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mobydick
SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
MR.WENDERS
Il nuovo film del regista tedesco
BASTA CON LE METAFORE! di Anselma Dell’Olio ei primi due decenni d’attività da autore cinematografico, Wim Wendelusione dei critici è stata corale, salvo eccezioni rare. Alcuni importanti hanno ders ha girato film che gli hanno fatto guadagnare lo stemma di pietosamente glissato su tutta la faccenda nei loro servizi dalla Costa Az“Palermo Maestro: Alice nella città (1973), Falso movimento (1975), zurra, facilitati dalla presentazione del film poco prima dell’annuncio Shooting” dei vincitori. Per la verità ci sono state voci contrastanti sul valore L’amico americano (1977) lo hanno incoronato «artista del cinema di Wenders sin dall’inizio, minoritarie ma gelidadi respiro internazionale» (com’è autodefinito nel pressbook è la prova di un blocco mente sarcastiche. Sono quei critici e cinefili allergici al del nuovo film). I premi dei più importanti festival moncreativo. E dimostra timbro da Anima Bella, dolente e «poetica» sempre diali vinti dai film girati nel decennio successivo aleggiante o in agguato nell’opera wendersiana, hanno completato l’opera di canonizzazione del che la confezione è meno importante lo stesso tratto che invece incantava i suoi amregista tedesco come mammasantissima della dei contenuti. Ma l’opera di canonizzazione miratori, colpiti al cuore da un maschio teutonico cinefilia osservante e ortodossa. Dagli anni Nodi Wim-la-star continua, anche tanto candidamente sensibile e aperto a temi considevanta in poi ogni nuova opera della star del Nuovo Cirati «femminei»: amori, angosce, angeli. Wenders, nato a nema Tedesco (Rainer Werner Fassbinder,Werner Herzog e se la “zampata d’autore” lui i capifila) è occasione per fasciarsi la testa e rimpiangere il Düsseldorf nel 1945, è la riprova della regola di Quentin Taransi limita alla colonna tino sulla poeta intellettuale di una volta, con il cuore tenero e qualcosa da didurata d’eccellenza artistica per un regista di talento. sonora re. Dispiace confermare che Palermo Shooting, uscito ieri in Italia, non continua a pagina 2 inverte la tendenza. Presentato al Festival di Cannes la scorsa primavera, la
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9 771827 881301
81129
ISSN 1827-8817
Parola chiave Benessere di Sergio Belardinelli Nel sogno dei Cure domina l’electric guitar di Stefano Bianchi
NELLE PAGINE DI POESIA
Il cigno esule di Baudelaire di Roberto Mussapi
Il nuovo romanzo di Margaret Mazzantini di Maria Pia Ammirati Caravaggio, Narciso e il Supermanager di Marco Vallora
Addio Harry Potter arrivano i Vampiri di Pier Mario Fasanotti
Mr. Wenders, basta con le
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segue dalla prima L’autore di Pulp Fiction, durante gli anni d’apprendistato in cui faceva il commesso cinefago in un videonoleggio, si è documentato sull’opera omnia d’innumerevoli cineasti alti e bassi, e sostiene che gli autori danno il meglio nei primi vent’anni di carriera; dopo la discesa è ineluttabile con rare eccezioni (Gosford Park del 2001 e Radio America del 2006 di Robert Altman, 50 anni di carriera e 35 film). Sarebbe meglio smettere a quel punto e Tarantino promette di farlo. Eppure uno come Wenders potrebbe con profitto dedicarsi a fare documentari come Buena Vista Social Club (1998), una delle poche opere degne della sua reputazione girate dopo gli anni Ottanta, la sua epoca d’oro. Sono quelli gli anni del Leone d’oro a Venezia per Lo stato delle cose e della Palma d’oro per la migliore regia a Cannes per Il cielo sopra Berlino. I premi vinti dopo, per film minori quali Così lontano così vicino (Premio della Giuria a Cannes, 1993) o il labilissimo Million Dollar Hotel (Orso d’Argento a Berlino, 2000) sono da considerare degli honoris causa in memoria di opere migliori.
Palermo Shooting già dal titolo palesa fin troppo il diminuendo di un artista in blocco creativo. Persino chi non lo ha mai apprezzato troppo prova dispiacere nel vederlo sbeffeggiato. (Ascoltata questa riflessione, un critico che per ovvie ragioni resterà anonimo ha detto: «Calma: sull’onda delle pernacchie a Cannes, è arrivato l’annuncio in pompa che Wenders era stato nominato presidente della giuria della Mostra di Venezia. Lo salvano sempre».) Si diceva che già il titolo scoraggia. Shooting in inglese ha un doppio significato; vuol dire sia sparatoria, sia riprese o servizio fotografico. Riferito a Palermo (città in cui il protagonista Finn, celebre e ricco fotografo di mezz’età, decide di andare per elaborare il suo scoramento artistico ed esistenziale, fotografando tutto quello che gli capita a tiro) per evocare guerre di mafia, l’ammicco è fin troppo chia-
ro: Too clever by half, come dicono i sempre calzanti inglesi. È vero che c’è una specie di sparatoria a un certo punto. Non viene sparata una pallottola ma scoccata una freccia, ed è frutto di fantasia o di allucinazione: Cupido colpisce ancora. Più single che double entendre. I film di Wenders hanno, come s’è detto, poca trama, e comprendono molti campi lunghi e lunghe scene senza dialogo. Sono dei viaggi-metafora che simboleggiano la ricerca di qualcosa dentro di sé, ma mai così esplicitamente come in questo film. Almeno in Alice nella città a un reporter perfetto estraneo viene affidata (dalla madre! altri tempi) una bambina da portare alla nonna. Segno che il viaggio è simbolico: Alice ha come unico indizio una foto della porta di casa della nonna, senza numero civico e senza persone in campo. In Palermo nemmeno questo piccolo sforzo intellettivo è richiesto per «leggere» il film: Mr. Wenders ci sfinisce di spieghe e letteralità. Persino quando entra in campo La Morte, incappucciata e con la faccia inquietante di Dennis Hopper, e va bene, ma dipinta di bianco come una geisha, tante volte non riconoscessimo Terminator. Se il regista gli avesse messo in mano una falce, non potremmo sentirci più infantilizzati. Come sono lontani i bei tempi di L’amico americano, tratto dal romanzo Ripley’s Game della geniale orchessa Patricia Highsmith. Si reggono meglio i vezzi autoriali se c’è un bel racconto strutturato sotto. In quel film c’era Hopper, divinizzato dal successo di Easy Rider, film-chevet del tedesco, e Nicholas Ray, cineasta di Hollywood degli anni Cinquanta e Sessanta e cocco dei cinefili europei, che ha girato film culto come Gioventù bruciata con James Dean, e al quale Wenders ha dedicato un docudrama. Nel nuovo film ci sono non solo Hopper, ma pure il musicista di culto Lou Reed, recidivo anche lui come comparsa di Wenders, e il protagonista Finn è il cantante rock Campino, leader del gruppo punk Die Toten Hosen, rinomato tra gli aficionados del genere. Con la musica si apre una parentesi sempre positiva dei film di Wenders: le colonne sonore. Perdoniamolo per l’accorato grido urbi et orbi: «Il rock mi ha
metafore!
salvato la vita», e concentriamoci sul fatto che i suoi film, discussi o riusciti, hanno una partitura da sballo che è sempre il non plus ultra del cool, del hip, insomma la crema della musica pop colta e raffinata di quel momento. Le tue credenziali musicali sono lacunose o non aggiornate? Procurati le compilation dei film di Wenders e mettiti in pari. Con spesa e sforzo mnemonico minimi, puoi fare una figura splendida di fine intenditore.
Il maestro di Düsseldorf ha i birilli autoriali ben allineati: comprimari di culto, musica fighissima, fotografia firmata, inquadrature pittoriche, trame esili, temi portentosi. La Morte è rappresentata da Hopper travestito da Halloween e da uno spettrale Lou Reed, mentre La Vita irrompe sulla scena con il pancione di Milla Jovovich che pare, più che di un bambino, incinta di se stessa, per scippare una boutade ad Aldo Grasso. (La Giovanna d’Arco di Luc Besson era la protagonista di The Million Dollar Hotel di Wenders). Scontento degli scatti in Germania, Finn le dà appuntamento a Palermo dove rifanno lo shoot, con tronfia soddisfazione di tutti. Poteva mancare l’Amore salvifico? La freccia di Cupido arriva con l’incolpevole Giovanna Mezzogiorno, costretta nei panni di una restauratrice, prima che d’affreschi palermitani, dell’anima tormentata di Finn. (Il film intero è da segnalare alla rubrica del New Yorker: Block that Metaphor!) Wenders ha un curriculum da manuale: studi di medicina e filosofia, interrotti per diventare pittore a Parigi. Tenta l’esame per la scuola di cinema nazionale francese; bocciato, diventa apprendista incisore nello studio di un artista americano e vede fino a cinque film al giorno.Torna a casa, diventa critico cinematografico per giornali come Der Spiegel e FilmKritic e s’iscrive alla scuola di cinema tedesca, lodato per il film di diploma. Al quarto lungometraggio sfonda. Si consiglia la visione di Palermo Shooting, a dimostrazione che la preparazione tecnico-artistica è meno importante di quello che si ha da dire.
PALERMO SHOOTING GENERE DRAMMATICO
REGIA WIM WENDERS
DURATA 124 MINUTI
INTERPRETI CAMPINO, GIOVANNA MEZZOGIORNO, DENNIS HOPPER, MILLA JOVOVICH, OLIVIA ASIEDU-POKU, LETIZIA BATTAGLIA
PRODUZIONE GERMANIA 2008 DISTRIBUZIONE BIM
In alto e in basso alcune scene del film di Wim Wenders
MOBY DICK e di cronach
di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa a cura di Gloria Piccioni
Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento)
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MobyDICK
parola chiave
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BENESSERE tar bene, avere un certo grado di benessere costituisce da sempre una delle aspirazioni più comuni tra gli uomini. Tuttavia non sempre sono chiari i criteri in base ai quali misuriamo questo benessere. Fino a ieri, ad esempio, il semplice aumento del salario di una persona o del prodotto interno lordo di un Paese venivano interpretati quasi automaticamente come un aumento del loro rispettivo «benessere». Ma oggi ci rendiamo conto che questo criterio economicistico con funziona più. Se è vero infatti, come sapeva già Aristotele, che «senza il necessario», diciamo pure senza crescita economica, «è impossibile sia vivere sia vivere bene», è altrettanto vero che la semplice crescita economica, lungi dall’assicurare una vita migliore, si accompagna spesso con clamorose ingiustizie tra i popoli e tra le generazioni, con pericolosi sperperi delle risorse ambientali, con la crescita dei livelli di povertà e di frustrazione individuale e sociale, nonché con la violazione dei diritti umani più elementari. Di conseguenza, sia all’interno dei paesi sviluppati, sia all’interno di quelli sottosviluppati o in via di sviluppo, l’uguaglianza, se così si può dire, di quantità e qualità (più risorse materiali = più benessere) che stava alla base del suddetto criterio economicistico vale ormai soltanto al di sotto dei livelli di sussistenza. Soltanto laddove si muore di fame o si vive in stato di estrema povertà, un pezzo di pane o un lavoro precario e mal retribuito possono rappresentare automaticamente un aumento del benessere personale dell’individuo. Ma una volta superata questa situazione di indigenza, l’automatismo non vale più e, accanto al reddito, ai consumi, alla salute, alle aspettative di vita, all’istruzione, quali criteri di «benessere» o di «qualità della vita», intervengono altri fattori: la possibilità di scelta delle persone, un ambiente naturale e sociale soddisfacente, la tutela dei diritti umani e via di seguito. Per dirla con le parole dell’Undp (United Nations Development Programme), l’agenzia delle Nazioni Unite per lo sviluppo, «lo sviluppo umano ha due volti. Uno, costituito dalla formazione delle capacità umane basilari, come il miglioramento della salute, della conoscenza, delle abilità. L’altro è l’uso che le persone fanno delle loro capacità - per fini produttivi, per il tempo libero o per essere attivi nelle relazioni culturali, sociali o politiche… Il reddito rappresenta solo un’opzione che le persone desiderano avere, anche se un’opzione importante. Ma non è il totale delle loro vite. Il proposito dello sviluppo è di incrementare le scelte umane, non solo il reddito».
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Questa nuova posizione che emerge dai documenti dell’Onu sullo «sviluppo umano» mi sembra importante proprio in considerazione della prospettiva economicistica che per tanti anni, anche in quella sede, è stata dominante. Oggi incomincia a essere chiaro ovunque che il reddito non è «il totale» delle nostre vite. Si potrebbe avere infatti un discreto grado di benessere o addirittura una perce-
Abbandonata la prospettiva economicista che per tanti anni ha dominato, è ormai del tutto evidente che il proposito dello sviluppo è di incrementare le scelte umane, non solo il reddito. Perché l’accesso al mercato non basta per stare veramente “bene”
La sostanza della vita di Sergio Belardinelli
Sempre più decisiva è la variabile cultura, quel qualcosa cioè che al di là del titolo di studio o dei beni materiali che si possiedono, sia capace di dare un senso e uno stile soddisfacente all’esistenza. Tanto più in tempi di recessione economica… zione molto soddisfacente della «qualità» della propria vita anche in presenza di redditi relativamente bassi, se, poniamo, al possesso di gioielli e di automobili di lusso, si preferisce un’auto di piccola cilindrata e magari più soldi da destinare all’acquisto di libri o alla visita di musei; se, andando all’estero, anziché alloggiare in un albergo a cinque stelle, si preferisce una camera presso una famiglia per avere magari l’opportunità di conoscere meglio la gente del posto e perfezionare la conoscenza della lingua. Co-
sì come si potrebbe avere un pessimo grado di benessere anche con redditi elevati, se, per esempio, l’unica «capacità» che ci soddisfa è quella di comperare e consumare. Per stare insomma veramente «bene» il semplice accesso al mercato non basta; ci vuole anche qualcos’altro: ci vuole cultura; ci vuole un ambiente sociale e naturale soddisfacente; ci vogliono possibilità e capacità di autodeterminazione, una politica all’altezza, e si potrebbe continuare. Dietro questa nuova concezione del benessere umano,
che guarda in particolare a quelle che Dahrendorf definirebbe le «chances di vita» di cui un individuo, un gruppo di individui o un Paese dispongono, sta prevalentemente il cosiddetto «approccio delle capacità», che ha nel premio Nobel Amartya Sen uno dei principali ispiratori e che considera il benessere, non più in quanto welfare, con riguardo cioè alle prestazioni di cui una persona può beneficiare, ma in quanto well-being, con riguardo cioè alle concrete possibilità che le persone hanno di convertire alcuni beni, alcune risorse, le stesse prestazioni che ricevono dallo Stato in una qualità di vita soddisfacente.
Contrariamente a quanto tanta letteratura sembra far pensare, siamo entrati in un’epoca, l’epoca della globalizzazione, la quale, più che l’omologazione del mondo, sta mettendo in risalto e ancora di più lo farà in futuro, a tutti i livelli, quindi anche a livello di ricerca del benessere, le differenze. Ma tutto ciò, la stessa prevalenza della dimensione individuale delle «capacità», non significa che debbano necessariamente prevalere atteggiamenti di tipo individualistico o egoistico. Ritengo anzi che il benessere individuale sarà sempre più legato alla consapevolezza, alla creatività, alla solidarietà, diciamo pure, ai «capitali sociali», alla cultura «civile», che le singole persone e i singoli gruppi saranno in grado di mobilitare, specialmente se consideriamo la crisi del modello di Stato sociale, sul quale, almeno fino a ieri, abbiamo fatto conto per compensare le differenze più vistose in termini di reddito, di salute, d’istruzione, ecc. Maggiore solidarietà e qualità delle relazioni sociali; maggiore responsabilità nei confronti di se stessi e degli altri; maggiore disponibilità a fare da soli, senza aspettare che provvedano le istituzioni statali; maggiore compatibilità tra impegni professionali e vita familiare; maggiore attenzione agli aspetti, diciamo così, espressivi del lavoro, più che a quelli strettamente materialistico-economici; maggiore attenzione alla qualità (in senso molto largo e critico) dei consumi e personalizzazione degli stessi; maggiore attenzione al proprio corpo, all’ambiente, all’alimentazione; tutti questi aspetti, e altri ancora, messi insieme, danno senz’altro l’idea di che cosa dovrebbe dare sostanza al nostro benessere, alla qualità della nostra vita. Dovremo puntare insomma su una ricerca del benessere sempre più individualizzata, certo, ma non anonima, né priva di norme, bensì aperta, critica, creativa e magari anche più solidale, più interessata al benessere degli altri. Rilievo crescente nella determinazione del benessere acquisterà la variabile sicurezza, in senso molto lato, non soltanto economico. Ma soprattutto, come ho già accennato, diventerà sempre più decisiva la variabile cultura, qualcosa cioè che, al di là del titolo di studio o dei beni materiali che uno possiede, sia capace di dare un senso e uno stile soddisfacente alle nostre vite. A maggior ragione, se guardiamo la recessione economica che ci sta venendo addosso.
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cd
musica Nel sogno dei Cure MobyDICK
iù volte annunciato, più volte rimandato. Non c’è da stupirsi: Robert Smith, 49 anni stropicciati addosso con enfasi dark (chioma corvina e stopposa, occhi bistrati, un’ombra di rossetto sbavato), ogni volta che c’è da incidere un disco ci pensa e ci ripensa; sorride beato e si fa prendere dal panico; s’arrende al «blocco dello scrittore» e poi s’immagina un album solista che non uscirà mai. I suoi Cure, intanto, lo sopportano facendosi trattare peggio d’un bagaglio a mano. Tanto lo sanno che Mr. Smith non è un folletto cattivo. Un po’ lunatico, semmai. Da trent’anni. Da quando i Cure disossarono il punk ridisegnandolo nichilista e un po’ decadente. Era l’epoca del pessimismo cosmico e di Killing An Arab, il pezzo-capolavoro che si ispirava al ro-
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partire dall’ouverture di Underneath The Stars: oscura quanto basta, inaspettatamente «pinkfloydiana». Da qui in avanti, anche il più esigente dei fan potrà riconoscere la doppia identità del sempre talentuoso Smith: luciferina e rilassata, «gotica» e da «cuore di panna». In un disco dominato dal principio alla fine dalla chitarra elettrica di Porl Thompson, l’ineffabile uomo nero sguazza che è un piacere nel rock sulfureo di The Real Snow White e fra i rumori e gli assoli «hendrixiani» di Switch; urla a squarciagola The Scream e fa il lugubre in It’s Over. Poi, mostrando la faccia «pop», scuote il ritmo di The Only One e Freakshow, s’abbandona alla (quasi) paradisiaca melodia di Sirensong, cavalca il ritmo di The Hungry e ripesca quel non so che di anni Ottanta nella briosità
dove domina l’electric guitar di Stefano Bianchi manzo Lo straniero di Albert Camus; dell’implosivo, spettrale album Seventeen Seconds; dell’accattivante pop di Let’s Go To Bed e di Close To Me, soave filastrocca per bimbi viziati. 4:13 Dream, quattro anni dopo l’insulso The Cure (Robert Smith aveva la luna di traverso), è il tredicesimo disco in studio della band inglese che fino al 2006 ha venduto 28 milioni di dischi. Assecon-
dando i bizzarri «ghiribizzi» del leader, sarebbe dovuto uscire il 13 settembre come epilogo di una sequenza di 4 singoli, ognuno pubblicato il 13 d’ogni mese a partire da maggio. Un bel sogno (per citare il titolo del disco), ma anche un bel rompicapo.Tant’è che la casa discografica ha rotto il «ciclo», ritardato il miraggio onirico e metaforicamente spedito in autoanalisi quel cervellotico
d’uno Smith. Che sarà anche pieno di difetti (come l’acidulo modo di cantare che non piace proprio a tutti), ma bisogna capirlo. Siccome The Cure è un consolidato marchio di garanzia (come U2 e Depeche Mode), guai a prendere per i fondelli gli appassionati con un altro passo falso. E difatti, al di là delle alchimìe da marketing, i 13 pezzi di 4:13 Dream non deludono le aspettative a
in libreria
mondo
sghemba e visionaria di Sleep When I’m Dead. Cose egregie, per il signor Smith. Che un giorno rivelò che si sarebbe suicidato prima di compiere 25 anni. Per poi correggersi: «Mi sento più allegro. La mia peggiore abitudine è di bere troppa birra». The Cure, 4:13 Dream, Geffen/Universal, 20,90 euro
riviste
LA SINCERITÀ DI JOHNNY
GWEN STEFANI RITORNA AL ROCK
JANIS, LA PIÙ GRANDE URLATRICE
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olitamente le biografie autorizzate si contraddistinguono per la loro reticenza sui punti imbarazzanti della vita del protagonista, per quella nefasta tendenza a glissare proprio dove la curiosità del lettore vorrebbe soffermarsi. Tutto questo non accade in Johnny Cash di Steve Turner (Kowalski editore, 24,00 euro), fenomenale racconto di cinquant’anni di musica america-
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allito, almeno in parte, l’attacco per togliere a Madonna lo scettro di regina del pop, Gwen Stefani ha deciso di tornare al rock e al suo vecchio gruppo, i No Doubt. Le attività della band erano state congelate nel 2001, dopo l’uscita dell’album Rock Steady, e pochi ormai pronosticavano un loro ritorno sulle scene. Invece, nel corso di una conversazione con i fan sul loro sito in-
iporta il critico musicale Eddie Cilìa che una sera di giugno del 1966 alcuni poliziotti si presentarono all’ingresso della sala dove stavano provando i Big Brothers & the Holding Company, spiegando con facce serie di essere stati chiamati «perché c’è una donna che urla». È con questo divertente incipit che comincia la storia di Janis Joplin, raccontata in una lunga retro-
Così Cash si è raccontato a Steve Turner. Il risultato è una biografia autorizzata senza reticenze
Un imminente tour mondiale e un nuovo disco già in lavorazione. I No Doubt si rimettono al lavoro
Dagli esordi a “Pearl”: tutta la carriera della Joplin ripercorsa dal critico Eddie Cilìa su “Extra”
na vissuta con gli occhi di un uomo che ne ha sperimentato, e spesso anticipato, tutte le trasformazioni. Cash racconta a Turner, poco prima di morire nel 2003, di una vita cominciata nel peggiore dei modi nelle campagne dell’Arkansas durante la Grande Depressione e proseguita in maniera inattesa con la straordinaria popolarità raggiunta a partire dagli anni Cinquanta, quando tra i suoi compagni d’etichetta c’era anche un diciannovenne Elvis Presley. Cash non nasconde nulla a Turner: la depressione, l’uso delle droghe, i tradimenti e l’offuscamento creativo, fino alla rinascita artistica degli anni Novanta grazie al sodalizio con Rick Rubin.
ternet, i membri del gruppo hanno annunciato un imminente tour mondiale, che anticiperà l’uscita del nuovo disco, le cui registrazioni sono già cominciate ma verranno completate dopo la serie di concerti. «Penso che andare in tour ci ispirerà nella scrittura», ha spiegato la Stefani. Secondo il bassista Tony Kanal «gli show dal vivo renderanno le session in studio più divertenti». Forse il gruppo sta cercando un tono musicale più duro, anche per allontanarsi dalla direzione artistica portata dal nuovo produttore Mike Spent, già alla consolle per il primo album solista di Gwen Stefani Love Angel Music Babe.
spettiva sulle pagine del trimestrale Extra, da poco in edicola. Cilìa ripercorra tutta la carriera della cantante, dal suo arrivo in California alle sedute di registrazione di Pearl, il suo capolavoro solista rimasto incompiuto. Una carriera interrotta a causa di un’overdose, ma che non le ha impedito di essere ricordata a quasi quarant’anni dalla morte. Così la omaggia Cilìa: «Janis Joplin non fu soltanto un prototipo ma per lungo tempo un esemplare unico di qualcosa di inaudito: una cantante bianca di blues e di rock’n’roll. Nel mondo della musica che mise a soqquadro era inconcepibile che la ragazza bruttina della porta accanto potesse assurgere allo stardom».
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MobyDICK
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zapping
Il requiem dei Guns’n Roses PER LO SPIRITO ROCK di Bruno Giurato bbiamo religiosamente ascoltato l’anteprima di Chinese Democracy, nuovo album dei Guns ’n Roses. E poi, da bravi ragazzi che di solito non siamo, l’abbiamo comprato su iTunes. Questo disco costato una decina d’anni di lavoro e tredici milioni di dollari ce lo terremo in archivio, se non altro per il suo valore documentario. È un supercolossal, è il Titanic della musica. Questo disco, più delle superproduzioni dei Pink Floyd, è il manifesto del barock ’n roll. È un trionfo di figure scolpite e pittate millimetro per millimetro, a colpi di sovraincisioni, doppiaggi, lavoro di software, postproduzione, taglia, copia e incolla. I tecnici si saranno esauriti l’anima non meno dei musicisti. Ed è anche pieno di brani sorprendenti. Ogni secondo di musica contiene una qualche trovata compositiva, strumentale o di suono. È inoltre un disco freddo, isterico, intollerante. La mistica rockettara in fase hollywoodiana trionfa nel particolare e nell’imballaggio rutilante, tutto è posa, perfino le chitarre più grezze. Per questo le canzoni sono ineseguibili dal vivo.Troppo complicato, troppo mediato. Non spenderemo un euro per il biglietto del concerto, anche perché il cantante e unico membro originale del gruppo, Axl Rose, senza tutta quella tecnologia intorno non ce la fa. E se ci trovassimo al campeggio d’estate e optassimo per la chitarra come mezzo di rimorchio (giurandole che è l’ultima la volta che la usiamo per così bassi fini) non suoneremmo mai a una signorina una delle canzoni di Chinese Democracy. Ci prenderebbe per isterici. E qui si arriva alla conclusione. Chinese Democracy è un eccitante monumento funebre allo spirito rock ’n roll.
A
teatro
Ravello al top nella guerra di Agostino di Enrica Rosso rendete una storia vera (ma così vera che supera di gran lunga la fantasia), un attore poliedrico e profondamente onesto, due giovani musicisti con differenti esperienze e molta passione e un regista attento e generoso. Miscelate con intelligenza e molta voglia di esserci e otterrete gli ottanta minuti di Agostino, tutti contro tutti. Ambientato nella periferia romana, ma si potrebbe trattare di una qualunque altra città, siamo in quei palazzoni terra di nessuno dove tutto può accadere. Il fattaccio che si dipana sotto ai nostri occhi riguarda la questione, primaria e urgentissima, da parte di certo signor Agostino e famiglia, di rientrare in possesso della casa da loro occupata e incautamente lasciata incustodita per assistere alla prima comunione del piccolo Lorenzo. Non potendo dimostrare di esserne i legittimi affittuari, essendo stati truffati dal bossetto locale che se ne è finto proprietario, la situazione risulterà essere piuttosto spinosa. Una volta insediati, i ladri di appartamento, non vorranno più saperne di andarsene, considerandola bottino di guerra; starà al povero Agostino ingegnarsi per offrire alla sua famiglia un tetto sotto cui Rolando Ravello dormire. Tutta la vicenda si sviluppa quindi sul pianerottolo di casa, preludio dei senza tetto, avamposto di una sopravvivenza ai limiti del possibile. Pochissimi elementi (a opera di Claudia Cosenza) connotano l’impianto scenico e ne delineano con assoluto, semplice rigore, le varie zone di azione: una gigantesca, invalicabile porta che troneggia alla destra del palco, una cattedra di antica memoria, una scala a libretto, alcuni oggetti di uso comune, la postazione dei musicisti. Un unico interprete, Rolando Ravello (recentemente vincitore del premio come miglior attore di fiction per la sua interpretazione di Marco Pantani nel Pirata) ci offre l’intera gamma dei personaggi, dando vita, con assoluta naturalezza a un teatrino in cui le varie personalità chiamate in causa dalla narrazione prendono corpo dinanzi a noi. Lo spettacolo è lui con il suo mettersi a disposizione della storia scritta in forma di diario del bim-
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bo comunicando. Lo fa con la grazia che solo alcuni attori hanno: calibratissimo, carismatico, onesto nelle intenzioni; dotato di tempi comici naturali, semplicemente è, non dimostra, non forza, si limita a esistere con pienezza e dare colore ai personaggi. In scena con lui, a contrappuntare questa storia di ordinaria ingiustizia, due musicisti di strepitosa bravura: Alessandro Mannarino e Houman Vaziri. Romano, febbricitante nella sua voglia di comunicare, Mannarino, onnivoro per scelta, traccia una sua via fatta di suoni e parole in cui sono riconoscibili vari generi musicali portati a nuova vi-
ta.Tutt’altra la storia di Vaziri, che vanta una solida formazione classica e la mette al servizio del suo talento. La scrittura di Massimiliano Bruno è netta e fluida, incisiva ma senza concessioni. Lorenzo Gioielli si riconferma regista sensibilissimo e intuitivo, sempre attento al ritmo interiore dei personaggi quanto a quello della scena. Uno dei pochi in grado di ricreare sul palco quella particolare temperatura che approfittando del solco aperto dalla risata veicola lo spettacolo direttamente al cuore. Le luci, come in un famoso film del Maestro Antonioni, cambiano colore a seconda del grado di cattiveria dell’io narrante.
Agostino, tutti contro tutti, regia di Lorenzo Gioielli, con Rolando Ravello, Teatro Ambra Jovinelli, fino al 7 dicembre; Info: 06-44340262 www.ambrajovinelli.com
jazz
Dai Chocolate Kiddies alla Sun Ra Arkestra
di Adriano Mazzoletti er apprezzare completamente la Sun Ra Arkestra che ha chiuso sabato scorso la terza settimana del Roma Jazz Festival, bisogna conoscere lo spettacolo nero, quello dei Chocolate Kiddies o delle varie edizioni di Plantation che negli anni Venti e Trenta calcavano i palcoscenici di mezzo mondo. Ma non solo. È necessario avere esperienza di etnomusicologia, di tutte le diverse forme del jazz e del grande repertorio della canzone bianca americana. Quando Dave Hotep esegue da fermo il doppio salto mortale, è immediato il riferimento ai Lindy Hoppers del Savoy Ballroom di New York, immortalati da H.C.Potter nel suo geniale film Helzapoppin o alle acrobazie di straordinari ballerini come Louis Douglas o Harry Flemming che il pubblico italiano ebbe la possibilità di ammirare negli anni Trenta. Quando poi
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l’intera sezione di sassofoni Sun Ra Arkestra guidata da quello straordinario sassofonista che è Marshall Allen si alza in piedi ed esegue un paio di chorus esprimendosi con uno swing straordinario, il ricordo va a Fletcher Henderson e ai suoi sassofonisti, Jerry Blake, Hilton Jefferson, Elmer Williams, Choo Berry. E, infatti, Sonny Blount cioè Sun Ra all’inizio di carriera collaborò come pianista e arrangiatore proprio con quell’orchestra. Infine quando Knoel Scott canta i versi della celebre East of ster. Ma a differenza di quella di Count the Sun and West of the Moon compo- Basie, ascoltata mercoledì 5 novembre sta nel 1935 da Brooks Bowman e subi- in apertura del Festival, questa, che fu to incisa per Decca da Bob Crosby, fra- di Sun Ra, non è una sbiadita fotocopia tello del più celebre Bing, il rapporto è dell’originale bensì un’orchestra viva, quello con la grande canzone america- brillante, energica condotta con mano na, sublimata da uno splendido Charles ferma da Marshall Allen che miracoloDavis le cui sonorità e stile ricordano, samente dimostra per vigore, intellialmeno in questa occasione, Ben Web- genza e capacità espressiva, metà dei
suoi ottantaquattro anni. Grande musica e grande spettacolo offerto dall’Arkestra, così come due giorni prima sono stati quelli offerti dell’Italian Instabile Orchestra formata da diciotto musicisti, di cui almeno quattordici leader di altrettante formazioni. Tutte grandi personalità del jazz italiano: da Gianluigi Trovesi, al geniale Pino Minafra, Umberto Petrin, Tiziano Tononi, Giancarlo Schiaffini, Carlo Actis Dato, Eugenio Colombo, Paolo Damiani che inaspettatamente ha cantato, con una voce che ricorda quella di Lucio Battisti, i versi di un motivo da lui scritto con parole di Stefano Benni. Il festival, dopo ventitre appuntamenti, terminerà domani mattina alle 11 alla Sala Petrassi con la Bern Touch Point Orchestra diretta da Enrico Pieranunzi.
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narrativa
libri
Margaret Mazzantini Ritorno a Sarajevo di Maria Pia Ammirati enuto al mondo è un romanzo poderoso. A sette anni dall’uscita di Non ti muovere Margaret Mazzantini affronta ancora grandi temi dell’esistenza: la nascita, la morte, la vita e la guerra, legati assieme da fili e vincoli tortuosi e districabili solo dopo un lungo percorso a ritroso. La ponderosità di questo romanzo non è solo dettata dalle sue 500 pagine, ma dalla consistenza della storia, che si allarga e si divincola da una geografia conosciuta e familiare, per arrivare a zone tormentate e violate nella recente storia europea. Il conflitto che ha lacerato l’ex Jugoslavia e la barbarie della guerra serbo-bosniaca degli anni Novanta raccontati dall’io-narrante, non semplice testimone della guerra ma una protagonista inconsapevolmente avvolta nei fatti e nella storia di Sarajevo. La Mazzantini è una scrittrice materica, prorompente e forte nella sua espressività sempre vigile a scoprire il nocciolo e la qualità delle cose che esplora, e come tutti i materici affronta i linguaggi col piglio espressionista di chi la realtà la legge attraverso le sue deformazioni (e brutture). Ha per questo una forza e una potenza visionaria abbastanza rara nel panorama narrativo e che, pur affrontando per lo più temi legati alla famiglia, paternità figliolanza e nascita, sa come arrivare al cuore della grandi questioni mettendo sempre a nudo l’esistente. È per questo che la sua scrittura è ruvida e dolorosa, è corporea e descrittiva senza cedere a descrizionismo e orpello. Si direbbe che pur essendo una scrittura minuziosa e precisa nell’affresco, è scarna ed essenziale fino all’osso. Come tutti i suoi romanzi, anche quest’ultimo ha un potere ipnotico sul lettore e un forte impatto emozionale, in più diremmo,
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con un’orchestrazione nel congegno romanzesco più raffinata quando si tratta di rivelare gli improvvisi colpi di scena. Di questi almeno due sono veramente fondamentali per la storia e per arrivare a una verità scomoda ma definitiva sul mondo: entrambi ruotano sull’identità del figlio di Gemma, la protagonista, entrambi sono lame affilate che penetrato nel profondo. Senza scoprire, perché è un romanzo a cui va lasciato il gusto dello svelamento per gradi, è utile riassumere per grossi ceppi la storia. Venuto al mondo, anche se narra la vita di Gemma, è la storia di Pietro, il figlio, che scopriremo sia dalle prime battute essere l’identico adolescente di tanti, addormentato nel suo letto oramai troppo piccolo per contenerlo, con accanto la sua chitarra e la sua bella stanza romana nella penombra mattutina. Attorno a Pietro, ruotano Gemma e il padre Giuliano, si aggirano nella casa nell’ora del risveglio domenicale quando il telefono squilla e porta, dentro la calma della routine familiare, un soffio di incertezza e di freddo. È un vecchio amico di Gemma che chiama da Sarajevo, il bosniaco Gojko, conosciuto 24 anni prima durante i giochi olimpici invernali. Lì Gemma ha conosciuto Diego il vero padre di Pietro. Con Pietro ritorna a Sarajevo per riportare il figlio nel luogo dove era nato 16 anni prima e dove il padre era morto 16 anni prima. Il romanzo, che è una
continua emersione dei ricordi di Gemma, attraversa la guerra e la sua carneficina senza risparmiare l’orrore sul corpo delle donne e dei bambini (la pagina sconcertante della pianificazione degli stupri etnici), ma è anche la storia di una conciliazione tra la nascita e la morte, Pietro è nato da pochi giorni quando il padre Diego muore: «Curo il bambino senza vero amore, come se fosse una macchina, metto benzina, la tengo pulita, la metto in garage nella culla». Fra le parti più commoventi del libro, il rapporto di Gemma col padre Armando, la trasformazione non preordi-
nata di un uomo in nonno, ma soprattutto di un padre che deve proteggere la figlia, e il nipotino, dall’oscura minaccia della disperazione: «Mio padre non mi lascia più sola. Al mattino credo che arrivi molto prima di quando suona il citofono. Fa giri la mercato, porta a spasso il cane qui sotto. In realtà non ce la fa a staccarsi. Forse la notte nemmeno dorme, sogna il bambino… resto a guardare papà che allatta e singhiozza e sporca il bambino di pianto». È a questo punto che il titolo di questo romanzo si rivela con prepotenza nella sua essenza di verità, venire al mondo è sempre un atto complicato e la parte più semplice sta solo nell’enunciato del referto ospedaliero, venuto al mondo per l’appunto.
Margaret Mazzantini, Venuto al mondo, Mondadori, 529 pagine, 20,00 euro
riletture
Il verum-factum di Vico secondo Cacciari di Giancristiano Desiderio etafisica e Metodo: con questo titolo la Bompiani riunisce nella collana «Il pensiero occidentale» i due grandi testi della giovinezza di Giambattista Vico, il De nostri temporis studiorum ratione e il De antiquissima Italorum sapientia con testo latino a fronte nell’edizione classica del 1914 a cura di Giovanni Gentile e Fausto Nicolini. Massimo Cacciari firma la Postfazione. Affascinato dalla «storia ideal eterna»? Sì, e per un motivo che possiamo riassumere così: la «storia ideal eterna» non è una «filosofia della storia» alla maniera di Hegel e confuta ogni visione progressista delle vicende umane. «Ciò che certamente occorre affermare - scrive Cacciari - è che
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una visione “progressista” della storia è la più infondata delle illusioni». La rilettura di Cacciari è interessante. La filosofia vichiana ha davvero la capacità di cambiare la visione delle cose. Non sempre Vico ha avuto lettori e interpreti all’altezza del suo genio. Ma chi lo ha letto e lo ha inteso non lo ha potuto più ignorare, a tal punto che la sua visione delle cose umane è cambiata. Questo vale per Jules Michelet: «Non ho avuto altro maestro che Vico - scrisse lo storico francese -, il mio libro e il mio insegnamento discendono entrambi dal suo principio della forza vitale, dell’umanità che crea se stessa». Ma vale anche per Croce, Gentile, Nicolini, Berlin. Il principio vichiano verum ipsum factum nella sua semplicità è rivoluzionario: l’uomo conosce ciò che fa, la storia ha la ragion d’es-
sere nella stessa esperienza umana. Ma l’esperienza umana, per dirla con Cacciari, non può essere un’esperienza «dell’inizio»: «L’ordine delle idee procedente secondo l’ordine delle cose non giunge al suo fondamento». Prima dei filosofi le leggi e prima delle leggi la lingua e prima della lingua la non-lingua. A un certo punto vengono a mancare le parole. L’etimologia delle parole, la loro radice terrestre, l’anamnesi platonica, «sprofonda oltre ogni filologicamente-filosoficamente accertabile». Le nozze di filologia e filosofia rivelano che ogni origine certa si affaccia all’incertissimo, ogni elemento noto contiene in sé l’ignoto. Ma è proprio questa «incertezza» a restituirci l’importanza della filosofia vichiana. Cacciari si esprime così: «Dio fa il mondo attraverso il suo
Logos, ma il suo Logos non è fatto al modo del mondo. Il verum-factum del mondo non si adegua alla verità del Logos divino». In vero, suona un po’ complicato. Allora diciamolo con le parole di Isaiah Berlin: «Vico è il padre del concetto del comprendere e dello storicismo antropologico» (di questo straordinario autore di leggano le molte cose vichiane sparse nei suoi libri editi in Italia da Adelphi, oltre al classico ma introvabile Vico ed Herder edito da Armando). Vico è il papà del pluralismo culturale e una bussola per orientarci nel nostro «pluralissimo» mondo. E nel futuro provvidenzialmente aperto in cui si può vivere nella civiltà o ripiombare nella barbarie, secondo la «responsabilità dell’uomo che fa la storia».
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narrativa/2
La morte di Morelle per spiegare l’America di Filippo Maria Battaglia a mia vita non vale il lombo di un maiale, dice Virgil a inizio del romanzo, e la confessione scivola in un lungo monologo che colpisce per intensità e ritmo narrativo. La lingua di Canaan, tradotto in Italia per le cure di Tommaso Pincio dalla neonata casa editrice siciliana fondata da Gea Schirò, è il primo romanzo a firma di John Wray che arriva nelle nostre librerie. Da un paio di anni, negli Stati Uniti, si fa un gran parlare di questo giovane talento letterario, inserito da Granta tra i dieci migliori scrittori del 2007 e di prossima pubblicazione per Feltrinelli. La storia, ambientata nel doloroso crinale che fa l’America finalmente patria
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classici
(la Guerra civile), racconta dell’omicidio di Thaddeus Morelle, detto «il Redentore», un criminale realmente esistito, al tempo uno dei più spietati banditi, al pari forse del solo Jesse James. Ed è a inizio della narrazione che il suo pupillo, Virgil Ball, si fa subito carico dell’omicidio: «tutti sanno che ho ucciso il Redentore, gli ho conficcato un pezzo di vetro nella nuca e con l’aiuto del mulatto ho spinto a forza il suo corpo nel buco della latrina». Se Wray svela la paternità dell’assassinio alla terza pagina del libro, una qualche ragione dovrà pur esserci. La lingua di Canaan non è infatti un giallo né un
racconto a tinte fosche. Non è neppure il solito romanzo psicologico - e sì che si potrebbe pensarlo, visto che assassino e assassinato sono stretti da un legame fortissimo, quasi filiale. Perché a fare da sfondo c’è la guerra, che può persino apparire «uno svago» fino a
quando un cadavere, quello di Morelle appunto, fa scivolare le armi «via dai loro pensieri come un passero dagli alberi». John Wray non è il primo a raccontare storie come questa, o utilizzare simili scenari per romanzi contemporanei. La sua abilità non sta dunque nel trovare una ferita che ha bruciato per decenni nel cuore dell’America. Piuttosto: sta nel riuscire a scandagliarla con rara lucidità, nell’evidenziarne le anomale pulsazioni, senza per questo rinunciare mai a raccontare. John Wray, La lingua di Canaan, Gea Schirò, 415 pagine, 19,50 euro
Kleist, Pentesilea e gli opposti estremismi di Vito Punzi critta duecento anni fa, la tragedia Pentesilea di Heinrch von Kleist, non piacque al contemporaneo Goethe, che profeticamente la pensò adatta piuttosto per i secoli a venire. Del resto, come avrebbe potuto trovare consenso questo recupero kleistiano della classicità, tutto furore, battaglie sanguinarie e scontro tra forze incontrollabili nella Weimar goethiana? La vicenda di Pentesilea, la regina delle amazzoni che si innamora di Achille, «la preda scelta dal suo occhio feroce», si svolge nel contesto di quel truce «vortice selvaggio» che è la guerra ed è narrata senza alcuna traccia di quell’ironia tanto cara ai ro-
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mantici. «Voglio gettarmi nel tumulto della battaglia», sono le parole della regina, «dove egli mi aspetta con un sorriso di scherno, e sconfiggerlo, o cessare di vivere». Si è parlato di «erotismo sa-
autobiografie
cro», di «male passionale»: lei «donna atroce», lui «giovane folle». Destino di morte, in ogni caso: Pentesilea uccide se stessa dopo aver «baciato e sbranato» l’amato, perché non padrona del suo «labbro impetuoso». A lungo snobbata, la Pentesilea kleistiana ha trovato ammiratori pronti a valorizzarla solo nel Novecento. Lo hanno fatto «da sinistra» Peter Stein (a teatro) e Christa Wolf (in narrativa). E lo fa ora Rossana Rossanda con l’introduzione scritta per questa edizione (dove il testo appare nella traduzione di Paola Capriolo): come avrebbe potuto resistere l’indomita femminista alla tentazione di presentare questo testo come esempio di «guerra tra i sessi», alle banali definizioni di Achille co-
me «uomo semplice» e dell’amazzone come «donna complicata»? Curioso, piuttosto, che anche il nazismo abbia esaltato la «forza della natura» della Pentesilea kleistiana: memorabile, a teatro, l’interpretazione dell’attrice Liselotte Schreiner, mentre perfino Leni Riefenstahl progettò di farne un film, rimasto tuttavia mai realizzato. Utile a questo proposito la bella mostra documentaria Was für ein Kerl! Heinrich von Kleist im Dritten Reich, allestita nel castello di Neuherdenberg, a Francoforte sul Meno, dedicata all’uso che i nazisti fecero dell’intera opera di Kleist. Heinrich von Kleist, Pentesilea, Marsilio, 301 pagine, 18,00 euro
Io, Ji Chaozhu, uomo alla destra di Mao di Vincenzo Faccioli Pintozzi
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n racconto avvincente, i retroscena di alcune fra le più oscure situazioni storiche della Cina contemporanea, un diario di ricordi. È il contenuto dell’Uomo alla destra di Mao, l’autobiografia di Ji Chaozhu appena uscita per i tipi di Longanesi. Il racconto parte dall’infanzia dell’autore, figlio di un dirigente del governo repubblicano di Sun Yat-sen, e si dipana fino ai giorni nostri come tanti altri romanzi storici hanno già fatto. Aver stretto la mano a sei presidenti americani, da Nixon a Clinton, permette tuttavia a Ji di dare un tocco internazionale alla sua vita che pochissimi contemporanei possono permettersi. L’Impero di Mezzo è
raccontato con gli occhi di uno dei funzionari più vicini a Mao Zedong e al suo primo ministro, Zhou Enlai. Ji, infatti, beneficia di un’educazione negli Stati Uniti che gli permetterà, appena divenuto adulto, di essere scelto come interprete dei due più grandi protagonisti della politica del suo paese. E proprio il raffronto fra i due, assolutamente non voluto ma evidente in ogni parola dei lunghi capitoli dedicati alla nascita della Cina moderna, balza all’occhio per affascinare il lettore. La distanza fra Zhou - amato ma pragmatico - e Mao - messianico ma ispiratore di sentimenti controversi - rende evidenti le contraddizioni che animano il paese mentre muove i primi passi. L’intelligenza di Ji, puramente cinese, è quella di non schierarsi: limitandosi a voler fornire «un semplice resocon-
to, onesto ma essenzialmente di parte», l’autore fornisce gli strumenti adeguati per dare un giudizio sui leader comunisti. Non per questi vengono fatti sconti agli errori storici: il Grande balzo in avanti e la Rivoluzione culturale, due fra le pagine più cupe degli ultimi cinquant’anni di storia, vengono raccontati da un privilegiato che tuttavia cerca di non ignorare le sofferenze di chi ha meno agganci di lui. Ma l’intento del libro, espresso dall’autore nella prefazione, è il più nobile: «Spesso penso che il mondo conosca la Cina meno di quanto la Cina conosca il mondo. E ora che siamo sulla scena, dobbiamo fare di tutto per evitare il ripetersi di questo grave errore storico». Ji Chaozhu, L’uomo alla destra di Mao, Longanesi, 420 pagine, 24,00 euro
altre letture Paolo Rossi, storico della scienza, da quando ha cominciato a scrivere ha sempre polemizzato con le posizioni catastrofiste e apocalittiche sulla fine delle civiltà. Lo fa anche in questo nuovo libro, Speranze (Il Mulino, 146 pagine, 9,00 euro) scritto in uno stile chiaro e asciutto, che non è rivolto ai filosofi, ma a tutti coloro che non si accontentano di vivere ma vogliono anche pensare. Vi si parla dell’assenza di speranze e delle previsioni catastrofiche fallite, ma anche delle smisurate speranze, dei paradisi immaginari e del mito dell’uomo nuovo. Infine si riprende un’idea che fu già espressa nell’anno 1620: possiamo «elencare alcune ragioni che possono preservarci dalla disperazione?». La risposa di Rossi è: sì. «Credo, in conclusione, che senza cedere alle illusioni, si possa continuare a vivere con una sopportabile dose di angoscia - la quale come è noto affligge indistintamente tutti gli esseri umani, compresi coloro che si affidano alla grande speranza - e si possa anche «perseverare giorno per giorno con ogni sobrietà, senza perdere lo slancio della speranza, in un mondo che, per sua natura, è imperfetto». «Come il chicco di grano deve marcire nella terra prima di poter germogliare, così le azioni dei credenti devono marcire affinché possa germogliare la redenzione». Così scrive Scholem in L’idea messianica nell’ebraismo (Adelphi, 388 pagine, 34,00 euro) sintetizzando la dottrina paradossale del santo peccato che era stata sviluppata dal sabbatanesimo radicale: «Al redentore, al più santo degli uomini, spetta il compito di immergersi nell’oscurità del male e riscattare le scintille divine che vi sono ancora imprigionate». L’idea che abbiamo delle nuvole si riduce molto spesso al solo ambito meteorologico. La loro presenza nel cielo viene percepita come un qualcosa di negativo: non a caso, in alcune metafore, se ne fa un uso dispregiativo. E invece, per moltissimo tempo, le nuvole hanno rappresentato l’immagine stessa del sogno, del pellegrinaggio spirituale, tanto da essere considerate, in alcune religioni, veicolo della meditazione e luogo di visioni. Nel Simbolismo delle nuvole (Mediterranee, 188 pagine, 24,50 euro) la raccolta di saggi curata da Jacqueline Kelen - tra i quali quelli di Françoise Bonardel, MarieMadeleine Davy, Catherine Despeux, Jacqueline Kelen specialisti di alto livello riscoprono la tradizione culturale e religiosa che dalla Cina all’Egitto, dall’induismo all’Islam, si è ispirata alle nuvole.
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polemiche
LA TRASMISSIONE DI BRUNO VESPA “PORTA A PORTA”, CON IL QUADRO DI CARAVAGGIO OSPITE ILLUSTRE, È SEMBRATA LA PROVA GENERALE DI QUELLO CHE SI STA PROFILANDO ALL’ORIZZONTE: L’ARRIVO DEL SUPERMANAGER DEI BENI CULTURALI CHE TUTTO DISPONE PER RISANARE IL “BILANCIO DELL’AZIENDA” E PER ALZARE L’AUDITEL DELL’ARTE. CON QUALI CONSEGUENZE?
Giù le mani dal Narciso! di Marco Vallora empi durissimi, per l’arte, ma anche di enorme fermento, di feconda, insolita solidarietà disperata. E speriamo che la Politica non dia invece il solito desolante spettacolo di sordità e solitudine piccata. Mai come in questi giorni hanno sibilitato per l’aere informatico, saettando come frecce e giavellotti, mail e messaggini, ristabilendo contatti perduti e superando antichi rancori e cementando in una promettente, armata comunità, quella che da alcuni tartufi della cultura viene come considerata la «casta» degli storici dell’arte. Credo che mai, nella storia pur nutrita dei proclami polemici d’Italia, si sia ottenuta un’unanimità così impressionante e assoluta di adesioni, non soltanto italiana, ma realmente mondiale, di firme illustri e soprattutto autorevoli, contro uno spettacolare, quasi certo auto-gol, che la Politica, con spensierata nonchalance, sta per infliggere al corpo ormai boccheggiante dei beni culturali italiani (inteso nel modo di curarli o meglio lasciarli malamente morire, magari col colpo di grazia da cavallino del Palio di Siena). L’idea peregrina ma chiara sino alla sfrontatezza di tirar fuori dal cappello dell’alibi della crisi economica il coniglio funereo d’un Supermanager, che avrà competenza assoluta su tutto (e allora a che servono i sovrintendenti, ma sì, dai, s’incominci a sfrondare...) è stata vissuta dagli storici dell’arte, direttori o ex di musei (persino del Louvre o del Metropolitan) e curatori responsabili di grandi mostre - inutile elencare qual-
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za vedovile, se vendere o no i gioielli di famiglia, rastrellando nei penetrali dei musei la fanghiglia ali-baba dell’inesistente. Sì, perché a cavallino far west di quella formula grottesca dei «giacimenti petroliferi» dei beni culturali, che si potrebbero pipare come mente piperite al dehors, avanzano da decenni strani figuri che, come cercatori texani di pepite presunte, promettono di sanare miracolosamente i conti, aprendo i mitici depositi dei musei e svendendo tutto ai ricchi borghesi con golose pareti in attesa. Qualcosa molto Mago Houdini o meglio Mago Casanova. Quando da decenni già Federico Zeri si preoccupava di spiegare che questa sarebbe un’ennesima mossa auto-lesionistica, perché così s’intacca, dalla radice, tutto il sistema e poi si sa (o meglio lo sa chi di queste cose se ne intende, che ha frequentazione pratica e non per stereotipi comiziali) che molto di scientifico e spesso di secondario, di non restaurato e non restaurabile, respira nei depositi. Ma son fole che s’acquattino capolavori trascurati, che sarebbe comunque scellerato svendere. O affittare per le feste con freccette dei bambini. Esagerato? Ecco che cosa propone, ad introibo, il nuovo Supermanger (perché in pectore ce l’abbiamo già, udite, udite): per risolvere tutto, e l’idea è bi-partisan, proviene da quel Grande Consigliere di Velardi, «se potrebbe fa’ di Pompei un set cinematografico», giuro non è uno scherzo, sta nei comunicati stampa, con ben più pomposo linguaggio. E con i pistoleri (di cellu-
I capolavori circolano con disinvoltura da un museo a uno studio tv e Pompei potrebbe diventare un set cinematografico per risolvere i suoi annosi problemi. Ma da tutto il mondo gli esperti si sollevano e alzano gli scudi in difesa dei nostri tesori che firma, i grandi e i meno ci sono davvero tutti - è stata metabolizzata con orrore come una Caporetto definitiva, insensata. Non per meschini motivi corporativi, ma per elementari ragioni etiche, deontologiche, aritmetiche, che persino uno studentello di ragioneria saprebbe capire.
Si finge di rispondere (attraverso i pochi fiancheggiatori usi a parlare abbarbicati al cadreghino) che il Supermanager non deciderebbe tutto lui come un dittatore (e allora a che serve mai?), oppure che esisterebbe un ulteriore comitato scientifico cuscinetto (prebende & conflitti di competenza a non finire: il caos) mentre è ovvio che il cosiddetto Supermanager (spudorato obiettare che lavorerebbe «accanto» ai sovrintendenti: super, nella lingua latina, che tutti dovrebbero conoscere, fino a prova contraria significa «sopra») avrebbe l’ultima parola sulle ragioni commerciali d’una mostra, la decisione nevralgica se imprestare o meno un capolavoro delicatissimo, a seconda dei golosi e delittuosi tariffari striscianti, sempre più in auge, nella conduzione dell’arte mercantile di oggi, un po’ come i soldi per i sequestri mai denunciati, e poi la triste incomben-
loide) in mezzo a turisti e bambini, per risolvere «l’annoso problema di Pompei» e magari col sistema Mulino Bianco si sanerebbe (quasi) tutto il bilancio di «questa azienda da risanare» che sarebbero i beni culturali. Eh sì, perché il Supermanager, ancor prima che il dpr parlamentare lo investa si è già fatto conoscere attraverso alcune proposte ed esempi di linguaggio ovviamente managerale. Anche qui, attenzione, nessuna prevenzione «razziale» come qualcuno accusa, perché lascerebbe o no, che importa! il Casinò di Campione («impariamo da Las Vegas» suggeriva caustico l’architetto post-modern Bob Venturi) o avrebbe sinora diretto soltanto la catena dei McDonalds inverando il profetico adagio warholiano che «non soltanto i musei sono diventati dei supermercati, ma i supermercati sono già i nuovi musei». Si vorrebbe solo capire dal ministro che l’ha pre-nominato, esponendolo anche ai pre-giudizi (anche se avesse pensato a Warburg, a Vasari o a Salomone, il Supermanager sarebbe una figura gerarchicamente aberrante) come si può passare da un giorno all’altro dalla proposta all’ineccepibile Paulucci (che però, illuminantemente pare abbia risposto, da par suo: «Scusi, ma adesso io lavoro per
i Papi», altro che conti & Bondi e botte dai colleghi) a questo del manager-hamburger (oddio, non si riproporrà la solfa del «macellaio» Guazzaloca!?) che ribadisce: proprio perché non so nulla di arte (ma sono compagno di città di Sgarbi e giro non armato di insulti ma di pompe di benzina) posso far molto per le finanze di questi beni-giacimento mal sfruttati. Difficile far capire geneticamente che l’arte non è un bene di consumo (nel senso letterale del termine, come un lecca lecca della volpe) che poi con la raspa consumi davvero la lingua e buonanotte al paese del bengodi turistico (intanto a Pompei sparano, con il Produttore hollywodiano in stivaloni nel fango).
Una prova generale di questo possibile regime si è già avuta con una ferale trasmissione di Porta a Porta, passata troppo sotto silenzio (ma va da sé che con Vespa nessuno ha il coraggio di replicare, perché si conosce il carattere permaloso dell’uomo, e una speranza, di nuovo warholiana, d’una possibile comparsata tv, non la si nega a nessuno). Riassuntino. Per imbandire una delle solite trasmissioni tv, con interviste pre-raccolte («Bossi è narcisista? Boh». «Berlusconi no, vuol troppo bene al paese», questo Carlo Rossella, in studio), cosiddetti «esperti» e inevitabile chiacchiericcio mediatico - questa volta l’argomento era il narcisismo di attori e uomini pubblici - si è disturbato, non è uno scherzo, è nuda cronaca, il Narciso di Caravaggio della Barberini, notizia strombazzata a tutti i giornali, rimasti muti naturalmente, e lo si è deportato in uno studio tv, non per parlare davvero dell’opera, due secondi e via, ma per far da pubblicità alle opinioni di Parietti & C. Na-
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dato festosi messaggi, dicendo: finalmente qualcuno che da voi reagisce, contro questi malcostumi politici (e se c’è un interrogazione parlamentare sulla trasmissione, di Manuela Ghizzoni, non sarà poi così tutta una bazzecola mia personale, come finge l’intrattenitore tv. Ed è curioso che l’interrogazione prenda letteralmente spunto dal mio lamento: si vede che obiettare qualcosa, in questa palude di omertà, serve. O rende, come direbbe il Supermanager). Provinciale sì, me ne vanto, al cospetto di pseudo «eventi» (sic, dai comunicati stampa) questi sì forse midcult e fintomondial-mediatici e che non fuoriescono da viale Mazzini. Euforia sprecata. Anche perché all’estero, ci spiace, ma un Pivot ha sempre magnificamente divulgato, pur senza dover deportare in trasmissione feticci in salamoia con politici annessi, mai visto un Jack Lang con Poussin al guinzaglio o Le Nain, e John Berger ha imbandito esemplari lezioni-Bbc sull’arte senza sognarsi di dislocare arbitrariamente bocconcini e «chicche», pur essendo pappa&ciccia con Tate, National & C. Ma certo sapeva che è esistito un gran filosofo di nome Benjamin,Vespa lo sa, che certe cose le aveva intuite, fin dagli anni Venti. Che la riproducibilità tecnica del medium (nella fattispecie la tv) rende ridicolo l’inchino a un’aura supposta, che gioco forza svanisce nel tubo catodico e dunque è vacuo sfoggiare turiboli e simulare svenimenti fin de siècle in scena, che suonano superflui. L’aura sacrale anzi diventa un fantasmino solo kitsch, nell’epoca della ripetitività tecnologica (dice qualcosa il nome Adorno?). Che in tv ci fosse quel giorno, delittuosamente davvero, un «vero» Caravaggio non lo poteva percepire nessuno, a parte i recitati mancamenti cicisbei dei quattro o cinque presenti. Per questo dicevo «evviva» nel mio articolo sulla Stampa, se si fosse mostrata, sensatamente, una copia, cosa che oltretutto, via tv, nessuno avrebbe potuto percepire o provare. Ma ecco che invece Vespa, temendo, in stile puro Alda d’Eusanio, accuse tipo Striscia la notizia, s’impenna: come si permette costui? Era vero e fresco di giornata! S’offende, ché parlavo di «scondinzolar» del conduttore intorno alla tela (tutto sta immortalato dalla registrazione della querimonia-televisiva). Mi riferivo però anche a un esperimento di Pavlov: il cagnolino non distingue tra osso vero o di plastica, finché non subentra l’odore del sangue. Ma lo spettatore l’odore dell’autentico, dell’aura, ma come mai poteva percepirlo? Dunque era tutta comunque grottesca messa in scena, inutile feticismo-paccottiglia, che non insegna certo a correre nei musei deserti, come pure Bondi pareva suggerire poco prima. Musei disertati, proprio a partire da simili malvezzi, per questa mania fomentata dell’evento unico, «ecceziunale», pubblicitario, con capolavoro in ostaggio. Che poi dovrebbe scatenare coloristi e cronisti: Vespa stasera invita Caravaggio in trasmissione, Grande Elemosiniere della Cultura senz’Auditel, come si lamenta nella lettera (tutte le volte che mostro un po’ di cultura in trasmissione l’auditel mi scema, ma io eroicamente insisto). È lui a narrare le sue gesta, Vespa invita a turalmente ha fatto più notizia il botto (capirai!) che dai ponteggi del Correggio a Parma (altra invasione: interrompendo la legittima visita dei prenotati da mesi, ma non bastava una casalinga differita in ore debite? Eh, no, lo strapotere insultante della tv che ferma il mondo!) Sgarbi, per svillaneggiare tutto quel fittizio entusiasmo febbrile e recitato da Grande Evento Mass-mediologico (c’erano anche Alessio Boni, che ormai è Caravaggio e Pamela Villoresi, grottescamente travestita da non-Marlene Dietrich: «per carità, gli attori non sono narcisi!») ha fiondato, gelando tutti: «Macché Caravaggio, quello è uno Spadarino».
Ha fatto più notizia giornalistica quella divertente ed esiziale disfida attribuzionistica, che ha lasciato tutti basiti, piuttosto che non la davvero raggelante nuova che un ministro può togliere da un museo un capolavoro delicato come quello, con il benestare del responsabile dei musei romani che pure era presente in studio (ecco il rischio delle figure dei Supermanager, a cui non si può dire di no) senza che nessuno protesti. O meglio, a me che è capitato di farlo, son piovuti non pochi ringraziamenti e solidarietà da studiosi autorevolissimi, ma nessuno poi che avanzi con un po’ di coraggio. Così mi son preso, divertendomi, anche gli scapelotti d’un Vespa irato e le punzecchiature tecnicamente spuntate, cui non m’è stato dato agio di rispondere. Ma non è la polemica che voglio rintiuzzare, enucleare semmai alcuni problemi assai seri, di estetica, che la sua risposta, pubblicata sulla Stampa, solleva. Pazienza se son provinciale, mi basta la solidarietà dei più importanti storici dell’arte, che dall’estero m’hanno man-
ne, come potrebbe l’Eroico Divulgatore Vespa, con le sue idee testè snocciolate, negarglielo? Siamo onesti: se poi il Narciso diventa solo un calunniato pretesto interscambiabile, per dar spazio alle Villoresi di turno, argenteo vestite d’avanspettacolo (che fanno pubblicità al loro spettacolo) o alla ritrita carrellata di politici narcisi, con pure la difese d’ufficio, ma chi trova il coraggio di dire che quella è cultura?! Di nuovo Vespa vanta i suoi strenui sacrifici culti (accusando Caterina Antonacci e Muti d’avergli fatto toccare il fondo auditel) e accusa noi di difendere la cultura elitaria. Ma se non una parola, in trasmissione, è stata spesa sul Museo Barberini, su chi era il cardinal Maffeo, che si prese la briga di difendere Caravaggio assassino e poi divenne Papa Urbano VIII, nulla, sulla predilezione dei committenti, che si strappavano opere, condannate dalla Chiesa, ecc.
Non un cenno: non era meglio allora fare una onesta ripresa dal Museo, senza trombe, ma permettere di conoscerlo un po’ meglio, soprattutto dopo che il ministro Bondi predicava in studio contro le mostre che rubano pubblico ai musei deserti? Sacrosanto. Ma allora perché fare di peggio qui, simulando una mostriciattola-evento-bonsai in tv, invece di mostrare una bella copia e consigliare il pubblico di andare finalmente al Museo, a scoprirselo nella sede legittima. Perché non far verificare dall’amico prontosondaggio Mannheimer, quanti telespettatori effettivi sono poi corsi a vedersi il Narciso alla Barberini, dopo questa insulsa depredazione? Qui si voleva soltanto la notiziaglamour, il botto sensazionale e basta, vittima Caravaggio. C’è una spia ferale, una imbarazzante prova del nove. Dice Vespa: se avessi ottenuto la Fornarina o Giuditta avrei virato la trasmissione in un’altra direzione. Ovvio: sulle amanti celebri dei pittori o sulle mogli assassine. È chiaro allora che il capolavoro, che dovrebbe esser protetto nella sua sede, da funzionari e politici accorti (o valere per sé e sé, visto che già hai la fortuna o abuso di averlo ottenuto in studio) è vilipeso, se viene solo declassato ad aiutinochic, a parietto pailettes, a pretesto interscambiabile, per far scorrer via le solite trasmissioni standar, con esperti di buon peso e filmati d’intervista-vanità. Allora, per favore, una volta per tutte: Caravaggio non necessita di queste pelose spintine d’avanspettacolo. Fa da sé, anche senza dover calar le brache all’auditel. Ha tenuto conto Vespa che illustri storici dell’arte non han voluto trasportare il Cristo di Mantegna alla mostra di Parigi, per non lederlo nella sua integrità? Sono forse dei cattivi divulgatori, secondo la sua visione del mondo «porta a porta»? Sono dei fetenti adoratori dell’auditel? E lo sa Vespa che esiste un grande studioso e ottimo comunicatore, quale Maurizio Bettini, che ha dedicato un brillante saggio Einaudi a Narciso e che poteva benissimo, in diretta dal Museo, spiegare qualcosa di ben più serio della dottoressa Parietti, che vantandosi della sua imparaticcia cultura proserata, disinformava, definendo il narcisimo una patologia
Divulgare l’arte non significa ospitare un quadro a tema in un talk-show dedicato, per esempio, al narcisismo dei vip, quanto, piuttosto, quell’opera saper descrivere. O lasciarla parlare da sola, negli spazi che le competono cena un Caravaggio. E magari, invece, tutto questo «invita» soltanto a credere che il museo sia divenuto un docile supermercato spa, che spedisce pacchi-dono, quando il Potere scampanella e la tv necessita di spintine-glamour, con Capolavoro Assicurato (in tutti i sensi. Spese dell’operazione? Chi ha pagato? Con un po’ di malizia: quali sono i do ut des di questa operazione?). Nessuno impedisce a Vespa di parlare di Caravaggio sul serio, ma via! lo faccia (magari non delegando la replica a Sgarbi sullo Spadarino pure alle saccenze Parietti): ma che bisogno c’è di mostrare alle spalle lo scalpo raro, che tanto non si fruisce via etere, e che invece deve restare protetto, soprattutto simbolicamente, nel suo loco ideale? Non basterebbe una copia, una bella ripresa tv? Vespa finge di credere invece, che saremmo noi a indignarci che si parli davvero di arte in tv, nemici della divulgazione. Ma perché si è fatta divulgazione quella sera? «Ma mi facci il piacere» (con voce di Totò). Indovinello: se un direttore di boutique (iper-colto, va da sé) per «aiutare» «eroicamente» la conoscenza di Michelangelo (e intanto vendere le sue pagliette-villoresi) pretendesse il Tondo Doni per le sue vetri-
psichiatrica? Diverso, molto diverso mi pare (e non è sbilanciamento politico per Rutelli, come allude Vespa) è stato portare in tv dei vasi greci trafugati e che, tornando dal Getty, non avevano ancora la loro sede e potevano funzonare, per annunciare una mostra, qui sì consigliando una visita legittima. Lì sì, la notizia era giornalistica. Non portare un quadro, con posizione nobile e stabile, a prender arie vanesie, disturbare un capolavoro, che non ha fatto nulla di male e non fa certo notizia, se solo viene a prendere il té porta a porta. E poi basta con la banale tiritera di rimbalzo di noi, casta di critici auto-riferiti, che faremmo «salotto» fra noi, pretendendo Caravaggio «cosa-nostra» e negandolo alle tv. Ma come? Io parlo a nome di quell’unico, forse, visitatore serio e straniero, che magari quel giorno è andato alla Barberini per vedersi proprio il Narciso e non l’ha trovato, perché era sciamato col ministro, per farsi espertizzare in tv dalla Parietti! Salotto sarà lei: col campanello delle soubrette, che interrompe anche i discorsi presunti più seri. In fede: Caravaggio vive benissimo anche senza il bocca a bocca pubblicitario-tv.
MobyDICK
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Q
uelli arrivano. In tanti. E si farà fatica a mandarli via. Dopo i maghi, i maghetti e le streghe della saga di Harry Potter, effettivamente s’era formato un vuoto immaginativo popolare. Immediatamente, o quasi, colmato da «quelli». Parliamo dei vampiri. Prima ancora dell’uscita del film Twilight, i quattro libri che hanno ispirato la pellicola avevano generato un formidabile passaparola. L’autrice si chiama Stephenie Meyer, nata nel 1973 nell’Arizona. L’ultimo suo libro - pubblicato da Fazi come i precedenti - s’intitola Breaking Dawn e va a ruba. Sono soprattutto le lettrici di sesso femminile a richiederlo, visto che è una storia d’amore. I maschietti preferiscono il film, non avendo alcuna intenzione di addentrarsi in pagine dove si narrano i sospiri d’amore tra Bella (nome che richiama non a caso la Bestia) ed Edward, il vampiro buono. Sì, Edward è buono e ciò significa che ci sono anche i vampiri cattivi. La scelta di Bella non è facile: innamorata del ragazzo con il pallore sul viso, non sa se entrare a far parte degli immortali oppure no. Si sa: il bacio sul collo ci trasforma in esseri che non invecchiano mai. Bella è timida e sensuale. E trema dinanzi al bivio esistenziale che l’attende da tempo. Sullo sfondo il binomio ossessivo vita-morte. Tanto è vero che si legge nella prefazione: «Già troppe volte avevo sfiorato la morte, ma non poteva diventare un’abitudine… ma se ami chi ti sta uccidendo, non hai alternative. Come puoi scappare, come puoi combattere se così feriresti il tuo adorato? Se la vita è tutto ciò che hai da offrirgli, come fai a negargliela? Se è qualcuno che ami davvero….».
In questo prologo c’è in nuce lo svolgimento di una tormentatissima storia d’amore. La Meyer è scrittrice astuta. Gioca sul pegno d’amore.Tutto rimanda alla tradizione storico-letteraria dei vampiri, ma con l’originale variante della contrapposizione buono-cattivo. La vampiromania che sta dilagando, anche se pochi i teenager conoscono il testo cardine della nuova moda, ossia il Dracula dell’irlandese Bram Stoker (1897), le gesta del conte rumeno Vlad (realmente esistito), l’«impalatore» che plasmò un filone immaginativo che, scusate l’involontario gioco di parole, è duro a morire. E ancora: pochi ricordano il film Nosferatu del 1922 o l’attore Bela Rugosi, incarnazione istrionica del succhiasangue, o Chistopher Lee che cinquant’anni fa dette fattezze al vampiro in un film a colori. E cominciano a spuntare serial tv con canini appuntiti. Quella del vampiro è una tradizione antichissima. Consiglio vivamente un libroantologia edito dalla Newton Compton, intitolato Storie di vampiri. Numerosi scrittori restarono affascinati dalle creature che non muoiono ma che ruotano attorno alla morte. Anche Gogol, che fa cenno alla «legione» di strani esseri. E infatti le cronache medievali e quelle redatte in piena età dei Lumi (il rovescio della medaglia razionalistica) ci parlano di invasioni di vampiri. In zone depresse dell’odierno Messico sopravvive la leggenda del chupacabras (succhiacapre), ripreso anche dalla serie televisiva X-Files. Del vampiro s’interessarono anche Voltaire e Rousseau.
tendenze
Addio Harry Potter
Arrivano i Vampiri di Pier Mario Fasanotti
Il vuoto immaginativo lasciato dalla fine della saga del giovane maghetto si sta riempendo di nuovo. Ad animarlo la vicenda di Edward, “nosferat” buono, amato da un’umana. E i libri di Stephenie Meyer stanno per prendere vita sul grande schermo… Ognuno a modo suo. Voltaire proclamò il suo scetticismo e, da mangiapreti qual era, attribuì le favole nere ai gesuiti. Il secondo interpretò la cosa in chiave sociologicopolitica spiegando che l’intera società era basata sullo sfruttamento e il vampirismo. Per ognuno di noi, dunque, «il nostro vampiro sono gli altri». Circa le presunte responsabilità dei cattolici, non si può negare che certi parroci ignoranti abbiano soffiato sul fuoco divulgando la credenza che i morti potessero risorgere a vita maligna, anzi satanica. Magari non li avevano mai letti, ma dietro la guerra tra bene e male, dietro gli inquietanti interrogativi del postmortem e del futuro irrequieto dei defunti, c’erano fior di testi che facevano riferimento alle Sacre Scritture. Fu per questo che il cardinale Prospero Lambertini, diventato papa Benedetto XIV, si vide co-
stretto a raccomandare la materia come solo frutto della superstizione, della credulità popolare a basso profilo. Tutto parte dalla paura che il defunto non sia effettivamente morto. E che possa infastidirci. Quindi bisogna in qualche modo blandirlo: o con offerte di cibo, o con riti di dissepoltura o con rimedi un po’brutali come aste di ferro o di legno conficcate nel petto dell’uomo (o donna) di cui si teme un prosieguo di vitalità. I punti cardine della tradizione vampiresca sono il cibo e il sesso, elementi fondamentali della vita. Già San Gregorio di Tours, in Historia Francorum, del 561 d.C.) riprende la storia bizzarra di due coniugi. Muore prima lei, poi lui la raggiunge sottoterra. Salvo che saranno ritrovati in un’unica tomba, ossa abbracciate a consumare ciò che evidentemente non avevano consumato in vita, ossia
l’amplesso. Già gli antichi Egizi subodoravano che il morto continuasse a coltivare voglie terrene. E così in vari sepolcri c’erano le cosiddette «concubine di pietra»: statuette femminili tutte senza piedi per evitare che fuggissero e con organi sessuali ipertrofici. In varie popolazioni durò a lungo l’abitudine di chiudere in urne speciali i morti, alcuni dei quali venivano legati o tenuti «fermi» da pesantissime lastre di pietra. I razionalissimi Romani, che legiferavano su tutto, pensarono bene di concedere ai trapassati da uno a tre giorni di «libertà», periodo in cui potevano visitare la ex famiglia e circolare nella ex dimora. Ma tutto doveva finire con il pater familias che, gettando alle proprie spalle una manciata di fave nere, decretava il ritorno di quegli ospiti alle rispettive tombe.
Imperava la paura che i morti si potessero cibare di carne umana, «cibo degli dei» come riferisce Filostrato nella Vita di Apollonio di Tiana. Per i Babilonesi il timore proveniva da Lamashtu, demone femminile, larva di prostituta che seduceva gli uomini per berne il sangue. Il termine vampiro ha radici nell’Europa balticobalcanica. In lituano wempti significa bere. Insomma, il demone beve. I bulgari lo chiamano Nosferat. Questo è l’identikit del vampiro: ha un viso emaciato, pallido come il marmo, ha folti capelli e il corpo villoso (sovente ha peli anche sulle mani), le labbra sono gonfie o tumefatte, le unghie sono sempre lunghissime, le orecchie appuntite come quelle dei pipistrelli, l’alito fetido. Il suo morso è anestetico, nel senso che chi lo subisce durante il sonno non si sveglia. L’origine letteraria dev’essere collocata a Villa Diodati, a Ginevra. Qui si radunarono intellettuali, scrittori e studiosi. C’erano anche lord Byron e il poeta Shelley. Il tempo era orrendo, si doveva rimanere tra quattro mura. Byron propose, per divertimento, che ciascuno si cimentasse in storie di fantasmi. Chi lanciò l’idea si limitò a uno schema che mai fu tradotto in opera letteraria. Ma in quei giorni fu proprio la giovane fidanzata di Shelley, Mary Wollstonecraft Godwin, a scrivere il suo capolavoro, Frankestein, pubblicato anonimo nel 1818. In quel gruppo c’era anche il medico John William Polidori, invidioso di Byron. Scrisse una novella intitolata Vampire. L’originalità consisteva nell’attribuire al vampiro tratti di estrema eleganza. Gli dette i panni del dongiovanni, a suo agio nelle città e nei salotti. Molti pensarono che la creatura di Polidori fosse la caricatura di Byron. La cosa strana fu che Polidori pubblicò la novella col nome del poeta inglese. Ed ebbe straordinario successo di vendite in tutta Europa. Goethe ebbe parole di elogio e disse che era l’opera migliore di Byron. Polidori non potè approfittare della fama: morì suicida a soli 26 anni per non poter saldare un debito di gioco. Poi fu la volta di Bram Stoker. L’idea la scrisse su un foglietto, appena alzatosi la mattina: «Un giovane esce e vede tre fanciulle. Una di loro cerca di baciarlo, non sulle labbra ma sulla gola. Il vecchio Conte interviene. Con rabbia e furia diaboliche. “Quest’uomo mi appartiene, io lo voglio”». La scena sarà descritta minuziosamente nel terzo capitolo del Conte Dracula.
tv
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MobyDICK
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Lecce, malgrado il cattivo tempo, folla, spintonate e incidenti per la prova selettiva del Grande Fratello, con Alessia Marcuzzi conduttrice. Si sono presentate anche alcune coppie: si dividono il letto, i debiti, i sogni e pure un’eventuale location nel paradiso televisivo, chissà l’invidia del condominio, chissà la pioggia di domande di quelli che sono fuori, al margine, i «barboni» della normalità. Ho sentito un ragazzino che, parlando del liceale di
lezzi, piccole furfanterie mediatiche. Il titolo di «famoso» funziona per una comparsata nei programmi tv. Il «dopo-pennichella» della Rai vede il sobrio Lamberto Sposini un poco imbarazzato dinanzi alle scemenze dei temi che deve affrontare. Si controlla, ma il telespettatore più attento s’accorge di una sua lieve espressione ironica, di un alzar di ciglio. Che sta forse a significare:«Ma io che ci faccio qui?». Bella domanda. Comunque tutto procede perché è un professionista. Michele
Torino morto per il crollo del soffitto della scuola, si diceva contento per lui «perché almeno è andato sul giornale». Tutto vero, credetemi. Simona Ventura, con il suo sorriso largo e sempre più a disposizione del dentista (idem la scollatura), ci ha annoiato dei con l’Isola famosi: sondaggi, indiscrezioni, pettego-
Cocuzza, che a volte lo affianca, è disinvolto per natura, si diverte anche a sociologizzare, prende tutto sul serio. Sfilano gli ex «famosi», tronisti, veline. Raccontano, più o meno consapevoli della loro compulsione esibizionistica. Magari qualcuno torna a fare il muratore, ma ha il privilegio d’essere fermato per strada. Ma alla fine che sanno fare? Niente. E a proposito di questo niente da show, ogni tanto mi chiedo: qual è il vero lavoro di Flavia Vento, ex di Isola dei famosi? Non sa cantare, né ballare, né recitare. Lei c’è per-
Aldo Busi A spiega (bene) Perrault: quel che manca all’Isola
dei famosi
web
games
ché qualcuno la invita. Eternamente imbronciata, è convinta che questo sia il tratto più persuasivo della sua personalità. La graziosetta Vento ricorda in tutto e per tutto il suo cognome. È una che si offende rapidamente, e riesce magari a ottenere «come risarcimento» per un articolo lievemente maligno, perfino una copertina di settimanale. I vari reality come L’isola dei famosi sono la messa in scena dei giochi infantili: lui mi ha detto che lei ha fatto la stronza, non è vero che, non dirlo a nessuno ma, spero tanto d’essere votato perché son figo. E così via. Giochini che, se fatti dai bambini, sono anche graziosi, comunque tollerabili in quanto appartengono alla fase evolutiva, ma se compiuti dai vari Luxuria, Lucas Casella (una sua frase molto fine: «Ho avuto un’erezione pazzesca») contribuiscono ad aumentare il malumore, la scarsa fiducia sul gusto degli italiani, rafforzano idee ombrose a proposito degli intrattenimenti più in voga. Ma noi quando cresceremo? Sono favorevole all’allegria, disdegno il monachesimo come stile di vita. Fatta questa premessa, mi diverto a seguire su Canale 5 (Amici libri, 9,30) Aldo Busi che in pantaloni rosa spiega superbamente trama e significato di Pelle d’asino, fiaba popolare francese scritta da Charles Perrault a fine ‘600. Storia di un mancato incesto, con abbondanti rimandi al significato della vita e delle relazioni interpersonali. Busi affascina. Indulge a mossettine da discoteca, scivola in allusioni sessuali, grida «vita, vita, vita!». Chi lo conosce sa che, malgrado certe sue performance esagerate, è uomo riflessivo, e anche triste. Ha capito davvero i tanti libri che ha letto. Musica finale, allegria.Va bene pure così, ma intanto Busi ci dà sostanza. Quella che nell’Isola dei famosi manca. (p.m.f.)
dvd
L’ARTE DEL TRAILER
PIÙ FATICOSO DEL BASKET VERO
KAR-WAI, BUONA LA PRIMA
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i solito si parla dei trailer cinematografici esclusivamente per criticarli, perché «non fanno capire niente del film», oppure perché «raccontano tutta la storia», o magari «lo facevano sembrare tutta un’altra cosa». Eppure, nonostante il contributo di critici cinematografici, consigli di amici e ponderose enciclopedie a tema, sono quasi sempre i maltrattati trailer a
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i sono simulatori sportivi fatti per passare qualche pomeriggio senza troppe pretese, e altri che richiedono lo stesso impegno e allenamento di chi lo sport lo pratica davvero. Nba 2K9, per la prima volta disponibile anche su pc, appartiene ovviamente alla seconda categoria. Le squadre non si differenziano solo per il livello qualitativo, ma anche per schemi di gioco e tecniche usate per attac-
uel che si dice un allievo brillante: alla sua prima prova in lingua inglese il maestro del cinema Wong Kar-Wai, autore acclamato dai critici di mezzo mondo per In the mood for love, tira fuori un film personale ma dall’impeccabile ambientazione americana. Un bacio romantico, in originale My Blueberry nights, è un road movie che sfrutta le bellissime atmo-
Centinaia di lanci promozionali di film in alta definizione raccolti in un sito. Ma manca l’Italia
Schemi di gioco, piccole scorrettezze, vivacità della tifoseria: con Nba 2K9 si partecipa davvero
Esce “Un bacio romantico”, opera in lingua inglese dell’acclamato regista cinese
convincere una persona a vedere questa o quella pellicola. A riconoscere il ruolo di questa particolare tecnica pubblicitaria (che per qualcuno è un’arte, trattandosi di condensare un film di due ore in un paio di minuti) è www.traileraddict.com, che raccoglie centinaia di trailer in alta definizione ordinati alfabeticamente. L’occasione è ottima per rivivere velocemente qualche emozione vissuta davanti al grande schermo senza dover rovistare nella vostra collezione di dvd. Purtroppo mancano quasi del tutto i film italiani. Va bene la mancanza dei cinepanettoni, ma un posticino per Massimo Troisi forse lo si poteva trovare.
care e difendersi. Il giocatore dovrà imparare a gestire una miriade di controlli con estrema velocità per consentire al suo avatar virtuale di esprimere al meglio le sue potenzialità. Non sono escluse le piccole scorrettezze, anche perché gli avversari controllati dal computer non disdegnano approcci parecchio fisici per conquistare la palla. I curatori del gioco non hanno trascurato la grafica, che permette di vivere l’esperienza di una partita come se la si stesse guardando dalla tribuna. L’unico elemento poco credibile, se vogliamo, consiste proprio nel comportamento dei tifosi sugli spalti. Quelli americani sono parecchio vivaci, ma i loro corrispettivi virtuali sono fin troppo esagitati.
sfere da viaggio statunitensi e l’insuperata capacità di Kar-Wai nel raccontare l’intrecciarsi dei sentimenti. Come un Woody Allen più posato e meno cinico, il cineasta cinese racconta lì apprendistato sentimentale di una ragazza (un’inedita Norah Jones, per la prima volta protagonista davanti alla macchina da presa) e il suo avvicinamento a un’idea di libertà che non escluda le persone accanto a noi. La versione in dvd, in uscita la prossima settimana, propone un generoso corredo di dietro le quinte, trailer originali e gallerie fotografiche. Ce n’è abbastanza per aver voglia di approfondire l’arte di Kar-Wai.
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poesia
La lingua degli esuli e quella dei poeti l cigno ha una storia centrale nella poesia, è un mito privilegiato. Erroneo, o meglio riduttivo, immaginarne la causa nell’eleganza del suo galleggiamento, nella bellezza del suo piumaggio. Il poeta è attratto dalla bellezza, che è in fondo il mito primo e ultimo della sua vita, ma non va confuso con l’esteta. La bellezza in poesia è verità in moto, è svelamento. Il poeta non si accontenta delle belle forme, dell’armonia. Anzi, la bellezza del mondo spesso si presenta in forme disarmoniche. L’esteta ammira l’idillio e la marina, al poeta interessano anche la devastante tempesta e l’annichilente, afosa, disidratante bonaccia. Il cigno certo è amato per la sua bellezza, è ovvio: il poeta non è mai minimalista o nichilista, non guarda con attenzione all’avvoltoio, ma all’aquila, al gufo reale, signori e messaggeri del cielo e della notte, ai grandi cantori, l’usignolo e l’allodola, ai bianchi messaggeri angelici, l’albatro, e altri ventosi uccelli marini. Il cigno non solo ha un piumaggio di nuvola, nel senso che pare proprio tessuto da una nuvola, ma ha della nuvola la natura elementare: come la nube resta sospesa, a volte immobile, altre volante nel cielo, il cigno galleggia e scorre sull’acqua comunicando un senso di leggerezza e sospensione, che probabilmente ne fa l’equivalente occidentale del fiore di loto nella tradizione induista.
I
Ma il cigno, così quieto e domestico nei laghi e negli stagni italiani, è invece un potente migratore nei cieli del Nord. È un animale intelligente: conosciute le terre del centro Italia, dove lo incontrò Ovidio, decise di soggiornarvi per sempre, divenendo stanziario. I suoi parenti che vivono nelle gelide terre del Nord invece migrano, meno appagati, certo, ma più epicamente mossi dallo spirito che muove i grandi navigatori. Il cigno quindi ispira in alcuni l’ammirazione per la quiete e il galleggiamento, la bellezza del fiore di loro, in altri la meraviglia per il volo altissimo, urlante, di una potenza celestialmente erotica, che folgorò il grande poeta irlandese William Butler Yeats in una leggendaria poesia su questi grandi uccelli in volo. I cigni migranti nell’alto cielo nella fiaba di Andersen, quelli carichi d’eros di Yeats, quello quieto nelle acque italiane di Ovidio, e poi quello che per me è il più grande, il cigno di Baudelaire che in una poesia straordinaria ne fa emblema della gloria della poesia, della libertà, della bellezza, del volo, umiliate nella società borghese fondata sul denaro e il progresso, ma, aggiungerei, in qualunque società mai esistita o futura. Il poeta cammina per le strade della sua città, Parigi che non è più la stessa, agli occhi dell’infaticabile viandante metropolitano che ogni pomeriggio, ogni sera, ogni notte la percorre seguendone le apparizioni, scrutandone le ombre: l’aspetto di una città muta più rapidamente di quello del nostro corpo, e ormai solo in spirito vede ancora quel gran campo di baracche, or-
di Roberto Mussapi
Ricordo che là c’era un serraglio, un tempo, là, un mattino quando sotto i cieli freddi e chiari il lavoro si desta, e gli spazzini levano un uragano oscuro nell’aria silente, Io vidi un cigno che era evaso dalla gabbia, che trascinava sull’aspro suolo il bianco piumaggio, sfregando con i piedi palmati il lastricato secco. Su un rigagnolo prosciugato, aprendo il becco, la bestia bagnava a scatti le ali nella polvere, col cuore pieno del bel lago natale diceva: «Quando mai pioverai, acqua? Quando rituoni, fuoco?» Vedo quel mito strano sventurato e fatale come l’uomo di Ovidio rivolgere al cielo, al cielo ironico e crudelmente azzurro, la testa avida sul collo convulso gridare la sua disperazione a Dio stesso. Charles Baudelaire da Il Cigno (Traduzione di Roberto Mussapi)
mai scomparso e sostituito da altro, solo con gli occhi della mente scorge ancora i i mucchi di colonne e capitelli sbozzati, le erbe, i grandi massi inverditi dall’acqua di pozzanghera e le cianfrusaglie che brillano alla rinfusa dietro le vetrine. Là sorgeva, un tempo, un serraglio; da quel serraglio, un mattino, era fuggito un cigno, uscendo dalla gabbia. Il poeta lo rivede di colpo, come allora: raspa l’arido selciato con i piedi palmati, trascinando le bianche piume sul suolo sporco e scabro, spalanca il becco per abbeverarsi a un arido rigagnolo, mentre il bianco piumaggio si inzacchera di fango che sta asciugando e polvere, e nel cuore ha infisso il lago in cui viveva felice… Come Shelley e Keats parlano con l’allodola e l’usignolo, e Whitman con l’uccello mimo, Baudelaire comprende la lingua dell’alato. Che diceva: «Quando cadrai, pioggia? Quando tuonerai, folgore?». E mentre gridava questo lamento disperato il suo collo si levava inutilmente verso quel cielo dove aveva volato libero, un cielo che al poeta apparve ironico, spietatamente azzurro, e gli parve di udire che le ultime parole del cigno fossero una protesta contro Dio.
Parigi cambia, ma nulla è mutato nella malinconia del poeta, che camminando pensa al suo gran cigno, con i suoi gesti folli in quella strada, sublime e ridicolo come ogni esule, fuori dalla sua dimensione, dominato da una nobiltà che non può esprimersi se non in forme coatte e grottesche. E di colpo il destino di quel grande esule che ricorda i cieli e gli specchi azzurri dei laghi lì, su una strada polverosa bagnata da qualche pozzanghera di fango, di colpo il cigno svela il destino universale della grande anima imprigionata. E appare agli occhi della mente di Charles Baudelaire, appare Andromaca, la bella sposa del nobile Ettore assassinato da Achille con la complicità della dea greca Atena e con l’inganno, massacrato senza pietà e rispetto. E un’altra immagine, ancora femminile, suscita la visione del cigno: il poeta vede la negra, nella città nebbiosa e fredda, la negra smagrita e tisica, che cerca scalpicciando nel fango, con l’occhio attonito, dietro l’immenso muro di nebbia, le sagome assenti dell’albero di cocco dell’Africa Superba, e da lei il pensiero vedente corre a chiunque ha perduto ciò che non ritroverà mai più, a chi beve le lacrime di un esilio perenne, ai magri orfanelli appassiti come fiori. Così, nella foresta dove il suo spirito si ritira in esilio, un antico ricordo suona un corno, a perdifiato: «E penso ai marinai dimenticati,/sopra uno scoglio solitario, ai vinti,/ ai prigionieri, e a tanti, tanti altri ancora!». Questo vide e pensò e scrisse Charles Baudelaire, il massimo poeta di lingua francese di ogni tempo, che incontrò un cigno fuggito da un serraglio e ne comprese la lingua, la stessa dei poeti e di ogni esule, di ogni anima imprigionata che è nata per galleggiare come il fiore di loro e volare in alto.
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29 novembre 2008 • pagina 13
il club di calliope CERCARTI Cerco, a volte, l’aria della solitudine per meglio ascoltarti mai spenta, mai doma poesia. Strano, ma mai so se a trovarti riuscirò o se divenuta sei voce di un altro cuore, di un’altra mano. Allora al precario dire usuale attendo, e spazi e tempi e gli altri, appannati, a mia misura non vale richiamare.
UN POPOLO DI POETI Entro curiosa nella tua stanza E ti vedo nella culla delle braccia. Due chili e novanta. Elisabetta Dita magre, corrono sulla tastiera di pochi giorni. Di questa musica sei compiuta promessa. Ti ascolto. Il tuo è un ritmo da favola. E mi trovo. I tuoi sorrisi, semi nelle mani del vento vanno e mentre guardi, si spalanca una finestra sul mare. In questo gelo di città Il sole si è incantato sulle tue coperte
Quasi ora non volessero le mie visite accettare. Giovanni Piccioni
I tuoi occhi non vogliono lasciarmi, azzurro che germoglia, nel gesto disteso della tua mano. Sbalordisce il tuo venire al sapore di meraviglia.
CORPO A CORPO CON L’INCONOSCIBILE
Laura Vallieri
in libreria
di Loretto Rafanelli di grande interesse anche per il pubblico della poesia questo ultimo libro di CesareViviani sulla psicanalisi (L’autonomia della psicanalisi, Costa & Nolan, 116 pagine,12,00 euro). Ciò non perché egli sia uno dei massimi poeti viventi, nonché teorico della forma poetica fin dagli anni in cui curò, con Kemeny, Il movimento della poesia italiana negli anni Settanta, piuttosto per il fatto che la sua ricerca psicanalitica in
È
lento e delicato corpo a corpo con lo sconosciuto e l’inconoscibile». Cammino affatto semplice e scontato in una società come la nostra che si basa sul «traducibile» e l’«utilizzabile», dove tutto comporta una spiegazione e una sicurezza, una operatività e una praticità. Quindi l’intraducibile e l’inutilizzabile divengono momenti negativi, da cancellare, al pari «dell’invisibile, che, essendo spirito, fede e divinità», non può che essere rifiutato. Allora, pare
In “L’autonomia della psicoanalisi”, Cesare Viviani indaga quel territorio che confina con la poesia, che si affaccia al “limite del visibile, al buio dell’assoluto” verità diventa, come in altri suoi libri del genere, una riflessione sull’esperienza artistica e sull’inconoscibile, cioè quel terreno di confine che interessa sì la psicanalisi, ma anche la poesia. Certo nel libro ci sono anche pagine specialistiche che esulano dal discorso poetico (la differenza tra psicanalisi e psicoterapia, gli aspetti giuridici e giudiziari della legislazione in materia, ecc.), ma, soprattutto nella prima parte, troviamo argomenti assai importanti per comprendere quale spazio oggi si possa riservare alla poesia (e naturalmente alla psicanalisi, legate queste «estreme» pratiche da un filo per nulla secondario). Viviani ci dice innanzitutto che l’esperienza artistica è ispirata dall’incommensurabile, e in quanto tale si affaccia al «limite del visibile, al buio dell’assoluto…», ed è questo «un arduo e lento cammino, vio-
dirci l’autore, non rimane che resistere e fare dell’esperienza artistica (e psicanalitica) un fatto di civiltà. Ciò può significare anche di «procedere al buio» e di sconfinare in spazi dove non ci sono «rappresentazioni leggibili e visibili» e dove la consuetudine all’oscurità diventa una esperienza insostituibile. È questo, tuttavia, un passaggio che porta al «pericolo» di una diversità. Necessaria prospettiva se si ha premura del bene sociale e si cerchi una certa coerenza riguardo alla creazione, sia essa musicale, letteraria o pittorica. Ad esempio, ci dice Cesare Viviani, «chi scrive narrazione o poemi non pensi alle aspettative dei lettori, né al gusto corrente o di moda, non cerchi il pubblico o il successo». Ammonimento che forse interessa, oggi, pochi poeti, ma sicuramente numerosi narratori.
tra le costole ho trovato una tua lettera datata ora e sempre grondava sangue e china sulla terra diversificavi pena e dolore dalla macchia arrivammo all'altopiano dove ti apristi a conchiglia liberandoti della perla e inventasti l'arcobaleno arando il mio nome {nella tua parentesi graffa facevo mio il verbo essere}
- mi rendesti d'io cercando un figlio persi il filo la rima col tuo universo
il verso ora e sempre è da rifare: ancora non alloggio tutte le parole che abbiamo concepite di fatto risiedi ancora nella mia poesia Raffaele Niro
«Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma
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mostre
he vera sorpresa, anche per chi crede di conoscere bene Ernst Jünger, l’agnizione delle fotografie, scattate da questo singolare scrittore-filosofo, che ha attraversato il Novecento da brillantissimo ultra-centenario e da uomo puro, inflessibile, di cristallo e d’acciaio (come i suoi titoli) limpidissimo anche se talvolta considerato contradditorio. Fu tedesco in anni difficilissimi, rifiutò molte lusinghe da parte d’un Hitler suadente e il fregio delittuoso dell’Accademia di Poesia (Goebbels: «gli facemmo ponti d’oro, che lui sempre rifiutò di attraversare»). Con Carl Schmidt fu vicino all’ambiente dell’attentatore Stauffenberger; suo figlio in odore di resistenza arrestato e poi spedito di forza, giovanissimo, in un unità d’assalto, cade a Carrara, nel ’44. Lui stesso militare valorosissimo e superdecorato, diciassette volte ferito «con coraggio incondizionato», pur assaggiando la nausea della prima guerra mondiale (come Léger, vedendo i corpi in frantumi degli amici esplodergli accanto, ne parla Nelle Tempeste d’acciaio). Prima la parentesi minorenne nella Legion d’onore (Ludi Africani, con il padre che se lo va a riprendere e lo salva) e poi a Parigi, durante la seconda guerra, come ufficiale di censura, ruolo ingrato, certo, ma sanato con amici, che si chiamano Braque, Picasso, Cocteau, Montherland mentre litiga, guarda caso, con Céline. Epurato, esiliato (vivrà poi nella foresteria del castello di Stauffenberg) anche se Brecht e Hannah Arendt lo hanno sempre difeso. Amico di Mann come di Heidegger, di Spengler e Eliade come di Toller e Wedekind, considerato anticipatore del nazismo per il suo romanzo Der Arbeiter, l’Operaio, anche se da sempre, heideggerianamente, avverso alla Tecnica e alla «democrazia della morte». Pur consapevole che «non è la tecnica a fornire gli strumenti decisivi al dominio,
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Attimi estremi negli scatti di
Jünger di Marco Vallora
arti
ma la volontà che sta piuttosto alle spalle, se no gli strumenti tecnologici non sono altro che sinistri giocatoli». Entomologo della vita e delle scienze (ha dato il suo nome ad alcuni coleotteri) Jünger ha usato la penna come un microscopio (e ha provato pure l’ebbrezza da Lsd, con Hofmann e Huxley, per esser più lenticolarmente visionario) sentendosi via via «naufragare in un mare di sofferenza senza speranza», tra i primi a intuire quale orrore potesse nascondersi dietro l’organizzazione iper-tecnocratica, hegeliana, dei lager. «E allora mi assale lo schifo per le uniformi, le mostrine, le decorazioni». Ed è con questo spirito che, cosa pochissimo nota, tranne le sue allusioni nei Diari, forse come Longanesi, per delega tecnica, Jünger affronta il tema della fotografia e molto probabilmente le scatta, insieme al reporter Bucholz, collaborando ad alcuni volumi straordinari, di cui è testimonianza questa impressionante mostra, curata da Maurizio Guerri, che ha anche riproposto da Mimesis il volume Il mondo mutato, un sillabario di immagini del nostro tempo. Dove non solo isola magistralmente il momento drammatico che precede l’attimo della catastrofe, la bomba che cade o il campanile di Amburgo che crolla bruciando (quello che intitolerà L’attimo pericoloso) ma in modo molto benjaminiano e trucemente lirico - è davvero un militare inflessibile, in questo - dimostra quanto la macchina, in mano dell’uomo, possa diventare o arma oppressiva o liberatoria, grazie allo stridio del grottesco e dell’enfasi. La stoltizia pericolosa della folla in trionfo opposta alla solitudine cristologica dell’uomo-martire, come in un celebre fotogramma del film di Malaparte, Cristo proibito.
L’occhio fotografico di Ernst Jünger, Roma, Istituto di Studi Germanici, Villa Sciarra, fino a Natale
diario culinario
Igles Corelli, trent’anni di cucina italiana di Francesco Capozza i sono uomini che più di altri hanno lasciato un segno nella nostra storia recente. In tutte le discipline, nella politica certamente, come pure nell’arte, nelle scienze, nelle lettere. Anche nella cucina, che solo per i profani è cibo e sazietà, ma che per i «galantuomini» - come li chiamerebbe Oscar Wilde - è un puro piacere dello spirito, ci sono volti che hanno fatto la storia (diceva François de La Rochefocault: «mangiare è una necessità, mangiare intelligentemente è un’arte»). A tutti viene in mente il grande maestro Gualtiero Marchesi, il primo cuoco, nel 1985 ad ottenere le mitiche tre stelle Michelin; a molti certamente quello di Giorgio e Annie Pinchiorri, dell’omonima Enoteca di Firenze, oggi uno dei ristorani italiani più famosi al mondo, ma
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che nacque a metà degli anni ’70; a qualcuno, forse, quello del mitico Angelo Paracucchi, il primo che esportò, nel 1984, la ristorazione italiana all’estero. Pochi sanno, invece, che a uno dei cuochi attualmente più conosciuti (anche grazie ai potenti mezzi della televisione e del satellite), Igles Corelli, si deve una buona parte della storia recente della cucina italiana. Corelli ha poco più di cinquant’anni e per questo nessuno, tranne chi avesse avuto la ventura di leggersi qualche pubblicazione gastronomica dello scorso ventennio, immagina che sia al vertice della ristorazione italiana ininterrottamente dai primi anni Ottanta. Già, perché quando in gran parte dei «mangifici» della penisola venivano servite scodelle di fettuccine al sugo (dai tre etti in su) e carne alla griglia (per lo più maldestramente cotta e spesso bruciata), un poco più che ventenne Igles Co-
relli guidava una brigata composta da una dozzina di cuochi e proponeva piatti come il Budino di cipolla con salsa di fegato grasso, cumino e zenzero (1983), il Germano reale con salsa peperita (1986). Quel ristorante era Il trigabolo di Argenta, uno dei luoghi più sperduti d’Italia, avvolto dalla fitta nebbia delle valli del Comacchio (ma che tra i commensali abituali poteva vantare il presidente della Repubblica Cossiga e quello del Senato Fanfani) e quasi tutti i cuochi di quella brigata sono oggi famosi, qualcuno ai vertici delle Guide Gastonomiche( basti pensare che quello che è oggi uno dei due chef de L’Enoteca Pinchiorri era un commisdi Corelli al Trigabolo). Corelli ha dato alla storia un doppio contributo dunque: ha creato una fucina di giovani talenti e li ha proiettati nel futuro e ha inventato dei piatti che hanno dato l’ispirazione a una generazione (le
lasagnette croccanti che trovate oggi in molti grandi ristoranti Igles le faceva nel 1990!). Oggi si diverte dividendosi tra il suo piccolo paradiso, La Locanda della Tamerice a Ostellato, altro luogo non certo facilmente raggiungibile, l’insegnamento e i programmi televisivi tra i più seguiti di Rai Sat Gambero Rosso Channel. Il suo ristorante è immerso in una meravigliosa oasi naturistica, così, dopo aver sublimato il vostro appetito gustando l’Uovo croccante con cardoncelli e tartufo bianco d’Alba, o la Tartare di Alzavola con acetosella e capperi di Salina, potrete espiare il vostro peccato goloso con una passeggiata unica tra animali di specie protette e una vegetazione spettacolare nel suo genere.
Locanda della Tamerice, Ostellato (Ferrara), tel. 0533.680795; (prezzo medio 65,00 euro)
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29 novembre 2008 • pagina 15
architettura
L’Acropoli di Getty e Meier dieci anni dopo di Marzia Marandola
ono trascorsi dieci anni dalla realizzazione della cittadella del Getty Center di Richard Meier a Los Angeles: un intervallo di tempo che permette un primo bilancio su un’opera faraonica, unica nella straordinarietà tipologica e insediativa. Il Getty Center è la più doviziosa fondazione del mondo interamente votata alla storia dell’arte. Essa fu fondata da Paul Getty (1892-1976), magnate del petrolio di Minneapolis, la cui ingordigia collezionistica è all’origine di un’enorme raccolta, iniziata negli anni Trenta, che concentra a Los Angeles innumerevoli opere d’arte, dapprima soprattutto greca e romana, poi rinascimentale e barocca. Per la collezione in vertiginosa crescita Getty commissiona agli architetti Bob Langdon e Ernie Wilson una villa (1970-74) che, ricalcata su quella dei Papiri di Pompei, si rivela presto insufficiente. Il magnate destina allora l’11% del suo patrimonio a un Centro delle arti di cui, previo concorso, sarà incaricato Richard Meier. Non si tratta di un museo, ma di una cittadella per lo
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studio e la conservazione delle opere; un’acropoli dell’arte che Meier modella sul complesso imperiale di Villa Adriana e i cui giardini si ispirano a villa d’Este a Tivoli e a villa Lante a Bagnaia. Per mettere a punto l’assetto definitivo Meier si avvale di innumerevoli simulazioni sia grafiche che tridimensionali: i modelli, in materiali e scale diversi, conservati nel Museo Meier di Queens, attestano l’affascinante complessità del lungo processo
archeologia
creativo. Innalzato su un’area di 45 ettari, di cui 9 di superficie coperta, nel distretto di Brentwood, il Getty Center domina le Santa Monica Mountains, l’oceano Pacifico e la conurbazione di Los Angeles. Il complesso comprende oltre alla caffetteria, ristorante etc., una biblioteca con oltre un milione di libri, l’archivio, gli studi per i borsisti, gli uffici e le aule seminariali. I visitatori, parcheggiata l’auto a valle, accedono tramite un trenino bianco alla piazza d’ingresso, da cui parte l’asse viario che guida il percorso. Lasciando alla sinistra l’auditorium, l’Art History Information Program, il Conservation Institute e sulla destra il caffè-ristorante, si raggiunge la corte dei musei, dove la collezione di arte europea, dal Medioevo al tardo Settecento, è distribuita in padiglioni progettati per singole sezioni cronologiche. L’asse della corte dei musei si prolunga nel paesaggio tramite una rampa belvedere addossata a una quinta di
travertino rustico e conclusa da un bastione circolare, anch’esso in travertino rustico, che perimetra lo spettacolare giardino dei cactus sospeso sul paesaggio. Tutti gli edifici sono di abbacinante candore sotto il sole della California: al tipico rivestimento in acciaio porcellanato di Meier, essi alternano lastre a giunto aperto di travertino italiano a spacco di cava, una lavorazione antica che esalta la corrugata matericità della pietra romana e attesta il pubblico prestigio dell’architettura. Le geometrie angolate dei percorsi sono ammorbidite dai volumi curvi nei giardini che si attestano come connettivo orografico e visivo dei diversi corpi di fabbrica. Progettati da Robert Irwin, un artista d’avanguardia che si esprime con la vegetazione, i giardini raccolgono, come un orto botanico, le specie mediterranee e quelle autoctone. Se nell’insieme il giardino di Irwin, pur difforme dal progetto originario di Meier, ha trovato un equilibrio con l’architettura, continua a sconcertare negativamente il contrasto tra il rigore degli edifici e la vistosa volgarità degli interni affidati a Thierry Despont, un decoratore franco-americano di gran moda a New York, le cui idee, a quanto scrive Meier in Building the Getty (1999), non combaciano con quelle del progettista.
Despotikò, nel regno di Apollo e Artemide di Rossella Fabiani
li scavi sull’isoletta di Despotikò, a ovest di Antiparo, nell’arcipelago delle Cicladi, stanno riportando alla luce un notevole santuario di età arcaica, nel quale si veneravano i due figli di Latona: Apollo e Artemide. Risale a dodici anni fa, al 1996, il primo incontro di Yannos Kourayos, allora giovane archeologo, con l’isoletta deserta di Despotikò, nel cuore delle Cicladi. Oggi disabitata, Despotikò è un’isoletta rocciosa minuscula, che si trova a ovest di Antiparo, la quale a sua volta si trova a ovest di Paro. Plinio (IV 66) e Strabone (X 5,3) ci informano che in antico l’isoletta aveva il nome di Prepesinthos. Oggi sull’isola si trovano occasionalmente soltanto alcuni pastori, che non vi risiedono stabilmente, ma vi portano a pascolare le loro greggi. Despotikò, però, era abitata fin dall’epoca preistorica: alcuni resti di due necropoli di epoca protocicladica (III millennio a.C.) furono ritrovati sull’isola dall’archeologo greco Christos Tsountas, alla fine dell’Ottocento. Più tardi, verso il 1960, le indagini condotte, in località Mandra, dall’allora soprintendente alle Cicladi, Nicholas Zaphiropoulos, hanno portato alla luce altri resti, questa volta di epoca classica, ma scavi veri e propri in questa zona non erano mai stati effettuati. Qui, in questa località dell’isoletta separata da Antiparo da uno stretto passaggio, le prime operazioni di scavo sono state sponsorizzate dal ministero dell’Egeo e ora proseguono grazie al sostegno di fondi privati sotto la direzione di Yannos Kourayos e con la partecipazione di volontari provenienti sia da università greche che
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straniere. E così, questa squadra di archeologi ha riportato alla luce un santuario arcaico che Kourayos interpreta come un luogo di
culto dedicato ad Apollo e a sua sorella Artemide. A dimostrare questa attribuzione il ritrovamento di diverse testimonianze epigrafiche che recano l’iscrizione Apoll
e un’altra con l’iscrizione Arteme. Tra i ritrovamenti, anche il piede di una statua femminile di dimensioni maggiori del vero, forse la statua del culto del tempio. D’altra parte sono anche evidenti le somiglianze di questo santuario con quello detto Delion, a Paro, dedicato per l’appunto ad Apollo e Artemide. All’interno del complesso santuariale che dovette essere attivo perlomeno dall’epoca geometrica fino all’epoca romana - gli scavi hanno individuato diversi edifici e anche un altare di epoca classica, di forma quadrangolare, costituito da lastre marmoree; una di esse reca l’iscrizione Hestias Isthmias che consente l’attribuzione alla divinità Hestia, qui venerata come Isthmia, protettrice dei naviganti. Questo altare era accuratamente ricoperto di pietre che, a loro volta, sigillavano offerte: conchiglie marine, frammenti di coppe e alcune ossa. Ma il santuario non sorgeva isolato: all’esterno del recinto sacro, infatti, sono stati individuati altri edifici e anche una torre di avvistamento che si ergeva all’estremità del promontorio e che controllava l’ingresso del sicuro porto di Despotikò, sfruttando tra l’altro anche la visibilità di cui godeva questo punto con l’isola di Sifno a ovest e di Paro a est. I ricchi ritrovamenti sono una chiara testimonianza, con le loro provenienze diverse, dei contatti oltremarini del santuario. Despotikò, infatti, aveva relazioni commerciali con Rodi, con la costa ionica, con Corinto e persino con l’Egitto. Ovviamente anche con le isole più vicine delle Cicladi.
pagina 16 • 29 novembre 2008
fantascienza
MobyDICK
ai confini della realtà
l recente Living Planet Report, settimo rapporto del Wwf Internazionale, non è meno catastrofico dei sei che lo hanno preceduto dal 1998: «Se la nostra pressione sulla Terra continuerà a crescere ai ritmi attuali, intorno al 2035 potremmo avere bisogno di un altro pianeta per mantenere gli stessi stili di vita», ha affermato il presidente James Leape. Di apocalittiche previsioni di questo genere se ne sono avute a bizzeffe a partire dagli anni Settanta, però regolarmente fallaci. Non che non ci sia da preoccuparsi, ma gli allarmismi esagerati e soprattutto con date ben precise sono stati tutti smentiti negli ultimi quarant’anni, che non son pochi. Peraltro, per quale motivo ci dovremmo preoccupare del 2035 se nel 2012 avverrà la fine del mondo? Perché alle catastrofiche previsioni degli ecologisti si intrecciano le non meno catastrofiche previsioni dei millenaristi. Da qualche tempo infatti va per la maggiore una profezia dedotta da alcuni codici maya tradotti di recente. Secondo il loro calendario quella sarebbe la data fatidica per la Terra e ciò ha messo in subbuglio gli ambienti neospiritualisti del mondo, i residui della New Age e ciò che indistintamente l’ha sostituita, approdando anche al grande pubblico con una serie di articoli e libri. Ma una specialista del settore, rifacendo la storia delle grandi profezie, è estremamente scettica: con 2012; fine del mondo o fine di un mondo? (Ed. Mediterranee) Paola Giovetti ci spiega esaurientemente come un simile catastrofismo millenaristico in ritardo sia improbabile e anche sospetto.
I
Ma, se per ipotesi, secondo quanto prevede il Wwf Internazionale, nel 2035 «potremmo avere bisogno di un altro pianeta», vuol dire che la superstite umanità emigrerà verso le stelle e lascerà alle sue spalle dei piccoli robot spazzini per tentare di sgomberare il nostro povevo pianeta di tutta l’immondizia che vi avremmo lasciato? Una specie di Napoli all’ennesima potenza? Ma guarda un po’ è proprio questo il tema dell’ultimo film della Disney-Pixar di recente uscito anche in Italia, WallE, un vero e proprio capolavoro che ha sorpreso molti ma che ha alle spalle tutta una serie di storie fantascientifiche, racconti e romanzi, imperniati su robot abbandonati a se stessi, volontariamente o casualmente, e che ne combinano di tutti i colori nel bene e nel male. A dimostrazione che una vita non umana può continuare lo stesso, sia per seguire l’impulso iniziale dato dall’uomo, sia per realizzare scopi a noi imperscutabili, sia per adempire un compito che, per seguire alla lettera il comando originario dei suoi creatori, si rivela alla fine deleterio. Sin dal 1935, uno degli scrittori più geniali della fantascienza degli esordi, John W. Campbell, in Notte immaginava che gli automi continuassero a fare il lavoro per cui erano stati programmati nonostante che l’umanità si fosse estinta. Lo stesso tema, ma con un tono molto più dolente e «umanistico» lo ritroviano in alcuni capitoli di due romanzi famosissimi, formati entram-
Gli antenati di Wall-E di Gianfranco de Turris bi dall’unione di storie pubblicate in origine separatamente: Anni senza fine di Clifford D. Simak e Cronache marziane di Ray Bradbury (che Mondadori potrebbe ripubblicare finalmente con traduziuoni riviste e aggiornate). Qui i servomeccanismi
succede in Avventura su Marte di John Wyndham che risale addirittura al 1932, quando la prima spedizione terrestre sul pianeta rosso lo scopre abitato da robot in guerra fra loro! L’idea della lotta fra soli robot venne ripresa negli anni Settanta da
Il piccolo “elevatore di carichi di rifiuti, classe terrestre”, ultima invenzione della Disney-Pixar, è l’erede di un classico topos della migliore fantascienza, quella dell’Età dell’Oro. Da “Notte” di Campbell, 1935, alla saga dei Berserkers immaginata da Sabheragen tra il 1967 e il 1975 (come allora erano definiti) o veri e proprio androidi continuano a obbedire più o meno consapevolmente ai loro «padroni», portano avanti il loro compito, si sostituiscono a essi e, diciamo così, li perpetuano su una Terra che ne è ormai priva. I robot, in quanto prolungamento degli uomini, fanno però anche la guerra. Come ad esempio in Automaton (1950) di A.E. Van Vogt, o per conto terzi, cioè degli uomini stessi che qui non sono scomparsi come nel pubblicatissimo I difensori (1952) di Philip K. Dick. Il che può avvenire anche su un altro pianeta: è quel che
un disegnatore, bravissimo quanto assai bizzarro, Vaughn Bodé, che pubblicò una storia a fumetti su Wizend: dai ricordi che ne ho, proprio a quei disegni potrebbero essersi ispirati i creatori del robotino Wall-E, il piccolo spazzino innamorato.
I robot lasciati soli possono avere uno scopo (inconsciamente) positivo o negativo. Possono, tanto per dire, ricreare l’uomo ormai scomparso che però li aveva creati illo tempo (Istinto di Lester del Rey, 1952), o al contrario, quando si tratta di robotguerrieri abbandonati nello spazio,
dare la caccia ottusamente a qualsiasi essere vivente e mobile per distruggerlo (è la saga dei Berserkers - il nome è quello dei guerrieri teutoni invasati da cieco furore - cui Fred Sabheragen ha dedicati molti romanzi e racconti fra il 1967 e il 1975). Il piccolo «elevatore di carichi di rifiuti, classe terrestre» (questo vuol dire il complicato Waste Allocation Load Lifter Earth-class = Wall-E) non è altro, quindi, che l’ultimo simpatico erede di un classico topos della fantascienza dell’Età d’Oro, ingegnosamente riveduto e corretto e adattato alla sensibilità ecologica degli spettatori del 2008, con in più una spruzzatina «romantica», dato il colpo di fulmine che scocca fra lo sparuto e acciaccato robot-spazzino e la ipertecnologica e levigata Eve (che sta per Extraterrestrial Vegetation Evaluator), il cui simbolismo è ovvio, e che ha fatto venire in mente a qualche critico di essere di fronte a una versione avveniristica e robotizzata della classica vicenda Romeo e Giulietta. Abbastanza giustamente, direi. Scomparsa l’umanità nel 2800 chi mai si dovrebbe innamorare se non gli eredi meccanici di essa? E così la storia continua...