futuro di Bankitalia

L’asse Governatore-Quirinale in vista della successione

Il candidato “interno” è Saccomanni. Dietro si sfidano Bini Smaghi (sostenuto da Letta) e Vittorio Grilli (considerato l’uomo di Tremonti) di Alessandro D’Amato

ROMA. Grilli, Saccomanni, Visco o Bini Smaghi? Oppure Vaciago o Monti? Mentre Mario Draghi prende cappello con le sue ultime Considerazioni finali, per trasferirsi a Francoforte su una poltrona che sicuramente sarà adatta alle sue capacità e alla sua ambizione, impazza il toto-nomine per la Banca d’Italia, il fortino più autorevole del Belpaese nell’epoca della crisi Sia pure dopo aver archiviato i disastri finanziari degli anni precedenti, da Cirio a Parmalat fino ad Antonveneta e Unipol con annessa condanna pesante all’ex Governatore Antonio Fazio. Ma non sarà impresa facile, quella di districarsi tra i papabili a una nomina strategica come quella di governatore di Bankitalia. Anche perché le variabili tra cui decidere sono davvero tante. Specialmente in un periodo dove l’attenzione politica europea, su questi temi, è altissima. Il primo quiz da sciogliere è l’atroce, terribile dilemma che si ripresenta ad ogni nomina di via Nazionale: il successore dev’essere interno o esterno? Mario Draghi ieri lo ha ripetuto più volte: salvaguardare l’autonomia di Bankitalia. Che è un modo elegante ma non troppo velato di tifare per una soluzione ”interna”. Il Corriere della Sera si è già schierato con la scelta “di continuità”, con il prestigioso endorsement di Francesco Giavazzi per la scelta interna. E anche sul Fatto Quotidiano, a firma di Marco Onado, e su Milano Finanza dalla penna di Angelo Demattia, ex collaboratore di Antonio Fazio, sono uscite sponsorizzazioni simili. Guido Rossi, da par suo, è andato contro corrente in un’intervista al Sole 24 Ore: «A parer mio, può essere decisione affrettata e certo mal motivata quella di scegliere necessariamente il nuovo governatore all’interno della stessa banca. Questa opinione, pur autorevolmente espressa da più parti, fa leva su una presunta garanzia di continuità, di indipendenza e autorevolezza». Una realtà che non corrisponde a quella delle altre banche centrali, dove i governatori sono stati scelti su una rosa di esterni. E soprattutto, viene da aggiungere con un pizzico di malizia, se è vero come è vero che Draghi è stato un ottimo governatore, va anche ricordato che è stato nominato da esterno, mentre il suo predecessore, interno, non è che abbia dimostrato un profilo istituzionale irreprensibile se è stato condannato per aggiotaggio. Ma oltre al dibattito palese sull’interno/esterno, ce n’è un altro sotterraneo che sembra non meno importante: quello sulla figura del prossimo governatore e sulla sua (presunta) maggiore fedeltà alle istituzioni italiane rispetto a quelle europee. Un dibattito sentito forse più a via XX Settembre (sede del ministro dell’Economia) che a via Nazio-

nale, e se ne capisce perfettamente il perché: il rischio, nemmeno troppo nascosto, che l’attuale esecutivo, già in difficoltà dal punto di vista politico, vorrebbe evitare, è quello di trovarsi un governatore “troppo”attento ai richiami europei rispetto alle necessità di bilancio italiane. Soprattutto in una fase in cui il governo Berlusconi si gioca tutto, con la tanto agognata riforma fiscale

La disfatta della maggioranza nelle elezioni amministrative favorisce l’uomo di via Nazionale promessa per l’ennesima volta dal premier,Tremonti permettendo. In questa ottica, un governatorato troppo filoeuropeo potrebbe essere un suicidio, e nessuno dalle parti di via XX Settembre ha voglia di commettere un errore simile.

E allora, come salvare il merito e l’indipendenza insieme, come ha fatto capire anche Draghi nelle sue considerazioni finali? I nomi sono tanti, e gli identikit corrispondono di volta in volta a candidati ideali di una o più parti politiche. La soluzione interna vede in pole position Fabrizio Saccomanni, caldeggiato anche dall’attuale governatore. Da sempre in Via Nazionale, 68 anni, conosce a fondo i meccanismi interni alla Banca d’Italia, così come gli equilibri del sistema bancario italiano. NOn è solo Draghi a sostenerlo, ma anche da Napolitano, che non ha alcuna intenzione di rinunciare a nessuna delle sue prerogative di moral suasion. Quella esterna invece risponde al nome di Lorenzo Bini Smaghi, 54enne che ancora si trova nel direttorio della Banca Centrale Europea e non ha alcuna intenzione di andarsene, ma di sicuro dovrà farlo quando gli altri paesi chiederanno il riequilibrio in base all’approdo a Francoforte di Draghi (troppi italia-

ni alla Bce non sta bene). Ma Bini Smaghi sarebbe un esterno a metà perché in Banca d’Italia ha lavorato a lungo: come ha indirettamente sottolineato Giavazzi nel fondo sul Corriere di cui dicevamo. La soluzione governativa invece vede in pole position Vittorio Grilli, bocconiano anche lui 54enne e oggi vicino, vicinissimo a Tremonti dopo qualche difficoltà nei rapporti tra i due un paio di legislature fa. Sempre che Tremonti continui ad avere l’ultima parola del governo, naturalmente: circostanza che dopo la disfatta di domenica è lunedì non è più così scontata...

Chi vincerà? Durante le Considerazioni finali il chiacchiericcio dei banchieri si è fatto fitto, e come al solito si è parlato soprattutto di politica: prima del terremoto delle Amministrative la gara sembrava tra i candidati di Tremonti (Grilli) e Gianni Letta (Bini Smaghi), e il nome sarebbe uscito, a quanto pare, dalla necessaria mediazione tra le due anime forti del governo. Ora però lo tsunami dei ballottaggi ha cambiato le carte in tavola: ha ringalluzzito Napolitano – a molti non è sfuggita la telefonata di congratulazioni ai futuri sindaci di Milano e Napoli arrivata dal Quirinale, oltre che dalla presidenza della Camera – e convinto il presidente, come dicevamo, dell’assoluta necessità di giocarsi ogni sua prerogativa dal punto di vista istituzionale, in tutte le partite decisive. Anche quelle delle nomine. E, considerata anche la grande ammirazione che Napolitano nutre nei confronti di Draghi, questo ha fatto salire le quotazioni di Saccomanni, ad oggi più che mai considerato il nome più caldeggiato dall’attuale governatore. In seconda battuta ci sarebbe Visco, ma tra i quattro è quello meno probabile. Bankitalia insomma potrebbe trovarsi con una scelta “interna” ed “europea” insieme. Esattamente quella più sgradita a Tremonti. Ma le urne contano. Anche dalle parti di via Nazionale.

collaterali, che sono peggiori del male che s’intende debellare: nei prossimi tre anni, se s’insisterà, avremo una caduta del potenziale di crescita di oltre due punti di PIL. Vecchia diagnosi: alla quale Giulio Tremonti ha risposto rifacendosi all’esperienza di Gordon Brown. Il tetto di spesa – ha ripetuto più volte – con un taglio del 10 per cento degli stanziamenti si è accompagnato a una maggiore flessibilità della gestione, lasciando ai singoli ministri la responsabilità di dove e come tagliare. Impostazione generosa. Ma l’Italia non è l’Inghilterra dove i civil service operano in nome di Sua Maestà britannica, con un’autonomia e una capacità propositiva che non ha eguali nella storia degli altri Paesi. In Italia predominano gli apparati con la “a” minuscola, dove impera il conservatorismo e il tirare a campare. Ecco allora che l’impulso dovrebbe venire dall’esterno. Il Parlamento italiano, ad esempio, ci ha provato. In una vecchia legge finanziaria del 2007 ha disposto che si procedesse lungo le linee tracciate da Mario Draghi: verifica puntuale delle singole poste di spese, analisi dei costi in relazione ai programmi, azzeramento della spesa storica per un’esatta valutazione dei singoli progetti. E qual’è stato il risultato? Vedremo, stiamo studiando, sull’input iniziale della Commissione Tecnica per la spesa pubblica, come si legge nel DPEF del 2009. Un esercizio accademico che ha poco a che vedere con l’urgenza e la drammaticità dei problemi da affrontare. Ecco allora che il riferimento a Gordon Brown, corretto da un punto di vista filologico, si traduce in uno dei tanti capitoli di quella “doppiezza” di cui parlavamo all’inizio.

Mario Draghi ha avuto il pregio di mostrare la fragilità di questa impalcatura culturale. L’ha fatto a suo modo: con un discorso piano, intriso di riferimenti concreti che non hanno risparmiato santuari intoccabili. La domanda che ha percorso la sua relazione è stata, per alcuni versi, drammatica: quale Paese vogliamo lasciare ai nostri figli? Migliore o peggiore di quello che abbiamo ereditato? Domanda tutt’altro che retorica. Per evitare che questa generazione sia ricordata come colei che ha dilapidato un grande patrimonio, le cose da fare non sono poi così difficili. Sono solo a largo spettro: dalla finanza pubblica, al mercato del lavoro; dall’istruzione al riconoscimento a pieno titolo della grande risorsa delle donne – le vittime insieme ai giovani di questa sconsiderata dissipazione – dalla giustizia civile – palla al piede della nostra economia – alle infrastrutture. E così via. Non ci vuole molto per realizzare una svolta. Ma forse la diagnosi non è del tutto corretta: ci vuole una diversa politica. Quella che in questi venti anni finora è mancata.


pagina 6 • 1 giugno 2011

la fine del berlusconismo

Un leader che si dimette aiuta il proprio schieramento. Invece chi non lo fa lo espone a rischi mortali

Moderati, un nuovo partito Lo spazio del Terzo Polo è straordinariamente cresciuto. La crisi del Pdl permette ora di raggiungere un grande traguardo di Rocco Buttiglione ballottaggi hanno confermato e rafforzato il messaggio politico già dato con chiarezza dall’elettorato nel primo turno. Berlusconi ha chiesto un referendum su se stesso e questo referendum lo ha perso. Nei ballottaggi la sconfitta assume le dimensioni di una disfatta. A Napoli De Magistris ha circa due terzi del voto complessivo. A Milano la distanza fra Pisapia e Moratti si amplia fino a dieci punti percentuali. Il primo sconfitto è, chiaramente, Berlusconi. Una volta Berlusconi portava la vittoria dovunque, come si dice, “mettesse la faccia”. Non contava il fatto che i candidati fossero scialbi, il partito inesistente, le liste riempite con i nomi di illustri ignoti; il carisma del capo compensava tutto. Adesso avviene il contrario. Anche candidati “buoni”, sindaci che hanno ben governato, liste competitive e ben costruite vengono travolti se sono associati al Capo del

I

Governo. Quasi emblematico è il risultato in Calabria. Mario Occhiuto evita la sponsorizzazione e vince largamente, Dorina Bianchi la accetta, anzi la sollecita, e perde.

L’opposizione chiede adesso le dimissioni di Berlusconi. Non le avrà. Il Capo del Governo è intenzionato a rimanere al suo posto fino alla fine della legislatura, o almeno fino a quando avrà una maggioranza parlamentare. Ci permettiamo di dargli qualche amichevole consiglio. Rinunci alle polemiche con il Capo dello Stato; non gli hanno portato bene. La smetta di dire che i magistrati sono dei pericolosi brigatisti e rinunci a fare una riforma della magistratura tagliata su misura per risolvere i suoi problemi processuali. Si occupi della produttività delle imprese italiane e delle loro capacità di difendere i posti di lavoro esistenti e di creare nuovi posti di lavoro. I leader sconfitti

che danno le dimissioni e si assumono la responsabilità della sconfitta salvano in genere i loro partiti. Quelli che non lo fanno, mettono invece a rischio il futuro ed il destino dei loro partiti. Nel Pdl oggi nessuno sente il proprio futuro politico garantito da Silvio Berlusconi. Ciascuno si guarda attorno e cerca di garantirsi da solo. Si moltiplicano le cordate, le correnti ed anche i partiti dentro il partito. Al di là dei movimenti interni al Pdl è l’intera area moderata che non si riconosce più in Berlusconi e non si sente più garantita da lui.

Più di una voce si è levata a chiedere la ricomposizione dell’area moderata. La preoccupazione è giusta e certo l’Udc non solo è interessata a questa ricomposizione ma sta anche al centro di ogni possibile processo di ricomposizione. È però chiaro che l’unità non si può fare attorno a Berlusconi per mille motivi,

non ultimo il fatto che questa unità la ha rotta lui. L’area moderata non può più essere occupata da una personalità carismatica, ha bisogno invece di essere organizzata da un grande partito democratico. Abbiamo bisogno di costruire in Italia un

referente omogeneo del Partito Popolare Europeo. Se questo si possa fare prima delle prossime elezioni politiche o se sia necessario che la sconfitta di Berlusconi si ripeta una seconda volta nelle elezioni politiche è cosa che in questo momento non pos-

siamo sapere. Il problema della formazione del partito dei moderati si incontra necessariamente con le strategie del Terzo Polo e dell’Udc. Ho già avuto modo di esprimere più volte la mia convinzione che per costruire la nuova politica di cui il paese ha bisogno non basti una diversa articolazione delle forze politiche esistenti. È necessario l’innesto di energie nuove che vengano dal mondo cattolico, dalle organizzazioni dei produttori che trovano un punto di convergenza in Rete Italia ed anche del mondo delle imprese che si riconosce in Confindustria. In tutte queste realtà si vede con chiarezza un desiderio di assumere responsabilità in prima persona. Basta pensare al modo in cui Emma Marcegaglia ha chiuso la sua relazione in Confindustria. Sarebbe però sbagliato pensare semplicemente all’inserimento di una o più personalità di prestigio nella politica. Bisogna pensare ad un parti-


Finalmente l’Italia torna alla politica Ma sarebbe esiziale che il Pd tornasse alla sindrome della “gioiosa macchina da guerra” di Savino Pezzotta crivo queste mie impressioni a caldo e con soddisfazione, ma mi rendo conto che le emozioni non bastano - anche se servono - per dare un giudizio su un fatto politico. Come ha ben evidenziato Blaise Pascal, a volte «il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce». Ovvero: oltre a l’Esprit de géometrie che serve a comprendere meglio la realtà, dobbiamo affidarci all’Esprit de finesse che può aiutarci a “vedere” e intuire cosa si muove nella realtà umana, sociale e politica. Con questa tornata elettorale e con il risultato dei ballottaggi si è avviata una nuova fase della politica italiana e forse siamo alla vigilia di cambiamenti significativi. Chiaro e inequivocabile è il segnale che il clima politico sta cambiando. Il malessere che attraversa i cittadini non si è ritrovato nelle piazze - com’è successo in altri paesi - ma nella politica.

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È positivo che, dopo anni di semina dissennata di antipolitica, si torni ad affidarsi alla politica che viene investita di nuove responsabilità. In queste ore saranno in molti ad affermare di aver contribuito alla vittoria; altri cercheranno di sminuire la portata politica di questo voto. Dovremmo invece, ancora una volta, puntare sulla ragionevolezza che è la feconda combinazione di cuore e ragione per cercare di comprendere cosa realmente stia accadendo. Da qualche tempo si avvertiva crescere la voglia di cambiamento. Chi come me è abituato a utilizzare il treno e i mezzi pubblici, a frequentare le parrocchie, il bar e i paesi, avvertiva dai discorsi delle persone semplici un desiderio di ritrovare un modo di fare politica un poco più sereno e soprattutto attento ai problemi veri delle persone. C’è in giro una voglia di eticità per la politica. Non è un caso che il declino di popolarità di Berlusconi sia iniziato con l’emergere del caso Ruby. Non si è quasi mai trattato di un giudizio sui fatti personali, ma sulla tracotanza che vi s’intravedeva. Il “Nuovo polo” si attendeva qualcosa in più ma, con scarsi mezzi e risorse economiche e mediatiche a disposizione, si è speso con enerto capace di esprimere organicamente i valori dei cristiani e gli interessi dei ceti medi e dei lavoratori dipendenti, gli interessi dell’impresa e dello sviluppo. È, questo, il progetto politico che l’Udc persegue da tempo e che ci ha portati alla formazione del Terzo Polo.

Perché questo progetto possa decollare veramente è però necessario che si completi la sconfitta del berlusconismo. Insieme con Berlusconi viene sconfitto non solo il progetto politico del Popolo delle Libertà ma anche tutto il bipolarismo furioso che ha dominato in questi ultimi anni. Quando i due partiti maggiori raccolgono insieme poco più del 50% dei votanti complessivi è evidente che il bipolarismo forzato imposto dal nostro sistema elettorale

gia, risorse umane, tanta fatica e tensione ideale, ed è così riuscito ad affermare una presenza interessante.

Ora servirebbe un cambio di rotta e sarebbe necessario discutere in modo approfondito quello che si vuole fare nei prossimi mesi e nei due anni che ci separano dalla fine della legislatura. Berlusconi non si arrenderà e non serve a molto evocare una sorta di 25 luglio. Il Presidente del Consiglio tenterà di ricostruire la sua leadership e lo farà con quella volontà che abbiamo conosciuto. Non credo nemmeno che il Pdl sia alla vigilia di un’implosione. L’entità della sconfitta è così alta e alternativa che costringerà tutti i pidiellini a stringersi attorno al capo, anche per non perdere le posizioni occupate. Dobbiamo attenderci una resistenza forte e dura che richiederà nervi saldi per tutti. In questa “resistenza”restauratrice non mancheranno lusinghe nei confronti dei centristi e il richiamo a unire i moderati. Sono convinto che saranno inutili ma, in caso contrario, per il centrismo sarebbe la fine. Viceversa, al Paese servirebbero una proposta politica di transizione per andare oltre il populismo incarnato da Berlusconi e dalla Lega e una decisa fase di rinnovamento democratico del nostro Paese e del sistema politico italiano. Non è più il tempo delle tattiche e degli ammiccamenti ma delle strategie e del rischio. Questo vale per i centristi ma anche per il Pd. I democratici non possono cullarsi nell’illusione di aver vinto o pensare che il successo delle amministrative si possa traslare automaticamente alle prossime elezioni politiche. Sarebbe saggio tenere sempre a mente che un conto sono le amministrative, un altro le politiche. Berlusconi nel suo scriteriato impulso a trasformare le recenti elezioni in una sorta di plebiscito politico sulla sua persona, non ha tenuto conto che nelle consultazioni amministrative le persone si sentono più li-

non ha funzionato. Non ha portato ad una aggregazione organica delle forze politiche ma le ha frammentate ulteriormente. Ha incoraggiato l’autoritarismo e la prepotenza all’interno dei partiti e il risultato è stato il moltiplicarsi delle scissioni e delle ribellioni. Abbiamo bisogno di una nuova legge elettorale ed anche di un nuovo sistema politico. Anche qui i fatti ci dicono che la battaglia del nostro partito per una legge elettorale proporzionale e per una legge elettorale che lasci ai cittadini la scelta dei loro rappresentanti in Parlamento era giusta e merita di essere continuata fino ad una conclusione vittoriosa.

Rivolgiamo adesso la nostra attenzione al centro/sinistra e alla sinistra. Certamente essi hanno vinto, devono però riflet-

bere e molte volte le usano per dare segnali. Ecco perché il successo dei ballottaggi va digerito e analizzato con tanta e tanta ragione e sarebbe un errore se il Pd si lasciasse prendere dalla sindrome della “gloriosa macchina da guerra”o rievocasse l’Ulivo. Di fronte a situazioni nuove servono proposte e capacità nuove. In ogni passaggio di fase occorre sempre fare l’analisi delle

strativo, anche se si deve verificare fino in fondo la sua disponibilità a una riforma elettorale. L’elemento più significativo di cui occorre tener conto e che emerge da questi risultati elettorali, è che le persone non si accontentano più delle promesse populiste che per lungo tempo hanno affascinato molti elettori. La gravità della situazione economica e sociale ha scavato in

forze in campo, delle articolazioni dei poteri, delle nuove dinamiche sociali.

profondità nelle coscienze delle persone e le ha richiamate all’esigenza di un governo delle situazioni. Da questo voto è emersa – magari in forme ancora emotive – un’esigenza di cambiamento che ora deve essere assunto. Forse è arrivato anche per la galassia cattolica il momento di aprire una riflessione più approfondita sul rapporto con la politica. Ci sono stati in questi anni troppi silenzi, troppe partigianerie e una sorta di “neutralità”rispetto alla politica e soprattutto verso il populismo. Tutti quelli che hanno passione civile e che desiderano un nuovo cambiamento, sulla base delle esperienze compiute in questi anni, sono ora chiamati a riflettere sul cammino compiuto e a decidere come stare nella nuova fase, senza altra chiusura se non quella nei confronti dei populismi.

La novità inedita è la perdita di consensi della Lega. Che cosa farà il Carroccio non c’è dato di sapere, anche se chi vive nelle aree del Nord ha sentito nascere un disincanto sociale nei confronti dei leghisti. Le questioni della disoccupazione, della mancanza di lavoro per i giovani, la perdita del potere d’acquisto e altre questioni sociali urgenti non si risolvono con la recita quotidiana del mantra federalista. Il dato certo è che non regge più il suo essere al Governo e agire come opposizione. Se resterà al Governo, è destinata a perdere altro terreno.Vedremo come tradurrà il voto di domenica, ma nel frattempo ritengo sbagliato legittimarla con accordi a livello ammini-

tere attentamente per intendere il significato e i limiti della propria vittoria. Il centrosinistra non ha guadagnato molti voti. La sua vittoria è piuttosto il risultato di una massiccia diserzione delle urne da parte dei

autosufficiente sbaglierebbe tutto. questo errore è forse l’unica cosa che potrebbe rilanciare il berlusconismo sconfitto. Evitare l’errore però non è facile. Berlusconi estremizzando il confronto ha finito con il favori-

I numeri ci dicono che siamo andati bene, vincendo in molte amministrazioni e confermando di essere globalmente decisivi: a questo punto serve un salto di qualità per andare oltre i “vecchi” partiti moderati. Essi non si sono sentiti di votare Berlusconi e molti non hanno votato un Terzo Polo ancora non organizzato e presente sul territorio e anche poco definito nella sua proposta politica. In ogni caso la sinistra non è improvvisamente diventata maggioritaria nel paese. Se adesso si immaginasse di essere

re il trionfo delle ali più estreme anche nello schieramento di sinistra. Controllare queste componenti e non cedere loro la guida strategica della coalizione è il problema difficile davanti alla quale si trova oggi Bersani e, con lui, tutto il gruppo dirigente del Pd. Per ciò che riguarda il Terzo Polo molto già abbiamo

detto. I numeri ci dicono che siamo andati bene, vincendo in molte amministrazioni e confermando di essere globalmente decisivi. Abbiamo però raccolto, in questa occasione, solo i voti dei diversi partiti che entrano a comporre il Terzo Polo. Gli elettori (dal 4 all’8%) che in tutti i sondaggi si dicono pronti a votare il Terzo Polo ma non dichiarano la loro preferenza per nessuno dei partiti che lo compongono questa volta non ci hanno premiato. Si capisce bene il motivo: il Terzo Polo ancora non c’è. Se vogliamo che alle prossime elezioni ci sia ci attende un grande lavoro, sia al centro che sul territorio. Lo spazio potenziale del progetto del Terzo Polo è invece straordinariamente cresciuto: si apre una partita politica nuova e la posta è la riorganizzazione di tutta l’area moderata.


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la fine del berlusconismo Da sinistra, Roberto Formigoni, Claudio Scajola, Letizia Moratti, tre leader del Pdl in fermento. A destra, i festeggiamenti di ieri a Milano, dopo la vittoria di Pisapia. Sotto, Paolo Del Debbio. Nella pagina a fianco, il capo della Lega Umberto Bossi

Caos nel Pdl: «Non ho tempo per il mio funerale», dice il premier. «Qui non comanda più nessuno» accusa Giuliano Cazzola

Non si vive di solo carisma Paolo Del Debbio critica Berlusconi: «Senza veri eredi politici, il progetto dei moderati fallisce. Così avremo perso quindici anni» di Riccardo Paradisi o fatto una riunione, volevo fissare la data del mio funerale ma ho troppi impegni e quindi rimanderemo». Scherza Silvio Berlusconi a Bucarest, dove é in corso il bilaterale Italia-Romania. Ma è un riso amaro, ironia noir…Per il premier ora cominciano le dolenti note.

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Si certo, il Cavaliere proietta ogni responsabilità della sconfitta all’esterno della sua sfera di responsabilità: la sinistra, i magistrati, l’impazzimento di napoletani e milanesi, il tradimento di Gianfranco Fini, l’intendenza del partito che non segue. Ma insomma al premier non manca l’istinto di capire che s’è rotto qualcosa nell’incantesimo che lo legava alla maggioranza degli elettori, i quali fino ad oggi gli avevano perdonato ogni stravaganza e soprattutto la lunga catena di omissioni politiche attese dal governo del centrodestra: le riforme mancate, l’immobilismo politico, la sempre rimandata riorganizzazione del partito e la conseguente altissima rissosità interna emersa negli ultimi mesi. Le esternazioni che il presidente del Consiglio fa al suo rientro in Italia sono tra il generico, il malinconico. Conversando con i cronisti durante la cerimonia del 2 giugno al Quirinale dice: ”Le primarie nel Pdl? Io sono per tutto ciò che è opinione della gente. Nel mio

partito non ho mai deciso nulla, ho sempre accettato le scelte fatte dagli organi del partito anche quando non le condividevo, ad esempio sulla scelta dei candidati per le elezioni». Poi osserva: «Le primarie a sinistra hanno funzionato, sono venuti fuori candidati che non appartenevano al Pd, come Vendola, De Magistris e Pisapia». A chi poi gli chiede se sia sereno sulla verifica parlamentare Berlusconi, recuperando il tono assertivo di sempre risponde: «Assolutamente. Non c’è nessuna preoccupazione, zero virgola zero. Ho la maggioranza per fare la riforma del fisco, quella delle istituzioni e anche quella della giustizia che è già impostata. Abbiamo la maggioranza in Parlamento». La realtà è che Berlusconi qualche timore sulla verifica ce l’ha. Non a caso tiene d’occhio la Lega da giorni e non a caso dalla Romania la prima telefonata che ha fatto in Italia dopo i ballottaggi di Milano e Napoli è stata a Bossi. Intanto però il problema numero uno per il premiere è il partito.

Si perché il Pdl è come un vulcano pronto a esplodere, messo sotto pressione dall’agitarsi delle correnti che hanno già cominciato a fiutare aria di successione e di resa dei conti interna. Di segnali ce ne sono in abbondanza ed espliciti: il silenzio di Tremonti, che sui risultati elettorali non ha detto una parola, la polemica della Lega,

L’ultima carta del Cavaliere

«Ora farò la riforma fiscale» Dalla Romania, il presidente del Consiglio prima ironizza sui risultati elettorali («Ho fatto una riunione: volevo fissare la data del mio funerale, ma nei prossimi giorni ho troppi impegni e quindi rimanderemo...») poi giunto a Roma attacca Tremonti («Non è lui che decide. Adesso dobbiamo fare la riforma fiscale»). Silvio Berlusconi invita a non dare per scontato il precipitare della situazione di governo e maggioranza dopo la “sberla” (copyright Maroni) dei ballottaggi. Intanto, il governo mette in calendario la “verifica” alla Camera nella settimana tra il 20 e il 27 giugno. A stabilirlo è stata la conferenza dei capigruppo, su indicazione del presidente, Gianfranco Fini. Sempre il premier, prima di lasciare Bucarest, ha aggiunto: «Ho preso gol ma non cedo». Per poi chiudersi a palazzo Grazioli non con i vertici del Pdl ma con i figli. L’opposizione aveva chiesto che sulla verifica si votasse già la prossima settimana.

che imputa al Pdl la sconfitta e per voce del sindaco di Verona Tosi invita Berlusconi a fare un passo indietro a favore di Roberto Maroni, le stilettate del governatore della Lombardia Roberto Formigoni che chiede le primarie anche per il Pdl; l’agitarsi di Alemanno che ha già cominciato a muovere i primi passi della lunga marcia per la successione: «Il primo che deve parlare ora è Berlusconi, per evitare quei protagonismi o quei personalismi che in questi momenti escono fuori. Il dato fondamentale è partire da un vero congresso del Pdl che riaggreghi tutte le forze che si sono separate dal partito in questi anni».

A rinforzo del sindaco di Roma l’altro ex colonnello finiano Altero Matteoli chiede a sua volta l’abolizione delle quote 70-30 e anche lui un congresso subito. Messaggi rivolti ai vertici del Pdl ma in particolare ai concorrenti interni della corrente degli ex Alemanno An. ormai lanciatissimo fa un passo ulteriore e propone di cambiare nome al Pdl. Anche per sedare velleità, fughe in avanti e progetti di successione Berlusconi lascia trapelare la soluzione di un coordinatore unico nella persona di Angelino Alfano.

Una notizia che fa slittare a oggi il vertice del Pdl previsto per ieri sera. Una soluzione quella del coordinatore unico in qualche modo evocata dalle dimissioni di Sandro Bondi – offerte nella convinzione che sia ancora una volta il premier-demiurgo a dover risolvere la situazione – ma osteggiata sia da Verdini che da La Russa. C’è però un settore del Pdl dove la volontà di farla finita con gli ex An è forte: «Nominare un coordinatore unico, anche Alfano, va bene; subito dopo mettere fuori quelli di An, che sono una vera e propria zavorra. Speriamo che si organizzino presto in una loro area e se ne vadano» riferiscono agenzie parlamentari che registrano gli umori azzurri in Transatlantico. Ma come si diceva non c’è solo il sindaco di Roma a scalpitare per la leadership del centrodestra postberlusconiano. C’è anche Formigoni a mordere il freno, impaziente di uscire dai confini lombardi: «Se il Governo fa le riforme legittima la di candidatura Berlusconi per il 2013 che può concludersi con una vittoria. In quel momento avremo un Governo da guidare e un Presidente della Repubblica da eleggere».

A questo punto si aprirebbe il problema della successione di


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Non solo la formazione del premier deve fare i conti con una sconfitta

La Lega non ascolta più la protesta del Nord

Il partito di Bossi è rimasto «impiccato al vecchio» e ora non sa come correre ai ripari restando a Roma di Giuseppe Baiocchi n mese fa, il giovane gruppo dirigente del Pd milanese e lombardo confessava in privato di aver già pronte le dimissioni se la Moratti avesse vinto al primo turno, come sembrava possibile. Dimissioni certe e non ritirabili com’era avvenuto alle “primarie”del centrosinistra dove il candidato ufficiale del Pd, l’architetto Stefano Boeri, era stato sonoramente battuto da Giuliano Pisapia. Un mese fa la Lega, presentata dai sondaggisti e da tutti gli osservatori con il vento in poppa e in sicura crescita, si dilaniava in lotte intestine per fermare la scelta del candidato vice-sindaco a Milano, contrastando la naturale leadership di Matteo Salvini. Un mese fa la spocchia del Pdl, certo del consenso automatico nella sua roccaforte, trasformava il voto meneghino nella guerra privata del Cavaliere contro i giudici sotto l’accorta regìa della premiata coppia Sallusti-Santanchè. Un mese fa, infine, il Terzo Polo sognava risultati a due cifre e comunque tali da essere determinanti nella sfida per la conquista di Palazzo Marino.

U

Berlusconi ed è qui che Formigoni parla di primarie: «Quando il Pdl dovrà affrontare il problema del nuovo leader dovrà farlo non nel chiuso di una stanzetta di potere ma dovrà sceglierlo il popolo». Ma il vero affondo di Formigoni arriva adesso: «Nella scelta di molti, cattolici e non cattolici, ha pesato una valutazione negativa su certi comportamenti privati». E in effetti l’analisi del voto che arriva dai vescovi italiani è severa: «Si è maturata una secca sconfitta del centro-destra nelle sfide più significative, da Napoli, a Milano, a Cagliari, a Trieste. Ora non è difficile ipotizzare di qui ai prossimi mesi una ristrutturazione dell’offerta politica. La questione delle ricadute immediatamente politiche dei risultati delle amministrative è legata alla questione se c’è qualcosa di specifico nel caso italiano, a partire dal dato della longevità politica del presidente del Consiglio, sempre

Il vertice del partito è slittato: non c’era accordo sulla promozione di Alfano a coordinatore unico senza Verdini e La Russa protagonista di tutte le elezioni a partire dalla dodicesima legislatura, o più esattamente dall’endorsement per le amministrative del 23 novembre 1993». Il problema ora per il Pdl è «capire se questa maggioranza regge il post Berlusconi» dice a Radio Radicale il deputato del Pdl Giuliano Cazzola: «Anche se Berlusconi non se ne va, mi pare che qui non comandi più nessuno. Non può darsi un partito monarchico con un sovrano assoluto che non è capace nemmeno di rimuovere un usciere. Ricordo che proprio Berlusconi definì il Pdl è un partito monarchico e anarchico, mi pare che ormai sia solo

anarchico». Insomma il Pdl visto dall’interno appare come un partito già balcanizzato. Dove, come dice a liberal Paolo del Debbio, intellettuale vicino al centrodestra, si vede la matassa ma s’è smarrito il bandolo. «Qui si è finiti in un labirinto e le sconfitte delle amministrative hanno acceso la luce su questa realtà che finalmente nessuno può più negare e rimuovere, come è stato fatto sinora. Qui è sfuggito di mano il bandolo della matassa: c’è il Pdl, che resta un partito quantitativamente considerevole, c’è un elettorato di centrodestra e moderato, vedo che ci sono anche dei candidati alla successione che in queste ore mettono fuori la testa. Ma insomma io fatico a vedere il progetto politico come fatico a vedere futuri leader. Peraltro alle cose fatte, cito tra tutti i conti tenuti in ordine dal governo, non si è riusciti a dare un contenuto politico. La tenuta in ordine dei conti pubblici, pure un grane successo del governo, è passata come una cosa di normale amministrazione. Manca al centrodestra la cinghia di trasmissione politico culturale, e manca, sicuramente un partito strutturato».

Ecco allora i nervosismi da successione che si moltiplicano in assenza di un partito organizzato per durare e per gestire la fisiologia delle alterne fortune elettorali. «Il carisma ci vuole – continua Del Debbio – e tra i presunti e sedicenti delfini di Berlusconi non vedo molti carismi in giro, ma il carisma deve dare una continuità storica a quello che crea. I fondatori devono fare le fondazioni. E qui di fondazioni, anche in senso stretto ne vedo poche. Dopo quindici anni c’è chi a destra lamenta ancora l’egemonia della sinistra. Che esiste, sicuramente, ma perché a destra in questo ambito strategico essenziale, nell’ultimo quindicennio non s’è fatto praticamente nulla. È disarmante».

gre di Arcore, trasmetteva in conclusione, tra scandali farisaici e invidie sottaciute, il senso di una dissoluzione civile e l’inadeguatezza di un ceto politico rinchiuso su se stesso e sulle sue feroci e sterili contrapposizioni.

Il malessere covava da tempo, più affiorante nel Web che nelle piazze. E alla prima occasione utile si è incanalato verso le uniche alternative comparse all’orizzonte, rappresentate più da singole persone che da partiti organizzati e coesi. Al Nord in particolare questo ha avuto effetti devastanti sull’assetto del centro-destra e il suo tradizionale insediamento. Se veniva dato come ragionevolmente plausibile il dimagrimento del Pdl, anche per la mediocrità dei suoi quadri dirigenti e per troppe chiacchierate amministrazioni di scarsa qualità, stupisce la sconfitta uniforme della Lega, che si preparava a raccoglierne i frutti. Un arretramento tanto più doloroso quanto inaspettato (giunto perfino a perdere la “fatal Novara”) e che spaventa il Carroccio, fino ad ieri forza di innovazione a suo modo riformatrice e naturale collettore della protesta di popolo. L’angoscia della Lega è adesso quella di ritrovarsi nel sentire comune “impiccata al vecchio”, quando non ha ancora portato a pieno compimento la sua rivoluzione federalista e a calarne gli effetti concreti sulla vita della gente. Gli errori di conduzione della campagna elettorale sono comunque evidenti per la maggioranza, in particolare per lo sgangherato partito del premier. E tuttavia anche il centro-sinistra, che giustamente festeggia la vittoria nelle città, non può nascondersi la realtà di avere vinto perché ha svolto, con sagacia e cinismo, una funzione “ancillare” verso outsiders nati altrove e proposti da altrove, magari proprio dall’universo inafferrabile della Rete. E sbaglierebbe se attribuisse questi comportamenti per sé positivi alle solite mobilitazioni del “popolo viola dei garantiti”e non vi scorgesse invece la sorda indignazione delle legioni di precari e la frustrazione dei trenta-quarantenni finora sottomessi al “tappo”dei più attempati.

La sinistra ha vinto solo perché ha sponsorizzato degli outsider nel momento in cui gli elettori volevano un segnale di cambiamento

Era appena un mese fa. Le urne nel primo e pure nel secondo turno hanno sconvolto non solo i presagi dei sociologi, ma addirittura le valutazioni dei politici di professione, nessuno escluso. Ma allora che cosa è successo in questa tornata elettorale amministrativa: soprattutto al Nord, ma non solo? Azzardare una risposta completa e persuasiva richiede probabilmente doti di divinazione che sfuggono a ogni osservatore appena attento alla realtà. L’esperienza del cronista suggerisce piuttosto qualche umile considerazione che apparirà ostica agli abitanti del Palazzo e agli interpreti più in auge del circuito mediatico. Intanto è da almeno un anno che si “annusa” nell’aria una diffusa e confusa velleità di voler comunque “voltar pagina”. Anche per il senso di stanchezza, se non di disgusto, provocato da una politica sempre più rissosa e sempre più lontana dalla vita concreta dei cittadini. Peraltro incapace di rispondere nel suo complesso alle domande inquietanti che l’imprevisto evolversi del mondo rovescia nei nostri confini, con fenomeni epocali che non sembrano in grado di venire governati. La tempesta finanziaria internazionale non ancora completamente sedata; la ripresa degli sbarchi a Lampedusa e il peso drammatico dell’immigrazione comunque irrefrenabile; la misteriosa ambiguità della guerra guerreggiata con la Libia, con il dittatore Gheddafi appestato e impresentabile poco dopo esser stato accolto da tutti con tutti gli onori…. E via sbandando… E pure il fremito, divertito e morboso, sulle rivelazioni del “caso Ruby”, con il racconto del bunga bunga e delle donnine alle-

Forse sono già comparse, anche in questa occasione così variegata e ancora indecifrabile, le avvisaglie di un“cambio d’epoca”. Come avvenne ad esempio nel ’68 o nella ribollente stagione seguita alla caduta del Muro e alla vicenda ambigua e opaca di Tangentopoli. La politica, tutta la politica, ne è interpellata in profondità e non può dare a domande inedite risposte usurate. Coltivando magari l’illusione che il tramonto inglorioso di un leader anomalo come Berlusconi salvi tutti gli altri….


la fine del berlusconismo

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Il futuro del centrosinistra secondo Umberto Ranieri

Non ripetiamo l’Unione, alleiamoci con il Terzo Polo «Bisogna costruire una coalizione coerente e non contraddittoria al proprio interno con un programma di riforme indispensabili per il Paese», dice l’esponente napoletano del Pd. Intanto ieri Bersani, dopo aver chiesto di nuovo le dimissioni del governo, si è detto disposto «ad aprire un dialogo con chiunque guardi oltre il Cavaliere» di Franco Insardà

ROMA. Il Partito democratico ci ha preso gusto e vuole vuole concedersi il bis. Ieri mattina nella segreteria del Pd si è festeggiato velocemente con un brindisi la vittoria alle amministrative, ma il segretario Pier Luigi Bersani ha chiarito: «Ci siamo messi subito a lavorare, ora tocca ai referendum. Faremo una grande campagna di iniziative, ci rivolgeremo a tutti i media perché sia dato il giusto spazio ai referendum». Bersani, però, non ce l’ha fatta a trattenere una battuta riproponendo uno dei tormentoni resi celebri da Maurizio Crozza: «Così togliamo l’ultima macchia al giaguaro».

Un animale ferito che cerca di reagire e fa dire ai suoi che si è trattato di una loro sconfitta, piuttosto che di una vittoria degli avversari. Un’analisi che Umberto Ranieri, responsabile del Partito democratico per il Mezzogiorno tra i candidati alle primarie napoletane annullate del suo partito e sostenitore al ballottaggio della corsa di Luigi De Magistris verso Palazzo San Giacomo, rimanda al

mittente: «I dati sono inequivocabili e il voto segna una sconfitta del centrodestra e di Silvio Berlusconi».

Lo stesso Bersani analizzando i risultati delle amministrative, a Repubblica tv, ha detto: «Non è uno schiaffo, perché dopo uno schiaffo riprendi la strada. È una valanga, mossa da un risveglio civico, democratico, del “non si può più andare avanti così”». Lanciando subito una richiesta a Berlusconi in vista della verifica parlamentare: «Si presenti dimissionario perché è venuta meno la maggioranza nel Paese. È un disastro che l’Italia resti sem-

pre avvitata sui problemi di una sola persona. È ora di dire basta e girare pagina. Berlusconi dica se può ancora tirare la palla avanti o no, ma non può tenere l’Italia prigioniera».

Per Umberto Ranieri ora è «indispensabile costruire un’alternativa efficace e in grado di raccogliere la maggioranza degli elettori. Ritengo che si debba lavorare a realizzare non una maggioranza risicata e chiusa nei confini dell’alleanza con la sinistra, ma uno schieramento ampio e rappresentativo del Paese che vuole cambiare le cose e, quindi, anche con il Terzo Polo. Bisogna, cioè, costruire una coalizione coerente e non contraddittoria al proprio interno con un programma di riforme indispensabili per il Paese». Lo stesso segretario del Pd, sempre nel corso dell’intervista a Repubblica.tv, ha detto che il materiale politico «emerso nella coalizione di centrosinistra che ha vinto le amministrative è largamente sufficiente a costruire un’alternativa di governo e anche un’alternativa al so-

gno berlusconiano e alle sue tossine. Siamo prossimi a essere il primo partito, ma questo non mi fa dire che vogliamo fare da soli, lasciando per strada dei pezzi di centrosinistra di governo. Servono idee chiare sul programma e noi lo stiamo facendo confrontandoci con chi le condivide. Come l’Ulivo

Il segretario dice: «Ora mi sento più forte nel mio ruolo di leader. Bisogna lavorare al programma, alle alleanze e alla primarie» l’ispirazione del Pd è la riscossa civica, la moralità e poi un messaggio alle forze riformiste. Va però consolidato un rapporto tra il Pd e l’area del centrosinistra che ci consenta di fare insieme un passo di maturazione per darci un tasso di credibilità nell’azione di governo perché noi non lasciamo per strada il centrosinistra, ma non rifaremo l’Unione e serve un pat-

to di garanzia sul governo». A chi ha storto il naso vedendo Romano Prodi con Bersani sul palco a festeggiare Ranieri dice: «La presenza dell’ex premier non vuol dire assolutamente che si vogliano ripetere esperienze che non hanno retto alla prova del governo del Paese».

A proposito Bersani ha dichiarato che nel suo ruolo di leader si sente «più forte», aggiungendo subito che bisogna lavorare al programma, alle alleanze e alla primarie. «Sono mesi che andiamo con il pilota automatico. Andiamo a votare, ma questo Paese ha bisogno di rimettersi in cammino. Se Berlusconi è uno statista, come dice di essere, questa cosa deve capirla. Se si fa in breve tempo una nuova legge elettorale, che consenta ai cittadini di poter scegliere i loro parlamentari e di votare anche una maggioranza esigibile di governo che non soffra ribaltoni, noi siamo pronti a discutere con tutti». Ma subito dopo aggiunge: «Se Berlusconi dice che abbiamo la legge elettorale migliore del mondo. E allora noi rispondia-


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Populismo e mediocrità hanno incrinato il rapporto tra chi governa e chi è governato

C’è un’unica soluzione: un governo di unità nazionale

Lo scontro per Milano e Napoli (con una campagna elettorale lontana dai cittadini) ha radicalizzato la crisi italiana: ma i problemi non aspettano di Barbara Contini e elezioni amministrative con Milano e Napoli in testa, hanno confermato il clima di improduttiva lotta politica all’interno del paese pro-contro Berlusconi che, nel suo esito sostanziale, non lascia intravedere nulla di veramente determinante per tentare almeno di iniziare un percorso di cambiamento, verso la rinascita di questo paese, nella speranza di un futuro più attento alla qualità della vita. Fra le voci sensate che a stento e debolmente riescono a farsi sentire nel marasma generale, quella del Senatore Pisanu è fra le più autorevoli ed espressa nell’interesse generale del paese. Il passaggio da una fase di decantazione, un periodo con una intensa attività politica trasversale, di larghe intese, che lavori per il rideterminarsi delle condizioni di partenza utili per il ritorno ad una dialettica politica civile che, nel contempo si occupi operativamente del governo del paese, attuando quelle manovre di sviluppo e riorganizzazione sociale ed economica che ormai non possono più essere rinviati se non a costo di elevati rischi per la stabilità delle generazioni future e per le attuali in via di invecchiamento.

ri, questi sono i problemi, della giustizia. Il paese è ingessato in una struttura burocratica ed amministrativa che divora se stessa, senza trasparenza e autoreferenziale. Ma, come nella campagna elettorale milanese, i problemi si polarizzano sui campi rom, sulla costruzione di una moschea, su un mercato rionale, sulle multe per divieto di sosta e la massima strategia si può registrare nei provvedimenti centrali di sanatoria degli abusi edili-

Ci sono stati e ci sono degli approcci sbagliati nei confronti delle grandi soluzioni strutturali che riguardano il nostro paese, primo fra tutti la riforma della giustizia, cui non è possibile dare risposte a colpi di maggioranza. Occorre invece che sia il mondo politico, nell’insieme della sua rappresentanza, a studiare e a dare risposte ormai dovute ai cittadini, perché una riforma deve garantire unitamente alle garanzie, una dovuta e sarcosanta efficienza. È un dovere delle istituzioni e un diritto dei cittadini. Inutile sarebbe elencare e parlare delle inefficienze e delle situazioni di oggettiva ingiustizia, cui i cittadini sono sottoposti, situazioni spesso assurde; occorre migliorare, ocorre capire bene il problema e consultarsi anche con le parti che ne gestiscono le dinamiche, con i giudici e con gli avvocati, con i magistrati. Occorre utilizzare le risorse di prim’ordine di cui il nostro paese dispone, il diritto nel nostro paese ha una tradizione antichissima e ha fatto scuola nel mondo, non possiamo permetterci di rimanere in questa situazione. Non possiamo permetterci di non adeguare il nostro sistema alle esigenze della nostra epoca, non possiamo permetterci di non informatizzare e metter in rete gli archivi delle procure dei tribunali, di non ricorrere alla posta elettronica per le pratiche giudiziarie, di non avere strutture adeguate, di non avere abbastanza giudici, abbastanza impiegati, di non avere posti sufficienti nelle carce-

zi, sostanzialmente determinando un sistema clientelare di massa di bassa intensità, poco visibile ma subdolamente invasivo e infestante del tessuto sociale. La domanda cui occorre trovare una risposta è come cambiare questa generale tendenza all’entropia che ormai va avanti da anni, come far comprendere

L

ai cittadini che quello di cui siamo partecipi è un grosso e stupido inganno incontrollato e senza regia. Dobbiamo assumere la consapevolezza che la soluzione per un radicale cambiamento è nelle mani e nella responsabilità di tutti i politici e della società civile. Sarebbe il miglior modo di celebrare i nostri centocinquanta anni di storia di popolo e di nazione, non solo nei fasti ma anche e soprattutto nella coscienza. Senza larghe intese, senza sinergia fra società civile e politica non si produrranno i grandi cambiamenti di cui il paese ha bisogno, si moltiplicheranno e saranno perpetrate le dianamiche di scontro, generando ideologie contrapposte; ne abbiamo alcuni esempi recentissimi, come la riforma della scuola che si sta muovendo in quella direzione. Il sistema paese non è abbastanza efficiente per afforntare i problemi, senza ingenerare dinamiche di conflitto su tutto. Siamo un paese dall’amministraione pubblica poco trasparente, complicato e articolato e demoltiplicato in mille competenze e responsabilità.

Siamo al punto che spesso non si riescono neanche a progettare soluzioni adatte alle nostre difficoltà Spesso ci si accorge

del problema ma non si riesce neppure ad individuarne la causa, parliamo tanto di migrazioni verso l’Italia di gente in fuga da paesi in guerra, della fame e dalla disperazione; dovremmo invece fare attenzioni agli italiani che fuggono dall’Italia, non per le tasse, ma per la incredibile burocrazia e incomprensibile gestione dell’ amministrazione pubblica, fatta di firme e permessi, autenticazioni e certificazioni di cui spesso una serve a giustificare l’altra e di cui la effettiva e sotanziale efficacia è universalmente ritenuta nulla. Siamo un paese che deve dare delle risposte al mondo del lavoro ed ai giovani, che deve creare nuove opportunità, che si deve reinventare ed essere competitivo sulla innovazione tecnologica, che deve lavorare per il miglioramento delle condizioni ambientali e per l’ecologia, che deve migliorare la ormai assurdamente superata rete di comunicazione viaria, il traffico e l’inquinamento delle nostre città, notoriamente male equipaggiate in termini di servizio pubblico. Le elezioni amministrative sono, seppur con il loro carico di importanza politica,“un sasso nello stagno”ripetto alla situazione in cui l’Italia si trova impantanata. Occorre superare questo momento di transizione e, la politica deve crescere, maturare e superare la dimensione di disputa da cortile. Spero che con il berlusconismo, in questo senso, si sia toccato il minimo storico. La mediocrità di questi anni ha devastato il nostro Paese, rendendolo inetto agli occhi del mondo, è giunto il tempo di dare ascolto a chi vuole cambiare.

mo che se andremo a votare con questa legge, il primo punto della nostra proposta politica sarà di cambiarla immediatamente. Perché francamente io non mi attendo ragionevolezza da chi parla così. Sono piuttosto pessimista». A proposito delle primarie Pier Luigi Bersani si dice d’accordo con il metodo, ma senza automatismi: «In tante situazioni ci hanno dato una spinta enorme, ma in alcuni casi non hanno funzionato perché non c’erano le condizioni per farle. A livello locale qualche volta un commissariamento può fare più rinnovamento di qualche primaria». A livello nazionale per Bersani il percorso è chiaro: «Se si decidesse il percorso delle primarie, per noi chi vince va bene». E in questo clima ieri mattina c’è stata una telefonata tra il segretario del Pd e il neosindaco di Napoli che ha dichiarato: «Con Bersani ci vedremo presto e valuteremo insieme i risultati delle elezioni».

Mentre sull’eventuale deriva del Pd a sinistra Umberto Ranieri aggiunge: «Pisapia è una personalità fortemente rappresentativa della realtà di Milano. Per toni e carattere usati durante la campagna elettorale ha dimostrato di essere tutt’altro che un estremista. In ogni caso il Pd ha raggiunto quasi il 30 per cento dei consensi ed abbiamo assistito alla convergenza, come è accaduto per i ballottaggi, di settori democratici, liberali e di centro. Purtroppo a Napoli le cose sono diverse, con una città che in questi anni ha avuto un decadimento civile e del suo sistema politico. A questo va aggiunta la crisi profonda del Pd, circoscritta alla realtà napoletana, che ha avuto il demerito di non aver saputo costruire una fuoriuscita più solida, dal punto di vista riformista, al vecchio sistema di potere che si andava esaurendo. E le primarie sono state la rappresentazione di questa incapacità. De Magistris ha raccolto il sentimento di insoddisfazione e di malessere dominante nell’animo dei napoletani e la sua candidatura è stata percepita come l’unica in grado di garantire una rottura con il passato». Il che si è tradotto in un plebiscito così come fu per Antonio Bassolino nel ’93, ma tra i due, secondo Ranieri, esistono delle differenze: «In quegli anni in molte città italiane i sindaci eletti per la prima volta con la nuova legge ottennero percentuali elevate. A Napoli fu una battaglia molto serrata con un Pds più forte del Pd e con una candidatura del centrodestra, quella di Alessandra Mussolini, che si comportò molto meglio di Lettieri. Oggi penso che sia Milano, sia Napoli siano in condizione di guardare con speranza al futuro».


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mondo

Strasburgo ammette che è lecito «un certo sospetto sui veri scopi delle autorità russe» ma preferisce passare la palla al Comitato dei ministri

La Ue beffa Khodorkovsky

La Corte Europea dei diritti umani multa la Russia (10mila euro) ma non riconosce la natura politica del processo contro l’ex patron di Yukos di Luisa Arezzo opo il danno, per Mikhail Khodorkovsky, è arrivata la beffa. E questa volta non per mano del suo acerrimo nemico,Vladimir Putin, o dell’ambiguo Medvedev (che continua a “giocare a scacchi” con lo zar di Mosca senza mai fare un passo più lungo della gamba), ma per mano del’Europa. Quella stessa Europa che dal 2003, anno del suo arresto, si è spesa in dichiarazioni e risoluzioni tese a ristabilire la verità e alzare il velo di ipocrisia che aleggia intorno alla vicenda giudiziaria dell’ex patron della Yukos. Ma procediamo con ordine: con una sentenza che sfiora il ridicolo, la Corte europea dei diritti umani ha infatti condannato ieri la Russia a pagare 10.000 euro per danni morali a Mikhail Khodorkovsky (più 14mila euro di spese legali, una cifra che farebbe sorridere pure la Gerit) evitando sapientemente di riconoscere la natura “politica” del processo, pur ammettendo che è lecito un «certo sospetto» sui «veri scopi delle autorità russe» nei confronti dell’ex oligarca patron della compagnia petrolifera.

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Il “caso Khodorkovsky”, vale la pena ricordarlo, ha avuto inizio nel 2003 quando l’allora magnate russo e il suo socio, Platon Lebedev, vennero arrestati sulla base di accuse di natura politica che, con effetto retroattivo e giuridicamente immotivato, portarono alla istruzione di un processo per «violazioni gravi delle leggi fiscali e di quelle legate alle regole per la privatizzazione». A conclusione del procedimento, caratterizzato da gravi vizi procedurali, il 16 maggio 2005 i due uomini d’affari furono entrambi riconosciuti colpevoli e rin-

chiusi in Siberia per scontare nove anni di detenzione. Una pena che precluse a Khodorkovsky ogni possibilità di candidarsi alle elezioni della Duma, desiderio che l’ex patron della Yukos aveva reso manifesto e che certo avrebbe trasformato in realtà. Nel 2007, dopo quattro anni di carcere, quando entrambi avrebbero avuto diritto alla libertà vigilata secondo quanto previsto dal diritto e dalle procedure russe, emersero nuove accuse di «appropriazione indebita e di riciclaggio di denaro», in piena contraddizione rispetto alla precedente sentenza. L’obiettivo di queste nuove imputazioni è stato quello di continuare a trattenere in carcere i due uomini, portandoli così a dover affrontare un nuovo processo,

Arrestato il killer di Anna Politkovskaja Il presunto assassino della giornalista russa Anna Politkovskaja, Rustam Makhmoudov, è stato arrestato in Cecenia. La notizia è stata confermata a Radio Eco di Mosca anche dall’avvocato Murat Mussaiev, difensore di Zhabrail Makhmudov, fratello di Rustam. Secondo il legale, il presunto killer è stato fermato a casa dei suoi genitori senza opporre resistenza. A breve sarà trasferito a Mosca. Finora gli inquirenti avevano sostenuto che Rustam Makhnudov si trovava in Europa. Per l’avvocato, l’arresto potrebbe favorire le nuove indagini sull’omicidio di Anna Politkovskaja, la giornalista del bisettimanale di opposizione Novaia Gazeta freddata nell’ascensore di casa, a Mosca, il 7 ottobre 2006. Politkovskaja era nota per le sue critiche all’allora presidente russo Vladimir Putin e al leader ceceno Ramzan Kadyrov, e per le sue coraggiose denunce sui sequestri e le torture subite dai civili nella piccola repubblica caucasica.

iniziato nel marzo del 2009 e conclusosi lo scorso Natale con la richiesta di 14 anni per entrambi gli imputati ovvero, cosiderando il periodo già scontato, la detenzione fino al 2017. In tutto questo periodo, a fronte di denunce importanti (come quella dell’ex Primo ministro russo Mikhail Kasyanov pubblicata dal Financial Times nel 2009 - e poi sostenuta durante il processo - in cui rese pubblico un colloquio privato con Vladimir Putin secondo cui Khodorkovsky aveva «superato ogni limite» per aver sostenuto alcuni partiti politici senza il suo permesso), l’Europa (sia come entità politica che come singoli Stati membri) e gli Stati Uniti hanno ripetutamente denunciato l’iniquo processo ai danni dell’ex patron della Yukos. Il 12 novembre 2009, alla vigilia del vertice Ue-Russia di Stoccolma, il Parlamento Europeo approvò una Risoluzione affinché il Consiglio e la Commissione Europea prestassero la massima attenzione al caso Khodorkovsky e chiedessero alle autorità russe «di combattere l’arbitrarietà, di rispettare lo stato di diritto e di non usare il potere giudiziario come strumento politico». Solo pochi mesi prima sia l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (con la risoluzione 1685) che l’Italia (con la mozione presentata da Pier Ferdinando Casini) puntarono il dito contro il «nichilismo giuridico» (la prima) intrapreso da Medvedev e contro «la mancanza dei diritti umani e di difesa per Mikhail Khodorkovsky e Platon Lebedev». E Barack Obama colse al balzo il suo viaggio in Russia per “bacchettare” Putin e Medvedev sulla questione,

sollevando dubbi sulle nuove accuse sopraggiunte nel 2009 utili a tenere in galera i due imprenditori. Senza contare le denunce delle otto più importanti organizzazioni per la difesa dei diritti umani: Freedom House, Amnesty International Usa, Human Rights First, Human Rights Watch, International League for Human Rights, Jacob Blaustein Institute for the Advancement of Human Rights, American Jewish Committee and la Fondazione per i diritti umani e la giustizia Lantos.

A fronte di queste mobilitazioni, lascia dunque l’amaro in bocca e il senso dell’ennesima occasione persa dall’Europa, il verdetto emesso ieri dalla Corte di Strasburgo che si limita a infliggere una multa ridicola rilevando soltanto alcune violazioni degli articoli relativi alle condizioni di permanenza in prigione e la durata della carcerazione in attesa di processo, oltre a «irregolarità procedurali in relazione alla detenzione». Sottolineature importanti che però, come fanno notare i giudici nella sentenza emessa all’unanimità, non sono sufficienti ad andare oltre per la mancanza di «prove incontestabili» a supporto della richiesta di sanzionare un procedimento politicamente motivato. E così la corte, composta da sette giudici - compreso il russo Anatoly Kovler - si limita a riconoscere che per un periodo limitato Khodorkovsky è stato tenuto in carcere in condizioni «disumane e degradanti» e che durante il processo gli sono state applicate misure di sicurezza in aula non adatte al suo caso, ma piuttosto a un pericoloso criminale, in particolare la collocazione dietro una gabbia di ferro con fitte sbarre. E non


mondo

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Parla Francesca Gori, presidente di Memorial Italia

Giustizia non è fatta, il Cremlino è più forte

«Per mantenere buoni rapporti con la Russia si è scelta la via del compromesso» di Pierre Chiartano a Corte europea dei diritti umani ha condannato la Russia a pagare 10mila euro per danni morali a Mikhail Khodorkovsky, ma non ha riconosciuto la natura «politica» del processo all’ex oligarca in carcere dal 2003. ha però ammesso che è lecito un «certo sospetto» sui «veri scopi delle autorità russe» nei confronti dell’ex patron della compagnia petrolifera Yukos. Il verdetto emesso ieri dalla Corte di Strasburgo rileva anche alcune violazioni degli articoli relativi alle condizioni di permanenza in prigione e la durata della carcerazione in attesa di processo, oltre a «irregolarità procedurali in relazione alla detenzione». Tuttavia, fanno notare i giudici nella sentenza emessa all’unanimità, non sono state presentate «prove incontestabili, necessarie» a supporto della richiesta di sanzionare un procedimento politicamente motivato. Abbiamo chiesto alla professoressa Francesca Gori, presidente di Memorial Italia, l’associazione che segue e supporta la posizione dell’ex tycoon russo, un parere su quella che sembra proprio l’ennesima «occasione mancata» da parte dell’Europa. «È abbastanza grave perché invece è un processo politico. Khodorkovsky è in prigione per il semplice fatto di non aver rispettato gli accordi con Putin. Non doveva scendere nell’agone politico». In quel periodo erano stati molti gli ex oligarchi cui l’allora presidente Putin fece una proposta che non si poteva rifiutare.Volodja voleva far fuori tutti gli oligarchi con rapporti negli Usa o il cui modello di condurre gli affari era ritenuto un cavallo di Troia per gli interessi americani in Russia. In genere proponeva di ricomprare le aziende privatizzate a un valore che era una frazione di quello reale, mentre tendeva una mano con l’altra faceva tintinnare le manette. «Khodorkovsky scende invece in politica e di qui nasce il processo contro di lui che non si può non dire politico» continua la Gori che ricordiamo è un esperta dell’Est europeo che per anni ha lavorato alla Fondazione Feltrinelli. «Il segnale che ci arriva dalla Corte europea sui diritti umani è molto debole. Una labile pressione sull’attuale linea politica della leadership russa». Una riposta che sicuramente

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Sopra, Michail Khodorkovsky e Platon Lebedev durante il processo; a sinistra: Vladimir Putin e a destra Dmitri Medvedev. In basso a sinistra uno degli ex stabilimenti Yukos e nella foto piccola, Anna Politkovskaya

accoglie il più importante punto del ricorso presentato dall’ex magnate del petrolio, quello di motivazione politica dell’inchiesta e del processo. «La Corte ha osservato che, mentre il caso del signor Khodorkovsky può aver dato adito a dubbi sulle reali intenzioni delle autorità russe nel perseguirlo penalmente, le rivendicazioni di una motivazione politica dietro il procedimento richiedono prove inconfutabili, che non sono state presentate», cita la sentenza emessa ieri. «La Corte è persuasa che le accuse contro il signor Khodorkovsky rientrino nella categoria del ragionevole sospetto e dunque rigetta la richiesta di Khodorkovsky di indicare al

governo russo specifiche misure su come applicare il giudizio, convenendo che la supervisione di tali misure sia di competenza del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa». La palla, insomma, adesso si trasforma in una questione tutta politica. Senza contare che ci vorrà del tempo per riesaminare tutti gli atti. Nel frattempo, Mosca brinderà alla notizia e c’è da scommeterci che non darà mai a Khodorkovsky nemmeno i 10mila euro. Uno perché consapevole che non verrebbero accettati, due perché ha già in mente di fare ricorso contro la sentenza. D’altronde se l’aria che tira è questa, ha buone possibilità di vincere.

rafforzerà il regime del Cremlino. «È un compromesso grave tra la necessità di mantenere rapporti con la Russia e un piccolo segnale di disapprovazione per le condizioni in cui versano i diritti civili in quel Paese». Ma questo poteva essere «un terreno di prova per il nuovo presidente Medvedev» fa notare la Gori. Ci si poteva aspettare un segnale di discontinuità rispetto ai metodi del vecchio apparatchik del Kgb.

«Invece dalle sentenze si deduce che Medvedev non ha il coraggio di usare la propria forza contro Putin. L’attuale presidente avrebbe potuto influire sul processo, ma non lo ha fatto». Il pannicello caldo europeo potrà influire ben poco anche sul regime carcerario dell’ex ad di Yukos in ogni senso. «Usare una mano più pesante non penso sia possibile neanche in Russia. Mi sembra che l’Unione europea non voglia intromettersi in quelle che ritiene questioni interne russe». Ricordiamo che l’ex miliardario e il suo ex socio Palton Lebedev avevano presentato una richiesta di scarcerazione anticipata, avendo scontato più della metà della pena a complessivi 13 anni di carcere loro inflitta. La multa fa riferimento invece ai danni morali subiti per l’arresto e la detenzione avvenute prima del processo. Il suo arresto, condotto dalle forze dell’ordine su una pista d’atterraggio a Novosibirsk da una squadra di uomini armati, secondo i giudici di Strasburgo non è spiegabile, visto che Khodorkovski in quel momento non era un pericoloso criminale, ma solo un testimone che non era comparso davanti agli inquirenti. noltre, la velocità con cui la posizione di Khodorkovski è passata da quella di testimone a quella di accusato fa ritenere, ad avviso dei giudici di Strasburgo, che in effetti le autorità russe abbiano usato l’operazione per coprire un arresto. «Ora il regime russo si sentirà legittimato a continuare su questa strada». Memorial in Russia sicuramente si attiverà con delle iniziative «daranno una risposta alla sentenza. Anche se in Russia purtroppo non godono di molta pubblicità. L’azione di Memorial in Russia purtroppo e molto marginale in questo momento».

«Medvedev non ha il coraggio di usare la propria forza contro Putin. Poteva influire sulla sentenza contro l’ex oligarca. Non l’ha fatto»


cultura

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In mostra ai “Mercati di Traiano” della capitale, cento foto-simbolo scattate da Franco Angeli e custodite nel tempo da Marina Ripa di Meana

Il gruppo anti-dolcevita Torna a Roma la «Scuola di Piazza del Popolo» con i suoi artisti, gli intellettuali e gli anticonformismi di Gabriella Mecucci ndavano a piazza del Popolo. Era un fascinoso gruppo di artisti, di intellettuali, di donne belle e simpatiche e molto, ma molto “alternative”. C’erano i pittori della “Scuola romana”(Mario Schifano, Franco Angeli, Tano Festa), c’era Marco Bellocchio, c’erano Goffredo Parise e poi Moravia, Pasolini, Arbasino. C’erano Marina Ripa di Meana e Isabella Rossellini. Quelli del caffè Rosati erano i contestatori e ce l’avevano con il club dei frequentatori di via Veneto raccontato da Eugenio Scalfari. Erano gli “anti dolcevita”. La loro scelta era l’impegno: arte e rivoluzione, estetica e politica. Anticiparono il ’68. Marina Ripa che si ostinava ad amare il ballo e a frequentarlo, veniva definita «avanzo di balera». Insomma, a piazza del Popolo si incontrava un gruppo a cui non mancava fascino e capacità d’impatto sul “mercato” della cultura e anche sull’iniziale “mercato” mediatico. Quelli del Rosati venivano dopo quelli di via Veneto: erano più rumorosi, più stravaganti, più anticonformisti. Ma c’era del genio, indubitabilmente.

A

La mostra inaugurata mercoledì sera ai “Mercati di Traiano” ripropone un’epoca: il Sessantotto e dintorni nella capitale. L’occasione per rivisitare quel periodo ce la regalano cento foto scattate da Franco Angeli, il pittore più estremo e forse più creativo della “scuola romana”, l’uomo tenero e violento, morto ancora giovane di Aids. Le immagini erano state gelosamente custodite da Marina Ripa di Meana: fra i due ci fu un lungo (otto anni), intenso, tormentato amore. Così, quegli scatti ritraggono prima di tutto lei: giovane e bellissima, ma anche una piccola Lucrezia Lante della Rovere, e poi un sacco di amici: da Schifano a Penna a Parise. Il curatore della mostra è Carlo Ripa di Meana, il marito di Marina, che lei ha voluto ringraziare per la «sua generosità». Ed è stato proprio lui a raccontare uno degli episodi meno conosciuti della vita di Franco Angeli: «Quando Jack Kerouac, lo scrittore che inventò la beat generation, si incontrò proprio con Angeli e vissero insieme una singolare esperienza artistica. Il motto di Kerouac era, “questo è beat: amare la vita fino a consumarla”. E Franco Angeli diceva: “Soprattutto non

dimenticare di amare”». Erano nati in luoghi distanti i due, ma avevano pensieri vicini. Quando si videro per la prima volta ci fu fra loro – scrive Carlo Ripa di Meana – quello che ai tempi della Renaissance americana si darebbe chiamato uno shock of recognition.

«Si sono incontrati per caso, tutti e due, forse un po’ sbronzi, per le strade notturne di Roma e insieme hanno messo mano ad una grande tela, intitolata La deposizione di Cristo, ispirata a Ca-

cano, una serata di bisboccia in un night e aver dipinto una pietà (così si espresse) insieme all’artista italiano Franco Angeli. Quella grande tela venne poi esposta e negli anni Sessanta fu acquistata da Gian Maria Volontè. Poi se ne sono perse le tracce. In occasione della mostra di fotografie di Franco Angeli, Carlo Ripa di Meana, dopo una lunga ricerca, è riuscito a rintracciarla. E la tela a quattro mani fra l’artista italiano e lo scrittore americano verrà esposta nei prossimi giorni ai “Mercati di Traiano”. Una riscoperta preziosa a beneficio dei visitatori. Kerouac in Italia, per la verità, fece un’altra cosa notevole: dichiarare davanti ad una folla di rivoluzionari che sulla guerra del Vietnam stava col suo Paese, con gli Stati Uniti. Lo disse a Napoli e fu sommerso di fischi, allora si strillava in corteo: Yankee go home. Un episodio quello che riporta alla luce Carlo Ripa di Meana che aiuta ad immergerci nel periodo in cui Franco Angeli iniziava a fare i suoi splendidi scatti. Si mangiava pane e rivoluzione. E poi – così per lo meno fu nel caso di Franco Angeli – c’erano anche l’alcol e la droga: una vita vissuta pericolosamente. Anche l’amore con Marina fu vissuto pericolosamente. Lei stessa, nell’indicare alcune foto, dice: «Bisticciavamo come pazzi e ci prendevamo a botte, quel giorno mi aveva dato un pugno sotto l’occhio, e infatti – come vedete dalla foto – lo zigomo è gonfio». Marina non si risparmia nella sua narrazione, si sente che vuole riproporre quell’uomo tutto intero: la sua arte, la sua ricerca, ma anche la sua rabbia, la sua fragilità. Questa mostra è piena di ritratti di Marina ed è quindi anche un omaggio a se stessa, ma, prima di ogni altra cosa, rappresenta la voglia di andare oltre la morte e oltre l’oblio. Di riportare in qualche modo fra noi chi si è profondamente amato. Di non farlo sparire, dimenticare. E insieme a lui, di riportarci anche un mondo finito che fu però – fra tanti errori – pieno di creatività e di amore. Una contraddizione? Sì, ma le contraddizioni vanno accettate. Il mondo non è mai lineare.

La loro scelta era l’impegno in tutto: arte e rivoluzione, estetica e politica. Anticiparono il ’68. E Marina, che si ostinava ad amare il ballo, veniva definita avanzo di balera ravaggio». Caravaggio era il pittore preferito di Angeli, che agli inizi della sua carriera guardò – come ispiratore contemporaneo – anche ad Alberto Burri, ma poi scelse la sua strada: fatta di simboli del potere e del loro rovesciamento che allora era rappresentato dalle falci e dai martelli immersi nel rosso. Kerouac, una volta tornato negli Stati Uniti raccontò che «le uniche cose per cui era valso la pena di fare quel viaggio a Roma in Italia, erano state: la visita in Vati-

E allora continuiamo a spulciare il bel catalogo, Il sogno fotografico di Franco Angeli 1967-1975, Minerva edizioni. Franco Angeli era nato a Roma,

nel quartiere popolare di San Lorenzo: genitori di tradizione antifascista e socialista. Era povero. Mentre faceva il militare a Orvieto scoprì – guardando in Duomo gli affreschi di Signorelli – la sua passione per la pittura. Lui stesso racconterà di sè: «I miei quadri erano il segno del contatto quotidiano con la strada.Vedevo i ruderi, le la lapidi, i simboli antichi e moderni come l’aquila, la svastica, la falce e il martello, le lupe romane, gli obelischi, le statue». Poi incontrò Mario Schifano e Tano Festa. E i tre fecero irruzione nella scena romana.

Hanno scritto in Cocaina a colazione Marina Ripa di Meana e Costanzo Costantini: «Danno l’assalto alla capitale come i tenebrosi tombeurs de femmes del Romanticismo francese candidandosi a loro volta all’aureola e al suicidio. Erano pittori “poveri”ma ricchi di talento. Facevano quadri con la terra, l’asfalto, il cemento, le insegne stradali la juta. Angeli, forse anche per le crisi mistiche dovute al digiuno faceva opere di visionaria bellezza. Fu al bar Rosati che nacque l’ormai leggendaria Scuola di piazza del Popolo (etichetta inventata da Arbasino), capitanata da Schifano, Festa e Angeli, il trio diabolico che all’uso dei colori accompagnava abbondantemente l’uso degli stupefacenti, rinnovando in un clima di delirio il trinomio artedroga-sesso». E piazza del Popolo negli anni Sessanta era il luogo d’incontro dell’intellighenzia di mezzo mondo: c’erano gli esistenzialisti – Jean Paul Sartre in testa con Simone De Beauvoir – i dadaisti, gli espressionisti... E poi teatranti, cineasti, architetti, stilisti, attrici, soubrettes. In mezzo a questo mondo c’era anche una giovane Marina, già separata dal primo marito e con già una splendida bambina. La conoscevano in molti quella giovane signora che amava più le creazioni di moda che la falce e il martello. Marina, all’epoca, era lei e so-


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e di cronach

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Jacopo Pellegrini, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma

In queste pagine, alcune delle foto-simbolo scattate dall’artista Franco Angeli, e nel tempo custodite gelosamente da Marina Ripa di Meana, esposte fino al prossimo 4 settembre ai Mercati di Traiano della capitale

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lo lei. Non c’era bisogno di metterle accanto il suo altisonante cognome (Lante della Rovere) per identificarla. E anche lei voleva – come i «tre demoni dell’arte povera» conquistare Roma. E ci riuscirono: nella mostra fotografica ai “Mercati di Traiano” c’è un solo quadro, oltre alle foto, è intitolato Marina capitolina.

L’incontro fra il pittore bello e dannato e la più bella del reame doveva prima o poi avvenire. E infatti ci fu, complice un pranzo a Spoleto, a casa Menotti. Scoppiò come un lampo. Lo racconta magistralmente Letizia Paolozzi: «Credeva nel diritto alla bellezza Franco Angeli quando fotografava Marina, tentando di acchiapparne l’immagine così vitale, impunita, proterva. Impresa complicata, squassata dai litigi: discorso d’amore rovesciato. Lui a correre giù per le scale della casa di piazza Farnese, lei a inseguirlo esasperata lanciandogli gli oggetti che le capitavano a tiro».

Ai “Mercati di Traiano” guardando i Fori e in mezzo agli splendori della classicità, spuntano le foto di questo amore, di questa Roma fatta di arte, di sesso e di rivoluzione. È la Roma di ieri o di l’altro ieri, una capitale fascinosa, anche se, per alcuni versi, insopportabile. Ma era una città viva. Quel gruppo di giovani la conquistò con la forza delle idee e della passione. E anche della bellezza. Ebbero un ruolo importante. Oggi, questa mostra ce lo ripropone. Proprio oggi che la capitale non esprime più quella vitalità. Quelle immagini evocano un sogno svanito, un amore tramontato, una creatività appannata. Ciò che è passato però, non finisce del tutto, qualcosa resta. E se è stato importante, resta ancora a lungo. Compone l’anima della Roma dei nostri giorni, una città che purtroppo sentiamo un po’ spenta: sempre bella, naturalmente, ma addormentata. In attesa che qualcuno la risvegli.

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ULTIMAPAGINA Stasera a Venezia, l’installazione luminosa «Notte di luce» di Rotelli

L’Unità d’Italia: una identità recitata in versi di Loretto Rafanelli idea romantica di costruire una totalità che abbracci i vari linguaggi creativi (dalla musica alla letteratura, dalla pittura alla fotografia, al teatro, ecc), accompagna i flussi artistici del Novecento, innanzitutto le avanguardie. L’idea è semplice, per quanto complicata: giungere a un intarsio di forme e di espressioni comuni, in una «tensione di onnipotenza, nel desiderio di afferrare l’inerte quotidiano per trasformarlo nella macchina del linguaggio» come dice Achille Bonito Oliva che accenna al tema della complessità come a un tema centrale dell’arte contemporanea, e che secondo il critico caratterizza tutta l’opera di Marco Nereo Rotelli. Tuttavia, se questa è la prospettiva, non scontati sono gli esiti, ed è bene citare il pittore americano Ad Reinhardt quando dice: «Mai confondere la pittura», un preciso avviso di pericolo incombente che secondo Fernanda Pivano, una delle madri nobili di Rotelli, significa «mantenere la poesia, la pittura e ogni altro linguaggio nella loro intraducibilità pur mirando a un’unione». Rotelli sa che è necessario non soccombere alla indistinta coagulazione delle esperienze creative e avverte che rispetto a varie questioni come: l’intraducibilità del labirinto in cui ci aggiriamo; la difficoltà di comunicare la presenza dell’altro; l’impossibilità di specificare l’indicibile; l’impraticabilità delle pulsioni che cozzano contro la caoticità della modernità, non si può che ricorrere alla poesia come momento di interpretazione, come vera e unica chiave di accesso a questi scenari. Rotelli vede nella poesia il collante, la sintesi e quindi rinuncia a un’arte solitaria e incompleta, quella della semplice figurazione, per realizzare un’opera che pronunci, attraverso il linguaggio poetico, l’integrazione, nel rispetto reciproco, delle più diverse arti. Per questo egli oggi è l’interlocutore privilegiato dei grandi poeti, da Zanzotto ad Adonis, da Walcott a Mussapi, dalla Spaziani a Bonnefoy, ecc. e ieri di Luzi, Sanguineti, Bigongiari, Merini. L’installazione realizzata a Venezia nel Palazzo Ducale in Piazza S. Marco, oggi alle ore 21, sulla lunga facciata delle Procuratie Nuove dove appariranno i versi luminosi di 27 tra i maggiori poeti italiani, rappresenta un evento che entra nella prospettiva che si diceva. Lo spazio luminologico è uno dei caratteri dell’opera di Rotelli (già portato in grandi eventi internazionali, come al Petit Palais di Parigi) dove, come dice Massimo Cacciari, «le linee e i confini e gli orizzonti che vi percepiscono non rappresentano che il ritmo nell’espandersi cosmogonico della Luce». La Notte di luce sarà una performance di poesia, luce e musica, coordinata da Annamaria Orsini, con l’intervento

L’

del filosofo-musicista Massimo Donà e la voce del soprano Jennifer Schittino che canterà i versi dei poeti. Accanto a questo evento l’artista realizzerà anche l’installazione denominata Lo stato poetico: 27 blocchi di marmo (di travertino o marmo di Carrara o pietra d’Istria o ancora nella siciliana pietra lavica) a forma di libro su cui Rotelli ha scolpito i versi di poeti contemporanei sul concetto d’identità.

Una identità che egli affida alla costituzione dell’opera, per cui quella identità, nazionale e culturale, perduta, viene recuperata attraverso la ricerca, attraverso il lavoro proprio e degli altri in una interazione che dà luogo a un “fare instancabile”e a una modulazione comune di sensibilità espressive diverse. Così si determina la identità, così si regola una questione su cui tan-

Mario Luzi con Marco Nereo Rotelli. In basso, “parole illuminate” nello sfondo di Palazzo Ducale e una delle sculture esposte durantel’installazione “Notte di luce” venta pura luce». La poesia in Rotelli diviene ricerca dimensionale poliedrica che va oltre i confini del testo scritto, e diviene pittura, scultura, musica, scenografia, ecc., una rappresentazione molteplice che implica la coincidenza dei tempi e degli spazi in una riflessione continua che mira: alla moltiplicazione degli effetti artistici, alla ricchezza dei connotati espressivi, alla fondazione di una nuova dimensione creativa. Rotelli infatti tende a stabilire una configurazione ulteriore dell’opera artistica, proiettandosi a una totalità che include e mai esclude, nel

D’AUTORE

rispetto delle singole competenze. Dice bene Adonis, riferendosi al lavoro di Rotelli che «tutto ciò che è arte è in collegamento... mi piace il termine “orbita” inteso come dimensione che contiene la possibilità che i pianeti del linguaggio si muovano nella stessa costellazione». È quello di Rotelli un lavoro che volge verso il superamento dell’esercizio isolato, assolutamente necessario, si badi bene, nella fase iniziale, ma che in lui si coniuga poi in una visione di contaminazione. E sono delle bellissime compagnie di artisti, poeti, filosofi, fotografi, registi, critici che si incontrano e si confrontano e propongono insieme i loro linguaggi come recentemente è capitato nella bellissima Noto nell’evento chiamato Il giardino della bellezza, qualcosa che ricordava uno spazio rinascimentale. È il suo un avanzare verso una rinuncia della situazione artistica originale per rappresentare un contesto che si evidenzia attraverso un’arte altra, che per lui diviene l’essenza dell’opera. Le installazioni realizzate all’Isola di Pasqua, a Carrara con la Cava dei poeti, a Seoul (Poetry for peace), al Living Theatre di New York, i lavori per la Biennale di Venezia (dal Bunker poetico del 2001 a L’Isola della poesia del 2005) e tante altre, e le opere presenti nei più importanti musei, ci dicono di un percorso inesauribile che tenta di raggiungere l’indecifrabile, inesprimibile, segreto, spirito del tempo.

A partire dalle ore 21, sulla lunga facciata delle Procuratie Nuove, appariranno le poesie di 27 tra i maggiori poeti italiani, scolpite in altrettanti blocchi di marmo a forma di libro

to si è detto, anche con scarsa lucidità. E in questo agire c’è un ulteriore livello di rischio e di responsabilità e ciò appare l’elemento costitutivo forte dell’agire creativo, in uno slancio verso la libertà e la vita, frutto anche di una comunione di differenti sensibilità. Su questa installazione Sgarbi, curatore del Padiglione Italia della Biennale 2011, dice che Rotelli «crea un progetto opera che... (attua) una materializzazione della parola, una investigazione dell’arte sulla profondità, sulla necessità della poesia scolpita. L’intervento dell’artista presenta la parola nella sua dimensione materiale e immateriale, dalla pietra la parola di-


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