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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

IL ROMANZO DI UNA MENTE

CRIMINALE

“The Killer Inside Me” di Michael Winterbottom

di Anselma Dell’Olio

he Killer Inside Me è un thriller psicologico di straordinario impatto ed eleso) 9 Songs: concerti rock, sesso esplicito e le gelide distese dell’Antartide. Camganza formale. Ci sono improvvise esplosioni di violenze; due sono e stili con disinvoltura,Winterbottom; ha avuto la sua parte di preUn thriller bia generi autentiche torcibudella indimenticabili, non gratuite ma centrami, e anche senza aver visto l’opera omnia, siamo pronti a scommettedi gran classe li al senso del film. È un’opera di gran classe che ha fatto re che la trasposizione sullo schermo di L’assassino che è in me (Fascandalo al festival di Berlino e diviso la critica, più per i suoi nucci editore) di Jim Thompson, stimato autore di pulp fiction il film tratto dal libro supposti contenuti «immorali» che per ragioni cinemaelevata a letteratura, scomparso negli anni Settanta, sia di Jim Thompson, stimato autore tografiche. Il regista inglese Michael Winterbottom il suo capolavoro. Lou Ford (il sempre più affasciha un gran mestiere e gusti assai eclettici: Un nante Casey Affleck) è figlio d’un rispettato di pulp fiction. Ha fatto scandalo per supposti medico, ora defunto. È educato, colto (ascolta l’ocuore grande con Angelina Jolie, sulla moglie contenuti immorali: una critica dettata pera, suona musica colta al pianoforte e legge i clasdel reporter Daniel Pearl decapitato da al Qaeda, Bendalla “political correctness” sici e la Bibbia) e (ma non solo) un mite vice-sceriffo di una venuti a Sarajevo, sulla guerra in Bosnia, Genova con Cocittadina del Texas occidentale. La sua voce è l’io narrante come lin Firth, sull’elaborazione del lutto di una famiglia inglese nelpiù che nel libro, che accompagna e a volte anticipa gli eventi; non è né sula città ligure, Codice 46, fantascienza d’essai, Butterfly Kiss, «la perdall’obiettività perflua, né irritante, un’eccezione alla regola che vuole la voce off una versa risposta inglese a Thelma e Louise», The Shock Doctrine, documentario ispirato dal libro anti-liberista di Naomi Klein, e lo sperimentale (e noioscorciatoia, un fallimento di sceneggiatura.

T

Parola chiave Dio di Sergio Belardinelli Quel maliardo di David Sylvian di Stefano Bianchi

NELLA PAGINA DI POESIA

Con Emily Dickinson al cuore della percezione di Francesco Napoli

Fenomenologia di Giacomo Casanova di Mario Bernardi Guardi Il ritorno di Alessandro Piperno di Maria Pia Ammirati

Cronaca per immagini dalla banlieue di Scampia di Marco Vallora


Il romanzo di una mente

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Tra le risentite critiche fatte al film, c’è quella che lo accusa di essere torture porn, pornografia della tortura, perché tiene lo sguardo fermo sulla propensione di Lou a ridurre i visi delle sue amate in un ammasso di carne cruda, e accenna soltanto ai demoni che lo spingono a una brutalità inaudita verso donne che lo adorano, mentre chiede loro scusa e dichiara il suo amore. Salvo pochi accenni, lo script evita dietrologie psicologiche. Secondo noi questo è un merito e non un difetto del film, anche perché non se ne sente la necessità. La letteratura noir e pulp (anche nella forma «alta» di Thompson) non abbonda mai di spieghe giustificatorie - si limita a osservare, a registrare l’infinita e alla fine insondabile propensione umana per il degrado, per gli abissi, per strade lastricate di pessime intenzioni senza via di ritorno. Le storie buie intercettano quel qualcosa che garantisce altissime audience per le trasmissioni sui delitti di Avetrano e di Cogne, e le gite domenicali d’intere famiglie sui luoghi dei delitti. Si spera, forse, che alla prossima puntata spunti finalmente un perché. Non è vero; ma si sa, la speranza ha lunga vita. Possiamo provare a liberarci di efferatezze indicibili appiccicando al carnefice etichette come «psicopatico», «asociale», «serial killer», ma alla fine, quando la pazzia è lucida come per Lou, restano le semplici categorie del bene e del male, che a guardare bene non sono mai relative.

Una delle armi fondamentali dell’attore, fratello minore di Ben (regista e protagonista del recente buon poliziesco The Town), è una voce laconica, sensuale e ipnotica come la sua presenza fisica, raddoppiando l’effetto di irresistibile attrazione che esercita su tanti spettatori e dunque, verosimilmente, sulle donne che lo amano a dispetto, o forse proprio a causa, la sua natura doubleface: gentiluomo d’altri tempi in strada e manesco erotomane in alcova. Proprio per il suo magnetismo Affleck è perfetto per il ruolo di un uomo tranquillo «al di sopra d’ogni sospetto», che a 29 anni scopre dentro di sé, raggomitolato come un cobra, un mostro che colpisce all’improvviso e senza pietà. Lou è fidanzato da tempo con la maestra Amy Stanton (Kate Hudson, finalmente in un ruolo né stereotipato né triviale) di una buona famiglia locale. Con pochi, essenziali dialoghi si scopre perché non si sono ancora sposati. In seguito a una scenata di gelosia di Amy, esplosa quando durante una fellatio s’accorge che Lou ha inzuppato il biscotto altrove, lui la rassicura dicendo che sbaglia, non è vero niente: l’ama e la vuole in sposa. Amy risponde che mente, perché lui non fissa mai la data. «No, io ti voglio sposare - dice - ma voglio decidere io quando». Si sa che i maschi, di norma, non vogliono sentirsi neppure lontanamente «comandati» da una femmina, residuo nevrotico del distacco adolescenziale dalla madre, di cui non sembrano essere mai troppo sicuri. Nel caso di Lou, orfano di madre da piccolo, figlio e fratellastro di maschi perversi, viziosi e sadici, la frase banale prende una colorazione sinistra.

Su richiesta dell’anziano sceriffo Maples (Tom Bower), Lou va a trovare in un’isolata casa di campagna Joyce Lakeland (Jessica Alba), una prostituta venuta da fuori, di cui Elmer Conway, figlio di Chester, è pazzamente innamorato. Conway senior (Ned Beatty), il più importante businessman della città, la vuole liquidare prima che l’inetto Elmer sia totalmente intortato dalla scafata e splendida ragazza. Lou spiega a Joyce come stanno le cose: se ne deve andare al più presto, con una «buonuscita» consistente. Le parla con cortesia, perché in Texas negli anni Cinquanta (e forse pure oggi) «o sei un gentiluomo o non sei niente. In qual caso, che Dio t’aiuti». Il linguaggio di Lou è ricco di frasi fatte, come: «Qui se sorprendi un uomo con le braghe calate, gli si chiede scusa, anche se poi lo devi arrestare»; e «Ho sempre pensato che nella vita tiri fuori quello che ci metti dentro» (particolarmente paradossale). Modi di dire che segnano lo scollamento tra la buona creanza e il buco nero di un’anima scissa e contorta come un cavatappi. Joyce, quando Lou le presenta il foglio di via, esplode in uno scatto d’ira (ha un ricco, stupidissimo, soggiogato corteggiatore da spolpare) e comincia a picchiare il cortese uomo di legge che si rivolge a lei con garbo e a testa scoperta. Prima lui si difende, poi scatta la molla nascosta e si scatena la malattia lungamente assopita che la ragazza impetuosa e provocante risveglia in lui. Prende a batterla a sua volta, togliendosi la cinta e rovesciandola per scoprire il sedere squisito, presto sfregiato da strisce rosse. Esaurita l’inattesa sfuriata, le chiede scusa. Joyce gira la testa per guardarlo negli occhi e pronuncia la frase che irrita e scandalizza molti critici: «No, non chiedermi scusa». Segue furiosa scopata sadomasochista assai gradita da entrambi. Non sarà l’ultima, perché nasce un’appassionata storia d’amore e di sesso clandestina che fa precipitare la sempre più inarrestabile china omicida e autodistruttiva del protagonista. anno III - numero 42 - pagina II

criminale

THE KILLER INSIDE ME GENERE DRAMMATICO, THRILLER DURATA 120 MINUTI PRODUZIONE USA 2010 DISTRIBUZIONE BIM DISTRIBUZIONE

REGIA MICHAEL WINTERBOTTOM INTERPRETI JESSICA ALBA, KATE HUDSON, CASEY AFFLECK, BILL PULLMAN, ELIAS KOTEAS, SIMON BAKER

È «scorretto» oggi far vedere donne assertive come Amy e Joyce, che si eccitano se picchiate, come si eccitava la tata di Lou che vuole farsi battere e sedurre dal ragazzino come abitualmente faceva il padre, il buon dottore con il pianoforte a coda in salotto, la collezione di musica classica e le pareti foderate di ottimi libri ben rilegati. È una turlupinatura inaccettabile, secondo questa lettura, che trovino Lou irresistibile fino a conseguenze estreme. Ma se il film funziona così bene, e non lascia residui tossici (almeno in me), è perché Affleck rende credibilissima l’attrazione fatale di due graziose e navigate donne per un uomo calmo, controllato, garbato, che cova sotto la cenere del galantuomo un eros vulcanico, contagioso, sfrenato, inebriante. Forse i recalcitranti non sopportano che anche noi del pubblico ne siamo attratti, altrimenti il film sarebbe solo una galleria d’orrori, e non lo è. The Killer Inside Me agita sia le donne sia gli uomini, tra i critici. Una collega che stimo molto, impassibile davanti agli horror più crudeli, sanguinosi, grondanti gore e splatter stomachevoli, mi ha detto che le scene di pestaggio inflitto alle donne in questo film l’avevano turbata e infastidita. Eppure chi scrive, che detesta i film de’ paura e li vede solo per dovere, chiudendo spesso gli occhi e tappandosi le orecchie, è rimasta soggiogata dal film, subendo il suo fascino fino alla fine per ben due volte, quando nemmeno sotto tortura riguarderei un qualsiasi Saw o Hostel. È evidente che chi è ghiotto di film dell’orrore desidera farsi emozionare dalla violenza pianificata e promessa, mentre un’atrocità inattesa sorprende alle spalle, per così dire. Il film è andato in patria meno bene di quanto meritasse, forse per le accuse di scorrettezza politica. Da Theafrofilmviewer.com: «Ho trovato The Killer Inside Me un thriller davvero avvincente. Ho apprezzato il film ma se dico che mi è piaciuto, passerei per sadico». Stanley Kubrick, per il quale Thompson ha sceneggiato Rapina a mano armata e Orizzonti di gloria (e ha scritto i romanzi dai quali sono stati tratti The Getaway e The Grifters) ha detto: «L’assassino che è in me è il più grande romanzo mai scritto su una mente criminale». Il film fa onore al libro. Da non perdere.


MobyDICK

parola chiave

n po’ come l’essere, Dio si mostra e si nasconde in molti modi. Quanto agli uomini, essi possono anche non riconoscerlo, ma questo non dice nulla della sua realtà. Proprio come temeva Gesù, allorché domandò se al suo ritorno avrebbe trovato ancora la fede su questa terra, può succedere che Dio si eclissi, che gli uomini lo ignorino o addirittura lo disprezzino. Ma l’eclissi implica un nascondimento, non la morte o l’inesistenza di Dio. Il sole non cessa di esistere semplicemente perché la luna lo copre e gli uomini non lo vedono più. Ciò che voglio dire è che Dio ha certamente un riferimento, diciamo così, soggettivo con l’uomo, ma la sua realtà non è semplicemente quella di colui che parla all’uomo, col rischio appunto di non essere ascoltato o riconosciuto, bensì quella dell’essere onnipotente che, secondo l’immagine di Paolo, «dà vita ai morti e chiama all’esistenza le cose che ancora non esistono» (Rm, 4,17).

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DIO Tutta la realtà parla di Lui, indipendentemente dalla nostra fede. Per questo sfuggirla o tentare di soggiogarla ai nostri desideri è la vera malattia del nostro tempo, la ragione del Suo straziante silenzio

Il confine dell’astrazione di Sergio Belardinelli

Sempre con le parole di Paolo, potremmo dire che l’«eterna potenza e divinità» di Dio «vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo per le opere da lui compiute» (Rm 1, 19-20), non certo dal fatto che gli uomini abbiano o meno fede in lui. E ciò significa che tutta la realtà parla di Dio. Quando domandiamo dell’uomo, quando domandiamo del bene, della verità, della giustizia, della bellezza o dell’amore, noi in realtà, anche se solo implicitamente, domandiamo anche di Dio, teniamo aperta questa domanda che è fondamentale a ogni livello - storico, ontologico, etico, estetico o politico che sia - e che ci costringerà sempre, in un modo o in un altro, a collegare le nostre domande più profonde con il tema di Dio. Anche per questo, come ci insegna la storia, la negazione di Dio passa in genere attraverso la negazione o la relativizzazione dell’uomo stesso, del senso e della consistenza di tutto ciò che esiste, oltre che dell’amore, della verità, della bellezza e della giustizia. Prima e più ancora che nel nostro essere «credenti», Dio si mostra dunque ineludibile nella realtà, nella verità, nel nostro essere uomini alla continua ricerca del senso che hanno la nostra vita e ciò che ci circonda. «Non è la sensualità che allontana da Dio, ma l’astrazione», dice Nicolas Gomez Davila, in uno dei sui tanti aforismi fulminanti. Proprio così: la malattia del nostro tempo è l’astrazione, l’incapacità di tenere i piedi per terra, di guardare la realtà per ciò che essa è, sapendo che non è un sogno e che, proprio per questo, ci consente di sognare per davvero, di soggiogarla, trasformarla, secondo i nostri progetti e i nostri desideri. È questa pervasiva «astrazione» la causa principale dello spaesamento metafisico nel quale siamo piombati, dell’incapacità di noi adulti e dei nostri giovani di dare senso alla vita o anche solo di sognare un mondo migliore. Quanto a Dio, per manifestarsi agli uomini, ha bisogno, persino lui, di un mondo reale. In un mondo che sembra aver illanguidito ogni cosa, prima fra tutte il senso della realtà, sembra che ormai soltanto le tragedie della vita riescano ancora a richiamarne la consistenza. La malattia, la sofferenza, l’infermità, la

Per manifestarsi Dio ha bisogno di un mondo reale. E in un’epoca dominata dalla relativizzazione, solo il dolore e le tragedie della vita, per nulla astratte, sembrano riportarci con i piedi per terra, a chiederci davvero “perché”. La risposta non può darla il pensiero debole ma solo uomini con la passione per la verità morte rappresentano spesso l’abisso, per nulla «astratto» purtroppo, che, entrando nella nostra vita, ci costringe a fare i conti con la dura realtà, a domandare disperatamente: perché? Può essere triste doverlo dire, ma la realtà è proprio questa. Una volta, non ricordo dove, il Cardinale Ratzinger disse che ormai un po’ di autentica umanità la si trova soltanto nelle situazioni di confine, nelle situazioni tragi-

che: negli storpi, negli ammalati terminali, nelle persone segnate dal dolore e dall’ingiustizia. Provo a tradurre queste espressioni, dicendo qualcosa che forse richiederebbe maggiori spiegazioni, ma che ritengo plausibile: la crisi del nostro tempo, la stessa eclissi di Dio esprimono soprattutto la crisi del senso della realtà. La quale, se ci pensiamo bene, ritorna nell’unico modo possibile in un mondo astratto, virtua-

le, liquido, vuoto: ritorna attraverso la tragedia, ossia attraverso l’irruzione di qualcosa che non può essere facilmente rimosso con gli strumenti del pensiero debole, di quello liquido o di quello tecnico. Come ha detto Benedetto XVI, nel marzo dello scorso anno, rivolgendosi ai vescovi della Chiesa cattolica, «nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio». Dobbiamo dunque assumere il «nostro tempo», la nostra quotidianità come una sorta di «compito». È nella nostra quotidianità che dobbiamo sforzarci di trovare Dio, non fuggendo da essa. E questo dobbiamo farlo anche se Dio sembra non parlare più, anche se lo stesso Vangelo sembra essere diventato impraticabile. Il grande vuoto del nostro tempo è una sorta di «buco nero» che dobbiamo affrontare, con la speranza di sprigionare l’enorme quantità di energia che esso contiene, senza farci troppo confondere dai pensieri stracchi e ammortiti di coloro che giocano col nulla, perché non ne hanno mai sentito il morso devastante sulla propria pelle. Costoro sono soltanto dei nichilisti divertiti. Abbiamo bisogno invece di uomini che sappiano sentire e trasfigurare il dolore, il male, le brutture del mondo in cui viviamo, mostrandone nonostante tutto il bene e la bellezza; abbiamo bisogno di uomini che, nonostante le menzogne, sentano ancora forte la passione per la verità, che non rinuncino mai alla realtà come vero banco di prova dei loro pensieri e delle loro azioni. Per farla breve, abbiamo bisogno di essere fedeli alla nostra natura, al nostro essere sempre «oltre», diciamo pure, alla nostra ineludibile «inquietudine». Solo a queste condizioni Dio può rendersi presente nel nostro mondo; solo a queste condizioni riusciamo a essere veramente uomini, fedeli soprattutto a noi stessi, oltre che a Dio.

Senza chiudere gli occhi davanti al grande buco nero che ci avvolge, anzi, guardandoci dentro, dobbiamo trovare ragioni plausibili per sentirci ancora qualcuno, non qualcosa, per riconoscerci dentro una storia che non è mai semplicemente nostra, ma anche di qualcun altro; soprattutto per comprendere e far comprendere che anche nella più disperata insensatezza è attiva una forza redentrice e che questa forza redentrice si chiama amore. L’amore di Dio non governa il mondo dal di sopra, ma dal di dentro. Sempre. Dobbiamo quindi essere capaci di amare allo stesso modo. Come ha scritto Roger Scruton, la bellezza «è il volto dell’amore che risplende nella desolazione. E molto spesso le più belle opere d’arte del secolo XX emergono proprio dalla desolazione». Si pensi a Kafka, a Solgenitsin o all’«urlo» di Münch. Qualunque sia il nostro destino, che la nostra vita sia traboccante di bellezza o ghermita dai morsi della disperazione, il significato stesso, l’amore, la bellezza, il bene e la verità, in una parola, Dio, questo Dio c’è, e non c’è nulla, nemmeno il suo straziante silenzio, che possa minimamente scalfirne la realtà.


MobyDICK

Pop

pagina 14 • 27 novembre 2010

di Stefano Bianchi e avete confidenza con David Sylvian, opterete senz’altro per il new romantic che negli anni Ottanta snocciolò insieme ai Japan atmosfere che da glamour (l’ellepì Adolescent Sex, fra Roxy Music e New York Dolls) defluirono nell’art rock (Tin Drum: sintesi d’elettronica e folk cinese). Come il sottoscritto, amerete rispolverare l’esteta che affidandosi al suo caldo timbro vocale elaborò col giapponese Ryuichi Sakamoto le «canzoni-origami» Bamboo Houses e Forbidden Colours. Eppoi, riassaporerete il gusto del solista soft, alle prese con le rarefatte miniature sonore e il funky etereo di Brilliant Trees, Secrets Of The Beehive e Dead Bees On A Cake.Viceversa, non vi andrà più di tanto a genio il Sylvian votato all’ambient music copia-e-incolla (stile Brian Eno) e alle spigolosità di Gone To Earth.Tutt’al più, come me, difenderete l’avanguardista rockeggiante di The First Day in sodalizio col chitarrista dei King Crimson, Robert Fripp. Da qualche anno, realtà dice che quest’inglese schivo e riservato privilegi a tutti i costi la non-orecchiabilità. E non c’è modo di fargli cambiare idea. È successo nel 2003 con le brutali sperimentazioni di Blemish, nel 2005 con le rischiose melodie di Snow Borne Sorrow marchiate Nine Horses e l’anno scorso con le improvvisazioni tout court di Manafon. Che palle. Se ancora non lo conoscete, vi raccomando di evitare l’ultimo David Sylvian. Piuttosto, procuratevi la doppia antologia del 2000 intitolata Everything And Nothing (mamma mia che belle I Surrender, Ghosts e Let The Happiness In, con quelle vellutate intonazioni fra Scott Walker e Bryan Ferry…) e orientatevi senza timore su Sleepwalkers, disco curioso e stuzzicante che inquadra l’ospite privilegiato di colti poppettari, improvvisatori, alchimisti

S

Jazz

musica

sakatsu, Tweaker, Christian Fennesz, Takuma Watanabe, Arve Henriksen e Readymade. Per ogni canzone, un lussuoso cameo: che non vuol dire voce e basta, ma carta bianca per quanto riguarda la stesura delle poetiche, crepuscolari parole. Inevitabile, per bellezza, partire da World Citizen - I Won’t Be Disappointed in coabitazione con Sakamoto: ballata ebbra di malinconia, col canto che esorcizza le sgocciolature elettroniche. Ballad Of A Deadman e Playground Martyrs (da Slope di Steve Jansen), inquadrano rispettivamente un blues alla Tom Waits con Sylvian che duetta insieme a Joan As Police Woman, e la soave solitudine di canto e pianoforte. Da qui, la voce prende a trasformarsi in recitazione pura (Angels: da Crime Scedei Punkt; nes Thermal: da Cartography di Arve Henriksen), rappar gentile (Pure Genius, da 2 AM Wake Up Call dei Tweaker), abiiltà da crooner fra le pieghe cameristiche di un quartetto d’archi (Five Lines di Dai Fujikura), enfasi chiaroscurale (The World Is Everything di Takuma Watanabe), purezza che annichilisce le distorsioni elettroniche (Transit: da Venice di Christian Fennesz; Sugarfuel: da Bold dei Readymade) fino a sublimarsi in una sorprendente bossanova (Exit/Delete, da Coieda di Takagi Masakatsu). Sereno e sovversivo, il David Sylvian da non perdere è qui. Approfittatene.

Quel maliardo di David

Sylvian

elettronici. Il Sylvian, cioè, che per magia e da nove anni in qua è tornato a essere fascinoso, elegante e incantatore con quel fior di voce, libera e maliarda, capace di cantare ciò che vuole. Sciorina, Sleepwalkers, pillole tratte dagli album di Steve Jansen (ex batterista dei Japan nonché suo fratello: entrambi, di cognome, fanno Batt), Ryuichi Sakamoto, Punkt, Dai Fujikura, Takagi Ma-

David Sylvian, Sleepwalkers, Samadhisound/Self, 18,90 euro

zapping

FUGA DAI RITORNELLI per naufragi country di Bruno Giurato

on ci sono tornelli e nemmeno i ritornelli. Per te che sei cresciuto con Mannish boy di Muddy Waters, una canzone di svariati minuti che in pratica è tutto un ritornello, e nonostante questo ha dato origine al nome Rolling Stones; per te che hai attraversato il progressive come uno splendido leccatissimo gioiello di leitmotiv con ancora più decibel; per te insomma che musicalmente sei quel che si definisce una vecchia cocuzza, l’onda del rock indie, quello senza ritornelli, fa un effetto strano. Dovrebbe essere una sorta di prosa poetica senza ritorno, un flusso di coscienza (o sperabilmente di incoscienza) dionisiaca senza tornelli/ritornelli per l’ultrà che hai nello stomaco. Ti ritrovi in una gelida serata milanese fuori da un locale, ad aspettare il concerto di Giorgio Canali e Rossofuoco. Il titolo del disco, un cult del mondo indie, è Nostra Signora della dinamite. Giorgio Canali, che a vederlo sul palco sembra lo zio di Keith Richards tanto è lungo e magro e vecchio, è sempre quello che, insieme a Giovanni Lindo Ferretti, ha concepito e realizzato Tabula Rasa Eletrificata dei Csi. Un pezzo di rock italiano, vero rock e vero italiano: un bell’ossimoro. Ma certi miracoli, pare, succedono una volta sola. Finché Canali rumoreggia con una Gibson elettrica l’insieme è godibile. Il punto alto del concerto è MP nella BG, non si capisce cosa voglia dire il titolo (si spera in una qualche allusione oscena), ma è un rockettone orientaleggiante alla Zeppelin. Ma poi tanta poesia si scioglie in prosa e di fronte a versi come «ridono, ma cosa ci sarà mai da ridere? è un’assenza di pensiero che non puoi condividere!» e a tante chitarre acustiche. Scappati dai tornelli si annega nel country. Ma un guizzo nonostante il freddo c’è. Aspettando la generazione successiva?

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A Orvieto i magnifici cinque del pianoforte tricolore i è svolto in questi giorni a Orvieto l’OFF, acronimo di Orvieto Food Festival, idea intelligente che si propone di creare, come è stato annunciato dagli Enti patrocinatori, Regione Umbria, Provincia di Terni e Comune di Orvieto, «un connubio tra nutrimento per il corpo e cibo per la mente, eccellenze enogastronomiche del territorio e protagonisti del nostro tempo, piacere della buona tavola e stimoli culturali, tradizione del buon vino e suggestioni per lo spirito». Fra gli incontri, svoltisi nei ristoranti cittadini con la partecipazione di personalità della cultura e dello spettacolo, uno, quello di sabato 20, è stato dedicato al jazz e non poteva essere diversamente, perché da oltre trent’anni l’Umbria vive due importanti stagioni dedicate a questa musica, quella estiva a Perugia, quella invernale a Orvieto. Nel corso dell’incontro, grazie al collezionista Diego Torroni, il cui ar-

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di Adriano Mazzoletti chivio comprende diverse migliaia di registrazioni video di grande pregio a rarità, è stato possibile ripercorrere la storia del jazz in Umbria attraverso concerti indimenticabili, interviste, ritratti di grandi musicisti, oltre alla presentazione del prossimo festival che inizierà mercoledi 29 dicembre per concludersi il 2 gennaio 2011. Questa diciottesima edizione sarà in parte dedicata a cinque fra i migliori pianisti italiani, Dado Moroni che suonerà in trio con Rosario Giuliani, Renato Sellani, Danilo Rea, Rossano Sportiello e Stefano Bollani. Unico gran-

de assente Enrico Pieranunzi. Mentre Moroni, Sellani, Rea e Bollani sono ben conosciuti, la sorpresa consiste in Rossano Sportiello, eccellente solista che, dopo aver tanto suonato in Italia, si è trasferito negli Stati Uniti suscitando immediatamente l’interesse della stampa specializzata e di molti musicisti che lo hanno immediatamente voluto al loro fianco. A Orvieto suonerà con i Four Others, quattro sassofonisti, fra i quali Harry Allen, Eric Alexander e Gary Smulyan che possono essere considerati la risposta odierna ai celebri Four Brothers nati al-

l’interno dell’orchestra di Woody Herman, oltre sessant’anni fa. Mentre Danilo Rea presenterà il suo ormai ben conosciuto omaggio a Fabrizio De Andrè, Bollani suonerà in duo con Chick Corea. Quella del duo pianistico è una idea nata a Genova nel 2004 durante l’Esposizione Universale del Jazz, quando chiesi a Bollani e Martial Solal di esibirsi in un inedito duo di pianoforte. Fu un grande successo, anche per la personalità assai simile dei protagonisti. Non solo grandi capacità tecnico-strumentali e stile personale, ma soprattutto senso dell’umorismo. Il duo fu ripetuto altre volte, ma sempre con minor successo. Fu poi la volta di Danilo Rea e Brad Mehldau, ma il risultato fu inferiore all’aspettativa. Ora è la volta del duo Corea-Bollani. C’è da augurarsi che possa scattare la stessa scintilla dell’emulazione che fu la caratteristica di quel felice incontro di sei anni fa.


arti Mostre Cronaca per immagini dalla banlieue di Scampia S

MobyDICK

ì, nulla da fare: ancora una volta, fotografia! A dimostrazione che l’arte-artissima (e asfittica) d’oggi non ce la fa a tener dietro agli ottimi risultati che la fotografia contemporanea riesce invece a ottenere (anche se pure in questo campo, ovviamente, non mancano i fenomeni di moda. Come quello del sopravvalutato ed esagitato Daido Moryama, per esempio, omaggiato a Modena con oltre 450 stancanti scatti - l’abbiamo avuto continuamente accanto, durante il suo show-vernissage, chiassoso e onnipresente, tanto si dava da fare per farsi notare davanti alle sue immagini, coprendole d’esuberanza come un daverionipponico e posando da divo on the roadfuori moda, ma non c’è mai venuto istintivo di porgli una domanda o di entrare in contatto diretto, tanto il suo stile risulta esplicito e prevedibile, e in fondo stucchevole). Sempre secondo quella filosofia, un po’ insopportabile, dello sfuocare a tutti i costi, del graffiare dilettante, del biffare coatto, del tagliar-via-male-apposta l’inquadratura, per far assolutamente più «maledetto» e «artista». S’impari invece (come si può essere benissimo un grande senza sporcare «artisticamente» il proprio sapere professionale) da un maestro dell’assoluto visivo e della perfezione del nero e della luce, quale Luca Campigotto, presente a Venezia, in una singolare e composita mostra a Palazzo Fortuny, su cui poi vorremmo tornare. Mentre accettiamo poco queste teorizzazioni dell’«errore» a tutti i costi, dello sgranato sovraesposto voluto, che in fondo accettano qualsiasi ritaglio, meglio se «casualmente casuale»: «Ogni singola cosa che si offre allo sguardo per Moriyama è degna di essere fotografata: non è importante il soggetto di una fotografia, come non importa chi ne sia l’autore, perché non c’è distinzione tra la realtà vissuta e la realtà nell’immagine. Ciò che conta è il frammento di esperienza, parziale e permanente, che la foto-

Architettura

27 novembre 2010 • pagina 15

di Marco Vallora grafia può trovare, quell’unica verità che esiste solo nel punto in cui il senso del tempo del fotografo e la natura frammentaria del mondo si incontrano». Mah. Sinceramente preferiamo l’esperienza, se vogliamo tardo-pasoliniana, ma molto interessante, soprattutto architettonicamente, di Tobias Zielony, tedesco di Wuppertal (la città resa celebre dal genio eccentrico di Pina Bausch), nato nel 1973, oggi reporter di grido berlinese, che da anni ormai (la sua mostra Hidden, «nascosto», era già circolata anni fa per l’Ita-

lia, ed è curioso, con un titolo e una tematica toccata anche dal fotografo cinese Liu Bolin di cui abbiamo recentemente parlato) si dedica a una caparbia ricerca sopra il tempo avvelenato e l’ozio violento della frange disadattate della disoccupazione delle nostre periferie. Da Bristol a Marsiglia a Trona, vicino Los Angeles. Un «ritratto», ghiacciato e acre, sull’uso indolente e perduto, quasi una post-professione, d’«ammazzare il tempo». Con il fiorire a pelle dell’odio e l’aggressiva nullità esistenziale, che ha penetrato la seta

fonda di questi sguardi falso-spavaldi, venduti a un motorino scassato o a un sogno di felicità tutto di plastica, che si fionda subito sopra un iPod (che ha sostituito il vecchio idolo-transistor degli africani fotografati da Sidibé) o una caricatura di berlina zingara ripittata alla buona (e allora ci sentiamo quasi dalle parti di Las Vegas-Scampia). Ma non è questo che rende così attraente e stimolante la mostra di Zilonye da Lia Rumma. Chiaramente, il fotografo tedesco è venuto in Italia attirato dai volti e dalle palpabili tensioni, che rendon vibrante e tellurico il mondo opprimente che si respira, tappandosi le narici, dalle parti della famigerata banlieue di Scampia. Ma poi è l’architettura, deturpata e sconciata, che fiorisce da quelle parti come una pattumiera in muratura, il vero «volto» che lo ha attratto e aspirato, dentro una spirale, che si è tradotta nel suo ipnotizzante video sopra una delle superstiti «vele» dello scempio di Scambia, in attesa d’essere abbattuta. Una costruzione forse non così detestabile come la cronaca vuole, firmata da un importante architetto razionalista quale Francesco di Salvo (in un utopico incrocio, s’è detto, tra Le Corbusier e Kenzo Tange) pur gravata da modifiche esecutive dissennate e da un degrado palpabile, nel video di Zielony, che però lo trasforma in una sorta di magnifico incubo espressionista, di folle palazzo della tortura abitativa, di mostro scenografico davvero attraentissimo. E chissà che non collabori alla giusta ipotesi di conservare, almeno un esempio, di quello storico delirio urbanistico. Tobias Zielony,Vele, Napoli, Galleria Lia Rumma, fino al 4 dicembre

Biennale: 170 mila visitatori nel segno di Kazuyo Sejima a 12° Mostra internazionale di Architettura della Biennale di Venezia si è conclusa il 21 novembre registrando un gran successo di pubblico con 170 mila visitatori, il 30% in più della scorsa edizione del 2008, e 2400 giornalisti accreditati. Quest’anno per la prima volta la direzione è stata affidata a una donna, l’architetto giapponese Kazuyo Sejima, classe 1956, insignita nel 2010 del prestigioso Pritzker Architecture Prize, l’equivalente del Nobel per l’architettura. Laureata a Tokio, docente alla Keio University di Tokio e a Princeton, è allieva del grande maestro giapponese Toyo Ito, che la descrive «come un architetto che usa la massima semplicità per collegare il materiale e l’astratto». Sejima il premio lo condivide con l’architetto Ryue Nishizawa, socio dello studio SANAA, fondato nel 1987, che tra le opere più note vanta il nuovo museo di Arte Contemporanea di New York (19982008) e il recente Rolex Learning Center di Losanna, che in Biennale è stato presentato da uno straordinario video in 3D del regista Wim Wender. Le architetture

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di Marzia Marandola progettate da Sejima sono luoghi fluidi, spazi indefiniti dove l’esterno e l’interno si fondono in un percorso continuo realizzato da plastici nastri cementizi. Per la Biennale il tema scelto dalla curatrice è stato People meet in architecture, Sejima ha posto quindi al centro dell’architettura gli individui, coloro che percorrono e vivono gli spazi, che non devono essere luoghi utopici ma ambienti di incontro piacevoli e funzionali. Proponendo così un ritorno all’architettura che sia capace di rispondere alle necessità concrete e primordiali degli uomini, senza piegarsi alle mode e alle tendenze del momento. La Biennale, come accade da circa un decennio, è ospitata nelle due sedi veneziane, la sede storica dei Padiglioni nei Giardini e il più recente spazio all’Arsenale, dove quest’anno hanno esposto oltre 50 Paesi di tutto il mondo. Ogni anno nuove nazioni partecipano all’evento e questa è stata la prima volta per Albania, Regno del Barhein, Iran, Ma-

lesia, Ruanda e Tailandia. Tra i padiglioni più interessanti, come di consueto, a spiccare è stato quello dei Paesi Bassi, che allestiva un enorme tappeto di piccoli modelli, riproduzione in scala delle centinaia di spazi industriali dismessi, per i quali si sollecita un necessario intervento di recupero. La Finlandia ha dedicato invece l’intero padiglione al tema della scuola: asili, scuole primarie, licei di ogni città, sono architetture eleganti, accurate e ben costruite, che testimoniano la civiltà di un Paese che, con una politica lungimirante, investe e crede fermamente nell’istruzione. Infine il padiglione Italia, curato da Luca Molinari, ha presentato come tema AILATI. Riflessi dal futuro, un’antologia dell’architettura italiana che ha coinvolto giganti del calibro del Renzo Piano Building Workshop, e architetti meno noti ma di talento, come il siciliano Emanuele Fidone. Attraverso foto e modelli di progetti, di opere recenti completate o in costruzione è stato presentato uno spaccato dell’architettura italiana, che seppur vanta alcune eccellenze, resta piuttosto estranea alle sfrenate sperimentazioni architettoniche contemporanee. Quest’anno il premio Leone d’Oro alla carriera è stato assegnato a Rem Koolhas, il controverso architetto olandese, nato a Rotterdam, giornalista di formazione, sceneggiatore, ma soprattutto architetto visionario, che ha rivoluzionato il modo di progettare e di comporre gli spazi.


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il paginone

Libertino per vocazione, mago e millantatore, colto e intraprendente, ironico e spavaldo, filosofo e massone. Prima di consegnarsi alla scorta di quaranta arcieri che erano andati ad arrestarlo, volle fare una toeletta completa da cui uscì rivestito di trine e sete, come se andasse a uno sposalizio. Una biografia (di Emilio Ravel) ci restituisce tutti i colori dell’uomo e del suo tempo. Un tempo in attesa del “nuovo”… di Mario Bernardi Guardi ar di vederlo Missèr Grande, il capo della polizia veneziana, quando, all’alba del 26 luglio 1755, bussa alla porta di Giacomo Casanova che dorme il sonno dei giusti (si fa per dire) dopo essersi sollazzato fino a tarda notte. Par di vederlo, tutto fiero di fare il suo dovere - e soprattutto di farlo andando ad arrestare quell’impenitente libertino, baro, scroccone e framassone - con una scorta di quaranta arcieri e con un mandato di cattura spiccato nientemeno che dal Tribunale dell’Inquisizione di Stato. Svegliato all’improvviso, Giacomo appare frastornato: ma, mentre Missèr Grande sequestra un bel po’ di libri proibiti sparsi per la casa, ecco che recupera il sangue freddo, chiedendo di poter fare una toeletta completa. Anche se è mattina presto, qualcuno in giro c’è sempre, e lui ha

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Sospirò il fascinoso Giacomo, passando il Ponte dei Sospiri? E a quali speranze si aggrappò quando, scaricato a Palazzo e precisamente alle Fondamenta delle Prigioni, il «Circospetto», e cioè il Segretario del Consiglio dei Dieci, «con cipiglio professionale e scandendo bene le parole in italiano anziché nel consueto veneziano, declamò: “È quello. Mettetelo in prigione”»? Povero Giacomo: col suo pennacchio bianco scomparve dentro una cella nera, nera. Collocata sotto il tetto di piombo del Palazzo e mentre gli facevano festa «topi grandi come conigli» insieme a «un esercito di pulci che sarebbero stati i suoi al-

folle il prigioniero o il suo progetto». Così si legge in L’uomo che inventò se stesso.Vita e commedia di Giacomo Casanova (La Lepre Edizioni, 350 pagine, 22,00 euro), una biografia che è qualcosa di più di una biografia perché l’autore, Emilio Ravel (nome d’arte di Emilio Raveggi, giornalista, autore televisivo e soprattutto senese della contrada della Selva), riesce, con eleganza, ironia e complicità, non solo a renderci intimi di Casanova ma a farci entrare in quel Settecento, in quella Venezia e in quell’Europa, dove, per molti, «dolcezza di vivere» e «caccia alla felicità» erano, al tempo stesso, una bella

Figlio di una commediante e forse di un aristocratico, si sentiva ai margini della sua classe naturale da cui aveva ereditato i gusti. Che non poteva però esibire come marchio di appartenenza un’immagine da difendere. Così, si riveste «di tutto punto con trine e sete come se andasse a uno sposalizio» e «all’ultimo indossa un mantello di seta cruda e si mette in testa un cappello gallonato alla spagnolesca e sormontato da una corona bianca». Adesso è pronto e può salire in gondola. Prima di raggiungere i Piombi, a Palazzo Ducale, c’è però una sosta a casa di Missèr Grande, il quale offre cortesemente un caffè al suo illustre prigioniero, dopodiché lo rinchiude a chiave in una stanza per quattro ore, in attesa dell’ulteriore destinazione.

legri compari per quindici mesi». Nessuno, per tutto quel tempo, «si degnò di dirgli perché fosse stato arrestato. Non ci furono interrogatori, né processo.

Rimase così, dimenticato, sotto un soffitto che non gli permetteva di stare in piedi, a sciogliersi come una candela incurvata dal caldo soffocante d’estate e a gelare d’inverno, sempre col terrore di essere stato murato là dentro a vita. La disperazione lo mise a tal punto fuori di sé da fargli fantasticare nientemeno che un piano di fuga. Difficile dire se fosse più

«scena illustrata» e un traguardo da perseguire con ogni sforzo. Dunque, questa Vita, che pure non fa risparmio di passaggi e paesaggi oscuri, e di ignominie, violenze e truculenze in ordine sparso; e che pure coglie, nel brillìo illuminista della ragione, dei fecondi salotti intellettuali e della dorata società tessuta di maliziose giostre d’amore, il paradosso del diffuso occultismo e i segnali di una marea montante di scontentezza, violenza e attesa del «nuovo», che di lì a poco sarebbe scattata per distruggere, nel santo nome degli oppressi, i privilegi

Venezia vista da Canaletto e, sopra il titolo, da Pietro Longhi. In alto a sinistra il profilo di Casanova e a destra i suoi luoghi: il castello di Dux, in Boemia, dove fu bibliotecario, il ponte dei Sospiri e il carcere dei Piombi. Sotto le locandine di due celebri film: il “Casanova” di Fellini e di Hallström anno III - numero 42 - pagina VIII

Being Giac

CASANO dell’Ancien Règime e partorire i fasti e i nefasti della nuova borghesia rampante: questa Vita, dicevamo, recupera, e la conversazione introduttiva con Ugo Gregoretti vale allo scopo, tutti i colori di un uomo e del suo tempo. Se si preferisce, tutti i colori di un uomo che incarnò al meglio e al peggio il suo tempo, in uno scialo di mirabili effetti speciali e col soffio della decadenza - sua e della società in cui visse - che già spirava un po’ovunque.

Ma torniamo al Casanova arrestato non si sa perché. In apparenza. Di perché, infatti, se ne trovano, e in abbondanza, quando uno, dopo essere stato prete e soldato, avvocato e violinista, è ormai universalmente conosciuto come seduttore impenitente (ma sempre galante, sempre «innamorato»: Casanova, le centosedici donne che ammaliò col suo fascino le amò davvero e dunque, nonostante tutto, non ha nulla a che fare con un tipaccio alla don Giovanni, sprezzante e crudele «collezionista», come Da Ponte e Mozart insegnano), libertino per vocazione e scelta, spia e millan-

tatore, giocatore e baro, mago, occultista e massone, losco avventuriero e filosofo in odore di ateismo. Ora, è vero che quasi tutte le donne, fossero dame d’alto rango, fascinose attrici, misteriose avventuriere, umili ma procaci servotte, si innamoravano di Casanova, ben volentieri lo accoglievano nel loro letto, lo coccolavano e, all’occorrenza, lo foraggiavano; ed è vero che il Nostro godeva anche di autorevoli amicizie e protezioni maschili, come il patrizio Matteo Giovanni Bragadin a cui Giacomo aveva salvato la vita e che aveva per lui l’affetto di un padre; ma è altrettanto indubbio che non pochi aVenezia ce l’avessero con quel «bastardo» che si atteggiava a «gentiluomo». Già, perché la madre di Giacomo era la bellissima commediante Zanetta Farussi, conosciuta come la Buranella (da Burano veniva la sua famiglia), che avrebbe avuto illustri amanti in tutta Europa, tra cui, pare, anche il principe di Galles, il futuro Giorgio II, «protettore degli artisti e soprattutto (sembrerebbe) delle artiste». Quanto al babbo, diciamo così, «anagrafico», Gaetano Casanova, si tratta-


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como

OVA va di un povero e mite ballerino, innamorato pazzo della consorte. Nonché abbondantemente cornuto e tutt’altro che contento, ma costretto a far buon viso al cattivo gioco della moglie. La quale gli faceva capire, con garbo tutto veneziano, che non poteva certo opporre resistenza agli aristocratici vogliosi di intrufolarsi nel letto matrimoniale. Così, proprio in nome di questo rispetto nei confronti della classe sociale che era perno e fondamento della Serenissima, Zanetta non aveva detto di no, anzi aveva detto ripetutamente sì, al potentissimo patrizio Michele Grimani: per l’appunto, pare, il vero padre del nostro bastardino.

Una cosa è certa: quando Gaetano tutt’altro che uno stupido, visto che tra i suoi amici figuravano, insieme al poeta libertino Giorgio Baffo, numerosi uomini d’ingegno - passò a miglior vita, la famiglia Grimani «divenne protettrice del piccolo Giacomo»,

aiutandolo «negli studi e in altri modi, anche se usando sempre un’aria circospetta». Infatti, «appariva - in veste di benefattore non Michele (ossia il sospetto padre), ma lo zio, l’abate Alvise, per non dar adito a troppe voci e a eventuali pretese il giorno che il ragazzo fosse divenuto adulto». Il ragazzo diventò adulto e gli restò l’osso in gola: «figlio» di un aristocratico, non poteva vantarsene pubblicamente. Così, si sentiva «socialmente» ai margini della sua classe «naturale», ne aveva gusti e disgusti, sprezzi e generosi entusiasmi, ma non poteva esibirli come un marchio di «appartenenza». Piuttosto come una pretesa, fatta di senso di inferiorità e di risentimento, e alla fin fine patetica, se non ridicola. Nondimeno il bastardo era destinato a diventare protagonista. Non solo grazie al genio e alla fortuna di cui fece sfoggio come seduttore, ma anche ad altre qualità: creatività, spirito avventuroso, gusto del rischio, una certa «nobiltà» di fondo che faceva a pugni con i rancori covati nell’animo e che di tanto in tanto esplodevano. Così come i duelli d’onore si mescolavano agli imbrogli volgari, i gesti generosi e magnanimi alle azioni di bassa lega, degne di un volgare truffatore. Ma, in genere, la classe - che non è acqua - non gli faceva difetto: l’uomo che «inventava» la sua vita lo faceva alla grande. E se in lui c’era l’aspirazione a essere un altro, la sua recita resta comunque di alto livello, tanto da abbagliare non solo belle donne, ma artisti, scrittori, diplomatici, teste coronate: tutti sedotti dalla sua brillante intraprendenza, dal suo eloquio colto, sottile, ironico, da una certa spavalderia che era poi l’aura del conquistatore, quella che in fondo tutti gli uomini vorrebbero veder sospesa sul loro capo. È chiaro che un uomo di siffatto, multiforme ingegno, non può essere annientato, anche se lo getti nella più buia delle prigioni. Ci mancherebbe altro: ha trent’anni, ha condotto finora una vita brillante tra lussi, divertimenti, intrighi amorosi, dissipazioni e sfrenatezze, ha viaggiato su e giù per l’Euro-

pa, da Lione a Parigi, da Dresda a Vienna, è stato addirittura a Costantinopoli dove ha goduto dell’amicizia e della protezione di Yossuff Alì, un uomo ricco e sapiente, ha ancora davanti a sé un’esistenza intera da rappresentare. Dunque, la sua fuga, eternata nel 1788 in un libro pubblicato a Lipsia (Histoire de ma fuite des prisons de la République de Venise qu’on appelle les Plombs), sarà strepitosa, nello stile del più audace degli avventurieri: e se c’è qualche bugìa, chapeau all’Imaginifico! Di lì a poco, Cavaliere di Seingalt per autoinvestitura. E vagabondo di lusso, a Londra e Varsavia, Berlino e Pietroburgo, con attestati ammirativi di letterati, principi e maghi (come Cagliostro): e, come dimostra Ravel seguendolo nei suoi peripli geografici e intellettuali, il Nostro ci tiene ai riconoscimenti, anche se non disdegna di «ingaglioffrisi», per dirla con Machiavelli, con fior di birbanti, ovviamente sciupafemmine, feroci e generosi, insomma dotati di un potente senso della vita, intuita come avventura unica, cui consacrare ogni energia.

Ne fa, ne farà di tutte, il bel Casanova: ed è questa sua pienezza che incanta e travolge. Nel 1788 c’è anche, pubblicato per la prima

come Jonathan Swift (I viaggi di Gulliver)? Be’, al profilo di un uomo poliedrico, di un libertino settecentesco - figlio dei Lumi, dunque di una mentalità settaria, avversa alla tradizione cattolica, ma aperta al versante ermetico, occulto, esoterico, e a ogni possibile mitologia del «mondo nuovo» non poteva mancare questo ulteriore tocco di bizzarria. Peraltro ben combinata con la raffinatezza dell’intelletto e la vivacità della scrittura: lo conferma quell’Histoire de ma vie che Ca-

sanova, bibliotecario nel castello di Dux, in Boemia, scrisse tra il 1791 e il 1798. Otto anni per raccontarne cinquanta: un viaggio della memoria in uno scintillante Settecento ritrovato, tra nobili, cortigiane, imbroglioni, attori, sovrani, avventurieri di tutte le risme. La ricognizione colorita e spregiudicata di un uomo che volle una vita eccezionale eppure - e forse è questa la chiave di lettura della biografia di Ravel - nutrì sempre una sorta di inconfessata, incon-

ecclesiastica. «Immagina la mia consolazione se tra venti o trent’anni ti saprò vescovo», gli scrive nel 1743 (si veda l’intera materna epistola nel libro di Ravel, alle pagine 68-69). Ma lui non ci pensava davvero a consolarla in quel senso…

Ma torniamo al Casanova «autunnale». Se n’è occupato Arthur Schnitzler in un libro pubblicato nel 1918, Il ritorno di Casanova (Adelphi), portando sulla scena un Giacomo senescente desideroso di vivere la sua ultima avventura con una bella fanciulla, Marcolina. Una storia amara: non diciamo altro; al lettore scoprire la brutta figura che toccherà al vecchio libertino. In un altro romanzo, La recita di Bolzano dell’ungherese Sándor Márai, uscito nel 1940 e anch’esso tradotto in italiano da Adelphi, Casanova, dopo l’evasione dai Piombi, capita alla Locanda del Cervo nella città alto-atesina, e qui ritrova pezzi di passato - la donna che aveva amato, l’uomo con cui si era battuto a duello proprio per lei - che è impossibile controllare e rielaborare con i vecchi trucchi della seduzione: ci sono molte più cose in cielo, in terra, nella teste e nel cuore degli uomini e delle donne di quanto il pur scaltro e disincantato liberti-

Grande immaginifico, descrisse nel suo “Icosameron” , pubblicato a Praga nel 1788, il viaggio di due giovani al centro della terra: una riflessione su un diverso mondo futuro a cui i protagonisti daranno vita volta nella magica Praga, successivamente a Parma, e in seguito divenuto rarissimo, un lungo romanzo utopistico: l’Icosameron, dove si seguono le vicende di due giovani che naufragano nei gorghi del Maelstrom e, dopo un viaggio straordinario all’interno di una cassa di piombo, si ritrovano al centro della terra, in mezzo a esseri di piccola statura che vivono in condizioni di innocente beatitudine e parlano un linguaggio musicale. Un trionfo dell’immaginario che offre l’occasione per riflettere sulla natura dell’uomo e sul futuro stato del mondo. E, al ritorno sulla terra, per dar vita a una umanità nuova. Giacomo Casanova come Tommaso Campanella (La Città del Sole) e

fessabile nostalgia per una vita normale: quella che forse da bimbo avrebbe desiderato e che non poté essergli garantita da quel babbo, buono e affettuoso, ma debole e incapace di reagire al deliberato e interessato libertinaggio della moglie, a caccia di buoni partiti extraconiugali; e da quella mamma troppo impegnata a piacere al suo pubblico e ai suoi amanti per potersi curare affettivamente del figlio (anzi, dei figli: ne aveva sei). C’è da giurarci che la Buranella voleva bene a tutti, e in particolare a Giacometto: purché non si comportasse da scapestrato e si rendesse conto che poteva avere un gran bell’avvenire se avesse deciso di abbracciare la carriera

no può sospettare. Ma la joi de vivre non è un antidoto a tutte le paturnie? Lo pensava Piero Chiara, traduttore di Casanova, e gran signore della sensualità, del sesso e del sorriso. Di diverso avviso Federico Fellini che nel suo Casanova traccia il profilo di un uomo equivoco, ossessionato e nevrotico, con in testa il chiodo della sua vita: un sesso forsennato, quasi una condanna. E tuttavia la formidabile macchina teatrale settecentesca che vede nell’avventuriero veneziano un protagonista emblematico diventa una grande favola, volando via dalla storia e dal documento: ed è proprio la favola, la sua favola, che Casanova indossa, maschera e, a un tempo, mantello.


Narrativa

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libri Alessandro Piperno PERSECUZIONE Mondadori, 417 pagine, 20,00 euro

ersecuzione è la prima parte di un dittico titolato Il fuoco amico dei ricordi, di Alessandro Piperno, che esce dopo cinque anni dall’esordio, esordio narrativo che ha imposto lo scrittore romano all’attenzione della critica e dei lettori. Persecuzione era, come capita raramente, un romanzo atteso sia alla verifica critica di una tenuta stilistica, sia alla curiosità di chi considera Piperno una delle figure più originali del panorama narrativo italiano. È uno strano meccanismo tutto italiano questo di aspettare il secondo libro per decretare se uno scrittore può essere definito tale, come se una sola opera non sia sufficiente a laureare poeti. Forse è anche per questo che lo scrittore con ghigno sottile avrà pensato di far uscire a breve un secondo tomo, quasi pregustando il piacere della sconfitta del critico che in parte, dovrà rimandare il suo giudizio sull’opera intera. In realtà come leggiamo nella nota dell’editore, Persecuzione è un romanzo autonomo e compiuto, che narra con perfida e lucida esecuzione la parabola di un uomo che da potente e forte si riduce a meno che niente nel giro di poco tempo. Nello stile espressivo già riconosciuto nella prima opera, questo romanzo si alimenta all’interno di se stesso e si anima di digressioni continue, pur restando fortemente ancorato alla storia del protagonista, Leo Pontecorvo. Il narratore di Persecuzione si lascia andare con gusto a un intreccio ipertrofico che privilegia il flashback, anche quando la voce narrante ci avverte che il passato non è un tempo affidabile. Il romanzo entra nel vivo della storia fin dalla prima pagina quando il protagonista, oncologo pediatrico di fama internazionale, mentre è a cena con la famiglia, normale e felice famiglia borghese moglie e due figli, sente al telegiornale di essere accusato di pedofilia. Travolto dalla notizia Leo s’alza da tavola e intronato e incosciente va a rifugiarsi in una stanza nel piano interrato da dove, tranne che per andare dall’avvocato o per cercare fugaci rapporti con la moglie e i figli, non esce più. Su questo plot l’intreccio lavora di scavo e di approfondimento su vari temi che determinano la persecuzione di un uomo qualunque e perbene, temi come la paura e l’ignavia, ma anche come una sorta di

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Parabola

kafkiana

di un uomo perbene A cinque anni dall’esordio, Alessandro Piperno alla prova del nove: con “Persecuzione”, prima parte di un dittico

Autostorie

di Maria Pia Ammirati

incomprensione del mondo pratico da parte del protagonista che viene sovrastato e poi schiacciato in maniera inesorabile. Il narratore è onnisciente e fortemente presente nella storia anche a livello di giudizio. Leo Pontecorvo è un personaggio in ostaggio dei giudizi di tutti, a partire dalla moglie, la parte pratica e solida della famiglia, per finire alla piccola donna che lo incastra nella brutta vicenda, una adolescente di 12 anni che per rabbia di essere stata rifiutata dal bello e potente professore, costruisce l’accusa infamante di essere stata molestata durante una vacanza in montagna. Nella storia a questo punto c’è tutto: la disgregazione di una famiglia, due modi diversi di vivere l’ebraismo, l’aspetto deteriore delle comunicazioni di massa che algidamente diffondono le notizie, l’ottusità e la cattiveria della gente comune, la mancanza di fiducia della moglie che per salvare i figli abbandona il marito, la società e la politica italiana degli anni Ottanta. Quel che indubbiamente colpisce è la mancanza di reazione di un uomo che prima dell’annuncio del telegiornale ha una posizione sociale invidiabile, e che dopo la divulgazione della notizia (falsa) non riesce a trovare il modo di difendersi. Il lento suicidio che Leo Pontecorvo sembra ostinatamente perseguire, ha l’unica parentesi «d’azione» da parte del protagonista, in due momenti: l’incontro con l’avvocato amico d’infanzia, e il terribile interrogatorio che Pontecorvo subisce da parte di un giudice che forma il suo giudizio sulle notizie costruite da giornali e tv. A parte la scontata citazione kafkiana, l’interrogatorio è uno dei momenti più feroci di una narrazione ricostruttiva di un clima storico e di un microcosmo familiare, che ha il difetto di indugiare e compiacersi dell’ipertrofismo stilistico.

Il vecchio professore e la fidata Volvo color arancione ato a Sarajevo nel 1966 il romanziere Miljenko Jergovic è autore di una singolare «trilogia della macchina», che narra vicende in cui l’automobile ha un ruolo di primo piano, assumendo quasi una funzione di alter ego del suo proprietario. Aspetto che ricorre quando, in una Zagabria contemporanea, il professor Karlo Adam si trova, ormai in pensione e rimasto improvvisamente vedovo, a poter contare solo sulla sua Volvo «colore arancione, vernice originale, anno di produzione 1975, mai scheggiata, unico proprietario. Era una buona macchina, che non l’avrebbe mai lasciato a terra e se n’era preso cura: tagliando completo due volte all’anno, controllo dell’olio, mai uscita da una strada asfaltata, neppure corso a più di centotrenta. Poteva tirare anche di più, forse addirittura fino ai centosessanta, centosettanta». Ma il professore pensava che la macchina è come un buon cavallo, al trotto può attraversare il mondo, mentre al galoppo rischia di scoppiare, «sicché la Volvo non l’aveva mai tirata e così l’aveva conservata per trenta anni più uno». A quell’automobile il proprietario era lega-

N

di Paolo Malagodi to come a un ultimo amico e su di essa confida per recarsi a Sarajevo, dopo che un telegramma avverte della morte di un lontano zio e dell’eredità da questi lasciata. Inizia così il viaggio su strade che portano i segni di recenti tragedie, con il porsi della questione «se nell’ultimo scannamento sia stato il serbo a sgozzare il croato oppure viceversa. Perché l’indole degli slavi del Sud è quella di vendicarsi l’un l’altro, così che i debiti di sangue saranno restituiti con gli interessi cinquant’anni dopo, allo stesso modo in cui sono stati restituiti l’altroieri quelli di cinquant’anni prima». Immerso in cupi pensieri il professore procede lentamente, mentre «intorno a lui suonavano i clacson e si sbracciavano autisti da rally, lo sorpassavano e anche il professore strombazzò un paio di volte. Il clacson della Volvo aveva un tono un po’ all’antica, più alto delle altre macchine, conteneva in sé qualcosa degli splendidi strumenti a fiato delle sinfonie di Gustav Mahler». Qualità non rispettate quando lo sorpassa una colonna di veicoli mili-

Veicoli ma non solo, nella trilogia della macchina dello scrittore bosniaco Miljenko Jergovic

tari, costringendolo a guidare con la ruota destra oltre il margine della strada sino a urtare il guard-rail. «Si sentì uno stridore di lamiere e il parafango di plastica gemere, per la prima volta in trentun’anni il professor Adam aveva danneggiato la carrozzeria della propria Volvo. Fermo su uno slargo adiacente alla strada, nel bel mezzo dell’immondizia scaricata lì da qualcuno, fumava e guardava la fiancata squarciata della Volvo. Ferita di cui era colpevole lui stesso, perché spronato dall’avidità aveva deciso di intraprendere quel viaggio. Fu commosso dal pensare alla macchina come a un essere vivente, un animale ferito che ora giaceva in mezzo alla spazzatura e al professore scesero le lacrime, apertamente». Il tribolato viaggio giunge comunque al termine, con la conferma di una consistente somma depositata in Svizzera su un conto corrente dal codice segreto «Freelander». Nome di un noto modello di auto, che viene anche speso dall’autore quale titolo (Freelander, Zandonai editore, 192 pagine, 15,00 euro) di una storia amaramente conclusa, senza che il protagonista arrivi a godersi l’insperata eredità e con la sua amata Volvo destinata a diventare un rottame lungo le strade di Sarajevo.


Personaggi MobyDICK

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ALTRE LETTURE

FORMIDABILI QUEGLI ANNI OTTANTA di Riccardo Paradisi

di Luisa Arezzo

un libro corale quello curato da Silvia Bolgherini e Florian Grotz, una radiografia in tempo reale sullo stato di salute della Germania guidata da Angela Markel, la cancelliera tedesca già entrata di diritto nelle pagine di storia sia della Repubblica Federale tedesca che dell’Europa (e non solo per il fatto di essere stata la prima donna a occupare la poltrona che fu di Konrad Adenauer, Willy Brandt ed Helmut Khol). Corale perché scritto a più mani (11 per l’esattezza): troppe a una prima occhiata. In questo caso però, l’unione rappresenta la forza del libro. Che vuole analizzare, attraverso tante lenti diverse, l’esperimento della Grande Coalizione guidato dalla Merkel fra il 2005 e il 2009. Non dimentichiamoci, infatti, che l’arrivo della Cancelliera corrispose a una svolta storica della politica di Berlino, abituata a vedere celebrare il suo «modello tedesco» (una secca alternanza) come un esempio di stabilità virtuosa. Certezza andata in frantumi con le elezioni federali del 2005. In quell’occasione, per la prima volta dal 1949, nessuno dei due partiti pigliatutto - i democristiani della Cdu/Csu e i socialdemocratici della Spd - riuscì a ottenere una maggioranza assieme al suo alleato naturale, rispettivamente il Partito liberaldemocratico (Fdp) e i Verdi. Di conseguenza, Cdu/Csu e Spd dettero vita un governo di grande coalizione. Una soluzione punto osteggiata da tutti gli elettori e invisa a molti partiti, che vi si piegarono obtorto collo temendo di non riuscire più a venir fuori dalle secche delle larghe intese. Le cose non sono andate così, e qui sta il grande capolavoro della

È

Gli azzardi di Angela Merkel. In termini di policy making, infatti, l’inevitabile esperimento non ha affatto portato a uno stallo totale. «Ha invece - spiega la Bolgherini - ricevuto giudizi di tutto rispetto, soprattutto riguardo alla gestione della crisi economico finanziaria mondiale del 20082009». Ma ciò che più conta è che il governo democristiano-socialdemocratico non ha dato luogo a una situazione immutabile, uno stato stazionario. L’esito delle elezioni federali del 2009 ha infatti permesso ai democristiani, di nuovo sotto la guida di Angela Merkel, di tornare a una coalizione con i liberali, ovvero l’alleanza che ha governato la Germania per la maggior parte del tempo

Narrativa straniera

dal 1949. La grande domanda a cui il libro cerca di rispondere è se la Grande coalizione del 20052009 sia stata un episodio eccezionale o se abbia avuto un impatto sul sistema politico che vada ben oltre il suo mandato nel quadriennio 2005-2009. E proprio questo è un po’ il limite del libro, visto che gli autori non hanno avuto il tempo di testare la risposta, fatta eccezione per qualche mese. Per cui, se da un lato è innegabile che la Grosse Koalition abbia influito radicalmente sul sistema politico nazionale, è anche vero che l’instabilità politica internazionale di questi anni recenti, non permette di fare valutazioni certe, ma solo di offrire degli scenari. E come cartina di tornasole basta il fatto che, politicamente, in questi mesi la Cancelliera sta attraversando un periodo di decisa turbolenza politica. Che il libro non poteva prevedere.

La Germania di Angela Merkel, a cura di Silvia Bolgherini e Florian Grotz, il Mulino, 340 pagine, 23,00 euro

I labirinti cerebrali del suicida Rui er apprezzare meglio uno dei maggiori scrittori del Portogallo, e dell’Europa, Antònio Lobo Antunes, occorre sintonizzarsi sui ritmi del cervello. Mettiamo da parte il romanzo canonico. Ci troviamo di fronte a una storia che è un gomitolo che rotola e s’ingrossa a velocità elevatissima. Antunes, una volta psichiatra, ci trascina con linguaggio superbo in labirinti emozionali, senza mai perdere la barra di navigazione. Il trentenne Rui è nato in una famiglia conservatrice, snob, ricca, con pensieri sbiaditi: un gruppo reso coeso dal «fantasma onnipotente» del capofamiglia, che schiaccia tutti con pretese e direttive. Rui non vuole entrare nell’impero industriale fondato dal nonno. All’ingessata contabilità finanziaria preferisce Letteratura e Storia. Avrà due mogli, ed entrambe, nel momento decisivo, si chiederanno tra riso e angoscia perché mai sposare un essere che pare codardo, ingabbiato nell’esitazione, con «l’ulcera incurabile della tristezza», un «mai adulto». Lui continua a muoversi in visibili imbarazzi, mai affrancato dalle abitudini di alto-borghese, insofferente verso il cattivo gusto, la trasandatezza e la retorica di certa sini-

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nni di plastica», «il decennio del nulla», son stati definiti gli anni Ottanta. Ma è un’analisi sbagliata, come quasi tutte le analisi della sinistra italiana, abituata a ragionare con schemi consunti e logori. Sì, perché gli anni Ottanta, come dimostra il bel libro di Marco Gervasoni Storia d’Italia degli anni Ottanta (Marsilio, 253 pagine, 20,00 euro), sono stati un decennio di modernizzazione economica e sociale, anni in cui la società italiana abbandona i caratteri dei decenni precedenti, l’economia prende forme più vicine a quelle a noi contemporanee, si affermano nuovi soggetti economici e avanza una società dove segnano il passo la ricerca della libertà individuale e il perseguimento della soddisfazione personale. Certo il consumismo, la corruzione politica, la caduta dei valori: ma degli ultimi decenni quale non ha avuto queste stigmate?

«A

di Pier Mario Fasanotti stra, pigro nei gesti proprio perché pensa, guarda, si pone domande. La prima moglie, Tucha, figlia di un deputato, disprezza «i subalterni», decide di far uscire da casa il marito mentre guarda con lui un film alla tv. L’ha sposato perché abbandonata da un altro, non per stima. Pettegola e arrogante, l’aveva già accusato di essere «più apatico di un bue di ceramica». La seconda moglie, la rivoluzionaria Marìlia, con entusiasmi febbricitanti, docente universitario che va in giro con un poncho rosso, attrae lo sbandato e arguto Rui, al quale però non piacciono le sue modeste origini sociali, i suoi piedi larghi da contadina. A entrambe rimprovera, tra sé e sè: «Non mi avete preso sul serio». Di entrambe ricorderà la ritrosia affettiva, il vivere sbrigativamente, l’incapacità di sprofondarsi nelle cose e nelle persone. Siamo in un Portogallo feroce e servile, dove il classismo è sussiego e umiliazione. Del padre Rui padre ricorda sempre un unico gesto affettuoso: lo prendeva sulle spalle e cercava di spiegargli il segreto degli uccelli: perché volano, perché gridano, dove muoiono? Ma «l’in-

dustriale di spicco» che cena con ministri non è mai interlocutore, nemmeno con il figlio. Quello di Rui sarà sempre il lamento del ragazzo al quale si dicono le cose a metà, con svogliatezza o con severità crudele. Gli ultimi giorni del suicida Rui coincidono con la lenta morte della madre. Antunes ricorre alla metafora coloratissima del circo nel descrivere un gruppo familiare. Prevalgono i pagliacci. Il dramma, il disagio esistenziale, il conformismo, il potere e la lugubre disfatta diventano gesti da circo. Rui sarà trovato senza vita tra i canneti, divorato proprio da quegli uccelli di cui ha sempre atteso una vera spiegazione. Lì c’era andato con Marìlia, con l’intenzione di comunicarle la decisione di separarsi. Un testimone: «Ho capito che lei non lo amava, forse erano anni che si ferivano a vicenda per sopportarsi ancora, anni che si odiavano al fuoco lento e amaro delle coppie, nel risentimento delle speranze perdute, nella delusione di ciò che avrebbe potuto essere e non è stato». Antònio Lobo Antunes, Spiegazione degli uccelli, Feltrinelli, 275 pagine, 20,00 euro

LO YOGA CRISTIANO DEI PADRI ORTODOSSI *****

è un classico della letteratura religiosa, Racconti di un anonimo pellegrino russo, che ha al centro della sua narrazione la cosiddetta preghiera del cuore, un inno costante a Gesù che, armonizzato con il respiro consentirebbe al fedele l’unione con il cristo. Si tratta dell’esicasmo, metodo di meditazione e di preghiera nato nell’humus del cristianesimo europeo orientale, definito in questi anni uno yoga cristiano, definizione suggestiva anche se non proprio esatta. Accanto ai racconti di un anonimo pellegrino russo c’è un altro testo fondamentale per comprendere l’esicasmo e la preghiera del cuore: è Diario sulla preghiera di Gesù di Schimonaco Ilraion. Un libro prezioso per chi è interessato all’argomento che ora pubblicano le edizioni Paoline (218 pagine, 14,00 euro) a cura di Vincenzo Noja.

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FILOSOFIA DEL CHIANTI E DEL BAROLO *****

è un vino per ogni filosofia di vita. Non lo dice un apologeta dell’alcoolismo, lo afferma uno dei più importanti e autorevoli pensatori conservatori contemporanei: quel Roger Scruton già autore del Manifesto dei conservatori, pubblicato in Italia da Raffaello Cortina editore come questo suo ultimo Bevo dunque sono (Raffaello Cortina, 240 pagine, 19,80 euro). «Hegel scrive Scrutane - è il mio eroe tra i filosofi e non posso mai pensare alla sua giustificazione della proprietà privata come il giungere alla coscienza dell’io libero senza visitare la cantina per trovarne una conferma istantanea per esempio un Chianti classico».

C’


ncora in mostra l’eccellenza dell’alta moda italiana per la prima volta riunita in un’esposizione d’eccezione. Cento costumi originali immaginati da otto imperatori dell’alta moda e provenienti dalle collezioni teatrali di alcuni tra i più prestigiosi teatri italiani, corredati da bozzetti e figurini, a cui si aggiungono alcuni video per far rivivere l’incanto della scena. L’allestimento curato da Massimiliano Capella stabilisce un percorso in una penombra labirintica da grotta di Ali Babà, in cui gli abiti appaiono. Otto sezioni per altrettanti paesaggi creativi a cominciare dall’incredibile abito monile realizzato dalla sartoria Versace e indossato da Kiri Te Kanawa nel Capriccio di Strauss, inondato da cristalli policromi a formare motivi ispirati alle grafiche di Sonia Delaunay. Non meno affascinante soffermarsi ad ammirare Luciana Savignano, coreografata da Maurice Béjart, nei panni di un’Evita Péron che lascia scie luminescenti sul palcoscenico; o la classe delle creazioni di Ungaro in velluto devoré. La famiglia Fendi fa entrare in scena le pellicce a impreziosire e sedurre con la loro sensuale morbidezza accostata a un materiale povero come il jeans tagliato: perfetti per la Carmen di Bizet immaginata dal mago Lagerfeld. Nella terza sezione ci immergiamo nelle visioni plumbee ipotizzate dalla dinastia dei Missoni per rendere le atmosfere piovose della Scozia in cui è ambientata la Lucia di Lammermoor, riscattate dalla solarità multicolore di un’Africa sognata in occasione delle celebrazioni di Italia ’90. Ed eccoci nella sala del genio Capucci e dei suoi abiti scultura dedicati alle Signore del belcanto: intere scale cromatiche vengono sviluppate per sciogliersi in rivoli di colore dalle diverse sfumature a seconda dei movimenti di chi le indossa: pura magia. In contrapposizione la linearità del Maestro Armani a incontrare corpi fluidi e danzanti e avvilupparli o prolungarli come nel caso della regale Bata de Cola fatta cucire a Siviglia dalla più grande esperta del genere appositamente per il flamenchista Joaquin Cortés. Il mondo shakespeariano del Sogno di una notte di mezza estate abita le tuniche di Antonio

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Danza

Sulla scena Nei panni di Evita, Carmen e Lucia MobyDICK

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spettacoli

di Enrica Rosso Marras ornate da infiniti inserti di tessuti impalpabili per vestire elfi e fate nell’edizione diretta d Luca Ronconi per il Piccolo Teatro in una fusion tra gotico e dark. E poi le sfide spaziali di Romeo Gigli che inventa soluzioni stilistiche tese a creare un ponte tra passato e futuro per il mozartiano Flauto magico del Teatro Regio di Parma con abiti che occupano l’intera scena con le loro code di rete argentata o che trasformano i cantanti in uccelli sapienti con corpetti completamente rivestiti di piume di gallo verde azzurre, come certe calottine delle signore d’antan. Mentre Alberta Ferretti sintetizza la sua Carmen andata in scena a Caracalla in tre colori: bianco, rosso e nero. Non potevano mancare i costumi realizzati per casa Coveri per Il grande Gatsby e quelli di Valentino per The dream of Valentino. Si chiude alla grande, con una parata di costumi di una bellezza stratosferica in un’esplosione di libertà interpretativa a opera di un Gianni Versace in stato di grazia, capace di vestire i sogni che sulla scena prendono forma con la cura e la sapienza di chi sa che i sogni a occhi aperti possono essere più concreti della realtà stessa.

Il teatro alla moda. Costume di scena - grandi stilisti, Fondazione Roma Museo, fino al 5 dicembre

DVD

STORIA DI TRAUD JUNGE ALL’OMBRA DI HITLER edesca, spigolosa, zelante. Tratti particolari, segretaria di Hitler. Traudl Junge racconta gli anni di lavoro a fianco del Führer, nella preziosa testimonianza raccolta da Andre Heller prima che la donna, classe 1922, spirasse nel 2002. Assitente personale del dittatore tedesco dal 1942 fino al crollo del regime nazista, la Junge sognava di fare la ballerina, ma molto giovane accetta l’incarico che la fa vivere fianco a fianco con l’ingombrante capo. Un’esperienza che costituisce il nocciolo di L’angolo buio, nato sulla scorta di un libro di memorie scritto dalla donna nel lontano 1946.

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PERSONAGGI

CATTELAN E JOVANOTTI: UN ALBUM, UN SOGNO è la firma prestigiosa di Maurizio Cattelan sulla copertina del nuovo album di Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti. Tra i più noti artisti contemporanei italiani, dotato di uno spirito altamente provocatorio, lo scultore padovano disegnerà cover e libretto di Ora, nuovo lavoro di Jovanotti sugli scaffali dei negozi musicali a partire dal prossimo gennaio. Galeotto fu un tetto. «Una sera ho suonato sul tetto di una galleria d’arte per una platea di un centinaio di persone - racconta Cherubini. Lassù c’era Cattelan. Ci siamo conosciuti e siamo rimasti in contatto. E ora il sogno si realizza».

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di Francesco Lo Dico

Alwin Nikolais cent’anni dopo di Diana Del Monte ra il maestro delle illusioni in scena e il suo lavoro, ancora oggi, è una viva testimonianza della sua incredibile lungimiranza e creatività. Nasceva cento anni fa, il 25 novembre del 1910, Alwin Nikolais, coreografo, direttore d’orchestra, compositore, regista teatrale e pedagogo di ineguagliato talento. A ricordare il centenario della sua nascita è la NewYork Public Library for the performing art, una delle più importanti raccolte di documenti sull’arte della danza. Fino al 15 gennaio saranno esposti al Lincoln Center di NewYork costumi, bozzetti, locandine, oggetti di scena e tutto ciò che la mente del coreografo americano ha saputo elaborare per dare vita alle sue stupefacenti opere. Ad arricchire il già nutrito archivio della New York Public Library, alcuni pezzi presi in prestito dall’Opéra di Parigi, dall’Università dell’Ohio, dal Centro Nazionale di Danza Contemporanea di Angers, dall’American Dance Festival e da numerose collezioni private.Tra il 1936 e il 1992,

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Nikolais ha messo in scena più di 100 spettacoli, tra cui veri esempi di teatro astratto multimediale come Kaleidoscope (1956), Imago (1963) e Tent (1968); ognuna delle sue opere è stata un esempio concreto del quel teatro totale declinato secondo il punto di vista del coreografo, ilTotalTheatre of Motion di cui l’artista curava ogni aspetto, dalla coreografia alle luci. Prendendo le distanze dai suoi maestri, tra cui Hanya Holm, Nikolais scinde la danza dall’espressione individuale lavorando all’idea di un danzatore non più raccolto nella sua vita interiore, ma costantemente connesso al contesto, all’universale. Frutto tanto delle scelte motivazionali del danzatore quanto dalle sue energie fisiche, la motion era il centro della sua visione artistica; rapporto tra spazio, tempo, dinamica e forma, la motion per Nikolais è il principale potere generativo della danza, preludio alla formazione di un’arte del movimento completamente astratta. La danza diventa così visual art of dance, incontro di forme, colori, suoni e motion, appunto; per questo, il ricorrente accostamento dell’opera

di Nikolais alle avanguardie europee degli anniVenti del ‘900, come la danza astratta di Oskar Schlemmer, non può ritenersi affatto azzardato, purché non si pensi a un’inopportuna filiazione del percorso artistico del maestro. E se i suoi geniali allestimenti scenografici sono ormai parte della storia del teatro americano almeno quanto gli imprevedibili e, a volte, ingombranti costumi pensati e disegnati dallo stesso Nikolais, la parte più profonda e importante del lavoro di colui che è considerato il coreografo più fantasmagorico della danza americana resta, spesso, sconociuta ai più.Tutto il lavoro sulla scena di Nikolais, infatti, discende dalla sua straordinaria e finora ineguagliata abilità come pedagogo; una pedagogia chiara e luminosa, la sua, sviluppata attraverso un’analisi dei principi della danza e un metodo per distillare il processo creativo. Lavorando non su codici fissi, ma sulla

sensibilità dei danzatori e sulla qualità del movimento, Nikolais ha costruito un sistema didattico in grado di aprirsi a infinite possibilità, evitando le barriere estetiche e ideologiche di una grammatica fissa. La connessione tra la sua pedagogia e la risultante estetica che appariva sulla scena era strettissima, ma mai pensata o percepita dai suoi allievi come l’unica via del suo insegnamento. Alwin Nikolais era un uomo saggio e un insegnate generoso che ha mostrato la strada a molti allievi - tra cui Murray Louis, Carolyn Carlson e Simona Bucci - ma che, a riprova della sua grandezza, non ha mai creato emuli, perché insegnare vuol dire aprire nuove strade.


MobyDICK

poesia

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Con Emily al cuore della percezione di Francesco Napoli i può leggere il mondo degli uomini e delle cose stando per tutta la vita nel ristretto recinto del patrio ostello? E lo si può fare ancor di più in una provincia d’America ancora ottocentesca e puritana? Forse sì: nasce così la poesia di Emily Dickinson (Amherst, Massachusetts, 1830-1886), nell’apparente chiuso di un natìo borgo selvaggio e di una famiglia dove la figura paterna, Edward, antischiavista e deputato al Congresso, predomina e straborda al punto che la figlia Emily alla scomparsa, 1874, ne ricordò l’imponente presenza in alcune lettere («il suo cuore era puro e terribile e penso che nessuno come esso esista»), e in un’ermetica quartina: «Ponete questo alloro sull’unico/ troppo intrinseco per la fama -/ Alloro - china le tue fronde eterne / quello che punisci, è lui!».

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Di lì a dieci anni arrivarono per lei le prime avvisaglie di un male, una forma di nefrite, che in fondo ancor giovane la prese. «Giorno spaventoso» scrisse il fratello Austin quando morì l’amata sorella appena due anni dopo quei primi sintomi. «Cessò di respirare quel respiro terribile poco prima che si sentissero i fischi delle sei di sera». Al suo funerale Thomas Higginson, che curò la pubblicazione postuma della produzione poetica dell’amica, descrisse il viso di quella donna ancora così fresco e prossimo a quello celebrato, e celebre, della foto che campeggia un po’ in tutte le edizioni italiane che la riguardano e che la ritrae ai sedici-diciassette anni, un dagherrotipo che tanto avrebbe entusiasmato Guido Gozzano. «Un miracoloso ritorno di giovinezza - aveva cinquantasei anni e sembrava averne trenta, non un capello grigio né una ruga, e una pace perfetta sulla bellissima fronte». Emily non volle che il suo funerale passasse per la via principale della città; scelse, in sintonia con tutta la sua esistenza, i campi, quei campi che le regalarono mughetti e biancospini e che si auspicava, «quando sarà il mio turno», potessero offrirle un botton d’oro. «Di sicuro l’erba me lo darà, perché non rispetta forse i capricci dei suoi figli fuggitivi?». E figlia fuggitiva della ter-

il club di calliope

Dì tutta la verità ma dilla obliqua il successo è nel cerchio sarebbe troppa luce per la nostra debole gioia la superba sorpresa del vero Come il lampo è accettato dal bambino se con dolci parole lo si attenua così la verità può gradualmente illuminare - altrimenti ci acceca -

ra Emily Dickinson ci appare nella sua poesia, forse l’unica nella letteratura poetica anglosassone ad avvalersi di una metrica tutta templata sull’innologia protestante. D’altronde nella biblioteca paterna la Salmodia cristiana e la raccolta Salmi, Inni e Canzoni spirituali di Watts c’erano, come in tutto il New England. Le annotazioni per l’intonazione, la prosodia e le misure indicate nelle singole introduzioni ai brani furono superate dalla maestria di questa donna a cui per apprendere le nozioni di metrica fu sufficiente frequentare la biblioteca di suo padre. E così quasi tutte le sue composizioni, 1775 in tutto, sono impiantate sul distico, spesso riprodotto in quartine o ottave, con un gioco alternato di rime che denotano una raffinata fantasia musicale. Amava la natura ed era costantemente ossessionata dalla morte al punto di immaginarsi l’attimo della sua fine «Quando morii - udii una mosca ronzare -/ il silenzio nella stanza/ era come il silenzio nell’aria -/ fra folate di tempesta» - spingendosi, nel finale della stessa poesia, al culmine della chiusura degli occhi («e poi le finestre scomparvero - e poi/ non potei più vedere di vedere»). E se Thanatos investì a fondo la sua riflessione, Eros venne vissuto sempre vestendo di «picchè bianco semplicissimo e assolutamente lindo e una scialle blu a rete di lana pettinata”», come la vide più volte l’amico Higginson.

Ma la reclusione dei sentimenti inflittale, e in parte anche autoinflittasi, non le impedì di vivere intono al 1878 un ultimo amore, forse anche ricambiato, per il giudice Otis P. Lord di Salem, grande amico del padre, vedovo dal 1877. Forse vi furono anche timidi abbozzi di un progetto di matrimonio tra i due, ordito almeno fino alla morte di quell’ultima fiamma. Gran parte della produzione poetica di Emily Dickinson però riflette e coglie non solo i piccoli momenti di vita quotidiana, ma anche temi che coinvolgevano il resto della società. Per esempio, parte delle sue poesie furono

Emily Dickinson (poesia 1129, da Tutte le poesie)

scritte durante gli anni della sanguinosa Guerra di Secessione americana. Solitaria voce dell’America vittoriana, pressoché inedita in vita, Emily Dickinson ha creato una forma di poesia epigrammatica, allusiva, che va al cuore della percezione emotiva e morale, e ha vissuto in Italia una fortuna raramente concessa alla poesia al femminile, incontrando attenti studi da Cecchi a Montale, da Izzo a Praz, passando per le traduzioni di Barbara Lanati o Ginevra Bompiani, Margherita Guidacci o Nadia Campana, Annalisa Cima fino all’ultima, creativa scelta di Gabriella Sica appena edita: Emily e le altre. Con 56 poesie di Emily Dickinson (Cooper editore, vedi recensione di Giovanni Piccioni su Mobydick del 30 ottobre scorso, ndr).

L’autrice ha saputo raccordare gli estremi di chi ha vissuto l’essere poeta e donna con un coraggio sfrontato, come solo il gentil sesso sa di poter fare, coniugando dolore e vita, morte e rinascita. «Ha scritto immolando la sua vita alla poesia, in continuazione e senza mai ascoltare alcuna sirena», scrive Gabriella Sica pensando alla poetessa americana ma certamente avendo nella mente e nel cuore anche le altre protagoniste del suo libro che sono in sintonia con la Dickinson: Charlotte ed Emily Brontë, Elizabeth Barrett Browning, Elizabeth Bishop, Sylvia Plath, Margherita Guidacci, Cristina Campo, Nadia Campana e Amelia Rosselli, un Parnaso femminile Otto-Novecento esaltato con giusto rigore. Per tutte vale quanto enunciato da Gabriella Sica per la Dickinson che «come pochi altri poeti, ha tracciato una strategia ardua e fulminante di canto e di salvezza, esempio unico di fedeltà al proprio mondo e al mondo più ampio della poesia».

L’ADDIO AL CALCIO DI VALERIO MAGRELLI in libreria

di Loretto Rafanelli

Resta persino improbabile inventarsi una disperazione per noi che abbiamo sangue pesto e mani di salsedine. Il lungo dissenso del passero sul cordolo del tetto e mosche schiacciate contro l’aria. Mia nonna con sguardo largo tradì proiezioni e dissolvenze e decise a scapito della luce. Angelo Scandurra

orges e Bioy Casares scrivevano che «l’ultima partita di calcio è stata giocata il 24 giugno 1937», dopo, è stato tutto manipolato dagli interessi economici, ma ciò, se pur vero, non ha certo scemato la passione calcistica e resta intatto il nostro vagare domenicale appesi a una notizia amica, «un sentimento strano, subliminale, che mi spinge a aggirarmi per casa come un rabdomante con la sua forcella», dice Valerio Magrelli, nel suo geniale poetico affresco sullo sport più popolare. Ma fin dal titolo, Addio al calcio (Einaudi, 17,00 euro), rimane il dubbio che anche per Magrelli valga l’ipotesi degli autori argentini. Ed è forse così, ma in un’ottica personale che parte «da qualche anno fa, dopo un’ennesima operazione, (allorché) ho smesso per sempre di giocare a pallone». Perché egli non

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solo dice: «io anche sono tifoso», ma ha pure alle spalle una lunga abitudine col calcio, fin da bambino, e nei 45 minuti del primo tempo e nei 45 minuti del secondo tempo (le brevi prose si susseguono non in pagine ma nei 90 minuti), egli ci riporta al sapore antico dei «maglioni che si appallottolavano uno sull’altro per delimitare lo spazio della porta»; al «gioco dei passaggi»; alla calce usata dai ragazzini per segnare il campo; agli struggenti pomeriggi domenicali «a fare due tiretti» col proprio figlio fino a che «la luce andava via, veniva il freddo, e allora, accaldati e tremanti ci infilavamo in un antico caffé». Magrelli in fondo parla di una perdita, come la scomparsa dei rumori, delle voci, dei respiri dei giocatori, quel campo che era nei versi di Sereni «una presenza familiare», un tempo eroico e lontano.


Fantascienza

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no dei temi più famosi della fantascienza e della letteratura fantastica è senza dubbio quella della «catastrofe», della «fine del mondo». La science fiction è ricchissima di opere del genere e ne ha descritte di tutti i tipi. Ora, come si è accennato su queste pagine in precedenti occasioni, sembra che il tema affascini sempre di più anche parecchi nostri scrittori non particolarmente «specializzati» in questo genere. È evidente che la descrizione della catastrofe italica (in fieri o già avvenuta) ne stuzzica l’immaginazione perché permette loro di sostenere alcune tesi, di fare alcune critiche. Insomma, non la catastrofe per il piacere di descrivere la catastrofe, ma come strumento per esporre un certo pensiero in positivo o in negativo. Ultimo della serie è Mauro Corona, l’ormai sessantenne scrittore-montanaro come viene definito, e che forse proprio per questo ha avuto il tempo di scrivere e pubblicare con Mondadori quindici libri: il sedicesimo ha come titolo La fine del mondo storto, e lo potremmo definire un apologo morale, una cruda fiaba per adulti che ci propone una vera propria utopia agreste. Infatti la premessa, proprio come nelle fiabe ha ben poco di verosimile, ma si accetta lo stesso «sospendendo temporaneamente l’incredulità» come ammoniva Coleridge: «Una mattina d’inverno, le disgrazie d’altronde capitano spesso d’inverno, il mondo si sveglia e scopre che non ci sono più petrolio, né gas, né carbone, né corrente elettrica», quindi nessun carburante e tutto si ferma all’improvviso. Ovviamente una premessa catastrofica che non ha una spiegazione logico-scientifica, perché tutto ciò - è chiaro - non può avvenire di punto in bianco, ma serve a Corona, direttamente o indirettamente, per giungere a certe conclusioni, per raccontarci la sua fiaba dell’orrore e trarne la sua morale (e le sue moralità).

MobyDICK

ai confini della realtà

U

Il libro è atipico e curioso: in realtà si tratta di una lunga descrizione sul filo della cronaca di quel che avviene nell’arco di dieci mesi, senza dialoghi, ma solo con la descrizioni degli eventi utilizzando uno stile singolare fatto di frasi brevi, concise, caratterizzate da una singolare mania enumerativa, di continue elencazioni, ma non mancano belle immagini (gli uomini come sassi levigati di un fiume, le stelle che cadono come mirtilli…). Che non stona si deve dire, a meno che l’autore non insista su certi concetti a lui fin troppo cari, il che però è abbastanza frequente: la ripetitività è da questo punto un suo limite, quello dei predicatori letterari. Mauro Corona è un acceso antimoderno (come molti nomi dell’ultimo secolo, anche alcuni cui forse non piacerebbe essere accostato) il quale ritiene che la civiltà industriale e il mondo delle macchine abbiano traviato l’uomo allontanandolo dalla Madre Terra. Le macchine sempre più sofisticate hanno eliminato il lavoro e la fatica fisica, reso l’uomo occidentale ben pasciuto e in quanto tale incapace di ben ragionare ma anche inca-

Morte

e rinascita del mondo storto di Gianfranco de Turris pace di manualità, eccetto che la vecchia generazione di contadini e montanari (già i giovani sono diversi e la satira del suo stesso paese di origine, Erto, nel romanzo diventato Ripido, lo prova). Sicché nel momento in cui la civiltà dei combustibili si trova a secco all’improvviso, essa crolla di schianto perché ogni cosa si blocca irrimediabilmente e ogni struttura sociale si disgrega: è la «morte bianca e nera» che uccide tre quarti dell’umanità in sei mesi a causa di un inverno che appare rigidissimo, tremendo, inesorabile, anche se, come si dirà a un certo momento, era in fondo un inverno

ganizzative crollano, la normale vita scompare e si pensa solo a scaldarsi e a mangiare. Un limite anche qui: Corona va troppo sulle generali e il collasso della rete sociale, delle comunicazioni, del commercio, delle professioni liberali, della struttura militare, religiosa e politica non si percepisce bene: ma forse per una favola «nera» quale è la sua, quel che lui scrive è sufficiente. La fine del mondo storto non è La morte di megalopoli di Roberto Vacca, ingegnere informatico... La tesi di Corona è che l’uomo tecnologizzato ha delegato tutto alle macchine e di fronte a una emergenza

Un improvviso, definitivo black out energetico uccide, nell’arco di dieci mesi, i tre quarti di un’umanità schiava delle macchine. Solo i più resistenti sopravviveranno, per poi ridare vita, però, ai vizi di sempre. È quanto immagina Mauro Corona nella sua nuova favola “nera” normale, come tanti altri, e solo la nuova catastrofica situazione lo aveva fatto percepire rigidissimo. Il mondo si trova quindi, senza benzina, gasolio, metano, carbone a dover far fronte al freddo e alla fame che diventano i problemi assoluti da risolvere per non morire. Si distrugge letteralmente tutto ciò che esiste di ligneo per tenere accesi sempre dei falò, e si mangia letteralmente tutto - giungendo sino al cannibalismo - pur di sopravvivere. In quattro o cinque mesi di freddo in questo modo la società si azzera, le strutture or-

simile di certo non sopravviverebbe perché, con la scomparsa della tecnologia, non saprebbe usare le proprie sole mani per andare avanti. E che rinascerebbe fisicamente, socialmente, psicologicamente, forse anche spiritualmente, se dovesse affrontare una emergenza planetaria del genere e ne uscisse fuori pur se decimato attraverso la durissima selezione darwiniana dei più resistenti e più adatti. L’idea è forte, ma non priva di congeniali ingenuità: non solo il modo in cui spiega come anche le centrali nucleari, che non necessitano di comuni

carburanti, si spegnerebbero (e si potrebbe dire: se ce ne fossero state di più, il peggio poteva essere evitato?), ma anche quando l’autore sostiene la tesi che di fronte a una emergenza di tal fatta non emergerebbe l’homo homini lupus, bensì al contrario la solidarietà umana in modo tale che, alla fine dell’inverno, la residua umanità fa nascere una società livellata, di eguali, senza capi né padroni, ma completamente solidale e pacifica. I nuovi valori, in precedenza negletti o sbeffeggiati sono l’essenzialità, la semplicità, la cautela, la pazienza, l’amore per il silenzio e la conversazione. Non esistevano quasi più al tempo delle «vacche obese», delle pance piene e della delega ai macchinari della vita umana. Evidentemente Mauro Corona vive così ed è forse per questo che voleva partecipare a L’Isola dei famosi, per far vedere come se la sarebbe cavata rispetto agli altri concorrenti; ed è forse anche per questo che non può far a meno di sfottere gli ecologisti, gli animalisti e gli ambientalisti demagogici o di maniera che, a pancia piena, se la prendono per un tordo in gabbia, lui che fa l’apologia della caccia anche con mezzi oggi proibiti. E forse si capisce anche perché prenda in giro un po’giornalisti e critici letterari e la stessa sua casa editrice: l’edificio mondadoriano di Segrate trasformato in grande stalla, in caseificio e i prati intorno in depositi di letame!

Quella di Corona si potrebbe definire una utopia bucolica nata da una catastrofe generale: è nata appunto perché, a differenza del passato, si è trattato di una catastrofe planetaria che ha coinvolto tutta l’umanità e non una parte limitata. Però, come tutte le utopie non può esistere (o come l’Età dell’Oro non può ritornare proprio perché mito delle origini) e Corona, da montanaro realista che conosce oltre agli animali e le foreste anche gli uomini lo sa bene: e così passati l’inverno e la paura rinasce «la creatura perennemente insoddisfatta che non sa vivere in pace... vuole qualcosa di più. Comincia a dare spinta all’inizio di un’altra fine. E non se ne rende conto, la lezione non è servita». Da un piccolo furto parte una valanga inarrestabile: nomina o autonomina di capi e di guardie prima aboliti; ricominciano risse e beghe; rinascono le informazioni e i partiti, le fazioni, le leggi e le pene, il desiderio di accaparramento e di conquista: «ecco tornare la vecchia vita!». Conclude sconsolato Corona: «L’uomo sarà l’unico essere vivente ad autoestinguersi per imbecillità. Amen». Insomma, per lui ci vuole un catastrofico trauma psicofisico, uno shock materiale e sociale, per «spazzare l’uomo artificiale e riportare l’uomo naturale» e quindi «vivere in armonia con se stessi e la natura». Ma l’uomo è «faustiano» come diceva Spengler, o «un incauto, infelice e insoddisfatto coglione» come dice Corona, e ricomincerà sempre daccapo con i suoi difetti che qualche volta però, checché ne pensi il nostro apocalittico scrittore-montanaro, qualche volta sono anche pregi.


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