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mobydick

SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

REQUIEM PER IL ’900 Da Garibaldi a “Cent’anni di solitudine”

di Nicola Fano

Q

uando Gabriel García Márquez ha detto «adesso basta, sono stanco e non bro. L’ultimo. Sui giornali o nei servizi tv, in genere, si usa la locuzione «l’ultimo libro scriverò più», ho pensato a una trovata pubblicitaria per lanciare la sua di…» per intendere «il nuovo libro di…»: è un errore, perché l’ultimo vuol dire proL’addio biografia scritta da Gerald Martin. Ci poteva stare: in fondo Márprio che poi non ce ne saranno altri.Appunto, come per Gabriel García Máralla narrativa quez aveva cominciato a scrivere la storia della propria vita quez. È un’affermazione ineluttabile, senza ritorno. Nel senso che non di Gabriel García (Vivere per raccontarla, 2002), quindi, perché no?, in attesa della abbiamo più niente di meraviglioso da aspettarci da questo autoseconda puntata della propria autobiografia (molto) romanre sublime.Vuol dire che - da quel versante - la vita non avrà Márquez, che ha annunciato zata, poteva pur indurre i lettori fedeli a buttarsi su un altro di buono da offrirci: niente più meraviglia, niente di essere stanco di scrivere, sancisce la fine testo altrui; per altro di un amico, pare. La questiopiù sorprese. Ci toccherà lentamente inaridirci, ridi un’epoca. Minutamente descritta ne mi è ronzata in testa finché ho capito che, probaleggere e rileggere i libri vecchi; non avremo altri nel suo capolavoro senza tempo, bilmente, a ottanta e passa anni un uomo può anche esspiazzamenti. Non ci sarà più da sognare letture magnisere stanco di mettersi chino sul computer a sputare parole, a fiche dopo aver accarezzato e comprato il nuovo libro di Gache segna il passaggio dal sogno inventarle e poi limarle per dire qualcosa di sé al mondo. Smettere briel García Márquez in libreria: i prossimi giorni hanno ancora alla disillusione della qualcosa da darci di buono, si pensa in quei casi. Si pensava. di scrivere: una pretesa legittima. Sicché è possibile, anzi probabile che modernità noi non si abbia nuovi, ulteriori libri di Gabriel García Márquez e che Memocontinua a pagina 2 rie delle mie puttane tristi (una ben piccola cosa, in verità) sia stato il suo ultimo li-

9 771827 881301

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ISSN 1827-8817

Parola chiave Consumismo di Sergio Belardinelli A lezione d’umiltà da Leonard Cohen di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Le feste dell’intelletto immaginate da Paul Valery di Francesco Napoli

Quella nostalgia per l’avvenire di Gennaro Malgieri Gay, balordi e lolite tre esordi italiani di Anselma Dell’Olio

Francis & Baselitz stelle e battaglie di Marco Vallora


requiem per il

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segue dalla prima Quando Gabriel García Márquez ha detto «adesso basta, sono stanco e non scriverò più» non l’ho capito, lì per lì, ma poi ho colto il senso: è finito il Novecento. Un secolo difficile da interpretare come tutti gli altri, ma il mio secolo, il secolo della mia generazione. Quello nel quale siamo non solo cresciuti ma sul quale abbiamo esercitato la nostra piccola intelligenza fino a separare il buono dal cattivo, il bianco da nero, l’illusione dalla realtà, la storia dalla speranza. Finito un tempo complesso ma che pure era il nostro tempo. Un tempo descritto con perizia deliziosa da Gabriel García Márquez. Mi vergogno un po’ a dire che ho letto Cent’anni di solitudine, per intero, cinque volte. E ogni volta ho trovato cose nuove, naturalmente, ma non è questo il fatto in questione. Il fatto è che ogni volta, arrivato in fondo, ho capito che l’ultima pagina (la morte di Aureliano Babilonia preconizzata da Melquiades) era di una tristezza irraggiungibile; ma che in fondo quella tristezza - la nostra stessa tristezza di uomini del Novecento - era riscattata dalle altre centinaia di pagine gaie e folli, fantastiche e rutilanti di casi fatti passioni amori e dolori. E difatti ogni volta, passato qualche anno, ho ripreso in mano il libro avendo dimenticato il finale (l’ultima pagina) con la sensazione certa che la lettura di quelle storie mi avrebbe ripagato d’un presente difficile, amaro, doloroso o finanche solitario; com’è stato ogni volta che ho ripreso in mano Cent’anni di solitudine per l’ennesima volta.

Ho sempre cercato - a ogni lettura - di fissare le date d’inizio e di fine del romanzo: non sono mai riuscito nel mio intento. Ho capito che in fondo Cronaca di una morte annunciata doveva essere una storia di questo tempo, che Dell’amore e di altri demoni doveva invece essere una storia d’altri tempi riflessa tuttavia nel nostro comune presente; che La mala ora doveva essere un’avventura popolare quando ancora non era scoppiata la modernità e che Il generale nel suo labirinto aveva confini storici precisi, ben definiti dai manuali. Ma, a essere pignolo, Cent’anni di solitudine non saprei dire a che tempo appartiene: non saprei dirne l’anno d’inizio e quello di fine: l’educazione storicista mi ha insegnato a non sottovalutare questi particolari, mi ha

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa a cura di Gloria Piccioni

insegnato a dire innanzi tutto «comincia qui e finisce lì», anno giorno mese paese continente e condizione sociale. Di Cent’anni di solitudine so solo che comincia, probabilmente, in qualche giorno mese anno dell’Ottocento e che termina nel secolo successivo, dopo averlo attraversato per intero, l’altro secolo, il Novecento. Oppure, per un periodo lungo e felice ho pensato che, immaginando il colonnello Aureliano Buendía, Gabriel García Márquez avesse tenuto ben a mente il nostro Giuseppe Garibaldi (sono un suo fan, perdonatemi). Sentite qui: «Il colonnello Aureliano Buendía promosse trentadue sollevazioni armate e le perse tutte. Ebbe diciassette figli maschi da diciassette donne diverse, che furono sterminati l’uno dopo l’altro in una sola notte, prima che il maggiore compisse trentacinque anni. Sfuggì a quattordici attentati, a settantatré imboscate e a un plotone di esecuzione. Sopravvisse a una dose di stricnina nel caffè che sarebbe bastata ad ammazzare un cavallo. Respinse l’Ordine del Merito che gli conferì il presidente della Repubblica. Giunse a essere comandante generale delle forze rivoluzionarie, con giurisdizione e comando da una frontiera all’altra, e fu l’uomo più temuto dal governo, ma non permise mai che lo fotografassero. Declinò il vitalizio che gli offrirono dopo la guerra e visse fino alla vecchiaia dei pesciolini d’oro che fabbricava nel suo laboratorio di Macondo. Malgrado avesse sempre combattuto alla testa dei suoi uomini, l’unica ferita se la produsse lui stesso dopo aver firmato la capitolazione di Neerlandia che mise fine a quasi venti anni di guerre civili. Si sparò un colpo di pistola nel petto e il proiettile gli uscì dalla schiena senza ledere alcun centro vitale. L’unica cosa che rimase fu una strada di Macondo intitolata al suo nome. Ciò nonostante, secondo quanto dichiarò pochi anni prima di morire di vecchiaia, nemmeno questo si aspettava il mattino in cui se ne andò coi suoi ventun uomini a riunirsi alle forze del generale Victorio Medina». Appunto: il generale Giuseppe Garibaldi promosse dodici sollevazioni armate e le perse tutte. Ebbe tre figli maschi e cinque figlie femmine da tre donne diverse: due delle figlie lo vennero a trovare, nel giorno del trapasso, sotto forma di capinere. Sfuggì a tre attentati mortali, non si sa quante imboscate e almeno un plotone d’esecuzione. Sopravvisse a dosi di caffé nero che avrebbero stroncato un cavallo. Respinse ogni onorificenza e s’accontentò di un pacco di spaghetti dopo la sua maggiore impresa. Giunse a essere co-

’900

importante. Quel che conta è che la saga dei Buendía segna il passaggio dal sogno della modernità alla disillusione della modernità. Come se alla fine si scivolasse amaramente nel postmoderno che del Novecento rappresenta il funerale. Un triste funerale, come triste è la pagina conclusiva di Cent’anni di solitudine.

Quel che conta in Cent’anni di solitudine è la quantità della vita, è la ricchezza estrema delle contraddizioni che pure - tutte - concorrono a stimolare la vita: la mandano avanti, la violentano verso la pienezza dello sviluppo di una società nata piccola piccola ma con la prescrizione (nel proprio stesso dna) di diventare grande metafora. Metafora del tutto. Che sia un tutto latino-americano, che sia occidentale, che sia d’un altrove che non si sa. Ecco perché il colonnello Aureliano Buendía è il generale Giuseppe Garibaldi ma non solo lui. Così come l’abbiamo conosciuto, il mondo è alla fine: questo molti sono portati a considerare con un po’ di megalomania (fine della storia, s’era detto un tempo): più semplicemente è finito il Novecento che è stato un secolo di contraddizioni mortali e complesse, in grado di sconvolgere la società e di portarla al suo termine, che non è il termine della storia ma solo l’ultima pagina di una storia. Di un romanzo, per l’esattezza. La stirpe dei Buendía svanisce con Aureliano Babilonia, ma il monSvanita la stirpe dei Buendía, il mondo andrà do intorno andrà avanti. comunque avanti. Macondo continuerà a esserci Continuerà a esserci Maanche se noi, superata ormai la sua frontiera, condo (benché García Márnon sappiamo, per ora, dove siamo finiti. Qualcuno quez, pur avendo ambientato molte storie lì a Maconce lo dirà, anche se a farlo non sarà Márquez do, non ne abbia mai pensate alcune «successive» ai mandante generale delle forze della rivoluzione italiana, fatti di Cent’anni di solitudine); continueranno a esserci uocon giurisdizione dal Tirreno allo Jonio all’Adriatico fino al- mini e donne da qualche parte a intrecciare i loro sentil’Appennino centrale e fu l’uomo più temuto dal governo, menti, le loro minuzie e - forse - le loro irragionevoli preteforse proprio per questo permise volentieri che lo fotogra- se come tutti i José Arcadio Buendía della storia. Ma siamo fassero. Declinò il vitalizio che gli offrirono dopo le guerre in un altro tempo, un tempo di plastica, che riflette le luci e e visse fino alla vecchiaia coltivando sassi nell’autoesilio di non le assorbe, che violenta la tecnologia per riproporre Caprera. L’unica cosa che rimase furono centinaia di strade modelli nuovi, che dimentica e non impara; un tempo che intitolate a suo nome. Ciò nonostante, secondo quanto di- va di fretta. Non più il difficile Novecento da leggere e richiarò pochi anni prima di morire di vecchiaia, nemmeno leggere continuamente sapendo di poter incrociare l’intelquesto si aspettava il mattino in cui se ne andò coi suoi ven- ligenza su valori e norme prestabilite. No, tutto questo non tun uomini a riunirsi alle forze del generale Victorio Medi- basta più: abbiamo passato la frontiera di Macondo e non sappiamo - per ora - dove siamo finiti. Qualcun altro ce lo na. Molto, molto poco italiano; sudamericano, semmai. Ma non ci siamo: e non solo perché Garibaldi era generale dirà, probabilmente, ma non sarà Gabrile García Márquez. e Aureliano Buendía colonnello. Il fatto è che uno è dell’Ot- Perché lui, stanco, ottantenne, ha deciso di non scrivere più, tocento e l’altro del Novecento. Ma è poi vero? È davvero del di rimanere chiuso nel confine del suo/nostro Novecento. Novecento, il colonnello Aureliano Buendía? E ha qualche Macondo nel prossimo tempo cambierà nome; ma non possibile radice italiana? Non lo so, e forse non è neanche sappiamo ancora che nome avrà né chi sarà a trovarlo.

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CONSUMISMO Q

uando si parla di società dei consumi, si fa riferimento, non soltanto a una società dove sono aumentate per gli individui le opportunità di consumare, bensì a una concezione del mondo che spinge a guardare gli oggetti e gli eventi secondo il punto di vista della loro consumabilità. Se la società del lavoro guardava il mondo con l’intento di dominarlo, trasformarlo, renderlo una dimora il più possibile sicura per la nostra esistenza sulla terra, la società dei consumi guarda il mondo per lo più esteticamente, come qualcosa da godere. Al pari dei signori del passato, i quali, potendo mettere i servi tra sé e la natura, semplicemente ne godono la bellezza e i prodotti, senza curarsi minimamente del loro costo umano, vista la durezza del processo lavorativo da cui provengono, così anche noi aspiriamo allo stesso godimento. Almeno in Occidente e grazie soprattutto alla diffusione delle macchine, la mentalità di quei signori sembra essere diventata una sorta di «a priori» dei nostri pensieri, dei nostri sguardi e dei nostri comportamenti. La natura che per tanto tempo abbiamo considerato come «matrigna» è stata ormai sottomessa. Se, fino a ieri, essa era per noi qualcosa che poteva essere dominato solo in parte e comunque a prezzo di duri sacrifici, al punto che poteva persino apparire normale che esistessero uomini che, come «animali domestici» (l’espressione si trova nella Politica di Aristotele), provvedessero alle necessità della vita, oggi le cose stanno diversamente. Ci siamo liberati, così almeno sembra, di ogni schiavitù «naturale» e ci stiamo avviando verso un dominio pressoché incontrastato della natura. La libertà dal bisogno sembra non essere più un problema; non ci resta che liberare il più possibile i nostri desideri. «Trasformare il corpo umano da strumento di fatica in strumento di piacere»: ecco quanto auspicava Herbert Marcuse nella «Prefazione politica» che scrisse nel 1966 per uno dei suoi scritti più celebri, Eros e civiltà.

L’individuo odierno vede crescere la sua libertà anche in ambiti che fino a ieri sembravano appartenere al regno della più dura necessità; grazie alla tecnoscienza in generale e alla biotecnologia in particolare, egli può assecondare desideri impensabili fino a qualche anno fa; diciamo pure che il freudiano «principio del piacere» che sembrava dover sempre soccombere al duro «principio di realtà», oggi sembra che si stia prendendo la sua rivincita. Ma, insieme a tutto questo, l’individuo odierno vede crescere anche i rischi cui va incontro; sente il peso crescente di apparati tecnologici, economici, massmediatici che sembrano funzionare in modo autoreferenziale, incuranti della sua libertà; è sempre più preso dall’«ansia dell’inadegua-

La concezione che i beni materiali contano più di quelli immateriali sta entrando in crisi. E mentre aumenta l’estensione delle nostre possibilità di scelta, cresce il pericolo di non saper gestire tanta libertà. Occorre ristabilire le priorità del nostro benessere

La capacità di essere felici di Sergio Belardinelli

Se abbiamo a cuore una società migliore, fondata più che sulle cose sulle nostre capacità relazionali, non possiamo più rinviare una discussione sulle idee di vita buona che intendiamo perseguire. Attrezzandoci culturalmente per cogliere le grandi opportunità di questo momento storico tezza personale» come la chiama Bauman, e teme fortemente di non riuscire a realizzare ciò che vorrebbe. A differenza del passato, la sua identità non dipende più dalla comunità cui appartiene o dalla professione che svolge; è libero di scegliersi percorsi e stili di vita sempre più personalizzati come pure di soddisfare un numero crescente di desideri; ma incomincia anche a comprendere quanto sia difficile, in questo contesto, conseguire una qualità di vita soddisfacente. Sembra insomma che il «principio di realtà» non sia affatto disposto ad assecondare semplicemente il «principio del piacere». Assistiamo a una grande estensione delle nostre possibilità di scelta, a una pluralizzazione degli stili di vita individuali e collettivi, ma anche al pericolo di non es-

sere capaci di gestire l’ampio spazio di possibilità che ci troviamo di fronte. L’accesso ai cosiddetti beni «materiali», almeno nel mondo occidentale, sembra largamente assicurato; ma lo stesso non si può dire in ordine a un genere di beni che si va facendo sempre più prezioso: i cosiddetti beni «immateriali». Abbiamo infatti, da una parte, persone e gruppi sociali culturalmente poco attrezzati, i quali puntano al possesso e magari all’ostentazione del bene considerato simbolicamente significativo (l’automobile, l’orologio, il telefonino, l’abito «di marca» ecc.), dall’altra, come ha mostrato Rifkin, persone che puntano invece sempre di più sulla possibilità di «accedere» a determinati beni o servizi, senza particolari preoccupazioni di diventarne «possessori». Al di-

vario esistente tra chi ha e chi non ha si aggiunge quindi quello tra chi ha risorse culturali, relazionali e conoscitive per «accedere» comunque a certi beni e chi invece non le ha. Del resto, già negli anni Settanta-Ottanta, alcune ricerche di carattere psicologico sulla «qualità della vita», condotte soprattutto negli Stati Uniti, avevano mostrato come il benessere e la soddisfazione individuali dipendessero in primo luogo dalle «relazioni interpersonali», cioè da beni «immateriali» piuttosto che «materiali».

Di qui la sostanziale ambivalenza del momento storico che stiamo attraversando e l’importanza crescente che vanno assumendo, e sempre più assumeranno in futuro, le nostre capacità relazionali, diciamo pure la variabile cultura, in senso molto largo, in ordine alla riuscita della nostra vita e al nostro benessere, ma anche la difficoltà che registriamo ad attrezzarsi culturalmente per cogliere le grandi opportunità di questo processo. Non possiamo continuare a guardare il mondo e noi stessi esclusivamente dal punto di vista della consumabilità e della capacità di consumo di cui disponiamo. La natura non è più soltanto qualcosa da sottomettere e sfruttare, ma anche da rispettare. Quanto a noi stessi, alla nostra libertà e al nostro desiderio di felicità, incominciamo a renderci conto che non riusciremo mai a cavarcela da soli, confidando soltanto nel «principio del piacere». Dobbiamo riscoprire gli altri; vedere in essi non sono soltanto un «limite», ma anche una sorta di impegno per la nostra libertà. È insieme agli altri e per la libertà degli altri che vogliamo essere liberi, non da soli, in un isolamento pieno di malinconia. Se quindi abbiamo a cuore una società migliore, un maggior grado di benessere, una migliore qualità della vita individuale e sociale, non possiamo più rinviare una discussione di fondo sulle idee di benessere e di vita buona che intendiamo perseguire. Non discuterle perché in una società pluralista esse stanno diventando sempre più controverse, significa fare come gli struzzi per non vedere quella che certamente è una delle cause non secondarie dell’odierno malessere sociale. In ogni caso su questo genere di ripieghi e sulla convinzione che alla fin fine si tratta semplicemente di accrescere il nostro benessere materiale, la nostra capacità di consumo o le nostre capacità di scelta, senza guardare a ciò che si sceglie, vedo incombere come un macigno l’amarezza di una pagina molto bella di Max Horkheimer: «Anche se le rivoluzioni e il progresso tecnico consentono nuovi ordinamenti con una maggiore giustizia materiale, tuttavia la cultura non ha diffuso in maniera corrispondente, fra coloro che furono oppressi, quella capacità di felicità che un tempo fu propria dei signori».


musica A lezione d’umiltà MobyDICK

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cd

da Leonard Cohen di Stefano Bianchi on meditativa pacatezza Zen, dice: «Non sono un nostalgico, non guardo al passato. I ricordi, i rimpianti e l’autocompiacimento non sono meccanismi che fanno per me». Parole che il canadese Leonard Cohen, classe 1934, sussurra davanti alla cinepresa con quell’inconfondibile voce pastosa che qualcuno in passato definì «di rasoio arrugginito». Una voce che dal ’67 a oggi ha sgranato la poesia cantata d’una dozzina di dischi fatti di tenebre, amore, spi-

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ritualità. Fra i titoli di culto: Songs Of Leonard Cohen, Songs From A Room, Songs Of Love And Hate. Per Edge, il chitarrista degli U2, Cohen «è una figura d’importanza addirittura biblica». Per Nick Cave, Rufus e Martha Wainwright, Antony, Jarvis Cocker, Beth Orton, The Handsome Family, Kate e Anna McGarrigle, il grande Leonard è l’approdo più sicuro. E se lui, con disarmante umiltà, non vuol saperne di guar-

darsi indietro, ci hanno pensato loro a omaggiare questa coscienza inquieta della musica con il concerto del 30 gennaio 2005 alla Sydney Opera House. È un evento prodigo di emozioni, Leonard Cohen - I’m Your Man: che esce in dvd dopo essersi trasformato in un film e aver riscosso applausi a Toronto, Berlino e al Sundance Film Festival. Meglio: un «rockumentary». Giacché il regista Lian Lunson non s’è limitato a filmare il tributo, ma ha invitato Cohen a raccontarsi, fra un brano e l’altro, e a raccontare l’incredibile modernità delle sue canzoni. Sogno chiama sogno. Ed ecco Rufus Wainwright, mattatore della serata, che giostra Everybody Knows sul filo dell’habanera e del cabaret, soffia passionalità dentro Chelsea Hotel #2 e avvolge Hallelujah di magnetismo. Nick Cave, che distilla I’m Your Man come uno swingante crooner e riempie d’incanto Suzanne. E poi Martha Wainwright, che plasma The Traitor come fosse un country disossato; Antony, minimalismo celestiale (e bagliori gospel) per If It Be Your Will; Beth Orton, che tramuta Sisters Of Mercy in uno straniante valzer. Jarvis Cocker, infine, mette il country & western e l’attitudine punk al servizio di I Can’t Forget. Fuori dalla scena, colori abbaglianti si alternano a sequenze rallentate, in bianco e nero, di Leonard Cohen. Che a loro volta cedono il passo a schegge di filmini amatoriali che lo riprendono bimbo, adolescente, padre putativo dei cantautori dark. Parole sussurrate e immagini in dissolvenza. E l’epilogo di quest’ora e mezza di continue magie, lo vede in compagnia degli U2 a New York, il 19 maggio 2005, in un locale notturno di striptease e burlesque: The Slipper Room. Si mette a intonare Tower Of Song e Bono lo raggiunge nei versi finali mentre Edge, Adam Clayton e Larry Mullen Jr. non riescono a nascondere l’emozione. Sorride soddisfatto, alla fine del pezzo. E la sua voce, fuoricampo, dichiara: «Mi hanno conferito il titolo di poeta. E forse lo sono stato, per un po’. Mi è stato attribuito anche quello di cantante, anche se riesco a malapena ad andare a tempo». Benedetta umiltà. L’umiltà dei grandi.

Leonard Cohen - I’m Your Man, Dolmen Home Video, 16,90 euro

in libreria

mondo

riviste

IL COLORE DEL ROCK

SE IL BOSS VIRA IN BLUES

ANGUS YOUNG? COME CLARK KENT

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a storia del rock riletta come questione razziale. In un certo senso è questo il messaggio del nuovo libro di Simon Reynolds, presentato dalla casa editrice Isbn come «il più grande critico musicale vivente». Hip hop-rock 1985-2008, è una raccolta di articoli pubblicati nell’arco di un ventennio, proposti come una lunga, ma per forza di cose frammentaria, dissertazione sulle nuove sonorità nate dall’unione o dallo

È

uno Springsteen in vena di travestimenti originali quello che ha donato ai suoi fan l’inedito A Night with the Jersey devil, canzone scaricabile dal suo sito internet e accompagnata da un video stranamente «oscuro». Nella clip, girata interamente in bianco e nero, il cantante emerge dalle acque introducendo un affilatissimo blues cantato con un microfono distorto, che

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Riflessioni d’autore sulle nuove sonorità nate dalla commistione tra musica “nera” e “bianca”

Gli esercizi di stile di Bruce Springsteen nell’inedito “A night with the Jersey devil”

Dopo il ritorno degli Ac/Dc, “Rolling Stones” analizza le ragioni di un successo annunciato

scontro tra musica «nera» (hip hop, soul, blues) e «bianca».Tra Radiohead e Kayne West, 50 cent e Red Hot Chili Peppers, l’analisi di Reynolds si dimostra divertente anche se a volte rischia l’effetto «lezione di sociologia» perdendo qualcosa in immediatezza. La morale però è sempre la solita: nel mondo della musica i risultati migliori si hanno quando i due mondi cercano di conoscersi senza capirsi del tutto, dando vita a una mistura mai sentita. Uno scambio continuo, alla fine salito in cattedra nella fusione di stili per eccellenza; quell’hip hop che, pur essendo conosciuto come musica black, è nato riproponendo tutta la musica creata da quel 1954 in cui Elvis mise piede in sala di registrazione.

ne rende la voce quasi irriconoscibile (pare quasi di ascoltare Tom Waits nei suoi pezzi più cupi). Il testo racconta del demonio del Jersey, «il tredicesimo figlio nato sotto la tredicesima luna», gettato dal padre nelle acque del fiume e «tornato per uccidere il mio papà, i miei fratelli e le mie sorelle». Accreditata anche a Gene Vincent e a un misterioso Robert Jones, la canzone è nulla più che un piacevole esercizio di stile, ma ha il merito di lasciar libero Springsteen di giocare con una serie di luoghi comuni nella musica blues delle origini. Difficilmente vedremo questo tentativo replicato sul prossimo album con la EStreet band.

le, che così sintetizza il successo del gruppo di Young e compari. «L’album del 1980, Back to Black, ha venduto 22 milioni di copie fino a oggi. Nelle vendite di catalogo, negli ultimi due anni solo i Beatles hanno fatto meglio di loro negli Stati Uniti. Il loro ultimo lavoro in studio, Black Ice, si candida a diventare il disco rock più amato del 2008, tanto che la catena Wal Mart prevede di smerciarne 2 milioni e mezzo di copie». Merito di una formula un po’ ripetitiva ma dall’impatto sonoro devastante. Oltre che delle performance di Young con la sua Gibson «diavoletto». A questo proposito Frickle riporta l’illuminante paragone di Johnson: «È come Clark Kent: entra in una cabina telefonica e in un attimo si trasforma in un quattordicenne, pronto a fare rock!».

empi duri per le nuove promesse del rock. Da quando le cariatidi Ac/Dc sono tornate in scena dopo otto anni di silenzio discografico, tutti i giornalisti del settore sembrano avere occhi solo per le divise da scolaretto del chitarrista Angus Young e le canottiere da camionista del cantante Brian Johnson. L’edizione americana di Rolling Stones questo mese ha dedicato loro la copertina e un lungo reportage firmato da David Frick-


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zapping

GABER, GIORGIO E IL SIGNOR G. promoveatur ut amoveatur? di Bruno Giurato all’angolino del nostro scriptorium rocchettaro non facciamo mancare niente, nemmeno le cronache delle canonizzazioni. Non si parla di gerarchia cattolica ma di gerarchie culturali, e il canonizzato in questione è Giorgio Gaber, che in effetti avrebbe ben poco della ieraticità richiesta, da maestro di guerriglia umoristica quale fu. Ma di santi c’è sempre bisogno, e di santi laici in particolare, e di santi che cantano ancora di più. Il santo cantante è più digeribile, un omogeneizzato di generi: frulla alto (ideali civili) e basso (canzonette), sul modello di Shakespeare (e di Paolo Mieli). È infine il più adatto alla modernità. Gaber, Giorgio e il Signor G., raccontato da intellettuali, amici, artisti (Kowalski), è una raccolta di un centinaio di testimonianze eccellenti, e noialtri che siamo cresciuti più a barbera che a champagne restiamo ammirati di fronte allo sforzo e allo sfarzo dell’aula. Consideravamo Gaber un artista, e ci sentiamo piccolini apprendendo che è molto molto di più. La riflessione di Gad Lerner ci fa sentire in colpa: «L’abbiamo frantumato quel ”noi” verso cui Gaber ci conduceva», e i ricordi di Maurizio Costanzo ci intimidiscono. Pare che una volta, mentre era seduto a tavola con altri artisti, Gaber si fosse girato verso i curiosi di un tavolo accanto dicendo loro con durezza: «non vogliamo fare comunella». Insomma il signor G. era non un umorista ma (come nota Curzio Maltese) «un intellettuale democratico». Alla fine, letta l’ultima paginetta, e riascoltato Se io fossi Dio e Le elezioni, viene il sospetto che questo libro abbia uno scopo preciso: promuoverlo per rimuoverlo.

D

teatro

Una riserva di poesia per i nostri figli di Enrica Rosso era una volta la dolce estate con giornate lunghe stra per il bicentenario della nascita di Darwin, Nonno e dorate. Poi, un brutto giorno, arrivarono i primi Charlie e il mistero dell’anello mancante da febbraio in refreddi e, con l’ora legale, l’imbrunire ci colse a plica formato famiglia anche la domenica alle 11. Nonno mi metà pomeriggio; i ragazzi dovettero rinunciare porti a teatro? è invece l’iniziativa con cui risponde il Teatro ai tanto amati giochi all’aperto e... ed ecco entrare in scena, dell’Angelo per santificare il giorno del Signore immancaè proprio il caso di dirlo, stuoli di teatranti pronti a solleti- bilmente alle 11. Mentre il Ghione si affida alle scelte della carne la fantasia. Oltre ai teatri la cui attenzione si rivolge compagnia dei giovani. La Sala Umberto promette grande in esclusiva ai più giovani, spiluccando nei programmi del- impegno sul teatro in lingua inglese e francese. Il Teatro di le sale capitoline ci si imbatte in un offerta assai articolata. Documenti schiera da dicembre due spettacoli per adoleAlcuni sono eventi eccezionali che incantano per grandio- scenti: Per troppa vita che ho nel sangue e Pala Palazzeschi, sità come Il Magico Show di Topolino al Palalottomatica, o Notre Dame de Paris entrambi a dicembre. Altri per l’eccezionalità del performer, come nel caso di Arturo Brachetti col suo Gran Varietà al Sistina da ottobre, o del mago Remo Pannain in Supermagic al Teatro Olimpico il 23 gennaio. Poi ci sono i musical d’importazione come Hair al Gran Teatro a febbraio, Bollywood all’Olimpico, High School Musical da dicembre al Brancaccio; e quelli nostrani: Robin Hood ancora al Brancaccio a marzo e Cenerentola al Sistina ad aprile. Si tratta di produzioni imporRemondi e Caporossi tanti che mettono in scena, olin “Me and Me-Ombrello e bastone” tre alla bravura degli interpreti, un gran dispiegamento di mezzi. Da marzo poi, al Vascello una bella contaminazione di generi con François-Ver- entrambi focalizzati sulla poesia del Novecento; mentre per sailles Rock Dramma, fedele ricostruzione storica in musi- i bambini va in scena da novembre Metti un giorno nel boca con incursione della star televisiva Lady Oscar. Per i più sco. A queste proposte, dichiaratamente di parte, si aggiunpiccini non mancano le belle storie di sempre: da Pippi Cal- gono alcune opere di pregio che incantano un pubblico senzelunghe all’India a febbraio, a Pinocchio in dicembre e La za età; Me and Me-Ombrello e bastone per esempio, di Restoria del bambino invisibile tratto dal racconto di Rodari in mondi e Caporossi o I racconti delle grandezze, entrambi maggio all’Argentina; mentre Scroonge al Valle si ispira al presentati al Teatro Arvalia, il primo a dicembre, il secondo Canto di Natale di Dickens. Alcuni spazi presentano ap- a febbraio. Oppure gli inossidabili classici in edizioni rimarpuntamenti fissi dedicati, come quello proposto da Santa chevoli come il Don Chisciotte da gennaio all’Argentina. Cecilia che si svolgerà la domenica mattina nelle sale del- Un’unica raccomandazione: siate generosi. Col costo di un l’Auditorium col titolo esplicativo di Family Concert, o alVa- biglietto regalerete ai vostri figli un bagaglio di emozioni scello che rilancia tutti i sabati dicembrini alle 17 Peter per tutta la vita, una piccola riserva di poesia. Una splendiPan con accompagnamento di musica dal vivo. Per i picco- da abitudine da condividere per sopravvivere alla sguaiali scienziati in erba l’Eliseo presenta, in occasione della mo- taggine imperante.

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jazz

La calda voce di João nell’inverno dell’Umbria di Adriano Mazzoletti stato presentato all’Ambasciata del Brasile a Roma, la sedicesima edizione di Umbria Jazz Winter che si svolgerà a Orvieto fra il 30 dicembre e il 4 gennaio 2009. Anche quest’anno la manifestazione offre motivi di interesse. L’esecuzione dei Concerti Sacri di Duke Ellington diretti da Gregory Hopkins, al Teatro Mancinelli, è l’occasione per ascoltare queste opere di non semplice rilettura. Nuovamente il duo Martial Solal-Stefano Bollani che dopo il grande successo della «prima» nel 2004 a Genova per l’anno della cultura, è stato presentato in seguito a Perugia e ora a Orvieto, nel corso dello stesso concerto dove si darà «battaglia» un altro duo pianistico, quello fra Danilo Rea e Antonello Salis. Ma l’interesse dell’edizione di quest’anno è la presenza di uno dei miti

È

della musica brasiliana, João João Gilberto Gilberto Prado Pereira de Oliveira, nato a Juazeiro nello stato di Bahia il 10 giugno 1931, che darà tre concerti al Mancinelli, il 2, il 3 e il 4 gennaio. Inventore con Antonio Carlos Jobim della bossa nova, è stato l’autore di molti classici di una nuova musica, influenzata indubbiamente dal jazz americano. Al suo apparire nel 1958, quando vennero pubblicati due dischi ancora a 78 che di importante succedeva nel mongiri con quattro canzoni, Chega de do della cultura e della musica di granSaudage, Bim Bon, Desafinado e Ho de livello, invitò João Gilberto che riBa, Lala, la bossa nova di João, di An- mase a Roma per molto tempo. tonio Carlos Jobim e di Vinicius de Mo- Oltre a partecipare a una trasmissioraes, invase il mondo. Quasi immedia- ne condotta da Johnny Dorelli, era tamente la televisione italiana, che sempre pronto a imbracciare la chinon aveva ancora inventato la televi- tarra e cantare le sue canzoni, alcusione urlata, «letterine» «veline», «iso- ne delle quali nate proprio a Roma. Il le e fratelli vari», ma che era, grazie a suo batterista Milton Sousa, più coLeone Piccioni, molto attenta a ciò nosciuto come Milton Banana, che

aveva sempre le bacchette della batteria in tasca, insegnò a tutti i batteristi romani, professionisti e dilettanti, l’esatta scansione ritmica di quella nuova musica. Era quello un periodo straordinario per la musica brasiliana. Roma, grazie alla presenza di João e di sua moglie Astrud, che non aveva però ancora incontrato Stan Getz, divenne un po’ il centro degli artisti spesso in fuga dal loro Paese. Chico Buarque de Hollanda abitava al quinto piano di un palazzone a Piazzale Flaminio. A casa di Chico ogni sera si incontravano Juca Chavez, ossessionato dal suo grande naso, l’attrice Luisa Maranon che aveva lavorato con il regista Glauber Rocha e tutti i brasiliani che giungevano da Rio, São Paulo, Bahia. La loro musica stava invadendo Roma, poi dal Teatro Sistina, dove le telecamere riprendevano i concerti organizzati da Franco Fontana, l’Italia intera.


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narrativa

agnanza e padronanza. Con un titolo storto e cacofonico, duro e spiacevole, esordisce per la casa editrice romana Gaffi un giovane ventisettenne di origini napoletane, Beppe Fiore. Un esordio diretto come un ceffone in pieno viso, già maturo per stile, strutturato nelle dieci storie che compongono la raccolta. Del titolo resta l’ombra interpretativa che di tanto in tanto si affaccia nei racconti: che la cagnanza sia una forma deteriore d’amore e di asservimento cupo e incontrovertibile ai meccanismi sociali e la padronanza un’impennata improvvisa d’orgoglio e di presa di coscienza di queste misere figurine dei vari personaggi? Forse sì forse no, se non che il raggelante significato si può cercare nel racconto che porta il titolo, lenta storia domenicale di un funerale di un amico che è anche il funerale di un’epoca, passata rapidamente in rassegna mentre scorrono sotto le immagini dell’Urbe: «devo dire che Roma in quegli anni mi sembrava una girandola di fiche e culi, strade enormi che scricchiolavano di storia e spazi senza dimensione. Palazzi padronali tutti inaccessibili, ministeri conventi musei e macchinoni lanciati su via XX settembre… io avevo un odio feroce per questa città». Uno dei punti focali della scrittura di Fiore questo della città e dei luoghi (di passaggio, di incontro) come scenografie inautentiche dove vive la regola arbasiniana dell’accumulo e del catalogo oggettuale. Il mondo delle cose che le persone vivono sempre più come elenchi da scorrere in fretta: «sarebbe bello che tutte le cose che stanno in assedio in questa casa adesso mi si ammucchiassero addosso... pentole ninnoli foto incorniciate ed elettrodomestici fuori produzione mi sommergessero. È così che io vedo la morte, tutti soffocati sotto il peso dei cari oggetti a cui abbiamo voluto bene». È un esordio feroce

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Dieci racconti impietosi non lontani dalla realtà di Maria Pia Ammirati

libri

nella sua maturità espressiva, una lingua densa e curata, accumulatrice di senso che non perde mai di vista un obiettivo preciso: il personaggio. Il personaggio delle varie storie di Fiore è un malato terminale, sia esso uno studente, un professore, uno sfaticato, una coppia di genitori in libera uscita domenicale. Tutti deviati o troppo normali, descritti e osservati animalescamente, mentre commettono piccoli errori o si arraggiano al meglio come milioni di altri simili. L’osservazione così ravvicinata rasenta la brutalità, mentre sofisticata e periziosa è la costruzione temporale delle storie. Lo sguardo disincantato, in alcuni casi ironico mentre osserva gli spiacevoli equivoci, come accade nel racconto L’ultimo purè, malinconica parabola di un professore di storia che insegna in una scuola senza termosifoni che vive una tranquilla vita di purè serali, prima materni poi coniugali, fino a quando la vita non gli viene stravolta dalla visione di un film, che manda all’aria anche il rassicurante rito del purè. O l’ironico assurdismo di Risvolti poco noti della carriera universitaria in Italia, impietoso quadruccio su assistenti e dottorandi sullo sfondo della grande università italiana: «noi siamo a corte del professor Giacomo Pittalunga, ordinario di sociologia dei consumi… una cattedra di primo piano nel contesto dell’ateneo». Fino al racconto più acre Forme di vita su un pianeta dove le forme di vita narrano di un triangolo tra tre sopravvissuti che vivono in un microappartamento su di un materasso dove mangiano e copulano fino a quando la donna, una quarantacinquenne, resta incinta. Duro impietoso bestiale, ma, forse, non troppo lontano dalla realtà. Beppe Fiore, Cagnanza e padronanza, Gaffi editore, 218 pagine, 8,50 euro

riletture

La scienza dalla routine alla rivoluzione di Giancristiano Desiderio a nostra epoca, anzi, i nostri giorni sono contrassegnati dalla scienza e dalla tecnologia. La scienza guida il mondo e l’immagine che abbiamo del mondo, della natura, di noi stessi è detta scientifica. Cosa sia poi la scienza è cosa più ardua. Anzi, no. Lo dico con sicurezza: la scienza è metodo e controllo. Più esercitiamo il metodo, più controlliamo e più siamo scientifici. Ma il metodo è uno strumento umano. Troppo umano. Il metodo non è indipendente dalla sua storia di metodo. Voglio rileggere l’inizio di un celebre libro che vi consiglio di leggere o rileggere. Autore: Thomas S. Kuhn. Titolo: La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Edizione Mondadori, appena approdato in edicola nella

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versione povera dei Meridiani. Dunque, l’incipit: «La storia, se fosse considerata come qualcosa di più di un deposito di aneddoti o una cronologia, potrebbe produrre una trasformazione decisiva dell’immagine della scienza dalla quale siamo dominati». La scienza è trasformata dalla storia, mentre il pre-giudizio dice esattamente l’opposto: la scienza trasforma la storia. Da dove si ricava l’immagine della scienza o il pre-giudizio scientifico sulla scienza? «Fino a oggi questa immagine è stata ricavata, anche dagli stessi scienziati principalmente dallo stadio dei risultati scientifici definiti quali essi si trovano registrati nei classici della scienza e più recentemente nei manuali scientifici, dai quali ogni nuova generazione di scienziati impara la pratica del proprio mestiere». L’immagine

della scienza si ricava, insomma, dai manuali: chi studia da scienziato dovrà pur studiare sui libri della scienza e chi non studia da scienziato ma ha curiosità scientifiche magari sarà un lettore di riviste scientifiche o di divulgazione scientifica. Detto in altre parole, ma rispettando il senso del discorso di Kuhn e, anzi, utilizzando la sua stessa terminologia, gli scienziati sono dogmatici e la scienza è fatta di dogmi. «È però inevitabile che i libri di tal genere abbiano uno scopo persuasivo e pedagogico: una concezione della scienza ricavata da essi non è verosimilmente più adeguata a rappresentare l’attività che li ha prodotti di quanto non lo sia l’immagine della cultura di una nazione ricavata da un opuscolo turistico o da una grammatica della lingua». Per

chi è immerso nel pre-giudizio della scienza come visione scientifica delle cose il libro di Kuhn è «rivoluzionario». Il saggio cerca infatti di mostrare quali «fraintendimenti fondamentali» porta con sé una visione dogmatica della scienza e il suo scopo è quello di «abbozzare una concezione assai diversa della scienza, come emerge dalla documentazione storica della stessa attività di ricerca». Se, però, la lettura o rilettura di un testo come La struttura dà ansia, si può ripiegare su un altro scritto di Kuhn che uscì quasi vent’anni dopo la sua opera più importante e ora Il Mulino la propone al pubblico italiano. S’intitola Le rivoluzioni scientifiche e spiega in modo esemplare come si passi dalla routine della «scienza normale» alla «rivoluzione scientifica».


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media

Giornalisti e potere dal 1815 al 1945

di Massimo Tosti rentacinque anni fa un giornalista, Dino Biondi, pubblicò un libro (La fabbrica del duce) che metteva a nudo il rapporto di pressoché totale sudditanza della stampa alle direttive impartite - durante il ventennio fascista - al Minculpop (il ministero della Cultura popolare) che esercitava il potere di controllo distribuendo alle redazioni le famose «veline». Si trattava di una censura preventiva e «morbida», che in rarissimi casi i giornalisti tentavano di aggirare. Persino quando le disposizioni avevano toni e contenuti ridicoli, i direttori dei giornali (e i fidatissimi cronisti) si inchinavano ai desideri del re-

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personaggi

gime. Per opportunismo, per pavidità o anche soltanto per quieto vivere. Pierluigi Vercesi (ex Stampa, ex vicedirettore de Il Tempo, ex direttore di Capital, oggi in forza alla Rizzoli) ha ampliato quell’analisi in un pregevole libro, L’Italia in prima pagina - I giornalisti che hanno fatto la storia, che ripercorre il rapporto fra giornalisti e potere in Italia, partendo dal 1815 per arrivare alla fine della seconda guerra mondiale. Perché dal 1815? Perché, spiega l’autore, il Risorgimento ha origini lontane: «Le armi vennero imbracciate soltanto dopo un lungo lavoro preparatorio impiegato a trasformare il piombo delle tipografie in pallottole. Furono i gazzettieri i primi a seguire Ga-

ribaldi, Cavour o Mazzini». Nell’Ottocento - e questo spiega il ruolo «preparatorio» della stampa, i giornalisti si rivelarono più coraggiosi e indipendenti dei loro nipoti o pronipoti. La censura austro-ungarica (ma anche quella imposta dagli Stati italiani di allora) era più ferrea e severa di quella mussoliniana, ma i cronisti e gli editorialisti di allora riuscivano a passare attraverso le sue maglie strette e a lanciare precisi messaggi ai lettori.

Varrebbe la pena di riflettere su questa considerazione, per domandarsi se oggi il giornalismo nostrano è più erede di quello ottocentesco o di quello fascista. Vercesi di questo non si occupa. Il suo è soltanto un preziosissimo (e godibilissimo) lavoro di ricerca storica, non un pamphlet. Pierluigi Vercesi, L’Italia in prima pagina - I giornalisti che hanno fatto la storia, Francesco Brioschi editore, 240 pagine, 16,00 euro

La duplice colpa di Gregor von Rezzori di Vito Punzi arà stato per le lontane origini, aristocratiche e siciliane, sarà per i lunghi soggiorni italiani, certo Gregor von Rezzori (1914-1998) è stato uno dei pochi autori di lingua tedesca ideologicamente non orientati della seconda metà del Novecento ad aver goduto in Italia di una certa fortuna editoriale, per quanto principalmente postuma. Andrea Landolfi, che è traduttore e curatore di questo e di altri libri rezzoriani, definisce questo libro, a ragione, un’autobiografia «anomala», perché più che di una «storia di una vita» si tratta di «una storia in una vita», in particolare in quei primi trent’anni trascorsi nella provincia orientale dell’ex Impero Asburgico (Rezzori nacque

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miti

a Czernowitz, la stessa patria del poeta Paul Celan). Nel cuore «malinconico» dello scrittore è pesato per l’intera, lunga esistenza il ricordo di quella Vienna gelida e luminosa del marzo 1938, quando avvenne l’Anschluss al Reich tedesco. Già e ancor più nel romanzo Memorie di un antisemita aveva raccontato della sua formazione in un ambiente rigidamente antisemita. In questo Sulle mie tracce c’è un fatto attorno al quale ruota l’intero intreccio mnemonico ed è quello che Rezzori definisce come il «vero tradimento». Un fatto che ritorna più volte nel libro, perché origine di quella «colpa» per la quale Rezzori non riuscì mai a darsi pace: «L’ignobile viltà nel marzo 1938 - scrive - fu nel mio caso vedere il nostro medico ebreo strofinare il

marciapiede con uno spazzolino da denti mentre un gruppo di individui in stivaloni di cuoio lo incitava a calci. […] Mi vergognai, ma non mi mossi». Colpa duplice, perché gravata dal fatto, come lui stesso ricorda, di aver scritto un libro su quei terribili giorni, «come se quel fatto non fosse successo». Il senso di colpa e il pudore spinsero lo scrittore a chiedere all’editore tedesco di non rivelare dove fosse stata scattata la foto di copertina che lo ritrae già anziano e di spalle. Ora Guanda, riproponendola, ha deciso di rivelarlo: si tratta di Auschwitz, dove Rezzori si recò più volte in visita. Gregor von Rezzori, Sulle mie tracce, Guanda, 318 pagine, 19,50 euro

Anche Gilgamesh sconfitto dal serpente di Alfonso Piscitelli a prima epopea letteraria dell’umanità, sorta dalla fantasia del primo popolo stanziale che sia attestato nella storia e narrata nei caratteri cuneiformi della prima scrittura fino a ora rinvenuta. L’epos di Gilgamesh unisce tutti questi primati arcaici e li fonde nella narrazione di una vicenda che ha il sapore dell’attualità. L’eroe sumero Gilgamesh ha il potere, la ricchezza, le doti di una personalità aristocratica e gaudente, ma cerca il possesso dell’immortalità. La morte fa ombra alla sua vita trionfale nel momento in cui l’amico Enkidu viene ucciso ancor giovane. Allora la

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riflessione sulla caducità della condizione umana si impone nell’anima di Gilgamesh, un’anima che ci parla da lontananze di 4.500 anni. I Sumeri scesero da Nord in Mesopotamia nel V millennio avanti Cristo, precedendo i popoli di lingua semita come gli Accadi. Nell’epopea letteraria di Gilgamesh, ricostruita con perizia filologica da Jean Bottero nella edizione recentemente proposta dalle Mediterranee, troviamo riferimenti a realtà fa-

miliari alla nostra tradizione antica: le Città-Stato, i tiranni, la sfida a divinità umanizzate come bellicosa Ishtar, Afrodite d’Oriente, l’amicizia tra Gilgamesh ed Enkidu, così simile a quella tra Achille e Patroclo. Ma soprattutto la realtà incombente dell’Ade, regno di ombre, al di là della vita terrena così aspra, e così dolce. L’eroe cerca di fuggire la morte compiendo un viaggio iniziatico che è anche una risalita a ritroso nel tempo fino al-

le origini mitiche in cui gli uomini erano anch’essi immortali. Il vecchio saggio che possiede il segreto dell’immortalità vive in un mitico Occidente ed è l’ultimo sopravvissuto della generazione che precedette il diluvio. A Gilgamesh, il saggio immortale concede il segreto per trascendere la caducità umana. Ma anche qui come ostacolo si interpone un serpente, che ruba all’eroe il premio dell’immortalità. Tra il Tigri e l’Eufrate, nell’Epos di Gilgamesh con nel racconto più recente della Genesi, alla fine vince sempre il serpente.

L’epopea di Gilgamesh, a cura di Jean Bottèro, Edizioni Mediterranee, 300 pagine, 24,50 euro

altre letture L’aquila e il pollo fritto (Mondadori,18,50 euro) è un reportage biografico di Vittorio Zucconi, il più americano dei giornalisti italiani, negli Stati Uniti. Un viaggio fra riti e tic, le grandezze e le miserie del Paese nel quale tutto è accaduto e tutto accadrà: dal colosso Google al poker in televisione, dalle devastazioni dell’uragano Katrina alla megalomania dei grattacieli, dall’improbabile Sarah Palin, all’uomo nuovo Barack Obama. «Non c’è evento, dramma, tragedia, crisi, caso umano che non accada anche qui. Abbiamo tutto il bene e il male, con qualsiasi faccia. Tutto quello che volete qui c’è».

Affascinante ma anche circondato di pregiudizi, il gatto è un’animale domestico solo a metà. Nessun animale ha conosciuto vicende tanto alterne, dalla venerazione come divinità, alla persecuzione come incarnazione demoniaca: creatura magica e misteriosa il gatto suscita forse per questo sentimenti tanto contrastanti: o lo si ama infatti o lo si odia. Non ci sono vie di mezzo. Laura Fezia, ama talmente questi animali da avergli dedicato un saggio La magia del gatto (L’età dell’acquario, 14 euro), dove storie, leggende e misteri che circondano i felini vengono rilette alla luce del loro comportamento quotidiano, addirittura dal punto di vista degli stessi gatti. San Tommaso D’Aquino è uno dei pilastri del pensiero cristiano: la sua opera raccorda e armonizza il messaggio evangelico e la filosofia classica, la fede e la regione. Eppure, dice Chesterton, «questo grande personaggio meriterebbe di essere meglio conosciuto». Per questo Chesterton dedica una biografia a questa grande figura (San Tommaso D’Aquino, Lindau, 16,50 euro) rievocando con la consueta ironia le principali tappe della vita di Tommaso. «L’umiltà scientifica di San Tommaso era così profonda e peculiare da disporlo a collocarsi al livello più basso per esaminare le cose più irrilevanti. Non studiava il verme come se fosse il mondo, come fanno gli specialisti moderni, ma era disposto a cominciare lo studio della realtà del mondo partendo dalla realtà del verme».


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storia

CINQUE LEZIONI DI ERNST NOLTE ALL’ISTITUTO DI STUDI FILOSOFICI DI NAPOLI SONO L’OCCASIONE PER RILEGGERE LA RIVOLUZIONE CONSERVATRICE CHE DALLA GERMANIA POSE LE BASI TEORICHE PER LA COMPRENSIONE DELLA DECADENZA MORALE E CULTURALE DELL’OCCIDENTE. SECONDO ALCUNE IDEE CONDUTTRICI DI CUI È UTILE RICONOSCERE L’ATTUALITÀ…

Quella nostalgia per l’avvenire di Gennaro Malgieri el tempo della crisi e nell’incrinarsi di tutte le certezze che hanno caratterizzato gli ultimi decenni del Novecento, è quasi obbligatorio rivisitare autori e filoni di pensiero che agli albori del secolo scorso, e in particolare nei primi tre decenni, posero le basi teoriche per la comprensione della decadenza morale e culturale che andava manifestandosi, in forme diverse, nell’Occidente. Ernst Nolte, l’ultimo grande studioso tedesco delle forme della politica e delle loro conseguenze storiche, terrà a Napoli cinque lezioni sulla Rivoluzione conservatrice. Su quel movimento che, per quanto indagato, resta ancora una «nebulosa». È un’opportunità da cogliere al fine di comprendere le ragioni remote che hanno determinato, dopo anni di ingiustificati entusiasmi e angosce profonde sui destini europei e del mondo occidentale in genere. Allora, una riflessione può essere utile e il richiamo ad autori come Spengler, Schmitt, Jünger, Benn, Moeller van den Bruck può non essere soltanto un’esercitazione accademica. Ricordo che la definizione di «Rivoluzione conservatrice» venne proposta negli anni Cinquanta da Armin Mohler con il suo preziosissimo libro, più volte aggiornato e ristampato, Die Konservative Revolution in Deutschland. Definizione

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to spirituale del XVI secolo, definito da noi di solito nei suoi due aspetti “Rinascimento” e “Riforma”. Il processo di cui parlo non è altro che una rivoluzione conservatrice di un’ampiezza tale quale la storia europea non conosce. Il suo fine è la forma, una nuova realtà tedesca, alla quale possa partecipare tutta la nazione». Non diversamente da Hofmannsthal si esprimevano Thomas Mann e Arthur Moeller van den Bruck che facevano riferimento alla Rivoluzione conservatrice per delineare i nuovi orientamenti letterari e politici che andavano manifestandosi in Germania dopo la prima guerra mondiale. Orientamenti che Mann esplicitò soprattutto nelle Considerazioni di un impolitico. Moeller non nascose di aver preso in «prestito» la definizione da Dostoevskij.

Come Rivoluzione conservatrice, dunque, si definisce un considerevole movimento di pensiero caratterizzante la vita culturale europea, ma in particolar modo tedesca, soprattutto tra il 1918 e la fine degli anni Trenta, teso a capovolgere lo «spirito di Weimar» e gli assunti illuministico-razionalistici sottoponendoli a una spietata critica al fine di preparare il terreno per un rivolgimento esistenziale e poli-

Von Hofmannsthal, Moeller van den Bruck, Mann, Spengler, Schmitt, Jünger, Benn... I rivoluzionari-conservatori promuovevano la rigenerazione spirituale dell’uomo. Che ha, tra i suoi valori, il mantenimento della storicità che lo studioso riprese da Hugo von Hofmannsthal il quale, probabilmente inconsapevole del successo che essa avrebbe avuto, la utilizzò in un discorso pronunciato nell’aula magna dell’Università di Monaco il 10 gennaio 1927. Riferendosi al clima spirituale che si andava diffondendo in Europa, e in particolare in Germania, dove non si erano esauriti i malesseri derivanti dalla sconfitta militare, Hofmannsthal disse: «Come nessun’altra generazione precedente, questa e la prossima che già vediamo crescere fra noi, si contrappongono consapevolmente alla totalità della vita e ciò in un senso più stretto di quanto le generazioni romantiche potessero soltanto presagire. Tutti i dualismi in cui lo spirito aveva polarizzato la vita, devono essere superati nello spirito e ricondotti all’unità spirituale; tutto ciò che vi è scisso all’esterno deve essere riassunto nell’intimo e lì venir plasmato in unità, affinché acquisti omogeneità all’esterno, perché il mondo diventa unitario solo per colui che è un tutto in se stesso. (…) In questo atteggiamento in fondo è anticipata la salvaguardia dello spazio spirituale, così come nell’atteggiamento romantico è compreso lo spreco di tale spazio e nell’atteggiamento del filisteo colto la restrizione di esso. Ciò che questo spirito in cerca di sintesi riesce a conquistare - ovunque, anche nel petto dell’individuo si può parlare di conquiste - sono dei punti già proiettati nel caos, i cui collegamenti potrebbero delineare l’abbozzo dello spazio spirituale. Sto parlando di un processo in mezzo a cui noi ci troviamo, di una sintesi lenta e grandiosa, se la si guarda dall’esterno, ma anche cupa e ponderosa, quando si sta dentro di essa. Lento e grandioso possiamo definire tale processo, se pensiamo che anche il lungo periodo di tempo che va dagli spasmi dell’Illuminismo fino a noi, ne costituisce soltanto un breve tratto e che esso comincia propriamente come un movimento di reazione interiore allo sconvolgimen-

tico fondato sugli elementi spirituali, tradizionali e comunitari dei popoli e delle nazioni. Si tratta, insomma, di un fenomeno dalle spiccate connotazioni metapolitiche che s’innesta idealmente sulla via tracciata alla fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento dagli studi sociaologici di Ferdinand Tonnies e Otto von Gierke, da quelli storici di Johan Jacob Bachofen e Jacob Burckhardt, dalle ricerche sulle origini religiose europee di Erwin Rodhe, dall’«opera totale» di Richard Wagner. E soprattutto dalla «filosofia dell’avvenire» di Friedrich Nietzsche. La Rivoluzione conservatrice, individuando una concreta «immagine del mondo» (Weltbild) alla quale riferirsi, ha fornito gli orientamenti ideologici per tentare un cammino diverso rispetto alla decadenza. Le coordinate spirituali che legano i pensatori rivoluzionarioconservatori vanno dal comune sentimento del nichilismo al culto delle origini, dalla concezione sferica del tempo e

della storia alla difesa delle culture differenziate, dal rigetto dell’egualitarismo alla concezione organica dello Stato. E su tutto una grande, lirica, perfino metafisica coscienza dell’Europa quale «corpo» politico e storico da resuscitare nel segno di una «grande politica». Insomma Rivoluzione conservatrice come rivoluzione dello spirito. In Germania, a volerla considerare un fenomeno tipicamente tedesco, la Rivoluzione conservatrice nasceva come conseguenza culturale ed esistenziale delle frustrazioni interiorizzate da una generazione che non aveva metabolizzato la sconfitta bellica; una generazione disorientata alla quale le sanzioni imposte alla loro nazione dai vincitori, acuivano il senso di rabbia e di impotenza, che vedeva un impero uscire dalla storia, una monarchia diventare repubblica e il tutto avvolto nell’oscuro presentimento dell’imminente «tramonto dell’Occidente» del quale si fece «banditore» Oswald Spengler con l’omonimo libro che ebbe uno strepitoso successo. Davanti a questo mondo, più vasto di quanto si possa pensare e che non era costituito soltanto da giovani o da intellettuali, ma anche da una borghesia che mal sopportava il ruolo che la storia le aveva assegnato, stavano le fragili strutture della Repubblica di Weimar, soffocanti per quella rivoluzione dello spirito colta nell’aria dalle intelligenze migliori. Le quali per non dover rinunciare alle loro ambizioni rifiutavano di inserirsi in un sistema che avvertivano


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Weimar in un’immagine d’epoca. In basso, da sinistra: Hugo von Hofmannsthal, Thomas Mann, Carl Schmitt, Oswald Spengler, Arthur Moeller van den Bruck ed Ernst Jünger

Tra il 1918 e la fine degli anni Trenta, il movimento di pensiero reagì alle fragilità della Repubblica di Weimar professando la virtù della decisione e opponendosi ai progetti delle ideologie razionalistiche profondamente estraneo e lontano dal loro animo, in cui andava facendosi strada l’urgente bisogno di riconoscersi in qualcosa, di perentorie verità e assolute affermazioni ideali indispensabili per continuare a vivere, nonostante tutto. «Essi che cercavano certezze - scrisse Delio Cantimori - non potevano trovarle in quel disfacimento: e si misero ad accelerarlo con la loro opera di distruzione nei campi opposti ma sullo stesso piano del comunismo estremista e del radicalismo nazionalista: nella ribellione di disperati, di “figli della borghesia”, che tanti anni prima della guerra mondiale appariva come un modello di salde virtù. Lavoro, dovere, senso dello Stato, della famiglia, amore della cultura... Chi non ricorda le apologie del Treischke per quel mondo, dal quale i giovani già negli anni precedenti alla guerra cercavano di sfuggire con il movimento così ingenuo oggi ai nostri occhi del Jugendbewegung?». È questo il clima nel qua-

le nasce e si sviluppa la Rivoluzione conservatrice che nel panorama intellettuale del tempo rappresenta un universo estremamente composito con in comune il sentimento della «decisione». Esempio tipico di tale diffuso stato d’animo è la scelta compiuta da molti intellettuali per campi radicalmente opposti, come i fratelli von Salomon: l’uno nazionalista, l’altro comunista.

Ernst, autore dei Proscritti, osservò: «Eravamo posseduti da questa nostra epoca, ossessionati dalla sua distruzione e anche dalla sofferenza che solo poteva renderla fertile. Ci eravamo buttati sulla sola virtù che quell’epoca esigesse: la decisione, perché come la nostra epoca anche noi avevamo sete di decisione». Ancor più significativo a tale riguardo è l’atteggiamento di Ernst Jünger. Nelle pagine del suo diario si legge: «Non si potrà mai sapere il fine della nostra esi-

Dal 17 al 21 novembre La Rivoluzione conservatrice nella Germania della Repubblica di Weimar. È questo il tema delle cinque lezioni che Ernst Nolte - insigne e discusso storico tedesco, studioso del bolscevismo e dei movimenti fascisti, professore emerito alla Libera Università di Berlino, collaboratore di liberal, con la cui casa editrice ha pubblicato L’Uomo, la Storia (2006), un libro-intervista in cui ripercorre la sua formazione e la produzione della sua opera omnia - all’Istituto di Studi Filosofici di Napoli (Via Monte di Dio 14, Palazzo Serra di Cassano), dal 17 al 21 novembre. Questo il programma: lunedì 17, «Introduzione con uno sguardo particolare alle Considerazioni di un impolitico di Thomas Mann»; «Oswald Spengler: il profetico pensatore della storia e il polemista politico». Martedì 18: «Ludwig Klages: il precoce paladino dell’ecologia e il nemico radicale dei Giudei»; «Carl-Schmitt: il grande giurista e il temporaneo avvocato difensore della Repubblica di Weimar». Mercoledì 19: «Artur Moeller van den Bruck: “popoli giovani” e “terzo Reich” tedesco»; «Ernst Jünger: la personificazione del soldato del fronte e il pensatore della “mobilitazione totale”». Giovedì 20: «Ernst Niekisch: il nazionalbolscevico. Per odio contro “l’Occidente” o per rifiuto del nazionalsocialismo?»; «August Winnig: il proletario antimarxista e antigiudeo». Venerdì 21: «Karl Otto Paetel e Otto Strasser: i nazionalsocialisti “rivoluzionari” contro il nazionalsocialismo “borghese” di Hitler»; «Sintesi e problematiche conclusive».

stenza, tutti i cosiddetti fini della nostra vita possono essere solo pretesti del destino; ma quel che importa è il fatto, puro e semplice, che siamo qua, con sensi, nervi e cervello. Essere sempre sul chi vive, questo importa, essere sempre pronti a seguire la voce che ci chiama - ed è certo che questa voce non tacerà...». E ancora: «... Ma tutti coloro che oggi lottano per bandiere e distintivi, per leggi e dogmi, per ordini e sistemi, fanno dell’accademia; già il ribrezzo per questo strepitìo rivela che noi abbiamo bisogno non di risposte, ma di più profondi interrogativi, non di bandiere, ma di combattenti, non di ordinamenti, ma di insurrezioni, non di sistemi, ma di uomini». Infine, più esplicitamente, con maggior vigore: «Per questo l’epoca presente esige una sola virtù: la decisione. Quel che importa è essere capaci di volere e di credere, senza riguardo ai contenuti che questa fede e questo volere ci danno». Carl Schmitt avrebbe «giuridicizzato» questo bisogno esistenziale creando un teorema istituzionale e politico di rara efficacia. Tuttavia, al di là di ogni posizione strettamente personale degli esponenti inquadrati come rivoluzionario-conservatori, va osservato che un dato comune a tutti è la quasi ossessiva ricerca di una «terza via» fra capitalismo e marxismo. Inoltre, in quasi tutti sono rintracciabili delle «idee conduttrici» (Leitbilder), come le definisce Mohler, la prima delle quali è la «concezione sferica» della storia in opposizione alla «concezione lineare» tipica delle ideologie egualitarie. Un secondo Leitbilder è quello dell’Interregnum: «Noi siamo al tornante tra due epoche - osserva Jünger - un tornante il cui significato è paragonabile a quello del passaggio dall’età della pietra all’età dei metalli». Da qui il senso del nichilismo positivo che non si appaga del crollo di tutti i valori, ma cerca faticosamente di inventarne di nuovi promuovendo la rigenerazione spirituale dell’uomo. Dunque, i rivoluzionario-conservatori non avevano altro scopo se non quello di distruggere ciò che li circondava, di sbarazzarsi delle macerie del vecchio mondo. Mentre ciò che volevano conservare è la «storicità» dell’uomo, vale a dire la possibilità di creare «nuovi eterni ritorni», in opposizione netta e radicale con la fine della storia progettata dalle ideologie razionalistiche. È una nostalgia dell’avvenire, quindi, quella che caratterizza i teorici della Rivoluzione conservatrice che affonda le radici in una Sehnsucht rigeneratrice e vitale. Riparlarne oggi non è un’operazione di mero recupero culturale, ma un’occasione da cogliere per riportare alla luce scrittori strumentalmente utilizzati, a seconda della bisogna, sui quali il tempo non sembra aver inciso. La discussione sulle prospettive aperte, ad esempio, da Spengler e da Heidegger, sulla tecnica e la sua invadenza al punto di diventare «totalitaria», è assolutamente prioritaria per ciò che concerne i destini dell’umanità. Non credo che parlare ancora, sia pure con accenti nuovi, di «tramonto dell’Occidente» o di «decisionismo politico» sia improprio. Allora vale la pena recuperare le fonti e aprire una discussione critica su questi Leitbilder destinati a segnare il XXI secolo.


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tv

I modesti epigoni È

web

di Pier Mario Fasanotti

cominciato il 2 novembre, giorno dei morti: mica male come coincidenza di calendario per il serial canadese, funebre e morboso, già presentato in Italia nel maggio scorso, Durham County (su Sky, Fox Crime). È uno dei tanti programmi di fiction nera che sta virando su atmosfere da Halloween. Dal 10 novembre ci sarà City in fear. La pubblicità annuncia seriosamente che «ogni luogo può diventare letale». Brr, che paura. City in fear racconterà «i crimini che hanno sconvolto gli Stati Uniti», con particolare attenzione ai massacri. La zoomata vera sarà sull’atmosfera di panico che un evento criminale, individuale o collettivo, causa nella popolazione. Sono solo due degli esempi della nuova tendenza: la tv «de paura». L’omicidio non basta più. E nemmeno la squadra di detectives o di superesperti della Scientifica che, in maniera per noi rassicurante, rimettono le cose a posto. No, stiamo andando verso una voluta assenza di confine tra la normalità, o la serenità, e il lato oscuro di ognuno di noi. Non che sia molto originale tutto questo, ma è un segnale forte: il gusto del pubblico, o quello che si dice che sia tale, sta mandando in soffitta i classici eroi, i poliziotti buoni con l’aria del papà o dello zio, che sanno a volte ridere, che hanno una famiglia o amici (eccezione assai vistosa: Il commissario Montalbano, Rai 1). Seguendo i nuovi serial ci chiediamo se apparteniamo alla preistoria oppure no. In Italia, e in genere in Europa, dove il bubbone delittuoso cresce su pelle morbida e sana, fa eccezione insomma. Invece in America o in Canada sembra che non tanto il sangue quanto il torbido dell’anima sia l’humus per una terra dove l’importante non è essere felici ma sopravvivere in qualche maniera.

di David Lynch

video

games

Durham County racconta le vicende del detective Mike Sweeney (Hugh Dillon), che dopo la morte del suo collega in una sparatoria e la notizia del cancro al seno riscontrato alla moglie Audrey (Helene Joy), decide con tutta la famiglia di lasciare Toronto e ricominciare una nuova vita in un sobborgo residenziale apparentemente tranquillo. Qui Mike scopre che il suo vicino di casa Ray Prager (Justin Louis) è un suo ex compagno di scuola. Ma non sa è che nel frattempo l’amico grossolano si è trasformato in un serial killer. È ossessionato dalle donne in posizioni mortuarie. Difatti la serie inizia con due studentesse diciottenni, con la gonnellina scozzese straordinariamente corta e conturbante che vengono sedotte e massacrate in un bosco. Scene morbosamente sessuali perché il desiderio è malato e prelude alla tortura e alla necrofilia. Poi il vicinato, genitori «che litigano in silenzio» credendo che i figli non sappiano, ragazzine che vanno in giro con maschere terrificanti, propensione verso il pettegolezzo, l’adulterio, il sesso come «unica cosa che solleva l’anima». Canada, dicevo. Ma sembra l’America senza il mare: le solite birre, uomini palestrati, commenti sui sederi delle donne, Suv di idraulici e Mercedes di avvocati. Nulla di originale, dicevo. I lettori che hanno più di 40 anni ricorderanno il serial di David Lynch intitolato Twin Peaks (1990), imperniato su una cittadina dello stato di Washington (al confine col Canada: pare un’insistenza) scossa dalla morte misteriosa della diciassettenne Laura Palmer. A Twin Peaks (Cime gemelle: non è casuale la scelta del nome) nessuno è quel che sembra, ognuno ha il suo doppio. Lynch fece scuola fondendo generi diversi: l’horror e il sentimentale, la commedia e il thriller. E gli epigoni? Modesti.

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RITORNO AL FUTURO VIRTUALE

L’IMPORTANZA DI ESSERE SKYWALKER

UN ALTRO GIRO PER WOODY

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on sembra possibile, ma anche il mondo della Rete, ossessivamente proiettato verso il futuro, ha un passato. Che ormai copre un paio di decadi. Per questo c’è chi ha pensato di creare archive.org, una sorta di «macchina del tempo dei siti web», che permette di visitare pagine sparite da anni dal mondo online. In realtà si tratta di un progetto serio, nato per

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ino all’avvento della consolle Wii di Nintendo qualunque videogioco dedicato alla saga di Star Wars sarebbe risultato frustrante. Perché combattere con le mitiche spade laser impugnate da Wan Kenobi usando un misero joystick non riserva molte emozioni. Ma il Wiimote, il famoso controller della casa giapponese, permette di menare fendenti e lanciare affondi proprio come se tenessimo tra le mani la fantascientifica ar-

are ormai che la maggiore cifra artistica di Woody Allen sia la prolificità. A poche settimane dall’uscita nelle sale di Vicky Cristina Barcelona, girato con la nuova musa Scarlett Johansson, esce in dvd l’ultimo film della «trilogia londinese» del cineasta americano, Sogni e delitti. Il thriller, recitato dalla diligente coppia Colin Farrel ed Ewan McGregor, qui nei panni di

Nasce la macchina del tempo dei siti, per visitare pagine online sparite da anni

In “Star Wars: the Clone wars” per Wii Nintendo si realizza la vera interattività

L’ultimo atto della trilogia “made in Uk” di Allen: “Sogni e delitti”, ambientato in una Londra oscura

memorizzare nel tempo i cambiamenti e le evoluzioni dei diversi indirizzi, preservando il lavoro dei primi web designer. Grazie ad archive.org è possibile studiare l’evoluzione dei progetti e recuperare pagine andate perdute oppure cancellate. Per i semplici curiosi, è una possibilità unica per andare a visitare siti che solo otto anni fa ci sembravano all’avanguardia e incredibilmente«interattivi» solo perché le pagine presentavano qualche elemento in movimento ed era possibile sentire una musichetta nell’orrendo formato midi. In ogni caso un’esperienza che permette di capire come il tempo non scorra per tutti alla stessa velocità.

ma laser. Per questo il videogioco Star Wars: the Clone wars, ispirato all’omonimo film da poco uscito nelle sale, promette di essere una delle migliori novità della stagione. Preceduti da brevi introduzioni che ricalcano la trama della pellicola, i vari combattimenti si dimostrano difficili e ricchi di tensione. Il Wiimote permette di realizzare una serie di mosse speciali che rendono i combattimenti particolarmente divertenti e carichi di tensione. Unica pecca del gioco è la grafica che, come in tutti i titoli della piattaforma Nintendo, non è particolarmente raffinata. Ma la ricostruzione degli scenari è nel complesso curata e la possibilità di impugnare la lightsaber di Anakin Skywalker fa perdonare volentieri il piccolo difetto.

due fratelli disposti al crimine per risolvere i loro problemi finanziari, non si allontana dai temi toccati da Match Point. In quel caso però si notava un fascino ambiguo che qui viene replicato un po’ stancamente. Quel che resta sono l’ambientazione (una Londra così nera non si era mai vista dai tempi della regina Vittoria), le belle musiche di Philip Glass e soprattutto la fotografia stupefacente di Vilmos Zsigmond, che nella resa digitale in dvd risultano ancora più seducenti. Il dischetto non offre però alcun extra, a parte i trailer del film. D’altra parte, al ritmo di una pellicola ogni sei mesi, ad Allen non resta molto tempo per dedicarsi a interviste esclusive e dietro le quinte.

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cinema

ealizzare opere d’arte secondo l’identità d’appartenenza può essere consolatorio e persino utile, ma scioccamente fuorviante. Sarebbe un errore, tuttavia, evitare di vedere Un altro pianeta perché poco interessati alla categoria del «cinema gay». L’opera prima dello sceneggiatore e scrittore Stefano Tummolini era uno dei pochi film della Mostra di Venezia arrivato con il marchio «da non perdere» insieme con Pranzo di Ferragosto. Al Lido manca il tempo di vedere tutti i film fino in fondo. Chi avesse visto solo un pezzo del film di Tummolini avrebbe potuto pensare di aver capito l’antifona: brevi incontri omosessuali in spiaggia, omaggio alla subcultura gay del sesso libero e selvaggio. Effettivamente il film inizia in una calda giornata d’estate, tra le dune di Capocotta, con il protagonista Salvatore (Antonio Merone, una rivelazione) faccia da duro, occhiali da sole a goccia, bandana in testa e fisico bestiale - che si concede un fugace incontro di sportsex con un perfetto estraneo, senza mai smettere di masticare la gomma. Arrivato in spiaggia, toglie lo slip, stende una tela e si sdraia per perfezionare l’abbronzatura. Un poco più in là arriva un gruppo di giovani donne, che ha difficoltà a piantare l’ombrellone nella sabbia. Stella (Chiara Francini), una tipa socievole e chiacchierina con la voce da Minnie, chiede aiuto a Salvatore. Lui accetta e, con i gioielli di famiglia in vista frontale, s’ingegna a dare una mano. Nel frattempo un uomo di passaggio scappa via con la borsa di un’altra della comitiva, la studentessa Daniela (Lucia Mascino) che lancia un urlo. Salvatore, che ha una forte calata napoletana e dice di essere un poliziotto, abbranca il ladro e recupera la borsetta; poi si scopre che il malfattore era Raffaele, un amico che faceva uno scherzo scemo, ed è pure arrabbiato perché il muscoloso Salvatore gli ha fatto male. Daniela chiede scusa: «Non so perché ho urlato. Non c’è niente di così importante nella borsa». Nei film ben scritti nulla succede a caso, e si scoprirà che c’era qualcosa di fondamentale nell’accessorio. La giornata al mare (unità di tempo, luogo e azione) passa tra piccole chiacchiere che approfondiscono i personaggi, tentati rimorchi e rivelazioni, creando un mosaico sociale e affettivo che accumula sempre più significati. All’inizio sembra un film corale, ma si scopre un po’ a sorpresa che i protagonisti sono Daniela e Salvatore. Nessuno dei due è quel che sembra, ma qualcosa di più interessante e sfaccettato. Tummolini ha uno sguardo d’autore autentico; meglio ancora, ha qualcosa da dire, una rarità per i cineasti italiani contemporanei. Ce-

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Gay, balordi e lolite tre esordi italiani di Anselma Dell’Olio lebre per essere stato girato a bassissimo costo, il film, senza darsi mai delle arie, è immensamente ricco. Da non mancare.

Aspettando il sole è un insolito film italiano, scritto, diretto e prodotto da Ago Panini, che ha alle spalle una carriera come regista di spot pubblicitari e programmi televisivi. Tre ceffi arrivano all’Hotel Bellevue in un luogo senza nome, e iniziano una conversazione surreale con Santino, il portiere di notte (un Giuseppe Cederna in stato di grazia)

è una prostituta con un cliente che ogni tanto parla al telefono con la moglie, gravemente malata, mentre lei lo massaggia e dice che amerebbe sapere come si fa a togliere la vita a qualcuno. Lui le spiega come farebbe con dovizia di particolari, parlando di coltelli sushi e bondage. Gli succede un brutto incidente in camera che Giulia non sa come affrontare. Lui è steso lungo per terra, sanguina molto, e lei, schifata, fa un discorso sul «neorealismo». In un’altra stanza un regista (Bebo Storti) gira un film pornografico con Kitty Galore (Vanessa In-

“Un altro pianeta” di Stefano Tummolini, è un film immensamente ricco. “Aspettando il sole” di Ago Panini è un’originale commedia dark, mentre “Un gioco da ragazze” di Matteo Rovere racconta senza falsi moralismi la fredda scaltrezza di tre adolescenti che tiene sul bancone della reception una scatola di termiti tropicali, chiave di lettura del film («Stanno divorando l’albergo», dice Santino). Le chiacchiere tra i tre balordi e Santino sono la spina del racconto, che si snoda tra le varie stanze, ognuna con uno o più personaggi, tutti dissonanti e surreali, su uno sfondo fantasmagorico. Giulia (Claudia Gerini)

contrada) il cui nome è un omaggio alla Bond Girl Pussy Galore di Goldfinger (1964). Toni (Claudio Santamaria), uno dei balordi che s’intrattiene con il portiere di notte, a un certo punto ordina le pizze anche per la troupe del pornoset. Quando entra in camera per consegnarle, chiede a Kitty: «A che ora stacchi?». Il produttore risponde: «Alla stessa ora

di tua sorella»; sul televisore scorrono immagini di una parodia di un film noir con Bette Davis e Fred McMurray. In un’altra stanza ancora un uomo va e viene, studia il tedesco e dà da mangiare a un cagnolino che tiene nascosto in bagno, e che nega di avere, perché ogni tanto abbaia e in albergo è vietato tenerli. Di sotto, al banco della reception, i tre ragazzotti minacciano di uccidere il portiere di notte «per nessun motivo». Nel frattempo Giulia parla con il cadavere del cliente, che le risponde. Lei apre la sua valigetta, e scopre che contiene un coltello da sushi, nastro adesivo e una corda. È inutile sperare in una risoluzione delle microstorie di cui siamo testimoni. Nelle intenzioni del regista si tratta di un’unica, universale conversazione sulle nostre bassezze e la nostra umanità fragile, meschina e perduta. L’albergo è una metafora, come l’Hotel California della canzone degli Eagles: «Potrai fare il check out quando vuoi, ma non potrai mai andartene». È una commedia dark, piuttosto originale, che sceglie una deflagrazione finale come risoluzione apocalittica delle storie e del film. Interessante.

Un gioco da ragazze è il terzo esordio italiano della settimana, e il secondo in poco tempo (Albakiara tratta lo stesso tema) a proporre adolescenti spregiudicate e rotte a ogni manipolazione, inclusa una furbissima strumentalizzazione della mandrillagine maschile. Il regista e coautore della sceneggiatura Matteo Rovere ha fatto una rilettura del romanzo di Andrea Cotti, trascurando il lato noir ed esaltando quello che descrive le scaltre e disinibite ragazze di provincia, come Erika, la fredda teenager di Novi Ligure che ha ucciso madre e fratellino e Amanda Knox, accusata dell’assassinio dell’amica Meredith Kercher a Perugia. Le tre Mean Girls sono ricche, viziate, vincenti e senza problemi (uniche adolescenti al mondo) se non quello di dimostrare - specie la capobanda Elena (Chiara Chiti) - che sono socialmente egemoni, burattinaie di adulti e coetanei. Mario Landi, un professore (Filippo Nigro) che vorrebbe salvarle, cade nella trappola ferale tesa dalle Lolite. Colto in flagrante dal padre dell’adolescente che lo ha indotto a sedurla, invece di fuggire sui tetti, come esigono la tradizione e il buon senso, Landi si lancia in un’improbabile scazzottata con lui, e sarà la sua rovina. La forza del film, e la sua furbizia, sono l’assenza di moralismo, e in questo è superiore ad Albakiara, che invece è un pornazzo soft che esibisce ragazze pubescenti assetate di gare di fellatio, poi ci appiccica un finale moralistico per rifarsi il trucco.


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enova è uno dei poli di maggiore interesse di Paul Valery (Sète, 1871-Parigi 1945), poeta simbolista francese, grande continuatore dell’opera di Stephane Mallarmè. La madre è originaria del capoluogo ligure e a questa città più volte Valery fa riferimento nei suoi celebri Cahiers, quaderni attualmente in catalogo Adelphi, dove si lancia in numerose e criticamente interessanti meditazioni, filosofiche, estetiche, religiose e antropologiche. Essi testimoniano la perenne ricerca che animò la sua riflessione: vi si scoprono le sue inquietudini sull’eternità della civilizzazione, sul futuro dei diritti dello spirito e, soprattutto, sul ruolo della letteratura nella formazione del progresso sull’uomo.

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Sorprendente poi che un poeta così attento al ruolo e all’immagine di se stesso si lasciasse andare, dopo tanta profusione di energie, quasi trentamila pagine, a un affermazione sul tempo trascorso a trascrivere i suoi pensieri del tipo: «avendo consacrato queste ore alla via dello spirito, mi sento in diritto di essere sciocco per il resto del giorno». E su Genova, si diceva, ha scritto: «Preferisco Genova a tutte le città che ho abitato. Mi ci sento perduto e familiare, piccolo e straniero. Ha una distesa di cupole, di monti calvi, di mare, di fumi, di neri fogliami, di tetti rosa, e quella Lanterna così alta e elegante, - e meandri popolosi, labirinti affollati le cui viuzze salgono, scendono, s’intersecano e improvvisamente sbucano sulla veduta del porto». Ed è sempre Genova teatro di una crisi esistenziale, nella notte tra il 4 e il 5 ottobre del 1892 («notte spaventosa - trascorsa disteso sul letto - bufera ovunque - la mia camera accesa da ogni lampo - E tutto il mio destino si decideva nella mia testa. Io sono tra me e me stesso»), accadimento capitale nella sua vita e nella sua poesia. Seguirà una lunga crisi che dura fino alla scrittura dei due suoi più famosi poemetti: La giovane Parca (1917), sotto l’indubbia influenza di André Gide, e Il cimitero marino (1920), modello fondamentale per gran parte del Surrealismo francese e dai forti riverberi in Italia, soprattutto nella stagione dell’ermetismo, forieri gli Appunti su Valery (1926) di Ungaretti e la traduzione del Cimitero di Lionello Fiumi nel 1935. Paul Valery, divenne una sorta di «poeta ufficiale» proprio negli anni dei suoi due capolavori. Pen Club e Académie française,

poesia

Le feste dell’intelletto immaginate da Valery di Francesco Napoli

cattedra di Poetica al Collège de France appositamente creata per lui e carica di presidente onorario della Siae francese: questa la corona di riconoscimenti raccolti. E durante gli anni della sua massima esposizione pubblica la sua professione intellettuale continua come nell’ombra con la pubblicazione di opere consistenti (Introduzione al metodo di Leonardo da Vinci e La serata con il signor Teste), dei suoi studi sul divenire della civiltà e una viva curiosità intellettuale che lo resero un interlocutore ideale per Henri Bergson e, addirittura, Albert Einstein.

Nel suo ritorno alla poesia nel 1917 con La giovane Parca Valéry descrive «gli stati successivi d’una coscienza che passa dal sonno al risveglio»: è una sorta di «esercizio spirituale», un sondaggio delle proprie facoltà espressive.Valéry sembra avere più di una riserva sulla poesia in quanto attività «mista», in cui entrano cioè anche l’irrazionale e l’impreciso, ma l’esercizio poetico lo attrae perché è un «gioco difficile» e allora egli moltiplica i vincoli metrici, le allitterazioni, le assonanze. Il successo di critica del poemetto però lo spinge a insistere e nel 1920 dà alle stampe Il cimitero marino, una meditazione sulla vita e sulla morte tradotta in immagini di straordinaria luminosità. È il momento più rarefatto del Simbolismo, si fa strada il miraggio di una poesia alta e difficile, di una «poesia pura» svincolata dai travagli del mondo: «L’inconveniente che presenta il termine poesia pura è di far pensare a una purezza morale che non è qui in causa, poiché l’idea di una poesia pura è al contrario per me un’idea essenzialmente analitica. La poesia pura è insomma una finzione dedot-

IL CIMITERO MARINO Quel tetro quieto dove camminano le colombe, Tra i pini palpita, tra le tombe; Meriggio il giusto vi compone di fuochi Il mare, il mare, sempre ricominciato! O ricompensa dopo pensato Un lungo sguardo sulla calma degli dei! Che puro lavoro di fini lampi consuma Tanti diamanti d’impercettibile spuma E che pace farsi! Quando sull’abisso un sole si riposa, Opere pure d’un’eterna causa, Il Tempo scintilla e il Sogno è sapere. Fisso tesoro, tempio semplice di Minerva, Massa di calma, e visibile riserva, Acqua palpebrante, Occhio in te serbante Tano sonno sotto un velo di fiamma, O mio silenzio!... Palazzo nell’anima, ma Culmine d’oro in mille tegole, Tetto! Tempio de Tempo, in un solo sospiro A questo uno puro io salgo e mi conformo, Cinto dal io sguardo marino; E come agli dei la mia offerta suprema, Lo scintillio sereno semina Sull’altitudine uno sdegno sovrano. (…) Paul Valery (Traduzione di Giancarlo Pontiggia)

ta dall’osservazione, che deve servirci a precisare l’idea della poesia in generale e guidarci allo studio così difficile e così importante delle relazioni diverse e multiformi tra il linguaggio e gli effetti che produce su gli uomini» scrisse Valery.

L’intera sua poesia si articola secondo due momenti fondamentali: il significato razionale, metodico e critico della poesia e lo studio attento, scientifico, del linguaggio. «Una poesia deve essere una festa dell’intelletto» dichiara e per lui l’ispirazione immediata non basta all’artista che voglia condurre a termine la propria opera. Ciò che conta è il lavoro attento e paziente compiuto sul linguaggio, il freno critico all’esuberanza della passione, la coscienza per il poeta di operare un intervento continuo e importante sul linguaggio. Una posizione di freno antiromantico, certo, ma anche un freno generale allo sviluppo della poesia, con tali influenze sulla nostrana poesia che vi si specchiò durante la stagione ermetica e che diede il fondamento autorevole alla écriture automatique di Breton e alle sue propaggini neovanguardiste. Ne nasce un linguaggio ermetico che si svincola dai contenuti immediati per distorcersi in sofisticato criptogramma dischiuso a pochi fedeli: «un linguaggio della poesia», come dice lo stesso Valéry riprendendo il programma di Mallarmé che aveva posto il compito di «sottrarre il linguaggio all’uso che ne fa la tribù». Una poetica che per fortuna tutta la linea antinovecentista italiana (da Saba a Bertolucci passando per Caproni) e la poesia attualmente in essere ha largamente allontanato dai nostri orizzonti.


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il club di calliope

UN POPOLO DI POETI Sono magro, messo male, quasi si può dire che sono un estraneo alla società, perché io faccio le ore del ritardo e a volte vivo nell’ingordigia del nulla, le donne mi stanno lontano perché io non ho la bella giacca e al mattino la mia faccia non è sbarbata, giro così da giorni e giorni, come avessi anticipato la crisi che mi pare ora giunga, così mi sono preparato in tempo ai dolori della società, e guardo con sicurezza il mondo e sento che forse non sono quello che sta di là ma uno dei tanti, disperati in corsa.

Sopra le costruzioni umane, sopra gli edifici, i cieli sono anch’essi costruiti, edificati. Sono innaturali. Oh se la vita fosse solo una lenta preparazione di un attacco. Preparano l’arma, la caricano molto lentamente, mentre quelli sotto, bersaglio, si accorgono e non si accorgono, sanno e non sanno, si rifugiano, finché i primi sparano e per molti di quelli finisce tutto. Allora il pasto preparato si mischierà con la terra.

Alessandro Nasci

Oh mio uomo, mio solenne dolce e tenero, guardo le tue linee perfette, senza parole sono, intono una lode al mio amore, come un menestrello, come un pittore vorrei dipingerti, fare un quadro grande come il mio desiderio, lo farò di sicuro ne ho il tempo e la costanza, ne ho l’animo. Così sarai mio. Francesca Sfereste

Cesare Viviani

«Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma

MILO DE ANGELIS TRA OSCURITÀ E TRASPARENZE in libreria

lettura ultimata delle Poesie di Milo De Angelis (Oscar poesia del Novecento, Mondadori), volume che comprende la sua opera poetica completa, ci si rende conto di non poter fare a meno di conoscere il lavoro di questo poeta, nato a Milano nel 1951, insegnante in un carcere. La nutritissima bibliografia critica che segue la pregevole introduzione di Eraldo Affinati conferma inoltre l’alta considerazione in cui è tenuto. Sino a ora la sua opera abbraccia un arco di tempo che va dal 1976 (Somiglianze) al 2005 (Tema dell’addio). Diciamo subito che parte di questa poesia, cui non si può attribuire un’ascendenza stilistica precisa, è di difficile intelligibilità e soffre, volutamente, di un’opacità semantica, di una riduzione comunicativa dovute essenzialmente alla scelta di dar conto dell’oscurità e della mancanza di senso dell’esistenza. Ciò è avvertibile soprattutto in Millimetri (1983), Terra del viso (1985) e in gran parte

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di Giovanni Piccioni

di Distante un padre. Eppure nella prima raccolta, la già citata Somiglianze, peraltro del tutto estranea alla realtà del tempo, sin dalla lirica di esordio, I suoni giunti, una poesia sull’infanzia, l’allora venticinquenne De Angelis rivelava un accordo quasi raggiunto con il mondo, nel segno dell’«ubbidienza cieca, incontrollata dei sei, al massimo degli otto anni», per citare Affinati. Fin da allora il

dedicate alla madre monferrina e segna il ritorno alla trasparenza semantica e a un ritmo musicale. Una chiarezza quasi lineare trova compimento in Biografia sommaria (1999), dove domina lo spazio urbano milanese, luogo dell’economia, della competizione e della dura prova, e dove assumono rilievo immagini difficili da dimenticare di campionesse di gare sportive studentesche. C’è

Da “Somiglianze” (1976) a “Tema dell’addio” (2005): l’opera completa del poeta milanese, tra i più considerati della contemporaneità, raccolta in volume poeta si collocava nel cuore di quanto esiste, quasi divenendone la voce oggettiva, del tutto lontano dallo sperimentalismo. Guardiamo la parte conclusiva del volume. L’ultima sezione di Distante un padre, dal titolo Le terre gialle, è composta da otto liriche in dialetto

persino l’elaborazione in rima nella poesia Costruzione con i fiammiferi: «Non sei stato degno/ di quel grido e un silenzio rappreso/ ti screpolò le labbra, come un peso/ della biro su ogni tua poesia,/ un tintinnìo di catrame e di transenne/ si gettò sull’anima e divenne/ a mano a mano que-

sto muto/ roditore: avevi perduto/ la conoscenza dell’amore, l’abbandono/ potente a ciò che in te respira/ e il tuo dito più non sente, attimo/ colpito nel principio». Tema dell’addio è dedicato alla tragica e prematura scomparsa della moglie, Giovanna Sicari. Al di là del presupposto autobiografico, i versi rappresentano in forma controllata il concetto generale del distacco. Lo stile è nitido: una morte richiama altre morti, restituendo però, nel momento in cui l’annulla, la durata. Alla luce della sua tragedia, il poeta richiama in vita le persone care: «Rivedo mio padre in una città di mare, una brezza/ di Belle Epoque e un sorriso sperduto di ragazzo./ E poi Paoletta che sul tatami trovò la vittoria/ a tre secondi dalla fine. E Roberta/ che ha dedicato la sua vita. E Giovanna,/ in un silenzio di ospedali, quando il tempo/ rivela i suoi grandi paradigmi». Per un attimo, prima che tutto si consumi, la poesia rende presente un amore senza riserve.


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mostre

arti

Francis & Baselitz stelle e battaglie di Marco Vallora italità dell’arte. Che bello poter confrontare due artisti così lontani e due mondi così dissonanti, ma vivi, come quello di Sam Francis, il pittore segnico-informal-stellare, scomparso nel 1994, libero, colorato, ossigenante, e Georg Baselitz, classe 1938, ancora quanto mai battagliero (il Museo di Locarno e il Madre di Napoli gli hanno appena dedicato due importanti monografiche), il quale combatte con la materia e l’ideologia. Anche lui colorato, però lugubre, ex-figurativo, ingolfato: terrestre e compresso. Giù dal pozzo dell’ideologia: questa volta però non a testa in giù, ma ribaltando i suoi parametri abituali. Curioso comparare anche due realtà mercantilmente così diverse. Baselitz a Roma, nel prezioso palazzo-glamour di Gagosian, che significa oggi sfarzo & potere, introibo di Bonito

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Oliva. Francis in una coraggiosa galleria di Acqui Terme, piemontese cittadina termale, che serba uno splendido capolavoro fiammingo, capitatovi quasi per caso, e nobili testimonianze di Arturo Martini. Un’ormai storica galleria di artisti prevalentemente informali, da Romiti a Chighine a Ruggeri, che si è reinventata con un’elegante nuova sede, aperta anche ora a capolavori dell’Action Painting americana. Nel bel catalogo Repetto, tra le folgoranti passeggiate cosmiche, entro il colore e gli inchiostri del cavallerizzo spaziale Sam Francis, s’alternano le sue liriche frasi, che talvolta posson suonare un po’ troppo Gabbiano Jonathan, o cantautore nostrano, del tipo: «il fuoco irresistibile dei sorrisi» o «basta un fiore e tutto il cosmo è profumato». Ma quando si legge che «i colori son messaggi stellari» o «la pittura è il mio sacro silenzio di Felicità. Sto trasportando canzoni stellari con me» bisogna leggere questa sua leggerezza (non gaia e nicciana) ma davvero priva ormai d’alcun senso di gravità in quel suo galleggiare libero, come una risposta al pessimismo, non cosmico ma terragno, dei suoi compagni di strada, come Pollock o Gorky o Rothko, finiti tutti male o suicidi. E soprattutto impastati nel fango dei loro tormenti esistenziali, tradotto in dripping. Quando scrive: «lo spazio al centro di questi dipinti è per te», non sottolinea soltanto l’importanza capitale del vuoto, che abita le sue pagine esagitate di cromie e inchiostri (che spesso schizzano però ai bordi di questo vuoto coronato e d’ossigeno) ma vuole ricordarci che la sua opera non è una plaza de toros, in cui l’artista guazza dentro, brutale, a toreare con la materia gettata e colata del dripping (così Greenberg disse per Pollock), bensì un cielo in cui continuare a inseguire i giochi stellari, e una dedica amorosa allo spettatore, che vi ci si specchia dentro (questo vuoto, libero, è «per te»: piazzaci dentro i sentimenti che vuoi). Baselitz, no, non regala nulla, nemmeno a se stesso. Continua a guerreggiare anche con la propria pittura e si tormenta, con il gioco terribile e la tagliola del Remix, del ri-missaggio, come un disk-jockey che abbia ritrovato vecchi dischi

Sam Francis, “Senza titolo”, 1983. In basso a sinistra, George Baselitz, “Piet in Kurzer Hose”, 2008 in vinile, nel porcile del proprio sottoscala. Ritrova un vecchio quadro storico, del 1962, oggi alla Ludwig di Colonia, che attirò su di sé l’attenzione della polizia, sino al sequestro (al centro, nel vuoto più desolato, c’era un ragazzotto che si masturbava, col suo grande e inane cetriolo a spazzolone, simbolo forse d’impotenza ossessiva) e lo ridipinge, lo ripensa, lo strazia, con controllatissima furia struttutale. «Nella mia mano sinistra avevo una foto della Grande Notte in Bianco e mi concentravo più che altro sulle caratteristiche formali del quadro, anche se naturalmente sapevo come stavano le cose allora, com’era l’atmosfera. Non avevo intenzione di evocare quei tempi, quasi in un magico soliloquio. Volevo invece migliorare quel quadro, nella sua sofferenza o in quello che aveva sofferto; gli volevo dare un altro ritmo». E a ballare adesso, nel loro sfrenato onanismo puberale, sono Hitler, che spiattella le sue misure incongrue, Brauner (chissà se il pittore surrealista oppure il color marrone) e Piet (Mondrian, ovviamente) con le sconnesse righe ubbriache del suo non più esatto, affilato, neoplasticismo.

Sam Francis. Il profumo delle stelle, Acqui Terme, Galleria Repeto, sino al 23 novembre; Georg Baselitz. Remix, Roma, Galleria Gagosian, sino al 12 novembre

autostorie

Vademecum per evitare le multe (e le solite scuse) di Paolo Malagodi nvece di uno dei tanti, a volte scarsamente utili, congegni elettronici che sempre più arricchiscono (e complicano!) i cruscotti delle auto, varrebbe la pena che qualche costruttore pensasse a una elementare scansia, almeno capace di contenere alcuni volumi di non grande formato. All’uopo maneggiabili per smorzare, con una rilassante lettura, le nevrosi da eventuali blocchi del traffico, se non da utilizzare come sussidio per trovare solide attenuanti alla propria condotta di guida. Talvolta, magari, sanzionabile e con una reazione che porta, non di rado, l’inesauribile fantasia degli italiani a esibire le più varie tesi difensive, nella speranza di passarla liscia. Mettendo chi contesta l’infrazione nella difficile condizione di non ridere,

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anche di fronte ad assai poco plausibili risposte. Che, ascoltate in oltre dieci anni di servizio nella Polizia Stradale, hanno permesso a Barbara Bonanni di farne la cernita in uno snello volumetto (Lo scusario dell’automobilista, ETS edizioni, 56 pagine, 5,00 euro), che vale la pena di leggere per almeno due ragioni. La prima per riflettere seriamente, pur sorridendo, sui tipici errori di chi guida; l’altra per condividere il sostegno a un centro di accoglienza per animali abbandonati lungo le strade, che «spesso, dopo chilometri di inseguimenti da una carreggiata all’altra, riusciamo a far salire in macchina e con il problema di poterli affidare a qualcuno». Come osserva l’autrice che, nei servizi di pattuglia sulle strade, di veicoli ne ha fermati tanti e raramente le è capitato chi si sia assunta la responsabilità dell’infrazione. Preva-

lendo anzi, nelle situazioni più comunemente contestate, una serie di bizzarre risposte. Così, alla domanda: «Come mai non indossa la cintura di sicurezza?», vengono tentate giustificazioni del tipo: «Non l’ho messa perché oggi ho mangiato troppo e ho dovuto slacciare anche la cintura dei pantaloni»; parimenti, sull’eccesso di velocità c’è chi obietta: «Andavo un po’ più forte del normale solo per far entrare aria fresca, non ho l’aria condizionata e oggi è proprio caldo». E il fatto di essere passato col rosso porta a dire: «A me sembrava verde, forse tendente al giallo ma sicuramente non rosso»; «Sono passato con il rosso perché a questo semaforo ci stanno sempre gli extracomunitari, che vogliono lavarmi il parabrezza». Tra i sorpresi in senso vietato c’è, poi, chi argomen-

ta: «Ecco perché venivano tutti contromano e mi suonavano!»; «Ma devo solo parcheggiare, e prima che faccia tutto il giro mi fregano il posto». Non mancano le amene battute di guidatori beccati al telefono: «Non stavo usando il cellulare, mi massaggiavo un orecchio»; «Ma io non parlavo, ascoltavo e basta». Sono questi alcuni esempi delle eterogenee scuse tentate dai conducenti e che l’autrice ha raccolto non soltanto per divertire i lettori, ma per ricordare agli automobilisti che «con il rispetto di norme basilari per la sicurezza sulle strade, limiterete la vostra percentuale di rischio nel causare incidenti. Ma se proprio non potete fare a meno di commettere qualche infrazione, cercate almeno di trovare qualche scusa nuova rispetto a quelle contenute nel mio libro».


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architettura

A chalet o a ipogeo… ecco le ville d’autore di Marzia Marandola a villa è una delle più frequenti tipologie con cui si confrontano gli architetti, spesso in stretta relazione con i committenti - in alcuni casi le due figure coincidono - che possono giocare un ruolo fondamentale nella definizione di soluzioni numerosissime quanto diversissime tra di loro e nei casi migliori a realizzare un autentico capolavoro. Basterebbe prendere in esame gli ultimi cinquant’anni e indagare le più illustri ville realizzate in Italia per scoprire come si possa interpretare, in modi tanto diversi, una tema progettuale di così antica tradizione. Tale riflessione prende spunto dal bel volume recentemente pubblicato per i tipi Electa da Roberto Dulio, che indaga sapientemente questo tema, circoscrivendolo appunto all’Italia, dal 1945 a oggi. L’autore riassume i nodi essenziali di questa ricerca in un saggio introduttivo e approfondisce venti opere progettate da altrettanti architetti, attraverso schede analitiche e uno straordinario corredo fotografico di immagini storiche e scatti recenti. Si tratta di esempi significativi, non necessariamente lussuosi, disseminati spesso in luoghi di straordinaria bellezza della penisola: dalla montagna alle sponde dei laghi, dalle coste marine

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moda

all’aperta campagna. Ognuna delle ville selezionate interpreta in modo originale e unico il tema progettuale. La casa Cattaneo (1952-53) di Carlo Mollino (1905-1973) ad Agra, sulle sponde del lago Maggiore, nella forma allungata del volume, manifesta la tradizione alpina dello chalet, coperto da un tetto a falde, ma straordinariamente ibridata con materiali e tecniche innovative, come i pilastri in cemento che sospendono l’edificio. L’enigmatica Saracena (1953-57), di Luigi Moretti (19071973) a Santa Marinella (Roma), con l’ondulato prospetto verso la strada - un fronte chiuso ed ermetico, intaccato solo da sottile fessure - si apre invece sul fronte verso il mare, dove le pareti vetrate si lasciano accarezzare dal sole e dalla brezza marina. La sofisticata Villa Ottolenghi (1974-78), a Bardolino (Verona), capolavoro della maturità dell’architetto veneziano Carlo Scarpa (19061978), emerge inafferrabile per l’assenza di prospetti e la posizione apparentemente ipogea, che la fanno sembrare una rovina riemersa da uno scavo archeologico, avvolta da specchi d’acqua e da una lussureggiante vegetazione. La vernacolare Cerva (1964-68) di Luigi Vietti (19031998) a Porto Cervo, con le sue si-

La casa Cattaneo di Carlo Mollino

nuose pareti in pietra, e la sofisticatissima Invisible House (1998-2004) di Tadao Ando (1941) a Treviso, impostata su semplici e rigorosi volumi parallelepipedi in calcestruzzo a vista, sono altre due tappe dell’itinerario concluso da Sun Slice House, ossia la villa che l’architetto americano Steven Holl (1947) costruirà a Portese del Garda (Brescia). Il volume di Dulio rivela che il tema della villa - per le ridotte dimensioni, il minor numero delle figure pro-

fessionali e istituzionali coinvolte nella progettazione e realizzazione diviene una sorta di campo sperimentale della cultura progettuale, che alle soglie degli anni Settanta occupa in Italia, per ricchezza di stimoli culturali e qualità della produzione, un ruolo propositivo e originale, non certo di semplice rielaborazione di sollecitazioni acquisite. Roberto Dulio, Ville in Italia dal 1945, Electa, 252 pagine, 60,00 euro

Benvenute alla boots-parade (ce n’è per tutti i gusti) di Roselina Salemi n lattice, come quelli di Victoria Beckham. Con plateau, frange, stringhe, fiocchi, bottoncini. Da squaw e da dominatrice. Da principessa o da cavallerizza. Effetto bondage o effetto majorette. Scrunch o stretch... Non si erano mai visti tanti stivali nell’autunno gelato dal vento della crisi e non soltanto per ragioni fashion, (sono usciti dal casual per entrare nella moda-moda) ma perché è finita, anche dal punto di vista della psicologia sociale, l’epoca delle «tacchettine», del sandalo sul piede blu per il freddo. Fa da apripista Carla Bruni Sarkozy, fotografata con perfetti stivali da cavallerizza firmati Hermés su Vanity Fair Usa, ma per le più giovani l’esempio è Kate Middleton, fidanzatina del principe William, che li abbina spesso alla gonna e a notevoli cinture di cuoio, segno che Buckingham Palace non è più quello di una volta. Anche se ci sono argomenti più seri, e forse proprio per questo, se ne parla tantissimo: il sito Italian Style decreta che lo stivale nero, alto, di pelle lucida, rappresenta «l’immaginario erotico occidentale». Oh, my

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Rihanna in Gucci. A destra, tre modelli Armani

shoes! apre un dibattito sui Devendra di Gucci portati da Rihanna, oltre il ginocchio, con doppio cinturino e una lunghissima frangia, oggetto del desiderio da quasi duemila euro. Siamo alla frontiera dei cuissardes che a volte ritornano e, dopo iniziali entusiasmi, vengono scartati perché impossibili se non si hanno le gambe dell’adorabile Cenerentola Julia Roberts. Che in effetti, li aveva addosso in Pretty Woman (1990). Tendenziosa si schiera per i Minnetoka Mocassin, stivaletti bassi con le frange, perché piacciono a Kate Moss. Styleforstyle promuove i gli Scrunch Boots, cadenti e coprenti, chiari e morbidi come quelli di Riccardo Tisci per Givenchy, o di Marc Jacobs. Re Giorgio (Armani) accontenta tutte: quelle che li vogliono coi tacchi e quelle che «assolutamente senza», le sportive e le fashioniste. La boots-parade incoraggia un pizzico di voyeurismo. Il sito www.goodstivali.com si apre con il motto: «La scarpa fa la donna, lo stivale la rende sexy» e volendo, potete indossare i vostri preferiti, farvi fotografare e mettere l’immagine on line. Poi, girovagando in Rete, troverete le star da copiare:

Kylee Minogue (corti con tacco a spillo per lo spettacolo, alti con plateau per uscire) e Paris Hilton (stiletto assassino), Halle Berry (lucidi, al ginocchio) e Dita von Teese (fetish), Eva Longoria (altissimi) e Angelina Jolie (neri, aderentissiLindsay mi), Lohan (bianchi) e Nicole Ritchie (rossi). Sul New York Times, dimenticando che è stata Sarah Jessica Parker a sdoganare la boots-girl, si scopre una «nuova aggressività femminile», incarnata da signore famose, tipo Condoleeza Rice, e Sarah Palin, guarda caso, tutte provviste di stivali. Come se le donne si fossero stufate di essere carine e seduttive, di essere rallentate da scarpe leggere e scomode, e avessero deciso di non avere più freddo, di non barcollare più su improbabili tacchi 12, ma di marciare compatte verso il potere, quote o non quote. Di tornare, finalmente con i piedi per terra. O al limite, sentirsi a cavallo.


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ai confini della realtà Panis, Puni

i misteri dell’universo

elle precedenti rubriche abbiamo riflettuto sulla saggezza di Salomone, individuata nella sua tolleranza verso popoli e religioni straniere e nella sua decisione di riportare alle famiglie originarie le mogli avute in tributo dai re che gli si assoggettavano, e sulla sua gloria, cui fa riferimento anche Gesù, caratterizzata da un impero esteso dal Nilo all’Indo, ottenuto, come fu il caso poi con Ashoka e Yu, senza guerre ma per adesione alla sua autorità. Abbiamo poi suggerito che finisse la vita nel Nepal, forse presso la reggia della regina di Saba, vicinissimo a dove fu poi il palazzo di Budda, che potrebbe essere stato ispirato dai suoi pensieri. E ora alcune considerazioni sulla sua scienza, la terza delle doti in cui giganteggiò, stando a Giuseppe Flavio, mentre la Bibbia ne tace, come tipico in tante occasioni riguardo a situazioni e persone non approvate dall’autore del testo biblico. Taceremo delle affermazioni in vari testi successivi, dal carattere spesso favolistico: della sua capacità, per esempio, di parlare con gli animali (riscontrabile

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e l’origine dell’alfabeto di Emilio Spedicato in guru indiani e in San Francesco) e del fatto che disponesse di una macchina volante. Consideriamo piuttosto come possa avere interagito culturalmente con la regina di Saba, con la quale i rapporti non furono certo solo a livello erotico.

Se la regina proveniva dall’India scivaitica (come ho accennato nell’ultimo articolo), quindi dall’India profonda al di là dell’Indo, doveva essere persona di conoscenze approfondite in settori «magici» come il tantrismo, lo yoga, la medicina ayurvedica. È inoltre quasi certo che dovesse conoscere, oltre all’immensa letteratura in sanscrito (il Rg Veda era già formato nel quarto millennio a.C.) e tamil, la cosiddetta lingua della Vallindia, ovvero della civiltà dell’Indo-Sarasvati, il cui decadimento da civiltà urbana dopo l’essiccamento della Sarasvati, un migliaio di anni prima di Salomone, non implicava necessariamente la perdita del patrimonio culturale. E qui va detto che il cosiddetto mistero di questa lingua è stato risolto da poco, con i ri-

sultati convergenti del filologo tedesco Schieldman, che l’ha identificata come antico sanscrito-prakrito, e del matematico Subhash Kak, giunto alla stessa conclusione. Dobbiamo quindi pensare che Salomone, cui dovevano essere note le scritture basate sui geroglifici egiziani, sulla tecnica cuneiforme dei sumeri, e a base sillabica del lineare A e B, dovesse essere esposto da parte della sua visitatrice anche alla scrittura antichissima indiana, di tipo sillabico (e qui si potrebbe anche ipotizzare, ma il discorso porterebbe lontano, che il lineare A e B, pur basato su un greco antico, fosse di origine indiana, conseguenza di contatti con i Panis). Perché allora non ipotizzare che Salomone, grazie alla sua straordinaria intelligenza, non si sia accorto che una scrittura sillabica potesse essere ulteriormente semplificata, usando tanti segni quanti i singoli suoni identificabili, ovvero le consonanti e le vocali? Osservazione solo apparentemente banale, in quanto la varietà dei suoni è invero assai elevata (noi italiani abbiamo due tipi di e e di o, ma non li differenziamo come lettere) e una singola parola tende a essere pronunziata diversamente, specie a livello vocalico, anche da comunità geograficamente vicine, come ancora avviene con i dialetti. A parte

questo problema, una scoperta che semplificando la scrittura e mettendola facilmente a disposizione degli utenti, avrebbe fatto perdere clientela agli scribi. Ed è ben noto nella storia, e la cosa vale ancora oggi, come nel caso delle auto che potrebbero fare 40-100 km con un litro, che certe scoperte, utili alla maggioranza ma dannose per una potente minoranza, sono malviste e vanno soppresse, anche a costo della vita dell’inventore (la storia romana ne presenta vari casi). Quindi ecco un altro motivo per cui Salomone è stato censurato nella Bibbia. Ma la praticità della sua scoperta non sfuggì agli amici navigatori che con il re Hiram gli avevano portato, fra l’altro, prezioso materiale per la costruzione del tempio. Il cedro quasi certamente non era cedrus lebanotica dell’attuale Libano, poco atto alle costruzioni a causa del suo sviluppo più orizzontale che verticale dovuto ai grandi nodosi rami, ma il cedrus deodara del Kashmir, dal tronco eretto, lunghissimo, rami sottili, legno rossastro e inattaccabile dagli insetti, unico legno ammesso in Asia per le statue sacre e le costruzioni nei templi. I biblisti che hanno sempre pensato al Libano ignorano la botanica, la storia delle costruzioni sacre in India e il grandissimo Tucci.

Hiram era un re dei Fenici, parola greca che significa Rossi, e che chiaramente si riferisce al Mar Rosso da cui provenivano, ovvero l’odierno Oceano Indiano (detto Rosso per la presenza occasionale di isole galleggianti di pomice rossa proveniente dalle eruzioni nella Dancalia, dove la pomice biancastra diventava rosso sangue quando attraversava le acque salate della depressione) o dei PuniciPuni, parola che corrisponde al sanscrito Panis (probabile il riferimento a Punt, Penjab…), nome indicante i grandi navigatori, che viaggiavano su gran parte dei mari del globo, sfruttando i monsoni per raggiungere l’Africa e le isole della Sonda. Quindi è probabile che l’alfabeto invenIpotesi sulla tecnica a base sillabica del lineare tato da Salomone sia passato ai A e B: pur basato sul greco antico, probabile Fenici, cui Saloè la sua derivazione indiana, conseguenza mone forse donò dei contatti con i Punici, grandi navigatori anche basi permanenti sulla che solcavano i mari del globo. E quanto costa libanese, a Salomone, ecco come contribuì in particolare Tialla semplificazione della scrittura… ro. Ricordiamo che Tiro possedeva una grande biblioteca ai tempi di Alessandro, da lui bruciata, come suo uso nei confronti dei patrimoni culturali dei popoli conquistati (e seguendo l’esempio del suo maestro Aristotele, che fece raccogliere e bruciare le opere di Democrito le cui idee differivano dalle sue) e che a Tiro operò il primo storico noto, Sanchoniaton, la cui opera sopravvive in frammenti. Sanchoniaton forse visse all’epoca di Salomone, e si potrebbe quindi ipotizzare che scrivesse sotto suo invito. Quindi a Salomone anche l’onore di avere ispirato la prima opera storica. E con la scoperta dell’alfabeto, è proprio lui a dover essere considerato il numero uno nella scienza umana, prima di Newton e di Von Neumann…


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