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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
PILLOLE
di Pier Mario Fasanotti a musica è insolitamente sempre la solita, nel senso che oscilla tra due poli assai distanti. Dicono di noi gli stranieri: cialtroni, servili, disorganizzati, chiassosi, inaffidabili, a volte molto volgari, mafiosi. Ma anche: inventivi, geniali, colti, ricchi di umanità, simpatici, anticonformisti. Questo dipende molto dall’immagine che l’Italia, a seconda dei periodi, offre di sé all’estero. Se con il fascismo eravamo diventati quasi una caricatura, con gli ultimi governi abbiamo davvero acquisito cattiva nomea e facilmente siamo accusati di essere maniaci del sesso, barzellettieri, affaristi corrotti, insomma non degni delle pagine più belle e limpide del nostro passato (antica Roma, Rinascimento, ecc.). Significativa la copertina dedicata da Newsweek a Berlusconi: in bella mostra due gambe femminili. La versione giapponese è ancora più cruda: il premier La Fallaci che guarda in alto, verso una ragazza in micommuoveva nigonna che
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Opinioni doc per conoscerci meglio
si davanti al tricolore, Montanelli rimpiangeva un Paese che non c’era più, Croce deplorava i moralisti da caffè… Nell’anno del 150° anniversario dell’Unità, una divarica le gamraccolta di 43 giudizi be. «Saranno ricordad’autore te come il nuovo luogo co-
D’ITALIANITÀ Parola chiave Rabbia di Gennaro Malgieri Il nuovo inizio di Fergie & Co. di Stefano Bianchi
NELLA PAGINA DI POESIA
Pietas e riscatto nei Sepolcri di Foscolo di Roberto Mussapi
Nostalgia di Walter Matthau di Orio Caldiron Tutti i déjà vu del nichilista Woody di Anselma dell’Olio
mune italiano nel mondo. Come la P 38 sugli spaghetti dello Spiegel negli anni di piombo» dice Beppe Severgnini. Se i poli di opinione all’estero sono sempre quelli (tutti molto negativi e qualcuno positivo) tutto s’ingarbuglia quando siamo noi stessi a interrogarci sull’italianità, all’affannosa e contorta ricerca di elementi comuni. Ciò in ogni caso conferma il nostro essere un popolo complesso e variegato. Un popolo che s’inalbera con stizza se viene insultato. Come dire: noi, solo noi, siamo autorizzati a parlare male del nostro carattere, ma guai se lo fanno gli altri. I più avveduti s’interrogano. Come hanno fatto Filippo Maria Battaglia e Paolo Di Paolo nel libro edito da Laterza (Scusi, lei si sente italiano?, 181 pagine, 15,00 euro). È una ragionatissima raccolta di opinioni, con buona pace di Benedetto Croce che (nel 1912 sulla Voce) s’innervosiva dinanzi a certi «moralisti da caffè o da farmacia», pronti ad «annunziare e dimostrare che l’Italia sta per disgregarsi politicamente o fallire economicamente o dissolversi nella corruttela».
Montagne sacre tra cielo e terra di Guglielmo Bilancioni
pillole d’
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italianità
Viva l’Italia… (bene o male) ome ogni ricorrenza, anche quella dei 150 anni di unità d’Italia solleva ignoranze, diffidenze, sorprese, e pure un po’ di noia per l’inevitabile patina retorica di certe ricostruzioni storiche. In ogni caso è occasione per riflettere su ciò che sta dietro il glorioso e contradditorio lavorio che ha portato lo stivale a diventare nazione. L’italianità, il senso di appartenenza. Carlo Fruttero e Massimo Gramellini, nel libro La patria, bene o male. Almanacco essenziale dell’Italia unita in 150 date (Mondadori, 330 pagine, 12,00 euro) hanno voluto allontanarsi dal grigiore della storia insegnata a scuola. Un po’ come fecero decenni fa Montanelli e Cervi. Brevi e argute zoomate sulle giornate importanti del Risorgimento, senza la paura di imbrattare gli ideali con semplici, e divertenti, cronachette. Dicono gli autori: «Non sembra il caso di suggerire ai nostri lettori di non aspettarsi i grandiosi affreschi di Tucidide o Tacito, di Machiavelli o Gibbon.Tutti sanno che non siamo storici e non avremmo comunque il mestiere e il genio per guardare a tali altezze. Ma da quei maestri una lezione l’abbiamo pur appresa: la Storia obiettiva, la Storia imparziale, la Storia definitivamente veritiera non esiste, può essere soltanto un’aspirazione, una meta intravista e irraggiungibile». Ugualmente accattivante, oltreché ben documentato, è il libro di Aldo Cazzullo Viva l’Italia! (Mondadori, 150 pagine, 18,50 euro). Il sottotitolo recita così: «Risorgimento e Resistenza: perché dobbiamo essere orgogliosi della nostra nazione». Cazzullo narra l’Italia in modo preciso e impietoso, in un momento in cui si moltiplicano le avvisaglie di una crisi non passeggera. Il giornalista-saggista del Corriere della Sera afferma che l’outlet è «metafora dell’Italia in svendita, della mercificazione dei valori, del degrado dei valori umani». Saremo anche un popolo dalle mille risorse, ma siamo anche quello che ha tre regioni in mano alla criminalità organizzata, un Paese dove la politica è spesso mezzo per far soldi e macchina di scandali, un Paese dove carabinieri e polizia sono sempre visti «come nemici al soldo di uno Stato ostile». I segnali s’infittiscono. E intristiscono. «In nessun Paese è così netta la separazione tra ricchezza e cultura: i ricchi sono spesso ignoranti, le persone colte spesso sono povere». La preparazione non
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Indubbiamente un buon profeta, il filosofo napoletano. Così come era genialmente sprezzante, sessant’anni dopo, Giuseppe Prezzolini quando s’occupava di un Paese che «fa compassione e disperazione», chiedendosi, alla fine: «Chi sarà il becchino dell’Italia?». C’è in effetti, ed è un leitmotiv, il timore dello sfascio. Salvo sorprendersi, poi, che ce la possiamo fare come è avvenuto dopo più visibili e tragiche catastrofi (la guerra). Comunque l’interrogazione su noi stessi è un gioco tormentoso, è la mente che s’interroga sulla propria struttura. Pare quasi un percorso ontologico, o metafisico. Difficile, o forse impossibile, spiegare questa accanita auto-vivisezione. Lo notava anche Leonardo Sciascia, con il suo acume: «Gli italiani… così ossessivamente s’interrogano, si ritraggono, si autoritraggono nella consapevolezza che non è colpa dello specchio se i loro nasi sono storti». Sempre Sciascia, manzoniano convinto, vedeva in un passo del grande romanzo «un disperato ritratto dell’Italia». In un articolo del 1985 sul Corriere della Sera ricordava ciò che Manzoni sosteneva, ossia che il Renzo che irrompe nella casa di Don Abbondio e «ha tutta l’aria dell’oppressore, eppure alla fin de’ fatti, era l’oppresso». Specularmente l’«assediato» e pavido Don Abbondio «parrebbe la vittima, eppure, in realtà, era lui che faceva un sopruso». I misteri caratteriali degli italiani sono, come si vede, cosa difficile.
La complessità dei giudizi aumenta se si considerano le varie immagini, o desideri, che noi abbiamo del nostro Paese. Oriana Fallaci non nascondeva la commozione dinanzi al tricolore e alle memorie patrie, ma faceva un distinguo: «Naturalmente la mia Patria, la mia Italia, non è l’Italia di oggi. L’Italia godereccia, furbetta, volgare degli italiani che pensano solo ad andare in pensione prima dei cinquant’anni…. l’Italia cattiva, stupida, vigliacca, delle piccole iene…». Lei amava l’Italia «seria, intelligente, dignitosa, coraggiosa, quindi meritevole di rispetto. E quest’Italia, un’Italia che c’è anche se viene zittita o irrisa o insultata, guai a chi me la tocca. Guai a chi me la ruba, guai a chi me la invade». «Mi sento profondamente italiano» ammette il anno III - numero 44 - pagina II
è premiata, la cultura non paga. La desolante cronaca degli ultimi tempi mostra impudicamente quel che avviene: «mercimonio tra sesso e fama televisiva o seggio parlamentare». Una parte della politica sbraita. È la Lega. Che, secondo Cazzullo, «recupererà la parola d’ordine delle origini: secessione». Magari non giuridicamente, ma Bossi e i suoi fedeli col fazzoletto verde sempre ben ostentato sono una minaccia all’unità d’Italia. Cazzullo contesta il carattere «nordico» della Lega, che definisce «il più mediterraneo dei partiti», governato dalla legge dell’amicizia e del rapporto personale con il capo. Gioca e agisce con le corporazioni. «La Lega è la risposta sbagliata, non all’altezza delle sfide della modernità, a una domanda giusta: la protesta contro uno Stato oppressivo e inefficiente, la rivendicazione di una specificità economica e culturale, il rifiuto di una globalizzazione senza regole e di un’immigrazione senza controlli». Che cosa direbbero gli eroi di Cefalonia e i partigiani che scrivevano alle famiglie «domani mi impiccano ma ce la faremo a costruire un Paese migliore»? Viene in mente il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio. Un ufficiale fascista gli chiedeva: «Cosa farete dell’Italia, ragazzi?». Lui rispondeva così: «Una cosa alquan(p.m.f.) to piccola, ma del tutto seria».
critico letterario Cesare Garboli. Il quale però si sente avvilito all’estero a tal punto da immaginare di voler essere rappresentato, semmai, da De Gaulle. E così continua: «L’identità nazionale è sempre sentita in termini di orgoglio rivendicativo e rabbioso. Senza pace, senza naturalezza, senza semplicità». Doti invece che appartengono ai francesi, per esempio. Malinconicamente Garboli pensa che «noi siamo stati il giardino dell’Impero, come diceva Dante». Vocazione servile? Certamente sì, «nel bene e nel male». Ma occorre guardare con estrema attenzione a Enea, il vero fondatore dell’Italia, «il nostro archetipo nazionale: noi ne siamo la parodia, la caricatura degradata». Enea ricco di pietas, scettico, cinico, eroe passivo che fonda un impero quasi a malincuore perché la storia è già scritta». Già, aggiunge Garboli: «L’italiano colto si comporta come se tutto fosse già avvenuto». «Perché è così complicato essere italiani?» s’interrogava Pietro Citati nel 1973. A proposito dei nostri vizi, «quando vogliamo averli davanti alla memoria, basta pensare che quell’ignobile attore, quell’astuto evocatore di fantasmi che fu Mussolini seppe individuarli tutti nelle pieghe più nascoste del nostro Paese, e li portò ingigantiti sulla scena pubblica: la mediocrità intellettuale, la fragilità nervosa, la bassa furbizia, la vanteria fallica, la presunzione immotivata, la fantasticheria a occhi aperti, il rozzo buon senso, il disprezzo per le idee, l’arroganza verbale». Per assurdo dovremmo essere grati a Mussolini per ciò che ha portato alla luce: secondo gli psicologi da qui si parte per la liberazione dai difetti. Ma «purtroppo gli studiosi di psicologia - avverte Citati - non hanno sempre ragione. Gli istinti, i desideri, i sogni, una volta che sono scatenati fuori dalle caverne del nostro io, non vi rientrano più: continuano ad agitarsi per il mondo, si diffondono, si moltiplicano e contaminano le persone più lontane». Insomma, non riusciamo a maturare, e «qualcuno ripete per anni le stesse parole, come un malinconico automa». E continuiamo a interrogarci.
Aveva dunque ragione Ennio Flaiano: «Viviamo nel secolo delle domande». Lui si sentiva italiano proprio perché si sentiva anche inglese, spagnolo, tedesco, svedese e così via. Sullo scivoloso crinale della battuta, aggiungeva: «Tuttavia, che io sia italiano potrebbe essere innegabile: infatti mi piace dormire, evitare le noie, lavorare poco, scherzare, e ho un pessimo carattere, perlomeno nei miei riguardi… per molti l’italiana non è una nazionalità, ma una professione».
Pare proprio che se ci si vuole rimettere su una carreggiata di dignità e di decoro, non si debba prescindere dal nostro passato, quello migliore. Ragionava Indro Montanelli, nel 1997, della nostra illusione a credere di aver liquidato alcune bruttissime pagine della nostra storia, soprattutto quelle che hanno impedito all’Italia di essere se stessa. Invece non è così: ci sono stati cambi di regime, ma «erano cambiate le forme, non la sostanza. Era cambiata la retorica, ma era rimasta retorica. Erano cambiate le menzogne, ma erano rimaste menzogne. Erano soprattutto cambiate le mafie del potere e della cultura, ma erano rimaste mafie». Montanelli così conclude: «Rimarremo quello che siamo: un conglomerato impegnato a discutere, con grandi parole, di grandi riforme a copertura di piccoli giochi di potere e di interesse. L’Italia è finita. Per me non è più la Patria. È solo il rimpianto di una Patria». Un anno dopo, una simile accorata riflessione di Eugenio Scalfari che cita il Leopardi dello Zibaldone: «Gli italiani non hanno costumi, essi hanno delle usanze. Poche usanze e abitudini che si possano dire nazionali, ma quelle poche sono seguite piuttosto per sola assuefazione. A prevalere sono soltanto l’abitudine e il conformismo, non la moralità perché l’Italia è, in ordine alla moralità, più sprovveduta di fondamenti che alcun’altra nazione europea e civile». Parole pesantissime. Rese ancora più grevi e attuali dal periodo eticamente difficile che stiamo attraversando.
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parola chiave
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RABBIA è nell’aria invernale un morbo difficile da definire. Ne avvertiamo la presenza nei piccoli gesti quotidiani, nell’insofferenza che riscontriamo attorno a noi, nel contatto con il prossimo. Non si parla più, si urla. Non ci si confronta, si cerca di imporre il proprio punto di vista. Non si accolgono le ragioni degli altri, si respingono. Nel pubblico come nel privato la dissacrazione è d’obbligo. Ossessiva. La condivisione viene interpretata come consapevole accondiscendenza, dunque come inclinazione alla debolezza. Si respinge l’altro da noi con lo stesso disprezzo che si prova per il nemico assoluto. E ciò appare come una suprema conquista dell’intelligenza liberata dalla sovrastruttura della tolleranza. Perciò gli avversari non hanno cittadinanza: chi non si sottomette a un punto di vista, va semplicemente abbattuto. Lo spirito del tempo ha aperto le sue braccia alle nevrosi di tutti i tipi. Sfuggire al destino dell’incomprensione, dell’indifferenza, della sottile malvagia voluttà del disfacimento dell’estraneo sembra impossibile. Accade così che il diverso, di tutti i generi, è «pericoloso» e, dunque, contro di lui ogni illecito comportamento assume le fattezze della buona causa da combattere per annientarlo. La civiltà delle opinioni che si affrontano è degenerata nell’inciviltà dell’inesistenza delle stesse e nella deificazione del pregiudizio. In famiglia, nei luoghi di lavoro, nella scuola, nell’università, per strada, al parcheggio, nei ristoranti, nei caffè dovunque, insomma, vi sia vita sociale, il demone della rabbia s’affaccia e s’impone; travolge perfino i più miti; fa vittime tra adulti e bambini; la sua glorificazione è nei talk show televisivi, nelle fiction granguignolesche, nel giornalismo arrabbiato.
C’
Ci chiediamo, nei rari momenti di resipiscenza, quando cioè riusciamo a guardare dentro noi stessi e a trovare la compagnia dell’anima smarrita davanti al nostro furore, se è umano, semplicemente umano, ciò che ci accade sempre più frequentemente al punto di renderci estranei alla nostra natura. La risposta si fa sempre più difficile. E piuttosto cerchiamo giustificazioni agli indecenti comportamenti che teniamo. La conclusione è surreale, dopo l’indagine introspettiva: la rabbia è connaturata alla nostra dimensione, si è assicurata un posto permanente tra gli elementi della nostra fragile umanità. E si indirizza contro chiunque provi a scalfire un qualsiasi interesse ci stia a cuore. Non saprei dire
Come un morbo che si diffonde, un demone che si impone dappertutto, si è assicurata un posto permanente nella nostra fragile umanità. È la spia di un declino che si consuma fin dentro le nostre privatissime vite
Litigo ergo sum di Gennaro Malgieri
Gli individui e gli Stati sono in preda a un delirio di onnipotenza dovuto al disconoscimento della temperanza. Una virtù che non è lecito praticare in un tempo in cui è permesso prendersi tutto ciò che si desidera. Senza considerare che il confine della libertà è dove inizia quella degli altri... come e quando tale mostruosa tendenza si sia radicata. Resto però sconvolto nel constatare che i parametri comportamentali contemporanei sono informati a una rabbiosità crescente che viene ritenuta normale. Ed è talmente normale che gli studenti, senza sapere perché, aggrediscono la polizia, spaccano le vetrine, innescano immotivate rivolte, mettono a soqquadro centri cittadini, inveiscono contro chiunque osi ricondurli alla ragione. È altrettanto normale che il crimine, anche efferato fino all’omicidio, si diffonda a macchia d’olio in aree sociali nelle quali mai si sarebbe pensato che potessero insorgere focolai appunto di rabbia tali da provocare la distruzione dell’antagonista reale o immaginario. E viene considerata in linea con quanto si vede in televisio-
ne la sconsiderata prassi di non riconoscere una via d’uscita a chi si oppone a una qualsivoglia tesi. Insomma, si deve litigare perché si possa dire di esistere. Sembra fantascienza, ma non lo è. In tutta Europa, tralasciando il resto del mondo dove pure gli idilli non fioriscono come margherite a primavera, viviamo nella sinistra ombra di un declino che si consuma fin dentro le nostre privatissime vite. Senza vie d’uscita ci neghiamo il piacere di riconoscerci in qualcosa di più alto dell’egoismo che si estrinseca rabbiosamente nel tentativo di imporre ragioni che, nella maggior parte dei casi, tanto «ragionevoli» non sono. Gli individui e gli Stati sono in preda a un delirio di onnipotenza dovuto al disconoscimento della temperanza, una
virtù che non è lecito evidentemente praticare nel tempo in cui è permesso prendersi tutto ciò che si desidera e desiderare tutto ciò che si ritiene di potersi prendere, senza considerare minimamente che il confine della libertà è laddove inizia quella altrui. Si spiega così perché, chiuse dietro le nostre spalle tutte le porte possibili e immaginabili, c’immergiamo, ormai senza neppure più rendercene conto, in una sorta di solipsismo che ci fa considerare «unici» e dunque fastidiosi tutti gli altri. L’asocialità è una sorta di malattia endemica che quando si esprime collettivamente dà luogo a quel disagio i cui frutti riempiono le strade delle città e delle nazioni opulente.
Rabbia e soltanto rabbia muove il potere, i contropoteri, i falsi poteri. Rabbia e soltanto rabbia eccita famiglie fragili a compiere follie che fanno inorridire. Rabbia e soltanto rabbia motiva giovani in cerca di qualcosa che nessuno gli ha mai spiegato, posto che i cattivi maestri si affacciano a ogni ora del giorno dagli schermi televisivi, da internet, dagli iPad, dai display dei telefonini, pulpiti dell’odio che pure viene spacciato, arditamente, per amore. In occasione della tragica morte di Mario Monicelli, ho visto uno striscione precedere un corteo di studenti sul quale era scritto: «Mario, la faremo noi la rivoluzione». La rivoluzione? E quale? E come? E perché? Se ne sente il bisogno? Forse sì, ma probabilmente quella che ci vorrebbe non è la rivoluzione di un manipolo di scalmanati, strumentalizzati da altri rabbiosi odiatori, ma la rivoluzione della conservazione dei valori qualitativi della vita. Se le energie s’incanalassero verso la riscoperta di un sentimento comunitario dell’esistenza e si aprissero alla trascendenza, al sacro probabilmente non assisteremmo più alla distruzione della ragione stessa che, secondo qualcuno, giustifica e indirizza la rabbia che rischia di travolgere ogni cosa. Ma ciò che è auspicabile, difficilmente diventa possibile. Bisognerebbe cambiare troppe cose, mentre si è presi dall’incubo della sopravvivenza alla devastazione quotidiana che annichilisce politici e operai, borghesi e proletari, studenti e disoccupati. Cominciare è possibile, naturalmente, ma a patto che si riaprano le antiche botteghe del sapere e si chiudano gli ipocriti dispensari di parole senza idee, di idoli di cartapesta, di controfigure di verità semplici. Una rivoluzione culturale? Ma sì. Purché fatta con rabbia. La rabbia divina di De Maistre e di Pasolini.
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Pop
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musica
Così parlò il venerato maestro LORENZO CHERUBINI di Bruno Giurato
di Stefano Bianchi occherà a loro, il 6 febbraio a Dallas, esibirsi durante l’intervallo della finale del Super Bowl. I losangelini Black Eyed Peas saranno la prima contemporary band a farlo dopo lo «scandalo» di Janet Jackson, che nel 2004 duettando con Justin Timberlake «uscì di seno» di fronte alle telecamere. Apriti cielo.Tant’è che nelle ultime edizioni dell’epico match di football americano ci si è affidati ad artisti meno rischiosi e più ingessati (Paul McCartney,Tom Petty, Bruce Springsteen, Who) per non turbare l’audience televisiva. Fra due mesi, però, quella bomba sexy di Fergie (al secolo Stacy Ann Ferguson) farà sudare freddo qualche anima pia. E rapperà sul filo del rasoio, a metà partita, con Will.I.Am (William James Adams Jr), Apl.de.Ap (Allan Pineda Lindo) e Taboo (Jaime Luis Gómez) ricordando a tutti che i Black Eyed Peas hanno venduto più di ventotto milioni di dischi e trentun milioni di tracce digitali; tenuto più di trecento concerti in ventinove nazioni, staccato due milioni e mezzo di biglietti e vinto sei Grammy Awards. Più che logico, allora, che il loro hip-hop votato al crossover con elettronica, pop e rhythm & blues dia una bella verniciata modaiola all’evento dell’anno. sportivo D’altronde, il curriculum parla chiaro: dalla fine degli anni Novanta, i «piselli dagli occhi neri» hanno inciso dischi a loro modo innovativi (Behind The Front, Bridging The Elephunk, Gap, Monkey Business, The E.N.D.) riempiendo il penultimo di illustri partecipazioni (Sting nel brano Union, James Brown in They Don’t Want Music, Justin Timberlake in My Style) ed estrapolando dall’ultimo il singolo Boom Boom Pow rimasto in vetta alla prestigiosa classifica Billboard Hot 100 per
T
Jazz
zapping
sempre bello trovarsi di fronte a un artista nel pieno della maturità. Ovvero, per dirla con Arbasino, al passaggio topico dal momento «solito stronzo» a quello «venerato maestro». Lorenzo Cherubini in arte Jovanotti è proprio lì. Gli inizi non furono esaltanti. Il Jovanotti di Sei come la mia moto, si prese della testa di legno da buona parte dell’intelligenza del Paese, tra cui un ferocissimo Michele Serra. Poi si sarà elevato lui o saranno scesi gli intellettuali (la faccenda non è chiarissima), c’è stato un momento freak apprezzato da molti. Lorenzo 1994, L’ombelico del mondo, Lorenzo con una spettacolare zazzera no global e sotto la zazzera idee no global. A posteriori si può quasi pensare che avesse ragione a esaltare Cuba e il Che e Fidel, in omaggio al cattiverio, ma allora non lo faceva per cattiveria. Poi il periodo Per te, canzone meravigliosa non foss’altro che per il ritornello: «È per te ogni cosa che c’è/ ninnanà ninnaè» (e peccato per i leziosissimi violini e corni inglesi dell’arrangiamento). Ma finalmente siamo nel periodo avanguardia. Disco in arrivo con tanti ospiti (di solito è segno di bollitura), copertina di Cattelan (ci metterà il bassista Saturnino colpito da un meteorite?), intervista sul Corriere pacata, acuta. I cantautori sono un fenomeno esaurito per Lorenzo, che rivaluta gli anni Ottanta, elogia il classico Vasco, e tiene a far sapere che per lui l’ottimismo è non il profumo della vita ma un atto di volontà. E poi nel suo pantheon privato fa alcuni nomi, il Jovanotti, tra cui Carmelo Bene. Avete letto Bene, lui, l’antidemocratico, lo spregiatore delle buone intenzioni. Fini non potrebbe citare Bene, Bersani non ne parliamo. Forse solo Vendola, che non lo farà mai. Ma lui, Lorenzo, può citarlo tranquillamente. Jovanotti è proprio entrato nella fase venerato maestro.
È
Benvenuti nell’era
della Pea domination dodici settimane consecutive. In più, il quartetto ha partecipato al Live 8 (2005) e al Live Earth (2007), rappato con gusto per Barack Obama (2008), fatto da supporter agli U2 nel tour americano del 2009 e griffato lo scorso 10 giugno il concerto d’apertura dei Mondiali di calcio in Sud Africa. Al Super Bowl, garantito, proporranno schegge del nuovo The Beginning che secondo Will.I.Am «non solo si riferisce all’inizio di ciò che sta accadendo nel campo delle tecnologie (3D, video a 360 gradi…) ma sintetizza la nostra voglia di sperimentare prendendo canzoni del passato e stravolgendole». Come The Time (The Dirty Bit), che ruota attorno a una traccia di (I’ve Had) The Time Of My Life tratta dal film Dirty Dancing dell’87 per poi avvitarsi in una spirale techno. The Begin-
ning piacerà soprattutto a chi, come il sottoscritto, ha puntualmente litigato con l’hip-hop e non potrà che apprezzare le «digressioni sul tema», cyber-melodiche, di Just Can’t Get Enough e il technopop frizzantino di The Best One Yet (The Boy); l’immediata orecchiabilità di Love You Long Time e il rap con tutti i crismi di Xoxoxo e Do It Like This; le virate a sorpresa nel rock (Someday) e l’incedere romantico di Whenever che a un certo punto si trasforma in dance; l’energia discotecara di Fashion Beats e il trascinante battito elettronico di Don’t Stop The Party; il passo robotico di Play It Loud e il coinvolgente rhythm and blues di Light Up The Night. «Questo disco è l’inizio di una nuova Pea World Domination Era», ha dichiarato Taboo con la giusta spocchia. «Allacciatevi le cinture di sicurezza, Pea-ple, e godetevi il viaggio!». Dalla notte del Super Bowl in poi, Fergie permettendo. The Black Eyed Peas, The Beginning Interscope/Universal, 19,50 euro
Stefania, Elga e Silvia... tre signore per piano e voce di Adriano Mazzoletti uando Paolo Conte cantava che alle donne non piace il jazz non avrebbe mai immaginato che trent’anni dopo molte ragazze si sarebbero distinte come eccellenti musiciste, ma non solo. Oggi le donne, forse più degli uomini, amano questa musica che in tempi non troppo lontani gradivano assai poco. Così mentre i ragazzi sono più attratti dal rock e dalle sue innumerevoli varianti, le ragazze sono affascinate dalla nuova liricità del jazz. Ai concerti e ai festival la presenza delle donne è assai numerosa, ma anche fra i musicisti sono apparse strumentiste degne di attenzione. È il caso di tre pianiste, tutte attive nella Capitale, Stefania Tallini, Elga Paoli e Silvia Manco, le due ultime anche cantanti, i cui dischi recentemente pubblicati hanno favorevolmen-
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te colpito pubblico e critica. La più conosciuta è Stefania Tallini, diplomata a Santa Cecilia, le cui prime incisioni risalgo al 2002. Nel suo ultimo lavoro discografico, The Illusionist (Alfa Music), dimostra ormai grande maturità e personalità mentre nel suo stile riesce a coniugare energia e delicatezza, emozione e lucidità. Assai diverse, Elga Paoli e Silvia Manco. Nei loro lavori hanno privilegiato la par-
te vocale a quella strumentale, anche se ambedue sono eccellenti strumentiste, come si evidenzia nei brani per solo piano come i riusciti Incongruenze e Spleen-Dream, con il sassofonista Gian Piero Lo Piccolo, della prima (in Profumo di jazz, Koinè Records) e in alcune parti di solo piano nelle canzoni incise dalla seconda (in Afternoon Songs, Nuccia Records). Mentre Stefania Tallini ha
scelto di registrare l’intero disco - quindici brani - di solo pianoforte, Paoli e Manco hanno voluto al loro fianco musicisti eccellenti, la tromba Fabrizio Bosso e il contrabbassista Francesco Puglisi con Elga Paoli, il batterista Roberto Gatto, il bassista Dario De Idda, il chitarrista Fabio Zeppetella, il sassofonista Daniele Tittarelli, la tromba Giovanni Falzone, musicisti ben conosciuti e altamente apprezzati, con la Manco. Di strumentistecantanti il jazz non è certamente ricco. Le prime che vengono alla mente, dall’inizio del jazz a oggi, solo le pianiste Lil Hardin, Una Mae Carlisle, Nellie Lutcher, Nina Simone, Tania Maria, Blossom Dearie, la trombettista Valaida Snow, la chitarrista Mary Osborne e naturalmente Diana Krall. Ben vengano dunque, Silvia Manco e la talentuosa e jazzistica Elga Poli ad arricchire questo settore del mondo del jazz.
arti Mitologie
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era, un tempo, un picco del Monte Meru famoso nel trimundio. Questo picco traeva la sua discendenza dal Sole ed era chiamato Luminare; era ricco di ogni sorta di gemme, incommensurabile, inaccessibile a tutte le genti». È scritto nel Mahabharata, il grande poema epico della mitologia hindu. La Montagna Sacra è un archetipo dell’ascensione mistica, del difficile passaggio fra terra e cielo, simbolo della situazione dell’uomo nell’universo, luogo splendente e assoluto di pace e di potenza. «Questa montagna di neve è l’ombelico del mondo (...) Qui si può raggiungere la Perfezione trascendente». L’immenso Kailash sull’Himalaya, il monte Olimpo dei Greci, l’Ararat armeno ove trovò salvezza l’Arca, il Tabor in Galilea, l’Athos costellato di monasteri, o il «Sacro Monte» in Italia, uniscono mito, religione e antropologia come manifestazioni terrene della montagna cosmica, asse del mondo e sostegno del cielo. Stabilità, concentrazione, elevazione e centralità hanno fatto sorgere dalla terra le prime architetture, simulacri della montagna: piramidi, ziqqurrat e templi a gradoni sono stati edificati, da tutte le civiltà antiche, in luoghi molto differenti, per realizzare una mediazione fra questo mondo e i mondi superiori e sconosciuti. Per intraprendere una incomparabile scalata, e oltrepassare in silenzio, tentando di raggiungere quel punto ove la terra possa vivere in armonia con il cielo. I Templi-Montagna, gioielli incastonati nella crosta della Terra, sono la meravigliosa apparizione di questo anelito al superamento: Prambanan e Borobudur a Giava, Ellora in India, Angkor Wat in Cambogia, e ogni chorten in Tibet, ogni Stupa o Sikhara, obelisco o piramide, dall’Egitto al Messico. Julien Ries, teologo, antropologo e storico delle religioni, ha curato un libro prezioso su questi temi mistici, raccogliendo una cospicua serie di saggi che affrontano in modi differenti le varie forme di questa grande realtà spirituale.Tutte le mitologie si riferiscono alla montagna-uni-
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«V’
Moda
Montagne sacre tra cielo e terra di Guglielmo Bilancioni verso come origine, misterioso ricettacolo della devozione e simbolo dell’ascesa verso il sole: in Mesopotamia, in Egitto, in India, in Cina e in Giappone. Mosè salì su un monte a incontrare Dio e la sua Legge. E, ancora, «nella vita di Gesù la montagna occupa un posto di privilegio»: il discorso
della Montagna, il Monte degli Ulivi, laTrasfigurazione, il Golgota, o Calvario. Meta di pellegrinaggio, «cammino verso un centro al fine di incontrarvi una Realtà trasformante», «ogni santuario è assimilato a una montagna», che è luogo e oggetto di culto. Qualcosa che, di per sé e in quanto tale,
spinge alla preghiera e alla meditazione, al raccoglimento sotto la volta del cielo e alla gratitudine per la vita ricevuta in dono. Il paesaggio sublime raggiunto dal pellegrino è il paesaggio interiore. Conquistato con umile determinazione, verso una direzione non deviabile, e con enormi fatiche, che mostrano i limiti umani. È l’esperienza della cosmoteoandrìa, secondo la definizione di Raimon Panikkar, mistico moderno e audace attivista del dialogo interreligioso: universo, Dio e uomo sono uno nei luoghi in cui assoluto e relativo si confondono nel mistero, ove le certezze sono rafforzate dai dubbi, nei momenti mistici in cui vedere e ascoltare confluiscono nella percezione dell’Altro. Il «totalmente Altro», diceva Rudolf Otto, che è il Sacro. Panikkar, che viveva fra le montagne della Catalogna, fra nubi, luci e nebbie mistiche, mostra grande saggezza anche in questo: «Quale montagna non è sacra?». Eppure la montagna non esiste in sé, dice il Maestro traendo questa nozione dalla dottrina buddhista della vacuità, secondo la quale tutti i fenomeni sono privi di un sé separato e indipendente, privi di sostanza intrinseca, transitori e privi di identità. E continua, impiegando l’altra dottrina buddhista della co-produzione condizionata, secondo la quale Questo esiste perché Quello esiste: la montagna è «spettacolo» che richiede uno «spettatore». Essa non è che immagine della coscienza umana, che tende verso l’alto: oggetto-evento ove appaiono i numi, maestoso e tremendo, la montagna rivela il sacro mentre, intangibile, lo trattiene in se stessa. Coloro che «brillano nell’ascesi», come è scritto nel saggio sulla Montagna Sacra nel mondo Bizantino di Gaetano Passarelli, mirano alla luce che essi stessi saranno capaci di produrre con il loro risveglio nelle altezze spirituali.Vi sono molti altri saggi in questo libro prodigioso: sulla Mesopotamia, sul Tibet, l’Iran, la Cina, la Grecia Antica, ciascuno illustrato con meravigliose fotografie, ognuna delle quali mostra la stessa semplice verità: lassù c’è Qualcosa. Julien Ries, Montagna Sacra, Jaca Book, 254 pagine, 80,00 euro
Quando vanità fa rima con sostenibilità
i può essere frivoli e buoni? Fashionisti senza colpa? Adesso sì. Concessi i jeans, ma di cotone organico e colorati con tinture vegetali. Concessa la seta, ma vegana, filata senza uccidere il bruco. Siamo entrati nell’era della moda etica, dove vanità fa rima con sostenibilità e qualche volta con carità. Perciò l’animalista Stella McCartney ha reso trendissima l’ecopelle dei suoi stivali. Gucci ha chiesto sia la certificazione SA8000 (per tutelare i diritti dei lavoratori lungo tutta la filiera produttiva) che la ISO 14000 (impatto ambientale ridotto) e Giorgio Armani utilizza sempre di più poliestere riciclato, canapa e cotone bio. C’è chi usa il laser per ottenere l’effetto stone washed sui jeans senza sprecare acqua (Marithè + François Girbaud) e chi, come Beppe Angiolini, presidente della Camera Buyer Moda teorizza «fashion a chilometro zero». La consacrazione dell’ecofriendly è arrivata da Vogue, con la cover dedicata a Sarah Jessica Parker, e allo snobissimo *Wisb, famoso per i suoi materiali senza trattamenti chimici. Etichetta e cartellini sono realizzati con semi di fiori essiccati e colorati con un inchiostro di soia. Il cartellino, poi, o può essere piantato in un vasetto e volendo occuparsene, nascerà una piantina. Invece il simbolo di Cangiari è un abito in tessuto di ginestra, di un morbido bianco grezzo, filato a mano su antichi telai restaurati. Un capolavoro di mo-
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di Roselina Salemi
Proposte ecosostenibili di Class da minimalista, ma soprattutto un manifesto. In calabrese e in siciliano cangiari vuol dire «cambiare». Ogni gonna, giacca, sciarpa, parla di diritti umani, partecipazione, bene comune, legalità, ecologia e nonviolenza, a
cominciare dalla seta Muga (il bruco diventa farfalla e i fili che ha spezzato saranno riannodati). Sui tessuti, restano le rigature e i segni del telaio. Beauty is different è la parola d’ordine. Ognuno ha la sua. Per Carmina Campus, cioè Ilaria Venturini, Fendi è «creare senza distruggere». Sedili di vecchie auto, serrature, cerniere, cuscini, tende veneziane, va tutto bene. Sacchi neri della spazzatura, doppiati come se fossero di pelle, si trasformano in shopping bordate in cuoio e borse da postino, molto chic. Per l’avanguardia assoluta, c’è Class (Creativity Lifestyle and Sustainable Synergy). Materiali organici, riciclati o innovativi: biopolimeri derivati da proteine del latte, soia, alghe, bambù, fibre del legno, carapace di granchio. Due esempi: Agostina Zwilling crea gioielli e accessori sorprendenti con il feltro tinto e trattato, e Margot (LauraVedani) produce bijoux congelando fiori naturali (quest’anno ha scelto il mandorlo e la viola) con una resina atossica. E arriviamo a «So Critical So fashion», un’associazione passata dal recupero al glamour. I tessuti boliviani di Emanuela Venturi (alpaca tinta con erbe locali e cocciniglia), lo streetwear di Mitzica (camere d’aria al posto della pelle), i rammendi couture di Riciclabò, gli abiti rebus di Shamat, i mix di damasco e lana cotta infeltrita a vapore dimostrano che la moda è già cambiata. Niente paura. La frivolezza etica ci salverà.
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il paginone
Nel 2010 avrebbe compiuto novant’anni Walter Matuschanskayasky in arte Matthau, ebreo figlio di immigrati russi, nato a New York dove frequenta il teatro yddish della Seconda Avenue, entrando a far parte così della grande tradizione dei comici che sanno ridere di tutto. Il «Cary Grant ucraino» amava definirsi, in ricordo delle sue poverissime origini. Dagli esordi a Broadway ai successi firmati da Billy Wilder, è a tutti gli effetti un’icona del nostro immaginario collettivo di Orio Caldiron uando la moglie è in vacanza (1955) è irresistibile nonostante il piccolo editor rimasto solo a casa in una torrida estate newyorkese sia privo di carisma. Puntualmente frustati dal candore assoluto dell’inquilina del piano di sopra, i suoi goffi tentativi di conquista si concludono solo con l’ammissione paradossale ma vera: «D’accordo, ho una bionda in casa. Ho Marilyn Monroe nella doccia!». L’editor alle prese con the girl è Tom Ewell, che l’aveva impersonato a Broadway nella commedia da cui è tratto il film. L’attore non piace a Billy Wilder che fa un provino a Walter Matthau con risultati straordinari, senza riuscire però a imporlo alla 20th Century Fox. Il film va male al botteghino e molti danno la colpa al basso profilo del prota-
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gonista. Sarebbe andato meglio con Matthau? Chissà. Nel 1955 Walter Matthau - nato a New York nel 1920, morirà a Santa Monica nel 2000 - al cinema è un perfetto sconosciuto. Si chiama in realtà Walter Matuschanskayasky e viene da una famiglia ebrea di immigrati russi di desolante povertà, che esorcizza frequentando il teatro yddish della Seconda Avenue. Durante la guerra si arruola in aviazione e porta a casa parecchie medaglie.
Attore nato, fa l’impiegato, il radiotecnico, il pugile, l’allenatore di baseball e altri mille mestieri prima di affermarsi a Broadway come uno dei commedianti più estrosi e promettenti. Sullo schermo comincia con Il Kentuckiano (1955), dove è il sadico westerman che frusta Burt Lancaster. Nella decina di film del periodo si deve accontentare del ruolo del vilain dal volto arcigno e dalla tenace aggressività. Come avviene anche in Sciarada (1963) di Stanley Donen, un intrigo internazionale che ha le scandite simmetrie del musical. Bartholomew, lo stravagante funzionario della Cia che bazzica l’ufficio soltanto durante la pausa-pranzo, è un cattivo da ridere, ironico, sornione, doubleface. Anche se lui e Cary Grant si inseguono tra le colonne del Palais Royale, mentre Audrey Hepburn teme di sporcarsi il costosissimo Givenchy che indossa, i colpi sembrano a salve tanto il clima da mascherata prevale su tut-
Quel ragazzo ir to. La consacrazione arriva poco dopo con Non per soldi… ma per denaro (1966) di Billy Wilder, il film della svolta grazie al quale la sua carriera s’impenna fino a raggiungere lo statuto del protagonista di primo piano che conserverà per oltre un trentennio. Con l’esuberanza del mattatore che conosce le sottigliezze della recitazione ma anche le ricette del successo. Se il regista è in forma smagliante in una delle sue commedie al vetriolo più acide e frastornanti, l’interprete si muove con straordinaria scioltezza nello spazio claustrofobico della stanza d’ospedale e dell’appartamen-
Jack Lemmon (41 anni), una delle più vivaci e inossidabili della commedia brillante americana. Si è detto coppia, ma bisogna intendersi. Ci sono tanti modi di far coppia, sullo schermo come nella vita. Se qualcuno fa tutto da solo, c’è un altro tipo di attore che si completa con la presenza del compagno senza del quale neppure esisterebbe. Se si possono confrontare, Chaplin e Totò - l’uno viene dal music-hall, l’altro dal varietè - sia pure in modo diverso hanno bisogno della spalla. Stanlio e Ollio non sono nulla al di fuori della coppia, soltanto quando sono assieme si animano co-
importanti. Quando sono assieme i due giocano la partita con le loro carte più personali e vincenti. Matthau è l’eccesso, l’accumulo dei segni, la moltiplicazione dei gesti. Lemmon è la sottrazione, il sottotono, la minimizzazione. Quando il primo strafà, il secondo gioca di fair play. La rivincita se la prende semmai puntando i piedi. Non ci sta più, si sottrae alle imposizioni del partner, se non ricorre addirittura alle stesse armi del compagno, riappropriandosi dell’estrosa invadenza dei protagonisti. Si sbilanciano di continuo, tra prevaricazione e arrendevolezza, ma si conquistano
Con Jack Lemmon è stato capace, in un abile gioco di fair play, di formare una coppia unica nel cinema. Nessuno dei due fa da spalla, ognuno è uno straordinario solista in perfetta armonia con l’altro to di Harry Hinkle, il cameraman che ha investito il giocatore nero «Boom Boom» Jackson durante una partita di football. L’avvocato imbroglione Willie Gingrich è la maschera irripetibile della grande truffa, tutta giocata sugli atteggiamenti volpini, il passo ondulato, le ammiccanti strizzate d’occhio, gli insinuanti giri di parole usati sempre a colpo sicuro. Come fosse in un’aula di tribunale. Il film è fondamentale anche perché l’incontro con il grande Billy coincide con la nascita della coppia Walter Matthau (46 anni) e
me un perfetto meccanismo d’orologeria, una macchina da guerra puntata contro la logica.
Il caso di Matthau e Lemmon sta a sé. Sono anzitutto due straordinari solisti. Lemmon l’ha dimostrato in tante occasioni «prima» di incontrarsi con Matthau. Come dimenticare A qualcuno piace caldo (1959), L’appartamento (1960), Irma la dolce (1963), i tre capolavori con Wilder? Matthau lo dimostrerà soprattutto «dopo» con un gran numero di titoli importanti e meno
il fotogramma a colpi di risate come in un cartoon. Sono due maschere dai caratteri complementari e contrapposti che si esibiscono in un duetto da commedia dell’arte in cui la tempistica è tutto. La strana coppia (1968) inaugura il rapporto con Neil Simon, il commediografo della middleclass metropolitana più rappresentato nel mondo. Il film di Gene Saks, anche lui un affidabile artigiano che viene da Broadway, ripropone la celebre pochade sull’amicizia virile che aveva trionfato a teatro. Il successo è clamoro-
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rresistibile so anche al cinema. Nel grande appartamento in cui convivono Oscar Madison (Walter Matthau) e Felix Ungar (Jack Lemmon) - i due neodivorziati che litigano in continuazione tra una partita di poker e un attacco di casalinghitudine - sembra di essere in un ring dove le battute rimbalzano micidiali come colpi bassi. Sono loro, Walter che fa la voce grossa ma non riesce a nascondere l’autoironia e Jack il nevrotico dalla lacrima facile ossessionato dall’ordine, sono loro la strana coppia, un titolo che da allora in poi li perseguiterà come un marchio di fabbrica. Fino a La strana coppia II, il deludente sequel di trent’anni dopo che moltiplica figli e nipoti, location e parolacce ma fa acqua da tutte le parti. Se negli anni successivi Lemmon sterza sul versante drammatico, è a Matthau che Neil Simon offre alcune tra le occasioni più allettanti della sua carriera di attoreorchestra. Appartamento al Plaza (1971) di Arthur Hiller è quasi una serata d’onore, un omaggio al tempismo comico del grande attore che sfoggia la sua versatilità in tre caratterizzazioni memorabili. Dal marito che ritorna nella stessa stanza d’albergo della prima volta al produttore cinematografico che riesce a sedurre raccontando i suoi incontri con i divi hollywoodiani, al padre di una riluttante promessa sposa che cerca di convincere la figlia a uscire dal bagno il
giorno del matrimonio. I ragazzi irresistibili (1975) di Herbert Ross è un’incursione nel mondo affascinante del vaudeville, il passato remoto dello spettacolo americano recuperato tra un tormentone e l’altro attraverso due vecchi comici scorbutici che non si parlano da anni ma vengono convinti a rimettersi assieme per uno special televisivo. Una rentrée impossibile perché l’arte della sopraffazione sgradevole non sembra aver segreti per Walter Matthau. Da parte sua, George Burns si esaspera sempre di più alle ditate e agli sputi che il compagno continua implacabile a infliggerli.
Sotto il gioco sottile dell’umorismo si avverte la tentazione della violenza, il lato oscuro della comicità scatenata e compulsiva di un attore dalle molte fac-
ce. Già il perfido barbablù al verde di È ricca, la sposo e l’ammazzo (1971) di Elaine May medita di eliminare l’ereditiera e impadronirsi del malloppo, ma siamo ancora nella commedia brillante sia pure virata in nero seppia. Solo pochi anni dopo l’attore è al centro di tre gangster-movies, ora dalla parte della legge ora da quella dei cattivi. Suspense a alta tensione, Il colpo della metropolitana (1974) di Joseph Sargent contrappone il quartetto di criminali che blocca un convoglio pieno di ospiti giapponesi all’apparente indolenza del tenente Garber-Matthau della polizia trasporti. Sembra acconsentire alle loro condizioni, ma all’ultimo sfodera tutta la sua astuzia quando tentano inutilmente di fuggire con il denaro del riscatto. Se L’ispettore Martin ha teso la trappola (1974) di Stuart Rosenberg percorre sentieri più tradizionali, insolito è il poliziotto MartinMatthau, stanco, amareggiato, all’antica ma per niente moralista, che indaga nei bassifondi di San Francisco. Chi ucciderà Charley Varrick? (1974) di Don Siegel, quello dell’Ispettore Callaghan, è il piccolo capolavoro di un maestro del noir in cui VarrickMatthau, l’ultimo degli «indipendenti», rapina una banca senza sapere che la mafia vi ricicla il denaro sporco. Braccato dai killer, si salva montando un’abile messinscena per beffare l’Orga-
di Fiore di cactus (1970) di Saks non si accorge dell’avvenenza dell’infermiera Ingrid Bergman, apparentemente scialba e trasandata, fino a che non la vede scatenarsi in discoteca. Nonostante le arie da seduttore, il medico di Visite a domicilio (1978) di Howard Zieff si lascia accalappiare dall’aggressiva Glenda Jackson che gli tiene testa anche sul piano dell’ironia. Il breve sodalizio con l’attrice inglese prosegue in Due sotto il divano (1980) di Ronald Neame, in cui l’agente della Cia bistrattato dai superiori spedisce le sue memorie ai servizi segreti della concorrenza. In Una notte con vostro onore (1981), ancora di Neame, tocca a Jill Clayburgh, prima donna alla Corte Suprema, far le spese della sferzante misoginia del collega Matthau. Negli anni Ottanta sembra perdere qualche colpo, ma prima della fine del decennio si rifà con un paio di performance da fuoriclasse. Sul galeone spagnolo di Pirati (1986) Capitan Red è poco
(1974), strepitosa incursione nel cinico mondo della carta stampata in epoca pretelevisiva. Dove non c’è posto per le donne. Almeno a giudicare dal comportamento del direttore BurnsMatthau, deciso a impedire in tutti i modi che Johnson-Lemmon lasci il giornalismo per sposare la bella Peggy.
Nei corrosivi giochi di ruolo e di potere, ancora una volta la vera coppia è quella formata da Walter e da Jack, una coppia che non ammette il divorzio anche a costo di farsi ammanettare assieme. «Continuerei a fare film con loro fino alla fine dei miei giorni», diceva Wilder, che conclude la sua carriera con Buddy Buddy (1981). Concitata black comedy cupa e ossessiva come una cerimonia degli addii dove è di scena l’omicidio, l’esplosivo sottotesto della comicità. Quando il killer TrabuccoMatthau non riesce a liberarsi dall’appiccicoso Clooney-Lemmon, il logorroico della inquilino stanza accanto,
Negli anni Ottanta sembra perdere qualche colpo, ma si rifà sul galeone spagnolo di “Pirati”, dove Capitan Red è un’ossessione colorata, un abito rosso sognato da Roman Polanski sin dall’inizio delle riprese nizzazione. Senza l’humor sarcastico del protagonista solo contro tutti, il piano non andrebbe a segno. L’attore si faceva chiamare «il Cary Grant ucraino» in ricordo delle sue poverissime origini, orgoglioso di appartenere alla grande tradizione dei comici ebrei che sanno ridere di tutto, anche di se stessi, soprattutto nei momenti drammatici. Se c’è il nero, naturalmente c’è anche il rosa nella debordante filmografia del comedian newyorkese. Scapolo sempre sulla breccia, il dentista
più di un’ossessione colorata, un abito rosso sognato da Roman Polanski sin dall’inizio delle riprese. Una delle tante grottesche caricature della rivisitazione postmoderna dei gloriosi cappa e spada d’un tempo, mentre un arpeggio di chitarra accompagna le gesta degli eroi davanti al mare brulicante di squali. Superato lo spaesamento iniziale, Padre Matthau, il prete esorcista di Il piccolo diavolo (1988) ripropone i tic liberatori e le esilaranti effrazioni dello slapstick più trasgressivo in coppia con il diavoletto Benigni, entrambi vivaci e incontenibili come in una vecchia comica. L’omaggio di un giullare candido e spiritato alla mimica facciale del grande corpo comico del cinema d’Oltreoceano non potrebbe essere più clamoroso. Qualche anno prima la strana coppia si era ritrovata con Billy Wilder sul set di Prima pagina
non sappiamo che se lo ritroverà tra i piedi anche nella sperduta isoletta in cui approda alla fine. Negli anni Novanta gigioneggiano nella sgangherata epopea della terza età di Due irresistibili brontoloni (1993) di Donald Petrie, That’s amore. Due irresistibili seduttori (1995) di Howard Deutch, Gli impenitenti (1997) di Martha Coolidge. Sembrano perennemente impegnati a sfidarsi all’ultimo bisticcio, mentre non hanno occhi che per l’oggetto del desiderio, si chiami Ann-Margret o addirittura Sophia Loren. La nostalgia per la commedia brillante hollywoodiana colpisce ancora. Se ci chiediamo dove sono finiti, facciamo in tempo a rivederli quando l’imbroglione e l’inconsolabile fanno gli intrattenitori-ballerini nella sala da ballo del transatlantico diretto ai Caraibi. Sintonizzati entrambi sull’andante con brio dei grandi comici che, leggeri e sfuggenti, ci fanno ridere della nostra pesantezza.
Narrativa
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libri Maria Pia Ammirati SE TU FOSSI QUI Cairo editore, 158 pagine, 12,00 euro
lle sei del mattino nel letto del papà Matteo, che dorme solo perché la moglie Luisa soffre di terribili emicranie, la bimba Alice s’avvicina al babbo e lo guarda con occhi grandi e lacrimosi e dice: «Papà, ma la mamma non risponde, è morta… Papà, la mamma è ferma e fredda da un sacco di tempo». Matteo si alza subito ma è in dubbio sul da farsi, traccheggia, non vuole credere alla bimba, pensa che la moglie dorma profondamente, finché si decide a entrare nella sua stanza: Luisa è morta. Con questo drammatico e agghiacciante inizio si apre il bel romanzo di Maria Pia Ammirati Se tu fossi qui. Nelle prime, scolpite novanta pagine, si segue con esattezza, quasi con scrupolo, momento per momento, tutto lo svolgimento dei fatti che accadono in una casa colpita dal lutto. Con una crudezza che stringe la gola, ecco lo spostamento del cadavere, l’arrivo dei parenti, la vestizione seguita fase per fase, l’arrivo delle pompe funebri, il distacco dalla casa, il deposito della bara per la successiva cremazione. Personaggio centrale, quasi monologante, è il marito Matteo che soffre terribilmente per il grande amore che lo legava alla giovane moglie e che contemporaneamente sa che dovrebbe reagire per le tante incombenze che fanno sempre seguito a un lutto. Soprattutto pensa all’immediata sistemazione delle due figlie, alle pratiche per disdire molti impegni presi, non trova e non troverà pace per molto tempo, passando tuttavia veloci le giornate. Il marito è in cerca di una tregua che possa farlo pensare ai tempi successivi, dove mandare le bambine per pochi giorni prima di trascorrere con loro una vacanza al mare, amici, nonni, cognati, nipoti a poco a poco si allontanano. Matteo rimane praticamente solo e forse preferisce soffrire in solitudine, pensare al futuro, ricordare l’amore per Luisa, fare sì che il clima un poco si addolcisca… «Aver visto Luisa stesa sopra il letto - pensa Matteo che parla in prima persona - mi ha fatto pensare anche alla mia morte, anzi confesso che più volte mi sono visto al posto di Luisa. Ho confuso la mia con la sua morte senza capire se il mio è un atto di arroganza, di prevaricazione. Piangendola - prosegue - ho sentito che piangevo per me, per la paura di essere rimasto solo a occuparmi di tutto, per la tristezza che mi faccio… C’è un modo per tornare normale, invece che vedermi camminare come una persona già morta?».
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Autobiografie
Eros e Thanatos Storia di Matteo e Luisa Cronaca di un lutto con colpo di scena, nel nuovo, scolpito romanzo di Maria Pia Ammirati di Leone Piccioni
Ho parlato delle prime novanta pagine: poi la storia riserba una svolta forse imprevedibile. Matteo ritrova per caso il cellulare di Luisa ancora acceso e si accorge di strani messaggini scambiati tra Luisa e un uomo sconosciuto. Sembrano a prima vista messaggi di amicizia con una persona più anziana, forse un medico, perché si incontrano spesso parole che hanno a che vedere con una grave malattia di Luisa, malattia terminale della quale lei non aveva mai parlato in famiglia, ma che ha confidato solo al suo interlocutore telefonico. Ma gli ascolti dei messaggi tendono sempre più a delineare un rapporto sentimentale. Matteo, dopo lo choc subito mette in atto un piano che si potrebbe definire diabolico: siccome ha capito che l’amante non era ancora al corrente della morte di Luisa, seguita a mandare messaggi a nome suo aspettando con ansia ogni risposta. Ed ecco. «Ho bisogno di vederti e di baciarti» - scrive l’amante - e lui risponde: «Anch’io». Lo scambio dei messaggi dura lungamente e Matteo pare di non essere in grado di distaccarsene finché decide di fissare, sempre attraverso i messaggi, un incontro con questo «lui». La prima volta non lo riconosce, ma dopo un certo numero di appuntamenti scopre chi è la persona, e cercando di essere il più pacato possibile gli racconta tutto.Vorrebbe mantenere un certo stile, sentirsi al di sopra mettendosi nei panni di chi sa capire, ma alla fine lo aggradisce e lo picchia. Dai colloqui emerge comunque il grande amore che il medico aveva per Luisa… «Avrei voluto trovarla io morta accanto a me… Le avevo chiesto di finire accanto a me, le avevo detto che quando sarebbe stata peggio l’avrei accompagnata in una clinica e le avevo promesso che avremmo finito insieme… Ma lei non trovava il coraggio di parlargliene e decidere con lei il momento giusto per non far soffrire le bambine». Il romanzo finisce con il ritrovamento di una pace per un amore assoluto che può superare divergenze e tradimenti. Dice Matteo nelle ultime righe: «Salendo le scale sorrisi a Luisa, all’infelicità del suo amico, al mio dolore e alla nostra solitudine. La implorai di aiutarmi, avevo ancora bisogno di lei, della sua forza e della sua ostinazione, della sua bellezza. Le chiesi di riconciliarci, le chiesi di perdonarmi. Feci tutto senza piangere».
Ritratto di una famiglia in disparte
lan Bennett, uno dei più migliori narratori e drammaturghi inglesi di oggi, ha sempre considerato un po’ disdicevole parlare di sé. E in Una vita come le altre infatti non lo fa, pur concedendosi ovviamente il ruolo dell’osservatore attivo visto che racconta dei suoi genitori e di alcuni parenti. Un’autobiografia molto indiretta, dunque. Vien fuori la fotografia di gruppo di timidi, senza alcuna banale o rabbiosa frustrazione. Padre e madre raramente avevano effusioni, e quando il padre bacia la moglie in ospedale gli sembra di dare l’impressione del commiato. Genitori che non hanno mai voluto «finire in prima pagina», che hanno desiderato di vivere in campagna, con un giardino. Che bello stare in disparte. La tentazione di quei famosi quindici minuti di celebrità era - ma lo è anche per Alan - una stravaganza da evitare, una cosa ridicola. Il racconto, tra ironia e compassione, inizia con il ricovero della madre in un ospedale psichiatrico, uno dei tanti che frequenterà. Diventa così «l’apostolo del suo mondo buio». Il padre percorre ogni giorno ottanta chilometri per far visita alla moglie, che a poco a poco ha difficoltà a riconoscere gli altri, e anche se stessa. Ben-
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di Pier Mario Fasanotti nett con estrema arguzia, e senza mai infierire, descrive il rapporto tra un malato psichiatrico e le istituzioni, l’accanita vocazione di queste a classificare le personalità. Lo fa con un candore a volte disperato dato che confessa: «Ero arrivato alla mezza età senza praticamente un’idea di che cosa fossero le malattie mentali». C’è il disagio del padre che, pressato dalle domande del medico, alla fine confessa che sì, ci sono «precedenti»: nonno Peel non morì d’infarto, come molti credevano, ma si buttò in un fiume. Per Alan questo e altri episodi suonano come spunti narrativi, ma anche come strumenti ottici per vedere meglio la composizione di un nucleo familiare. L’idea di diagnosticare con (presunta) esattezza gli fa un po’orrore: «Fare una diagnosi, cioè dare un nome, vuol dire inserire una persona in una categoria. Mamma e papà non hanno mai aderito a nessun gruppo e per loro il fatto di “non legare” non è stato solo un cruccio, ma anche un vanto». Il figlio vuole tenere fuori la madre dal «mucchio» e riflette sulla spiegazione che la stessa mamma dette dei suoi disturbi allucinatori e depressivi. Prima
La maestria di Alan Bennett: come raccontare di sé senza parlare di sé. In “Una vita come le altre”
ipotesi: magari è lo stesso fatto di entrare e uscire dagli ospedali e case di riposo causa del malessere. Seconda ipotesi, molto domestica se vogliamo ma di straripante buon senso: da quando in casa faceva tutto papà, e la mamma si è sentita deprivata, catapultata «nell’improvviso vuoto creatosi nella sua vita». Alan descrive le visite alla madre, nota che in ogni istituto c’è sempre una signora che crede di aver chiamato un taxi per andare via. Alan si concede una confidenza quando si descrive dinanzi alla tomba dei genitori.Vorrebbe dire «due parole in preghiera, anche se mi sarebbe difficile dire quali e rivolte a chi. Più o meno si riducono a “Insomma…”. O a “Ecco fatto”, che è quello che dicono i vecchi quando hanno concluso una transazione». L’umorismo di Bennett emerge quando parla delle zie. C’era Eveline con il suo «petto mastodontico», e fu quello a creare nel nipote preadolescente «una certa confusione sull’anatomia femminile». E più giù che c’era mai? In ogni caso la zia copriva la scollatura con davantini ricamati, come quelli che si posano sulle poltrone. Schienali di poltrone e seno della zia: «non c’era questa gran differenza». Alan Bennett, Una vita come le altre, Adelphi 172 pagine, 17,00 euro
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poesia
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Compassione e riscatto secondo Foscolo
All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne confortate di pianto è forse il sonno della morte men duro? Ove più il Sole per me alla terra non fecondi questa bella d’erbe famiglia e d’animali, e quando vaghe di lusinghe innanzi a me non danzeran l’ore future, né da te, dolce amico, udrò più il verso e la mesta armonia che lo governa, né più nel cor mi parlerà lo spirto delle vergini Muse e dell’amore, unico spirto a mia vita raminga, qual fia ristoro a’ di perduti un sasso che distingua le mie dalle infinite ossa che in terra e in mar semina morte? Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme, ultima Dea, fugge i sepolcri; e involve tutte cose l’obblio nella sua notte; e una forza operosa le affatica di moto in moto; e l’uomo e le sue tombe e l’estreme sembianze e le reliquie della terra e del ciel traveste il tempo.
di Roberto Mussapi Sepolcri, uno dei capolavori della poesia di ogni tempo, ha inizio con immagini di buio e ombra, di chiusura: «All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne». Le stesse parole ombra e urna comunicano foneticamente un senso di chiusura, e pare vano, in quegli spazi stretti e ermetici, il conforto del pianto. E immediato, per contrasto, luminosa fonte di vita e energia, il Sole. Il sole fecondante la bella famiglia di erbe e animali, è il potente simbolo vitale contrapposto al buio della morte, enigmatico, in Foscolo: «sonno della morte», infatti, e sonno è spesso sinonimo di situazione illusoria, stasi frequentata dai sogni. Non dobbiamo dimenticare che nel patrimonio culturale di un uomo colto dell’età del Foscolo, le valenze simboliche del sole erano tutt’altro che inaccessibili. Tramite i viaggiatori greci e poi romani si poteva avere ampia conoscenza dell’antico Egitto e dei culti solari relativi alla rinascita cosmica, attraverso la maschera aurea del Faraone. Il mito egizio, quindi, in certo senso orientale rispetto al pantheon grecoromano, e sicuramente metafisico rispetto al regno buio e disperato di Ade, è presente in tutto il poema, nella sua natura primigenia e quintessenziale di luce, energia e rinascita.
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Il sole appare quindi in momenti culminanti come il baluginare di una rinascita nell’atto stesso della morte: «perché gli occhi dell’uom cercan morendo /il Sole, e tutti l’ultimo sospiro/ mandano i petti alla fuggente luce». Ma il sole appare, potentemente, nei versi finali, a siglare il riscatto della specie, attraverso la poesia che è essenzialmente memoria, relazione, atto di compassione. La visione del sole nel momento finale ha il senso di un riscatto pieno, poiché la digressione in crescendo ci ha ricondotti a un peccato d’origine, a una colpa che ha dannato e maledetto la specie: lo strazio del cadavere di Ettore. Se noi torniamo al canto omerico in cui vediamo l’eroe troiano combattere e morire, constatiamo alcuni fatti essenziali: Ettore esce per andare incontro a un semidio. Sotto mentite spoglie gli dei lo inducono alla sfida diretta, e l’inganno prosegue con il trucco della lancia. L’episodio evocato da Foscolo è quindi quello di un pantheon greco che non corrisponde a un’idea di giustizia. Inoltre, il semidio, Achille, l’essere per sangue imparentato col pantheon, contrappone alle richieste di Ettore quella che definiremmo la legge della giungla. Ettore gli parla e chiede, in caso di sconfitta e morte, che il suo corpo sia restituito ai suoi cari, per avere giuste esequie e rituale sepoltura. Promette che farà lo stesso nel caso fosse lui a uccidere Achille. A questa proposta fondata sul codice umano, Achille risponde urlando secondo le regole del mondo preumano, quello che Foscolo definisce del-
il club di calliope
le «umane belve»: gli animali non si scambiano i cadaveri ma si sbranano, e basta.Alle parole seguiranno i fatti: Achille farà scempio del cadavere di Ettore. Questo peccato d’origine segna la storia della nostra civiltà e, sulla scia ettorica di Enea, Foscolo parla dalla parte dell’esule, dello sconfitto, dell’uomo cui è stato negato il rito in morte. La memoria foscoliana, quindi, oltre a collegarsi alla nota interpretazione vichiana della storia dell’umanità, si fonda su quel nucleo di compassione e rappresentazione che lo storico delle religioni Julien Ries definisce costitutivo dell’homo religiosus, rivoluzionando le interpretazioni occidentali del concetto di religione, sempre assimilata a un credo teologico o a una professione confessionale inscritti in un contesto storico che li determina e fonda. Ma c’è di più: nel suo procedere cinematografico dal buio dell’urna alla luce del sole, dagli oscuri momenti della nostra lontana origine al definirsi delle civiltà, attraverso le fondamentali, vichiane conquiste di «nozze e tribunali ed are» (umanando gli istinti di quelle umane belve con cui Foscolo anticipa il termine «ominidi» della moderna paleoantropologia), nel suo crescendo verso i grandi edifici della civiltà, fino alla memorabilità dei costruttori esemplari, Foscolo evidenzia due realtà complementari e ineludibili: chiunque, purché lasci eredità d’affetti, ha vita dopo la morte nel ricordo dei vivi, e quindi l’amore genera vita, mentre gli uomini insigni, Repreresentative men, scriverà Emerson, non solo conseguono vita nella memoria ma anche, attraverso la memoria stessa e l’esempio, sollecitano resistenza vitale nei viventi, in un certo senso accrescendo e perpetuando la vita.
Più ancora dei grandi poeti, dei sacerdoti insomma della musa nel cui nome Foscolo sta scrivendo, giganteggiano la figura di Michelangelo e quella di Galilei. I due eroi che si spingono al confine della volta celeste: Galilei spostando l’orizzonte umano nelle regioni del cielo, Buonarroti dipingendo la cupola in cui il cielo e la terra si incontrano, nel brivido liminare delle dita che si sfiorano: brizer le toit de la maison, per citare un famoso titolo di Mircea Eliade, «spezzare il tetto della casa», uscire verso l’alto facendo breccia, entrare in comunicazione con il cielo sul modello arcaico dell’albero, che sale alimentato dalla sua
Ugo Foscolo da I Sepolcri
linfa, quell’albero presente come custode sin dall’inizio dei Sepolcri,, seppure nella versione funerea del cipresso. La volta della Sistina che la mano di Michelangelo affresca ripete l’antico rito della volta della caverna che la mano dei nostri antenati istoriava con i suoi cavalli e i suoi bisonti, i suoi dei, e le storie divine della specie tra terra e cielo, tra luce e tempo. Il volo di Foscolo, dalle prime cattedrali dell’umanità, culmina nella cattedrale che tutte le rappresenta nel mondo, nella cupola in cui le storie umane e la storia divina s’incontrano. Poi, dopo l’esploratore del cielo e il pittore della volta, dopo che il tetto è stato spezzato, i poeti. La poesia viene dopo l’esplorazione stellare e la pittura orante nella cupola, la poesia appare in forma scritta subito dopo, nei Sepolcri come nella storia dell’uomo, in forma di memoria di quegli eventi, una memoria che non fossilizza ma continuamente evoca e trasforma, fondamenta dell’immaginazione, fonte generante di vita, ponte tra i morti e i viventi, inafferrabile dono incluso nel codice genetico della stirpe umana.
IL BENE E IL MALE IN 33 STANZE in libreria
Un colpo di fucile e torni a respirare. Muso a terra, senza sangue sparso. Cose guardate con la coda di un occhio che frana mentre l’altro è già sommerso; e tutto s’allontana. Gli alberi si piegano su un fianco perdono la voce in ogni foglia che impara dagli uccelli e per pochi istanti vola. Franca Mancinelli
di Francesco Napoli
n poema ben compiuto, in 33 stanze, quante una cantica dantesca, per campire coraggiosamente l’inferno vissuto da uomini veri, protagonisti di una vicenda che è ormai nel conto della Storia. Emilio Zucchi nel suo recente Le midolla del male (Passigli, 64 pagine, 10,00 euro) con passo solidamente lirico riconduce sul piano di un fluido racconto in versi la «deriva criminale del fascismo», come scrive Conte nella sua Prefazione, incarnata da un aguzzino, Pietro Koch, e dai suoi martiri, tra cui
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la qui simbolica figura di Anna Maria Enriques. Una potente e lacerante storia delle vittime dove il poeta ha saputo rintracciare «l’abisso/ della parola divenuta carne», sostanza tangibile che ha poi trasformato in un’epica del male in cui intravedere certo «tutto/ l’errore che comprime il mondo» ma anche distinguervi, nella toccante e commovente (alla latina) ultima stanza, la forza del bene nelle parole della vittima al suo carnefice, parole pronunciate con la medesima vis poetica di un grande coro tragico.
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di Enrica Rosso l Teatro in scatola di Roma sarà possibile assistere fino al 12 dicembre a dieci dei diciassette episodi di Spara/Trova il tesoro/Ripeti, il ciclo epico di micro drammaturgia di Mark Ravhenill messo in scena da Fabrizio Arcuri con l’Accademia degli artefatti, vincitore del Premio della Critica 2010. Ai primi otto episodi presentati in prima uscita al Teatro Mercadante di Napoli nel 2009 si aggiungono ora Mikado e Terrore e miseria andati in scena al Fabbricone di Prato nello scorso gennaio e inediti per la Capitale. Il testo, tradotto da Pieraldo Girotto e Luca Scarlini e pubblicato da Editoria e Spettacolo, si compone di sedici atti unici autonomi più un epilogo, riconducibili a un tutto più complesso. Non un seriale quindi come il fortunato Bizarra attualmente in scena all’Angelo Mai, ma piuttosto diciassette finestre da cui assorbire le tensioni che andranno a formare un unico corpo stilistico il cui perno emotivo è il conflitto tra Occidente e Medio Oriente espresso attraverso la rappresentazione di situazioni organiche. Ciascun episodio si presenta con un titolo che risuona in una composizione virtuale di grandi classici: Delitto e castigo, Guerra e pace, Paradiso perduto, Intolleranza, Paradiso ritrovato, Donne in amore, Le troiane, Terrore e miseria, Il mikado, La madre. Insomma un catalogo di déjà vu, che immediatamente scatenano rimandi, ma non è che un trucco per regalare a ogni pièce un peso specifico e appropriarsi di un pensiero libero in grado di esprimere punti di vista opposti senza svalutare i precedenti, mantenendo come unica costante la perplessità sulla violenza a qualsiasi livello come espressione di potere. Nel corso delle varie serate sarà possibile assistere ai vari episodi (due a sera, fondamentale prenotare) per cogliere appieno la potenzialità del testo. In apertura del ciclo abbiamo assistito a Delitto e castigo. Quando, dietro al grande vetro specchiato che fa da sipario e che ci rimanda la nostra immagine, si materializzano gli interpreti, un primo spunto di riflessione sul ribaltamento del
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Televisione
Teatro Dostoevskij in Iraq MobyDICK
spettacoli DVD
IL CINEMA ITALIANO? UN CARO ESTINTO montato con il rigore di un’inchiesta sui tanti misteri degli anni 70. Di me cosa ne sai è la traccia di una detection impossibile alla ricerca del cinema italiano. Com’è potuto accadere che la patria di Monicelli, Risi e Fellini sia stata lentamente inghiottita da una labirintite acuta, che spinge gli autori contemporanei a circumnavigare ossessivamente attorno al proprio ombelico? Francesco Apolloni, Giulio Manfredonia e Valerio Jalongo ci guidano in un interessante viaggio che fa tappa in alcuni snodi cruciali della nostra decadenza. Culturale, prim’ancora che cinematografica.
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PERSONAGGI
FABI E MINA INSIEME PER L’AFRICA punto di vista che cambia la percezione dell’esperienza che si sta vivendo e ancora, sul potere occulto di chi intangibile, ci usa e abusa (citando il precedente ciclo di lavori degli artefatti) per raggiungere i propri scopi. In scena il conflitto Usa-Iraq prende corpo nelle sembianze di un soldato americano e di un’intellettuale irachena durante un interrogatorio di guerra. I due sono a loro volta spiati da una telecamera che ne proietta i primissimi piani sul fondale creando per lo spettatore uno spazio interiore amplificato e ipnotico, una sorta di specchio magico di Alice in cui affondare lo sguardo alla ricerca di una verità che trascenda l’apparenza. Battute brevi, botta e risposta all’inizio, per poi scivolare ognuno nell’impellenza della sopravvivenza.
Due vittime della guerra: lui della sua pistola, lei dei suoi lutti; entrambi traditi nei loro ideali. Fabrizio Croci e Caterina Spigola i due interpreti, belli e ammirevoli nella loro ricerca di essere oltre ad apparire. Fabrizio Arcuri sceglie ancora una volta di immergersi in un progetto dilatato nel tempo, un’esplorazione che non si esaurisce in un’unica stagione, ma cresce e matura con un più ampio respiro restituendo senso a un lavoro che cresce di anno in anno attraverso scelte mirate a rappresentare e vivere il tempo presente con pienezza e partecipazione.
Spara/Trova il tesoro/Ripeti, Teatro in Scatola fino al 12 dicembre, info@teatroinscatola.it tel 347 6808868
a qualche giorno nelle radio nazionali, le voci di Niccolò Fabi e di Mina rispolverano l’arcana bellezza di Parole parole, ma l’operazione non ha soltanto apprezzabili virtù cosmetiche. Il brano inciso dal cantautore romano insieme alla tigre di Cremona rientra infatti nel progetto Parole di Lulù, dvd in uscita 15 dicembre, che è il commovente omaggio tribuitato da Fabi alla figlia scomparsa. I proventi del lavoro saranno devoluti alla ricostruzione dell’ospedale pediatrico di Chiulo, in Angola, da poco avviata dall’ong Medici con l’Africa. Solidarietà e alta qualità duettano insieme a sostegno di una causa ammirevole.
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di Francesco Lo Dico
La riscossa dei morti viventi (sulle orme del fumetto) l genere è quello fanta-catastrofico. Non nuovo, certamente, ma suggestivo. Parlo di The Walking Dead (su canale Fox). L’idea portante è quella dell’umanità che si sveglia e trova un mondo completamente diverso, paralizzato, annientato da una sciagura di cui non riesce a delineare né i contorni né la causa. La zona-madre è Atlanta: città morta, strade intasate da auto ferme. La metropoli si fa deserto, i grattacieli vetro-acciaio sono torri assurde sul nuovo deserto, il ricordo della normalità. L’aspetto più spettrale è comunque lo sbandante esercito degli zombie, i morti che camminano, personaggi molto presenti nella letteratura fantastica e nel cinema. Il protagonista è il vice sceriffo Rick Grimes, l’americano medio con indosso una divisa e una stella appuntata sul petto. Uno che è destinato a garantire l’ordine e ad applicare
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la legge, in tempi normali. Che non sono quelli in cui si svolge l’azione, dove le regole sono diverse, ferocissime, incerte. Il nodo narrativo è proprio questo: manca una bussola di comportamento, si è dissolto un codice etico, si deve vivere
alla giornata cercando la sopravvivenza e sperando che ci sia ancora un nucleo di simili. Il sogno è di trovare un centro governativo-scientifico dove magari si esperimenti un rimedio, un antidoto. Sì,
perché i morti viventi, così mostruosi, diffondono il «morbo» mordendo gli umani. È una specie di possessione: chi è stato «infettato» avverte la propria trasformazione, tenta di opporre resistenza, ma alla fine cede nello scontro ancestrale tra due entità. Il serial ha qualche lentezza evidente ma necessaria, anche per infilare nella trama i sentimenti (paura, terrore, compassione) e le storie individuali. Come sempre accade a causa di eventi così radicalmente impressionanti - la serie Lost ce lo ha recentemente insegnato - i vari personaggi sfoderano nitidamente le loro peculiarità caratteriali. C’è il leader naturale, c’è il rozzo, c’è il dubbioso, c’è chi sfiora il tradimento, c’è il saggio, c’è la madre disperata. Per neutralizzare gli zombie non basta sparare, occorre sfondare loro il cranio. Di una seconda morte hanno bisogno. The Walking Dead pesca nelle
paure ancestrali, trasforma in orribile realtà l’interrogativo che talvolta ci sfiora: e se domattina il mondo non fosse lo stesso che abbiamo lasciato fuori, nel buio, quando ci siamo addormentati? Lo scenario è la desolazione. Che può ricordare il famoso romanzo di Corman McCarthy La strada, diventato poi film (The road, con Viggo Mortesen, Charlize Theron e Robert Duval). Pellicola che, ricordiamo, qualcuno non voleva distribuire in Italia «perché troppo deprimente». The Walking Dead ha uno scheletro e una trama tipici dei cartoon horror. Infatti proviene dal fumetto di grande successo ideato da Robert Kirkman (pubblicato in America da Images Comics e in Italia da Saldapress). Kirkman è il produttore della serie, mentre la regia è di Frank Darabont, tre volte candidato all’Oscar. Indubbiamente sono narrativamente tutti creditori di Stephen King. Un’occasione, per i sopravissuti, di rifondare un ordine, di agire secondo i canoni della solidarietà. Una rifondazione dell’umanità, quando nessuno può (p.m.f.) sentirsi più un’isola.
Cinema
MobyDICK
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ornando a casa per Nadell’incantevole tale, autore norvegese Bent Hamer, è il film ideale per entrare nello spirito delle feste, ora che siamo nel mese della conifera agghindata e del presepio. Le storie sono tratte dai racconti di Levi Henriksen; se il film non raggiunge la grazia serena e profonda di O’Horten, opera precedente, tocca corde simili che sono la specialità di un autore singolare: la (tragi)comicità naturale sempre in agguato nell’accidentato percorso che costituisce una vita qualsiasi e la rende unica. Al posto della radiografia spirituale di un macchinista di treno che affronta la pensione, qui Hamer racconta le avventure di diversi personaggi in un paesino norvegese la sera della vigilia: un medico troppo dedito al lavoro per pensare di diventare padre, viene rapito da un immigrato clandestino perché assista la moglie prossima al parto; un uomo disperato perché la moglie lo ha sostituito con un altro e cambiato le serrature di casa, aguzza l’ingegno per aggirare il divieto di portare i regali ai figli la notte di Natale; un barbone ex campione sportivo incontra un vecchio amore, mentre tenta di tornarsene al suo paese per le feste; l’amante di un uomo sposato escogita la vendetta quando lui ritira la parola data di lasciare finalmente la moglie; un uomo anziano s’affanna a preparare la casa per festeggiare con una persona di grande riguardo. Ci sono anche un prologo misterioso, con un epilogo aggraziato. Da vedere. (idea regali: i dvd dei film di Hamer, tutti o a scelta.) Da vedere.
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tempo, ricamata sulla vera lotta delle operaie di una fabbrica inglese per aumentare i salari, dimezzati rispetto ai corrispettivi maschi, nel 1968. Sally Hawkins (Happy Go Lucky - La felicità porta fortuna di Mike Leigh) è Rosie O’Grady, una brava mamma e moglie, fattiva e determinata, che si mette a capo di 147 lavoratrici per il primo sciopero femminile alla Ford Motor Company britannica. Le donne lavorano in condizioni malsane e fatiscenti senza lamentarsi. S’arrabbiano solo quando sono declassate da operaie qualificate a semplici; ma la misura si colma alla scoperta che in busta paga loro prendono molto, molto meno dei maschi di pari grado. Ci sono tutti i nodi che vengono al pettine quando le donne recalcitrano: accuse di egoismo distruttivo dell’ordine costituito, difesa della superiorità «naturale» dei maschi, con in più la corruttibilità dell’ambigua leadership sindacale, ghiotta dei suoi privilegi e restia a rompere la comoda (per loro) sintonia con i capi aziendali. La sceneggiatura è scoppiettante, la regia di Nigel Cole briosa (Calendar Girls) e il cast ben assortito e calzante. Bob Hoskins è Albert, il caposala che tifa per le ragazze, Kenneth Cranham è Monty, il capo sindacale ruffiano e inaffidabile. La splendida Rosamund Pike è Lisa, laureata a Oxford e solidale con la rivolta rosa, stanca di essere infantilizzata dal marito, dirigente Ford pomposo. Miranda Richardson è straordinaria nei panni del ministro Barbara Castle, combattiva e solidale ma investita dai contraccolpi della realpolitik. Da non mancare. (Strenna per i figli: portarli a vedere Potiche e We Want Sex, un duetto illuminante.)
Tutti i déjà vu del nichilista Woody
Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni è l’ultimo degli intrattenimenti annuali che il prolifico Woody Allen offre ai suoi fan. Con una puntualità da regnanti, il regista ricicla il suo noto nichilismo con un patchwork di nozioni ricavate dalle sue oltre quaranta pellicole. Ammantate di un’arcinota citazione shakespeariana, «La vita è un racconto di un’idiota, pieno di strepito e di furore, privo di significato», è messa in bocca dal poeta al pluriomicida MacBeth, ma è sempre presa come un distillato del pensiero dell’autore, mentre è assai discutibile che Shakespeare fosse un ateo depresso e privo di valori. Pensare che sia la filosofia del Bardo sublime è una tesi molto comoda per uomini che violano abitualmente le regole basilari della convivenza civile, come «non uccidere» e «non portare a letto la figlia di tua moglie». Nel competente ma non nuovissimo film ci sono le vite di varie coppie in crisi che si intersecano, con il loro carico di sogni e ambizioni frustrate, di meschinità e illusioni. Alfie e Helena sono sposati da quarant’anni, e nel più tradizionale dei rigurgiti anti invecchiamento, lui si sente ancora sgarzulino, e accusa la moglie di essersi lasciata appassire. Alfie (Anthony Hopkins al minimo sindacale come sforzo recitativo) sbianca i
di Anselma Dell’Olio denti, scurisce la pelle con la lampada e s’allena in palestra, nella speranza di attrarre un amore fresco che lo rinnovi. Helena, invece (Gemma Jones), corre da una rassicurante chiromante (Pauline Collins) che, annusando pingui alimenti, diventa la sua più fidata consigliera, confidente e veggente, con una previsione per la scaricata che dà il titolo al film. La coppia ha una figlia, Sally (Naomi Watts) che lavora in una galleria d’arte e mantiene (con l’aiuto di mamma) il marito Roy (Josh Brolin con la pancetta e un poco donante taglio di capelli) che ha scritto un solo libro di successo e non riesce a finire il secondo, affetto com’è dal blocco dello scrittore. Sally è stufa di rimandare il figlio desiderato ma il piagnucoloso scrittore non è mai «pronto», e inganna il tempo spiando la bellissima musicista della finestra di fronte (Freyda Pinto). Trova il modo d’incontrarla e farle la corte, confessando nientemeno il suo guardonismo. Solo nell’universo di Woody Allen, divinità longeva e autoreferenziale, uno stalker (pure sposato) non solo non fa paura alla concupita ma per il solo fatto di essere uno scrittore, lei s’innamora al punto di abbandonare un fidanzato più confacente sull’altare. Sally caccia Roy di casa per stanchezza e s’invaghisce del sensuale gallerista Gregg (Antonio Banderas) che a sua volta è in crisi con la moglie ma preferisce la maliziosa pittrice Iris, che Sally gli ha proposto di rappresentare. Con rodato professionismo, Allen riesce a tenerci agganciati fino alla fine del déjà vu. Solo dopo sentiamo il sollievo di esserci finalmente liberati da personaggi petulanti e vuoti. (P.S. Come sempre, il doppiaggio dei film di Allen rasenta la perfezione).
We Want Sex è il titolo scaltramente rivisto dell’originale Made in Dagenham. È una spassosa commedia agitprop come non se ne vedevano da
Nowhere Boy è l’opera prima della
Con rodato professionismo Allen riesce a tenerci inchiodati alle sue solite storie. Grazia e mistero nei racconti natalizi di Bent Hamer. Da non mancare “We Want Sex”, spassosa commedia agitprop. Meritevole l’opera prima di Sam Taylor-Wood sull’adolescenza di John Lennon
videoartista Sam TaylorWood, presentata al film festival di Torino appena concluso. Il film racconta gli anni centrali dell’adolescenza di John Lennon. La storia inizia con la morte dell’amato zio George (David Threlfall), il marito di Mimi (Kristin Scott Thomas), la zia che ha cresciuto il ragazzo quando la madre Julia non era in grado di farlo e il ragazzino rischiava di finire in istituto. Il punto di partenza è il libro della sorellastra di Lennon sulla loro madre. Vediamo il futuro Beatle mentre muove i primi passi nella musica e scopre l’esistenza della madre, residente da sempre in un quartiere vicino a lui con la nuova famiglia, a sua insaputa. All’inizio sembra un film banale, con un protagonista sensibile ma poco somigliante all’originale (Aaron Johnson). Solo alla fine, dove si arriva d’un fiato, ci si accorge di essere rimasti agganciati alla storia. Yoko Ono e Paul McCartney hanno fatto bene a concedere diritti e supporto morale. Da vedere, senza aspettarsi dei sosia.
ai confini della realtà I misteri dell’universo MobyDICK
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di Emilio Spedicato
el 1950 usciva negli Stati Uniti il libro Worlds in Collision, pubblicato da Doubleday, editrice specializzata in libri di carattere scientifico. Autore Immanuel Velikovsky, uno psichiatra ebreo figlio di un ricco commerciante ebreo moscovita, uno dei fondatori del movimento sionista e acquirente di un terreno nella Palestina allora turca in cui fu realizzato il primo kibbutz.Velikovsky lasciò la Russia durante la rivoluzione raggiungendo la Palestina dove allora migravano molti ebrei in fuga da pogrom e dagli scenari disegnati da teorie come quella di Hitler nel Mein Kampf. Velikovsky era vicino alle teorie di Freud, che mai conobbe personalmente, e divenne relativamente ricco in Palestina, dove persone stressate e alla ricerca di una cura psichiatrica ne esistevano molte. Fu leggendo l’opera di Freud su Edipo, così come tracciato nelle tragedie greche, che intuì una diversa lettura della storia di Edipo, in un contesto più ampio, dove la cronologia classica egizia doveva essere modificata e dove l’eco di catastrofi di origine extraterrestre permetteva una migliore comprensione della religione degli antichi. Il lavoro Oedipus and Akhnaton, dove identifica nel faraone Akhenaton, marito di Nefertiti e padre di Tutankhamen, il reale personaggio di Edipo, fu il punto di partenza della sua straordinaria opera di revisione degli scenari antichi.
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Immanuel si limitò al secondo millennio a.C. e a parte del primo, usando una cronologia basata essenzialmente sulla Bibbia e affermando che immani catastrofi di origine extraterrestre colpirono la terra, originate da inusuali eventi nel sistema solare. Chi scrive ha letto di un fiato Oedipus and Akhnaton assolutamente affascinato e nell’arco di sei ore... la stessa cosa è capitata al professore Alred De Grazia di Princeton, che in seguito a quella lettura ha totalmente modificato i suoi interessi scientifici. Ma il pri-
Mondi in collisione
sessant’anni dopo oggi sulla elevata probabilità di impatti, oltre che di passaggi ravvicinati; si ricordi che gli Oggetti Apollo erano praticamente sconosciuti (sono oggetti in orbita di collisione con i pianeti interni) e che l’idea di una cometa di grandi dimensioni che potesse spezzarsi in vari frammenti e schiantarsi su Giove, come avvenuto con la cometa di Shoemaker-Levy, era considerata un evento di bassissima probabilità. Non si conoscevano sistemi planetari extrasolari - alcuni li pensavano inesistenti - e l’evidenza di colossali impatti anche nel sistema solare data poi dall’esplorazione spaziale era carente. Doubleday fu attaccata per avere pubblicato un
Fu il primo libro pubblicato da Immanuel Velikovsky, autore di un’importante opera di revisione degli scenari antichi spiegati con fenomeni di impatti extraterrestri. Come nel caso dell’Esodo, dovuto a un’interazione con la coda di Venere… mo libro pubblicato fu Mondi in collisione, titolo editoriale che non corrisponde al contenuto del libro, dove si parla non di collisioni ma di passaggi ravvicinati. Il libro apparve in versione sintetica in Reader’s Digest, in Italia Selezione, una rivista che ha svolto un ruolo culturale importante anche se finalizzato ai valori degli Stati Uniti. Ricordo di avere letto questa sintesi quando avevo sette anni, restandone profondamente impressionato, in particolare per la spiegazione del fermarsi del sole nel cielo, in occasione delle guerre di conquista del territorio di Canaan (secondo il professor Salibi, non la Palestina ma l’Arabia del sudovest) da parte di Giosuè. Il libro di Velikovsky incontrò l’opposizione del mondo accademico, contrario a dare valore storico alla Bibbia e allora non informato come
libro eretico, ruppe il contratto con Velikovsky, che tuttavia ebbe un ritorno di pubblicità e il suo libro fu a lungo un best seller. Non discutiamo qui il contenuto del libro, ricordiamo solo che Velikovsky accetta l’affermazione mitologica della nascita di Venere da Giove. Non ne fornisce la causa, ora proposta in modo esauriente dal fisico John Ackerman, e la data troppo vicino, nel secondo millennio, quando una straordinaria affermazione nella cronologia Maya la collocherebbe al 6900 a.C. Questa data si accorda con una serie di eventi catastrofici simultanei che si sarebbero allora verificati sulla terra, stando al libro, non tradotto in italiano, Il diluvio c’è stato veramente, dei geologi e paleontologi Alexander e Edith Tollmann, dell’Università di Vienna.Velikovsky associa gli eventi dell’Esodo a una in-
terazione con la coda di Venere, allora non ancora in forma planetare (ma la temperatura di Venere sui 700 gradi può ancora essere presa come indicazione di una recente formazione). Una spiegazione alternativa è quella di chi scrive, basata su un passo di Paolo Orosio, collaboratore di Agostino, dove entrano in gioco due probabili oggetti Cruithne (corpi che seguono il nostro pianeta avvicinandosi e allontanandosi secondo una dinamica del tutto inattesa), uno dei quali, il Lampo di Omero, si schianta sull’Africa, l’altro, il Fetonte della mitologia greca, esplode sulla Germania del nord… L’idea di Velikovsky di introdurre le catastrofi nello studio del nostro pianeta nei millenni precedenti la nostra era è stata poi ripresa da vari studiosi, che qui non citiamo. Tuttavia va detto che all’inizio dell’Ottocento uno studioso, Johan Gottlieb Radlof, assai poco noto sino alla recente traduzione dal tedesco in inglese della sua opera a cura di Amy De Grazia, aveva prestato una grande attenzione agli eventi catastrofici dell’antichità. Nella monografia, che citiamo in italiano, La distruzione dei grandi pianeti Espero e Fetonte e le conseguenti distruzioni e diluvi sulla
terra, e nuove considerazioni sul linguaggio mitico degli anRadlof tichi, mette insieme una raccolta assai vasta e completa degli eventi catastrofici descritti nella letteratura classica greco-romana. Un lavoro assai importante, forse non noto a Velikovsky, che pure ignorò Paolo Orosio.
Dalla
lettura
del libro di Radlof chi scrive ha notato l’importanza in particolare del cosiddetto Diluvio di Inaco, che precede di sette generazioni il Diluvio di Deucalione, da Orosio associato all’Esodo, all’esplosione di Fetonte e ad altri eventi. La data dell’Esodo a partire dalla Bibbia, ovvero 1447 a.C., è corretta stando a varie argomentazioni. La data del Diluvio di Inaco non può essere esattamente stimata, data l’ambiguità nel definire i valori della generazioni, generalmente presi fra 25 e 30 anni. Dovrebbe trattarsi di circa due secoli, e potrebbe allora corrispondere a quel 1639 a.C. che è associato sia all’eruzione del vulcano di Santorini (ridatata recentemente dopo la scoperta di un ramo di ulivo sotto le ceneri) che a una crisi climatica, evidenziata da considerazioni sugli anelli di crescita degli alberi. Il Diluvio di Inaco potrebbe quindi essere stato causato dal collasso della caldera di Santorini, e la crisi climatica spiegare i sette anni di vacche magre in Egitto all’epoca di Giuseppe figlio di Giacobbe…