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SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

di Filippo Maria Battaglia erti critici lo definiscono «sottogenere letterario», ma va detto che ormai anche tra le patrie lettere ci sono atteggiamenti più aperti e possibilisti. Fino a qualche anno fa, al feuilleton ci si approcciava con lo stesso sguardo che si ha nei confronti dei parvenu nei salotti perbene: un misto di diffidenza e di comprensione, animato dall’acrimonia per un successo (anche economico) che il letterato non ha quasi mai avuto. Da un po’di tempo, nell’editoria italiana le cose però stanno cambiando, e in modo piuttosto radicale. I primi segnali sono arrivati da Einaudi, che ha deciso di ristampare la madama del romanzo d’appendice italiano, Carolina Invernizio, quella che Antonio Gramsci aveva definito «l’onesta gallina della letteratura italiana». Ma il caso più evidente è quello di Alexandre Dumas, che è un po’ il padre nobile del genere: da quasi mezzo secolo, lo scrittore francese non aveva un simile successo, quantomeno in Italia. «Storicamente, il romanzo d’appendice aveva il ruolo del grande intrattenitore popolare, un po’ come le grandi saghe a puntate di oggi, e qui basti pensare alle fiction tv di Montalbano ispirate ai libri di Andrea Camilleri» sostiene Beppe Benvenuto, a cui si deve la riproposta per i tipi di Sellerio di alcuni capolavori del grande romanziere transalpino. «Certo: questa funzione di grande saga, sempre avvincente, ricca di colpi di scena e soprattutto di notevole leggibilità, non ha oggi il successo che ha avuto a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. Però quel tipo di esigenza che la rendeva così efficace e appetita per editori e direttori di quotidiani in quanto grande traino della stampa ottocentesca non è scomparsa del tutto. I romanzi popolari classici, soprattutto quelli di eccellente fattura, rimangono un modello al quale attingere a tutt’oggi. E infatti gran parte della narrativa contemporanea che scala le classifiche di vendita non è molto diversa da quel tipo di fiction di cui Dumas è il rappresentante più apprezzato e riuscito».

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Il ritorno del romanzo d’appendice

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LA RISCOSSA DEI PARVENU 9 771827 881301

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ISSN 1827-8817

Parola chiave Crisi di Gennaro Malgieri Gli argomenti elettrici del baronetto Paul di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Antonia Pozzi la solitudine delle parole di Francesco Napoli

Mentre si ristampa Carolina Invernizio e Dumas registra in Italia un successo mai avuto prima, gran parte della narrativa contemporanea che scala le classifiche di vendita attinge al modello del feuilleton. Superando così quota diecimila...

La svolta di Luchino di Orio Caldiron Natale con i Vuillard e l’epopea di Jamal di Anselma Dell’Olio

Quelle paste di vetro très Lalique di Marco Vallora


la riscossa dei

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parvenu

Da padre Ralph a Elisabeth Bennet ary Carson, proprietaria di un grande ranch, s’innamora del parroco, padre Ralph de Bricassart proprio mentre lui sembra interessarsi alla nipote di Mary, Meggie Cleary. Padre Ralph non contraccambia la sua passione e Mary decide allora di influenzare il suo destino anche dalla tomba. È l’inizio di una storia che si dipana e si intreccia in maniera molto astuta, la storia scritta da Collen McCullough, australiana, autrice di Uccelli di rovo, la prima fortunatissima accoppiata tra testo e serial televisivo degli inizi anni Ottanta. Il prete bello e ambizioso ha tenuto con il fiato sospeso milioni di persone. La signora Collen scrive facendo attenzione a un’immaginaria quanto precisa sceneggiatura: ecco il meccanismo vincente dei feulleiton. Che non sempre riesce, anzi a volte s’inceppa, soprattutto quando le ambizioni dell’autore si spostano dalla trama accattivante come uno spot pubblicitario per arenarsi in una prosa magari migliore, ma priva di quell’appeal popolare che fa di un testo, o di un soggetto, un successo senza confini. L’ultimo romanzo della McCullough s’intitola L’indipendenza della signorina Bennet, che esce in questi giorni (Rizzoli). L’autrice riprende in mano il destino di cinque donne di Orgoglio e Pregiudizio di Jane Austen. Auguriamo tanti applausi alla narratrice australiana, ma coviamo il maligno sospetto che i lettori rimpiangano padre Ralph, trasgressivo e affascinante. Anche se la nuova proposta dosa bene le differenze di personalità. Guai infatti se un autore delinea uomini, donne, paesaggi e situazioni con lo stesso color pastello. La tradizone teatrale greca ci dovrebbe aver insegnato che il plot drammatico s’impernia proprio sulle differenze, sui contrasti. La McCullough parte da premesse giuste: nel suo libro c’è Elizabeth la saggia, Lydia la frivola, Kitty la mondana, Jane la bella, Mary la timida. Ecco le sorelle Bennet, ciascuna ovviamente con un destino diverso. Ci sono anche i cottage inglesi, i rancori repressi e quelli svelati, le accuse forti («Cagna? È un eufemismo! Vi chiamerò come vi meritate: megera»), le madri malate e capricciose, il dolore di essere al margine dell’amore e del corteggiamento. Il canovaccio è fitto. Ma queste «piccole donne» (che crescono, anzi son già cresciute) non inseguono un padre Ralph. È lui che ci manca.

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segue dalla prima Gli spunti per raccontare storie odierne non mancano: «l’ambientazione è diversa, ma il colpo di scena e la malignità del potere restano pressoché centrali, insieme al ruolo delle donne, al contempo un po’ arpie e un po’ angeli». Una produzione, quella del romanzo d’appendice che - ricorda sempre Benvenuto - non è poi così diversa da quella che i critici, con una definizione che nell’Ottocento non esisteva, definivano “alta letteratura”: Balzac e Stendhal non hanno stereotipi differenti da quelli dei loro colleghi più popolari. Cambiano invece la resa stilistica, la qualità del ritmo e le attese sociali del pubblico».

Ma l’editoria italiana non guarda solo ai classicissimi. Da anni, la casa editrice Corbaccio manda in stampa diverse decine di feuilleton l’anno. Per gli appassionati del genere, ad esempio, Dove finisce il fiume di Charles Martin è un libro che non può essere ignorato. La storia è quella di un giovane artista cresciuto in una roulotte in Georgia che si innamora di una sensualissima figlia di un senatore della Carolina del Sud. Ce ne sarebbe abbastanza per una trama alla Romeo e Giulietta ambientata nell’Ovest dei nostri giorni, ma Martin non si accontenta: fa ammalare la protagonista, la fa lottare titanicamente con il «male oscuro», fino a fare promettere al suo compagno la realizzazione di «dieci cose per cui vale la pena di lottare». Per as-

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa a cura di Gloria Piccioni

Il manifesto dell’ultima versione cinematografica di “Orgoglio e pregiudizio”

C’è comunque da annotare un fatto: le protagoniste sono tutte donne. La furbizia, innata o inseguita, è evidente. Oggi chi legge libri? Soprattutto le donne, a volte solo loro se trattasi di narrativa. Il 38 per cento di chi scrive è oggi femmina (nel 2002 era il 31). C’è poi da riflettere sull’osservazione fatta dall’Aie (Associazione Italiana Editori), ossia che dal 1991 al 2008 la percentuale delle donne con ruoli chiave nell’editoria è cresciuta del 119 per cento. Siamo oltre il raddoppio. Se si confrontano le cifre, col sapore apparentemente neutro del bilancio, si capisce come il genere «rosa» dilaghi sugli scaffali. L’altra porzione di ferro su cui battere - già «caldo» per molti autori - è quella della biografia. Genere che in tv o al cinema funziona benissimo. Punta su un personaggio controverso Melania Mazzucco con La lunga attesa dell’angelo (Rizzoli). In una Venezia fin troppo dettagliata, spicca la figura di Jacomo Robusti detto il Tintoretto. La penna è abile, ma ci assale quell’interrogativo che fa da spartiacque tra libro ottimo e libro abbastanza buono: fino a che punto l’autore sente come «necessario» l’obbligo di scrivere quella storia e soltanto quella? Se si avverte la sensazione che un’altra vicenda potrebbe esser messa lì, in sostituzione, allora cala il pathos dei lettori. E i lettori sono dotati di antenne formidabili. Alla fine è questa massa indistinta a decidere le sorti dell’editoria, e non la maggiore o minore presenza femminile, o maschile, negli apparati editoriali. (p.m.f.)

secondarle, Doss - è questo il nome del Nostro - dovrà di fatto rapirla, sfuggendo alle sirene della polizia e alla giaculatorie di tutto il parentado. La produzione è comunque sterminata. E trame e personaggi sono svariati: si va dalla storia di oscuri e stimati astrologi, ispirati a personaggi davvero esistiti (sempre per Corbaccio, nell’Uomo che leggeva le stelle Dominique e Jérome Nobécourt raccontano con piglio serrato e romanzato la storia di Nostradamus) ad atmosfere tutta suspense e intrighi, che lasciano con il fiato corto (è il caso di James Rollins, che nella Città sepolta edito da Nord si fa testimone di una storia ad alta tensione tra Londra, Washington e il deserto persico). Le vendite superano quasi sempre quota diecimila: rispetto ai loro predecessori, i romanzieri godono di una tecnica assai più raffinata e di una capacità descrittiva più verosimile. Così, se un secolo fa Carolina Invernizio scriveva che una sua protagonista «aveva le mani viscide come quelle di una biscia» senza farsi poi troppi problemi, oggi uno come Nobécourt non farebbe mai di questi errori. Al di là della tecnica, le ragioni di un simile successo, specie nei confini del nostro set geografico, non mancano affatto. Il feuilleton o romanzo d’appendice, è probabilmente il genere letterario che rispecchia meglio il Belpaese. Come l’opera, e forse più dell’opera, è un concentrato di toni lirici uniti a forti sentimenti, che non lasciano nulla di intentato o di abbozzato. È la traduzione della «sceneggiata» napoletana, la madre delle seguitissime soap opera, la

Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento)

figlia spuria dei capolavori di Giacomo Puccini e di Vincenzo Bellini. Non è roba per palati fini, non ha registri ermetici e allusioni letterarie perché non si rapporta a una classe borghese dalla solida e radicata cultura, e racconta di storie accessibili e in cui ci si può facilmente identificare.

E poi quasi tutti gli incipit sono folgoranti. Prendiamo ad esempio quello della Città sepolta di James Rollins: «Harry Mastersons sarebbe morto di lì a tredici minuti. Se lo avesse saputo, avrebbe fumato l’ultima sigaretta sino al filtro. Invece la spense dopo soltanto tre tiri e scacciò la nuvola di fumo. Se l’avessero beccato a fumare fuori dalla sala dei guardiani, quel bastardo di Fleming, il capo della sicurezza, l’avrebbe licenziato in tronco. Harry era già sottotiro per essere arrivato con due ore di ritardo, la settimana precedente. Harry imprecò, mettendo in tasca il mozzicone spento. L’avrebbe riacceso nella pausa seguente… se ci fosse stata». Un attacco lancia in resta che non promette nulla di buono per il poveretto. E infatti le scene, le lacrime e il sangue sono le stesse di quelle raccontate a fine Ottocento dalle trame della Invernizio. La tecnica narrativa no: quella è decisamente migliorata. E ha così restituito una maggiore dignità al genere, rinvigorendo la psicologia, fino a qualche anno fa davvero fragile, dei protagonisti. Il feuilleton è dunque tornato di scena. E da parvenu guardato di sottecchi, è diventato protagonista sempre più invidiato del salotto letterario nostrano.

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CRISI ome automi senz’anima, attraversiamo le angosce del nostro tempo segnato dallo spossessamento delle ragioni dell’essere e dal dominio della conservazione degli averi. Ci aggiriamo smarriti nelle megalopoli confuse, contraddittorie, violente alla ricerca del nulla o, nella migliore delle ipotesi, di un senso al nostro vagabondare. E soffermandoci davanti alle miserie che ci si parano davanti nelle forme più volgari o banali, non riusciamo a cogliere il significato della nostra presenza nel groviglio di indistinte suggestioni che da ogni angolo ci invitano a cedere. Ma noi non possiamo più cedere, non tanto perché votati, come per miracolo, al ripudio della modernità, ma per il semplice fatto che è la modernità stessa che ci respinge con le sue gravosissime richieste per accedere ai suoi richiami. Un controsenso, naturalmente, che tuttavia scandisce il tormento che accompagna il nostro peregrinare di occidentali cresciuti nell’adorazione di un benessere ritenuto eterno. Da qui la crisi che non è soltanto finanziaria, politica, civile, esistenziale. È essenzialmente manifestazione nichilistica della rottura tra l’essere e il dover essere, lo spezzarsi di un sogno su un sentiero improvvisamente interrottosi.

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Noi che abbiamo fatto dell’avere un mito, anzi il mito, inspiegabilmente siamo stati svegliati dal fragoroso crollo degli imbonitori che ci avevano raccomandato di non cedere alle lusinghe dello spirito, di tuffarci nell’avventuroso mare dell’avidità, di non ritrarci di fronte a profitti dei quali, con qualche timore, osservavamo le curve ascendenti e discendenti. Oggi siamo più poveri. E lo saremo ancora di più con il passare del tempo. E perfino del tempo saremo meno padroni. Per non dire di tutte le nostre azioni che non coincideranno con il piacere di sollievi innocenti e di passioni che con difficoltà potremo coltivare. La crisi di cui si parla ha soltanto in apparenza contorni materici; in realtà è una crisi che si sviluppa dentro noi stessi chiamati a gettare alle ortiche le consolanti protezioni che il benessere ci assicurava. Dovrebbe spaventarci l’austerità? No: ci terrorizza. Perché dover rinunciare a tutto dopo averlo assaporato fino a restarne nauseati, è appunto terrorizzante. E scuote le certezze atrofizzate sapere che nulla sarà più come prima. Guadagni, consumi, dilapidazioni allegre, apparenza gioiosa che ha privato del piacere di riconoscere la sostanza di generazioni di donne e uomini occidentali i cui pensieri lunghi hanno finito per approdare sulle scogliere del disincanto. Oggi ci scopriamo nudi. Questa è la crisi. O la sua estetica, se si preferisce. È la rottura; la cesura con le abitudini; l’allargarsi di un divario tra le necessità reali e i bisogni fittizi. La caduta, insomma, dell’ideale moderno nel quale il sogno si è sempre confuso con la realtà. E il tutto accade quasi nell’indifferenza, come se si dovesse compiere una fatalità. Senza neppure la con-

Ci scopriamo nudi di fronte alla caduta dell’ideale moderno nel quale il sogno si confonde con la realtà. E mentre si allarga il divario tra le necessità reali e i bisogni fittizzi, siamo costretti a rinunciare alle consolanti protezioni che il benessere ci assicurava

Sulle scogliere del disincanto di Gennaro Malgieri

Se il parametro della vita è il consumo, siamo già morti. Ma i nostri governanti, invece di invitarci a mostrare la qualità umana di fronte alle intemperie ci incoraggiano a consumare di più. È proprio vero che “il commercio era dolce e la concorrenza pacifica solo quando l’economia era tenuta a distanza dalla politica”! solazione di approdare alle estreme lande dell’eterno poiché non conosciamo la strada che a esse conduce dopo decenni di edonismo selvaggio accarezzato come il bene più prezioso. E, nonostante tutto, che cosa dicono i nostri governanti, della cui opinione potremmo fare tranquillamente a meno se non fosse per il non trascurabile

particolare che dalle loro scelte dipendono i nostri materiali destini? Ci saremmo aspettati un invito a rialzarci, a riprendere il cammino verso altri lidi, a mostrare la qualità umana di fronte alle intemperie. Abbiamo ascoltato soltanto incoraggiamenti a consumare di più, ancora di più. Tutto il consumabile anche se ben poco è rimasto. E ci sia-

mo visti sbattere in faccia la povertà, la miseria, l’indigenza con qualche elemosina di Stato per riempiere al supermercato carrelli colmi di disperazione e di disprezzo.

La crisi. Sì, morale. Poiché se il parametro della vita è il consumo, noi, senza saperlo perché nessuno ha pensato di fare un decreto per dircelo, siamo già morti. Al sole dell’economia invadente, della finanza totalizzante, della politica immorale, della rassegnazione a non essere privi di averi. La crisi si compie nelle pieghe dell’homo consumans che non sa apprezzare la moralità regale del dono; dell’homo oeconomicus la cui unica fede è il mercato e quando questo crolla a lui non resta che cercare riposo tra le sue macerie; dello sperperatore d’intelligenza che affida la sua anima (convinto peraltro di non averla) a broker senza scrupoli i quali sono gli unici sciamani che la modernità riconosce. E si dispiega, la crisi, nell’individualismo egoistico che compra il tempo perché esso è denaro e lo getta in imprese che non gli sopravviveranno, a differenza di ciò che accadeva una volta, in epoche ormai lontane e dimenticate. Charles Malamoud ha sottolineato che «la preoccupazione di dover rimborsare l’usuraio o il proprietario risveglia inevitabilmente l’angoscia che fa nascere nell’uomo il pensiero dell’ultimo creditore, la morte. Tutto si svolge come se i debiti contingenti e parziali che l’uomo contrae nel corso della sua esistenza non fossero altro che i sintomi o l’illustrazione del debito essenziale che definisce il suo destino». Di fronte alla caduta della materialità del profitto, la maggior parte degli occidentali ha reagito come se si trovasse di fronte all’ultimo creditore. E da qui la sensazione di spaesamento e di disperazione. Chi ha cercato, e cerca, nella politica una qualche consolazione, si rassegni: non la troverà. Essa è stata piuttosto, non saprei quanto inconsapevolmente, mallevadrice della crisi. Osservò anni fa, in un libretto poco amato dagli ottimisti, Serge Latouche, che «la scomparsa della politica come istanza autonoma e il suo assorbimento nell’economia fa ritornare lo stato di guerra di tutti contro tutti; la competizione e la concorrenza, leggi dell’economia, diventano ipso facto leggi della politica. Il commercio era dolce (secondo l’espressione di Montesquieu) e la concorrenza pacifica solo quando l’economia era tenuta a distanza dalla politica». Nel mondo ridotto a mercato, e a un mercato di rottami perdipiù, chi può dire che la politica non ha avuto responsabilità, al pari della cultura, nell’aprirsi di una crisi che non sarà frenata dalle misure dei governi, poiché la sua profondità raggiungerà le radici dell’animo umano? La crisi è di civiltà, non di sistemi economico-monetari. Prima ce ne rendiamo conto e meglio sarà. Per tutti. Anche per coloro che fingono un ottimismo di maniera sapendo bene che è stupido portarlo stampato sul volto.


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cd

musica

Gli argomenti del

baronetto Paul di Stefano Bianchi forte, il Macca furioso. Che ripensa alla sua Helter Skelter, ci versa sopra gocce di blues luciferino e s’inventa Nothing Too Much Just Out Of Sight. Gran bel pezzo, che inaugura come si deve Electric Arguments: terzo disco d’un Paul McCartney che si «traveste» da The Fireman (tirando in ballo un verso di Penny Lane : …there is a fireman with an hourglass. And in his pocket is a portrait of the

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Queen) insieme a Youth, all’anagrafe Martin Glover, ex bassista dei Killing Joke e produttore discografico. Nel 1993 e ’98, la coppia pubblica Strawberries Oceans Ships Forest e Rushes, dischi strumentali d’elettronica ambient con qualche licenza dance. Si firmano The Fireman restando nell’anonimato, ma chi segue McCartney dai tempi dei Beatles capisce che dietro c’è il suo zampino. E il liverpooliano, una volta rientra-

in libreria

to dalla coraggiosa «vita parallela», riprende a fare l’orecchiabile come se nulla fosse. In realtà, se ci pensate bene (e i beatlesiani duri e puri lo sanno), Sir Paul non è stato l’anima zuccherosa dei Fab Four contrapposta all’anarchia sperimentale di John Lennon. L’equivoco va sfatato una volta per tutte: negli anni Sessanta, le distorsioni sonore dell’ellepì Revolver (sperimentate per la prima volta in sala d’incisione), erano o non erano sue? E l’idea rivoluzionaria di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band? E l’invenzione dell’heavy metal con Helter Skelter? Siamo d’accordo: Macca fa soprattutto rima con melodia (e talvolta con musicaccia, leggi Mull Of Kintyre, Ebony And Ivory con Stevie Wonder e Say Say Say con Michael Jackson). Ma allora, come la mettiamo con le nuove canzoni griffate Fireman? Che sono 13, registrate in 13 giorni d’amore e d’accordo con Youth? McCartney canta, stavolta. Senza nascondersi dietro l’alibi strumentale. E fa circolare

mondo

idee, sorprese, intuizioni. In totale libertà, creativo come non gli succedeva da tempo, ti dà un buffetto «tradizionale» col leggiadro swing di Two Magpies (spazzole, chitarra acustica e via), il maestoso pop (con retrogusto Wings) di Sing The Changes, il folklore bucolico di Travelling Light e il country sghembo di Light From Your Lighthouse. Ma sotto sotto, ti fa percepire che l’atmosfera è più elettrica & eclettica. Altro che il solito Paul. E infatti, da metà in poi Electric Arguments dà la paga a quei sapientoni che pensano d’aver la musica in pugno. Si accomodino, please, e ascoltino la vena psichedelica e le tentazioni raga di Lifelong Passion e di Is This Love?; lo smagliante rock-blues di Highway; il rock acido di Lovers In A Dream, che fa addirittura venire in mente i primi Pink Floyd; la cupa, fangosa e riverberata Universal Here, Everlasting Now che poi si butta a precipizio nel rock; gli intrecci vocali e la cinica nevrastenìa di Don’t Stop Running. Dopodiché arrossiscano, i buontemponi. Il Macca, baronetto rivoluzionario, l’ha combinata grossa. Trasformando gli «argomenti elettrici» in capolavoro assoluto. The Fireman, Electric Arguments, MPL/Goodfellas, 18,90 euro

riviste

I SUONI DELL’ANIMA

DAMNED, NON È MAI TROPPO TARDI

GLI U2? DIVERSI DA COME LI CONOSCIAMO

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i solito i libri pubblicati in Italia sulla musica soul sono delle ponderose enciclopedie che si aprono con qualche immancabile riferimento agli spiritual e al gospel, oppure delle semplici antologie commentate di dischi fondamentali. Con Scritti nell’Anima (Tuttle edizioni, 354 pagine, 16,00 euro) invece il critico Eddie Cilìa ha preferito raccontare delle storie, ognuna

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a stampa britannica, sempre pronta a spellarsi le mani per l’ultimo gruppo di ventenni alle prese con la solita rimasticatura dei Joy Division, ha stavolta speso parole benigne per una band che i più davano per bollita già vent’anni fa. I Damned, passati alla storia per aver inciso il primo singolo punk in Inghilterra (New Rose, del settembre 1976), sono tornati dopo sette anni di

na cosa è certa: la collaborazione tra la più grande rock-band in attività e il leggendario produttore Rick Rubin (artefice tra l’altro della rinascita artistica di Johnny Cash), è morta sul nascere. Per il nuovo album, in uscita a febbraio 2009, gli U2 hanno deciso di affidarsi agli storici partner Daniel Lanois e Brian Eno, che con la band irlandese avevano firmato capolavori come The Jo-

Sam Cook, James Brown, Otis Redding, Prince & Co in un libro dedicato a spiritual e gospel

In Inghilterra torna in auge il gruppo che vent’anni fa incise il primo singolo punk

The Edge rivela a “Mojo” che il nuovo disco in uscita a febbraio non assomiglia a niente di già noto

dedicata a un protagonista di quella musica capace di trasmettere «l’immaginario, i sogni, la maledizione e il riscatto di un’esistenza nel ghetto». Nei 66 capitoli del volume si vedono scorrere tutti i protagonisti di quella stagione, da James Brown a Curtis Mayfield, da Sam Cooke a Otis Redding fino ad arrivare al funk di George Clinton e ai travestimenti sonori di Prince. Trattandosi di un libro per appassionati, il curatore del libro ha pensato bene di corredare le ultime pagine di un elenco dettagliato di tutti gli album citati: va bene il piacere della narrazione, ma a volte anche un po’ di sana catalogazione può risultare gradita.

silenzio e sterminati cambi di formazione con l’album So, who’s paranoid, recensito in maniera positiva da quasi tutti i giornali anglosassoni. Sarà certo perché tra inni punk orecchiabilissimi, brevi assaggi di psichedelia e qualche inevitabile riferimento ai Beatles, il disco non annoia e non si ripete. Ma forse i giornalisti d’Oltremanica si sono resi conto che rispetto ai ragazzini incensati di solito, questi reduci ultracinquantenni sono molto più divertenti da intervistare. Non c’è paragone tra un ragazzo che ha da poco lasciato il college e un uomo che, come Captain Sensible, ha diviso il palco con Johnny Rotten e ha visto i Ramones suonare a Londra nel 1976.

shua Tree e Achtung Baby. Intervistato dal mensile inglese Mojo sul numero di dicembre, il chitarrista The Edge ha spiegato che «con Rick abbiamo registrato alcune cose nel 2006, ma non le inseriremo nel prossimo album. C’erano alcune idee favolose e sono sicuro che verranno utilizzate un giorno. A un certo punto abbiamo lasciato perdere la questione di che tipo di disco volevamo fare. Rick ci consigliava di non entrare in studio senza un’idea precisa, che è il procedimento opposto al nostro». Secondo il musicista «il nuovo disco suona come un album degli U2, ma come nessun altra cosa che abbiamo fatto prima: non assomiglia a niente di quello che si può ascoltare in giro».

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zapping

Gruppi sediziosi su Facebook ALL’ATTACCO DI ALLEVI di Bruno Giurato ell’Italia dell’incertezza credevamo che almeno un centro di gravità permanente non fosse in discussione, ma ci sbagliavamo. Si tratta di Giovanni Allevi, il pianista marchigiano che piace a tutti e che il 28 dicembre suonerà pure al Quirinale. Hanno scritto che Allevi sta al pianoforte come Vito Mancuso alla teologia, non sappiamo se sia un complimento o una critica, né per chi dei due, ma vogliamo pensare bene. E in questa sede vogliamo andare oltre. Qui dichiariamo che Allevi è il bischero su cui si tende la corda dell’armonia mundi, e per bischero intendiamo (vocabolario alla mano) la chiavetta di legno per accordare. Ora, la notizia è che esistono persone che mettono in discussione Allevi. Per esempio i componenti del gruppo di Jovanotti, di cui Allevi ha fatto parte anni fa. Chiesero al pianista di suonare una parte alla Chick Corea, e Allevi rispose: «Non c’è problema». Quei cattivoni presero la risposta come un segno di superbia. Dico, mettere in dubbio che Allevi sappia suonare come Corea? Scherziamo? E c’è di peggio. Visto che Facebook è un media dove si trovano opinioni incontrollate, vogliamo denunciare i gruppi sediziosi contro il Nostro che lì operano. C’è il gruppo «Giovanni Allevi fa musica da due lire», il gruppo: «Allevi è un cretino!», il gruppo: «Io odio Giovanni Allevi, e non sono il solo»; il gruppo: «A.A.A. cecchino cercasi per soluzione problema Allevi». È un’escalation di violenza (per ora solo verbale) che potrebbe culminare in tregenda. Se gli estremisti, i compagni che sbagliano, riuscissero a portare sulla loro strada anche i moderati, il gruppo: «Quelli che non sopportano Giovanni Allevi», potrebbe nascere qualcosa di grave. Qui l’intervento del Quirinale ci sta tutto.

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classica

Le sfida-Berlioz da Barenboim ad Abbado di Jacopo Pellegrini parte il fatto che l’Italia dell’Ottocento era tutt’altro dal deserto della musica strumentale transalpina che una storiografia distratta o in mala fede è andata deprecando per troppo tempo, il nome di Hector Berlioz nell’ultimo quarto del secolo XIX e all’inizio del successivo compariva con sorprendente frequenza su riviste e giornali di casa nostra: notizie, ritratti biografici, commenti sulle opere, di tutto un po’. Un po’diverso il discorso sul piano delle esecuzioni, anche perché gli organici mobilitati dal Nostro erano, e restano, spropositati, «ninivitici», com’egli amava definirli. Al tempo, dunque, si ascoltavano l’ouverture Il carnevale romano, facilmente assimilabile alla voga dei pezzi «descrittivi», e, dopo una certa data, la Sinfonia fantastica. Oggidì la situazione non che mutata, è forse peggiorata. Al Carnevale e alla Fantastica si affiancano a malapena il ciclo per voce e orchestra Le notti d’estate, su versi di Gautier, e i frammenti strumentali da Romeo e Giulietta. Più rare, troppo rare, le composizioni sinfonico-corali (oltre al predetto Romeo, La dannazione di Faust, L’infanzia di Cristo, ecc.), per non parlare del teatro musicale. E il Berlioz «letterato»? Al lettore italofono nulla è dato sapere dell’epistolario e delle recensioni musicali (spesso magnifiche d’acume e ironia), dovrà farsi bastare le Memorie (RicordiLim, 2004), le Serate d’orchestra (EDT, 2006) e i Grotteschi della musica (Zecchini, 2004). Poco da scialare anche sul fronte degli studi. Unica monografia recente, quella appena licenziata da Epos, Palermo, a firma Laura Cosso; da integrare con due testi che molto possono insegnare su specifiche questioni musicali: il concentrato, attraentissimo Hector en Italie di Guido Zaccagnini (Pendragon, 2002), e la monografia dedicata alla Fantastica da Paolo Russo (Carocci, 2008). Le concordanze tra questa partitura e la cultura romantica francese, così ben indagate da Russo, si potevano quasi toccare con mano, tanto risultavano concrete nella loro dimensione uditiva, nel terzo dei Concerti sinfonici 2008-09 alla Scala di Milano, protagonista la Filarmonica del teatro milanese capitanata da Daniel Barenboim. Ancora la Fantastica, ma che Fantastica! Una minuziosa sprettrigrafia timbrica che rendeva percepibile ogni voce anche negli episodi più congesti (fugato della Marcia al supplizio), il suono che si materializza dal nulla, il tendere al limite le escursioni dinamiche (Marcia, Sogno d’una notte di sabba), il colore scuro degli archi in genere, dei bassi in particolare - tutto il lavoro del podio, coadiuvato da un’orchestra non immacolata ma galvanizzata dalla sfida, tendeva a una visione in cui il Sublime estetico (Beethoven) si rovescia nel suo opposto, grottesco e deformato (le feroci «risate» degli archi

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nel Sogno), sulla scia dei coevi Hugo e Delacroix (la Sinfonia risale al 1830). Un Berlioz estetizzante, prenovecentesco, giusta la lezione appresa sui saggi memorandi di Fedele d’Amico, ci prospetta invece il Te Deum (1849) offerto da Claudio Abbado a Bologna. Schieramento di forze davvero «ninivitico»: un doppio coro (Comunale di Bologna e Verdi di Milano), 600 voci bianche (ancora Comunale di Bologna, Coro Clairière, varie scuole di musica, elementari e medie emiliane), tre orchestre in una (la Mozart di Abbado, la Cherubini di Muti e la Giovanile italiana), un tenore solista (come già nel Requiem), un organo (la bravissima Apkalna). Abbado sgrassa e assottiglia, tanto il contrappunto corale e

strumentale quanto gli elementi militari (marce e fanfare) si alleggeriscono e, in virtù di un fraseggiare sovrano, un impulso lirico, pudico ma infrangibile, si libra al di sopra di tutti i contorcimenti melodici e armonici e riconduce l’alternanza di Inni e Preghiere, su cui è incentrata la partitura, a un tono di orazione intima. Lo so, un bravo cronista vi racconterebbe nel dettaglio il Pierino e il lupo eseguito nella stessa occasione da Abbado e da Roberto Benigni. Sarà un genio, costui, chi lo nega; ma che volete, a me ’un mi diverte più.

jazz

Gershwin memorabile (come Pieranunzi)

di Adriano Mazzoletti opo quasi un mese e ventidue concerti, il Roma Jazz Festival 2008 ha chiuso i battenti con uno splendido Enrico Pieranunzi che, accompagnato dalla Berna Touch Point Orchestra, ha coronato un Festival che finalmente rende omaggio al proprio nome. Perché di un festival vero e proprio si è trattato. Erano anni che non si assisteva, e non solo a Roma, a una manifestazione strutturata come una vera e propria rassegna di ciò che offrono in questo momento il jazz e le musiche a esso collegate. Non una serie di orchestre e complessi, scelti spesso per motivi economici o perché in tournée in quel determinato momento, bensì una selezione operata con il criterio di ciò che normalmente un festival dovrebbe offrire. Il panorama è stato esaustivo, jazz italiano ben rappresentato, così come quello internazionale. Poche le presenze a cui sa-

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rebbe stato bene rinunciare: la Solar Orchestra per esempio, il cui leader - il pur eccellente chitarrista Alessandro Bruno al secondo brano ha tenuto a precisare che il suo gruppo «non suona jazz». Erano molti coloro che se ne erano immediatamente accorti. Oltre ai concerti di cui si è già riferito (le orchestre che furono di Count Basie e Sun Ra, Chick Corea con John McLaughlin, l’Italian Instabile Orchestra, la Pmjo, Furio Di Castri, la rivelazione Chihiro Yamanaka), le ultime settimane hanno offerto diversi motivi di interesse. Pieranunzi con la Berna Touch Orchestra e le tre edizioni di Porgy and Bess nella rilettura, in forma di concerto, diretta da Wayne Marshall con il soprano A.R. Simpson e le splendide voci di Indira Mahajan (Bess), Rodney Clarke (Porgy) e Ronald Samm (Sporting Life). L’edizione dell’opera di Gershwin, andata in scena con l’Orchestra, Coro e Voci bianche dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, ha superato anche la ver-

italiano arrangiate dal sassofonista Matthias Venger. Messa a punto perfetta con solisti eccellenti, che meriterebbero una maggiore considerazione da parte dei promoter dei vari festival italiani. Soprattutto i trombonisti Bernhard Bamert e Andres Tshopp, la tromba Johannes Walter e il contrabbassista Marco Muller. Deludenti invece alcune «star» presenti al Festival come Paolo “Porgy and Bess” diretto da Wayne Marshall al Roma Jazz Festival Fresu e Ralph Towner la cui musica soporifera ha messo a sione realizzata nel 1970 da Todd Duncan dura prova la pazienza di molti. con la Decca Symphony Orchestra diret- Anche il Sestetto di Herbie Hancock con ta da Alexander Smallens e pubblicata da la tromba Terence Blanchard è stato infeMca. Successo meritato con la Sala San- riore al normale standard. Le lunghe comta Cecilia sempre esaurita nel corso delle posizioni ricordavano troppo le colonne tre rappresentazioni. Il concerto di chiu- sonore che Blanchard ha composto per sura affidato a Pieranunzi e alla Berna molti film di Spike Lee. Eccellenti per sotTouch Orchestra ha presentato un reper- tolineare le azioni cinematografiche, assai torio basato su composizioni del pianista meno per essere eseguite in concerto.


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narrativa

di Pier Mario Fasanotti i dovete scusare, ma una cosa è da rivelare subito anche se nel romanzo appare solo a pagina 61. La protagonista, nonché io-narrante, è negra. Dico negra e non nera, definizione che oggi sarebbe più corretta, perché la vicenda si svolge ai primi anni Cinquanta, nei vergognosi tempi della segregazione razziale. Ebbene, la giovane Pearlie Cook racconta il suo matrimonio partendo da una certezza amaramente acquisita: «Crediamo tutti di conoscere la persona che amiamo. Nostro marito, nostra moglie. E li conosciamo davvero, anzi a volte siamo loro... Ma ciò che amiamo si rivela una traduzione scadente da una lingua che conosciamo appena. Risalire all’originale è impossibile». Il coniuge è una persona «velata» accanto alla quale, mano nella mano, camminiamo per decenni. Nel caso di Pearlie c’è una rivelazione sconvolgente. Il passato imbarazzante bussa un giorno alla sua porta. Non è l’amante del marito Holland, e nemmeno una sua vecchia fiamma. È un bianco, elegante, atletico e biondo che si chiama Buzz e reclama la «restituzione» dell’oggetto del suo grande e travolgente amore. Lo ha incontrato poco prima della fine della guerra in un ospedale psichiatrico. Si sono amati fino al giorno della brusca e violenta rottura, quando l’affascinante Holland chiede a Pearlie: «Ho bisogno che tu mi sposi». Nella frase c’è un tarlo segreto al quale solo anni dopo verrà dato un nome: omosessualità. Lei fu avvertita dalle zie del marito che Holland aveva «un disturbo». Non indagò, decise di farsi carico di lui, per amore, immaginando un vizio cardiaco, una debolezza endogena, frutto probabilmente del trauma subito in guerra. Tiene il marito nella bambagia, addirittura adotta un piccolo cane che non abbaia. Il matrimonio, gravato dalla nascita di un bimbo handicappato, procede nella sua fredda normalità. Finché, appunto, Buzz offre soldi e complicità in

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Cronaca di un amore: il matrimonio di Pearlie

libri

cambio di Holland. È uno dei più toccanti e raffinati romanzi apparsi quest’anno. L’autore, l’americano Andrew Sean Greer, ci fa riflettere sul seguente interrogativo: «Che cosa si può capire dell’amore?». E insiste su una quasi-certezza che ha Pearlie: «Si dice che esistano tanti mondi quante sono le nostre scelte». Non c’è, nel romanzo, alcun messaggio diretto e tantomeno un proclama, ma colpisce la solidità psicologica di una giovane donna che è pronta alla grande rinuncia - del matrimonio, della felicità, dell’attesa di un futuro sereno - in nome dell’amore. Pearlie arriva ad accettare l’eventuale scelta del marito. Non rivelo quale sia, ovviamente. Mi limito a riportare un pensiero di una donna delicata nei sentimenti, nell’agire in pubblico e nel privato: «Non si giudica un uomo per quello che dice. Si giudica da quello che fa». Questo, assieme alla saggezza che ti porta a dire che «la metà della vita è sapere che cosa vuoi», è da calare in uno scenario tipicamente americano, dove la guerra incombe sempre, dove il valore del singolo è offuscato dall’orribile pregiudizio o razziale o sociale. Un paese che sa rinnovarsi, ma è troppo spesso tentato di «regalare una bella morte» ai figli obbedienti. Lo scrittore americano, già noto a noi per il suo bellissimo Le confessioni di Max Tivoli (Adelphi 2004), viviseziona il cuore e la mente femminili e offre cronaca asciutta ma vibrante dell’amore, una sorta di «pazzia» che come tale «non si può sopportare in solitudine: l’unica persona che può darci sollievo è proprio quella a cui non ci possiamo rivolgere». Il dramma della vicenda dei coniugi Cook sta proprio nelle parole ridotte al minimo, nella tentazione mai soddisfatta di aprire all’altro il proprio nucleo intimo. Il rimedio è badare ai fatti, rispettare il passato e i segreti della persona con cui si vuole vivere. Andrew Sean Greer, La storia di un matrimonio, Adelphi, 224 pagine, 18,00 euro

riletture

Dewey e il vero significato della democrazia di Renato Cristin stata da poco ristampata dall’editore Donzelli la traduzione italiana di un testo fondamentale per la comprensione del pragmatismo e, più estesamente, del pensiero nordamericano. Reconstruction in Philosophy, che Dewey pubblica per la prima volta nel 1920 e in seconda edizione cospicuamente aumentata nel 1948, presenta in forma sintetica la sua concezione del rapporto fra elaborazione filosofica e vita sociale. Animato da una motivazione pedagogica nel senso più elevato del termine, Dewey concepisce la filosofia come azione globale, come impegno diretto dell’uomo nella società in tutte le sue articolazioni, dalla scienza all’arte, dalla politica alla religione. Egli colloca quindi le grandi questioni del pensiero filosofico su un terreno ope-

È

rativo, con una duplice manovra: applicare idee e criteri filosofici alle forme concrete della vita e, nel contempo, trasformarli in base alle nuove acquisizioni storiche dell’umanità. La filosofia va dunque ri-costruita a partire dalla nuova situazione scientifica e sociale: essa deve «scoprire come i nuovi movimenti nella scienza e nella condizione politica e produttiva umana dovuti a essa, possono essere portati a compimento». Ma questo completamento, che rappresenta dunque la realizzazione dei compiti delle scienze e delle loro conseguenze socio-politiche, non può essere condotto solo seguendo le leggi interne dei vari ambiti scientifico-sociali, ma dev’essere effettuato «in termini di fini e di criteri così squisitamente umani da costruire un nuovo ordine morale». Il pragmatista Dewey pone qui come obiettivo dello sviluppo umano un

rinnovato assetto morale o, quanto meno, un «rinnovamento morale» che usi l’attuale sovrabbondanza di mezzi scientifici «a scopi autenticamente umani». Obiettivo chiaro ma non così semplice da conseguire, perché «non siamo già in possesso della morale capace di determinare i fini per i quali andrebbe usata quell’accresciuta riserva di mezzi». Per conseguirla, è necessario inserire il discorso della filosofia nella prassi sociale, e in questo senso è significativa la difesa della concezione politico-sociale anglosassone, criticata per gli eccessi formalistici ma elogiata per la valorizzazione dell’individualità: «se in Gran Bretagna la filosofia sociale liberale tendeva a fare della libertà e dell’esercizio dei diritti fini in sé, il rimedio non si trova nel ricorso a una filosofia di obblighi prestabiliti e leggi autoritarie com’è caratteristico del

pensiero politico tedesco», ma «nella liberazione e nell’uso della diversità delle doti individuali», che costituisce «la migliore garanzia di efficienza e di potere collettivi». La «personalità» dev’essere educata nel suo insieme e l’educazione completa si raggiunge «quando ogni persona ha, in proporzione alle sue capacità, una piena responsabilità nel formare gli scopi e le politiche dei gruppi sociali a cui appartiene». Far sprigionare le capacità dei singoli individui all’interno di un sistema che garantisca le libertà di tutti non è, per Dewey, uno scopo marginale della teoria liberalistica della società o un effetto collaterale dello sviluppo del sistema educativo, ma «il vero significato della democrazia». John Dewey, Rifare la filosofia, Donzelli, 165 pagine, 14,50 euro


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religione

Con Ravasi, nel corpo vivo della Bibbia di Maurizio Schoepflin ettantatre tappe, tante quanti sono i libri che compongono la Sacra Scrittura, dalla Genesi all’Apocalisse, per un viaggio straordinariamente affascinante. In qualità di guida, uno dei maggiori biblisti del nostro tempo, Monsignor Gianfranco Ravasi, da poco più di un anno arcivescovo presidente del Pontificio consiglio della cultura e da tutti conosciuto e apprezzato per la competenza e l’abilità con le quali sa avvicinare il Testo Sacro al lettore. Il ponderoso volume, alla cui redazione hanno concorso numerosi specialisti di chiara fama, si rivolge anche ai non addetti ai lavori, senza per questo

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miti

eludere le numerose e complesse questioni che l’esame della Bibbia solleva: teologia ed esegesi, letteratura e geografia, storia e archeologia vengono sapientemente intrecciate, al fine di offrire un quadro ampio e limpido delle coordinate spazio-temporali proprie della Rivelazione ebraico-cristiana. Ogni pagina della Scrittura viene accostata evidenziando i temi teologici di rilievo, spiegando i passaggi difficili, chiarendo i termini più significativi alla luce dei testi originari. Il tutto è accompagnato da mappe, fotografie e ricostruzioni che favoriscono la comprensione tanto dei testi quanto dei

contesti. La scelta che ha guidato gli autori è stata quella di operare non sopra o all’esterno delle pagine sacre, ma all’interno di esse, quasi nel corpo vivo delle parole concrete in cui la Parola divina si è incarnata e rivelata. Monsignor Ravasi non

nasconde una duplice speranza: innanzitutto quella che «la Bibbia ritorni a essere il grande codice della nostra identità culturale»; e poi - riferendosi esplicitamente alla fede e alla vita dei credenti - che essa divenga «fuoco ardente e miele saporoso, pioggia che feconda e martello che spacca le incrostazioni, spada che colpisce e parola che consola, seme che germoglia e lampada che guida i passi nel cammino spesso tenebroso della vita». Gianfranco Ravasi, Nuova guida alla Bibbia, San Paolo, 702 pagine, 58,00 euro

Declinando il Sacro al femminile

di Alfonso Piscitelli n principio era la Dea. Madre dalle grandi forme: terra, luna, grembo, tutto avvolgente. Gli arcaici abitatori dell’Europa ne riprodussero ovunque la fisionomia tondeggiante non appena ebbero la capacità di plasmare la prima materia: la pietra. Poi giunsero i giovani dei celesti dal carattere irruente e adolescenziale, che esprimevano l’energia dell’uomo che comincia a diventare protagonista della propria vicenda terrena. Negli anni Trenta, l’antropologia europea - venata di «ideologia ariana» tendeva a distinguere matriarcato e patriarcato come espressione di due ceppi

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società

umani differenti: agli europei primordiali si attribuiva il culto di divinità celesti, luminosi, maschili; a stirpi equatoriali si demandava il matriarcato. Ma non era così. Dopo la guerra, quando il miraggio del Reich ariano si dissolse, una donna lituana, una delle più grandi esperte di linguistica e mito-archeologia mostrò come alle origini della stessa civiltà europea vi fosse la venerazione per la Donna Divina. L’Europa è donna… lo dice anche il mito greco. E Marija Gimbutas, illustrando nel suo libro il senso di oltre 2000 reperti, mostra come nel Paleolitico l’orientamento dei nostri antenati fosse matriarcale. Significativi i resti di questa infanzia spirituale. In Grecia l’oracolo di Apollo, il giovane dio maschio della Luce, sostituisce un precedente oracolo

della Grande Madre. In Scandinavia, la scienza magica viene considerata un originario possesso delle donne: dalle donne Odino la impara. Il Sacro di tipo femminile segna le nostre origini e il nostro legame con le fonti della vita. Esso si sviluppa appieno nell’età della pietra recente, il neolitico. Marija Gimbutas ha portato avanti la tesi che il culto della Dea ispirasse anche la trascrizione di segni, che erano ideogrammi e che dunque rappresentavano la prima arcaica scrittura europea.Tesi controversa. Ma intanto ai nostri giorni, mentre il breve interregno di ateismo volge al termine, il Sacro di tipo femminile-materno torna a manifestarsi con particolare vigore: Lourdes, Fatima, mito ecologista di Gaia, profezie sulla Santa Terra Russa, cerchi nel grano… Marija Gimbutas, Il Linguaggio della Dea, Venexia editore, 400 pagine, 36,00 euro

Il Mostro mite oltre la politica di Franco Ricordi l titolo - Il mostro mite - è suggestivo, e condividiamo la denuncia dell’autore Raffaele Simone di un nuovo Leviatano. Facendo riferimento soprattutto a Tocqueville, Simone elabora un concetto nuovo di Potere Assoluto che definisce «mostro mite»; le sue caratteristiche sono individuabili nel fatto che viviamo ormai in un’epoca in cui l’Occidente si è assuefatto a una conduzione che si potrebbe definire fun da parte del Potere. Ma soprattutto, Simone arriva a concepire questo mostro mite come qualcosa di essenzialmente spettacolare, che ci assale con

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la potenza del nostro distacco, che ci rende spettatori anche degli eventi più terribili alla stregua delle fiction di oggi, ovvero ai vari reality che ci perseguitano. Tuttavia l’autore non si avvede che il problema non è anzitutto politico bensì filosofico, e risale a Schopenhauer e a Leopardi nell’età moderna, per giungere a al nichilismo spettacolare della nostra epoca. (Si pensi alla geniale Palinodia al Marchese Gino Capponi di Leopardi, che già intravede la potenza dei media). Il mostro mite di cui parla Simone è ben al di sopra della destra e della sinistra: a esso in realtà si sono assuefatte tutte le forze politiche del mondo, an-

che il terrorismo islamico, proprio perché coinvolte nella comunicazione spettacolare che tutto sempre assorbe. E allora l’identificazione di tale mostruosità con quella che l’autore definisce la neo-destra rischia di divenire l’ultima stregua ideologica di una sinistra che si ritiene superiore intellettualmente, ovvero depositaria degli ideali di coloro a cui è dedicato il bel libro di Simone: «a quelli che ci credono ancora». Creda lui a noi: non è necessario essere di sinistra per «crederci ancora». Raffaele Simone, Il mostro mite, Garzanti, 176 pagine, 12,00 euro

altre letture Perché dobbiamo dirci cristiani? si chiede Marcello Pera nel libro che pubblica Mondadori in questi giorni (196 pagine, 18,00 euro). Oggi siamo liberali e perciò possiamo considerare le fedi religiose come credenze private. Siamo moderni e perciò crediamo che l’uomo debba farsi da sé, senza bisogno di guide che non derivino dalla sua propria ragione. Siamo figli della scienza e perciò ci basta il sapere positivo, provato e dimostrato. Malgrado tutto questo però, dice Pera, ci sono ancora ottimi motivi per rivolgersi al cristianesimo per chiedergli le ragioni della speranza. Non si tratta di conversioni o ravvedimenti si tratta di coltivare una fede in valori e principi che caratterizzano la nostra civiltà e di riaffermare i capisaldi di una tradizione della quale siamo figli, con la quale siamo cresciuti e senza la quale saremmo tutti più poveri. È già prossimo il tempo in cui ciascuno potrà ordinare via internet tutte le protesi necessarie al buon funzionamento del suo corpo e tutti i farmaci che possono potenziare il suo apparato sensoriale e le sue funzioni cognitive. Ci saranno cliniche specializzate con medici ingegneri che applicheranno alla nostra massa cerebrale microchip che renderanno possibile suonare Beethoven senza avere studiato musica e che forniranno prodotti farmacologici per stimolare le zone cerebrali, i neuroni e le sinapsi che presiedono alle sensazioni finora imputate alle persone umane. Un panorama inquietante che Pietro Barcellona e Tommaso Garufi analizzano nel Furto dell’anima, la narrazione post-umana (Cortina editore, 213 pagine, 16,00 euro). I nonni di oggi, cresciuti per lo più negli anni del miracolo economico, hanno partecipato alla modernizzazione della società e fruito di un benessere diffuso, ma hanno anche assistito agli sconvolgimenti prodotti dagli anni della contestazione, al rovesciamento dei canoni tradizionali. Ora, in uno scenario caratterizzato dall’eclisse degli ideali politici, dalla precarietà del lavoro, dalla crisi della coppia, nonne e nonni seppure in modo diverso sembrano costruire il vero architrave della famiglia. Un tema che Silvia Vegetti Finzi affronta nel libro Nuovi nonni per nuovi nipoti (Mondadori, 258 pagine, 18,00 euro).


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ritratti

“LA TERRA TREMA”, PAMPHLET SOCIALE SUI PESCATORI SICILIANI COMMISSIONATO DAL PCI, HA SEGNATO, SESSANT’ANNI FA, UNO SNODO CREATIVO NELL’ATTIVITÀ DI VISCONTI. CHE, CON IN MENTE “I MALAVOGLIA”, USÒ IL MITO VERGHIANO PER ENTRARE IN CONTATTO CON LA SICILIA. ACCOSTANDOSI, DA LÌ IN POI, A UNA REALTÀ, ANCHE LETTERARIA, CON I MODI DEL CINEMA E RICREANDOLA POETICAMENTE

La svolta di Luchino di Orio Caldiron a grande svolta nell’attività creativa di Luchino Visconti è rappresentata da La terra trema. Il progetto si avvia in modo avventuroso a partire dai sopralluoghi che Visconti fa in Sicilia nella primavera del 1947 in vista di un documentario sui pescatori siciliani, commissionatogli dal Partito comunista italiano per le elezioni dell’anno successivo. Nel corso della lavorazione, che si protrae dal novembre 1947 al maggio 1948, il documentario, anzi il «pamphlet sociale», «rapido e preciso come una freccia», si modifica ulteriormente assumendo intonazioni sempre più narrative, fino a adottare come punto di riferimento esplicito I Malavoglia. Nonostante lo stesso Visconti nel ’41 avesse auspicato di potere trarre un film dal capolavoro verghiano, cogliendo lo «scenario favoloso e magico» dell’«isola di Ulisse, un’isola di avventure e di fervide passioni, situata immobile e fiera contro i marosi del mare Jonio», La terra trema non vuole essere e non è una riduzione del romanzo. Il rapporto con il testo di avvio, di cui il regista non esita a utilizzare personaggi, luoghi e situazioni, è più complesso e articolato. Nell’incontro con la vita quotidiana dei pescatori che si mescolano alla troupe continuando a essere se stessi e gli attori che appaiono nel film, come nella diret-

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solenni rituali della predisposizione tecnica il momento giusto, la soluzione più appropriata, spesso risolvendo tutto in poche ore, talvolta riprendendo qualche mese dopo, o rinunciando a un carrello già predisposto per girare la scena a macchina fissa. Non era capitato diversamente neppure sul set di Ossessione, il suo primo film realizzato nell’estate del 1942. Un’estate molto calda, addirittura incandescente. Si gira tra Ferrara, le rive del Po e Ancona, da metà giugno all’inizio di novembre. Nei primi giorni Clara Calamai è completamente spaesata, le mancano i vezzi e le trine di Cinecittà. «Via la permanente!», urla Luchino Visconti che la vuole struccata e spettinata come una donna qualsiasi. Quando la diva si vede in proiezione, piange come una fontana. Ma viene brutalmente zittita. Neppure Massimo Girotti è a suo agio. Se prima il cinema gli sembrava un gioco, sin dall’inizio si accorge del clima diverso, più esigente e inquieto. La scena in cui deve rompere un bicchiere urtandolo con il gomito viene ripetuta un’infinità di volte perché il bicchiere cade ma non si rompe. Luchino perde la pazienza e lancia sul pavimento tutti i bicchieri. I pezzetti di vetro volano davanti alle facce impietrite degli attori. Nessuno osa intervenire per paura delle

Fin da ragazzo dirigeva fratelli e amici in commedie e tragedie scritte da lui stesso. Poi, superata la passione per i cavalli, la “ville lumière” e Coco Chanel. Fino all’incontro fondamentale con Jean Renoir nel ’36 ta conoscenza dei luoghi e dei problemi, la dimensione magica è venuta cedendo alle tensioni di una realtà molto più dura e inclemente. Il cambiamento di rotta non potrebbe essere più radicale. Il romanzo assume agli occhi di Visconti il valore di un singolare documento, di una sorta di prima rappresentazione della realtà a cui accostarsi con i modi del cinema per ricrearla poeticamente.

Il mito verghiano, pur cambiando di segno dalle lontane suggestioni omeriche, è rivissuto dal regista come il mito di riferimento per entrare in contatto, lui lombardo, con il cuore profondo della Sicilia, con le contraddizioni, le speranze, i sogni degli uomini e delle donne che vede ogni giorno nel set vivente di Aci Trezza. L’impressione complessiva che se ne ricava è che Visconti si proponga un’immersione totale nella realtà di Acitrezza e della vita dei pescatori, chiamati a essere i protagonisti delle vicende nei luoghi stessi in cui vivono, nelle case e negli ambienti, senza mai intervenire o modificarli nella sostanza. La ricerca dell’autenticità più assoluta viene perseguita anche attraverso le specifiche modalità della lavorazione, in cui la pazienza artigianale si accompagna all’inflessibile coerenza estetica, per trovare attraverso i

tempestose sfuriate del registadittatore. Luchino è però un dittatore affascinante, dotato di una straordinaria capacità di seduzione, in grado di plasmare gli attori piegandoli alla sua volontà. La brutalità del dominatore è la chiave per strappare la corona alla star autarchica che, trattata male fino all’insulto, si innamora del regista e scopre dentro di sé le intonazioni giuste per dare vita al personaggio vibrante e passionale, implacabile e spudorato di Giovanna. Il coinvolgimento emotivo e intellettuale gli serve per incantare Massimo che a poco a poco si trasforma nel personaggio di Gino, anche lui dominato dal regista che lo vuole sensibile, vulnerabile, sempre in tensione come uno strumento musi-

cale. Luchino si diverte a stuzzicarlo. Quando deve dare uno schiaffo alla Calamai, non gli sembra mai abbastanza violento. Gli fa ripetere la scena più volte fino a quando Massimo protesta: «Non posso darglielo più forte, se no l’ammazzo». L’esercizio di sadismo diventa un’autentica scuola di recitazione perché solo in quel modo l’attore coglie l’esasperazione impotente del personaggio e ne fa intravedere il nervo scoperto.

La vera rivelazione è Luchino Visconti, che al suo primo film è già un regista autorevole e maturo. Gli sbalzi improvvisi d’umore sono i tratti di un carattere difficile, non il segno dell’insicurezza. Il piglio disinvolto del giovane cineasta sorprende anche la troupe che, composta tutta da professionisti, sa distinguere per istinto i veri registi dotati del bastone del comando dagli amletici pivelli che lasciano mano libera all’operatore e agli interpreti. Sin dai primi giorni Luchino sa perfettamente quello che vuole, dove mettere la macchina da presa, come comportarsi con gli attori. Il perfezionismo maniacale che contrassegna la futura attività cinematografica e teatrale del grande milanese fa già ammattire i tecnici. Sul set arriva puntualissimo, prima di tutti, sempre scontento e intransigente, pretende il più assoluto realismo nei particolari anche in quelli più insignificanti. Se nella scena c’è una tavola apparecchiata, gli spaghetti non devono essere scotti e la bottiglia deve essere piena di vero vino. Il regista magro e tenebroso di Ossessione ha trentasei anni e discende dalla famiglia che per alcuni secoli ha retto la signoria di Milano. Quarto di sette tra fratelli e sorelle, è nato il 2 novembre 1906, una data jettatoria che lo scorpione deciso, coerente e aggressivo che è in lui considera la sfida della sua vita. Luchino, che sin da ragazzo legge Shakespeare, nel piccolo teatro di casa organizza spettacoli, dirige i fratelli e gli amici, scrive commedie e tragedie prima di provarsi nella narrativa con racconti e abbozzi di romanzi. Quando compie vent’anni, dopo un’adolescenza irrequieta e un paio di fughe da casa, presto rientrate, Luchino viene mandato a fare il servizio militare alla scuola di cavalleria di Pinerolo. Da qui ritorna due anni dopo con il grado di sergente maggiore e la passione per i cavalli da corsa che allena professionalmente e con la caparbia determinazione di chi vuole sfondare. Si fa costruire una scuderia a San Siro e si trasferisce in un appartamentino in zona per essere più vicino ai cavalli. Ogni mattina all’alba è


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Da sinistra, in alto: Luchino Visconti sul set di “Ossessione”; il regista in una foto giovanile; tre immagini di “La terra trema”; Sanzio, il grande campione della scuderia del giovane Luchino. In basso, a sinistra: il manifesto di “Ossessione”; a destra, il manifesto di “La terra trema” disegnato da Averardo Ciriello

sul posto per seguire l’allenamento. Considerato un vero intenditore, si afferma sul piano internazionale, imponendo i suoi colori di bandiera, il bianco e il verde, nelle gare più importanti. Nello stesso modo in cui è esplosa, la passione si spegne poco a poco.Vende parte dei purosangue della sua scuderia e negli anni successivi si libera di ciò che resta dell’allevamento. Già da qualche anno sono diventati più frequenti i viaggi in Francia dove tra prime teatrali, balletti, opere liriche, corse di cavalli, entra in contatto con la società artistica che gravita attorno a Parigi. Si stabilisce per un certo periodo all’Hôtel Le Vouillemont in Faubourg Saint-Honoré. Nello scenario ricco di suggestioni e di richiami della ville lumière, nel fitto intreccio di rituali mondani e novità culturali, gli interessi di Luchino si ampliano, si approfondiscono le predilezioni teatrali e letterarie, rivissute alla luce di una ribalta più stimolante e più trasgressiva, in continuo cambiamento. Sono moltissimi i protagonisti della cultura internazionale che incontra anche solo per una volta e quelli di cui diventa amico come Jean Cocteau, Serge Lifar, Kurt Weill, Henry Bernstein, Marlene Dietrich. Horst P. Horst lo introduce ai segreti della fotografia, che prima gli era assolutamente sconosciuta. Ma nessuno ha su di lui l’ascendente di Coco Chanel, la regina dell’eleganza, una delle stiliste più inventive e controcorrente dell’intera storia della moda, sua grande amica e confidente.

La vera scoperta del cinema, e delle sue possibilità artistiche, avviene durante i soggiorni parigini, negli anni in cui non si è ancora spenta l’eco di L’âge d’or di Luis Buñuel e di Le sang d’un poète di Jean Cocteau. L’incontro decisivo è quello con Jean Renoir, promosso nel 1936 da Coco, amica di entrambi. Il grande regista, che sta preparando Partie de campagne, arruola Luchino come terzo assistente assieme a Jacques Becker e Henri Cartier-Bresson. I compiti dello stagiaire-accessoiriste del film renoiriano non sono ben definiti, oscillano probabilmente tra il trovarobe e l’aiuto-costumista. Ma d’altronde le équipe del maestro non sono mai molto gerarchizzate, per lui un film «si fa come si prepara un colpo, circondandosi dei complici giusti». L’esperienza segna la svolta fondamentale nella biografia artistica del giovane milanese che, attraverso le lunghe conversazioni con Jean Renoir, comincia a guardare al cinema come a uno straordinario mezzo di espressione capace di dialogare, più e meglio dei mezzi tradizionali,

con una grande, sterminata platea di spettatori. Il fatto di essergli vicino, di seguirlo, di vederlo lavorare è essenziale. Affascinato dalla estroversa personalità del grande regista, che esercita su di lui un’enorme influenza, Luchino impara a dirigere gli attori, si impadronisce dei segreti del cinema, dal modo in cui mettere la macchina da presa alla sintonia con la troupe, fondamentale in un’arte che nasce dalla collaborazione collettiva. «S’impara sempre da qualcuno, non si inventa mai niente», dirà più tardi. Nello stesso periodo, attraverso Renoir, entra in contatto con gli intellettuali francesi impegnati nell’esperienza irripetibile del Fronte Popolare. La svolta professionale fa tutt’uno con l’apertura verso la realtà sociale e politica, che gli era stata fino ad allora estranea. Nel gennaio 1939 la morte della madre, alla quale lo lega un affetto profondo, segna per Luchino la fine di un’epoca: deciso a lasciare Milano, si trasferisce quasi subito a Roma, dove risiederà per il resto della vita. Nello stesso anno si rinsalda il rapporto con Jean Renoir. Il regista è in Italia con l’assistente Carl Koch per i sopralluoghi di Tosca, il film che ha accettato di dirigere per la Scalera dopo il clamoroso insuccesso di La règle du jeu. Avvolto in un lungo cappottone, Luchino

castello. Quando il 10 giugno anche l’Italia entra in guerra, Renoir è costretto ad andarsene lasciando il film nelle mani di Koch, assistito da Visconti. Nel frattempo era avvenuto l’incontro con i giovani della rivista Cinema, con Giuseppe De Santis, ma anche con Mario Alicata, Gianni Puccini e i fratelli Massimo e Dario, con Pietro Ingrao. Nel corso della lavorazione di Tosca i rapporti riprendono e si infittiscono fino a diventare decisivi sia per Visconti sia per il gruppo che anima la rivista. Non solo perché coagula attorno a sé le inquietudini e le aspirazioni dei giovani critici decisi a passare al cinema attivo, scrivendo sceneggiature e cominciando a pensare alla regia, ma perché rappresenta una profonda sterzata, una sorta di terremoto interno nella vita di una pubblicazione che ha attraversato stagioni diverse.

Si apre una fase nuova che nel giro di qualche mese fa del quindicinale di divulgazione cinematografica, diretto da Vittorio Mussolini, una rivista battagliera e polemica che interviene e prende posizione. Una tribuna appassionata e coinvolgente anche per i giovani e i giovanissimi in grado di decifrare i segnali in codice degli articoli in cui più profonda se non più esplicita è l’opposizione al regime.

Sul set di “Ossessione” strappava ai protagonisti la corona da star. Li brutalizzava. Ma era un dittatore affascinante, in grado di plasmare gli attori piegandoli alla sua volontà. Con risultati spesso prodigiosi guarda in macchina in una delle fotografie che documentano la passeggiata con Renoir e Koch aVilla Adriana, quando pensano di ambientare il film tra le rovine romane. L’impegno si delinea importante perché Luchino dovrà collaborare alla sceneggiatura e come aiuto-regista. Ma allo scoppio della seconda guerra mondiale, Renoir deve ritornare in Francia. All’inizio del 1940 è di nuovo in Italia. La preparazione del film va a rilento. Soltanto a maggio si cominciano a girare alcuni esterni a Castel Sant’Angelo, dove il gusto dell’improvvisazione del grande regista inventa un brano straordinario in cui la macchina, mediante la gru, sale fino al volto dell’angelo berniniano per scendere a inquadrare la mole del

Luchino Visconti cerca con gli amici di Cinema di portare sullo schermo L’amante di Gramigna e altri racconti di Giovanni Verga, considerato lo scrittore-simbolo del rinnovamento del cinema italiano, ma tutti i soggetti vengono bloccati dalla fiera opposizione del Minculpop: «Basta con questi briganti!». Si concretizza invece il progetto della riduzione cinematografica di Il postino suona sempre due volte di James M. Cain, passategli da Renoir mentre da noi il romanzo ancora non circola. Il film è destinato a diventare il manifesto del «cinema antropomorfico», in cui l’intero gruppo si riconosce, quando per molti di loro diventa più intenso l’impegno politico clandestino nella Resistenza. L’arrivo di Ossessione nelle sale fa scandalo. Alle reazioni negative della critica ufficiale e agli interventi preoccupati dei vescovi corrispondono le adesioni entusiastiche dei giovani critici e degli spettatori più attenti, che riconoscono qualcosa delle proprie ansie nella passione violenta e straziata di Giovanna e di Gino, nelle loro peregrinazioni d’amore e di morte sullo sfondo plumbeo del Po. Alla fine della prima romana del film, mentre molti si avvicinano al regista per stringergli la mano ed esprimergli la propria ammirata solidarietà,Vittorio Mussolini esce dalla sala sbattendo la porta e urlando: «Questa non è Italia!».


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tv

Passepartout G Bravo Daverio picconatore di luoghi comuni

web

di Pier Mario Fasanotti

ià, c’è anche la domenica mattina. Molta gente accende la tv, magari quando è a tavola o poco prima. È il caso di Passepartout (Rai 3, ore 13,25), ideato e condotto da Philippe Daverio, già assessore alla cultura di Milano e certamente da rimpiangere dopo la narcisistica confusione fatta da Vittorio Sgarbi prima di inventarsi sindaco di una cittadella siciliana. A questo proposito non capisco perché il sindaco Letizia Moratti, dopo aver annunciato una nomina «a respiro internazionale», abbia scelto Massimiliano Finazzer Flory (d’internazionale ha l’ultima parte del doppio cognome) e non Daverio che di internazionale ha, oltre il nome di battesimo, anche la cultura, la padronanza delle lingue e la propensione al confronto tra i vari rami del sapere. La trasmissione è gradevole perché è accattivante il modo di Daverio di esporre i vari temi, con quella sua «erre» alsaziana e con il gusto di accostare ciò che normalmente viene rigorosamente separato, per esempio economia, architettura, cinema, arte. Il difetto maggiore di Passepartout è la frequente scivolata nel cicaleccio colto, il dar per scontata la digestione di interi volumi su questo o quel’argomento: ciò mette un po’ a disagio, anche se offre spunti di riflessione ai più e, magari ci spinge a informarci meglio. In una delle ultime puntate, Daverio si è inoltrato nel terreno minato e controverso dell’architettura. Partendo da lontano, almeno in apparenza, ossia raccontando le varie «bolle speculative» della storia, a cominciare dalla crisi del ‘29 in America. E insistendo sempre sul fatto che gli errori sono quasi sempre frutto dell’ignoranza. Se, ha

games

STRAFALCIONI SU PELLICOLA

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detto, gli americani avessero letto l’economista Keynes, avrebbero potuto riflettere su ciò che questi sosteneva, ossia che a periodi di ottimo umore succedono periodi di pessimo umore. I cosiddetti cicli. Ignorando i quali il presidente Hoover e i soloni di quei tempi credettero inarrestabile l’evoluzione industriale. Un effetto-domino, visto che la drammatica crisi agli sportelli bancari di Berlino nel 1931 generò le condizioni per l’ascesa di Hitler. Ci si chiede, a questo punto: che c’entra l’architettura? Risposta: essa anticipa sempre l’evoluzione del mondo, è una specie di oracolo. Se noi europei crediamo nell’architettura (eterna), gli americani vedono piuttosto la costruzione, un bene strumentale non necessariamente destinato a durare oltre i cinquant’anni. Di qui, e Daverio sfiora il concetto da buon trapezista enciclopedico, la crisi dei mutui o comunque la connessione stretta tra economia e mattone. C’è in Passepartout uno scoppiettio di idee che può lasciare frastornati. Ma è apprezzabile, soprattutto se confrontato con il vuoto televisivo contrabbandato per pieno sociologico. Daverio, sull’onda del tema, ha riproposto le immagini dell’ultima Biennale di architettura di Venezia, organizzata dall’americano Aaron Betsky, sostenitore di questo concetto: «L’architettura che offre soluzioni è architettura morta». Risultato: la sua Biennale è stata una sorta di ludoteca per adulti. Commento divertito di Daverio: «Che cosa devono fare sti giovani per campare!». Commento di Le Monde: a Venezia hanno mostrato il proprio ombelico senza far mostra del talento. E il Financial Times: «Futurismo contorsionista». Sono delle belle botte a mister Betsky, creatore di una Las Vegas che, come tutti sanno, è una Venezia finta. Regno del digitale, del cyberspazio invece dello spazio essenziale. Ecco, con un certo brio (a volte criptico alla maggior parte) si smontano mode da esposizioni, più divertissement culturale che cultura vera. Ex assessore, continui a dar picconate ai luoghi comuni.

dvd

LARA NON RISCHIA PIÙ

I TRE BATMAN

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eanche un maniaco dell’accuratezza come Stanley Kubrick riusciva a evitarli: in ogni suo film si infilavano in qualche sua per il resto impeccabile inquadratura, per la gioia dei cinefili pronti a fargli le pulci. Stiamo parlando dei Bloopers, ovvero gli errori presenti nei film, sfuggiti anche all’ultima fase di montaggio. Esistono decine di siti in lingua inglese a loro esclusivamente dedicati, ma an-

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e fosse un film, diremmo che si tratta di un remake. In effetti Tomb Raider: Underworld, ultimo capitolo della saga dedicata alla procace archeologa, non sembra altro che la riedizione, con grafica aggiornata, dei vecchi videogames che avevano spopolato alla fine degli anni Novanta. Anche in questo caso ci troviamo di fronte a una serie di missioni da svolgere, racchiuse in una tra-

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Divertirsi sul sito italiano dedicato ai “bloopers”, gli errori nei film: “Il gladiatore” ne contiene 199

Nell’ultimo capitolo della saga di “Tomb Raider” la procace archeologa perde il suo smalto

Una versione cofanetto dell’ultima avventura sul grande schermo dell’eroe di Gotham City

che quello italiano, www.bloopers.it, è degno di tutto rispetto. L’aspetto della pagina di apertura non è dei più accattivanti ma, come specificato nella scheda di presentazione, scopo del sito è «soddisfare la curiosità cinefila», quindi le schede dedicate ai film contengono solo l’elenco degli errori, senza clip video o brani audio. In ogni caso è divertente curiosare tra i titoli più famosi, e scoprire ad esempio che nel Gladiatore di Ridley Scott ci sono ben 199 errori. Uno ogni cinquanta secondi. Come le inquadrature di soldati a cavallo con le staffe (inventate secoli dopo), e l’iscrizione marmorea dove l’anfiteatro Flavio è indicato come Colosseum, termine in uso a partire dal Medioevo.

ma parecchio essenziale. Chi si era divertito con i vecchi titoli non si potrà lamentare, ma la dinamica dei combattimenti e delle azioni da svolgere è parecchio datata, e potrebbe annoiare i giocatori più esperti. Gli enigmi da risolvere sono ben congegnati e richiedono parecchio allenamento per essere risolti, ma non si può fare a meno di constatare che non c’è nulla di davvero innovativo in questo videogioco. A meno che non si voglia considerare degna di rilievo la possibilità di vestire a piacimento la nostra eroina all’inizio di ogni missione. Peccato, perché la saga di Tomb Raider aveva letteralmente rivoluzionato la maniera di giocare davanti allo schermo.

le quinte, foto e spot tv. In mezzo a tanta abbondanza, quasi ci si dimentica del contenuto, una delle migliori trasposizioni cinematografiche del fumetto ideato da Bob Kane. Storia nerissima, densa e coinvolgente ambientata in una Gotham City splendidamente decadente, starebbe in piedi da sola grazie al cast fenomenale: tra Christian Bale, Morgan Freeman, Michael Caine, Gary Oldman e Mary Gyllenhaal non si saprebbe chi scegliere, se non ci fosse lui, Heat Ledger. Che nella sua ultima interpretazione inventa un Joker dal trucco sfatto, tartagliante e genialmente disturbato. Così intenso che si fa fatica a convincersi di vederlo recitare.

l Natale si avvicina e le nuove uscite in dvd si adeguano: con Batman, il Cavaliere oscuro, in uscita il 10 dicembre, il pipistrello mascherato si fa in tre. Oltre alle solite edizioni in disco singolo e disco doppio, arriverà nei negozi anche una versione cofanetto, contenente un indispensabile modellino della moto dell’eroe in nero. All’interno, i dvd offrono trailer, scene tagliate, dietro


cinema

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Natale con i

Vuillard (e l’epopea di Jamal) di Anselma Dell’Olio ulla famiglia si può dire tutto il bene o tutto il male e avere sempre ragione, ma la sua assenza è un disastro inconfutabile. I due più bei film usciti ieri in Italia ne sono la prova. Il milionario, di cui si parlerà più avanti, racconta le terribili vicende di due fratelli rimasti orfani, mentre Racconto di Natale di Arnaud Desplechin è una festosa, complicata celebrazione dei cangianti umori e riottosi rapporti vissuti all’interno dell’allargata famiglia Vuillard, benestante casato borghese di Roubaix. La città, nel nord della Francia vicino al confine belga, è nota per l’antica industria tessile; infatti è gemellata con Prato. La prima volta che si sente parlare dell’azienda di famiglia come «tintoria», si pensa al lavaggio a secco. Solo quando Elizabeth, la maggiore dei tre figli Vuillard superstiti, commediografa congenitamente infelice, chiede al padre colto perché non si è mai trovato un lavoro più consono con i suoi interessi, e lui risponde «Ma perché? È bellissimo tingere i tessuti!», capiamo di cosa si tratta e i conti tornano.

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Il regista Desplechin (I re e la regina, 2006) è nativo di Roubaix, figlio di una famiglia che ha molto in comune con i Vuillard, tra cui due fratelli artisti. Con mano sicura, l’autore racconta il riunirsi di tutta la tribù nella casa della loro infanzia per le feste natalizie. Un prologo racconta la tragedia del primogenito Joséph, ammalato da bambino di un tumore raro che per guarire richiede il trapianto di midollo osseo di un congiunto compatibile. Nessuno della famiglia lo è, né la mamma Junon (Cathérine Deneuve), né Elizabeth (Anne Consigny), né il papà Abel (Jean-Paul Roussillon). Così concepiscono il terzo figlio Henri ad hoc, ma nemmeno lui è adatto e Joséph muore, segnando profondamente la vita di tutti, specie del padre; anche molti anni dopo continua a far visita alla tomba del figlio più grande, che morendo a sei anni, rimarrà per sempre il più piccolo. L’arrivo del quarto fratello Ivan, il più adorato dalla mamma, sembra aver compensato Junon della perdita, però lei non perdona alla nuora Sylvie (Chiara Mastroianni) di averle «portato via il mio ragazzo». Impariamo subito che cinque anni prima Hénri (Mathieu Amalric), pecora nera della famiglia, testamatta, alcolista, ex drogato e impresario teatrale, finito sotto processo per bancarotta fraudolenta, è stato riscattato dalla sorella Elizabeth, che gli paga i debiti, evitandogli la galera, a patto di non dover mai più

sopportare la sua presenza alle riunioni di famiglia. Ora, però, Junon si è ammalata dello stesso tumore di Joséph, e anche lei ha bisogno del trapianto di midollo osseo. La famiglia al gran completo è convocata nella casa avita per festeggiare il Natale e trovare chi dei famigliari è idoneo, ragione sufficiente per togliere le sanzioni a Hénri. Se si aggiunge alla miscela esplosiva che Hénri non riesce a chiamare «mamma» la gelida Junon, che lo ha sempre respinto e ha addirittura una specie d’avversione nei confronti del figlio concepito inutilmente per salvare il fratello maggiore, la scena è pronta per un’abbuffata di tremendi casini famigliari. Attenzione ai

Junon.Tutti gli attori sono superbi, e se Chiara Mastroianni lo è meno degli altri, non importa: ci si incanta a rimirare la sua stravolgente somiglianza con il padre. È una parte che le attrici sognano di avere, quella di Sylvie: una tranquilla madre di famiglia, odiata dalla bellissima suocera, che scopre di essere da sempre l’irraggiungibile sogno della vita del cugino pittore Simon (Laurent Capelluto), compagno dei giochi d’infanzia. Il film ricorda per molti versi l’indimenticabile Fanny e Alexander (1982), ultimo film di Ingmar Bergman: la grande casa d’artisti, allegra e confortevole, la cena della vigilia sotto il magnifico albero addob-

Evoca le dolcezze di certi momenti familiari, così come restano nel ricordo quando le asprezze si stemperano nel tempo, il film di Arnaud Desplechin. Mentre l’ultima fatica del camaleontico Danny Boyle è bella ma di poco spessore nomi dei personaggi: Mathieu Amalric è attore-feticcio di Desplechin; ha recitato l’alter ego del regista con il nome Paul Dedalus in Comment je me suis disputé…(ma vie sexuelle), 1996. Ma in questo film Paul è il nome del turbato figlio adolescente di Elizabeth con problemi psichici, forse più vicino all’autore del mariuolesco Hénri. Intuiamo che la pecora nera ha qualche possibilità di riscatto solo grazie alla sua amante, la salda e anticonformista ebrea Faunia (Emmanuelle Devos). Quando Abel le dice che Hénri sarà la sua rovina, Faunia risponde: «Io non la penso così». Qualcuno ha obiettato che Roussillon, attore della Comédie Française, è troppo ranocchio raggrinzito per essere credibile come marito della Deneuve. Effettivamente è buffo nei suoi pantaloni ascellari alla Asterix, ma il suo calore umano fa da perfetto contraltare all’ironico e poco materno distacco di

bato all’antica, l’atmosfera festosa: la magia della vita prima della cacciata dal paradiso. Nei nostri ricordi, come in quelli legati al film dell’austero svedese o dell’accattivante Desplechin, restano le dolcezze di quei momenti in famiglia, mentre le asprezze volano via col tempo gentiluomo.

Il milionario (in originale Slumdog Millionaire) è l’ultima fatica del camaleontico Danny Boyle, che non ha mai fatto un film uguale all’altro. Da Trainspotting (1996), in cui riusciva a far ridere con i tossicodipendenti e inorridire con il cadavere di un infante morto per colpa loro, a Millions (2004) che deliziava il pubblico con il fantastico mondo di un ragazzino che parla con i santi, a 28 giorni dopo (2002), horror post-apocalittico popolato di zombie (per citare solo i più riusciti), tutti i film hanno in comune solo il ritmo serrato e la totale attendibilità

del fittizio universo creato. La vicenda di questo film, tratto dal best-seller di Vikas Swarup, un diplomatico indiano, vira al tragico quando il protagonista e suo fratello rimangono soli dopo l’assassinio della madre da parte di estremisti indù. Ambientato a Mumbai (città tristemente viva nei nostri occhi per via dei sanguinosi attentati terroristici di fine novembre), l’improvvisa mancanza di un luogo chiamato «famiglia» scaraventa i due ragazzi in balia della sorte e in una serie di tremende avventure che richiama inevitabilmente l’aggettivo dickensiana. Salim (Madhur Mittal) è il fratello più grande, nato brigantello, pronto a trarre vantaggio da qualsiasi situazione e protettore (fino a un certo punto) di Jamal, il piccolo, caparbio sognatore e protagonista del film. Il racconto si muove tra le tre diverse situazioni della vita di Jamal: lo studio televisivo dove è un concorrente in ascesa della versione indiana di Chi vuol essere milionario?, il commissariato dove viene torturato perché sospettato di barare, in quanto un miserabile avanzo dei bassifondi come lui non potrebbe conoscere le risposte alle domande, e il suo accidentato passato. Ogni volta che il commissario (l’eccellente Irrfan Khan) lo interroga su un’altra delle risposte vincenti, il ragazzo rievoca il momento della sua vita che lo ha portato a conoscere, per pura forza del destino, la soluzione giusta. In questo modo finiamo per conoscere le tremende tappe della sua vita, dalla morte della madre alla discesa negli inferi di un mostruoso sfruttatore di scugnizzi, dalla fuga sui treni e le piccole truffe ai danni di turisti in visita al Taj Mahal, all’amore ostinato per la sfortunata Latika, sparita nel nulla e fan del quiz televisivo: la ragione che ha indotto il povero chai wallah (ragazzo che prepara il tè) a diventare concorrente per ritrovarla. Il film ha l’ambizione di sposare Hollywood con Bollywood e si resta folgorati dalla perfetta, spumeggiante ricostruzione di un mondo lontanissimo da quello del regista. Nella seconda ora del film si comincia a intuire che, a differenza di Dickens, ma perfino di Dumas (altro autore al quale il film fa cenno) il divertimento qui è fine a se stesso. Alla magnificenza della messa in scena non s’accompagna lo spessore, quella qualità che fa riverberare un’opera dentro di noi quando è finita, poiché abbiamo appreso notizie che restano tali e si mantengono salde nel tempo.


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poesia

La solitudine delle parole Q

uando Antonia Pozzi giusto settant’anni fa, il 3 dicembre 1938, pose fine alla propria esistenza con un gesto suicida, lascia inedite tutte le prove poetiche e un saggio su Gustave Flaubert. Nulla, o ben poco, lasciava presagire quell’estremo gesto di una giovane donna nata in una famiglia molto agiata di Milano nel 1912: il padre è un avvocato di grande fama, la madre contessa pronipote di quel Tommaso Grossi che aveva partecipato alla grande stagione del romanticismo nella città meneghina, amico di Carlo Porta e Alessandro Manzoni. È una ragazza timida, che arrossisce per un nonnulla, ma è anche una natura indomita e libera che la porta ad andare contro ogni convenzione e ad amare lunghe e solitarie passeggiate in montagna, tra quelle rocce della Grigna che oggi per sua volontà ne accolgono le spoglie. Sono gli anni del liceo quelli che la segnarono, forse per sempre, quando si innamora dell’insegnante di greco e latino, Antonio Maria Cervi, al quale dedica buona parte del suo canzoniere. Un amore non si sa se platonico o meno, certo un’esperienza drammatica per lei costretta dal padre a interrompere quella scandalosa relazione. Quel che però è abbastanza sicuro che proprio da questo incontro nasce la sua predilezione per la parola poetica, forse anche sotto l’influenza del fratello del suo amante, quell’Annunzio Cervi, vittima della Prima guerra, nel 1918, a Bassano del Grappa, un altro dei poeti morti giovani, come Gozzano e Corazzini, autore di un volumetto di versi già molto apprezzato da Ungaretti.

di Francesco Napoli

Dal liceo passa alla Statale di Milano e lì frequenta le lezioni di Estetica di Antonio Banfi con il quale si laurea su Flaubert. Con lei, tra gli allievi, Enzo Paci e Vittorio Sereni, Remo Cantoni e Dino Formaggio, questi ultimi oggetto anche di un interesse sentimentale non ricambiato. Oltre a Rilke e Pound, legge Valéry ed Eliot e i maestri della poesia italiana di allora, e siamo all’altezza degli anni Trenta: Ungaretti, quello formidabile dell’Allegria, e Montale che seppe cogliere in lei l’«anima musicale e facile a perdersi nell’onda sonora delle sensazioni». Ma la capitale lombarda vede in quel periodo tutto un formicolare di poeti tra i quali Quasimodo, Gatto e Sinisgalli. Le sue prime prove mostrano una forse ingenua compresenza di endecasillabi e versicoli, ma la tenuta espressiva e le urgenze linguistiche si condensano in un orizzonte simbolico fortemente coerente con elementi ricorrenti come la notte, l’acqua dolce, delle fontane come del lago. Frequente un lessico fatto di «varchi» e «confini» dai quali casomai esorbitare, un verbo a lei caro, anche attraverso «voli» e «campanili», «vette» e «allodole» che si incontrano più volte nel suo vasto canzoniere. Certo, la riflessione filosofica in lei così pregna di Nietzsche, come in Carlo Michelstaedter altro letterato morto suicida, anche su

PUDORE

«la giusta morte» non lasciava certo presagire quel suo gesto estremo. Il suicidio di Antonia risultò per tutti inatteso e incomprensibile, ed è proprio l’amico Vittorio Sereni in 3 dicembre, apparsa nel 1940 e poi confluita in Frontiera, a essersi fatto interprete di un ricordo carico di sensi di colpa, luttuoso e interminabile: «Pace forse è davvero la tua/ e gli occhi che noi richiudemmo/ per sempre ora riaperti/ stupiscono/ che ancora per noi/ tu muoia un poco ogni anno/ in questo giorno».

Se qualcuna delle mie povere parole ti piace e tu me lo dici sia pur solo con gli occhi io mi spalanco in un riso beato ma tremo come una mamma piccola giovane che perfino arrossisce se una passante le dice che il suo bambino è bello.

Antonia Pozzi da Parole

Nel suo diario Antonia Pozzi scriveva: «Vivo la poesia come le vene vivono il sangue» e la costruisce fondandola per lo più su «povere parole» alle quali con costanza sembra dunque ispirarsi questa voce solo apparentemente esile del nostro Novecento che ha di certo superato «lo scoglio della poesia femminile, l’incaglio che fa dubitare tanti della possibilità stessa di una poesia di donna» (Montale). Ma del suo fare si rintraccia a fatica nelle antologie note ai più la presenza e solo anni di intenso lavoro e studio di Alessandra Cenni e Onorina Dino ci hanno restituito la sua autentica pienezza in un volume completo dell’opera in versi, Parole, con l’intero corpus restaurato dopo che la mano paterna all’indomani della prematura morte aveva sì dato alla luce una porzione del lavoro poetico dell’amata ma epurandolo con interventi stravolgenti, non accettandone la poesia scritta talvolta in fugaci foglietti passati nelle tasche delle amiche e compagne di liceo come Lucia Bozzi o Elvira Gandini. Le parole sono per Antonia Pozzi semplici nomi di cose e forse proprio per questo i suoi testi portano per lo più titoli formati da un solo termine. La sua poesia tende alla purificazione essenziale della parola, ma in questa purificazione trascina con sé l’angoscia di un conflitto sempre più profondo tra arte e vita, che diventerà alla fine insostenibile. I temi del suo poetare ruotano intorno all’inafferrabilità di un punto entro il quale ancorarsi con la totalità di se stessa, non divisa, non lacerata, fosse questa la compiuta oggettivazione artistica o la maternità, altra aspirazione possente e negata di tutto il suo essere. Tra febbraio e marzo 1931, a distanza di pochi giorni l’una dall’altra, esprime questa opposizione in una serie di poesie. In La porta che si chiude (10 febbraio) sono «le parole prigioniere/ che battono battono/ furiosamente/ alla porta dell’anima» a non poter nascere, fino a prefigurare, nel suo ultimo giorno di vita, un assalto di tutta «l’onda mostruosa e l’urto tremendo», «l’urlo mortale/ delle parole non nate», di fronte a una porta che rimane chiusa, ma a cui la morte arrecherà finalmente «la frescura, il silenzio» e, da ultimo, «la pace». E sembrano tagliate su di lei due versi di Gottfried Benn, rivolti a un poeta, che oggi echeggiano alte e sonore nel deserto di quel suo gesto: «Tu sei solo con le parole/ e questa è veramente solitudine».


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il club di calliope

Adesso le cose non ti dicono più si può anche tornare a sentire il canto vorace del fiume quando piega la schiena la sera. A impazzire basta il dolore e le foglie non hanno perdono, solo sono grate alla mano che decisa recise lo stelo riaprendo l’ansia del volo.

UN POPOLO DI POETI Stretta nelle sue calli conserva il profumo di un nostalgico antico. Una stoffa fluttua, scompare dietro l’avida pietra e un violino lamenta la sua solitudine. Chi l’ama sa che non vive più e che il suo tempo si è consumato nello splendore dei lumi ma ancora, ad ogni angolo emana poesia. Venezia Sara Navacchia

Chiara De Luca

QUANDO A DOMINARE È IL DEMONE DELL’AFASIA in libreria

di Loretto Rafanelli aramente, come in questo caso, la copertina racchiude compiutamente il senso di un libro: lo straordinario olio su tela di Enzo Cucchi, Roma…sogna, raffigurante, come io lo interpreto, volti-teschi vaganti e un corpo rappreso nel nulla di una incerta presa a un albero sospeso, è la sintesi perfetta della poesia di Mario Benedetti. Peraltro la pittura ci appare quasi una citazione del

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gio di un certo neoavanguardismo linguistico, o pensare a certo «autismo» degli anni Sessanta-Settanta. Qui c’è una costruzione poetica profonda, una dolorosa sofferenza. Certo, si deve partire da un connotato essenziale: l’afasia. Tutto è caratterizzato da un tale «demone». Benedetti non può sviluppare i suoi versi in modo disteso, non può costruire un linguaggio lirico, non può riproporci la poesia come

In “Pitture nere su carta” la nuova tessitura poetica di Mario Benedetti attraversata da una pena, dal senso del nulla. Senza indizi di speranza… grande Goya, richiamato giustamente nella seconda di copertina, per dirci delle poesie di questo libro (Pitture nere su carta, Mondadori, 120 pagine, 14,00 euro). L’autore nel 2004 pubblicò Umana gloria, sempre da Mondadori, che ricordiamo come un libro dal dettato disteso, dal respiro intenso e «ampio». Oggi, con il nuovo libro, Benedetti si pone in una prospettiva diversa dal precedente. È limitativo partire da un confronto, ma diciamo subito che non pensiamo che si sia di fronte a una involuzione, vediamo piuttosto un convincente passaggio verso una importante e originale dimensione creaturale, oltre che una trama linguistica essenziale e raffinata. Sarebbe pure errato confondere la tessitura espressa come un ripescag-

tradizionalmente conosciamo. Non può semplicemente perché la dimensione della vita, ai suoi occhi, non lo permette. Si può solo balbettare. E catalogare una serie infinita di parole: le cose della casa, del vivere quotidiano, ecc. Catalogarle almeno, perché non sono utilizzabili, solo menzionabili. Non utilizzabili perché queste cose non si possono vivere, quindi si nominano come per un addio. Perché scrivi, scrivi, ma poi la morte è accanto. Una poesia quasi senza indizi di speranza, disincarnata, perché la vita altro può consegnarci che una incapacità a esprimerci. Un dire che non è finito, ma raggelato, sfinito. Una poesia attraversata da una pena, dal senso del nulla. Così, la scrittura diventa scarna, prosciugata, come la vita.

Meditando ripercorri attimi, istanti della tua vita, e osservi il bimbo deposto sulla paglia, la stella rilucente, quasi fiamma, arabesco nella notte… Animi iter Aura Piccioni

nella stasi del crepuscolo molti nei si annientano ignari da certe fobie somiglianze perpetuano confronti come una Sherazade delineerò orizzonti crespati di riflessi fra queste rugiade enigmi allietano attese Nella stasi del crepuscolo Lino Giarrusso

«Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma


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pagina 14 • 6 dicembre 2008

mostre

er chi non ha avuto la ventura di vedere la spettacolare mostra che un anno fa il Musée de Luxembourg aveva dedicato ai sontuosi gioielli di Lalique ha modo di rifarsi a Roma con una mostra più contenuta e dedicata anche alla maison, che ha preso nome dal suo iniziatore. Mostra che però è legata esclusivamente alla sua altra passione, quella per il cristallo, il vetro lavorato e la pasta di vetro, materiale tutto-Lalique, con le sue opalescenze madreperlacee e la consistenza appunto morbida e pastosa, già utilizzata anche per i gioielli ma poi divenuta egemone. È curioso che un artista, geniale e sperimentale come lui (dai molti amori galanti e dalla molte mogli: e questo c’entra, nel progredire delle sue scelte artistiche) abbia diviso così nettamente l’universo estetico della sua produzione, in due filoni bel precisi. Sino al 1893, la sua attenzione è riservata ai gioielli (anzi, «è il vero inventore del gioiello moderno», come sentenziò un grande artista del vetro quale Emile Gallé, suo ammiratore incondizionato). Il gioiello, che è un’antica passione, sin dal suo noviziato bambino in un atelier provinciale (ma il suo talento rivoluzionario si manifesta subito, con lambiccate e ardite novità). Poi la conversione pressoché assoluta al vetro e ai contenitori d’ogni foggia, dopo la richiesta di progettare una bottiglia per un concorso delle Arts Décoratifs. Nel 1892 ha conosciuto la seconda moglie, Augustine-Alice Ledru, figlia dello scultore Auguste (e anche lui progetterà per esempio le fontane del rond-point dei Champs-Elysée, e curerà pure l’arredamento di celebri negozi in tutto il mondo e di leggendari transatlantici, come il Normandie) e da allora c’è come una conversione assoluta. In vetro, realizzerà anche le mitiche mascotte di alcune tappi di radiatore di auto mitiche, come la Bentley, la Bugatti, l’Hispano-Suiza. Se negli anni precedenti, in linea con un gusto liberty molto sofisticato, ch’è in dialogo con la pittura simbolista d’un Khnopff o di Klin-

P

Quelle paste di vetro très

Lalique di Marco Vallora

arti

ger (le sue dame-monile, meditabonde e saturnine, con le alucce di Mercurio e il viso scavato nel pallido silenzio dell’avorio), disegna gioielli per personaggi celebri, come dive, poetesse, nobildonne, da Sarah Bernhardt al suo collezionista privilegiato di Lisbona, Calouste Gulbelkian, che conserva i suoi pezzi più rari, ora entra in collisione con il mercato pur raffinato delle maison di moda, e sfiora quello che sarà poi il design industriale. Con i celebri flaconi democratici dei profumi di Coty, dalla gran diffusione medio-borghese: una delle vie privilegiate della diffusione del gusto Art Nouveau (come si chiamava la prima boutique di moda di Siegfried Bing, cui lui collaborò e che avrebbe dato il nome, addirittura, al movimento artistico). Dal vetro tagliente e limpido, alla pasta di vetro, corposa e dai colori cangianti: sino alla morte, nel 1945, dopo anni di inattività per via della guerra e della sua fabbrica occupata, Lalique si dedicherà soltanto ai suoi inconfondibili vetri, panciuti e vibratili, spesso abitati da memorie dell’antico e dai nudi corpi scultorei di ninfe e di atletici gladiatori. Poi questi pezzi, spesso unici e come sempre ragguardevoli, non soltanto per il gusto sofisticato ma per le ricerche innovative nei confronti di materiali anche vili (durante la guerra l’artista si avvicinò alle ditte farmaceutiche e alla produzione più utile di strumentazioni mediche), questi pezzi rigorosamente firmati «Rlalique» lasciano spazio a una produzione più commerciale (i diffusi vasi «Lalique») dopo che il figlio Marc, nato con il secolo, riprese l’attività del padre, interrotta dalla guerra. La mostra romana, che si avvale di alcuni importanti esempi della sperimentazione originaria di René Lalique insegue anche lo sviluppo industriale della fiorente ditta francese, che ha avuto imitatori e cloni a non finire, anche nel nostro paese.

René Lalique. La grande Muse, Roma, Oratorio di Sant’Angelo in Pescheria, sino al 10 dicembre

autostorie

Con Salgari tra i ghiacci alla conquista del Polo di Paolo Malagodi ato il 21 agosto 1862 a Verona, dove si avviò al giornalismo, Emilio Salgari pose fine alla propria vita il 25 aprile 1911 a Torino, lasciando più di centocinquanta racconti e un’ottantina di romanzi. Celebrati per il ciclo che ha in Sandokan e nei suoi «tigrotti della Malesia» i protagonisti, come per la serie ambientata nel mar dei Caraibi con l’intrepido Corsaro Nero, mentre poco noti restano altri temi che Salgari, sempre alle prese con le esigenze degli editori, affrontò. In una non lunga esistenza che lo portò ad abitare Torino, dapprima dal 1893 al 1897, poi dal 1900 e sino al drammatico suicidio del 1911. Anni durante i quali lo scrittore conobbe lo sviluppo dell’automobile, nella città dove venne fondata -

N

nel luglio 1899 - la Fiat e che fu culla di altre aziende del settore. Come, nel 1903, della Itala un cui modello vincerà nell’estate del 1907 il raid Pechino-Parigi, su un percorso di quasi sedicimila chilometri che Luigi Barzini descrisse nei dispacci inviati al Corriere della Sera e con pubblicazione, l’anno dopo, in volume dell’avventuroso reportage. Evento che di certo stimolò la fervida fantasia salgariana, nell’imbastire una trama della quale l’auto fosse protagonista, come avvenne in un’ambientazione tra i ghiacci non nuova a intrecci già affrontati dal romanziere. Nel 1895 con Al Polo Australe in velocipede e nel 1898 con Al Polo Nord, sino a comporre con Una sfida al Polo, uscita nel 1909, una trilogia che gli Oscar Classici presentano in cofanetto (Avventure al Polo, Mondadori, 3

volumi di complessive 838 pagine, 16,00 euro). Con l’ultimo titolo che rimanda a vibranti pagine sul nuovo mezzo di locomozione, spesso usato in avvio del Ventesimo secolo al maschile e come emerge sin dalle prime battute: «Su una immensa strada diritta, fiancheggiata da una doppia fila di pini giganteschi, un punto nerastro che ingrandisce a vista d’occhio, spicca vivamente sul leggiero strato di neve, lasciandosi indietro una nuvola di nevischio. Non può essere che un automobile lanciato a velocità fantastica, forse a cento chilometri all’ora, se non di più». Al volante, sulle rive del lago Ontario, c’è la bella Ellen Perkins che contesa da due spasimanti, lo statunitense Torpon e il canadese Montcalm, li indurrà a sfidarsi nel raggiungere il Polo Nord in automobile. Un tema che permette, tra l’altro, a

Salgari di dar prova di giuste cognizioni tecniche e ponendo, ad esempio, sotto il motore «un carter d’acciaio, che lo riparerà completamente dalle punte dei ghiacci e dagli ostacoli imprevisti»; mentre contro le rigide temperature si userà «un miscuglio formato di una metà d’acqua ed una di acquavite di grano, che non potrà gelare nemmeno a 60° sotto lo zero». Accorgimenti che aiuteranno l’auto salgariana a violare il Polo Nord (in realtà raggiunto, nell’aprile 1909, dallo statunitense Peary con slitte trainate da cani) e tanto che, guadagnata la meta, «l’automobile pulsava fragorosamente come se fosse impaziente di tornare verso il sud, orgogliosa, nella sua anima d’acciaio e di fuoco, d’aver aggiunto un’altra vittoria alle tante guadagnate dall’automobilismo su tutte le piste del mondo».


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6 dicembre 2008 • pagina 15

architettura

Ricordo di Utzon e della sua sofferta Opera house di Marzia Marandola alvolta l’opera a cui è legata la fama di un architetto non è quella a cui è legata la sua fortuna. Per Joern Utzon, giovane progettista danese, l’assegnazione nel 1957 dell’incarico dell’Opera house di Sidney ha significato una notorietà internazionale, ma soprattutto un gravissimo scacco professionale e culturale. Vincitore di un concorso di progettazione internazionale, il progetto di Utzon presentava un carattere visionario e straordinariamente innovativo, al di fuori di ogni regola consueta dell’elaborazione progettuale. Questa novità stravolgente del progetto, nell’ideazione e nelle forme costruttive, assolutamente fuori dagli schemi del funzionalismo allora dominante provocò un vero scandalo e un rifiuto senza appello da parte degli abitanti di Sidney. Il progetto originale di Utzon, propone un complesso architettonico basato sulla composizione di due elementi dominanti: un imponente podio di base compatto quasi totalmente opaco, una forma arcaica memore di templi votivi di popoli antichi; al di sopra del quale poggiano le nivee scocche svettanti della copertura. Le inconsuete forme a guscio, che emergono dal basamento, fondono in un’unica forma pareti e coperture, anticipando quelle sperimentazioni formali ampiamente investigate dall’architettura contemporanea. Le forme dell’Opera house emergono come

T

una successione di gusci dall’inconsueto profilo cuspidato, quasi a ricordare un meccanismo cronometrico, un lento e coordinato movimento, una danza di scafi di barche, quasi fosse un naturale processo di gemmazione affiorante dalle acque della baia di Sidney. Prima di ricevere il prestigioso ma «dannato» incarico, Utzon, in Danimarca comincia giovanissimo a collaborare con il padre, progettista di barche, per poi studiare e laurearsi in architettura nel 1942 a Copenaghen. La sua formazione di progettista è fortemente legata alla collaborazione con il maestro finlandese Alvar Aalto, e all’in-

danza

fluenza di architetti del calibro di Gunnar Asplund e Frank Lloyd Wright. Dopo aver viaggiato molto, Utzon si trasferisce a Sidney nel 1957 per seguire i lavori di costruzione del complesso architettonico, progettato per contenere un grande centro nazionale per l’arte e lo spettacolo, comprendente, oltre al teatro dell’opera, una sala da concerti, sale per spettacoli teatrali, uno spazio per fiere, una libreria, caffetteria e altri ambienti commerciali. Ma a seguito di forti contrasti con la committenza, nel 1966 Utzon abbandona burrascosamente e definitivamente il progetto, che sarà inaugurato solo nel 1973. Un edificio scultoreo, di grande riconoscibilità, tanto che con esso oggi si identifica l’intera Australia. Un riconoscimento lento, ha portato all’affermazione dell’Opera house che recentemente è stato indicato come l’edificio icona del XX secolo e, inoltre, dal 2007 è stato inserito dall’Unesco tra le architetture Patrimonio Mondiale dell’Umanità. A distanza di anni nel 2003 a Utzon è stato conferito il Pritzker Prize, il premio più prestigioso per un architetto, l’equivalente del Nobel per le personalità illustri. La mostra dedicata alle architetture di Utzon allestita nei padiglioni della recente Biennale di Architettura di Venezia è stato l’ultimo omaggio verso il grande maestro danese, che, classe 1918, è morto lo scorso 29 novembre.

In “Pitié” la bulimia creativa di Platel di Diana Del Monte

itié, l’ultima fatica artistica della coppia Alain Platel e Fabrizio Cassol, è un lavoro sulla sofferenza, su quel dolore lancinante capace di deformarme il corpo e la mente. Dopo il successo di Vsprs del 2006, una rielaborazione in chiave tzigana e jazz dei Vespri di Monteverdi, il musicista, Cassol, e il coreografo, Platel, proseguono il loro lavoro di riela-

P

borazione di temi e musiche «importanti». Nella composizione di Pitié, infatti, i due artisti utilizzano La passione secondo Matteo, capolavoro di Bach, come punto di partenza per portare in scena quello che, per tutta la cultura cristiana, è un archetipo della sofferenza più profonda: la passione di Cristo. Sul palco sono contemporaneamente presenti tre cantanti - un soprano, un

controtenore e un mezzosoprano -, sei musicisti e i tredici danzatori deI Ballet C. de la B. che attraverso il corpo, lo spazio, la voce e la musica rielaborano l’opera bachiana nel tentativo di comunicare un «sentire» che nella realtà risulta spesso inesprimibile o incomprensibile. Per riuscirci, Platel spinge tutto al limite del parossismo: smorfie facciali grottesche, posizioni esasperate, tic nervosi e, sullo sfondo, piccoli gesti, richieste di pietà che portano in scena tutta l’esperienza accumulata dal coreografo belga nel suo ruolo di pedagogo abituato a trattare con ragazzi «difficili». Dal punto di vista stilistico Pitié è un vero e proprio manifesto del coreo-dramma à la Platel. Infatti durante lo svolgimento dello spettacolo, che dura quasi due ore, sono riproposti e riconoscibili tutti gli elementi che hanno reso inconfondibile lo stile di questo coreografo irriverente: la scena multifocale, una sce-

nografia fatta di volumi architettonici calpestabili (e il ricordo del lavoro di Appia si fa fortissimo), i tableau vivant, ma soprattutto quella sorta di «bulimia creativa», a cui Platel ci ha ormai abituato, che lo porta a fagocitare una grande quantità di tecniche e stili molto diversi per rigettarli, poi, uno dietro l’altro, sull’attonito spettatore. Difficile rimanere indifferenti. Non bisogna però farsi trarre in inganno da quest’opera in cui traspare un lungo e sapiente lavoro compositivo. Una competenza proporzionata all’impegno assunto da Cassol e da Platel e che emerge soprattutto in alcuni momenti dello spettacolo. In Pitié, i due artisti sono riusciti a costruire un ritmo globale della scena che, in alcuni momenti, genera degli impalpabili ma inesorabili crescendo. Lo spettatore viene così trascinato verso dei tableau vivant che richiamano l’iconografia classica e che lasciano addosso un senso di fatalità, di ineluttabile. Dopo la stagione ferrarese, da sempre una vetrina importante del teatro-danza internazionale, la lunga tournée che sta portando Pitié in giro per l’Europa toccherà ancora l’Italia a febbraio, per un appuntamento nella capitale. Lo spettatore deve andare preparato: non si tratta certamente di uno spettacolo «facile», ma, d’altra parte, come tutti i lavori di Platel, non vuole neanche esserlo.


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i misteri dell’universo

empo fa notai in una libreria il libro di Fosco Maraini Donne, amori e universi. La lettura di quell’autobiografia ha avuto alcune conseguenze: - ho letto quasi tutti i libri di Fosco, scrittore dallo stile nitido e solare, uomo di straordinaria cultura, grande viaggiatore; - ho potuto incontrarne la moglie, Malachite nell’autobiografia, Topazia all’anagrafe, principessa siciliana dai capelli d’oro, primo amore di Guttuso, con Fosco in Giappone e nel gulag vicino a Nagoya. È una lucidissima conversatrice a una età che per soli quattro anni la vede più giovane di stelle della lirica quali la Olivero e la Simionato; - ho contattato Giancarlo Castelli Gattinara, uno degli scalatori ancora in vita che nel 1958, diretti da Fosco Maraini, conquistarono la vetta del Saraghar a 7350 m., nell’Hindukush pakistano, il Paropamiso dei greci, raggiunto dal Chitral, nel territorio cosiddetto tribale del Pakistan. Qui esistono popolazioni chiamate kafiri prima della forzata conversione all’Islam di fine Ottocento. Kafiri che secondo chi scrive sono da relazionare con soldati dell’esercito di Dioniso, l’invasore dell’India verso il 1450 a.C., chiamati Cabiri in Nonno di Panopoli, certo dal nome Cabiro del padre di Dioniso (Cicerone, De natura deorum…..). Una popolazione quindi non discendente da soldati di Alessandro, come ipotizzato usualmente.

T

Ho incontrato Castelli Gattinara, ora quasi ottantenne e che recentemente ancora percorreva le vastità dell’Asia centrale, e sua moglie Paola, sposata al rientro dal Paropamiso, studiosa e attiva non meno

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ai confini della realtà

Il Paropamiso cinquant’anni dopo di Emilio Spedicato di lui, in tre occasioni: nella sua casa nell’antica Suburra romana, nella casa sul lago di Bracciano e in una sua dimora del Cinquecento presso Montespertoli (dove, visti i suoi interessi musicali, sono sicuro incontrerà Annamaria Gasparri, biografa della Tebaldi, che vive in quel paese; e non lungi sta Mario Alinei, il decifratore dell’etrusco, che però vive in una casa del Tre-

zioni nomadi, anch’esse destinate forse a una rapida estinzione. Castelli Gattinara è autore di un’opera sui Kuci (Viaggio in Himalaya, Marietti), nomadi dell’Afghanistan settentrionale, il cui nome riflette credo quello di Kush utilizzato dalla Bibbia per riferirsi a questa regione, collegata all’Eden. Kush che quindi non è, come quasi tutti i biblisti credono, una regione del Su-

1958: Fosco Maraini, Franco Alletto e Giancarlo Castelli Gattinara tentarono la conquista di una cima inviolata dell’Himalaya. E tra i tre nacque un vivace confronto intellettuale. Un’esperienza già raccontata da Maraini in un libro a cui ora si aggiunge la rivisitazione di Castelli Gattinara cento). Con Castelli ho discusso di vari temi, anche delle mie teorie su Gilgamesh e sull’Eden, che riportano all’Asia dei grandi monti. Ho ammirato le sue biblioteche piene di libri che conosco solo in piccola parte, e ho scoperto come, oltre che essere un grande scalatore che ripetè la conquista del Saraghar su altre cime, è stato antropologo, ora professore emerito dell’Università di Chieti, specialista delle popola-

dan orientale. Il libro rivisita a cinquanta anni di distanza l’esperienza del Paropamiso, in cui agli aspetti della conquista della cima inviolata, si unì un confronto intellettuale fra lui, credente e cattolico, Franco Alletto, comunista convinto e credente nella superiorità dell’Unione Sovietica, e Fosco Maraini, dalla cultura vastissima sulle credenze umane. La parte relativa alla spedizione aggiunge alcune infor-

mazioni a quelle nel volume di Maraini, Paropamiso, dove le accese discussioni non hanno il rilievo di questo libro, basato sul diario di viaggio dell’autore.

L’ultima parte rivisita le tematiche di allora a distanza di mezzo secolo. Le idee e i sogni di Alletto sono finiti con il crollo dell’Unione Sovietica e le rivelazioni sui gulag siberiani e i privilegi dei dirigenti, e vige ora in Russia e Cina un capitalismo senza alcun controllo. Sulla religione l’autore osserva che non è scomparsa, ma ha avuto una deprecabile tendenza a occuparsi più di questioni sociali che di quelle del trascendente. Lamenta che i fedeli non si inginocchino più per ricevere l’Ostia e che non sia più usata la formula Corpus Domini nostri, troppo lunga; oggi i fedeli, in fila come alla cassa di un supermercato, passano davanti al sacerdote che da l’Ostia con un affrettato il Corpo di Cristo. Critica poi aspetti del mondo consumistico, osservando come le sue esperienze in paesi africani considerati poverissimi, quali Niger o Lesotho, in realtà lo hanno messo di fronte a popolazioni dove il livello di felicità e di correttezza nei rapporti era elevato, più che nel ricco Occidente. Scrive: «la popolazione del Niger era serena, socievole, impostata sui valori dell’onestà, della fiducia reciproca… Nel Lesotho nessuna famiglia era al di sotto di condizioni di vita accettabili… la ricchezza del paese era equamente distribuita…. il problema era.. una sorta di degenerazione sociale e familiare dovuta al contatto col mondo occidentale…». Un libro da meditare, uno stimolo per leggerne altri sia di Castelli Gattinara che del grande Fosco Maraini.


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