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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
di Riccardo Paradisi
Q
Quattro vademecum per i tempi di crisi
RITORNO ALLO SPIRITO SANTO Parola chiave Anima di Franco Ricordi
Il nuovo restyling di Bryan Ferry di Stefano Bianchi
NELLA PAGINA DI POESIA
Prometeo, la compassione prima di Cristo di Roberto Mussapi
uando cinque anni fa usciva in Germania La festa è finita (Marsilio), il pamphlet di Hahne Peter che annunciava il tramonto della società del divertimento e l’alba di un’epoca severa ed essenziale, segnata dalla crisi economica, esposta al pericolo terrorista, minacciata dagli esiti pratici del nichilismo e del relativismo etico - droga, violenza, fondamentalismo religioso non mancarono le solite accuse contro il catastrofista di turno. Hahne - si disse - approfitta dell’11 settembre per farsi banditore d’una nuova rivoluzione conservatrice.Al polemista tedesco non si perdonava il richiamo alla mobilitazione non solo contro i pericoli del fondamentalismo islamico - di fronte al quale «le scemenze di comprensione interculturale» hanno cominciato a vacillare - ma soprattutto la critica ad alzo zero alla «sbornia sessantottina», responsabile di aver generato una società spoglia del senso etico religioso e affetta da irresponsabilità diffusa, mancanza di educazione, feticismo delle merci e dei consumi, implosione demografica con conseguente invecchiamento. La crisi economica che ha investito l’intero Occidente e che rappresenta un secondo e più profondo shock globale dopo l’attentato alle Torri gemelle dimostra che Haine non è un profeta di sventure, né un moralista cipiglioso, dimostra ciò che è sempre stato vero e che ora arriva al pettine dell’evidenza: che la vita cioè non è un viaggio a Disneyland. Gli anni dieci del Duemila segnano un ritorno collettivo all’essenziale, un ritorno necessitato e traumatico all’osso delle questioni, la presa d’atto concreta che l’illusione del progresso indefinito, della globalizzazione felice, dell’espansione orizzontale, della soddisfazione dei bisogni e dei desideri è scoppiata come la bolla finanziaria che ha generato il crack mondiale. Comincia una nuova fase della vita collettiva - più nuda, meno attutita dai sedativi dello sviluppo artificiale, più vicina al principio di realtà della vita. Dove gli individui sono costretti a fare appello alle proprie risorse interiori, a riscoprire la forza che dorme in loro.
Come opporre una risposta autentica alle difficoltà globali (e individuali) che stiamo vivendo. Attraverso la fede, intesa non come rifugio ma come strumento d’azione. Lo suggeriscono una serie di titoli delle edizioni San Paolo
Il romanzo della realtà di Maurizio Ciampa Gelosia con leggerezza sotto il cielo di Roma di Anselma Dell’Olio
La forza eversiva dei feticci di Mayombé di Marco Vallora
ritorno allo spirito
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Vanno in questo senso una manciata di libri pubblicati in questi ultimi mesi dalle edizioni San Paolo, utili proprio per affrontare la crisi sub-specie interioritatis, opponendo a essa una risposta autentica, fondata sul principio e sul fondamento cristiano della vita. «Le crisi fanno parte della vita - scrive Ansel Grunen in Fidati della tua forza (149 pagine, 12,00 euro) - non c’è crescita senza di esse. Questo vale per la crescita personale ma anche per la società». Il libro di Grunen è un ancora di stabilità e una spinta d’incoraggiamento a chi è scosso dalla crisi, a chi teme che essa possa colpire la sua vita e i suoi affetti, perché abbia fiducia nella propria creatività e fantasia e confidi nella forza che gli viene dallo spirito per superarla. Molti ritengono che la loro forza non basti a superare la crisi. Nella tradizione cristiana, nelle situazioni di crisi e prima di prendere decisioni importanti, si è sempre invocato lo spirito di Dio, confidando che lo Spirito Santo indicasse alla comunità e al singolo la via e donasse la forza per superare la crisi. Ecco, nel suo libro Grunen collega il superamento delle crisi che ci vengono incontro nella nostra vita alla riflessione sullo Spirito Santo nella convinzione che proprio questa riflessione possa donare essa stessa forza e coraggio nella crisi. Non si tratta di imboccare una via di fuga dal mondo, di «alienazione», come direbbe certa psicoanalisi incline a catalogare ogni fenomeno religioso in psicopatologia della vita quotidiana. No, dice Grunen, non si tratta di fuggire la crisi per rifugiarsi nella fede: piuttosto mi rifugio in questo altro mondo per giungere a contatto con il vero me stesso, dove è sempre aperta la fonte sorgiva del vero coraggio e della vera forza.
La virtù della fortezza è del resto uno dei doni dello Spirito Santo che prende quello che è posto dentro di noi e lo porta a compimento: «Il coraggioso si rende anche vulnerabile. Non si orienta populisticamente alla maggioranza ma alla propria coscienza. Guarda in faccia i problemi e cerca di rimanere saldo. Del dono della fortezza fanno sempre parte anche la costanza e la fermezza. Le crisi interiori ma anche le crisi esteriori, che come la crisi finanziaria colpiscono tutti, in fin dei conti non gli possono far nulla». Tornare all’essenziale significa anche ridare peso alle scelte, ai «sì» e ai «no» che si pronunciano. Al sì che fonda per esempio unioni fondamentali e feconde come il matrimonio. Un sì dunque a quell’unità sociale primaria e fondante che è la famiglia naturale, sul quale è in corso una anno III - numero 39 - pagina II
decennale offensiva di disarticolazione e di sgretolamento. Eppure, nei momenti di crisi, è a questa verità primaria che viene spontaneo ricorrere, ai suoi spontanei nessi fiduciari, alla sua lunga durata storica e sociologica, ma anche al suo essere luogo della manifestazione d’una forza interiore: «È in virtù del sacramento del matrimonio scrive Monsignor Tettamanzi nell’introduzione a Il sacramento delle nozze di Renzo Bonetti (136 pagine, 11,00 euro) - che nella vita di coppia, nei gesti e nelle parole, Dio è realmente presente. Ed è presente non solo nella preghiera ma anche nelle parole, nelle azioni di cura, finanche nei gesti dell’affetto e della passione». Insomma all’interno del matrimonio consacrato dal sacramento, la famiglia costruisce sulla roccia, alle scosse sociali e culturali che fanno sussultare certezze psicologiche e materiali oppone una forza che non è di questo mondo. Una forza che genera valori, educazione, vita: «Il figlio è il segno di una fecondità di amore; perciò la sorgente di coppia è chiamata a zampillare di un amore all’interno del quale ha significato un figlio». Insomma una forza spirituale che genera forza umana e rivitalizza un Occidente che sembra sempre di più la terra desolata di Eliot. Ritorno all’essenziale significa anche tornare al confronto con i temi cogenti che definiscono la nostra esistenza, i temi della vita e della morte, del senso dell’esse-
re in questo mondo, del modo più proficuo di come impiegare il tempo che ci è dato. Perché un altro portato dei tempi di crisi è la lezione del limite, della finitezza della nostra condizione, il cui tessuto vitale è proprio fatto di tempo. Ed è appunto sul tempo, sull’arte di averne di più e di vivere qualitativamente quello che ci è dato, che Friedrich Asslander e Anselm Grün riflettono in Non ho tempo (Edizioni Paoline, 257 pagine, 18,50 euro) nella consapevolezza che la nostra vita, il nostro successo, la nostra soddisfazione la nostra stessa gioia di vivere dipendono in maniera decisiva dal nostro rapporto con il tempo. Rapporto che va cambiato: «E se non si trattasse di andare sempre più veloci e di avere sempre di più, si domandano gli autori - bensì di trovare una dimensione spirituale, di modificare la nostra mentalità e i nostri valori?». Non di solo pane vive l’uomo, dice la Bibbia che significa che l’uomo ha sì, bisogno del pane per vivere, ma anche di valori spirituali.
Il primo passo è ancora una volta il ritorno al fondamento: «La domanda circa l’essenziale trova risposta nella vita quando avvertiamo che non possiamo più andare avanti così o talvolta quando è il destino a colpirci duramente». Eppure con lo sguardo alla nostra mortalità i problemi della nostra vita si relativizzano in maniera notevole. Da qui il non preoccuparsi eccessivamente del futuro: «A ciascun
giorno basta la sua pena», dice Gesù Cristo; significa che non dobbiamo lasciarci opprimere dalla preoccupazione per il futuro, ma sostituirla con la fiducia che il prossimo giorno provvederà a se stesso. Certo, sbaglia chi pensa di conciliare la calma interiore a cui si aspira a uno stile di vita fondato sulla coazione acquisitiva: avere sempre di più ha senso soltanto come sviluppo psichico e spirituale. A livello terreno, ricordano Asslander e Grün, è lo stesso Gesù nel Padre nostro a dirci cosa è opportuno e cosa no: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano» (Mt 6,11) viene detto, ma tutte le altre invocazioni si riferiscono al mondo spirituale. Gli sforzi maggiori insomma devono essere indirizzati al Regno di Dio: «il resto verrà dato in sovrappiù». Gesù richiama l’attenzione sul pericolo di desiderare esclusivamente le cose terrene: «Quale vantaggio ha un uomo che guadagna il mondo intero, ma perde e rovina se stesso?» (Lc 9,25). Molti oggi si trovano in questa situazione, si sono persi: «I loro pensieri ruotano intorno a esperienze o risultati. Non hanno più sensibilità per se stessi, per il proprio stato d’animo. La vita si svolge sempre di più a livello mentale e sempre meno come vita vissuta, a livello di esperienze. Del resto se i nostri sforzi sono rivolti solo alle cose del mondo esterno perdiamo anche noi stessi in questo mondo e ci impoveriamo anche noi stessi», «perché dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore» (Mt 6,21). Crisi economica, crisi famigliare, crisi sociale. Il terreno sismico della crisi è quello dove con più forza esplodono i vulcani del conflitto interpersonale. Là dove si prende la via larga del conflitto, del rancore, del circuito dentato d’offesa e vendetta e non quella stretta della collaborazione, della solidarietà e della carità cristiana i pozzi della socialità vengono avvelenati dal rancore e dall’odio. L’aria si fa venefica e irrespirabile nelle case, nei posti di lavoro, nelle piazze dove si riversano folle piccole e grandi che chiedono di regolare i conti. Esplode la violenza irrazionale. Ancora niente rispetto al fronte dell’odio su cui ha impegnato e vinto la sua buona battaglia Padre Leonel, missionario della Consolata e sociologo che ha maturato la sua lunga esperienza nella gestione dei
santo
conflitti lavorando in prima persona ai negoziati di pace fra il governo e le forze armate rivoluzionarie in Colombia. Fondatore del Laboratorio del perdono, oggi le sue Scuole di perdono e riconciliazione sono presenti in 7 paesi latinoamericani e in 2 paesi sudafricani. In un libro intervista con Alessandro Amato, La rivoluzione del perdono (166 pagine, 13,00 euro), Padre Leonel definisce il perdono come «un utilissimo strumento psicoterapeutico, sociale, spirituale, ma anche politico, per raggiungere una pace stabile e sostenibile».
Hannah
Arendt
descrive il perdono non solo come una risorsa religiosa, ma soprattutto come una virtù politica. «Con il perdono si elimina l’esclusione causata da una ferita morale, si rompe l’irreversibilità del passato». Il perdono e la riconciliazione sono l’asse centrale e la vera novità del Vangelo di Gesù che rompe le tavole dell’antica legge fondata sull’occhio per occhio dente per dente: «La misericordia e il perdono dei peccati sono la buona novella. Dio si fa uomo in Gesù per il perdono dei peccati, ci riconcilia con lui e ci nomina ministri di riconciliazione». Gesù non si limita a dirci di perdonare, ma con la sua vita e il suo esempio testimonia che è necessario riparare anche le mancanze altrui. Per questo Paolo, consapevole e convinto di questa esigenza fondamentale per i veri cristiani dice: «Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente» (Rm 12,1-2). Alla cultura della proporzionalità Paolo sostituisce la cultura della gratuità, la «cultura dell’Agnello» (...). Il che naturalmente non significa che la giustizia di questo mondo non debba seguire il suo corso. «Non invano - dice ancora San Paolo Cesare porta la spada». I cristiani non sono del mondo ma è nel mondo che vivono e nel mondo danno testimonianza, con il comportamento e il retto pensiero prima ancora che con la parola. Come scriveva Leon Gautier a proposito della milizia cristiana sulla terra, infatti «essa vuole che noi affrontiamo i pericoli dell’ora presente con la più cristallina franchezza, che non nascondiamo mai il nostro vessillo; che ripetiamo, se crediamo nel Cristo eterno, il grido dei primi martiri: “Io sono cristiano”e che a fronte alta e con animo adamantino siamo capaci non solamente di morire per la verità, ma, cosa assai più difficile, di vivere per essa».
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parola chiave
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ANIMA ome avvenuto per altre parole importanti, anche sul concetto di anima si è dibattuto ad altissimi livelli, laddove in vari casi si è inteso scherzare su significati tanto impegnativi; anni fa ci colpì il titolo di un film con Montesano e Pozzetto: Anche i commercialisti hanno un’anima; questo ci fa capire come, in linea di principio, con tale parola si intenda almeno di primo acchito qualcosa di bello, prezioso, spirituale, comunque sacro. E così anche la categoria dei commercialisti, il cui lavoro evidentemente è considerato un po’arido, viene riscattata attraverso la possibilità di un’anima bella che ognuno di loro potrebbe avere. Il concetto di anima rimanda in ogni caso a un che di interiore, a qualcosa che sta dentro alla nostra apparenza, che determina comunque il nostro principio senza peraltro poter essere veduta materialmente. Nel pensiero antico è nota la distinzione fra anima e corpo, e nella religione cristiana fin da piccoli ci hanno insegnato a pensare l’anima come una sorta di candida ancorché invisibile superficie che è in noi: la quale, ogni volta che commettiamo un peccato, si macchia di un colore sempre più scuro, a seconda dell’entità della colpa. Fino a poter diventare, in casi di peccato mortale, un’anima nera. Da qui le possibilità di andare all’inferno (o divenire il titolo di una celebre commedia di Patroni Griffi) o di redimersi.
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In questi termini abbiamo sempre immaginato le vicende della nostra anima; che peraltro nella tradizione platonico-cristiana si distacca dal corpo ma non muore con esso, e si ricongiungerà al corpo solo nel giorno del giudizio. Diverso è invece l’atteggiamento della teoria di Pitagora, che caratterizza anche alcune religioni orientali, e che viene evocata anche dal protagonista del Faust di Marlowe: la metempsicosi, ovvero il passaggio delle anime dall’uno all’altro dei corpi terreni dopo la loro morte.Tuttavia l’apoteosi del ciclo e anche dell’espressività delle anime rimane il nostro sommo poema italiano, quella Commedia dantesca che ci invita a visitare i tre regni dell’oltretomba, potendo in questa maniera interloquire direttamente con tutte loro: così dalle «anime prave» di Caronte nell’Inferno si passa a quelle speranzose che «si affinano» nel Purgatorio, per poi pervenire alla loro beatitudine nel Paradiso. E si tratta in ogni caso di dramatis personae, di personaggi che vivono dopo la morte del loro corpo, e che proprio per questo danno vita a quello straordinario poema che, non certo a caso, si intitola Commedia. È significativo che il cristianesimo, dopo aver bandito i teatri che peraltro rinasceranno attraverso le sacre rappresentazioni, trovi la sua
È sempre stato, nei secoli, un termine di fondamentale importanza nella designazione della nostra interiorità, ovvero della nostra quintessenza. Dalla tradizione platonico-cristiana a Riccardo Cocciante...
Il bello (e il brutto) che c’è in noi di Franco Ricordi
È significativo che il cristianesimo, dopo aver bandito i teatri che poi rinasceranno attraverso le sacre rappresentazioni, trovi la sua massima espressione letteraria in una vera e propria “Commedia di anime”: il poema di Dante che ha creato un genere unico nella letteratura di ogni tempo massima espressione letteraria in una vera e propria Commedia di anime, un poema che giustamente il filosofo Schelling considerava alla stregua di un dramma lirico, ma anche epico e drammatico, e che ha creato un genere unico nella letteratura di ogni tempo. E questo dipende proprio dal fatto che, al di là del protagonista che esperisce ancora sentitamente il suo corpo - tanto da cadere «come corpo morto cade» - tutti gli altri personaggi siano anime, dannate, raffinate o beate, ma che tali rimarranno. In questa maniera le anime dantesche, pur non essendo più corpo, sono come gli Spettri shakespeariani, e si comportano come se sentissero ancora i segni del corpo che hanno abbandonato. Ma è solo tra l’illuminismo e il romanticismo che si sviluppa l’importante concetto di «anima bella», la Schoene Seele di Kant e Schiller, che continuerà anche in Hegel e Goethe. È
questa la più importante novità teoretica, che si riferisce evidentemente non solo alla possibilità di giudizio estetico che innalza l’anima attraverso l’esperienza del bello, ma anche a una «bellezza interiore» della persona. E così, a ridosso dell’anima bella, si moltiplicano le possibilità: conosciamo il concetto di «anima buona», come quella del Sezuan nella commedia di Brecht, ovvero della «buon’anima», come chiamavano ironicamente Benito Mussolini; ricordiamo infine un film del 1977 di Dino Risi con Vittorio Gassman, Anima persa, tratto da un libro di Giovanni Arpino fino alla celeberrima canzone di Riccardo Cocciante Bella senz’anima. E dire che proprio nella sua geniale Critica del Giudizio Kant parla proprio in questa maniera! Per indicare una donna bella ma con poco spirito, si esprime con le stesse parole della canzone di Cocciante, e argomenta di
una donna «bella senz’anima». C’è poi il significato «di coppia», per la quale tutti siamo alla ricerca della nostra «anima gemella»; e certo in quest’epoca di crisi di tale istituzione la ricerca del connubio d’anima avviene sempre più on line, tanto che si è parlato espressamente di «anime on line». Per finire va ricordata la celebre animula vagula blandula della Yourcenar, la piccola anima dispersa attraverso cui l’Imperatore Adriano rievoca tutte le sue straordinarie memorie. In ogni caso, al di là della cattiveria o della dannazione che rimangono comunque a un livello di antitetica nobiltà, va riconosciuto come il vocabolo «anima» abbia mantenuto nei secoli una fondamentale importanza nella designazione della nostra interiorità, ovvero della nostra quintessenza: dal concetto plotiniano dell’anima universale si passa direttamente all’anima del mondo, a ciò che di fatto ispira, manda avanti, dà vita alla nostra esistenza. E così l’anima è semplicemente la nostra quintessenza, quel principio che in epoca moderna, da Cartesio a Freud, è stato oggetto di un nuovo studio e di una nuova analisi.
Tuttavia proprio in questo inizio secolo-millennio ci sembra che si stia imponendo più che mai una nuova epoca: quella dell’«anima brutta», ovvero di una «bruttezza interiore», che si può attribuire a questa o a quella persona, ma che ormai rischia di estendersi alla società intera. Si dice infatti di certe persone che siano «belle dentro», che comunicano una «bellezza interiore». Ed è vero, e certo ognuno di noi avrà conosciuto nella vita qualche persona di questo tipo. Ma proprio per la naturale legge del contrappasso che governa la nostra esistenza, non potremo fare a meno di rilevare quante «anime brutte» ci siano al mondo, quante persone davvero «brutte dentro» possiamo aver incontrato o conosciuto. E quando una persona è «brutta dentro» vuol dire proprio che ha una «brutta anima». Ora, se questo sarà certamente accaduto in tutte le epoche, ci sembra che in questo momento storico la bruttezza interiore stia veramente imperversando. E non solo a livello di ciò che Leopardi definiva «brutto poter che, ascoso, a comun danno impera»: peggio, nella sua espressione esteriore, tutt’altro che «ascosa». E senza essere pessimisti, ma al contrario volendo sperare in tempi migliori, siamo tenuti a pensare che proprio questi primi anni del nuovo secolo siamo in sostanza dominati da «un’anima brutta». L’anima del momento è brutta, c’è poco da fare, bisogna rilevarlo per sperare di poter migliorare. Sperare in tempi migliori, in cui potremo forse migliorare nell’anima.
musica Pop Il nuovo restyling L’ILLUSTRE CANTANTE che cambia mestiere di Bryan Ferry C’ MobyDICK
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zapping
di Bruno Giurato
di Stefano Bianchi
ltre stelle del rock, al posto suo (soprattutto a 65 anni) punterebbero senza affanni sull’usato sicuro: un album di routine, tanto per ribadire l’aurea fama e accrescere il già pingue conto in banca. Bryan Ferry, invece, continua a fare il sornione. Il dandy über alles. Scompare per un tot di anni (quasi quattro da Dylanesque, gioiellino di cover dell’intramontabile Bob) e poi riappare col suo innato savoir faire snocciolando il canzoniere in doppiopetto di Olympia con una strepitosa Kate Moss in copertina che s’ispira all’omonimo dipinto di Édouard Manet. È lei il nuovo assoluto femminino, scelto dall’esteta inglese, dopo le innumerevoli bellezze che hanno griffato i dischi dei Roxy Music. Basta solo un ascolto dei dieci brani in scaletta, per veder scomparire i pari o quasi età di Mr. Ferry. Tre nomi a caso: Eric Clapton e Carlos Santana, che ci hanno testè appioppato le loro insulse lezioncine di chitarra; Phil Collins, che ci ha preso per i fondelli con le sue smanie da black music. Al contrario, in Bryan Ferry non c’è trucco e non c’è inganno. C’è il suo timbro vocale: inconfondibile. E il suo suono: in smoking e guanti bianchi. Ben lungi da imboccare il viale del tramonto, l’artista degli aristocratici «guancia a guancia» ci dà una lezione di Art Rock circondandosi (come d’abitudine) da un parterre de roi che stavolta comprende Phil Manzanera, David Gilmour, Nile Rodgers, Chris Spedding, Dave Stewart e Jonny Greenwood dei Radiohead (chitarra), Marcus Miller e Flea dei Red Hot Chili Peppers (basso), Andy Mackay (oboe), Brian Eno (sintetizzatori), Andy Newmark e Steve Ferrone (batteria). Il
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vellutato crooner, che racchiude idealmente nel suo modo di concepire la musica Jean-Luc Godard e Luchino Visconti, Francis Scott Fitzgerald e il Proust inglese Anthony Powell, ci offre con Olympia (tredicesimo disco solista) un saggio di tecnica del re-make, re-model: ovvero rifare e rimodellare la sua creatività, con tanto di maniacale cura per i dettagli. You Can Dance, in apertura, sprizza esotismo, sensualità, magnetismo.
Jazz
Riprende, in restyling, le atmosfere di Avalon (la canzone perfetta dei Roxy Music) e di Slave To Love (la canzone più bella, prima di questa, da solista). Alphaville, invece, è un mordi-e-fuggi di rhythm & blues, funky e piccoli vezzi orchestrali mentre Heartache By Numbers (composta coi «glamourissimi» Scissor Sisters) punta al pop di classe e alla grandeur elettronica, con un pulsar di muscoli che qua e là ricorda gli U2 di Where The Streets Have No Name. E se Me Oh My è una Ladytron (made in Roxy Music) più liquida e sussurrata, l’incredibile si confà a Shameless, gingillo elettronico giocato in compagnia dei Groove Armada. BF Bass (Ode To Olympia), spettacolarizza la soul music prima che la melodia invada la scena col romanticismo pianistico di Reason Or Rhyme e il passo felpato di Tender Is The Night. Le cover, infine. Un classico, per Bryan Ferry. Procuratevi These Foolish Things (’73), Another Time Another Place (’74) e Taxi (’93): ascolterete le più belle rivisitazioni di pezzi altrui. Due, nel caso di Olympia: Song To The Siren di Tim Buckley, avvolgente ballata che lo vede riunirsi agli altri Roxy Music (Manzanera, Mackay e Eno: non succedeva, in sala d’incisione, dal ‘73 di For Your Pleasure) e No Face, No Name, No Number dei Traffic, con la chitarra elettrica di Chris Spedding a dettar legge. Anche questo, fa parte del suo stile. Bryan Ferry, Olympia, Virgin, 19,50 euro
è un famoso cantante inglese di cui non faremo il nome e nemmeno il cognome. Non li facciamo perché c’era una volta un famoso critico letterario, studioso e anglista, di cui nessuno fa il nome e cognome (tranne Alberto Arbasino), e il cantante sembra avere gli stessi effetti. Il famoso cantante insomma sembra avere le stesse caratteristiche del famoso critico (chiediamo venia per tutta questa oscurità, ma il lettore per chi scrive è al di sopra di tutto, e giustappunto non vorremmo urtare la suscettibilità di alcuni, del resto riguardo a certi fatti diceva Benedetto Croce: «Non è vero ma ci credo»), l’abbiamo visto piangere e cantare a tanti funerali di suoi amici famosi che sembra la copia ossianica di una prefica lucana. L’abbiamo visto accendere candele nel vento e abbiamo rimpianto il buon tempo antico in cui suonava un pianoforte allegro. Ora veniamo a sapere, per di più nel periodo di Ognissanti che notoriamente si caratterizza per uno scambio tra vivi e morti, inferi e superi, che il famoso cantante non scriverà più musica pop, ma si dedicherà ad «altri progetti musicali». Poco male, raggiunti i 63 anni, sotterrati per cause naturali ma più spesso crudamente artificiali una serie di amici, sodali, compagni, colleghi, è più che naturale che il cantante in questione non abbia più voglia di competere con Shakira e Lady Gaga, insomma di dare il suo contributo alla sciocca allegria del mondo. Anche perché ha sperimentato che è più soddisfacente (anche dal punto di vista economico) dare un contributo corposo al lutto nel mondo. In breve sappiamo quali sono i misteriosi progetti musicali dell’innominato cantante che ha la stessa caratteristica dell’innominabile anglista. Messe solenni, ça va sans dire.
Alla (ri)scoperta di Tommy, Miles e Chet
ommy Ladnier, Chet Baker, Miles Davis, cosa hanno in comune questi tre solisti di tromba? Musicalmente poco o nulla soprattutto il primo con gli altri due, molto invece se andiamo a visitare i negozi specializzati o i grandi stores. Negli scaffali dei dischi e dei libri dedicati al jazz le sorprese sono molte. Iniziamo con Tommy Ladnier. Chi ricorda questo straordinario musicista nato a New Orleans nel 1900 e morto a New York nel 1939? Pochi o nessuno suppongo, anche perché coloro che dovrebbero far conoscere questa musica alle nuove generazioni si occupano, con l’eccezione di pochi casi isolati, solo e unicamente del jazz attuale e delle contaminazioni fra jazz e altre musiche. C’è invece fortunatamente chi si impegna con grande capacità nella ricerca. Per Tommy Ladnier sono lo svedese Bo Lindstrom e il francese Dan Vernhettes che hanno recente-
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di Adriano Mazzoletti mente pubblicato il frutto di un loro immenso lavoro durato, immagino molti anni, Travelling Blues. Life and Music of Tommy Ladnier (Jazz’Edt. Paris): è un volume di 215 pagine di grande formato (26x28), con un impianto iconografico prodigioso. Ma non solo. I due autori-ricercatori sono stati in grado di ricostruire quasi giorno dopo giorno la vita di uno dei più importanti musicisti del jazz classico. Il volume è ricchissimo di reperti storici, persino documenti che fanno risalire le origini della famiglia del musicista al 1719, foto mai pubblicate, soprattutto dei viaggi che Ladnier compì in Europa, spingendosi fino a Mosca. Discografia completa, testimonianze e molto altro ancora mettono una parola definitiva sulla storia musicale e umana di questo musicista. A due grandi esponenti delle
generazioni successive, Miles Davis e Chet Baker sono invece dedicati altri imponenti lavori biblio-discografici. I primi tre riguardano Miles Davis. Il primo è un cofanetto comprendente quattordici cd dal titolo All Miles.The Prestige Album che copre il periodo aureo di Davis (1951-1956). Capolavori che lo vedono accanto a importanti musicisti del periodo, Horace Silver, Max Roach, Art Blakey, Red Garland, Paul Chambers, Philly Jo Jones e soprattutto Sonny Rollins e John Coltrane. Il secondo, Miles Davis-Gil Evans. The Complete Columbia Studio Recording, comprende sei cd e un volume di oltre 90 pagine con il minuzioso racconto degli anni in cui Miles era sotto contratto con Columbia (19571968), periodo in cui vennero realizzati capolavori come Miles Ahead, Porgy and Bess, Sketches of Spain. Il terzo è
dedicato interamente a Bitches Brew (1969), con quattro cd e un volume, anch’esso di 90 pagine. È forse il disco Columbia di Davis, più conosciuto dalle nuove generazioni. Infine Chet Baker. La casa francese Barclay ha eretto un vero e proprio monumento al periodo francese di questo musicista (1955-1956). Otto cd accompagnati da un lussuoso volume di 80 pagine di grande formato. Pubblicazioni queste assolutamente indispensabili per chi si occupa di jazz, ma, tutto ciò, in termini economici, ha un ulteriore significato. Il disco singolo attraversa oggi un periodo di crisi. Le case discografiche sono costrette ad abbassare i prezzi, ma contemporaneamente, c’è chi pubblica opere dal costo assai elevato, da 50 a 250 euro a seconda dei casi, dedicate a un pubblico diverso da quello che fino a poco tempo era solito acquistare libri e dischi di jazz.
arti Mostre
MobyDICK
apita che qualche amico, o lettore, ti ponga questa scomoda domanda, a rasopelle: «Che cosa c’è di bello da vedere?» (ovviamente in Italia); o ancor peggio: «Ma c’è qualche mostra da non perdere assolutamente?». E allora ti senti completamente nudo di memoria, slavato di occasioni memorabili, come quegli intervistati tv, intercettati in pieno mercato, che se gli domandano: «Qual è l’ultimo libro letto?» non si ricordano nemmeno di aver sfogliato Pinocchio da bambini! Sarà pur colpa della nostra debole memoria, inflazionata da troppa fuppa espositiva, o da un ancora ingiustificato esubero di proposte discontinue, sarà. Ma probabilmente la colpa è dovuta anche alle nostrane mostre pretenziose, pretestuose, inutili, che è quasi salutare dover cancellare dalla lavagnetta della memoria, aggredita dal malcostume espositivo. Eppure, quando torni da certi viaggi ben fortunati, in Paesi dove le mostre le sanno ancora ben concertare e strutturare con anni evidenti di «studio e applicazione», le occasioni da non perdere eccome se te le ricordi, a lungo. In Italia, invece, tutto il contrario. A parte quella, insuperabile e poco-italiana (visto la serietà scientifica) su Bronzino a Firenze, quella sontuosa ed educativa, co-prodotta da Skira, sull’Islam, a Palazzo Reale di Milano, ecco, se già ti sposti di poco, nello stesso palazzo, ma che delusione! (rispetto a quello che ci eravamo illusi di sperimentare) la mostrona-bazar su Dalì (impari, in confronto a quelle visitate per il mondo, in questi anni di intelligente recupero) prevedibile, banale, basata tutta sui quadroni suoi più facili e onirici, che persino lui snobbava, a favore di più sorprendenti ricerche, che qui sono irreperibili. E così,Van Gogh a Roma, zoppicante, la flebilissima Pesantezza e la grazia a Villa Medici, la
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Archeologia
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La forza eversiva dei feticci di Mayombé di Marco Vallora farraginosa Trasparenze a Napoli, la troppo testoteronica kermesse del fotografo giapponese Kara Tanaka... Si prenda il Belgio, invece, pur senza manie esterofile. Ma se ti giri nei pochi chilometri quadrati che intrecciano Liegi a Bruxelles, Lovanio a Gand, Bruges a Mons, Anversa a Ostenda, ma che meraviglie di mostre che ti capita da vedere! Alcune così importanti, che è impossibile riassumerle qui, magari ne tratteremo a parte, come quella capitale su Cranach al Bozart di Bruxelles (che fa impallidire quella pur seria, e progettata da curatori attendibili, alla Galleria
Borghese. Ma come si possono pensare due mostre attendibili, in contemporanea, rubandosi le opere?!). Oppure quella sulla Pittura Fiamminga che guarda all’Ovest, a Bruges, che racconta in modo mirabile il rapporto tra Van Eyck, Memling e van der Weyden, con l’Allemagna danubiana di Duerer e Altdorfer, e più in là, con la troppo poco conosciuta cultura figurativa di Ungheria, Boema, Slovacchia. Una meraviglia. Come le varie mostre-anniversarie per Ensor, disseminate qui e là, per la Fiandra: e se non viene umiliato dai commerci con i contemporanei, che vorrebbero vanito-
samente «omaggiarlo», che genio assoluto si rivela. Ma si prenda per esempio una mostra, apparentemente «normale», come quella dedicata alla Magia dell’Africa, nel nuovo museo ed efficientissimo di Lovanio, piccola, affascinante, secolare città universitaria, dove si sa studiare. È la raccolta unica, poi divisa da varie peripezie, e rafforzata da pezzi maggiori, provenienti dal celeberrimo museo di antropologia di Tervuren, d’un curioso missionario fine Ottocento, Leo Bittremieux, tutt’altro che bigotto e colonialista, che non voleva umiliare la cultura del Paese che voleva convertire, senza violenza. Nel 1910 giunge in questo sperduto angolo di foreste, all’imbocco del fiume Congo, che si chiama Mayombé. E decide non solo di predicare, ma di capire anche la profonda e tribale cultura di queste popolazioni. Per cui, da vero proto-etnologo autodidatta, raccoglie un numero ragguardevole e sceltissimo di figurine totemiche, che poi invierà via mare all’Università di Lovanio, che le usa anche a fini didattici, per preparare i funzionari di quel colonialismo che si rivelò uno dei più crudeli e feroci. Però, senza farsi travolgere dai sensi di colpa, che pure è giusto ci siano, il Belgio ha deciso, in quest’anno anniversario di celebrazione dell’indipendenza del Congo Belga, di ripercorrere la triste storia di quella lunga peripezia coloniale, a partire dalla foto, comunque sapienti, del non certo innocente re Leopoldo II. E sono magnifiche, queste statuette, trafitte di chiodi, di specchietti, di magia, quella che faceva dire a Picasso, in conversazione con Malraux: «Non è che io abbia copiato lo stile formale delle maschere africane, ho emulato la loro eversiva forza di feticci esplosivi». Infine un insegnamento alla nostra sciupona Italia assessoriale: questa utile esposizione girerà per mesi, anche in città distanti pochi chilometri! Imparare.
Maestri della magia, Lovanio M Museum, fino al 25 gennaio
Ecco il rostro che decise le sorti alle Egadi volte pensiamo che i personaggi storici, le date, i luoghi di battaglie siano così distanti nel tempo dal nostro presente da non riuscire più a immaginarli, da non riuscire più a percepire tutta la valenza storica di cui si fanno portatori. Eppure… Eppure accade che, da quell’immenso contenitore di storia e di mistero che è il mare, rispunti fuori un oggetto che ai più non dice nulla, ma che per il luogo in cui è stato ritrovato e per il ruolo svolto, ai pochi provoca una leggera e velata emozione. Poco tempo fa, è stato individuato un rostro di una nave romana recuperato nelle acque antistanti le isole Egadi. Nelle stesse acque nel 2008, al largo dell’isola di Levanzo, fu individuato un altro rostro e recuperato con sofisticati macchinari vista la profondità in cui giaceva ormai da secoli. Come due anni fa, anche per questo rinvenimento, è stata la collaborazione tra la Soprintendenza del Mare della Regione Sicilia, diretta dal Prof. Sebastiano Tusa, con la collaborazione della Fondazione statunitense Rpm nautical, diretta da George Robb, che ha permesso l’importante ritrovamento. Ma perché così importante? Certamente non si parla di bronzi di Riace, o della meravigliosa statua bronzea del Satiro dan-
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di Ludovico Bitetti zante rinvenuto nelle acque di Mazara del Vallo, ma di un oggetto che era comune trovare sulle imbarcazione da guerra nell’antichità dal IV secolo a.C. in poi. Si tratta di un rostro bronzeo di circa 200 kg che veniva innestato sulla struttura lignea della prua come continuazione della cintura di rinforzo dello scafo nella fascia di transizione fra opera viva e opera morta, sporgendo di circa 2 metri. Aveva il compito di speronare lo scafo dell’imbarcazione avversaria cercando di arrecare il maggior danno possibile, se non addirittura l’affondamento stesso. Questo era possibile combinando due fattori fondamentali: l’angolo d’impatto sullo scafo avversario e la velocità con cui la nave era spinta all’assalto. Ebbene, questo rostro ritrovato è con tutta probabilità da ricondurre a una delle imbarcazioni che presero parte alla famosa e importante battaglia delle isole Egadi del 10 marzo 241 a.C., quando il console Gaio Lutazio Catulo riuscì con una manovra repentina e spregiudicata a sorprendere la flotta cartaginese che navigava in direzione di Trapani per correre in aiuto
dell’esercito punico guidato da Amilcare, posto sotto assediato dai romani. Gaio Lutazio Catulo, informato dell’arrivo della flotta nemica, si diresse verso l’isola di Favignana usandola come «scudo» in modo tale da potere sorprendere gli avversari in assetto di navigazione. Questa battaglia è stata l’atto conclusivo della Prima guerra punica e ha segnato una svolta nella storia di Roma: da un punto di vista politico, sovvertì le sfere di influenza nel Mediterraneo occidentale, fino a quel momento caratterizzate dalla presenza cartaginese; da un punto di vista militare, con questa battaglia l’esercito romano cominciò a conquistarsi un posto tra le potenze navali mediterranee, dando quella continuità sul mare tanto utile e necessaria all’esercito di terra. Ed è in momenti come questi, quando un oggetto come un semplicissimo rostro viene ritrovato, che il passato ritorna silenziosamente a vivere il nostro presente.
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o 43 anni… Molti scrittori della mia generazione hanno un nuovo rapporto con la storia», ha detto Yannick Haenel in un’intervista rilasciata a Repubblica alla pubblicazione del suo libro in Italia (Il testimone inascoltato edito da Guanda). «Siamo attratti da una memoria che ci appartiene, per ovvie ragioni anagrafiche. Abbiamo un gesto narrativo più libero, disinibito. Io la chiamo finzione etica, parte dai documenti per andare oltre. C’è una parte di verità che è, per sua natura, irrappresentabile, ed è la parte del romanziere. Gli ultimi testimoni stanno scomparendo, la finzione diventa sempre più inevitabile per tramandare la memoria. Ovviamente ci sono dei rischi. La finzione è come un esplosivo, può anche far saltare tutto». Della libertà di Haenel, della sua «finzione etica» e dei pericoli che può comportare, molto si è discusso in Francia quando il libro è uscito nel 2009 (per l’editore Gallimard). Meno in Italia, Paese distratto e spesso indifferente a ciò che è più importante: la memoria storica, il modo per raccontarla e dunque trasmetterla attraverso la catena delle generazioni. Anche se va ricordato che, appena l’anno passato, lo storico David Bidussa si interrogava nel suo Dopo l’ultimo testimone, uscito dall’editore Einaudi -, e probabilmente in solitudine, sul vuoto in cui può precipitare la memoria dei grandi eventi che hanno segnato il secolo passato. Che cosa accadrà, ad esempio,
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gittimo passare quel confine senza cadere nell’arbitrio? Diciamo intanto che il «testimone inascoltato» ha un nome - Jan Karski - e ha una storia. L’uno e l’altra sono rimasti a lungo celati. Haenel li conosce attraverso il film di Claude Lanzmann, secondo Marcel Ophuls «il più grande documentario mai girato sulla storia contemporanea», dodici anni di preparazione, riprese e montaggio, nove ore e mezza la durata. «Verso la fine del film - scrive Haenel nel suo libro -, un uomo cerca di parlare, ma non ci riesce. È sulla sessantina e si esprime in inglese; è alto, magro e indossa un elegante vestito grigioazzurro. La prima parola che pronuncia è Now (Ora ). Dice: Torno indietro di trantacinque anni, ma viene subito preso dal panico, tira il fiato, le sue mani si agitano: No, non ritorno, no…no… Singhiozza, si nasconde il volto, all’improvviso si alza ed esce di scena. Lascia il vuoto, si vedono soltanto scaffali di libri, un divano, delle piante. L’uomo è scom-
L’azzardo Haenel l’ha sperimentato ricostruendo la vicenda di Jan Karski che raccontò agli Alleati la Shoah che si stava consumando. Ma nessuno volle credergli quando scompariranno gli ultimi testimoni della Shoah. Come la si racconterà? E come la conosceranno le nuove generazioni? Attraverso quale circuito verbale o visivo? Nessuno comunque potrà dire di aver visto e di aver sentito; nessuno potrà più restituire la carne viva e ferita di ciò che è accaduto. «In quel terreno vuoto dice David Bidussa nel suo libro - si porrà la dimensione della postmemoria».
È il problema da cui è partito Yannick Haenel (ma anche, almeno in parte, è il problema di Le benevole, il fortunatissimo libro di Jonathan Littel, uscito da Gallimard nel 2006 e da Einaudi nel 2007), è il coraggioso azzardo di Il testimone inascoltato, il rischio in cui il suo autore si mette, segnando una nuova strada per la narrazione storica e per quella letteraria. Haenel si chiede come procedere dove non ci sono più testimoni, ma anche come raccontare ed elaborare memoria dove non ci sono né documenti né verità attestate, come avanzare in quella regione silenziosa? La «finzione etica», di cui Haenel parla nell’intervista a La Repubblica, «parte dai documenti per andare oltre». Ma «oltre» dove? Dove finisce la verità e comincia la costruzione narrativa? Dove la Storia sconfina nella Letteratura? Ed è leanno III - numero 39 - pagina VIII
parso». Resistendo all’onda montante di emozioni trattenute per tanto tempo, Jan Karski tornerà davanti alla cinepresa di Claude Lanzmann, e dipanerà il suo terribile racconto tenendo a bada i fantasmi che lo inquietano, le immagini, i volti, le storie che ha portato con sé per quasi quarant’anni. Deve essere stata un bagaglio quasi insopportabile. E ora che qualcuno gli chiede finalmente di raccontare - nessuno lo ha mai fatto prima -, soccombe all’emozione. Sembra cedere alla sua irruzione. Il cuore gli balza in gola, togliendoli la parola. Pensa probabilmente che ha fatto male ad accettare di parlare. Non è capace di attingere alla massa dolorosa della sua memoria personale. Non era meglio restare in silenzio? Questo deve aver pensato Jan Karski. Lo aveva detto subito: «Non torno indietro», e cioè non supero la linea che divide l’oggi dal passato, non sollevo la pietra che lo chiude. Poi provvisoriamente si placa: supera la linea che divide l’oggi dal passato, solleva la pietra e la massa dolorosa che la pietra ha nascosto in tutto questo tempo. L’occhio fermo della cinepresa di Lanzmann ha aspettato che le emozioni defluissero, mentre, almeno per un po’, i ricordi del Ghetto e del Lager allentano la loro presa. Le cose decisive spesso accadono
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È possibile affidarsi alla finzione e percorrere una nuova strada per la narrazione storica quando non ci sono né documenti né verità attestate e gli ultimi testimoni stanno scomparendo? Secondo Yannick Haenel e altri con lui, sì. Autori che non si sottraggono al corpo a corpo con la Storia per salvaguardare la memoria e per restituire una materia imprendibile: l’umano dell’uomo
Il romanzo di Maurizio Ciampa proprio così, per piccoli spostamenti, scivolando appena sulla realtà. Il racconto che a questo punto si libera è inaudito, ai limiti del credibile.
Jan Karski è stato un ufficiale dell’esercito polacco clandestino. Nel 1942 viene contattato da due esponenti della Comunità ebraica che lo introducono prima nel Ghetto di Varsavia, poi in un campo da cui Karski evade, dopo aver visto lo sterminio in atto, lo sterminio dal di dentro. Lo dovrà raccontare, questo gli chiedono i due ebrei. Dovrà dire, parlare, far sapere. «L’ho visto con i miei occhi»: dovrà dirlo ai vertici dei governi alleati, dovrà dire che gli ebrei vengono annientati. I villaggi sono ormai deserti, i ghetti delle città svuotati. Si deve sapere. Gli alleati po-
tranno anche vincere la guerra, ma, nel centro Europa, non resterà neanche un ebreo. Neppure uno. Per farlo sapere, Karski attraverserà l’Europa in guerra con enormi difficoltà, come è facile da immaginare, attraverserà l’Atlantico, racconterà quello che ha visto con i suoi stessi occhi. Ma non servirà a nulla. Sì, non servirà a nulla. Non gli crederanno gli inglesi, non gli crederà neppure il presidente degli Stati Uniti, Franklin D. Roosevelt. Non vorranno credergli. «Si è permesso che lo sterminio degli ebrei si compisse», scrive Haenel. «Nessuno ha cercato di fermarlo, nessuno ha voluto provarci… Nessuno mi ha creduto perché nessuno voleva credermi. Rivedo il viso di tutti coloro ai quali ho parlato; ricordo perfettamente il loro imbarazzo».
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della realtà
Yannick Haenel varca la linea della storia per inoltrarsi nel terreno scivoloso della «finzione». Mentre la prima parte del suo libro si appoggia al film di Lanzmann, la seconda utilizza il libro di memorie di Jan Karski (uscite in Francia nel 1948 e nel 2004 con il titolo La mia testimonianza davanti al mondo), la terza è appunto d’invenzione. «Il lettore che arriva al terzo capitolo sa tutto quello che c’è da sapere su Karski», dice Haenel nell’intervista che ho ricordato. «Io gli faccio una proposta di finzione. Si può accettare o rifiutare». Credo che la «proposta» vada accettata. Perché fermarsi dove la storia scritta o raccontata ci lasciano? Perché non azzardare? C’è qualcosa che i documenti non trascrivono e la storia non trattiene, una materia probabilmente troppo sottile, imprendibile: l’umano dell’uomo, quella figura alta, tanto magra da non riempire neppure i vestiti, quasi buffa tanto irregolare è il suo viso, Jan Karski, ufficiale polacco, schiacciato da una missione che non è arrivato a compiere. Perché non è stato creduto? Ha solo raccontato ciò che ha visto di persona, e lo ha visto mentre accadeva, nel luogo stesso in cui accadeva l’annientamento del popolo ebraico. Perché non è stato creduto? È la domanda del Testimone inascoltato. Un libro coraggioso: fa capire che per decifrare l’uomo e la sua storia bisogna correre qualche pericolo, forzare la linea di ciò che è narrabile. Inutile chiedersi dove finisce la Storia e comincia l’invenzione letteraria. Per sua propria fisionomia, la letteratura è mobile, volatile, «soffia dove vuole», restando fedele alla voce dell’uomo. Può diventare itinerario di conoscenza. Il libro di Yannick Haenel e la sua «finzione etica» ce lo ricordano.
sta, Cercas ha dichiarato di aver mirato a un libro «che fosse al contempo Storia e Letteratura, Romanzo e Saggio». E così è la sua Anatomia. Cercas inclina alle forme ibride, ben sapendo che il Romanzo ha fin dall’inizio un profilo «meticcio». D’altra parte, circolava quest’aria anche in Soldati di Salamina, il suo libro precedente, un ardito nodo di generi diversi. Il tentativo di colpo di stato del 23 febbraio 1981, quando il colonnello Tejero, «alla testa di uno sgangherato manipolo» di centossettanta tra ufficiali e militi della guardia civile, entra nel parlamento nazionale tenendo sotto il tiro delle armi i deputati riuniti per l’elezione del nuovo presidente, questo singolo puntuale istante diventa un affollato crocevia di gesti in cui Cercas legge il passato e il futuro della Spagna, tutto stipato nel punto cruciale di un «istante eterno» in cui il Paese ha l’occasione di afferrare le linee confuse della sua identità. Nell’intero arco del suo libro (oltre 400 pagine), Cercas bracca il senso di quello che si è mosso attorno a quell’istante, prima, dopo e durante.
Diversamente da Haenel, lo scrittore spagnolo non si concede alla finzione, va incontro a quel piccolo scuotimento della Storia che è il tentato golpe del 1981 senza «i poteri e la libertà della finzione letteraria». A mani nude, potremmo dire, o con il solo supporto di un’intelligenza acutissima, attratta dal vortice di drammaticità e insensatezza che rischia di avvolgere un Paese appena avviato sulla strada della democrazia dopo trent’anni e oltre di dittatura. «Se un romanzo - scrive Cercas - deve rischiarare la realtà tramite la finzione letteraria, imponendo geometria e simmetria là dove c’è soltanto disordine e casualità, non dovrebbe partire dalla realtà anziché dalla finzione letteraria?». E Cercas nella realtà s’impianta, non si sposterà finché non avrà considerato tutti i suoi strati, finché non avrà attraversato tutte o quasi le sue zone d’ombra. La sua «anatomia» è cellulare, la sua attenzione micrologica. Egli si chiude all’interno dell’emiciclo che fa da teatro al Golpe, ne esce solo per guardare ai pezzi di Paese che il Golpe hanno vagheggiato, la sua «placenta», ricostruendo la «minuziosa ragnatela» che ha irretito la Spagna. Per questo Cercas torna a sgranare, quasi ossessivamente, quell’«istante», ne
In “Anatomia di un istante” Cercas avanza con precisione micrologica nel colpo di stato di Tejero, nella Spagna post-franchista del 1981. Un libro avvincente come un giallo
Sopra, Tejero durante il colpo di stato in Spagna del 1981; in alto, due immagini di Roman Vishniac, il fotografo che lavorò attivamente nell’Europa dell’Est, testimoniando, con i suoi scatti, la vita nei ghetti tra il 1935 e il 1938; a sinistra, Jan Karski e, sotto, le copertine del libro di Yannick Haenel e di Javier Cercas
Anche l’Anatomia di un istante di Javier Cercas ha il rilievo dell’evento. Come nel Testimone inascoltato di Haenel, la narrazione prende strade inconsuete, misurandosi in un esemplare corpo a corpo con la Storia, quella recente della Spagna post-franchista. Il libro, uscito nel 2009, ha avuto grande risonanza, occupando a lungo la classifica dei libri più venduti: evidentemente gli spagnoli si sono riconosciuti nel singolare specchio costruito da Cercas. Segnalo poi che Il testimone inascoltato e l’Anatomia di un istante, entrambi questi libri sono stati pubblicati, in Italia, da Guanda, un editore che, più di altri, sta mostrando un’attenzione davvero particolare alle nuove vie battute dal Romanzo e al dinamismo conoscitivo che ancora lo anima. In una recente intervi-
scompone le immagini, ne ripercorre i gesti: il «manipolo sgangherato» di Tejero che irrompe nell’aula, gli spari, le pallottole che sibilano, i deputati che, in preda al panico, si nascondono sotto i banchi parlamentari, i tre uomini, solo tre, che, al contrario, restano al loro posto, sfidando con lo sguardo i militari. Quale è l’entroterra del loro coraggio? Qual è la loro storia? E come entra nella grande storia della Spagna e, in qualche modo, la rappresenta? Il racconto di Cercas si fa serrato e avvincente come un «giallo», o semplicemente come un romanzo, «non rinuncia del tutto a essere letto come un romanzo», dichiara Cercas. Lo potremmo definire un romanzo di realtà, che è poi la strada che la letteratura europea sta percorrendo. Con risultati di rilievo.
Narrativa
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libri
Michèle Lesbre NINA PER CASO Sellerio, 167 pagine, 12,00 euro
robabilmente è un azzardo affermare che un libro come questo, per delicatezza, profondità e sobrietà letteraria, doveva davvero essere scritto da un autore francese. Anzi, un’autrice: Michèle Lesbre, impostasi immediatamente all’attenzione della critica e del pubblico, prima francese e oggi anche italiano (ricordiamo anche Il canapé rosso, sempre Sellerio). Il romanzo è la storia di Nina, prima bambina poi ragazza-donna, che naviga in una sconfinata solitudine. Lo fa accanto a Suzy, la madre che ha lasciato sia Parigi sia il marito e si è trasferita vicino Lille trovando lavoro come operaia in una fabbrica di «filati di lusso». Inevitabilmente la crescita di Nina, che vede e sente tutto, avviene all’ombra della mamma, donna sola malgrado certi amori, ai quali all’inizio aderisce con entusiasmo e con luce strana negli occhi e poi a essi pare solo adattarsi. L’incubo è la fabbrica, «una seconda casa dove si invecchia tra il rumore e la fatica… in piedi, con le gambe pesanti come il piombo a furia di girare attorno alla macchina». Ci sono le compagne di lavoro, che «fanno tutte gli stessi gesti» nello spogliatoio dove smettono l’abito del turno intriso della puzza del reparto e ricominciano a essere donne. Nina s’accorge che la madre ha un corpo più appesantito, ma la giudica attraente. Così come quando sente «certe voci» provenire dalla sua camera da letto: un ospite gentile e premuroso, poi uno più rozzo, infine un altro. Suzy e le colleghe formano «la banda del sabato pomeriggio»: parlano di tutto, anche del capo-reparto Legendre che ha l’abitudine di sorvegliare il lavoro prendendo appunti su un quaderno rosso. «Un porco», visto che scopriranno i suoi appunti-commenti del tipo «bel fondo-schiena, ma lavora lenta» e così via. La fabbrica entra nelle case. Quella fabbrica che sta per chiudere per volontà del
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fu Cechov ad aver scritto l’omonimo testo teatrale, storia di una donna che vuole recitare. Anche Nina lo desidera. Affascinata dal personaggio, una donna che «sogna soprattutto qualcosa di diverso, di lontano, qualcosa che possa dare un senso alla sua vita». E in una delle finestre di quella pensioncina si staglia il profilo di Piotr, un emigrato russo. La diciottenne Nina esce di casa, sale le scale dell’albergo e trova, dinanzi al corpo muscoloso e avvolgente di un giovane che rammenta il freddo della Siberia, quel calore che nessuno le ha ancora concesso appieno. Piotr è di passaggio, in attesa di una nave che lo porti in Canada. Come è di passaggio Nina verso la femminilità incipientemente matura. Non è a caso che, in occasione della morte dell’operaia, abbracci la madre chiamandola per nome. Sono entrambe donne, finalmente, l’una di fronte all’altra. E ciascuna con una storia sentimentale propria. Già in precedenza Nina si pone il problema su come «liberare mia madre da quel mondo che la logorava e la metteva in pericolo e al quale forse, invecchiando, avrebbe finito col somigliare». Sia negli occhi di Suzy sia in quelli della ragazza non si delineano progetti precisi. La vita travolge, anche quando la si potrebbe correggere, almeno un poco. Madre e figlia camminano in mezzo a illusioni, ricordi e nostalgie. Sono sole nel senso che nessuno le protegge. Gli altri? Sono tutte persone che alla fine partono, nomadi della vita e dei sentimenti. Nina ha sogni segreti, descrive scenari (che il lettore scoprirà se reali o immaginari) in cui lei non è più «la deliziosa» ragazzetta, ma una giovane «cattiva, molto cattiva». Ovvio: non certo con se stessa o con la madre, semmai con quel «farabutto» che decide di chiudere la fabbrica, l’uomo che si pavoneggia nei negozi e sarà poi trovato senza vita nella vasca da bagno. L’adolescenza di Nina ha lo strappo fatale. E un segreto da non rivelare ad alcuno: ormai non è più la bambina che succhia la vita dalla madre. Ormai le è accanto. Come donna consapevole dei lutti emotivi.
La solitudine è… essere Nina
Il tocco di Michèle Lesbre (al suo attivo il successo del “Canapé rosso”) per una storia tutta al femminile
Il bibliofilo
di Pier Mario Fasanotti proprietario Deplat. E quest’uomo s’insunua nelle fantasie (ma saranno veramente tali e solo tali? Non lo riveliamo) di Nina, afferrata da sottile vendetta dopo la morte dell’operaia Louise e la disperata protesta di Roger che fracassa un macchinario urlando ai poliziotti che «o un albero muore in piedi o viene assassinato». Nina guarda sempre l’albergo che sta di fronte, spera di incontrare gli occhi del padre, al quale scrive sempre lettere e mai le spedisce. Ricorda con struggente nostalgia che lui, ma anche la mamma, la chiamava «gabbiano». Sarà un suo amico a rivelarle che
Diario di un benemerito bibliofago: di futurismo e la carta è prodotto della filiera vegetale, ne discende che i bibliofagi appartengono alla categoria degli erbivori, e da sempre, nella catena alimentare, gli erbivori sono il cibo prediletto dei carnivori che li attendono famelici all’ora dell’abbeverata, quando sono più vulnerabili, addentabili, sgranocchiabili. Esposti all’aggressione del nemico. I librai sono i carnivori, i più pericolosi, i più voraci, i più mendaci». Sono parole di Pablo Echaurren tratte da Nel paese dei bibliofagi (pp. IV + 222, 15,00 euro), edito da una piccola e meritoria casa editrice, la Bibliohaus di Macerata, specializzata nel settore della bibliofilia e delle ricerche bibliografiche. Echaurren, che con la moglie Claudia Salaris ha allestito la più importante collezione di libri e documenti sul futurismo italiano, mette a nudo tale sua passione in questo godibilissimo volumetto, il cui emblematico sottotitolo è Giornale di bordo di un collezionista futurista. L’autore ripercorre, con un linguaggio fantasioso e scoppiettante, ricco di espressioni onomatopeiche e calembours, neologismi e assonanze, le vicissitudini occorse per appropriarsi di alcuni cimeli novecenteschi come il celebre «libro imbullonato» di
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di Pasquale Di Palmo Depero, il Bizzeffe di Soffici o la «prima» del Kn di Carlo Belli, le cui teorie influenzarono profondamente l’opera di Kandinskij. L’acquisto di ogni libro difficile da reperire sul mercato antiquario nasconde infatti una vicenda aggrovigliata fatta di esasperanti ricerche sul campo, di appostamenti, trabocchetti, notti insonni, intrighi, dai quali è complicato sottrarsi senza rimanerne, in qualche modo, segnati. Echaurren, con una buona dose di humour e autoironia, racconta una storia lunga più di trent’anni, quando il futurismo ancora non godeva della considerazione critica attuale e gli stessi opuscoli che adesso valgono una piccola fortuna costavano poche lire. Si descrivono così gli stati d’animo che sottendono alla ricerca e al ritrovamento di un’edizione particolarmente pregiata o di una plaquette di un autore secondario mancante da ogni mappatura e inventario futurista che si rispetti. Allo stesso Echaurren e a Claudia Salaris, autrice di fondamentali testi come Storia del futurismo (Editori Riuniti, 1985) e Bibliografia del futurismo (Biblioteca del
Echaurren, a cui si devono molte scoperte sul campo, racconta la sua passione
Vascello/Stampa Alternativa, 1988), si deve infatti la scoperta di titoli dimenticati, oltre alla valorizzazione, anche se postuma, di artisti come Oswaldo Bot che, in quel di Piacenza, si dilettava a stampare «libriccini autocelebrativi, egocommemorativi, self elogiativi» di ardua reperibilità. Echaurren riporta inoltre una serie di spassosi quadretti legati alla smodata passione per i libri rari che bisogna considerare alla stregua di una vera e propria forma di tossicodipendenza, con tanto di incattiviti spacciatori (i librai) che adottano le tecniche più crudeli al fine di manipolare le coscienze di esseri bramosi di accaparrarsi una brochure d’antan, un in-folio di poche pagine ingiallite. Enrico Sturani, nella sua prefazione, riporta il seguente, gustoso aneddoto: «Da un comune conoscente ebbi infine conferma dell’esclusivismo cui era giunto (il collezionista di libri futuristi è lui e solo lui e nessun altro): era andato a casa sua a vedere certi volantini fiumani e, parlando, gli aveva detto di avere la più grande collezione di libri futuristi. Al che l’altro, che lo conosceva appena, esclamò:“No, no, a Roma è un altro il collezionista più grande”. Pablo era sbiancato: “E chi sarebbe?”.“Claudia Salaris”.“Non conta, è mia moglie”disse col sospiro di chi se l’è vista brutta».
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poesia
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Prometeo, la compassione a.C. di Roberto Mussapi hi parla è un dio. Protagonista di una delle più grandi opere del teatro greco. La tragedia si intitola Prometeo incatenato, fa parte di una trilogia come era rituale e necessario per quel genere poetico. Sì, la tragedia greca, come il dramma elisabettiano (Shakespeare, Marlowe, Kidd, Spencer, per intenderci, Londra, Sedicesimo secolo, Inghilterra regina di un impero su tutti i mari), è un genere poetico. Da secoli abituati al predominio, in Occidente, della poesia lirica, tendiamo a dimenticare che la poesia in origine, oltre che lirica (personale, l’io è centro e simbolo dell’universo) era anche epica, narrazione di storie (bastano due parole, Iliade e Odissea) e tragica. Le tragedie che portano in scena miti eterni nella Grecia e Magna Grecia del V secolo a.C., sono opere di poesia, i loro autori, che affidano le parole alle voci e ai corpi degli attori, nei teatri di Atene, di Siracusa, non solo sono poeti, ma possono scrivere tragedie solo in quanto tali: è proibita la tragedia che non sia in versi, il genere è troppo alto per consentire la prosa. Per capire quanto sta cambiando e cambierà nella poesia del nuovo millennio, ora, è importante che il lettore si sintonizzi su questa verità dimenticata. La scena ha luogo tra cielo e mare, dove nulla di esclusivamente umano può giungere: «l’estrema plaga della terra, la Scizia solitaria, inaccessibile». Rocce altissime sull’abisso, precluso ogni passaggio da terra o dal mare e infatti, ecco planare dal cielo il carro alato delle Oceanine, posarsi sulla rupe accanto a Prometeo, consolarlo dolcemente. Prometeo è stato incatenato all’altissima rupe da Efesto, riluttante a offendere un altro dio, suo pari, ma costretto da Kratos che gli ricorda la volontà assoluta di Zeus. Si odono i colpi di maglio. Picchia forte, stringe, aggancia anche l’altro braccio, e con il cuneo di ferro blocca il petto alla roccia.
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Efesto ubbidisce, maledicendo le proprie mani: «Prometeo, quanta pena al tuo patire!». Con questa frase ha inizio la più grande rappresentazione della compassione che l’Occidente abbia conosciuto prima della nascita di Cristo. Prometeo insegnò ai nostri antenati a leggere e interpretare gli astri, rivelò la scienza del numero, la composizione dei segni scritti, e, soprattutto, «la memoria di tutto, che è la madre/ operosa del coro delle Muse». Memoria e coscienza della specie, il passaggio epocale, foscolianamente, tra le belve umane e l’uomo. Memoria del tutto significa compassione, sepoltura, civiltà. Ultimo dono il fuoco, sottratto agli dei per donare agli umani il segreto del calore, della luce, la forza che fonde i metalli e allontana le bestie, il segreto del nostro cuore. Prometeo è interprete privilegiato degli elementi, non a caso infallibile veggente e insuperabile
il club di calliope
nell’arte mantica: si appella al Cielo divino e agli aliti del vento, alle sorgenti dei fiumi, alla terra madre, all’«occhio del sole che vede ovunque»: aria, acqua, terra fuoco. Il passaggio del fuoco è la promessa di incandescenza eterna, di rigenerazione nella fiamma, di questo il coraggioso Prometeo è consapevole: «Seminai la speranza, che non vede».
Cielo divino, soffi di vento, rapide ali del vento, sorgenti dei fiumi, interminabile sorriso del mare, e tu terra, madre di tutto, e tu occhio del sole che vedi ovunque, io vi invoco: guardate un dio che soffre per colpa degli dei. Guardate la pena immeritata che mi consuma e mi torturerà nel tempo, anni e anni senza fine. Il nuovo dio dell’Olimpo mi ha fatto incatenare, umiliandomi. Io soffro per una disgrazia interminabile, non vedo quando potrebbe avere termine. Conosco perfettamente il futuro, non ci saranno altre sventure. Bisogna che sopporti la mia sorte, che resista, il fato è invincibile. Ho diviso con i mortali un dono divino: per questo mi hanno inchiodato al mio destino. Ho cercato la scaturigine segreta del fuoco: questo il peccato di cui pago la pena, inchiodato alla rupe, faccia al cielo.
Considerato il massimo dei tragici per la potenza assoluta dei suoi personaggi, qui Eschilo mette in scena la tragedia del dio Prometeo, che aveva aiutato, un aiuto fondamentale, Zeus nella lotta cosmica contro i precedenti dominatori dell’universo, i Titani. La ricompensa è questa punizione di crudeltà efferata: troppo innamorato degli umani Prometeo, dopo avere loro donato il senso del numero, la scrittura, la memoria, la divinazione e la speranza, offre loro il fuoco, privilegio esclusivo degli dei. Con questa offerta propone all’uomo di imitarlo, di avvicinarsi a Dio. Il peccato è intollerabile nel Pantheon greco: Zeus punisce il dio colpevole di troppo amore per l’uomo, lo fa incatenare e inchiodare alla parete della rupe nel mare di Scizia, irraggiungibile. Solitudine e punizione assoluta. Non è, questo che punisce Prometeo, il Pantheon del V secolo, quello in cui vive e agisce Eschilo, ma quello dei primordi: da poco Zeus si è insediato sul trono del cosmo e ha respinto la rivolta dei Titani. Immaginiamo che cosa significhi, per gli ateniesi e i convenuti alla festa, verso il 470 avanti Cristo, la visione del dio incatenato alla roccia da cui la sua voce rivendica il sacrificio per amore dell’uomo. Il pubblico, disposto nel teatro dall’alba al tramonto, come in ogni tragedia, assiste all’agonia di un dio incatenato a una rupe altissima. Il Prometeo incatenato, unica opera rimasta della trilogia, era quasi sicuramente la seconda tragedia, inclusa tra Prometeo donatore di fuoco e Prometeo liberato. Curioso come la cultura illuministica abbia trasformato questo personaggio tragico del religiosissimo Eschilo, nel simbolo dell’uomo che si ribella al divino. Prometeo è un dio che per amore dell’uomo si ribella a un altro dio, solo da poco tempo dominante, quindi non rappresenta, come vorrebbe la vulgata illuminista, la ribellione a Dio, ma la ribellione di Dio.
Eschilo da Prometeo incatenato (traduzione di Roberto Mussapi)
La ribellione di Dio contro un’idea crudele e cieca del divino. Incredibile, al sensista, la capacità profetica del poeta. Sì, il dono mantico del dio Prometeo trionfa nell’autore, il greco Eschilo. Che nel V secolo a.C., vivendo in una civiltà che non aveva contatti con quella del popolo di Israele e quindi dei profeti, vivendo al tempo in cui Socrate beveva la cicuta per ribellarsi a un’idea di Dio inaccettabile perché non metafisica, in modo analogo ma più sconvolgente immaginava un dio punito, inchiodato a una rupe, braccia allargate, piedi pendenti, vilipeso e torturato. Una figura cristica, un dio greco crocifisso. Per troppo amore dell’uomo.
TRA L’ALBA E L’APERTURA DEI FORNI in libreria
di Loretto Rafanelli
… le solcò la mente l’ideogramma rondine, sfregiando la luce con un tratto nero d’inaudita bellezza. Lei cantava per ore come una vita inesperta che si rivolge al rimedio dei refrain, ma era un viaggio finito giù dal ponte per non essere baciato. Vera D’Atri
rancesco Serrao nel suo recente libro (Lungo il mar Tirreno, Laruffa editore, 10,00 euro), convoca i suoi numerosi amici e stretto a loro, gli parla degli intricati grumi della propria vita e del senso alto dell’amicizia, una necessità vitale per lui; ne fa i nomi e li incontra nei luoghi delle sue terre e del suo venerato mare. Sono le vicende di una vita sospesa in un tempo altro, o meglio quel tempo intermedio che è da individuare, come dice Carlo Ripa di Meana nella prefazione, «tra l’alba e l’apertura dei forni»; per dire, si può aggiungere, di un momento del giorno depositario di una fragile ora a venire (per l’inco-
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gnita di un futuro incerto), e nella sicurezza di una sofferenza passata, forse il tempo della poesia. Quella sofferenza che diviene il tema cruciale di tutto il libro, nel sentire «lontano nell’orizzonte/ del mare urla come di naufraghi…», invocando la madre, il suo sorriso che non ha bisogno di parole, solo la forza del ricordo di una «sera accanto al fuoco». Serrao segue un’idea di poesia lirica, in parte visionaria, dalla musicalità forte e dal ritmo incalzante, come in questi versi: «…quelle onde lontane… fantasmi/ quel mare di Calabria tirrenica/ quello sferragliare di treni/ umidi e stanchi in tante mattine della nostra vita…».
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di Enrica Rosso opo l’anteprima di giugno nell’ambito del Napoli Teatro Festival è arrivato all’Eliseo il ciclone Napoletango. Ne avevamo avuto un assaggio alla presentazione di stagione e sarà in tournée in tutta Italia.Venti attori cantanti danzatori in scena per questo Musical latinonapoletano ideato e diretto da Giancarlo Sepe, accompagnato da lezioni di tango e da eventi vari allestiti negli spazi del teatro nonché dalla possibilità per gli eternauti di connettersi per assistere in diretta alle prove. Lo spettacolo inizia in strada, all’esterno del teatro, dove alcuni componenti della famiglia Incoronato, chiassosi e impertinenti, arrivano con tanto di bagagli a scompigliare la calma della sera capitolina. Si agitano, sbraitano cantano euforici e percuotono il tamburello: sono artisti appena giunti per esibirsi e subito vanno alla ricerca dei camerini. I ritardatari li seguono ed entrano in sala dove luci spioventi evidenziano una cortina di fumo, la sala è stracolma. Ed eccoli lì gli artisti carichi di valige e di sogni presentarsi in palcoscenico con il loro bagaglio di ricordi. Da questo momento in poi, per tutta l’ora e trenta dello spettacolo è tutto uno uè uè. Una strana famiglia quella degli Incoronato.Venti esemplari di varia umanità immolati alla passione per il ballo argentino che scelgono di inventarsi gruppo e vivere insieme: ed è subito Basso, con tanto di materassi a terra per la notte e immancabile stendino. Su tutto e tutti vigila l’immagine intermittente della Madonna. Invasati di tango lo fanno da mane a sera: ballano chiappe al vento sotto la doccia in una promiscuità allegra e senza complessi, sonnambuli intrecciano i loro corpi al ritmo della Milonga. Molta la carne esposta nello spettacolo in una ricerca spasmodica di contatto con gli spettatori: dopo avergli sbattuto in faccia le proprie pudenda danzanti, si protendono verso il pubblico fino a invaderne lo spazio privato e cavalcare la platea. Ci si scambia sudore ballando con gli attori scesi in platea a caccia di partner, la gente sembra contenta e ringrazia con
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Danza
Teatro Napoli attraverso la lente del tango MobyDICK
spettacoli DVD
AGENTE SPURLOCK, IL CASO OSAMA È TUO hi conosce Morgan Spurlock sa bene quale spirito caustico promani dalle sue opere graffianti e impietose, che lo portano in scena in prima persona. Era già accaduto con Supersize me, parabola allucinata di un uomo che sperimenta gli effetti devastanti del Mcdonald sulla sua salute. E accade con il nuovo Che fine ha fatto Osama Bin Laden? ora in dvd. Egitto, Marocco, Israele, Palestina, Pakistan, Afghanistan: Spurlock si aggira per il Pianeta con aria sprovveduta e sorniona, gettando una luce irriverente sui segreti che attorniano l’allure del ricercato numero uno del cosmo.
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PERSONAGGI
LADY GAGA, UN TRASH DA STUDI ACCADEMICI calore alla fine dello spettacolo. Non manca uno spuntino di conforto a fine danza. Entra in scena una cucina economica funzionante con tanto di pentola sul fuoco e odore di cibo riscaldato e la capofamiglia Concetta, prima di attaccare il suo piatto, dal proscenio si prepara alla moltiplicazione dei pani e dei pesci: «Volete favorire? Siamo in famiglia!». Insomma, nonostante gli interpreti non si risparmino (sono encomiabili, tutti, dal primo all’ultimo, appassionati e generosi), questo tango tanto di moda, di cui tutti sanno tutto, che tutti ballano o hanno ballato, si rivela uno specchietto per allodole, la scusa per raccontare l’incanto di Napoli e dei suoi abitanti attraverso la rivisitazione degli stereotipi che tutti conosciamo e che fanno imbestialire i
napoletani. Lo spettacolo ritmicamente saldo e visivamente appagante non convince dal punto di vista della costruzione e il tanto citato tango, «un pensiero triste che si balla», dopo essere stato tradotto in «la parte sopra del corpo tragica, la parte sotto che sguazza nell’erotismo», non risulta essere così emblematico. Era stata annunciata la musica originale del maestro Bacalov, ma in corso d’opera le cose sono andate diversamente e l’attuale colonna sonora risulta essere, a nostro avviso, non particolarmente affascinante, piuttosto generica e mancante di una linea guida.
Napoletango, Teatro Eliseo fino al 14 novembre Info: www.teatroeliseo.it 06 4882114
n Italia farebbe la gioia di matricole adescate dall’amabile cordialità di certe lauree triennali. Ma anche se non si tratta dei nostri corsi sul «Benessere di cane e gatto», la materia proposta dal docente Mathieu Deflem alla University of South Carolina, ha il suo fascino analogico: «Lady Gaga e la sociologia della fama». Fan della cantante (l’ha vista live 28 volte), l’accademico condenserà i propri scolii intorno all’epifenomeno di miss Germanotta: un disco, più abiti che parole intellegibili nelle sue canzoni, e implicazioni antropologiche che a Deflem non sfuggiranno. A onta di Levi Strauss.
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di Francesco Lo Dico
“Il lago dei cigni”al maschile, sulle orme di Fred Astaire irettamente dal New York City Center arriva per la prima volta in Italia lo Swan Lake di Matthew Bourne, lo spettacolo che nel 1995 portò sulle scene londinesi una fortunata rilettura al maschile del balletto romantico su musiche di Tchaikovsky. In questo mese, lo Swan Lake’s Tour farà la sua prima tappa italiana al Teatro Arcimboldi di Milano (1728/11) per poi toccare le città di Trieste, al Politeama dall’1 al 5 dicembre, e di Firenze, al Teatro Verdi dall’8 al 12. Vincitore di numerosi premi sia nel Regno Unito che negli Usa, l’opera di Bourne, che già possiede lo scettro della notorietà anche grazie alla citazione nel film Billy Elliot, aspira oggi a diventare un classico della danza contemporanea. Approdato a Broadway nel 1998, Swan Lake venne a suo tempo accolto con favore dalla critica d’oltreoceano e descritto dal drammaturgo e sceneggiatore statunitense Tony Kushner come una «fantasia gay». L’osservazione di Kushner, che aprì una controversia ancora oggi motivo di dibattito, non era comple-
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di Diana Del Monte tamente infondata; pur essendo ben lontano dall’essere un manifesto gay, infatti, Swan Lake strizza inequivocabilmente l’occhio al tema dell’omosessualità: chiaramente omoerotici, infatti, appaiono i desideri del principe nei confronti del cigno, ruolo che fu del bellissimo Adam Cooper nel 1998 e che oggi è interpretato dall’altrettanto avvenente Jonathan Ollivier; una figura, quella del cigno, dotata di un innegabile fascino e che risplende di un erotismo astratto, quasi onirico, delicatamente e costantemente agognata/corteggiata dal principe Dominic North. La vita oppressiva del giovane rampollo reale è l’altro nodo della storia che Kushner ha voluto narrare in questa sua opera; al centro di un ro-
boante universo fatto di una genitrice d’acciaio, una fidanzata sopra le righe e uno stuolo di paparazzi, parassiti di vario genere e segretari di palazzo, trascorre la vita del principe che, del tutto accidentalmente, si trova a incrociare quella di queste bellissime creature e a loro il protagonista guarda come alla risposta alla sua disperata preghiera di libertà, identità, chiarezza. La stampa statunitense del tempo non faticò molto a leggere nei personaggi che circondavano il principe di Bourne l’evocazione quasi didascalica di quella che il New York Times definì la «soap opera di Buckingham Palace», all’epoca lontana dal tragico epilogo della vita di Diana e animata dalla frizzante quasi ex-moglie del prin-
cipe Andrea, Fergie la Rossa. Al di là dei pettegolezzi e dei possibili richiami, il lavoro di questo coreografo londinese ebbe una tale eco nel mondo della danza e del musical che nel 2000 lo Swan Lake in versione Bourne fu rappresentato più di quello di Marius Petipa e Lev Ivanov. La carriera di questo coreografo, che ha iniziato a dedicarsi seriamente alla danza solamente a 22 anni con il BA del Laban Center di Londra, è costellata di richiami alla storia del balletto romantico e novecentesco - degli anni Novanta sono le riletture di altri due grandi classici, la Sylphide e Lo Schiaccianoci - eppure, Bourne ha sempre dichiarato di avere come modello i «due Fred», Astaire e Ashton; proprio questo strano mix di storia della danza ha partorito Swan Lake, divertente e originale lettura in volgare, nel senso letterario del termine, del classico dei classici. Agli amanti del balletto, infine, non sfuggiranno l’ironia, che trova il suo apice nel pas de quatre del secondo atto, e la chiara parodia del balletto nel balletto, piacevoli virtuosismi intellettuali da ballettomani.
Cinema
MobyDICK
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di Anselma Dell’Olio
ast Night, appena uscito, è stato il film d’apertura del Festival Internazionale del film di Roma. I protagonisti sono Sam Worthington (Avatar), Keira Knightly (Espiazione, La duchessa, Sognando Beckham, Pirati dei Caraibi), Eva Mendes (Hitch, I padroni della notte, C’era una volta in Messico). La latina sexy e l’inglesina entrata nei cuori nel ruolo di Elizabeth Bennet in Orgoglio e pregiudizio di Joe Wright, erano le uniche vere star presenti al festival (a parte Julianne Moore per il premio alla carriera), ma niente red carpet per loro. Il sit-in della protesta dei lavoratori dello spettacolo per i tagli della finanziaria le ha bloccate. Le due giovani dive non potevano che arrendersi, dichiarando solidarietà con i manifestanti. Forse il neomovimentismo ha offuscato il film sulle storie d’amore, che non ha messo tutti d’accordo. È un pochino esile, o meglio, per lunghi tratti è come fare l’amore con il cappotto (che trova i suoi estimatori tra certi ex adolescenti), però pone una questione sempiterna che non vuole invecchiare: può una coppia innamorata di lungo corso resistere alle tentazioni carnali, ad altre possibilità emozionanti che si presentano inevitabilmente lungo gli anni? Una legge della psicoanalisi dice: la gelosia (sospettare il tradimento accaduto o in agguato) è sempre una proiezione di chi accusa, mentre non è necessariamente vero che riguardi chi è accusato di tradimento. Joanna (Knightley) e Michael (Worthington) sono una giovane coppia sposata da tre anni ma insieme sin dai tempi dell’università. Michael parte per un viaggio di lavoro con Laura, una collega assai sexy e provocante (Mendes). Joanna la conosce poco prima della loro partenza ed è rosa dai sospetti. Dopo la partenza del marito, la gelosa s’imbatte (non proprio per caso) in Alex (Guillaume Canet) un vecchio flirt. Conosciuto a Parigi durante una breve interruzione del rapporto con il marito, è chiaro dall’emozione nel rivedersi che la fortissima attrazione tra i due, mai consumata, è ancora molto viva. (Alex è Guillaume Canet, attore presente al festival di Roma anche come regista con Les petits mouchoirs - fuori concorso - che ha sbancato il botteghino in Francia). Inizia un balletto di scene alternate tra le due coppie di potenziali amanti: Alex e Laura in intimità di trasferta, un lavoro in comune e una piscina d’albergo vuota; Joanna e Alex vagano tra una cena, un appartamento vuoto di un amico fuori città, e il cane del medesimo da portare a passeggio per le romantiche vie lastricate di sampietrini di downtown Manhattan. Massy Tadjedin è una regista iranianaamericana con un tocco leggero. Sono molte le battute divertenti e maliziose, e la storia non mancherà di suscitare accese discussioni tra le coppie in sala dopo il film. Da vedere.
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Animal Kingdom (Selezione Ufficiale fuori concorso) è la storia di Josh (James Frecheville), un adolescente che nella prima scena - all’apparenza banale - vediamo seduto su un divano mentre guarda un quiz a premi alla televisione; accanto a lui c’è una donna che sembra addormentata. Dopo qualche minuto, dei paramedici arrivati in ambulanza bussa-
Gelosia con leggerezza sotto il cielo di Roma
no alla porta con una barella. Chiedono al ragazzo chi è la donna e che cosa ha preso. Il ragazzo, che chiaramente li ha chiamati, appare distaccato e indifferente: risponde «mia madre» e «eroina». Di colpo quella che sembrava la più ordinaria delle serate si trasforma in thriller. La tensione, l’attesa e l’angoscia generate dalla scena iniziale stabiliscono tono e ambiente, e si resta agganciati alla storia fino alla fine, in preda a emozioni sconvolgenti, tra cui un crescente terrore. Il ragazzo, che ha detto alle autorità di avere diciotto anni (ne ha uno di meno), quando rimane solo chiama la nonna. Dice che la mamma è morta e che ora non sa cosa fare. Deve chiamare le pompe funebri? Lui ricorda che quando era morto il nonno, la nonna Smurf (l’incredibile Jacki Weaver, che merita un Oscar e forse sarà candidata) era stata efficientissima, sapeva cosa fare, chi chiamare, come muoversi, mentre lui è spaesato. Con voce affettuosa lei gli dice di fare la valigia, viene subito a prenderlo. «Ti ricordi dov’è casa nostra?», le chiede il nipote. «Certo», risponde la donna. Con queste poche parole si capisce che madre e figlia non erano in buoni rapporti da parecchio tempo. In pochi minuti siamo immersi in un mondo, un clima, una famiglia, una storia colmi di calore rassicurate e di minaccia. Siamo a Melbourne, una città che ha conosciuto negli anni Ottanta un’ondata di criminalità violenta a mano armata. I protagonisti erano intere famiglie dedite alla malavita con rapine sanguinose, spesso con matriarche come nonna Smurf, e blocchi di poliziotti corrotti della squadra antirapine e altri onesti che combattevano il fenomeno. È da notare che il film è l’opera prima di David Michod, e ha vinto il premio della giuria a Sundance. Alla conferenza stampa di Roma, l’autore ha detto di essersi ispirato superficialmente alle vere famiglie del crimine, allora al tramonto del loro regno di terrore, ma di averne poi approfondite le dinamiche basandosi sulla famiglia propria e su altre che ha conosciuto. «Ho avuto un’infanzia normale dice - ma non me la ricordo con piacere.
Sono molto più felice da adulto». Amen. Da non perdere assolutamente.
Godibile il film dell’iraniana Massy Tadjedin (con le stelle Keira Knightly ed Eva Mendes) che ha aperto il Festival del cinema nella Capitale. Da non perdere il mozzafiato “Animal Kingdom”, fuori concorso. Nelle sale, il già raccomandato “Potiche”, chicca della Mostra di Venezia
Potiche - la bella statuina era una delle delizie della Mostra del cinema di Venezia lo scorso settembre. Il film del poliedrico François Ozon (8 donne e un mistero, Swimming Pool, Ricky, una storia d’amore e libertà) è tratto da una commedia teatrale di successo degli anni Settanta, scritta dalla coppia di commediografi Pierre Barillet e Jean Pierre Grédy, equivalente francese di Garinei e Giovannini. La storia ruota intorno a Suzanne (Catherine Deneuve) da lunghi anni moglie-trofeo di Robert Pujol, un ricco industriale, capo tirannico di una fabbrica di ombrelli. (Potiche significa qualcosa come un oggetto decorativo inutile, o una donna bella e basta.) Dapprima la vediamo nel suo ruolo trentennale di moglie dedita a rendere la vita piacevole a figli (ora grandi) e marito (con amante di prammatica) che fa footing in tuta con la famosa criniera bionda arrotolata su bigodini giganti (era di moda la bouffant). La commedia prende per i fondelli la reazione dei padroni all’epoca della contestazione, del movimento operaio e della rivolta anti-maschilista. Robert è sequestrato dagli operai quando rifiuta di negoziare, e dopo un coccolone è costretto a partire per una lunga convalescenza. Suzanne è l’unica in grado di sedare la rivolta in fabbrica e trovare un accordo equo. L’interesse interiore del film, però, non è situato (almeno non soltanto) nell’ideologia di un’epoca. È nella profonda psicologia di una donna, la quale sia come moglie infantilizzata di un piccolo despota, esautorata di ogni autonomia, sia come neo-manager, o come candidata sindaco della cittadina (contro l’ex amante Gérard Depardieu), trova sempre equilibrio e armonia. Come lei stessa afferma quando la figlia le chiede il segreto della sua perenne contentezza: «È semplice - dice alla figlia, che vuole lasciare il marito - tanto tempo ho fa ho deciso di essere felice». In un siparietto delizioso Deneuve canta e balla come ai tempi di Gli ombrelli di Cherbourg. Da vedere (come già raccomandato dalla Mostra di Venezia).
Essere&tempo
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di Leonardo Tondo dottori Fowler (Università della California a San Diego) e Christakis (Università di Harvard) avrebbero identificato un gene attivo nella trasmissione del neurotrasmettitore dopamina che, per le associazioni spiegate nel loro studio, è stato subito battezzato il gene liberal. L’articolo è stato pubblicato sull’ultimo numero del Journal of Politics e sostiene una predisposizione genetica alla ideologia politica, di per sé non una grandissima novità per gli addetti ai lavori, ma in questa ricerca coniugata ad alcuni comportamenti sociali. Si potrebbe obiettare che il journal che ha ospitato lo studio sia poco autorevole. Invece si tratta di una pubblicazione di tutto rispetto nel campo delle scienze politiche che riporta ricerca teorica e nuove metodologie in politica, relazioni internazionali e amministrazione pubblica. Lo studio è basato su interviste a 2000 partecipanti sulla salute e sulle abitudi sociali di un vasto gruppo di adolescenti seguito per molti anni. È risultato che una variante (denomitata 7R) del gene DRD4 è stata trovata in chi, da adulto, è diventato liberal, con quel significato tutto statunitense di democratico progressista.
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Gli individui con una forte espressività del gene tendono a essere interessati a esperienze nuove e inusuali (per loro) che possono aumentare il loro livello di dopamina facendo provare loro più piacere e di conseguenza, facilitando la continuità dello stesso comportamento. Un eccesso di questo tratto potrebbe trovarsi in persone impulsive, eccitabili, stravaganti o che perdono facilmente la calma. Chi, invece, presenta una bassa espressività del gene tenderebbe a seguire pedissequamente le regole, a essere rigido, leale, stoico o frugale. La tendenza all’apertura verso gli altri, si sa, è una caratteristica comune al liberalismo e, a questo proposito sono interessanti le parole di uno dei ricercatori, il dottor Fowler: «Abbiamo ipotizzato che gli individui con una predisposizione genetica verso
MobyDICK
ai confini della realtà
L’ideologia politica? Dipende da un gene la ricerca di nuove esperienza tenderanno a essere più facilmente liberal, ma soltanto se si trovano in un contesto sociale che fornisce loro una molteplicità di punti di vista», aggiungendo che «l’affiliazione politica non è basata soltanto sul tipo di esperienza ambientale».
in opposizione, vista la mole di ricerche (come quella descritta) che mostra come sia possibile che i geni influenzino l’ideologia attraverso il modo di reagire al contesto sociale. La ricerca non è del tutto rivoluzionaria visto che altri ricercatori negli anni più vicini a noi avrebbero già evidenziato delle basi genetiche della preferenza tra conservativismo e liberalismo, interessandosi alla stessa regolazione della dopamina. In questo studio,
tico probabilmente attivando un’ideologia politica che soddisfa il senso di apertura al cambiamento e al contatto con una più ampia varietà di idee.
Gli autori mettono in guardia rispetto ai facili entusiasmi (o critiche) riguardo alla scoperta di un gene per l’ideoloLa scoperta ha del rivoluzionario visto gia politica, mentre sostengono che i loche l’opinione prevalente riguardo alla ro risultati esprimono una prima chiara formazione di un’ideologia politica è anevidenza di un rapporto fra disposiziocora soprattutto basane genetica e amta sulle teorie di Karl biente nell’ambito Fowler e Christakis hanno pubblicato Mannheim del 1936 dell’orientamento sull’autorevole “Journal of Politics” i risultati che derivava gli attegpolitico. Nonostante giamenti politici dai le cautele degli autodi un loro studio secondo cui le possibilità gruppi e dalla società ri, si può dire che tutdi diventare “liberal” dipenderebbero intera, peraltro allarto torna. Si sa, infatti da una predisposizione genetica legata gando la visione che l’attività dopamarxiana che faceva alla regolazione del neurotrasmettitore dopamina minergica è più acrisalire tutto alle relacentuata nei giovani e che, indubbiamenzioni di classe. Per Mannheim, una volta conosciuto l’am- la variabile che fa la differenza è che l’i- te, quelli che si espongono di più al biente politico di un individuo, si poteva deologia è spinta anche dal contesto so- mondo esterno, che fanno amicizia non capire il suo orientamento politico. In al- ciale e in particolare dal numero di ami- solamente virtuale, ma con il confronto tre parole: «Dimmi con chi vai e ti dirò cizie che l’individuo riesce a formare, un con gli altri, sviluppano un senso sociachi voti». Questa prospettiva datata è atteggiamento considerato importante le e una tolleranza che più facilmente li stata recentemente contrastata da altre per lo sviluppo dell’auto-riconoscimento. fa accostare a un’ideologia politica libeteorie a favore di un elemento più nural. Per contrasto, ne esce male il ritratcleare associato a tratti di personalità e Infatti, l’altro punto importante della to del conservatore tipo, una persona processi cognitivi motivazionali di tipo ricerca riguarda la capacità di creare tendenzialmente chiusa alle novità, prisociale e che include alcune componen- nuove amicizie, un atteggiamento cono- gioniera del suo punto di vista, adeguati di tipo ereditario. Naturalmente, si po- sciuto per il suo ruolo nell’aumentare la ta a un pensiero riproduttivo, che ritrebbe obiettare che le scelte politiche crescita della consapevolezza sociale e prende ed elabora poco quello che è stapossono essere simili all’interno di una da qui un miglioramento del senso di sé to precedentemente detto o fatto. Non famiglia per un meccanismo imitativo; e dell’autostima, una migliore compren- necessariamente lati negativi, visto che invece lo studio metterebbe in evidenza sione dei bisogni degli altri, un aumento possono portare a un maggior rispetto che la somiglianza potrebbe essere attri- della fiducia nel prossimo e una maggio- delle regole e da lì a un più radicato senbuita più alla componente genetica che re considerazione nei confronti della so- so civico, ma sicuramente poco adatto a non a quella osservativa. cietà in generale. Cosicché per le perso- sviluppare una crescita o un progresso In realtà, non è corretto pensare che ge- ne che amano nuove esperienze, l’amici- in collaborazione con gli altri. Però semnetica e ambiente siano due prospettive zia serve a esporle al mondo socio-poli- bra che non sia tutta colpa loro.