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mobydick

SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

di Mauro Canali embra proprio che gli storici debbano cominciare a prendere in seria considerazione l’ipotesi di anticipare, nelle loro ricostruzioni, la data d’inizio della cosiddetta «guerra fredda», che in genere si fa risalire alla tarda primavera del 1947, al discorso tenuto a Harvard il 5 giugno 1947 dal segretario di Stato americano Marshall, o tutt’al più, per quanto riguarda l’Italia, al viaggio di De Gasperi negli Usa nel gennaio precedente. Appare evidente, come alcuni recenti lavori avevano cominciato a suggerire, e ora come conferma anche il nuovo lavoro di Mirella Serri, I profeti disarmati (Corbaccio, 228 pagine, 18,00 euro), che anche il periodo dei governi ciellenistici, considerato un periodo di concordia nazionale, - fino a divenire una sorta di riferimento mitico a una «età dell’oro» in cui si seppellirono tutte le ragioni ideologiche che potessero turbare il clima collaborativo dei partiti usciti dalla Resistenza - fu, al contrario, una guerra fredda camuffata che in definitiva riproduceva le tensioni che, seppure ancora sotterraneamente, agitavano i rapporti tra i due più grandi paesi vittoriosi, l’Urss e gli Usa. In Italia, la posta in gioco era rappresentata naturalmente dalla conquista dell’egemonia politica. Il Pci, forte del prestigio che gli derivava dal ruolo svolto nella lotta al regime fascista e nella Resistenza per la liberazione del paese, e dall’autorevolezza che gli forniva il sostegno dell’Urss, a sua volta circondata da un indiscusso prestigio per il ruolo primario avuto nella sconfitta del nazismo, cercò, con una battaglia condotta su tutti i fronti, di assumere la leadership politica e sociale del paese, mantenendo strettamente legato al suo carro in posizione subordinata un Psi sin troppo remissivo. Così remissivo da far ipotizzare a estesi settori del suo gruppo dirigente la più o meno immediata fusione coi comunisti.

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Il libro di Mirella Serri su “Risorgimento Liberale”

Mario Pannunzio, Luigi Einaudi, Ernesto Rossi, Gaetano Salvemini, Nicolò Carandini, Mario Ferrara… Erano i “profeti disarmati” che diffusero un’idea nuova di democrazia: antifascista e anticomunista. Come piace a noi…

I NONNI DI LIBERAL 9 771827 881004

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ISSN 1827-8817

Parola chiave Peccato di Sergio Valzania Buena Vista Social Club dieci anni d’emozioni di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Il canto d’amore di Ungaretti di Leone Piccioni

La vera sfida dopo il Grande Crac Giancarlo Galli Dalla Baader-Meinhof all’Uomo che ama di Anselma Dell’Olio

Scoprendo in ritardo Mauro Manfredi di Marco Vallora


i nonni di

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liberal

segue dalla prima

pegnò in campagne di stampa contro la pretesa egemonica del Pci, che passarono anche per la deNel clima di collaborazione governativa coatta tra nunzia delle violenze che in periferia i dirigenti coi due grandi schieramenti usciti egemoni dalla munisti riservavano ai democratici antifascisti-anguerra, quello moderato cattolico raccolto attorno ticomunisti. La Serri esamina alcuni casi, come alla Dc e quello della sinistra social comunista, la quelli di Caulonia e Andria, dove venne condotta a «guerra fredda», come ci racconta Mirella Serri, ditermine da parte di gruppi di militanti comunisti vampò tra il 1945 e il 1946 in seno alla sinistra, douna sorta di mattanza ai danni di avversari politici ve il ruolo di guastafeste, di antagonista della di matrice democratica e anticomunista. Risorgi«chiesa» togliattiana, finì per svolgerlo un gruppo mento Liberale fu naturalmente puntuale nel depolitico, raccolto attorno al giornale Risorgimento nunciare tali violenze, spinte fino all’omicidio, attirandosi in tal modo l’odio dell’organo nazionale Liberale, che pur riconoscendosi in alcune ideeguida del partito liberale si collocava in una posidel Pci che gli riservò sempre un trattamento partizione che, prendendo a prestito la parola dalla tracolarmente livoroso. E quando il giornale liberale dizione politica americana, la Serri definisce libesposterà l’attenzione sulle violenze e gli illegalismi perpetrati dal Pci in Emilia, la regione considerata ral, cioè un liberalismo radicale molto attento alle il gioiello di famiglia del Pci, sarà lo stesso Togliatti questioni sociali ma nel contempo geloso custode ad affrettarsi a scrivere una lettera a Risorgimento del rispetto dei diritti individuali. Si teorizzava da Liberale, con cui cercherà di spiegare il fenomeno parte di Pannunzio e compagni una sorta di laburidell’illegalismo emiliano inserendolo ipocritamensmo all’italiana, in cui elemento decisivo per il sucte in un quadro più generale, addirittura europeo, cesso del progetto era l’incontro tra un laicismo dedi dilagante «brigantaggio». Risorgimento Liberamocratico antifascista-anticomunista e il Psi, che, le tuttavia non lasciava la presa e riferiva ai suoi letliberatosi dall’egemonia comunista, fosse disposto tori che gli assassinati nella regione ormai raggiunsenza riserve ideologico-politiche a difendere le Luigi Einaudi gevano l’enorme cifra di 1800, e che non era bastaistituzioni liberaldemocratiche. In Italia, ci racconcon un giovane to un successivo viaggio di Togliatti nella regione a ta il libro della Serri, questa corrente laica e antitoGianni Agnelli far cessare la mattanza. Il lavoro di Mirella Serri ha talitaria, che venne raccogliendosi attorno a Risorgimento Liberale, fondato da Pannunzio, asil merito di affrontare in modo specifico e rigoroso le vicende poco note di una corrente politica, di un sorbì il meglio di quella intellettualità che ritentava di elaborare per la bisogna gruppo di intellettuali democratici, laici, antifascisti e insiefiutando l’egemonia delle due «chiese» douna grottesca teoria della deconta- me anticomunisti, di cui in realtà s’era persa la memoria.Atminanti, il comunismo totalitario e il cosidminazione. Al riguardo la Serri, traverso le vicende di questo gruppo lo scenario naturaldetto clericalismo, si batté per l’affermazioforte del suo precedente lavoro I re- mente si amplia notevolmente e si finisce per ripercorrere ne di una componente di sinistra, laica, antitotalitaria e modernizzatrice senza per denti, cita Carlo Muscetta, transfu- un periodo breve ma molto significativo della nostra storia. questo passare necessariamente per l’espega di tre partiti (fascista, azionista e rienza che, seppure camuffata da «via italiarepubblicano) prima di approdare Per questo ci è parso fuori luogo il tono singolarmente na al socialismo», indicava il partito comual Pci, il quale definiva la conver- ostile della recensione che Massimo Teodori gli ha dedicanista decisamente volto verso Mosca. sione al Pci un «fatto morale, eti- to, pubblicata il 26 ottobre sul Sole 24 Ore. A suo dire era co», che purificava dalle scorie del- già tutto noto, come se il valore innovativo della ricerca Quali furono gli interlocutori naturali di le precedenti vite, e, soprattutto, storiografica si debba misurare sulla base dell’inedito e del Pannunzio e del Risorgimento Liberale? che trasformava i militanti in «uo- non detto, e non invece sul suo valore interpretativo. Nel Pannunzio indicava «come interlocutori lamini non qualunque». V’era nel muovere questo discutibile appunto Teodori butta lì, a titoburisti, cattolici, repubblicani e le forze di siteorema muscettiano, ispirato al lo di esempio, quattro opere tra loro disomogenee e solo nistra con cui ritrovava somiglianza di idee, romanzo resistenziale Uomini e no assai parzialmente dedicate alle questioni affrontate in a cominciare dai socialisti», che egli «ambidi Vittorini, implicita la definizione modo mirato e approfondito dalla Serri. Per la questione va come partner e li corteggiava, cercando opposta degli «uomini senza qua- della guerra civile spagnola Teodori va a scomodare niendi sciogliere quel legame di ferro siglato dal lità», cioè gli antifascisti che non si tedimeno che l’Orwell dell’Omaggio alla Catalogna, quanpartito di Nenni con il Pci». Risorgimento do in realtà la studiosa, mostrandosi più Liberale fu quindi un giornale antifusioniaggiornata del recensore, non solo si serve Il lavoro di Mirella Serri ha il merito di affrontare sta, che cercò di ostacolare il progetto nendi Orwell, ma, per fornirci una nuova chiain modo rigoroso le vicende poco note di un gruppo niano di fusione col Pci, e, nel contempo, e ve di letture di alcune vicende legate alla fidi intellettuali di cui s’era persa la memoria. più in generale, di opporsi al tentativo togura di Berneri e agli anarchici italiani nelgliattiano di «deglutire» le altre forze proE attraverso di loro, di ripercorrere un periodo breve la guerra civile spagnola, che si riverberegressiste per assicurarsi il monopolio delranno in qualche modo nella lotta politica ma molto significativo della nostra storia l’antifascismo e delegittimare l’anticomunidel nostro dopoguerra, si avvale anche del smo, che veniva dai comunisti sprezzantepiù recente lavoro di Gabriele Ranzato, mente equiparato alle simpatie per il passato regime.A que- riconoscevano nella ideologia comunista, quelli che, come nonché di altri studi, alcuni dei quali di autorevoli studiosi st’ultimo riguardo la Serri cita opportunamente il pamphlet gli intellettuali raccolti intorno a Risorgimento Liberale, In- stranieri. Teodori cita inoltre il lavoro di Nello Ajello sugli di Lucio Lombardo Radice, Fascismo e anticomunismo, con grao definirà in modo sferzante «ipocrite vestali della de- intellettuali e il Pci di diversi lustri fa, ma anche in questo cui si tentava di bollare come «fascisti» tutti gli oppositori mocrazia». Altrettanto sferzante si mostrava Pannunzio caso la Serri non solo si serve del lavoro di Ajello, ma lo indel comunismo. Per Concetto Marchesi, costoro, non solo i con i tentativi comunisti di imporre l’equazione anticomu- tegra con una serie di studi più recenti e da una puntuale democristiani ma anche i liberali di sinistra del Risorgimen- nismo=fascismo, cioè «di mettere nello stesso calderone li- disamina di non pochi quotidiani.Teodori poi conclude col to Liberale, e finanche i socialisti antifusionisti, erano con- beralismo e fascismo sotto lo specioso pretesto che sono sostenere che una grave mancanza dei Profeti disarmati siderati «fascisti con la maschera». Mentre si dava del fasci- tutti e due anticomunisti»; egli faceva ricorso a una felice sarebbe l’assenza in esso della parola antitotalitarismo sta ad autentici democratici, o a democratici con un tiepido metafora, spiegando che «argomenti di questo genere sono che, a suo avviso, la direbbe lunga sulla scientificità del lapassato fascista, si glissava naturalmente con grande disin- perfettamente identici a quelli dello zoologo che volesse so- voro, poiché la battaglia di Pannunzio e compagni sarebvoltura su tutti coloro, tra cui i moltissimi intellettuali con un stenere che essendo il cane e il topo entrambi nemici del be stata esclusivamente antitotalitaria. Ci sembra francapassato di entusiastica esaltazione del totalitarismo fasci- gatto, il cane è un topo». Risorgimento Liberale, che ebbe mente una considerazione del tutto speciosa e, per di più, sta, che avevano trovato una nuova e ospitale dimora nel- come «compagni di strada» personaggi come Gaetano Sal- non vera, poiché il lavoro della Serri, nel definire l’obiettil’organizzazione comunista divenendo, senza soluzione di vemini ed Ernesto Rossi, e come sponsor, Benedetto Croce, vo della battaglia pannunziana, non lesina certo riferimencontinuità, decisi assertori di un altro totalitarismo. Anzi si Nicolò Carandini, Mario Ferrara e altri illustri liberali, s’im- ti al comunismo totalitario.

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa a cura di Gloria Piccioni

Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento)

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ontro te, contro te solo ho peccato/ ciò che è male ai tuoi occhi l’ho fatto. Così recita il salmo 51, certificando un carattere dell’agire umano che per l’ebraismo, e per il cristianesimo, è scontato: la possibilità, forse l’inevitabilità, di peccare, di offendere Dio. La sensibilità moderna si è allontanata da questa consapevolezza. Si può persino dire che l’ha rifiutata. Lo stesso sacramento della Penitenza, o della Confessione, sembra appannato nella sua fruizione diffusa. La frequentazione dell’Eucarestia è un’esperienza più comune. Ma come pentirsi di qualcosa di cui non si riconosce più la colpa? Perché il problema sembra questo, la mancata ammissione di un torto fatto ad altri e prima ancora al Creatore stesso della realtà nella quale viviamo, della quale siamo parte. Eppure i fondamenti della percezione dell’errore non sono affatto scomparsi dal nostro sentire condiviso. Ciascuno di noi è disposto ad ammettere che nella sua esperienza di vita ha commesso degli errori, ossia che si è comportato in modo diverso da quello che reputa giusto. A questo sentire si affianca la convinta percezione dell’esistenza di una responsabilità nell’errore commesso. La carenza di informazioni, la stanchezza, lo scarso tempo a disposizione per assumere la decisione, la confusione nella quale si vive non appaiono giustificazioni sufficienti a liberare dalla responsabilità. Tutti siamo convinti che le nostre azioni non si compiano da sole, ma al contrario siano agite dagli uomini e che a essi siano richiesti l’attenzione e il rigore morale necessari per il loro corretto adempimento.

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L’esistenza del libero arbitrio ci si manifesta evidente: riconosciamo a ciascuno, anche se a livelli diversi e con effetti di intensità variabile, la possibilità di compiere scelte, di decidere fra più comportamenti possibili, uno solo dei quali migliore, giusto, e tutti gli altri, a decrescere, sempre più sbagliati. È vero che siamo meglio preparati a riconoscere l’errore, lo sbaglio, la malafede, la prevaricazione, l’interesse illegittimo, la decisione consapevolmente ingiusta nel comportamento degli altri piuttosto che nel nostro. Ma non si sfugge allo specchio del mondo. Se ogni giorno siamo capaci di individuare nelle azioni altrui l’uso improprio e colpevole della facoltà di decidere che ci è concessa, ossia il peccato, non dovrebbe essere difficile ribaltare uno sguardo altrettanto accorto sul nostro agire. In un contesto

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PECCATO È una dimensione inevitabile ma la sensibilità moderna si è allontanata da questa consapevolezza. Benché pronti a denunciare gli errori altrui stentiamo a vedere i nostri. Eppure riconoscendo la nostra condizione imperfetta lasciamo spazio alla speranza...

Il limite e la scelta di Sergio Valzania nel quale riconosciamo il peccato altrui siamo chiamati a cercare il nostro. Gesù espresse questo concetto parlando della trave nel nostro occhio e della pagliuzza in quella del vicino. Forse ciò che non vogliamo vedere, ammettere, non è l’atto, il peccato, quanto l’essere peccatore che costituisce la nostra condizione originaria e dalla quale discende la possibilità stessa di peccare. Eppure il legame fra libero arbitrio ed errore è radicato nelle nostre convinzioni sociali. I nostri tribunali non condannano gli animali, ma unicamente gli uomini, nella diffusa convinzione che solo questi ultimi siano dotati della possibilità di decidere di fare il male. A questo

me normali quelli che si presentano come gli insuccessi della vita. È l’uomo nella sua dimensione di peccatore che non consegue ogni obbiettivo sognato, che non vede soddisfatto ogni desiderio espresso. Se manca la consapevolezza del limite di una condizione imperfetta, ciascuna mancata acquisizione rappresenta una sconfitta irrimediabile. Quando non siamo più capaci di riconoscere i peccati contro Dio e contro l’ordine nel quale siamo collocati, ogni errore si rivolge senza nessuna mediazione contro chi lo ha compiuto e lo condanna senza remissione. Ci rendiamo conto solo allora, quando abbiamo il dono di riuscire a farlo, che la misericordia e la clemenza di Dio nei nostri confronti sono ben maggiori di quelle che noi stessi sappiamo accordarci.

L’uomo vorrebbe perdonare a se stesso ogni propria azione, ma non è capace di farlo per la semplice ragione che il perdono può discendere solo dall’amore, non dalla complicità colpevole. Inoltre la nostra percezione disattenta tende a confondere i peccati con gli insuccessi, con le occasioni perdute per conseguire risultati molto ambiti ma di per sé poveri di valore. Un insuccesso non ha bisogno di essere perdonato, può solo venire compianto, e rischia di trasformarsi in una sconfitta irreparabile se non lo si colloca all’interno di un itinerario capace di leggere l’accadimento in una prospettiva diversa da quella della semplice affermazione personale. Attraverso questa strada il percorso del peccato, del pentimento e del perdono si presenta come la via maestra, forse l’unica esistente, per uscire dal circolo vizioso del tentativo, dell’insuccesso e della conseguente frustrazione, al quale siamo condannati dalla pretesa di affermare nel mondo la nostra personalità attraverso i soli mezzi della dimensione individuale. Perciò non è tanto l’ammis-

Quando non siamo più capaci di riconoscere i peccati contro il Creatore e contro l’ordine nel quale siamo collocati, ogni sbaglio si rivolge contro chi lo ha compiuto. Senza nessuna mediazione. Solo allora ci rendiamo conto di quanto sia grande la misericordia di Dio punto il riconoscimento dell’esistenza di Dio e di un possibile rapporto con Lui costituisce il passo successivo e inevitabile per riconoscere la nostra condizione. Il salmo 51 prosegue, dopo i versi citati più sopra, con un’ammissione drammatica e definitiva: Ecco, colpevole sono nato/ peccatore mi ha concepito mia madre. Il passaggio logico è violento, la condizione di peccatore si colloca nell’unico luogo possibile, diviene infatti precedente, e non successiva, all’atto di peccare. Proprio il riconoscere la natura della dimensione esistenziale umana sembra costituire il vero problema della nostra società e della cultura che essa esprime. Né tale atteggiamento pare in grado di rappresentare o costruire un contesto liberatorio, capace di abbattere ansie, frustrazioni o incomprensioni. Infatti è solo il sapersi a priori limitati che permette di accettare co-

sione di un singolo e circoscritto peccato, dell’errore commesso in una determinata circostanza a fondare il pentimento, quanto il riconoscimento e l’accettazione come dono di Dio della condizione umana, della limitazione del nostro essere e del fatto che nella nostra esperienza ci dobbiamo continuamente confrontare con la trascendenza. In questo senso torna preziosa la riflessione kierkegaardiana per cui il peccato «cos’altro esprime se non che l’amore di Dio è sempre più grande del nostro amore?». Così il limite si ribalta nella speranza di un incontro con Chi da questo limite, da ogni limite, ci ha liberati con il suo amore e che ci aspetta con pazienza per accoglierci in una dimensione superiore, senza forzarci verso di essa, ma generoso della libertà che ci è concessa di scegliere a ogni passo dove mettere il piede.


musica Buena Vista Social Club MobyDICK

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cd

al Carnagie Hall dieci anni dopo I

l ritmo vellutato di Compay Segundo. I virtuosismi al pianoforte, in ossequio al jazz, di Rubén Gonzáles. La voce ammaliatrice di Omara Portuondo. Il canto cristallino di Ibrahim Ferrer. E poi Guajiro Mirabal, Orlando «Cachaíto» López, Eliades Ochoa… «Ho appena portato a termine la più grande esperienza musicale della mia vita», dichiarò Ry Cooder ai microfoni della Bbc. «Il miglior suono, i migliori musicisti oggi sul pianeta. Questa sì che è una session!». Nel 1997, il chitarrista americano riunisce un manipolo di cantanti e strumentisti. La loro età veleggia fra i 50 e i 90 anni. Pressoché sconosciuti nel resto del mondo, a

di Stefano Bianchi

Cuba sono glorie un po’sgualcite che avevano infiammato la leggenda del Buena Vista Social Club, il locale più famoso dell’Havana. Patriarca della loro musica quel nostalgico son scandito dal bongó e dalle claves, nato in campagna alla fine dell’Ottocento ed esploso negli anni Venti con il Trio Matamoros e il Sexteto Habanero - è Francisco Repilado, in arte Compay Segundo. Ry Cooder, produce loro Buena Vista Social Club: il disco di world music più amato e ascoltato di sempre, con oltre 8 milioni di copie vendute in tutto il mondo. Nel ’98, Cooder torna all’Ha-

in libreria

I PENSIERI DI DE ANDRÈ

vana. Stavolta c’è Ibrahim Ferrer ad attenderlo in sala d’incisione. E dietro alla macchina da presa c’è il tedesco Wim Wenders, che filma le innumerevoli sedute in studio e alcuni concerti dando vita allo struggente documentario che narra Cuba attraverso voci, sguardi, rughe e ricordi di Compay, Omara, Ibrahim, Rubén. Che avevano speso una vita intera a fare musica. E a meritarsi, dalla gente, un oceano d’amore. Fra i momenti più emozionanti del film, ci sono schegge dal concerto del 1° luglio ’98 alla Carnegie Hall di New York. Un misto d’incredulità, commozione, applausi scroscianti, entusiasmo. Quella performance, di nuovo prodotta da Ry Cooder che vi partecipa con l’inconfondibile suono della sua slide guitar, esce in un doppio cd, Buena Vista Social Club - At Carnegie Hall, impreziosito da un packaging con foto inedite e un lungo saggio compilato dal chitarrista e dai musicisti. E la magia, ovviamente, si rimaterializza in questa dolce, malinconica musica che prende a delinearsi con la famosa Chan Chan composta e inter-

mondo

pretata da Compay Segundo, per poi sfumare nel bolero del Silencio scandito da Ibrahim Ferrer. Fra le due canzoni, altre perle cubane d’inestimabile valore: da El Cuarto de Tula, a Dos Gardenias e all’irresistibile Quizás, Quizás; transitando lungo le melodie e gli effluvi ritmici di Orgullecida, Almendra, El Carretero, Candela. «Ascoltando per la prima volta in dieci anni i nastri del concerto - ha spiegato Ry Cooder - mi ha colpito la straordinarietà di quell’evento. Grandi artisti, vecchi maestri, sono riusciti a entrare nel cuore della musica raggiungendo livelli impossibili da eguagliare. È stato come se tutti i geni fossero usciti fuori dalla bottiglia. In un colpo solo».

Buena Vista Social Club - At Carnegie Hall, World Circuit/I.R.D., 24,90 euro

riviste

ALLE OLIMPIADI DEL ROCK (INGLESE)

OMAGGIO A LEONARD COHEN

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ieci anni sono un lasso di tempo più che sufficiente per dimenticare un artista. Se per Fabrizio De Andrè, scomparso l’undici gennaio 1999, si continuano a organizzare incontri, scrivere libri e filmare documentari viene da pensare che il cantautore genovese abbia vinto la sfida contro l’oblio. Ultima uscita a lui dedicata, in ordine di tempo, è Fabrizio De Andrè spesso mi ha fatto pensare, (Elèuthera, libro e cd,

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redevamo che alcune cose degli anni Settanta fossero definitivamente andate in soffitta, come gli eskimo e i jeans di tre taglie più stretti. Sembravano far parte di questa categoria anche i supergruppi, composti da musicisti diventati famosi con altre band. Invece il 2012 potrebbe vedere l’esibizione del più grande supergruppo che la storia del rock ricordi. Secondo il tabloid inglese

ettantaquattro anni sono una bella età per una rockstar, professione ancora da tutti considerata un affare da ventenni. Ma Leonard Cohen, che l’aria giovanile non l’aveva neanche negli anni Sessanta, sembra avere riscoperto proprio in questi anni uno splendore rinnovato. Dopo il tour di questa estate, che finalmente l’ha visto arrivare anche in Italia, Cohen viene ora omaggiato dalla rivista

Un libro accompagnato da un cd, dove l’artista genovese spiega il significato dei suoi testi

Svelato il progetto di Mick Jagger di aprire i Giochi del 2012 con un mega concerto di grandi big

“Mojo” gli dedica il numero con un reportage sulla sua vita segnata da ebraismo e buddismo

25,00 euro). Scritto dal giornalista Romano Giuffrida, il volume racconta come De Andrè sia riuscito a influenzare la sensibilità di generazioni di italiani con la forza suggestiva delle sue storie, animate da personaggi che la società ha sempre messo ai margini: prostitute, carcerati, nani, omosessuali, zingari e saltimbanchi. Una scelta che ha spesso allontanato il musicista dai suoi colleghi, impegnati a mettere in rima banalità sentimentali o slogan politici invecchiati malamente. Impedibile il cd che accompagna il libro: una serie di discorsi introduttivi con i quali De Andrè presentava le sue canzoni dal vivo, illuminando il pubblico sul vero significato delle sue parole.

The Sun Mick Jagger dei Rolling Stones starebbe meditando di inaugurare le Olimpiadi di Londra suonando dal vivo con David Bowie, Jimmy Page, Van Morrison, Phil Collins, Elton John, David Gilmour e addirittura Sir Paul McCartney. Pur ammettendo l’effettiva difficoltà realizzative di un concerto del genere, l’idea ha incuriosito parecchio l’opinione pubblica inglese, che si è dimostrata speranzosa di vedere un’apertura dei Giochi che non sfiguri di fronte al maestoso spettacolo offerto l’otto agosto a Pechino. Mettere in campo il meglio del rock inglese degli anni Sessanta potrebbe essere una risposta davvero spettacolare.

inglese Mojo, mensile curatissimo e un po’ snob, con la copertina del numero di novembre e un cd tributo registrato per l’occasione. A riverire l’artista di Montreal ci sono tra gli altri Martha Wainwright, gli Echo and the Bunnymen, Linda Thompson e soprattutto Nick Cave, che aprì il suo primo album da solista proprio con una rilettura di una canzone di Cohen. Nella rivista, oltre alla recensione dei suoi 15 album, trova spazio un ampio reportage di Sylvie Simmons, che ha cercato di raccontare una vita segnata da ebraismo, spiritualità buddista, amore per le donne e poesie inaspettatamente diventate canzoni.

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zapping

CHI PAGA CHI? Il Nokia di Britney di Bruno Giurato a questione sarebbe questa: «Chi paga chi?». L’argomento è il product placement, il procedimento con cui si piazzano i prodotti nei film, video eccetera, che una volta era considerato pubblicità occulta e ormai è un’attività legale in tutto il mondo. L’ultimo video di Britney Spears si intitola Womanizer. Bene, in Womanizer c’è una pubblicità della Nokia: nelle prime scene del video, oltre a una Spears ignuda, si vede un cellulare della casa svedese. Pubblicità occulta, ma dichiarata: viene inquadrato lo schermo del telefonino, e l’agenda degli appuntamenti segnala proprio una riunione per il product placement. E a questo punto nelle nostre menti malfidate si fa strada la domanda fatale: chi paga chi? Ovverosia, è la Nokia che paga Britney perché il cellulare stia nel video, o è la Spears che paga la Nokia perché le faccia da traino? Ora, la popstar americana viene da qualche annetto non esaltante: le droghe, i ricoveri psichiatrici, l’esibizione catastrofica (e cicciottella) al Grammy dell’anno scorso. Sappiamo anche che Britney, insomma, non è una cantante eccelsa (il critico Ashley Khan, che della Spears era stato tour manager, raccontò al sottoscritto che nei concerti la popstar aveva una corista nascosta che cantava le parti). E poi sappiamo che la Nokia va a gonfie vele, e che a farsi un giro al sabato per i centri commerciali i negozi di telefonini sono i più affollati, segno che le zone erogene dello spirito del tempo sono, canonicamente, nel mezzo e non nel contenuto. E insomma tira più un telefonino in salita che cento popstar (per quanto ignude) in discesa. E insomma per noialtri malfidati l’oggetto del product placement è la bella Britney.

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danza

jazz

Nel nome di Count Basie di Adriano Mazzoletti ercoledì prossimo, 5 novembre, inizierà la 32° edizione del Festival del Jazz di Roma, che - a onor del vero - non è la 32° bensì la 58° edizione. Infatti il primo Festival venne organizzato dal Jazz Club Roma il 30 novembre e il 1° dicembre 1950 al Teatro delle Arti «con un successo musicale e finanziario tutt’altro che trascurabile», riferivano le cronache di un’epoca in cui non esistevano sovvenzioni pubbliche. Concerti, festival e tournée venivano organizzati infatti dai Jazz Clubs che riuscivano a ottenere il tutto esaurito nei grandi teatri delle città italiane. Mercoledì prossimo dunque, Mario Ciampà direttore artistico del festival ormai da diversi anni, presenterà, alla Sala Sinopoli dell’Auditorium della Musica, il primo dei venti concerti in cartellone. Programma quest’anno assai migliore di quelli delle scorse stagioni, dove troppo spesso venivano presentati concerti di scarso interesse jazzistico. A inaugurare la rassegna sarà la Count Basie Orchestra che dal 1984, anno della scomparsa del leader, continua la sua esistenza. Nel corso di venticinque anni è stata diretta inizialmente da Thad Jones, successivamente da Frank Foster, in seguito dal trombonista Bill Hughes. Bisogna riconoscere a questa orchestra capacità superiori a quelle che hanno contraddistinto in passato le varie edizioni delle sopravissute orchestre Glenn Miller, Tommy Dorsey, Benny Goodman, Duke Ellington che alla scomparsa dei loro leader vennero sciolte dopo breve tempo per l’impossibilità e forse l’incapacità di ricreare sonorità e musiche ineguagliabili. A proposito di Basie è stata finalmente tradotta e pubblicata la sua autobiografia (Minimum Fax) ricca di aneddoti, storie straordinarie, raccontate con scrittura brillante, che percorrono giorno dopo giorno la vita di

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uno dei più grandi musicisti della storia del jazz. Fra gli altri appuntamenti della prima settimana del Festival, il concerto della cantante e chiTerez Montcalm tarrista canadese Tein concerto rez Montcalm (veneril 7 novembre di 7 Sala Petrassi) già ascoltata a Roma alla Libreria Feltrinelli dove ha illustrato il suo nuovo album, alla Casa del Jazz e al Blue Note di Milano. Presenterà Voodoo, il suo più recente lavoro e il primo cantato in inglese, dove però il voodoo è solo un pretesto. Le canzoni, nate sotto la guida del chitarrista Michel

Cusson, sono adattamenti in chiave semijazzistica di classici del rock, del pop e della soul music. Sabato 8 alla Sala Sinopoli, la Parco della Musica Jazz Orchestra dedicherà il suo concerto a Duke Ellington, mentre giovedì 13, sempre alla Sala Sinopoli, sarà di scena la Globe Unity Orchestra fondata quarantadue anni fa dal pianista tedesco Alexander von Schlippenbach.

L’anti-show dove batte il cuore della Romania di Diana Del Monte Bologna in questi giorni è arrivato un forte vento dall’Est. Nonostante le apparenze possano ingannare, non si sta parlando meteorologia, ma di un vento carico di creatività, di passione, di sperimentazioni, in una sola parola, di arte. Teatri di Vita, infatti, dopo la Cina (2005), l’India (2006) e la Turchia (2007), volge la sua attenzione alla Romania e invita il capoluogo emilianoromagnolo fino al 15 novembre a un viaggio alla scoperta del Cuore di Romania Festival internazionale di nuove scene, nuovi suoni e nuove immagini. Nel progetto sono state coinvolte le istituzioni rumene più prestigiose: il Teatro Nazionale di Bucarest, l’International Short Film Festival di Targu-Mures e il Cndb-Centro Nazionale della Danza di Bucarest, l’istituzione pubblica rumena (una delle più importanti dei Balcani) che si occupa dello svi-

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luppo della danza contemporanea in Romania. L’iniziativa ha ricevuto il plauso del presidente della Repubblica che in una lettera afferma come questo festival «attraverso un’articolata programmazione, offre l’opportunità di avvicinarsi ad alcuni dei più interessanti autori contemporanei di origine rumena e di conoscere molte delle recenti poduzioni artistiche del Paese, opere di grande rilievo nel panorama europeo e internazionale». Musica, letteratura, teatro, cinema ma soprattutto tanta danza per mostrare il lato creativo e magico di questo popolo balcanico al centro del panorama contemporaneo e per scoprire quanto la Romania moderna sia lontana dai nostri pregiudizi e ricca di talenti. La rasse-

gna che si sta svolgendo in questi giorni a Bologna, infatti, propone al pubblico italiano una interessante selezione di spettacoli di artisti rumeni impegnati nella sperimentazione teatrale. Se da una parte è risaputo che i paesi balcanici sono da sempre un’inestimabile riserva di cultura e tradizione anche se ultimamente è sempre più facile dimenticarselo - dall’altra l’aspetto interessante di questo festival è che Cuore di Romania ci permette di conoscere un gruppo di artisti contemporanei pressocché sconosciuti in Italia ma già considerati tra i più significativi a livello internazionale. Sul palcoscenico del teatro bolognese saranno presentati tutti spettacoli in prima nazionale alcuni dei quali hanno già

girato l’Europa riscuotendo grande successo. È il caso di You come to see the show and you’ll get an extra-burger! di Mihai Mihalcea che arriva da noi a quasi dieci anni dalla sua creazione e dopo essere stato in Francia, Olanda, Germania e Portogallo. Si tratta di un vero e proprio anti-show che il coreografo, che ne è anche l’interprete insieme a Mihaela Sirbu, modifica a ogni rappresentazione in base al pubblico e alla lingua del paese che lo ospita. Lo spettatore viene così invitato in un viaggio, che a tratti si fa ironico e sarcastico, nella memoria del coreografo che ripercorre i momenti della sua vita artistica, dall’anonimato al grande successo sui palchi internazionali. Un’ottima occasione per scoprire l’attuale complessità culturale di questa nazione.

Cuore di Romania - Festival internazionale di nuove scene, nuovi suoni e nuove immagini, Bologna, fino al 15 novembre


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narrativa

libri

Mordecai Richler L’umorismo yiddish colpisce ancora H di Pier Mario Fasanotti

a avuto una vita disordinata e difficile, ma ha sempre inseguito il sogno della scrittura. Mordecai Richler, diventato famoso anche in Italia per La versione di Barney, prende sempre le distanze formali dal suo innato autobiografismo, ma è chiaro che il mondo che descrive, quello di Saint Urbain Street, via del ghetto ebraico di Montreal, è proprio il suo, quello vissuto intensamente da ragazzo prima di respirare aria più culturale a Parigi, a Londra e in Spagna. Ha sempre snobbato le regole temporali a vantaggio di una scrittura mai imbrigliata da schemi ottocenteschi. Una prosa che risente molto del lavoro che lui fece come sceneggiatore. Anche in quest’ultimo breve romanzo, che in realtà è un intreccio di racconti. Molto simile al vocio che si sente dalla finestra o per strada. Non è un on the road, bensì un in the road: i personaggi non vedono scorrere la vita dal finestrino di un’auto o di un treno, ma se la trovano sotto il naso, la respirano, la condividono in una promiscuità a volte affettuosa a volte snervante, in ogni caso tale da elevare il quartiere, o ghetto, a universo intero. In St. Urbain Street non manca niente, per chi sa afferrare al volo. Tanto è vero che un uomo maturo stupisce il figlio quando gli dice: «Io non sono sempre stato tuo padre. Una volta ero giovane». È lo stesso uomo che prima accoglie con estrema diffidenza un giovane affittuario immerso nel fervore narrativo, poi s’identifica con i suoi sogni a tal punto da suggerirgli trucchetti per far soldi. Ecco, il tema dei soldi è tipico dell’ebraismo, lo sanno tutti. Richler lo rende architrave ironica, e nella sua

riletture

esistenza reale pagò questa libertà espressiva diventando bersaglio delle critiche dure degli ortodossi, così permalosi, talvolta ottusi. E a questo punto noi lettori ci poniamo un quesito: gli stereotipi ebraici sono esistenti al cento per cento o derivano anche, o soprattutto, da quel che si sente in giro sugli israeliti? C’è il dubbio che il «giudeo» s’arrenda al profilo che ne fanno i «gentili», o comunque lo esalti per una voglia intima e ossessiva di identità nazionale. Il risultato comunque è eccezionale nella pagina scritta, dove a vincere è sempre l’umorismo yiddish, corrosivo e profondo. Non battutelle scontatissime da saloon americano, ma frasi pronunciate a raffica che racchiudono la verità e il contrario di essa. «Il nostro mondo - scrive Richler - era rigidamente circoscritto. Fuori, dove mangiavano maiale verminoso, dove picchiavano la moglie come aperitivo, dove non gli importava un fico che i figli diventassero dottori, ci avventuravamo di rado, e sempre con timore. Il nostro mondo, con i suoi premi e castighi, era interamente ebraico». Per gli ebrei migranti il Canada era una specie di «migliore seconda scelta», un modo per sentirsi «quasi americani».Venditori ambulanti, camionisti, bottegai, tutti immersi nei loro racconti che, anche se di cinque righe, contengono un romanzo in nuce. I camionisti che danno «malinconiche pedate alle gomme», una donna d’origine russa che si compiace nel definirsi divorcée, quelli «delle vie di sotto che

sono sfiatati, debitori cronici, pidocchiosi, inquilini morosi» mentre «nelle strade di sopra» ci sono gli ambiziosi, «i maneggioni». C’è poi Molly che stuzzica gli uomini. Qualcuno si rammarica di non averla vista ieri. Perché ieri? Semplice: era una giornata ventosa e Molly portava le mutandine di pizzo. Mordecai Richler, Le meraviglie di St. Urbain Street, Adelphi, 152 pagine, 16,50 euro

Due diverse concezioni di libertà

di Renato Cristin eorg Simmel, di cui quest’anno ricorrono i centocinquant’anni dalla nascita, è una figura centrale della cultura contemporanea: fondatore - insieme a Max e Alfred Weber, Werner Sombart e Ferdinand Tönnies - della scuola sociologica tedesca, ispiratore della corrente filosofica nota come Lebensphilosophie (filosofia della vita), anticipatore degli studi di estetica sociologica e dei fenomeni microsociali. Per ampiezza di temi e prospettive, Simmel si avvicina alle figure di geni universali tipiche dei secoli precedenti, ma al tempo stesso, con la sua propensione per la critica e per il frammento, egli prepara pienamente la coscienza novecentesca. Non è tanto un sociologo, quanto piuttosto un filosofo della società, come dimostrano due sag-

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gi recentemente ripubblicati: quello del 1918 sulla crisi della cultura moderna, ristampato nella traduzione e con la postfazione del 1924 di Giuseppe Rensi; e quello su individuo e gruppo, ultimo capitolo della monumentale Sociologia apparsa esattamente cent’anni fa. La civiltà moderna è in crisi, dice Simmel, perché ha preso coscienza del conflitto tra la vita e la forma, tra l’incessante scorrere della vita in quanto processo universale umano-planetario e le solidificazioni delle strutture organizzative delle società storiche. La coscienza moderna non può più riposare su visioni del mondo tranquillizzanti ed è costretta ad accettare la conflittualità tra queste due polarità. In uno spazio meno astratto qual è la sfera etico-affettiva, la contesa tra vita e forma si configura come «lotta tra l’individualizzazione e l’universalizzazione». Critico del razionali-

smo moderno e del trascendentalismo kantiano, Simmel teorizza l’irriducibilità della vita alla ragione e opera nello spazio di confine fra l’intima irrazionalità dell’esistenza e la costitutiva ragionevolezza dello spirito umano. Portando alla luce «il tragico conflitto della vita come spirito», egli sancisce «l’allontanamento dalla classicità» in quanto «impero della forma». Ma lo scontro fra queste due dimensioni non è un fronteggiarsi statico, bensì una dialettica: la vita «sospinge a mutamenti di civiltà», porta «alla creazione di nuove forme adatte alle forze attuali», che risolvono un problema creandone un altro, che sarà a sua volta all’origine della forma successiva. La vita è dunque «una lotta in senso assoluto», perché «racchiude in sé il contrasto relativo di guerra e pace, mentre la pace assoluta rimane il segreto divino».

Partendo dalla tesi che «i poli metodologici dello studio della vita umana restano l’umanità e l’individuo», Simmel elabora una teoria dell’individualità che sarebbe oggi assai utile sia per declinare i principi morali universali sul piano dell’individuo concreto, sia per difendere la dignità della persona. La sua teoria della relazione reciproca fra «individualismo quantitativo» e «individualismo qualitativo» offre infatti la soluzione a uno fra i principali nuclei di tensione della civiltà occidentale contemporanea, cioè alla polarità fra la dimensione individuale e quella sociale, ai cui apici corrispondono, com’è evidente, due diverse concezioni della libertà. Georg Simmel, Il conflitto della civiltà moderna, Edizioni SE, 73 pagine, 11,50 euro; Individuo e gruppo, Armando Editore, 159 pagine, 12,00 euro


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scenari

La Superclass che ha in mano il mondo emocrazia uguale oligarchie organizzate. L’equazione non è affatto inedita. Senza scomodare i classici del pensiero occidentale, e volendo rimanere nel recinto italiano dell’ultimo mezzo secolo, basta accennare a Panfilo Gentile, che alla fine degli anni Sessanta scriveva già di «democrazie mafiose, rappresentate da quei regimi che, nel quadro delle istituzioni democratiche tradizionali (volontà popolare, governo rappresentativo, accettazione delle decisioni di maggioranze e rispetto delle minoranze) riescono a esercitare il potere e a conservarlo attraverso il sistematico favoritismo di partito». Gentile, va da sé, non è stato l’unico a denunciare il feticcio democratico. Il terreno è dunque già arato, ma ciò non vuol dire che su elitarismo e gruppi di potere sia stato detto tutto, anche perché la questione va aggiornata di decennio in decennio. L’ultimo contributo arriva così da oltreoceano e porta la firma di uno dei più stimati esperti di relazioni internazionali. Si chiama David Rothkopf ed è stato consigliere per il commercio estero durante la presidenza di Bill Clinton. Superclass (traduzione di Valeria Cardano) è l’affresco più aggiornato delle nuove élite mondiali. Donne e uomini (ma soprattutto uomini) capaci di «esercitare un potere di gran lunga superiore a quello di qualsiasi altro gruppo sociale. I membri di questa superclass sono in grado di influenzare con conti-

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di Filippo Maria Battaglia nuità le vite di milioni di persone in vari paesi. Esercitano attivamente tale potere e spesso lo accrescono attraverso le relazioni con gli altri membri delle élite». A comporre il gruppo, che nonostante i tentativi di auto-conformismo continua a essere piuttosto eterogeneo, sono per lo più «capi di Stato, alti dirigenti delle più importanti multinazionali, magnati dei mass-media, miliardari che gestiscono personalmente i propri investimenti, imprenditori nel settore delle tecnologie, potentati del

società

petrolio, gestori di hedge funds, investitori in private equità, comandanti militari di alto rango, qualche capo religioso, qualche scrittore noto, scienziati, artisti e persino leader terroristi e maestri del crimine». I nuovi boss globali amano ritrovarsi alla Trilateral Commission, o nel Bilderberg Group, un club iper-esclusivo che funziona solo a inviti e che non accetta visite indiscrete di reporter, ma solo qualche big della carta stampata, come il liberal Thomas L. Friedman, uno dei pesi massimi del New York Times. Quanto alla composizione geografica del club più ambito al mondo, non mancano le sorprese: da qualche anno, molti dei suoi componenti parlano anche mandarino e cirillico, sebbene l’inglese resista ancora quale lingua dominante. La cifra del successo non è poi tanto data dalla proprietà, quanto soprattutto dall’accesso. «La sua importanza - scrive Rothkopf - deriva dal fatto che il tempo è l’unica cosa che né il denaro né il potere possono comperare. Considerati i limiti di tempo, la grande influenza esercitata o gli interessi di portata internazionale, ogni decisione riguardante la gestione del tempo diventa cruciale». Ma solidarietà e (talora) intimità non nascono esclusivamente da una oculata gestione della propria immagine. Tra i componenti c’è infatti «la diffusa sensazione che gli incontri tra i pari di un’éli-

te siano più utili perché pochi altri possano capire la posizione in cui si trovano questi leader. Gli assistenti più vicini a Bill Clinton raccontavano che, con il passare del tempo, l’ex presidente era entrato in confidenza con altri leader come il britannico Tony Blair o il russo BorisYeltsin perché erano gli unici in grado di comprendere i problemi che doveva affrontare. A differenza del suo staff e del suo entourage, che nella maggior parte dei casi avevano bisogno della sua autorizzazione per fare qualcosa, questi pochi uomini e donne diventavano interlocutori stimati e a volte, come nel caso di Blair, confidenti». Per entrare a far parte della congrega, le regole, a quanto pare, sono otto. Innanzitutto: nascere uomo. Le donne, ancora oggi, sono scarsamente rappresentate e superano di poco quota sei per cento. Avere poi un’età compresa tra i 55 e i 60 anni, essere nato tra il Nord America e l’Europa (anche se, come abbiamo detto, l’ingresso degli asiatici sta crescendo esponenzialmente), frequentare un’università elitaria, entrare nel mondo degli affari e della finanza e avere una base di potere istituzionale. Resta, solitaria e decisiva, l’ottava virtù: essere fortunati. Difficile da coltivare, scrive Rothkopf, ma sembra proprio essere una quantità necessaria. Dalla democrazia mafiosa di Gentile siamo così passati alla democrazia della cabala. E non è affatto detto che il passaggio sia stato virtuoso. David Rothkopf, Superclass, Mondadori, 480 pagine, 19,00 euro

Napoli (e il Sud): un’idea andata in frantumi o stereotipo napoletano - questo è il paese del sole, del mare, dell’amore e delle virtù genuine del popolo - e il mito del multiculturalismo si sono incontrati a Napoli e subito si sono piaciuti, tanto da diventare il più potente «paradigma della nuova politica»: il bassolinismo. Questo è in sintesi il significato di un libro su Napoli e il Mezzogiorno scritto da Adolfo Scotto Di Luzio: Napoli dei molti tradimenti . Se ne consiglia vivamente la lettura. Per un motivo semplice: perché sono centoventi pagine che fanno capire come proprio qui, a Napoli, la politica che è stata indicata virtualmente come la Grande Rinascita sia invece realmente la Grande Assente. Lo lascio dire a Scotto: «Nuovo è parola chiave per comprendere molto di quello che è successo a Napoli (e forse anche al Sud) in questi anni. Ora, ci sono due modi di produrre il nuovo nella vita di una comunità: o si cambiano le condizioni di esistenza di quella comunità; oppure si

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di Giancristiano Desiderio manipolano i segni. A Napoli è stata scelta questa seconda strada». Un tema, questo della manipolazione della realtà/verità, che salta fuori inevitabilmente ogni qualvolta qualcuno si occupa della recente storia napoletana senza i paraocchi della storiografia di partito. Il libro di Scotto, però, come detto, attraverso Napoli parla anche del Mezzogiorno di cui nessuno ormai parla più. Perché? In fondo, dai voti delle regioni meridionali dipendono i destini dei governi nazionali; nel Meridione si maneggiano trasferimenti, fondi, finanziamenti che avrebbero fatto la fortuna di qualunque altra area mediamente avanzata dell’Europa. Scrive Scotto: «Se il Sud non produce figure di rilievo questo accade soprattutto perché il Sud ha smesso di pensarsi come tale, in termini unitari, all’interno di un contesto più generale che si chiamava ed era

la costruzione della nazione». Non solo nella politica, ma anche nella letteratura, nelle scienze sociali «l’immagine del Sud è stata intenzionalmente mandata in frantumi». Se Napoli è una città mascherata, il Sud è una terra senza rappresentazione. L’assenza del Mezzogiorno nel dibattito sul federalismo è quanto mai sintomatica. Morale: a Napoli e nel Mezzogiorno ricominciare dalla politica non basta. Occorre recuperare un universo di discorso che abbia senso e che non scambi intenzionalmente la verità con la menzogna. Se la parola non suonasse vuota direi che bisogna ricominciare dalla cultura. Ma «questa famosa cultura è poi sempre e immancabilmente un cantante che canta una canzone. O un film». Diciamo allora che bisogna ricominciare dalla «critica». Adolfo Scotto Di Luzio, Napoli dei molti tradimenti, Il Mulino, 120 pagine, 10,00 euro

altre letture Alexis de Tocqueville rappresenta un classico del pensiero politico: Un ateo liberale. Religione, politica, società (edizioni Dedalo, 346 pagine, 20,00 euro) è il volume, curato da Paolo Ercolani, che per la prima volta in italiano raccoglie la summa degli scritti sulla religione del pensatore francese, in particolare sulla religione cristiana. Tocqueville non dimentica mai il contesto storico, inserendo le proprie considerazioni all’interno di eventi fondamentali della storia moderna: il colonialismo, la Rivoluzione francese, la Restaurazione, l’evento rivoluzionario del 1848 e la Repubblica romana. Sono presenti anche le profonde riflessioni dell’autore sulla questione della certezza o del dubbio, sul rapporto tra fede e ragione e sul ruolo che la Chiesa deve ricoprire all’interno degli Stati liberali. Le Centurie di

Nostradamus fanno da secoli la gioia degli enigmisti, la disgrazia di interpreti incauti e la fortuna di alcuni esegeti. Misto di immagini folgoranti, simboli arcani e allusioni sfuggenti, formano un insieme in apparenza inestricabile con diversi livelli di comprensione possibile. Al di là di tutto questo resta però vero che le centurie trasmettono pure al lettore più scettico e prevenuto un’inquietudine sottile e persistente, che è diventata anche più penetrante in questi anni tempestosi e che è impossibile ridurre a semplici meccanismi razionali. Per questo Pierre Emile Blairon, studioso di mitologia e filosofia orientale, dedica un saggio al profeta rinascimentale: Nostradamus (Edizioni L’Età dell’Acquario, 204 pagine, 16,00 euro).

Qual è il senso dei sensi? Perché ogni civiltà sviluppa una cultura differenziata (delle immagini, dei suoni, delle parole, del contatto?). Che importanza dare ai diversi volti del mondo? Fin dove riusciamo a tradurre un senso in un altro, a sostituire una parola con un grafico, a dire un sapore, un colore? Rispetto ad altre filosofie del corpo novecentesche la novità che fa di Antropologia dei sensi di Helmuth Plessner (Raffaello Cortina editore, 123 pagine, 11,00 euro, ) sta nel fatto che prende sul serio la varietà dei nostri sensi.


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anticipazioni

IL MONDO FONDATO SUL MITO DELLA FINANZA COME MOTORE DEL PROGRESSO È CROLLATO. E DOPO UN CARNEVALE DOVE TUTTO SEMBRAVA PERMESSO È INIZIATA UNA LUNGA QUARESIMA. COM’È POTUTO SUCCEDERE? A CHI ADDEBITARE LE RESPONSABILITÀ? LE RISPOSTE NEL LIBRO “NELLA GIUNGLA DEGLI GNOMI”. NE PUBBLICHIAMO UN BRANO…

La vera sf s

di Giancarlo Galli erragosto 2008. Claudio Magris, eminente letterato triestino di scuola mitteleuropea, si concede uno sfogo sulla prima pagina del Corriere della Sera con una sferzante denuncia: «Vivo in un paese dove nessuno esce di scena». Sono in vacanza sulla Costa Azzurra. A Saint-Tropez, place des Lices, sempiterno regno dei giocatori di pétanque, può accadere d’imbattersi in Jacques Chirac. Lasciato l’Eliseo dopo dodici anni di «monarchia repubblicana», non c’è fotografo che l’insegua. Un’anziana signora gli vuole stringere la mano. Si concede con un sorriso tirato. À chacun son temps, sussurra. Già. In Usa Bill Clinton è rimasto sulle pagine dei giornali solo per via della consorte Hillary, al pari dell’inglese Tony Blair e dello spagnolo José Aznar. E che ne è del mitico cancelliere tedesco Helmut Kohl, artefice della riunificazione? Ecco una proposta di riflessione sul perché l’Italia fatichi, al di là degli alti e bassi della congiuntura economica, dell’alternarsi di maggioranze più di opportunismo tattico che davvero politiche (cioè dotate di idee e programmi), a divenire un paese normale. Dove per «anormalità» s’intende quel concetto cui faceva riferimento Claudio Magris: l’ostinarsi a restare sulla scena, nonostante gli errori, le sconfitte.

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Il campionario che ci offre la classe politica è sotto gli occhi di tutti. Eterna, immutabile nel suo trasformismo, tant’è che le anime rimaste candide si chiedono in cosa differisca il centrodestra dal

chiararsi su un versante «indipendenti dalla politica» (mentre in realtà menano i politici per il naso); fautori e paladini di un bene comune, di un interesse nazionale, di una difesa del risparmio che li terrebbe svegli anche la notte (mentre, dopo avere tosato, si gratificano anche quando sbagliano). E che dire delle rivalità e delle ambizioni che via via si manifestano? «È un gioco a saldo zero. Tutti a scannarsi o a fingere… Chi perde può retrocedere, ma torneranno alleati a seconda delle convenienze. Proprio come in politica», si confida, anonimato oblige, un gran finanziere, fresco reduce da un tour americano. «In Usa i boss sono saltati uno dopo l’altro, lo stesso in Svizzera, in ogni parte del mondo. Da noi…».

La rivisitazione di un’Italia «Repubblica fondata sulle banche» è iniziata con la fine dell’era Fazio, nell’ormai lontano inverno del 2005, quando tutto il «sistema» pareva alla vigilia di una rivoluzione con l’arrivo di Mario Draghi. Ora, Bruno Tabacci sostiene che «è in corso un’enorme partita di potere, sì interna all’establishment bancario, ma che avrà ri-

C’è da augurarsi che dopo il crollo borsistico dell’autunno nero non ci sia chi, uscitone indenne, sia pronto a ricominciare una volta passata la tempesta. Occorre frenare la dissennatezza consumistica e ristabilire i termini dell’economia reale centrosinistra. Può Silvio Berlusconi essere considerato un «liberal» o non è piuttosto un aspirante al monopolio della politica (con l’occhio puntato sul Quirinale) e al controllo dei mass media? Sono «di sinistra» un D’Alema o un Veltroni? È «di destra» il doppiopetto dell’ex missino Gianfranco Fini? Vogliamo veramente accreditare di pulsioni rivoluzionarie il leghista Umberto Bossi? In realtà, siamo alla logica del Gattopardo: fingere di cambiare, affinché tutto resti come prima. Come sempre. In un moltiplicarsi di oligarchie, confraternite autoreferenziali: dai cattolici «buonisti» ai sindacati che s’atteggiano a paladini della socialità. Il «sistema bancario-finanziario», che è stato al centro della ricostruzione cronistica, riflette perfettamente le ambiguità dominanti. E al cronista che ha tentato di raccontare fatti e misfatti non resta che trarre qualche provvisoria conclusione, constatando senza giudicare (come invece è spesso nella moda dei tempi), allorché i media su ispirazione della «voce dei padroni» imbastiscono processi sommari in attesa di quelli veri che la Giustizia non è in grado di celebrare con la tempestività necessaria. Una premessa che ritengo doverosa affinché il lettore non sia tratto in inganno: al narratore, nessuno si scandalizzi, i banchieri italiani risultano al tirar delle somme, piuttosto simpatici. Non fosse altro per quella loro mondana improntitudine a di-

dal 6 novembre in libreria Il crac Parmalat, lo scandalo Fazio, l’alleanza tra la rossa Unipol e «i furbetti del quartierino», la guerra dei cent’anni tra finanza cattolica e finanzia bianca, la lotta tra Milano e Roma, la «difesa dell’italianità», Bazoli, Profumo e la grandi concentrazioni bancarie, il misterioso omicidio del finanziere Roveraro, il ruolo di Prodi e le ambizioni degli altri, la resurrezione della Fiat, Bernheim, Bollorè e la grande partita italo-francese delle Generali. Vicende complesse che hanno inevitabili ricadute sui nostri risparmi e che hanno contribuito a cambiare gli assetti di potere in Italia. Vicende con risvolti appassionanti come spy story che Giancarlo Galli , economista, autore di numerosi saggi e collaboratore di liberal, ricostruisce nel libro Nella giungla degli gnomi. Politica, economia & finanza dall’era Fazio al «grande crac», in libreria dal 6 novembre, edito da Garzanti (320 pagine, 18,60 euro). Nel tentativo di favorire un orientamento nella palude in cui ci ritroviamo, dove è sempre più difficile individuare vincitori e vinti.

cadute sull’intero paese, poiché le banche sono padrone di tutto» (Bruno Tabacci, conversazione con l’A., 8 settembre 2008, n.d.A.). «Fazio pensava di essere il regista, o almeno così pretendeva, ma in realtà a dare le carte, da anni, sono stati in due: Bazoli, col suo sodalizio con Prodi; Geronzi, in una micidiale complicità di potere con Berlusconi. Entrambi raffinatissimi politici piuttosto che banchieri in assoluto.

Sappiamo chi ha vinto… Geronzi sta costruendo un blocco di potere, da Mediobanca sino alle Generali, condizionando anche l’editoria, i giornali. Talvolta prepotente, ha stretto un patto di ferro col superministro Giulio Tremonti, colbertista e quindi centralista». Il «domani» tratteggiato da Tabacci, cui viene riconosciuto un acume particolare, prevede il formarsi di un «sistema» (termine caro a Geronzi) «bancocentrico», egemonizzato appunto dal ban-


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sfida dopo il Grande Crac re di fronte all’aggravarsi della crisi economica, ai problemi di politica estera. Mai dimenticare l’opportunismo tattico dell’establishment, con tantissimi che hanno fatto il salto della quaglia, da Prodi e il centrosinistra a Berlusconi. Un esempio è lo pseudo-salvataggio di Alitalia». E i banchieri? Tabacci s’incupisce. «Torno a ripetere: sia Bazoli sia Geronzi hanno svolto un ruolo essenzialmente politico, ciascuno scegliendo il proprio carro. Geronzi più astuto, Bazoli uomo di grande rigore personale. Vi sono tuttavia altre figure importanti, capaci. A cominciare dal governatore Mario Draghi; poi Alessandro Profumo, nonostante le difficoltà di Unicredit e Corrado Passera, uno che sa costruire e ora lavora in proprio…».

Nessuno della triade disponibile a genuflessioni nei confronti di Cesare Geronzi. Con insistenza, corre voce che Draghi, insoddisfatto dell’aria che tira, miri a un primario incarico internazionale (si sussurra la Banca Centrale Europea, al fianco di Jean-Claude Trichet) e che Corrado Passera, considerata l’anagrafe di Bazoli, punti diritto alla leadership di Intesa-San Paolo mettendo a profitto il personale investimento sull’operazione Alitalia, nonostante le reticenze del dominus. E Alessandro Profumo? Bruno Tabacci si

però la riorganizzazione della governance di Mediobanca. Se Profumo riesce a impedire che Geronzi assuma in sé tutti i poteri, deve tuttavia accettare l’ingresso di Marina Berlusconi, la brava, grintosa, prediletta primogenita del Cavaliere. L’unico ad alzare la voce è Walter Veltroni: «Viviamo un tempo che ha in sé gravi rischi. Se non ci sarà una sufficiente controreazione rischiamo di veder realizzarsi anche in Italia il modello Putin. È il rischio di tutto l’Occidente. Una democrazia sostanzialmente svuotata. Una struttura di riorganizzazione del potere che rischia di apparire autoritaria. Il dissenso visto come un fastidio di cui liberarsi» (Cfr. Walter Veltroni, intervista ad Aldo Cazzullo, Corriere della Sera, 28 settembre 2008). Già. Ma Veltroni fatica a ricordare la sconfitta elettorale, la debolezza congenita del centrosinistra che pure è stato per anni al governo, l’incapacità di dare fiducia al paese. Intanto, come nel 1929, una tempesta economico-finanziaria sta sconvolgendo il mondo. Che il capitalismo sia in difficoltà è certo, ma, allora come oggi, lo sbocco potrebbe essere individuato più che in scelte keynesiane (una intelligente presenza dello Stato nell’economia), in «politiche forti» in grado di diffondere sicurezza. E chi meglio di Berlusconi? Quindici anni fa, allorché alla vigilia del suo ingresso nell’agone elettorale, andò a fare visita a Enrico Cuccia, il sommo gnomo lo definì «un teatrante». Adesso, oltre al Parlamento, controlla l’in-

Dice Bruno Tabacci: «È in corso un’enorme partita di potere interna all’establishment bancario, ma che avrà ricadute sull’intero paese, poiché le banche sono padrone di tutto... A dare le carte, da anni, sono stati in due: Bazoli e Geronzi»

Da sinistra, in senso orario, Giovanni Bazoli, Cesare Geronzi, Alessandro Profumo, Corrado Passera e Mario Draghi

chiere romano installatosi a Milano, piazzetta Cuccia. In sintonia con i progetti che vengono attribuiti a Berlusconi: modifiche costituzionali per arrivare al Quirinale attraverso un’elezione diretta del presidente della Repubblica. Quanto alla successione del Cavaliere a Palazzo Chigi, corsa a quattro tra Gianfranco Fini, il sindaco di Milano Letizia Moratti e il favorito del momento, Giulio Tremonti. Nonché l’abilissimo e infaticabile Gianni Letta.

Fantapolitica? «Non tanto, a meno che qualcuno si risvegli», sostiene Tabacci aggrottando le ciglia. «In questo momento il berlusconismo appare invincibile, ma l’umore degli italiani potrebbe muta-

sbilancia: «È un uomo con valori umani straordinari. Un banchiere che sa leggere i numeri. Con una rara visione degli scenari internazionali». Però Geronzi lo ha messo sotto scacco. Lo hanno messo nelle condizioni di dover aggregare a Unicredit la Capitalia geronziana. Un po’ come accoppiare un purosangue e un cavallo azzoppato, e ha ceduto. «Profumo venne convinto da Draghi nel periodo in cui Geronzi era nel mirino della magistratura, ma Geronzi è riuscito a dribblare ogni ostacolo… Deve però confrontarsi con Profumo: Unicredit pesa molto nell’azionariato di Mediobanca e ha la possibilità di coagulare consensi, sbarrargli la strada…». Quasi un appello resistenziale. «In un certo senso. Se vogliamo impedire l’installarsi di un regime politico-bancario, un po’ di resistenza può servire al paese. Anzi, è indispensabile». Così Bruno Tabacci, congedandosi con una battuta finale: «Altrimenti Berlusconi si prenderà tutto». Nelle settimane che seguono Berlusconi, costretti alla resa i sindacati, può proclamarsi «Salvatore di Alitalia». Successo innegabile l’avere fatto decollare la Compagnia Aerea Italiana di Roberto Colaninno, sebbene a regolare i debiti e gli oneri per il personale da mandare in cassa integrazione sarà lo Stato, cioè gli italiani. Il colpo più grosso è

tero sistema economico-finanziario, Mediobanca inclusa. Gli aerei della Nuova Alitalia torneranno a volare in orario, caimani e predatori della giungla paiono addormentati. E se la Provvidenza concederà lunga vita al Cavaliere…

Breve e doverosa conclusione. Realista, non moralista. Il mondo «fondato sulle banche», sul mito della finanza come motore del progresso, ha fatto crac. E il crollo borsistico dell’«autunno nero» lo dimostra. Mettendo in crisi anche figure che parevano mitiche. Dopo un Carnevale durante il quale tutto pareva permesso, è iniziata una lunga Quaresima. Quanto durerà nessuno può dirlo; e chi pretende di sapere, farebbe meglio a tacere, considerati gli errori commessi. Le colpe non vanno però addebitate solo agli gnomi. A ben vedere, essi non hanno fatto che assecondare la generale dissennatezza consumistica: vivere a credito, al di sopra delle proprie possibilità. Accettando il dogma diabolico del primato della finanza sull’economia reale, il lavoro. Il problema è politico, di giustizia: a pagare il conto oltre alla gente comune, eterni pinocchietti, saranno anche i gatti e le volpi che spesso hanno illuso sapendo di illudere, oppure Qualcuno, come d’uso, ne uscirà indenne, pronto a ricominciare a tempesta passata? È questa la vera sfida che ha di fronte, se vuole continuare, il moderno capitalismo.


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di Pier Mario Fasanotti

igi Marzullo è bravo. Per diversi anni in molti hanno dubitato. Anzi, lo hanno preso in giro. Quando è stato poi nominato capo-redattore del settore cultura della Rai, qualcuno ha messo in dubbio la sua competenza. Come dire: ma come, un uomo che è più a suo agio nella comicità (involontaria) ora si interessa dei grandi temi della mente? I soliti pregiudizi, gonfiati da anni in cui Marzullo non riusciva a staccarsi dal programma notturno in cui sottoponeva a una sorta di terzo grado, gioioso e talvolta stucchevole, l’ospite di turno. A me risulta che all’inizio qualche vip delle lettere o dello spettacolo si ponesse il seguente quesito: sì, è vero, andare in tv è sempre utile per la visibilità, però da Marzullo c’è il rischio di apparire ridicoli? A poco a poco l’interrogativo è scomparso. A parte le domande di rito, un po’trite perché ossessivamente ripetute, Marzullo riesce a far da levatrice e delinea bene i contorni della personalità che gli sta davanti. Operazione opposta rispetto a Parla con me (Rai 3) dove Serena Dandini e company paiono spesso come coloro che se la cantano tra di loro (metafora televisiva della sinistra?). A Tg Notte-Le idee (Rai 1), ovviamente sempre sul tardi - il profumo di cultura è quello della notte - Marzullo afferra un tema, invita ospiti e li intervista senza mai perdere il filo conduttore. La sua è l’unica trasmissione di libri degna di questo nome, dopo tanti aborti e fallimenti (in primis l’autoreferente Giovanna Zucconi). La riuscita deve essere letta nella semplicità: lui si pone come interrogatore di persone, le fa parlare, quasi mai incrocia la sua voce e il

games

suo pensiero con quelli espressi in studio. Non si sovrappone. Nemmeno con una smorfia del viso. È un Buster Keaton. A beneficio di ciò che il telespettatore vuol sentire. In una delle ultime trasmissioni, ha avuto come ospiti lo psichiatra Massimo Ammaniti, la narratrice Francesca Sanvitale e il filosofo Giacomo Marramao. Il tema o, come si dice, il filo rosso che univa gli interventi, è stata la verità. Lo spunto proviene dal romanzo della Sanvitale (L’inizio è in autunno, Einaudi) e dal saggio di Marramao (La passione del presente, Bollati Boringhieri). Ammanniti, bisogna ammettere, c’entrava poco. Tuttavia, con qualche forzatura, ha introdotto l’argomento della verità vista dalla madre (Pensare per due, Laterza). E l’amo è stato afferrato immediatamente, diventando prologo al nocciolo concettuale della trasmissione. Ammaniti sostiene da anni che fare un figlio è come innamorarsi, un’esperienza che travolge tutto e privilegia l’intreccio di sguardi tra donna e neonato. C’è qualcosa di molto romantico in questa interpretazione, che altri studiosi contestano rifiutando questa specie di fondamentalismo psichico che, di fatto, pare escluda il disagio e, soprattutto, l’ambivalenza che c’è nel rapporto madre-figlio. Abituati alle scemenze televisive, anche lo spettatore mediamente colto con Marzullo ha la soddisfazione di capire ciò di cui si va parlando. Frasi profonde dette semplicemente. Schiaffeggiati da programmi come L’isola dei famosi apice della banal-volgarità di oggi è come uscire da una stanza puzzolente e respirare una boccata d’aria fresca e pulita. Non è poco. È semplicemente raro.

dvd

LA CASSETTA CORRE IN RETE

COMBATTERE A BERLINO E NEL PACIFICO

QUEL TRENO PER DARJEELING

A

nche se tutti, volenti o nolenti, ci siamo arresi all’affermazione della musica digitale e dell’i Pod, che infila in un apparecchietto di sei centimetri quadrati svariate centinaia di dischi, il fascino di certe abitudini non è svanito. Per i nostalgici delle vecchie compilation registrate su cassetta, canzone dopo canzone, è nato Mixwit, geniale progetto online che promette di riconci-

I

l fascino degli zombie continua a fare proseliti. Dopo Grand Theft Auto è la volta di Call of Duty: World at War, ultimo capitolo della saga interamente dedicata alle battaglie più famose della seconda guerra mondiale. All’interno del gioco sarà possibile attivare una modalità nella quale ci si troverà a combattere con soldati nazisti uccisi e misteriosamente riportati in vita. L’opzione è comunque un bonus da

L

Nasce “Mixwit”, progetto online per creare una propria compilation su un nastro virtuale

In “Call of Duty: World at War” le battaglie più famose della seconda guerra mondiale

Il viaggio di tre fratelli in India nell’ultima opera di Wes Anderson, immaginifica e suggestiva

liare con la musica coloro che non si sono mai arresi alla «smaterializzazione» della musica. Con pochi semplici comandi è possibile creare la propria compilation, scegliendo le canzoni e decorando a piacere la propria cassetta virtuale, che alla fine potrà essere trasferita sul proprio blog e messa a disposizione degli amici che l’ascolteranno in streaming. L’effetto è molto realistico, anche perché è possibile vedere il nastro scorrere mentre le canzoni si susseguono. Chi non fosse desideroso di produrre una propria cassetta, può fare un giro nella sezione Gallery, e ascoltare le compilation realizzate e titolate dagli utenti.

provare a gioco finito: anche questo titolo della serie si fa infatti notare per una ricostruzione impeccabilmente realistica del conflitto mondiale. Teatro delle battaglie sono in questo caso una base del Pacifico e la Berlino assediata dai soldati sovietici. Il giocatore dovrà permettere all’esercito americano di prendere il controllo di un aeroporto e aiutare l’Armata Rossa a entrare nella capitale tedesca. La giocabilità, grazie alla consueta visuale in prima persona, è ottima, ma il vero punto di forza del titolo sono i dialoghi, perfettamente doppiati in italiano, che permettono al giocatore di immergersi appieno nell’atmosfera e di modificare con le sue scelte parte della trama.

no che pare una variante indiana dell’Orient Express per un viaggio di riavvicinamento dopo la morte del padre. A stupire lo spettatore sono le storie secondarie che si inseriscono apparentemente senza nesso e le straordinarie performance degli attori: accanto ai tre «fratelli» Adrien Brody, Owen Wilson e Jason Schwartzman c’è spazio per i significativi cameo di Bill Murray e Natalie Portman. La versione in dvd però poco aggiunge alla ricchezza del film, a parte uno scarno dietro le quinte di una ventina di minuti. Ci si consola con l’ottima resa in digitale dei coloratissimi paesaggi indiani e un audio impeccabile che rende giustizia alla bella colonna sonora.

e trame serrate e gli intrecci rigorosi non sono mai stati il punto di forza di Wes Anderson. Al regista dei Tenenbaum piace lavorare su tre o quattro idee e lasciare che si sviluppino liberamente, seguendo suggestioni e intuizioni sceniche. Accade così anche con Il treno per Darjeeling, uscito nelle sale italiane lo scorso maggio e ora disponibile in dvd. La trama è telegrafica: tre fratelli si ritrovano su un tre-


cinema

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Dalla Baader-Meinhof all’Uomo che ama I di Anselma Dell’Olio

l Festival del film di Roma si è chiuso ieri, e alcuni dei film presentati «in anteprima» sono già nelle sale, come L’uomo che ama di Maria Sole Tognazzi e La banda BaaderMeinhof di Uli Edel. Ma i festival sono tanti, Roma si è incastrata a sandwich tra le rassegne di Venezia e di Torino, e questa terza edizione con la presidenza di Gian Luigi Rondi come qualità delle opere non sembra diversa da quella dei primi due anni sotto la guida di Goffredo Bettini, plenipotenziario di Veltroni. Il film sul sanguinoso decennio della Rote Armée Fraktion (Raf) con la leadership di Andreas Baader e Ulrike Meinhof (portato avanti dai seguaci anche dopo il loro arresto) ha sollevato in Germania intense polemiche contro e a favore. Alcuni, come la figlia di Ulrike Meinhof (giornalista e moglie borghese del direttore di un giornale d’opinione, diventata la «mente politica» della banda) ha sostenuto che il film «mitizza» i due protagonisti e Gudrun Ensslin (la compagna di Baader e terzo componente del «gruppo dirigente»). Forse è vero, almeno per alcuni, se in sala stampa all’Auditorium qualche giornalista ancora infervorato o nuovo simpatizzante ha sostituito il salvaschermo festivaliero di uno dei computer, con la sigla Raf a lettere cubitali rosse su sfondo nero.

Si può capire la rabbia di Bettina Rohl, figlia della Meinhof (ottima Martina Gedeck di La vita degli altri), che insieme con la sorella è stata salvata per un pelo dall’orfanotrofio palestinese al quale la madre, suicida in carcere dopo cinque anni di detenzione, l’aveva destinata. È anche vero che i filmaker, dal regista Edel allo scrittore Stefan Aust (autore del libro-documento sulla banda e collaboratore alla sceneggiatura) al produttore e co-sceneggiatore Bernd Eichinger (autore e produttore di La caduta sugli ultimi giorni di Hitler), presentano gli anni della contestazione tedesca e le ragioni della conversione alle azioni terroristiche di molti giovani della loro generazione esattamente come erano vissuti dai protagonisti: ai loro occhi la «nuova faccia del fascismo era l’imperialismo americano, esercitato attraverso la guerra in Vietnam, e sostenuto dalle istituzioni tedesche, nelle quali erano ancora presenti uomini dal passato nazista». Non vi è alcun tentativo da parte degli autori di dar voce a pa-

reri diversi. Per esempio il sequestro e l’uccisione di Hanns-Martin Schleyer, presidente della Confindustria tedesca e membro della Cdu resta senza le ragioni della vittima (furono uccisi anche tre agenti della scorta e l’autista). Questo vale per tutte le vittime della ferocia ideologica della banda, che non hanno voce nel film. Notevole anche la manifestazione contro lo Scià, in cui i contestatori sono pacifici e disciplinati e la polizia li carica senza essere stata provocata, dando man forte agli sgherri del regime persiano. Si può obiettare che lasciando senza equilibrio storico le motivazioni politiche, che sono anche quelle di una parte del pubblico predisposta a sostene-

amichevolmente, come per prendere un tè, e poi ammazzarla a revolverate, sono metodi giustificabili, un modo valido per fare politica alla luce della solita storia in cammino. Si può capire perché Ignés, la vedova di Jurgen Ponto (presidente del consiglio d’amministrazione della Dresder Bank, assassinato nel 1977 dai terroristi entrati in casa con la loro figlioccia) abbia restituito la Croce Federale al Merito, massima onorificenza civile tedesca, affermando che tutto quello che si vede nel film è falso. Viceversa, Jorg Schleyer, figlio dell’industriale ucciso, ha detto di apprezzare la franchezza del film: «Dipinge una banda di assassini brutali senza danneggiare la memoria

Alcune buone proposte dal festival di Roma che si è chiuso ieri: oltre al discusso film sul sanguinoso decennio della Raf, e all’ultimo di Maria Sole Tognazzi, da segnalare “Man on Wire”, “Riunione di famiglia” e “Aides-toi que le ciel t’aiderà” re o almeno accogliere le ragioni della lotta armata, il risultato è più efficace. Forse. Perché quando si passa alla folle demagogia, all’esaltata audacia omicida del gruppo, alla personalità intrinsecamente criminoide e ribelle di Baader (un eccellente Moritz Bleibtrau), alla facilità con la quale si mette in crisi una società democratica rompendo brutalmente il patto sociale, una persona non delirante dovrebbe provare solo orrore e ribrezzo. Ma l’obiezione fa acqua se si considera il sedimento di ribellismo ideologico e di fanatismo veterocomunista, veteroclassista e veteroantimperialista. È evidente che per alcuni rapinare banche, entrare in casa di una persona

delle vittime». Se si considera questa divergenza di opinione tra i parenti delle vittime, e il fatto che all’epoca, nonostante la furiosa attività sanguinaria, la banda aveva il sostegno di un quarto della popolazione tedesca, non si può non vedere il film.

L’uomo che ama, il film che ha aperto il festival, è girato molto bene, con inquadrature splendide e la smagliante fotografia di Arnaldo Catinari. È la storia di un farmacista (Pierfrancesco Favino) che soffre e fa soffrire per amore. Gli attori sono corretti, Ksenia Rappoport (La sconosciuta) è Sara, la donna amatissima che molla il protagonista disperato (è molto meno affa-

scinante con i capelli lisci); Monica Bellucci (la donna lasciata) si è liberata di buona parte della sua calata umbra, e Favino ha un fisico bestiale che abbiamo l’agio di apprezzare con tutte le docce che si fa con la porta aperta; e la fantastica Marisa Paredes, attrice almodovariana, è sprecata nel ruolo di una donna messa lì per spiegarci che anche lei soffre perché abbandonata dal marito. Alcune persone «normali» incontrate dopo la proiezione hanno detto che si sono commosse fino alle lacrime. Noi, invece, rimasti a ciglio asciutto, ne prendiamo atto. Ed ecco alcuni degli altri titoli del Festival da segnarsi a futura memoria: Man on Wire è un meraviglioso documentario di James Marsh su Philippe Petit, un funambolo francese che nel 1974 camminò per un’ora tra le due torri del World Trade Center, notoriamente abbattute dai terroristi islamici sette anni fa. È montato come un thriller, con materiale girato dai complici di Petit (era un exploit illegale, e fu arrestato appena sceso) e interviste agli amici e alla compagna che lo hanno assistito. Incrociamo le dita che si faccia avanti un distributore italiano: perderlo non è ammissibile. Lo stesso vale per Riunione di famiglia, del co-fondatore del gruppo Dogma, Thomas Vinterberg. Dieci anni fa ci aveva regalato quella delizia velenosa di Festen, Premio della giuria al Festival di Cannes 1998. Racconta di un giovane cuoco, la sua fidanzata, la donna di cui s’innamora, la madre alternativa e la sua compagna, e del padre, celeberrimo cantante lirico di cui non conosceva l’esistenza e vice versa. Quando il baritono ritorna nella sua città natale per un concerto, gli eventi precipitano. Si tratta di un ritorno di forma del giovane e bellissimo regista che inchioda e diverte dall’inizio alla fine. Aides-toi que le ciel t’aiderà è un film di François Dupeyron (M. Ibrahim e les fleurs du Coran, 2003) con al centro una lavandaia-badante africana e la sua famiglia scombinata a Parigi. È una specie di Pranzo di Ferragosto più sexy, più cattivo, più colorato, e trés, trés amusant.


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poesia

Il canto d’amore di Ungaretti na delle aperture più belle, per un canto d’amore, di questo tempo rimane nell’Inno alla morte del 1925 scritta da Giuseppe Ungaretti. Canta: «Amore, mio giovane emblema,/ tornato a dorare la terra…». Appare come un addio fremente quando aggiunge: «È l’ultima volta che miro… la scia di luce…». La poesia di Ungaretti è poesia d’amore, c’è la speranza, c’è il dolore, c’è il senso concreto della vita, e la forza, non innata, ma conquistata della volontà. E l’amore non dovrà mai cadere nemmeno dopo la morte: l’amore, intendo, non come complesso di affetti ma come «emblema». E non si può tacere la conclusione dell’Inno quando profetizza «non avrò più pensieri, né bontà./ Con la mente murata,/ Cogli occhi caduti in obblio,/ Farò da guida alla felicità». Bisogna aspettare il 1930 con la poesia Dove la luce per riprendere il discorso su questa «felicità». Anche qui musicalmente c’è un inizio assai impetuoso: «Come allodola ondosa/ Nel vento lieto sui giovani prati,/ Le braccia ti fanno leggera, vieni».

U

Dove la luce si riaffaccia con la luminosità della vita dopo quanto scritto nell’Inno alla morte: «Abbandonata la mazza fedele,/ Scivolerò nell’acqua buia/ Senza rimpianto./ Morte, arido fiume…». Proviamo a esaminare verso per verso. Nel canto d’amore sono elencate le grandi dimensioni liriche del pensiero: «Ci scorderemo di quaggiù»: cosa significa quel «quaggiù», e come ci si può scordare «del male e del cielo», sia pure in uno stringente abbraccio? Come si placa a un tratto «il proprio sangue rapido alla guerra», e come si potranno affacciare «rossori di mattine nuove»? Dov’è che la foglia «non muove più la luce», e i «sogni e crucci» siano «passati ad altre rive» dove per tutto il tempo che rimane sarà luminosa una sera perenne? Ebbene «quaggiù», lontani «dal male e dal cielo», placato «il sangue rapido alla guerra», in un luogo di bellezza incomparabile «dove non muove foglia più la luce», e non ci sono «sogni e crucci» e dove la sera sarà perenne, ci potremo ritrovare. Verso tutto questo, verso «le colline d’oro» si muoverà il moto dell’amore. È possibile tutto questo? In un «…liberi di età,/ Nel suo perduto nimbo/ Sarà nostro lenzuolo» ci ritroveremo? L’atmosfera in cui si svolge l’azione non è dunque terrena. Nella terra la «foglia» smuove continuamente la luce; la sera non è perenne ma si dà il cambio con la luce del giorno. Siamo dunque in una rarefatta e sublime dimensione: siamo in una dimensione ultraterrena, eterna, e una poesia d’amore terreno si sposta in un ambito celestiale. Si tratta di un dove in cui perennemente seguiteranno a svolgersi le dimensioni ultraterrene. Siamo in una sfera lucente!

di Leone Piccioni

L’amore terreno non abbandona certo Ungaretti. I suoi canti d’amore (abbiamo visto poesie del ’25) si protrarranno fino alla morte. Eppure nel ’60 in uno dei «Cori» del Taccuino del vecchio ci si incontra con un poeta quasi pacato: «L’amore non è più quella tempesta/ che nel notturno abbaglio/ ancora mi avvinceva poco fa/ tra l’insonnia e le smanie./ Balugina da un faro/ verso cui va tranquillo il vecchio capitano». Siamo ora nel ’68 (quando Ungaretti compie ottant’anni) e troviamo una disperata chiamata per l’amore, per l’amore terreno, reso drammatico dalla coscienza del poeta di non poter evitare questo incontro tra un vecchio e una giovane figura che si sta avvicinando sentimentalmente a lui. «Stella, mia unica stella - arriverà a dire - nella povertà della notte, sola,/ per me, solo, rifulgi, ma, per me stella/ che mai non finirai d’illuminare,/ un tempo ti è concesso troppo breve,/ ma elargisci una luce/ che la disperazione in me non fa che acuire». Quando Ungaretti si licenzia come «il vecchio capitano» si accorge che quando torna l’amore torna anche la poesia. L’amore di un vecchio per una giovane è strazio, scherno, delirio per la disarmonia che si determina in questo rapporto. Eppure era stato Ungaretti a dirci che nella poesia della vecchiaia non ci sarà più la freschezza della poesia della gioventù, né l’illusione di quella età ma è presente tanta esperienza sentimentale che s’arriva a trovare la parola giusta per esprimerla, s’arriva a fare la poesia più alta.

DOVE LA LUCE Come allodola ondosa Nel vento lieto sui giovani prati, Le braccia ti sanno leggera, vieni. Ci scorderemo di quaggiù, E del male e del cielo, E del mio sangue rapido alla guerra, Di passi d’ombre memori Entro rossori di mattine nuove. Dove non muove foglia più la luce, Sogni e crucci passati ad altre rive, Dov’è posata sera, Vieni ti porterò Alle colline d’oro. L’ora costante, liberi d’età, Nel suo perduto nimbo Sarà nostro lenzuolo. Giuseppe Ungaretti da Sentimento del tempo (1919-1935)

Da tutto questo esce quella poesia in duplice versione che può essere considerata il capolavoro della poesia della vecchiaia, La conchiglia. E nell’amore che pure può avvicinare una giovane a un vecchio c’è pur sempre una paura: «Se tu quella paura,/ se tu la scruti bene,/ mia timorosa amata,/ narreresti soffrendo/ d’un amore demente/ ormai solo evocabile/ nell’ora degli spettri/ soffriresti di più/ se al pensiero ti dovesse apparire/ oracolo, quel soffio di conchiglia/ che annunzia il rammemorarsi di me/ già divenuto spettro/ in un non lontano futuro». Ungaretti poeta di speranza e d’amore è anche, in tutte le sue raccolte, poeta credente: prima e, soprattutto, dopo la conversione. Alla morte del figlio di nove anni reagisce con moti di disperazione e di perdita dell’amore celeste. Ma quando chiude i frammenti scritti nel ricordo del bambino morto, ecco: «Fa dolce e forse qui vicino passi/ dicendo: “Questo sole e tanto spazio/ ti calmino. Nel puro vento udire/ puoi il tempo camminare e la mia voce/ ho in me raccolto a poco a poco e chiuso/ lo slancio muto della tua speranza./ Sono per te l’aurora e intatto giorno”».


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il club di calliope IL BELLISSIMO GIOCO Vuoi umiliarmi. Per questo mi lasci vivere ancora. Io fingo di non capirlo. Vado nella spavalda illusione di credermi sempre lo stesso. Ma poi gli occhi degli altri che guardano diventano i miei occhi, e li annotano ad uno ad uno sommandoli, i segni, i graffi del tempo. Sgomento vedo quello che sono. È dunque questo: Tu vuoi che mi accorga che a poco a poco finisce il bellissimo gioco e mi prepari a renderTi il Tuo perfetto dono. Luciano Luisi

“I POETI VERI SERVONO DIO...” in libreria

UN POPOLO DI POETI Ho la forza di viaggiare E coraggio di tornare Nel mio sangue scorre L’oro dei luoghi, delle lontane Caverne colme di paura E di dolore, la mia anima Assiste il mio percorso Che da città a città Diviene un mondo. Franco Poggi

Da ponte a ponte la barca fa un viaggio che sembra un arcobaleno, siamo nel Polesine, con la costa vicina e le nuvole a pecorelle ma la tempesta e il vento tumultuoso della pianura frenano la calma di ora e cosa porterà non si sa, forse fumo, forse cammino, io intanto mi siedo e guardo in alto, serena. Luigina Starni

di Loretto Rafanelli orse si può partire da una poesia intitolata Sacrari per comprendere il «fare» poetico di Rosita Copioli, allorché dice: «…/ ho una serie di sacrari/…/ Il mio primo sacro è il mare/…/ Il quinto… Afrodite…». Attorno infatti a queste entità-simbolo gira la sua poesia, espresse in modo incalzante anche nel suo ultimo libro, Il postino fedele (Mondadori, 14,00 euro). Ed è un discorso molto appassionato,

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bio, c’è l’amore. Buona parte del libro fa di questo tema un punto focale e diviene nei suoi versi un inno, un canto, un motivo musicale, il supremo filo conduttore dell’esistenza. Sono versi sorretti da una grande passione, perché la Copioli non teme di entrare in un campo così delicato, anzi vi si butta con una spinta quasi fanciullesca, senza nascondere in alcun modo uno slancio per lei vitale. L’amore, quasi concepito

È un verso di Rosita Copioli, che nella nuova raccolta “Il postino fedele” torna a rivolgersi ai suoi temi prediletti: la concezione alta della poesia, il mare, Afrodite molto forte, perché la Copioli ha una concezione alta, altissima, della poesia e del ruolo del poeta («…non disperare della poesia./ I poeti veri servono Dio./ Servono la parola,/ il fiat, l’azione./ Servono la tua rinascita, mio disperato,/ servono ogni ricostruzione/ ogni opera che segue/ all’amore»). Partiamo dunque dal mare, vero e proprio totem per l’autrice, elemento decisivo della vita degli uomini, ed entità sacra per lei che dice: «…da lui discendo/ da lui sono risalita». E col mare, in un intimo connu-

come uno «scandalo», che, echeggiando Prévert, le fa dire: «amore è terrore…/ Amore terrorizza di più/ d’ogni belva, potenza di terra/ di cielo di guerra». Amore ma anche eros («siamo umili servitori di Afrodite ed eros»), nel compimento di una dimensione che è sì spirituale ma anche fisica. E i suoi versi esprimono una grande gioia, una sensazione di vitale pienezza, anche quando si adombra per un mondo che, negando taluni simboli, pare destinato a non conoscere la bellezza della vita.

Tu sei una upupa costretta in una gabbia, e mi fai tenerezza e ti mando un saluto e voglio sentire la musica dei miei carmi, vorrei dirti di un gioco, bello come un tempo, e di una illusione, un sogno che si realizza, che tu sia divina e io il tuo angelo, parole disperate. Renzo Ori «Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma


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mostre

raro, in questo mondo confuso e così dislessico di valori e di vere verità qual è il mondo mercantilizzato dell’arte contemporanea, in cui necessariamente bagniamo, è raro poter trovare ancora delle autentiche scoperte e provare la gioia fisologica e liberante del buon incontro, della felice sorpresa. Dunque questa bellissima mostra, e ben concertata, che segna purtroppo anche il congedo di Bruno Corà dal Camec di La Spezia, verso Lugano, è una vera eccezione. Perché ci permette finalmente di conoscere nella sua integrità un artista davvero interessante e completo, che non certo per sua responsabilità, ma per la miopia indifendibile della nostra critica, è rimasto avvolto nel pur nobile silenzio locale (era uno dei protagonisti della gloriosa galleria spezzina del Gabbiano, che compie qust’anno quarant’anni di sperimentale attività, e molto deve al suo contributo). Certo, qualche breve incursione se l’è concessa episodicamente anche lui, figurarsi, arrivando sino a Genova, che sforzo kilometrico (!) dell’altra gloriosa Galleria Rotta, oppure, come spesso succede, trovando debiti riscontri alla Biennale di San Paolo del Brasile, in Messico o a Tokyo, ov’è omaggiatissimo in molti musei (del resto i suoi ironici libri d’arte, con le lettere che scattano fuori saltando vispe come grilli, o i vecchi tomi alchemici solcati da veri funghi, che navigano sulle onde delle righe manoscritte, stanno giustamente nelle teche del Moma o del British... alzi la mano, onestamente, in Italia chi lo conosce). Facciamo autocritica anche noi, ovviamente, che non a caso manifestiamo qui la nostra colpevole, polemica e amara scoperta tardiva: perché tanto ci sarebbe piaciuto incontrare quest’artista sicuramente arguto e divertente (ce lo confermano amici e artisti del luogo, che hanno avuto la fortuna di frequentarlo) ma che, ahimè, è scomparso, trascurato e misconosciuto, nel 2004. Noi ci prendiamo la nostra parte di colpa. Ma dov’erano i nostri grandi curators internazionali, che paiono scopritori del mondo, e siedono tronfi sulla patente di talent scout ficcata in tasca, mentre Manfredi languiva nella sua Spezia, ironico, come dimostrano le sue opere e dolcemaramente divertito sui destini cretini di Sora Arte? Prendeva i vecchi cartigli (che gli angeli giotteschi dondolavano dolcemente sopra le loro Madonne in trono, o quel proto-fumetto gotico-flamboyant, che fuoriesce tortile dall’arcangelo annunciante e si proietta volteggiando verso la giovane verginella, immersa nella lettura del libro sa-

È

Scoprendo in ritardo

Mauro Manfredi di Marco Vallora

arti

cro) e, lavorando di collage, usa quella strisciolina simbolica come una benda maliziosa, un cordame sadico, che lega tra loro e invischia le figure e le parole, le forme e le lettere alfabetiche. San Sebastiano viene trafitto dalle nostre troppe rumorose parole. Adamo ed Eva son costretti a vita a procedere legati insieme non dal collante del peccato originale o della mela fatata, ma proprio da quello strip diabolico, che funge da perizoma labirintico e da bondage biblico-liturgico. Stregato, dannato dalla parola, poeta che «vedeva» le lettere come per una forma di strabismo mentale e le tirava su (prima opera concettuale) da un vasello alchemico, posto in mezzo alla sala, da cui fuoriuscivano grondanti come d’un colloso liquido amniotico, Manfredi si divertiva, polemicante... Citando (segretamente, iconologicamente) Mishima e Artaud, Perec e Kolar, geologo che non tradisce la propria scienza, lavorando di strisce scritte e di depositi glaciali, creando queste sue opere-scisto, che ricordano una trivellazione geologica o i suoi pop-olden-burgheschi panini, farciti di sudanti, maionesiche parole, Manfredi chiaramente «scherza» con le arti contemporanee. Ficcando nei suoi reliquari De Chirico come Manuela Kustermann, Merz come John Cage, e rispecchiando anche, divertito e malizioso, Mister Miroir Pistoletto. Ha ragione Bruno Corà, notando che la sua partenza non è molto lontana da quella di Boetti (noi ci vedremmo una parentela ancor più con Paolini) ma questa è proprio la dimostrazione che quando uno non trova il suo Celant, o l’imbrocca mercantilmente, il suo destino è segnato, e si rivela in fondo un artista nato-morto. Evviva, anche perché Manfredi conserva una sua purezza integerrima, che molti altri artisti alla moda dovrebbero invidiarli. Ma fa molta rabbia comunque ripercorrere il bel catalogo Camec, che gli è stato dedicato, e verificare come la sua letteratura critica sia orfana clamorosamente di tutti i gradassi nomi ufficiali della critica e naviga a vista tra amici-critici locali, eroici ma sempre loro. Con l’eccezione d’un bel saggio di Mirella Bentivoglio che lo volle tra i protagonisti della Poesia Visiva, almeno lei. Ma anche quello forse fu un pietoso inganno, perché poco aveva a che fare il lirico, fantasioso Manfredi, con le ripetitive macchinazioni di un Pignotti, di un Miccini o del cancellatore Isgrò.Viva comunque Mauro Manfredi.

Mauro Manfredi, La parola totale, La Spezia, Camec, fino al 16 novembre

diario culinario

Lo chef che mette il Barocco nel piatto

di Francesco Capozza omanticismo, neoclassicismo e barocco nel piatto. Se Federico Zeri leggesse questa definizione e non fosse (purtroppo) già morto, probabilmente accuserebbe, quanto meno, un capogiro. A essere ortodossi, infatti, appare inspiegabile e forse stridente questa commistione tra tre generi artistici così diversi (ma legati da un comune denominatore: la bellezza e, a tratti, la ridondanza) con la tecnica culinaria di un cuoco. Eppure, accettiamo smentite, la cucina di Bruno Barbieri racchiude in sé caratteristiche di ognuno di questi tre generi. Non può che essere legato al Romanticismo, nella fuga verso l’esotico, tipica di questo movimento artistico e filosofico, un piatto come il frullato tiepido di

R

mele al profumo di spezie, con ravioli d’ananas e cocco, mini ghiaccioli alla caipiriña. E come non ravvisare il ritorno ai grandi esempi del passato (vedi Marie-Antonine Carême) nella neoclassica suprema di germano reale in foglie di limone, con composta di zucca e tortelli di ricotta al fieno? Ma Bruno Barbieri, oggi due stelle Michelin e tre forchette del Gambero Rosso con il Ristorante Arquade nel suggestivo Relais&Chateaux Villa del Quar a San Pietro in Cariano, pochi chilometri da Verona, in piena Valpolicella, è tutto questo: bellezza, opulenza, ritorno al passato, viaggio esotico (con profumi e sapori spesso lontani e sconosciuti al palato nostrano). Spesso è stato accusato di barocchismo, quasi fosse un oltraggio alla nuova tendenza al «levare» elementi da un piatto e al ritorno a

una semplificazione culinaria di cui lo spaghetto al pomodoro (ma d’autore) è il Mantra ispiratore. Invece, quella di Barbieri è la riscoperta del Bello, del ridondante ma nella sua accezione più alta: niente orpelli a dare adito alla confusione dei sapori, ma una serie di ingredienti, spesso opulenti, che invece di carambolare l’uno contro l’altro finiscono per maritarsi splendidamente in un connubio di sapori e consistenze meravigliosamente golose. Per capire, la voluttuosità del piccione fondente con glassa di bufala, soffiato di rigaglie e santoreggia, può apparire come un approccio estremo a quella forma d’arte praticata dallo chef, quasi fosse la trasposizione culinaria di un film di Lina Wertmüller. E invece, affondando forchetta, coltello e cucchiaio (nei piatti di Bruno Barbieri

gli instrumenta sono sempre molti e tutti necessari), ci si accerta della perfetta sintonia dei vari ingredienti che aprono orizzonti nuovi agli schemi palatali spesso troppo ingessati nell’ortodossia culinaria italiana. Un soggiorno a Villa del Quar può essere l’occasione, oltre che per delle golose «lezioni d’autore», per la riscoperta di un territorio ricco di storia e pieno di piacevoli sorprese: dall’opulento vino Amarone (con le sue note più delicate offerte dal Valpolicella Classico) ai formaggi vaccini. Per non parlare della stagione teatrale dell’Arena di Verona. Relais & Chateaux Villa del Quar, Ristorante Arquade, Via Quar 12, Verona - loc Pedemonte, Tel +39 045 6800681, E mail: info@hotelvilladelquar.it, Web: www.hotelvilladelquar.it


MobyDICK

1 novembre 2008 • pagina 15

architettura

Leonardo Savioli, maestro d’interni di Marzia Marandola el dopoguerra, intorno alle poche ma agguerrite facoltà di architettura, si formarono gruppi di progettisti giovani ed entusiasti, che portarono l’architettura italiana alla ribalta internazionale, dove fino agli anni Settanta tenne un ruolo di protagonista. Si parlò allora, forse con ragione, di «scuole» regionali, capaci di coniugare la sensibilità alla densa tradizione costruttiva locale con l’originale adesione ai principi internazionali del moderno. Tra queste «scuole», oggi quasi dimenticate, si distinse per originalità e rigore quella toscana, formatasi intorno al tormentato magistero di Giovanni Michelucci (18911990), un nome a cui sono legate la stazione ferroviaria di Firenze e la chiesa dell’Autostrada, due capolavori riconosciuti dell’architettura del Novecento. I fiorentini Leonardo Ricci (1918-1994) e Leonardo Savioli (1917-1982), entrambi docenti alla facoltà di architettura di Firenze, furono gli allievi più brillanti di un vivacissimo gruppo di progettisti sul quale manca ancora una meditata riflessione critica. Un significativo contributo a chi vorrà affrontare il bilancio storiografico della scuola toscana giunge ora

N

archeologia

da Massimiliano Nocchi. Il giovane architetto di Massa che concilia la pratica professionale con la ricerca e con l’attività didattica al Politecnico di Milano, ha redatto l’inventario del fondo Leonardo Savioli, depositato all’Archivio di Stato di Firenze dalla moglie, la scultrice Flora Wiechmann. Del minuzioso lavoro di catalogazione dei disegni, delle foto, delle lettere e dei bellissimi dipinti dell’architetto, si vale il volume, misuratissimo fin dalle dimensioni, e un po’ penalizzato nelle immagini. Come esplicita il titolo, il libro, che integra anche gli studi condotti da Nocchi per la tesi di dottorato incentrata sugli allestimenti di mostre e di interni di Savioli, analizza specificamente questa branca dell’architettura, di cui il fiorentino fu riconosciuto maestro. Per Savioli l’allestimento di una mostra, ma anche di un’abitazione, è allo stesso tempo «una macchina comunicativa» e un dispositivo critico. La messa in scena architettonica deve essere capace di trasmettere un’interpretazione degli oggetti esposti, che vengono assemblati come «i fotogrammi di un filmato architettonico», di cui l’architetto è regista e cosceneggiatore. Lo spazio dell’allestimento è ambiguo, eminentemente allusivo e la sua

effimera temporaneità facilita il coinvolgimento del visitatore che, complici le luci e i tagli prospettici, viene irretito nel racconto espositivo, come attestano ancora oggi le belle foto e i superlativi grafici degli allestimenti savioleschi esibiti da Nocchi. Se il versante effimero e scenografico della progettazione, che tocca vertici poetici nelle mostre di Le L’allestimento Corbusier (1963) e deldi Savioli la Casa abitata (1965), della Mostra entrambe a Firenze a “Firenze palazzo Strozzi, focaai tempi lizza lo studio di Nocdi Dante” chi, non mancano sinalla Certosa del Galluzzo 1965 tetici contributi sulla significativa produzione pittorica e sulle architetture più durature. Dal mercato sosta e alla contemplazione, tutte le ardei fiori di Pescia (1948), una candida chitetture di Savioli interpretano la novolta di cemento tesa sui banchi dei bile bellezza dell’etica civile. fiori, al ponte Giovanni da Verazzano, che traduce lo scavalcamento dell’Ar- Massimiliano Nocchi, Leonardo Sano a est di Firenze in una minuscola, violi allestire arredare abitare, Alidensa sezione urbana che invita alla nea editrice, 207 pagine, 22,00 euro

Nelle metropoli etrusche dell’antico Lazio di Rossella Fabiani

a dove venivano? Che cosa li aveva spinti sulla costa occidentale dell’Italia centrale? Come riuscirono ad arrivare fino alla valle del Po e all’Adriatico? Già nel 1960, Luisa Banti, una delle prime donne a sedere su una cattedra di archeologia in Italia, giustamente collocata nel novero del piccolo drappello di studiosi cui si deve la nascita dell’etruscologia contemporanea, affrontò tali domande. I particolari di questo processo storico sfuggono ancora oggi.Tuttavia l’esplorazione archeologica dei loro insediamenti ci dà un quadro animato della vita che gli estruschi conducevano, specialmente dal VI al III secolo avanti Cristo e molti monumenti ci riportano anche più indietro: fino all’VIII secolo. Non siamo ancora riusciti a capire i testi etruschi, incisi sulla pietra con alfabeto greco, tranne i nomi propri e alcune parole isolate; ma il numero dei monumenti etruschi conservati nelle tombe e nelle rovine delle loro città è così grande e i monumenti stessi così vari che possiamo formarci un’idea dell’organizzazione politica e sociale di questo popolo, della sua religione, dei suoi costumi, della sua arte, delle sue attività manuali. Dopo le numerose mostre dedicate, negli ultimi decenni, alla civiltà etrusca, in particolare ricordiamo quelle ospitate in vari musei d’Italia in occasione dell’anno degli Etruschi (1985), e la mostra ricca di reperti e di capolavori di Palazzo Grassi, a Venezia, nel 2001, l’allestimento al Palazzo delle Esposizioni di Roma, di Etruschi, le antiche metropoli del Lazio, a cura di Mario Torelli e Anna Maria Moretti Sgubini, è una mostra del

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tutto differente, sia perché nel corso degli ultimi anni molte sono state le scoperte e gli approfondimenti scientifici, sia perché si è ritenuto utile documentare, nel modo più ampio, la presenza della civiltà etrusca in un territorio che corrisponde, grosso modo, all’attuale Lazio. Grosso modo, perché, come si sa, l’attuale regio-

ne del Lazio non corrisponde affatto all’omonima regione antica, ma rispecchia piuttosto le vicende del territorio tra Medioevo ed età moderna: il Lazio antico era di estensione limitata, una piccola terra sita tra i Colli Albani e le pianure ai piedi di questi, fino al basso corso del Tevere e al mare, che Augusto nella sua divisione in regioni dell’Italia ha unito alla Campania a formare la prima delle sue undici regioni. Il Lazio moderno è invece l’erede dei possedimenti pontifici, che in seguito a complesse vicende storiche hanno finito per annettere al patrimonio di San Pietro un pezzo dell’antica Etruria, la Tuscia Romana, che comprendeva per intero i territori delle antiche metropoli etrusche di Veio, Cerveteri e Tarquinia, e la metà meridionale di quello di Vulci. Quello che la mostra romana vuole documentare è soprattutto la civiltà urbana di Veio, Vulci, Tarquinia e Cerveteri, sia come insediamenti che costituirono un punto di riferimento nello sviluppo culturale, sia come centri di importazione dal mondo greco e mediorientale. Ne viene fuori un panorama straordinariamente ricco che va dalla ricostruzione del tempio dell’Apollo a Veio, alla magnifica pittura funeraria di Tarquinia, alla scultura monumentale di Vulci, a Cerveteri, l’antica Caere, straordinaria per quanto riguarda l’architettura funeraria. E ancora. In modo originale vengono messe in luce le interferenze fra Etruschi e Roma: il confluire della civiltà etrusca in alcuni segni del potere e delle funzioni religiose che il mondo romano acquisisce e preserva.


pagina 16 • 1 novembre 2008

fantascienza

mori e intrighi in un’Italia alternativa che ha mantenuto le sue colonie africane (L’inattesa piega degli eventi di Enrico Brizzi, Baldini-Castoldi-Dalai), un essere mitologico si aggira nei sotterranei di Roma in attesa di emergerne al momento opportuno (Minotauro di Luca Desiato, Mondadori), Peter Pan (più Pan che Peter) infesta le notti della capitale con la sua carica eversiva (Pan di Francesco Dimitri, Marsilio), ancora Roma ma di un futuro prossimo in balia delle mafie cinesi (Cinacittà di Tommaso Pincio, Einaudi), le avventure di due nani che cercano di ricongiungersi al loro popolo scomparso (Il Regno dei Nani di Gabriele Marconi e Errico Passaro, Flaccovio), la storia di un robot narrata ai ragazzi (Zero il Robot di Aldo Nove, Bompiani), una storia di vampiri ma fuori dall’ordinario (Ho freddo di Gianfranco Manfredi, Gargoyle Books), un romanzo storico ma con molte aperture verso il sovrannaturale (La versione spagnola di Alberto Oingaro, Piemme), uno scrittore di fantascienza che scrive un romanzo che parla dell’ultimo eterosessuale in un mondo di soli omosessuali (L’invasione degli ultragay di Corrado Farina), un’antiutopia che descrive una società di soli singles (La città degli uomini soli di Marco Innocenti, Flaccovio), un’Italia prossima in cui vince le elezioni il partito islamico fondamentalista con tutte le conseguenze politiche e sociali che ne derivano (La moschea di San Marco di Pierfrancesco Prosperi, Bietti). Basta? Basta. Ecco una decina di romanzi che mi sono venuti in mente, e quindi non sono i soli, pubblicati in questo 2008 con un tratto in comune. Quale? Sembra ovvio: appertengono tutti a quell’ambito letterario che si suole chiamare letteratura non-mi-

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MobyDICK

ai confini della realtà

La riscossa dei non-mimetici di Gianfranco de Turris mentica (che non mima la realtà, che non si mimetizza con essa), quindi che fanno parte della narrativa dell’Immaginario in senso ampio: in essa confluisconmo infatti fantasia e fantascienza, favola e orrore, mito e storia alternativa, utopia e leggenda.

Che c’è di strano, dirà qualcuno: siano nella normalità. Vero, ma sino ad alcuni anni fa non era affatto così. Oggi, come si suol dire, sono caduti tutti gli steccati che dividevano la letteratura fra alta e bassa, il co-

Un tempo la grande editoria non avrebbe mai e poi mai pubblicato in collane generaliste da libreria, quelle autorevoli e rilegate, romanzi con temi e argomenti fantascientifici, fantastici, orrorifici. Li avreebbe confinati, con relativa etichetta specificativa, in collane tutte e solo loro, «specializzate» e per lo più da edicola, al massimo in brossura per le librerie come anche è avvenuto, ma dalla vita breve e stentata. Insomma, come denunciavano autori, critici e lettori di quei «generi» letterari, esisteva un

Sono i romanzi che appartengono a quel tipo di letteratura che non si mimetizza con la realtà: science fiction, fantasy, horror. Non più ghettizzati in collane di case editrici specializzate, adesso sono patrimonio della grande editoria. Con conseguenze non sempre positive… siddetto mainstream e la narrativa popolare per quanto riguarda i temi, non ovviamente per quanto riguarda lo stile, la qualità della scrittura... Anche perché di opere scalcinate, abborracciate e mal scritte ce ne sono per ogni dove, a ogni livello, e non soltanto in quella «di massa». È finito il tempo in cui quest’ultima era considerata a priori frettolosa e approssimativa.

forte pregiudizio nei loro confronti, venivano confinati in una specie di ghetto, se ne doveva parlare quasi obbligatoriamente con sufficienza. Le cose sono iniziate a cambiare verso la metà degli anni Ottanta quando, grazie alla qualità di Stilea non necessariamente collegata a nomi già affermati, iniziarono a uscire romanzi di Valerio Massimo Mafredi, Luce D’Eramo, Francesca Duranti,

Pier Luigi Berbotto, Roberto Vacca che infransero gli steccati, uscirono dal ghetto, imposero temi non-mimetici, fecero entrare aria nuova nella narrativa italiana. Da quel momento in poi le pubblicazioni si sono sempre incrementate, non ci sono più state preclusioni di «genere», talché la critica togata non ha più storto il naso e il pubblico non ha più pensato che certi argomenti potessero essere degnamente affrontati soltanto dagli scrittori angloamericani.

Il fatto che science fiction, fantasy, horror siano diventate quasi una cosa «normale» per le collane di narrativa generalista dei grandi editori italiani ha portato ormai da una decina d’anni alla crisi delle collane e degli editori specialisti, sicché oggi non ne esiste in pratica più nessuno. La Fanucci, nata come tale nel 1972 oggi predilige ben altro, mentre la Nord, la più importante delle case editrici specialiste che nel 1970 mandò per prima volumi rilegati di fantascienza in libreria, attualmente pubblica un vero miscuglio di «generi» avendo nella pratica abbandonato (salvo rare eccesioni) la science fiction e la fantasy «pure» per riciclarsi nei temi ormai popolarissimi: il thriller, il giallo «esoterico», la fantastoria, il poliziesco «storico», l’horror sofisticato, le nuove tendenze della fantasy non solo anglosassone ma ad esempio tedesca, la scoperta di fantastorie in cui si mescola religione e suspense soprattutto di autori francesi quasi sempre sulle scia di Dan Brown, e così via. Insomma, il panorama editoriale italiano «di genere» è profondamente mutato rispetto ad alcuni anni fa. Con una serie di conseguenze positive e negative, come si vedrà nel mio prossimo articolo.


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