12_11

Page 1

mobydick

INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

IL CRISTIANESIMO

Guida ai film di Natale

SECONDO ASLAN di Anselma Dell’Olio

offerta di film della stagione natalizia, almeno in teoria, è tra le più esperti di comunicazione del neo-presidente, che gli prognosticavano una ricche dell’anno. Iniziamo con le opere più impegnative, e alla fismagliante vittoria. Dopo essere salito a Downing Street Tony torna in Dal terzo ne diamo conto dei film di cassetta per il grande pubblico. I Usa per incontrare Bill (Dennis Quaid), noto per il suo charme da episodio delle maschio meridionale irresistibile per maschi e femmine; e infatdue presidenti, uscito ieri in Italia, racconta il «rapporti conquista pienamente il suo omologo british. to speciale» tra il presidente americano Bill Clinton, eletto “Cronache di Narnia”, da poco per la prima volta e popolarissimo, con il leaTra di loro si crea subito una salda intesa, basata su vial sodalizio tra Clinton e Blair. der dei laburisti britannici Tony Blair; infatti il tisioni politiche allineate, specie in questioni estetolo originale è The Special Relationship, terre, sulla determinazione di modernizzare la Da “American Life” a “MicMacs”. sinistra e sull’intento di lasciare un segno formine coniato da Winston Churchill per definiDa “The Tourist”, thriller con Depp e Jolie, ad te del loro passaggio nella stanza dei bottoni. Blair re il rapporto privilegiato di due nazioni storicaAldo, Giovanni e Giacomo. Impegnati è Michael Sheen, ormai specializzato nel ruolo dell’ex mente legate dalla lingua e radici culturali comuni. Blair primo ministro e perfettamente calzante, come in The Queen. aveva sconfitto l’estrema sinistra del partito laburista e cono di cassetta, ce n’è per divideva la Terza Via dell’americano, pragmatico, realista e postQuaid ha una parrucca clintoniana perfetta ma è costretto in un tutti i gusti... ideologico come lui. Di qualche anno più giovane e con il suo futuro da trucco pesante, per renderlo più somigliante all’originale, che penalizprimo ministro ancora incerto, prima va negli States per incontrare gli za la sua espressività.

L’

Parola chiave Ultimatum di Franco Ricordi L’arte della transizione trionfa alla Scala di Jacopo Pellegrini

NELLA PAGINA DI POESIA

Kavafis: il tutto in poche, scarne parole di Francesco Napoli

L’Unità d’Italia? Si fa a tavola di Nicola Fano La ricerca di Dio in un quadro di van Gogh di Sergio Valzania

Gli status symbol delle spose fiorentine di Marco Vallora


pagina 12 • 11 dicembre 2010

Il doppiaggio è ben fatto ma era impossibile riprodurre in italiano la vera forza interpretativa dell’attore: accento e calata che danno l’impressione di ascoltare l’affabulatore fantastico Bill. La struttura del copione e la regia sono televisive ma non diminuisce l’interesse per lo sguardo articolato su un rapporto tra due leader, sposati ambedue a formidabili avvocati di rango, Cherie e Hillary. Ripercorrere le crisi vissute dai due giovani leoni che hanno le sorti di due nazioni-guida in mano è di enorme interesse. Il ritmo è buono, e se la sceneggiatura dell’inglese Peter Morgan favorisce il suo connazionale, confidiamo che la sua preferenza sia già, e sarà in futuro, consolidata dalla storia. All’inizio è Bill la figura dominante; ma dopo l’affaire Monica Lewinsky e il ruolo di primo piano di Blair nel convincere l’americano a intervenire in Kosovo per fermare il massacro dei musulmani da parte delle truppe serbe di Milosevic, non c’è più gara. Da vedere.

In un mondo migliore di Susanne Bier ha vinto due volte al Festival internazionale del film di Roma: il premio della giuria qualificata e quello della giuria popolare. Elias, vittima di bullismo a scuola, è figlio di due medici separati; il padre Anton (Mikael Persbrandt) presta servizio umanitario in un campo profughi di una nazione africana in preda ai signori della guerra. La madre Marianne (Trine Dyrhom) sa che il figlio è oggetto di derisione e vessazioni ma le tensioni della coppia e le assenze del padre impediscono un fronte unito nella risoluzione del problema. Elias è soccorso da Christian, un nuovo compagno di scuola che aggredisce il bullo sadico con la pompa della bicicletta. L’autrice danese crea un legame piuttosto forzato tra l’istinto di legittima difesa che travalica e l’orrore di soldati africani che squartano le pance di donne incinte, scommettendo sul sesso del nascituro. La storia è ben articolata e ha ritmo. Lo schematismo pacifista è mascherato quanto basta. Da vedere. Le cronache di Narnia: il viaggio del veliero è il terzo film tratto dalla serie di romanzi per ragazzi di C.S. Lewis. Visto poco dopo Harry Potter e i doni della morte, non vi è dubbio per chi è poco incline al genere fantasy, che Narnia è l’opera migliore. Ci sono somiglianze nella trama, e del resto J.K.Rowling non ha mai negato di essere stata influenzata da Lewis, come molte generazioni di bambini inglesi. Noi propendiamo per il noto sottotesto cristiano di Narnia, che secondo noi è più godibile, interessante e di spessore dell’abracadabra potteriano. I due figli maggiori del clan Pervensie, ormai adulti, non sono più ammessi a Narnia. Il viaggio del veliero, dunque, si concentra sui due figli minori, separati dalla famiglia per lo scoppio della seconda guerra mondiale: Edmund (Skandar Keynes) e Lucy (Georgie Henley) con lo spocchioso cuginetto che li ospita, Eustace (Will Poulter). Diretto da Michael Apted, il terzo episodio ha un ritmo migliore del precedente; ci godiamo di nuovo gli animali parlanti. Il topo, il bisonte e il sublime, mistico leone Aslan sono un’autentica risorsa dei racconti. I tre ragazzi rientrano il magico mondo di Narnia attraverso il quadro di un mare in tempesta che si anima, e si ritrovano riuniti al bel principe Caspian, ora re, col quale partono per ritrovare i sette nobili perduti. La fotografia di Dante Spinotti è splendida, gli effetti speciali ottimi; il 3D non aggiunge e non toglie. Da vedere. Con «American Life» torniamo ai film per adulti. Uscito nel 2009 in Usa, il film di Sam Mendes (American Beauty, Era anno III - numero 45 - pagina II

il cristianesimo secondo

mio padre, Revolutionary Road) e la sceneggiatura di Dave Eggers (L’opera struggente d’un formidabile genio) e Vendela Vida, una coppia di romanzieri trendy e chic come pochi, faceva ben sperare.Verona (Maya Rudolph) e Burt (John Krasinski) sono una coppia di fatto in attesa del primo figlio.Trentenni con mestieri mobili e soldi sufficienti, partono on the road per scoprire il luogo ideale in cui finalmente diventare adulti e crescere una famiglia. Incontrano in giro per il nord America genitori egolatrici e amici frustrati, alcolisti, disperati o più politicamente corretti e insopportabili di loro. Il film è stato stroncato dalla critica ma i cinefili curiosi non vorranno perderlo. È un riassunto à la page di come vogliamo essere e non essere nel nuovo secolo. Da vedere.

«Cyrus» è un piccolo film proveniente da Sundance, con un triangolo d’amore corretto da insidie edipiche, su un anomalo rapporto madre-figlio turbato dall’arrivo di un terzo incomodo. Della coppia di registi della movida di Seattle Jay e Mark Duplass (Baghead), Cyrus vale per l’insolita storia e per i tre protagonisti superbi: John C. Reilly, Marisa Tomei e Jonah Hill. John (Reilly) è un ragazzone abbandonato dalla moglie (Catherine Keener, regina dei film indipendenti) per la sua incapacità di maturare e ancora attaccato alle sue compassionevoli gonnelle. È portato a viva forza dalla ex-moglie e il nuovo marito, stufi della sua molle invadenza fisica e psicologica, a una festa, nella speranza che trovi approdi nuovi. Dopo una serie d’incontri esilaranti quanto imbarazzanti, conosce Molly (Tomei) e si stabilisce subito un’intesa. All’inizio ci si chiede come mai una delizia di femmina come Molly s’interessa a uno zuzzurellone come John. Lei sta volentieri con lui a casa sua, poi sparisce senza spiegazioni, dicendo solo: «La mia vita è molto complicata». John decide di seguirla e incontra il figlio (Hill) fin troppo amichevole e accogliente. Le cose si complicano e prendono corpo con ogni scena e invogliano a vedere come andrà a finire. Ben scritto e ritmato (forse una punta superficiale nelle conclusioni) ma attenzione, il titolo può essere fuorviante. L’evoluzione di Cyrus e John è strettamente legata. Da vedere. L’esplosivo piano di Bazil, in originale MicMacs, è un film francese caotico e over-designed di Jean-Pierre Jeunet, l’autore che ha come biglietto di presentazione Il meraviglioso mondo di Amélie e Delicatessen (co-diretto con Marc Caro). Il simpatico Danny Boon (regista e protagonista di Giù al nord, campione d’incassi in Francia, che ha ispirato Benvenuti al sud) è l’eponimo protagonista. Bazil è figlio di un artificiere della Legione straniera, saltato su una mina nel deserto del Marocco durante un’operazione di bonifica. Da grande il ragazzone rimasto orfano lavora in un video store; mentre attra-

aslan

versa la strada per recarsi al negozio, viene colpito in testa da un proiettile vagante. La sorte (il tiro di una moneta) convince il chirurgo indeciso a lasciare le cose come stanno e a non procedere con l’intervento.. Il mite sognatore Bazil sopravvive con un corpo estraneo conficcato nel cervello, senza lavoro e senza tetto. È adottato all’impronta da una variegata banda di rigattieri accampata in una specie di caverna metropolitana. L’enorme vano è ricolmo di cianfrusaglie da modernariato e i residenti hanno nomi post-moderni come Remington, Calculator, Bust, Slammer; presiede l’allegra combriccola Mamma Chow, cui dà vita la poliedrica artista belga Yolande Moreau, protagonista di Séraphine, esemplare film biografico della pittrice primitive moderne francese uscita qualche settimane fa (e da recuperare se l’avete perso). Si capisce che Jeunet ammira i cartoon della Pixar (però la caverna sembra quella di Giù per il tubo della Dreamworks) e per molti versi al suo film sarebbe più confacente l’animazione della live action. Come si diceva, l’opera iperfantastica è over-designed: c’è un eccesso d’idee immaginifiche che sovraccarica lo spettatore. Ci sono i temi cari a Jeunet; Pollicino, l’orfano che lotta contro il mostro, ossia Davide e Golia. Bazil scopre fortuitamente il mercante d’armi che ha fabbricato sia la mina che ha ucciso il padre, sia la pallottola che alloggia gratis nella sua testa. Inizia la battaglia d’ingenui e ingegnosi improvvisatori squattrinati contro la scaltra macchina da guerra militar-industriale, lorda di vile denaro e di alta tecnologia.Tutto molto nobile e apprezzabile, se solo il «messaggio» fosse meno semplicistico e art direction e script avessero il dono della semplicità di Toy Story, Up e di tutti gli altri capolavori della Pixar, senza eccezione. Da vedere per decidere se amarlo o odiarlo.

Sono 28 anni che i tifosi aspettano Tron Legacy, il seguito del film fantascientifico d’avanguardia del 1982. Tron segnava una pietra miliare: il battesimo per il grande pubblico e per la Disney dell’uso esteso della computer grafica, talmente futuristica che era ammesso agli Oscar solo per costumi e sonoro, non per gli effetti speciali: all’Academy sembravano il frutto non d’intervento umano ma di codici «semplicemente» inseriti nei computer. È lo stato dell’arte della scienza visiva. Seguono fumetti, videogiochi e serie tv. «The Tourist» è un thriller con Johnny Depp, un turista americano in Italia per guarire un cuore infranto, e Angelina Jolie, nel ruolo di una donna che lo aggancia per un disegno tutto suo. La regia è di Florian Henckel von Donnersmarck, che ha stupito il mondo con la sua opera prima Le vite degli altri. Non c’è altro da aggiungere.

«Megamind» è un’animazione della Disney che dimostra quanto sono più divertenti gli eroi cattivi di quelli buoni. Ottimo per grandi e piccini. La banda dei Babbi Natale di Aldo, Giovanni e Giacomo rilancia il trio dopo la mezza delusione di Il cosmo sul comò.

Ma che bella giornata: obbligatorio per i fan di Checco Zalone. Buon Natale.


MobyDICK

parola chiave

11 dicembre 2010 • pagina 13

ULTIMATUM sattamente vent’anni fa, in questo periodo, George Bush Senior aveva lanciato un ultimatum a Saddam Hussein, allora presidente dell’Iraq: se non si fosse ritirato dal Kuwait che era stato invaso la precedente estate e dichiarato diciassettesima provincia dell’Iraq, avrebbe dato via a un’azione di guerra, concordata con gran parte dei suoi alleati, per la liberazione di quell’emirato. La data ultimativa fu in quel caso il 15 gennaio 1991. Le trattative per scongiurare la guerra furono febbrili e molti di noi ricorderanno come Tarek Aziz, allora considerato come il possibile mediatore fra Saddam e il resto del mondo, si prodigò in ogni maniera per fermare lo scontro; insieme a lui anche Arafat e soprattutto Mubarak, il presidente egiziano, cercarono in ogni maniera di evitare quella che poi, a cose fatte, fu definita un’«umiliazione per il mondo arabo». E tuttavia Saddam non arretrò, non concesse nulla, tanto che il 15 gennaio 1991 alcuni iracheni, forse esaltati dalla propaganda del loro tiranno, affermarono che «il fatto di essere arrivati a quel giorno fosse già una vittoria per loro», una vittoria di quella che avrebbe dovuto essere la «madre di tutte le battaglie».

E

L’America e i suoi alleati, tra cui anche l’Italia, non si fecero aspettare: così il giorno 17 gennaio 1991 partì un’offensiva che per la prima volta nella storia fu teletrasmessa globalmente, dandoci più volte l’impressione di un gigante buono, l’America, che puniva i cattivi, il nuovo «Hitler del Golfo» come fu denominato Saddam Hussein. Tuttavia ricordiamo anche come in quei giorni, poco prima dell’attacco, l’opinione mondiale e nazionale fosse assai incerta e divisa: pur dando atto a Bush di aver creato un significativo sistema diplomatico di alleanze, che comprendeva anche la Russia e la Cina che di fatto non intervennero nel conflitto, molti pensarono alla possibilità di una «terza guerra mondiale» (così si espresse, lo ricordo perfettamente, anche Giampaolo Pansa in tv). Qualcuno gridò allo scandalo di una nuova guerra visto che «siamo nel 2000», come se questa cifra potesse esorcizzare alcunché, ma ci furono anche altri che videro meglio le possibilità dell’evoluzione: vedrai, mi disse una persona assai semplice, che «in tre giorni risolvono tutto». Non furono tre giorni, ma poco più di tre settimane e, alla fine, Saddam Hussein si rivelò per quello che era: una tigre di carta. A guerra conclusa, ricordo come il genio satirico del nostro Forattini si espresse in una vignetta che ritraeva Bush, armato di fucile, mentre stanava dal nascondiglio Saddam Hussein,Yasser Arafat, Michail Gorbaciov e addirittura Papa Giovanni Paolo II che, per un momento, sembrava essersi un po’

La drammaticità della nostra epoca sta in una possibilità ultimativa data all’uomo e al suo pianeta per sopravvivere. Ma nella spettacolarizzazione del tutto è un’evenienza che si preferisce rimuovere

La fiction globale ci perderà… di Franco Ricordi

La possibile distruzione di una parte cospicua di mondo è talmente vicina che non si riesce a vedere: e tutti i grandi mezzi di comunicazione di massa, nell’ottimismo dell’audience, servono proprio a nascondere questa realtà. Che ci pare filtrata dal piccolo schermo proprio come la prima guerra del golfo vent’anni fa troppo allontanato dalle prospettive, dai rischi e dalla politica di Israele. La legge del più forte - ma anche del più buono, per come ci illustrarono tutta la vicenda - si era in questo modo imposta. E bisogna ammettere come in quella occasione l’ultimatum funzionò, anche se con tutte le tragiche conseguenze che conosciamo. Ultimatum è quindi sinonimo di tempo a disposizione, quindi di drammaticità: esso si riferisce a un non plus ultra che, una volta superato, può dare origine a quanto di peggio possa accadere, la guerra. E chi sferra un ultimatum ha l’obbligo di rispettarne i tempi e le sanzioni; se si minaccia senza poi colpire si perde di credibilità, e in questa maniera si dà adito a nuove provocazioni, come afferma Raymond Aron nei confronti

del sistema francese nel ’68 che, secondo lui, commise quell’errore. Tuttavia nel XXI secolo crediamo che la parola ultimatum abbia assunto un nuovo significato, che si può definire esistenziale. E si tratta di un ultimatum che l’umanità ha ormai sferrato a se stessa: se non siamo in grado di riconoscere questo ultimatum, vorrà dire che ci saremo illusi di poter continuare nella nostra avventura umana senza tenerne conto. Certo, non si tratta di un data precisa e dell’intimazione di qualcosa di concreto: e tuttavia la drammaticità della nostra epoca si è strutturata proprio nei confronti di una possibilità ultimativa dell’uomo e del suo pianeta, ma che la stessa umanità sembra voler rimuovere, senza comprenderne la portata. Eppure dovrebbe essere chiara, proviamo a de-

finirla: se entro il secolo XXI non sarà trovata un’alternativa al sistema bellico che ancora oggi di fatto regola la nostra vita nel mondo, allora questo stesso sistema bellico potrà produrre catastrofi di tali entità che, in ogni caso, sarà difficile continuare nella vicenda del nostro cammino. La possibilità di distruzione di una parte tanto cospicua dell’umanità è talmente vicina che, evidentemente, non si riesce a vedere: e tutti i grandi mezzi di comunicazione di massa, nell’ottimismo della ragione e nella audience verso la quale per loro stessa natura sono proiettati, servono proprio a nascondere questa stessa realtà, che ci viene passata come una «guerra in televisione», così come la subirono gli iracheni vent’anni fa, ma che per il resto del mondo fu tutto sommato liberatoria, giusta e, soprattutto, innocua: proprio perché filtrata dal piccolo schermo.

Ma ci chiediamo: se un ultimatum di diversa portata, di tutt’altra realtà, fosse inflitto nei confronti dell’intera umanità; allora ci potremo rendere conto come tale rischio non sia soltanto una vicenda televisiva? Quando Pasolini affermava che la tv era come la bomba atomica, probabilmente si riferiva a questo: una sorta di «contro arma», un dispositivo che, nella spettacolarizzazione del tutto, è funzionale proprio alla rimozione di ciò che in realtà si sta producendo a livello bellico, un armamentario (non solo nucleare, ma di tanti altri generi che magari nemmeno conosciamo) dal quale un giorno potremo essere coinvolti. È questo l’ultimatum che l’umanità ha già sferrato contro se stessa, ma che proprio in virtù di tale autoreferenzialità stenta a comprendere. L’uomo del XXI secolo si trova nella situazione di Don Chisciotte, ma in senso inverso: crede di avere davanti a sé dei mulini a vento, tutto sommato innocui, laddove essi sono dei veri e propri mostri di cui ignoriamo l’entità. C’è un bellissimo testo teatrale di Giuseppe Manfridi, Ultimi passi per la salvezza dell’Epiro, che descrive assai bene il senso drammatico dell’ultimatum, il consumarsi lento e inesorabile della possibilità di un attacco di guerra a ridosso di una intimazione di forza: il testo è coevo della prima guerra del golfo e, come spesso avviene delle cose migliori, non è ancora stato rappresentato. Mi auguro che prima o poi lo sarà: ci aiuterebbe a comprendere meglio la scansione temporale della nostra vita, il nostro tempo nei confronti del quale il rischio è sempre quello del rien à faire di Godot. Anche perché in questa colossale fiction che sempre più ci avvolge, a livello totalitario, si sta in realtà rimuovendo spasmodicamente proprio il senso dell’ultimatum, di un ultimatum di cui evidentemente non vogliamo sapere.


MobyDICK

Classica L’arte della transizione trionfa alla Scala pagina 14 • 11 dicembre 2010

M

Jazz

zapping

Gli Elii e quei versi ermetici DALL’ANTOLOGIA DELL’ASSURDO di Bruno Giurato

acciamo cose originali; anche se fanno schifo non importa, importa che siano originali». Con questa sentenza detta illo tempore dal cantante Elio al tastierista Rocco Tanica, si aprì la carriera del più importante gruppo rock italiano degli ultimi trent’anni, Elio e le storie tese appunto. Demenziali e punk, dadaisti e colti, ferocemente postmoderni, cioè orgogliosamente derivati da una tradizione mista di Skiantos e Zappa. Musicalmente stanchini negli ultimi anni, si riprendono inseminando d’intelligenza ogni apparizione in tv (tranne quella di un Elio troppo ingabbiato nelle logiche televisive a X Factor), ogni iniziativa di legittimo marketing, anche. Per esempio è uscito Il visone ha una faccia enorme, la raccolta poetica di Faso sotto le ficte spoglie di Ermes Palinsesto. I versi del «poeta ermetico» appaiono ormai da nove anni su Cordialmente, la trasmissione che gli Elii conducono a Radio Deejay assieme a Linus; il bassista di Elio e le storie tese ne è il messaggero «ufficiale», colui che è incaricato di raccogliere i versi surreali di Ermes. Cose come: «Babbo Natale. Al bambino ricco porterà i tanti regali da bambino ricco; al bambino povero porterà i pochi regali da bambino povero. Caro Babbo Natale, io non ti conosco, e non so come la pensi. Ma di sicuro non sei comunista». La cosa più seria Faso la dice ridendo: «Spero non mi mettano nel reparto di poesia, ma in mezzo ai libri comici. Ma te lo immagini come si potrebbe incazzare uno che scrive poesie sul serio vedendo quel libro messo lì?». La frase è fuori misura, è un altro puzzle dell’antologia dell’assurdo marchiata Elio e le storie tese. In fondo loro sono qui per questo.

«F

Le Valchirie, Wotan (Vitalij Kowaljov) e Brünnhilde (Nina Stemme) ©Brescia e Amisano, Teatro della Scala

di Jacopo Pellegrini i aspettavo, come le altre due volte che ho ascoltato La valchiria diretta da Barenboim, di restare dall’inizio inchiodato alla seggiola. Invece, all’Anteprima dedicata ai Giovani (con tanto di iniziale maiuscola, chissà perché), tre giorni avanti il 7 dicembre - data fissa d’inaugurazione per le stagioni del Teatro alla Scala - ho tardato quasi un atto intero a sentirmi coinvolto, a entrare dentro al flusso musicale dispiegato da Richard Wagner nella Prima giornata della Tetralogia. Colpa mia? della posizione arretrata in un palco laterale? della pestifera vicina di posto, una cronista musicale petulantissima? Può darsi; però, il partito preso di una narrazione lieve e sommessa, inseguito dal podio persino nei momenti più esplicitamente drammatici e fin quasi alle soglie della fuga dei fratelli-amanti, pur bilanciato dalla gioia che deriva dal poter discernere ogni particolare, anche il più minuto, dell’intreccio motivico e della strumentazione (molto più analitica e meno densa di quanto non si pensi abitualmente), ha destato in me qualche perplessità. Certo, lo capisco, occorreva non coprire i cantanti, soprattutto Waltraud Meier, una Sieglinde ridotta al lu-

musica

micino, e spento per giunta. Pure Simon O’Neill, Siegmund, di squillo e potenza non è che ne abbia da scialare; in compenso, vanta legato apprezzabile, emissione corretta (salvo qualche frase calante nel registro medio-grave), dizione chiara. Chi non fa capire una parola è Nina Stemme, Brünnhilde: voce ben piantata, quantunque non quel fenomeno di cui da più parti si favoleggia. Con John Tomlinson siamo al solito Hunding laido (un po’ meno del solito, forse); per parte loro, le valchirie la sfangano. Quanto alla coppia, non proprio felice, dei coniugi divini, Vitalij Kowaljow è un Wotan professionalmente encomiabile (se si escludono gli estremi acuti: la scrittura, tuttavia, è di quelle infernali), ed Ekaterina Gubanova s’impone come l’unica interprete personale e significativa del gruppo: una Fricka severa, anche aspra quando occorra, eppure, nel profondo, macerata, dolente. Ma insomma, devo ribadirlo, il primo atto mi è sembrato quasi per intero poco appassionato e appassionante. Coll’atto secondo e poi col terzo, almeno da quando Wotan e Brünnhilde restano soli in scena, il discorso è cambiato, eccome. Un più intimo coinvolgimento del podio? una maggiore concentrazione degli interpreti o

del sottoscritto? Fatto sta che alla chiarezza e trasparenza già notate si associava adesso un’irresistibile eloquenza lirica (cosa non diventava il motivo della compassione all’uscita della valchiria!). I tempi larghi, il respiro ampio, profondo del racconto, tutti retaggi della scuola storica tedesca, sono funzionali a un fraseggio calcolato su sfumature minime, su velature sapientissime, che possono trasformarsi all’istante in lancinanti esplosioni cantabili. È il trionfo di quella che Wagner, attribuendole un valore centrale, battezzò «arte della transizione»: il passaggio da un motivo conduttore all’altro si compie con una gradualità e delicatezza inimmaginabili, come se sbocciassero da un silenzio primordiale, per poi reimmergersi in esso. Sull’allestimento scenico (regia e scene Cassiers, scene e luci Bagnoli, costumi van Steenbergen, video Klerks e D’Haeseleer, coreografia Lakatos) niente da dichiarare. Nel senso che, come si era potuto leggere nelle interviste rilasciate da alcuni dei cantanti non proprio soddisfatti del lavoro svolto, si tratta d’un guscio lustrato a festa con ambiziosi proclami teorico-estetici preventivi, ma vuoto di contenuto. Peggio che brutto, inconsistente e barboso.

Soul Christmas: Acquapendente sceglie il blues puro l Torre Alfina Blues Festival, manifestazione ormai consolidata e di respiro internazionale, dal 18 dicembre e per due giorni, abbandonerà temporaneamente la sua sede abituale per trasferirsi ad Acquapendente, storico comune del Lazio posto dieci chilometri a nord del Lago di Bolsena, presso la Riserva naturale Monte Rufeno e attraversato dalla via Francigena che, nel tempo, ha consentito alla città di avere importanti scambi culturali. Sabato prossimo dunque al Palazzo dello Sport si esibiranno le blues-bands di Mark Shattuck, Mark Hanna e la Chicago Street Band. Nel pomeriggio di domenica, sotto le logge di Piazza Fabrizio, ancora due gruppi, i Lions of Swing e la Mo’Better Band. Due giorni dedicati al blues e alla Soul Music che Carlo Di Giuliomaria, presidente del Torre Alfina Blues Festival e direttore artistico di questo Soul Christmas, ha

I

di Adriano Mazzoletti voluto organizzare in prossimità delle festività. «È la volontà di estendere il festival sul territorio» - ha dichiarato Di Giuliomaria - e nel caso specifico nasce dal fatto che Acquapendente, rispetto a Torre Alfina, ideale per la stagione estiva, ha delle strutture più idonee considerato il rigore dell’inverno. Inoltre, è il tentativo di creare nei comuni limitrofi, come San Casciano Terme, degli appuntamenti dedicati al blues, forma musicale di grande importanza, assente nel Lazio, mentre è presente in molte regioni italiane come Toscana, EmiliaRomagna, Umbria». La presenza al Soul Christmas dei gruppi di Mark Hanna e Mark Shattuck, ambedue nord-americani, conferisce al festival un carattere autenticamente blues senza deviazioni verso musiche commerciali. Occasione que-

sta per ascoltare musica eccellente, ma anche per ammirare luoghi e momenti del nostro passato remoto di cui la città è ricchissima. Dalla splendida Cripta del Santo Sepolcro risalente alla seconda metà del X secolo, alla Chiesa di San Giovanni del 1149, alla Torre Julia de Jacopo del 1550. Dieci giorni dopo, nella vicina Orvieto, inizierà la diciottesima edizione di Umbria Jazz Winter, quest’anno in parte dedicata a grandi pianisti, ma come di consueto saranno presenti gruppi e musicisti legati al blues o da esso derivati come Chick Rodgers e la Foundation R&B Band o gospel come il gruppo Gospel at His Best. Ma a Orvieto ci si va per ascoltare soprattutto del jazz che quest’anno, come già scritto, è rappresentato soprattutto da Chick Corea in un inusuale duo con Stefano Bollani, Harry Allen, Gary Smulian, Eric Alexander, Dado Moroni e Rosario Giuliani.


MobyDICK

arti Mostre

11 dicembre 2010 • pagina 15

di Marco Vallora

e è vero che i cassoni istoriati del Quattrocento fiorentino vantano un significato più gnomico ed educativo, che non soltanto estetico, è vero pure che ci son mostre che talvolta, oltre il fascino estetico, ci convincono più per delle ragioni storico-didattiche, che non unicamente esteriori. Non che non siano affascinanti, queste madie portatili, che hanno però un alto valore simbolico (come i deschi da parto, più rappresentativi d’uno status symbol della puerpera, che non realmente funzionali), simboli che permettevano alle fanciulle da marito d’andar spose con questo corteo appresso di ricchi e decorati, ingombranti contenitori per stipare la dote (ricordate, nel secolo successivo, la Venere di Urbino di Tiziano, con la servente che fruga simbolicamente nello sfondo, direttamente dentro un cassone, che contiene probabilmente tanto quieta ricchezza quanto inconfessabili segreti?). Così questa bella e scenografica mostra, che ha visto il lavoro incrociato di tre studiose sensibili a queste problematiche del vivere femminile, Paolini, Parenti e Sebregondi, con il contributo d’altri specialisti della materia soprattutto storica, insegna molte più cose di quello che una mostra abituale di manufatti artistici possa donare. Perché qui è in gioco la micro-storia del legame nuziale nella Firenze dell’Umanesimo, il tema dell’araldica, che domina l’aspetto emblematico di questi manufatti, che sono il cuore dell’abitare borghese, l’arte dell’arredare la casa e di sfruttare oggetti pratici come occasione di sfoggio estetico, inglobando l’architettura come scenario di queste «vignette» dipinte. Né può mancare lo studio della figura della donna e il ruolo dei figli, nella società tardo-gotica: aspirante santa o seduttrice demonizzata dalla Chiesa, Eva traditrice, serpente di corruzione, ma

S

tuose suicide quali Lucrezia, della Bibbia, di Ester e Assuero, per esempio (magari magistralmente imbanditi da un disponibile Botticelli, che rappresenta alle soglie del palazzo regale la disperazione desolata dell’ulcerato Mardocheo) o della guerra di Troia, dei Trionfi di Petrarca o del saccheggiatissimo Boccaccio, soprattutto del Decamerone. La storia dell’infelice Griselda, o quella di Nastagio degli Onesti, che permette di sfruttare l’orizzontalità pronunciata di cassoni o spalliere (che governano la vita e la morte di casa, Gianni Schicchi insegna) per rappresentare, come in un film dipinto, i vari fotogrammi della storia-monito. Narrativamente successivi ma visivamente simultanei, di storie che si dipanano nello spazio e lacerano la carne dei protagonisti, scomparto dopo scomparto. La carne, la morte e il diavolo, potremmo dire: e anche noi, che prezioso riepilogo si fa della storia e della mitologia antica! E che artisti si invischiano, da Botticelli, appunto, a Filippino Lippi, dallo Scheggia, fratello più «pratico» di Masaccio, a Pesellino e poi molti Maestri Anonimi, come quello di Marradi, o del Giudizio di Paride, che dopo tanto studio finalmente ottengono una fisionomia più chiara. Introducendo il prezioso catalogo Giunti, Antonio Paulucci evoca la visita del primo vero storico di questo fenomeno d’arredo domestico, a partire dal 1915, il tedesco Paul Schubring, che scopre nel felice disordine della villa dell’antiquario Bardini, a Torre del Gallo, l’imaginifica «riserva» di questi scrigni d’arte nemmeno troppo minore e che avrebbero poi colonizzato il gusto anglofiorentino e americano, berensoniano, di quel torno di secolo. Quasi uno zoo di bauli, forzieri, spalliere, adattissimi a sposarsi negli arredi finto-antico con le ceramiche dei Della Robbia o i copiosi fondi oro sul mercato, in clima venturiano di recupero del «gusto dei primitivi».

Gli status symbol delle spose fiorentine

Fotografia

pronta anche al riscatto della classicità, in un ritorno ai racconti edificanti dell’Antico, quale figura eroica se non martire. Secondo la lezione degli Exempla di Dante, Boccaccio, Petrarca. Ma è molto importante pure lo studio del transito (talvolta solo meccanico, talvolta più che libero) dei testi classici o religiosi, nel linguaggio in evoluzione della pittura: solidificarsi d’una cultura testuale, nel riverbero colorato dell’ispirazione iconografica pittorica. Una sorta di miniatura pantografata, e imprestata al legno e alla pastiglia, che permette alla buona madre

di famiglia di meditare in silenzio (mentre il consorte è alla battaglia quotidiana) i motti esemplari, che provengono dal mondo antico e le consentono di confrontare la propria condotta etica, come in un breviario solidificato. Così Cristina Acidini, immagina quel «palcoscenico» concentrato dei fronti di cassone come una sorta di teatrino domestico, quasi succedaneo di televisione prestorica, che permette alla madri sole d’intrattenere l’ozio dei giovani-nati, raccontando storie almanaccate, visualizzando aneddoti ben noti. Che sono quelli della mitologia, con le vir-

La virtù dell’amore. Pittura Nuziale nel Quattrocento fiorentino, Firenze, Galleria dell’Accademia, fino al 28/12

Tutti i volti del rotolante Mick, icona del rock

iacere di conoscerti; hai capito chi sono, di Angelo Capasso spero», sono le parole del riff più esoterico del rhythm and blues degli anni Sessanta. minile (ben lontano dal caschetto e frangetta di Vidal È il ritornello di Sympathy for the Devil, Sasson lanciato dai Beatles), è certamente uno dei teun classico dei Rolling Stones e un anti-classico della sori della cultura occidentale. Mentre esce Life, la primusica pop. Un brano tribale (cui Jean-Luc Godard ha ma biografia dell’altro Stone, Keith Richards, Sir Midedicato un intero film), uscito il 6 dicembre del 1968, chael Phillip «Mick» Jagger (nato a Dartford il 26 lul’anno della rivolta giovanile, e, per gli Stones, l’anno glio 1943), unico baronetto dei Rolling Stones (l’incorodell’abbandono di Brian Jones (morto in circostanze nazione della regina fu accettata con parole amare da misteriose da lì a poco), contenuto nel diRichards) è protagonista della prisco più significativo degli Stones, Beggars ma grande retrospettiva dedicata a quell’icona che abbiamo visto Banquet, nato come un prodotto della scattare sui palchi di tutto il moncontro cultura più aggressiva, alternativa do. È in corso presso la Fondazioalle melodie intellettuali del White Album ne Forma per la Fotografia di Mila(capolavoro di altra natura) dei Beatles, no Mick Jagger. The photobook, uscito il 22 novembre dello stesso anno. unico appuntamento italiano, doQuel rock misterioso e primitivo (basato po i Rencontres d’Arles, la retrosu tre accordi) deve il suo successo anche spettiva dedicata all’evoluzione e a un volto ormai entrato nel gotha della metamorfosi di quella «faccia da musica rock, quello di Mick Jagger, certarock».\u2028 A partire dal volto mente l’icona del rock. Il volto scavato, il delicato degli anni Sessanta di naso leggermente pronunciato sulla bocGoodwin, Mankowitz e Périer, fino ca carnosa e sensuale da cantante di coloal dandy di Cecil Beaton e alle rere (la bocca aperta da cui scivola fuori una linguaccia è il brand degli Stones) e due centissime rivisitazioni di Annie occhi azzurri che fanno capolino dal manLeibovitz, Karl Lagerfeld, Anton to rigoglioso di capelli neri dal taglio femCorbijn, Mark Seliger e Bryan Mick Jagger © Simone Cecchetti, 2007

«P

Adams, la mostra scorre le immagini dello «spirito vagante» di Mick Jagger (come recita il titolo del suo migliore album da solista, Wandering Spirit) nelle sue diverse trasmigrazioni e incarnazioni in volti da schermo. E in effetti, oltre a essere stato il modello di scatti d’artista, Mick Jagger è stato attore di film di successo (Ned Kelly, Performance, Freejack, The man from Elysian Fields). Quella faccia da Stone è stata oggetto anche di una serie di opere del maestro del Pop Andy Warhol, sedotto dal fascino di Mick e dei Rolling tanto da aver firmato una delle copertine più note, discusse e censurate della storia del rock, quella con il jeans dalla zip apribile, Sticky Fingers, e aver realizzato una serie di ritratti pop per la copertina dell’album del loro tour più spettacolare Love you Live! L’altra faccia da Stone, quella di Keith Richards sfuma nell’inevitabile sigaretta, compagna di tante avventure malsane, sulla copertina di Life, il suo ultimo libro edito in Italia da Feltrinelli. Mick e Keith, i Glimmer Twins (pseudonimo con cui firmano molte delle loro produzioni) sono al centro della scena mondiale, non per la loro musica, ma per ciò che ne è scaturito: cinema, costume, società, arte, cultura. In una parola: la «vita». Da leader della rock’n’roll band più longeva, lo meritano certamente.

Mick Jagger. The photobook, Milano, Studio Forma, fino al 13 febbraio


MobyDICK

pagina 16 • 11 dicembre 2010

Ciausculo, clabuscolo, finocchiona, lonza, lonzino, capocollo, soppressata, mortadella, prosciutto romano, ventricina, cacciatore, cacciatorina, salsiccia, sartizzu, corallina… Non c’è paese sul patrio suolo che non abbia il suo precipuo salame. Che è il vero topos della nostra identità. Dai pasticci di carne al baccalà, dai maccheroni di Cavour al caffè di Garibaldi… è la tavola che unisce davvero

il paginone

I salamini e l’U

di Nicola Fano onzio Bastone, militare genovese, quando morì nell’autunno del 1279 lasciò in eredità una «bariscella plena de macaronis»: è curioso che la parola maccheroni - nella storia di quella che poi sarebbe diventata l’Italia - sia stata annotata per la prima volta al Nord, sia pure in quella Genova che è un po’ la Napoli del Settentrione e che, nella seconda metà del Duecento, s’era da poco appropriata della tradizione cultural-marinaro-commerciale di Amalfi. Strano e curioso, sì, come strana e curiosa è la variopinta parabola dell’Unità d’Italia oggi tanto negletta quanto ignorata. E comunque non erano stati gli amalfitani a «inventare» i maccheroni: erano stati gli arabi. Pare. Anche perché dalle nostre parti, a quel tempo, si mangiava molto più solido nelle dimore dei ricchi e molto più effimero nelle capanne dei poveri.

P

Per esempio, nei ricettari delle origini (dal vecchio Liber de coquina alle ricette del cinquecentesco Bartolomeo Scappi), si apprende che chi aveva danari campava di pasticci. Di carne, ovviamente. E chi denari non ne aveva (forse, perché i ricettari alludono solamente a quel che doveva capitare sulle mense povere) viveva di aria e verdure. Ma poi l’Unità d’Italia l’hanno fatta broccoletti e patate e maccheroni. Molto più che i pasticci di carne o gli intingoli di pesce. C’è una vec-

che non si voglia ben altrimenti appesantirsi. Per esempio c’è una ricetta, tra le tantissime, che qui val la pena ricordare: è quella del pasticcio di volatili che si consumava alla Corte degli Estensi ai tempi di Ariosto. Di fatto era una pizza di pane che andava cotta riempita di fagioli secchi: non perché i fagioli potessero così cuocersi. No, i fagioli erano destinati a essere buttati dopo aver svolto il loro onesto compito di non far gonfiare eccessivamente la base della pizza di pane fortemente lievitata.

Insomma: doveva essere un contenitore ampio e confortevole, al quale bisognava con abilità tagliare la testa in modo da comporre un baule, un cassone di pane. Prima di portare a tavola la meravigliosa pietanza, il cuoco la riempiva di volatili. Volatili veri, piccoli e soprattutto vivi. Indi richiudeva il coperchio del suo cassone, con un po’ di pasta lievita mascherava il taglio precedente e poi portava tutto in tavola. Quando il padrone di casa dava il primo taglio alla meravigliosa pizza, ecco che uno stormo

Il mangiare è tipico di noialtri, sia che si abbiano i mezzi per soddisfare la fame sia che se ne abbiano anche per gli eccessi sia che non se ne abbiano proprio chia antologia di ricettari (L’arte della cucina in Italia), compilata nel 1987 da Emilio Faccioli per Einaudi che descrive quasi letterariamente il passaggio dalla pesantezza della tavola medioevale e rinascimentale alla volatilità di quella a noi più prossima; quella propria italiana, insomma. Ed è un percorso economico, sociale e culturale che spesso dimentichiamo. Come il fatto che per la prima volta nella storia d’Italia i maccheroni compaiono a Genova; non a Napoli o a Palermo come si potrebbe pure pensare. Che qualcuno lo dica ai leghisti. A meno anno III - numero 45 - pagina VIII

d’uccelli impauriti, improvvisamente liberati, usciva dalla propria galera e freneticamente smuoveva l’aria intorno ai commensali. Figuriamoci la sorpresa, la meraviglia, gli ohh! Salvo che poi era prerogativa del padrone sfamare anche gli stomaci o lasciare che i commensali sentissero sazi solo gli occhi. A essere onesti, la concretezza di un maccherone dovrebbe essere giudicata meno spettacolare ma più appagante (anche se in materia di spettacolo, certe pastasciutte non scherzano neanche loro…). Eppure, la vera rivoluzione del maccherone è

un’altra: quella di Garibaldi del 1860. Cavour, che non aveva da preoccuparsi di Wikileaks, scriveva liberamente i propri pensieri a destra e a manca. Sicché il 26 luglio di quell’anno, quando Garibaldi gli stava per conquistare con Messina, di fatto, l’intera Sicilia e s’apprestava a far lo stesso con il resto del Regno borbonico fino a Napoli, scrisse al suo ambasciatore a Parigi: «Le arance sono già sulla nostra tavola e stiamo per mangiarle.

Per i maccheroni bisogna aspettare, poiché non sono ancora cotti!». È tutta una metafora del mangiare, il far l’Italia di Cavour: al di là della toponomastica dell’Unità che li vuole tutti sullo stesso piano, Cavour, Garibaldi e Mazzini ebbero parti affatto differenti nella partita italiana. Mazzini sbocconcellava piccole delizie che in esilio gli preparavano le sue innamorate perpetue inglesi; Garibaldi beveva caffè e mangiava pane e

formaggio (come ogni buon soldato, da Marc’Antonio in poi); Cavour banchettava a suon di arance e maccheroni. Dove le arance sono tradizionalmente la Sicilia e i maccheroni Napoli.

Prova ne sia che oggi la povera Italia che abbiamo sotto agli occhi è quella mangereccia alla Cavour: della morigeratezza di Garibaldi non se ne vede più nemmeno l’ombra come pure, in fondo, della misurata gourmandise di Mazzini. Oggi siamo tutto banchetti e feste smodate, cocktail pirotecnici e fiumi di birra mentre la moderazione sembra ormai confinata al consumo di schifezze etniche racimolate per due lire in takeaway sporchi e inospitali. Ha vinto Cavour, sotto ogni punto di vista. Mentre Garibaldi, l’eroe Garibaldi, il conquistatore Garibaldi, il dittatore delle Due Sicilie Garibaldi lasciava Napoli mesto, su un battello che lo avrebbe riportato solo e intimamente sconfitto a Caprera. Con sé portava il suo personale bottino di guerra; che


11 dicembre 2010 • pagina 17

Unità d’Italia

vate a mantecare un baccalà conservato sotto sale e poi capirete che sto dicendo: impossibile. Il baccalà perde compattezza lì dove lo stoccafisso resta una crema di se stesso pure dopo ore di lavorazione. Ma qui il problema è un altro: è l’Unità d’Italia. Che, anzi, nel caso in specie è l’Unità d’Europa. Allora, cominciamo da Candia (questo era il nome di Creta, all’epoca) il 25 aprile 1431 quando una nave veneziana piena di spezie partì al comando del capitano Piero Querini. Era diretta a Nord, più a Nord di quanto si potesse immaginare all’epoca, però una tempesta sulla Manica costrinse l’equipaggio alla disperazio-

ne. Rotto l’albero, perse le vele e il timone, i 68 marinai si accalcarono sulle scialuppe. Ma solo in 14 arrivarono a terra. Terra, poi: uno scoglio disabitato che seppero essere chiamato Sandoy nelle isole Lofoten: Norvegia del Nord. Avrebbero potuto morire tutti rapidamente, se non fossero stati avvistati dai pescatori locali che li portarono sulla loro isola, Roest. Dicono i veneziani che quello era un paradiso terrestre: «Le donne restavano nude e dormivano con gli stranieri quando i mariti andavano a pescare. Quelle genti vivono il matrimonio come sacramento indissolubile e vivono senza alcuna propria lussuria, né allievamento lo stimolo della carne». Ma il vero tesoro di quel villaggio erano gli stoccafissi, i merluzzi giganteschi pescati in mare aperto e poi lasciati seccare all’aria.

Cento giorni dopo il naufragio, i sopravvissuti guidati da Querini medesimo ripresero la strada del continente portandosi dietro sessanta stoccafissi seccati. Fu un viaggio altrettanto avventuroso per terra e per mare tra Olanda, Germania e Gran Bretagna: ogni volta i nostri furono ospiti delle comunità commercia-

Se il maccherone ha un’epopea artistica (vedi Sordi), e il caffè ha il suo tripudio poetico (in Eduardo), anche il mitico affettato ha il suo monumento: di Petrolini non era uno Stato, non era una villa a Antigua o due stanze e cucina a Montecarlo, né un vitalizio, né i gradi lucidi sulle spalline né una commissione parlamentare, né un consiglio d’amministrazione: «Portava con sé un sacco di sementi, qualche scatola di caffè e zucchero, una balla di baccalà, una cassa di maccheroni…», dice il Bandi, il primo biografo dei Mille. Quel che stupisce è il baccalà, non il resto.

Ma poi anche la faccenda del baccalà norvegese è molto, molto italiana: non fosse stato per un naufrago veneziano forse oggi avremmo meno occasioni per leccarci i baffi (alzino la mano i pochi

che non si leccano i baffi mangiando baccalà). Chiariamo una volta per tutte: al Centro e al Sud dicesi baccalà il merluzzo conservato sotto sale e stoccafisso il merluzzo seccato al sole gelido dell’estremo Nord del mondo.

Nel nostro Nordest vale la regola contraria: nel senso che lì chiamano indifferentemente nell’uno e nell’altro modo i pesci conservati mediante entrambe le tecniche. Al massimo, nell’alta Emilia arrivano a specificare il pesce seccato all’aria con il nome di stocco.Va da sé, invece, che di oggetti diversi si tratta e soprattutto che con ciascuno di essi si producono pietanze affatto differenti. Pro-

li veneziane sparse per il mondo noto e ogni volta raccontarono meraviglie e mostrarono l’eccezionalità del baccalà. Quando tornò a Venezia il 12 ottobre del 1432, Querini si presentò al Maggior Consiglio della città per raccontare la sua avventura e le sue conquiste. Fu festeggiato e premiato per quel che aveva riportato in patria, e divenne un mercante ricco e solitario (nel naufragio sulla Manica aveva perso il fratello). Può sembrare incredibile, ma nel mondo il baccalà è stato introdotto dai veneziani, che dopo l’avventura di Pietro Querini presero a commerciare regolarmente lo stoccafisso. E impararono a cucinarlo a meraviglia, giacché il baccalà mantecato al-

la vicentina è una delle tante eccellenze italiane nella cucina mondiale. Ma se avete passione per queste storie, leggetevi il diario di Viaggio e naufragio di Piero Quirino, gentiluomo veneziano: lo pubblicò nel Cinquecento un erudito veneziano, Giovanni Battista Ramusio, nell’antologia Navigazioni e viaggi (è stata ristampata anche una ventina d’anni fa).

Riassumendo: dopo l’Unità d’Italia dei pasticci (di carne), dopo quella del baccalà norvegese, dopo quella dei maccheroni che Cavour e Vittorio Emanuele II mangiarono serviti in tavola da quel povero Garibaldi che s’erano scelti come cameriere personale, dopo l’Unità d’Italia del caffè dei combattenti, c’è l’Unità d’Italia del salame. E c’è poco da ridere perché non s’ha da fare alcun doppio senso sulla faccenda. Il salame è un topos dell’identità italiana. C’è paese in Italia, al Sud come al Nord, al mare o ai monti, che non abbia il suo precipuo salame? No. Anche perché il salame e i salumi insaccati in genere hanno quasi più sinonimi di Arlecchino. I quali, sia detto per i meno avvezzi, sono: Truffaldino,Trivellino, Tracagnino, Tortellino, Naccherino, Gradellino, Mezzettino, Polpettino, Nespolino, Bertoldino, Fagiuolino, Trappolino, Zaccagnino, Sior Pasquino, Tabarrino, Passerino, Bagatino, Bagolino, Temellino, Fagottino, Pedrolino, Frittellino, Tabacchino… (Come si vede, e sia detto tra parentesi perché sennò andiamo a finire chissà dove, per lo più si tratta di nomi che richiamano cibi: il mangiare è tipico di noialtri, sia che si abbiano i mezzi per soddisfare la fame sia che se ne abbiano anche per gustare eccessi sia che non se ne abbia alcunché e si campi in miseria. L’Unità d’Italia si fa a tavola, insomma, più di quanto si pensi). I sinonimi dei salumi? Vediamo: ciausculo, clabuscolo, finocchiona, lonza, lonzino, capocollo, soppressata, mortadella, prosciutto romano, ventricina, cacciatore, cacciatorina, salsiccia, sartizzu, corallina, coglioni di mulo, kaminwurzen, salamella… A ognuno il suo salame da spellare e affettare o da mangiare a morsi frettolosi. Ce n’è per ogni gusto: un’apoteosi di maiale grasso e magro che ha fatto scuola da noi italiani più di quanto sia accaduto altrove (o vogliamo confrontarci con gli insaccati affumicati, pesanti, irragionevolmente carichi di spezie di scuola germanica?). Al punto che come il maccherone ha un’epopea artistica tutta italiana («Tu m’hai provocato, e io me te magno!» dice Alberto Sordi in Un americano a Roma), come il caffè ha il suo tripudio poetico nel monologo di Questi fantasmi di Eduardo De Filippo, così anche il salame ha il suo monumento popolare: «Ho comprato i salamini e me ne vanto! Se qualcuno ci patisce che io canto, è inutile sparlar, è inutile ridir: sono un bel giovanottin, sono un augellin…». Per cantare tutto ciò Ettore Petrolini si presentava in scena con un’aria un po’ scema, un cappellino rovesciato, un fiocco troppo largo al collo e le scarpe sfondate da poveraccio. Sullo sfondo faceva sistemare un paesaggio pedemontano che poteva essere uno scorcio d’Alpi o del Vesuvio o dell’Etna. E in mano, appesa a un filo, agitava una fila di salsicce di pezza che ancora oggi a vederle (al museo del Burcardo di Roma, se vi capita…) fanno gola. Un antipasto d’Italia. Un antipasto dell’Italia che sempre più raramente poi ci riesce di cucinare e servire. Non solo in tavola.


Narrativa

MobyDICK

pagina 18 • 11 dicembre 2010

libri

Ian McEwan SOLAR Einaudi, 339 pagine, 20,00 euro

il più bel romanzo di Ian McEwan? Sicuramente sì, senza che questa affermazione sminuisca ciò che ha precedentemente scritto il narratore inglese. Se la letteratura ha come basilare fondamento il parlare degli altri «trasformandoci» in altri, ecco che McEwan tocca, con quest’opera, vette sublimi di immedesimazione. Narra dello scienziato nonché premio Nobel per la Fisica Michael Beard e diventa mister Beard. Qualche critico s’è gioiosamente stupito della «svolta comica» dell’autore. Errore: McEwan descrive le peripezie di un uomo goffo e complicato, e inevitabilmente nel registro narrativo include scene che possono far sorridere. Ma la comicità è per così dire sempre laterale, necessaria ma non asse portante. Il nucleo rimane drammatico, intensamente contorto, sfaccettato. Vediamo innanzitutto chi è il signor Beard. Di modesta statura, grassoccio, non bello. Pur con queste sconfortanti premesse è un gran seduttore: «Apparteneva a quella categoria di uomini - tendenzialmente spiacevoli, quasi sempre calvi, bassi, grassi, intelligenti - che, per ragioni misteriose, attraggono certe belle donne». Patrice è la sua quinta moglie, e lui si trova nel panni imbarazzanti del cornuto umiliato. A questo si deve aggiungere la stasi professionale: dopo il Nobel il suo cervello non smette di funzionare, ma nella pratica vive di rendita burocratica, in modo anche noioso. Il rivale è Tarpin, un muscoloso manovale. Tuttavia «il silenzioso epilogo del suo quinto matrimonio» non è affatto semplice perché entra in scena un giovane scienziato, suo allievo: pure lui s’infila nel letto matrimoniale, nella sua casa, nella sua vestaglia. Dopo una spedizione al Polo per studiare cause e rimedi della climatologia sull’orlo della catastrofe, Beard assiste alla morte violenta e accidentale del giovane amante di Patrice, bella e sfrontata come «una donna bella e assassina». Ma succede che il giovane fisico abbia scritto una pila di appunti sull’energia con particolare riguardo alla fotosintesi. Note di un pazzo o di un genio che ha fatto tesoro della lezione del maestro? Beard arriverà ad appropriarsene, dopo aver intuito che in quei fogli c’è un’intuizione di portata storica: come fornire all’umanità «energia pulita, perenne e rinnovabile». Si deve dire grazie al sole e all’idrogeno che piove sul pianeta Terra co-

È

Il bibliofilo

Solar la vetta di McEwan È il romanzo più bello dello scrittore inglese quello appena pubblicato in Italia. Dove si racconta delle ascese e delle cadute del fisico Beard di Pier Mario Fasanotti me una manna finora non sfruttata perché poco compresa. McEwan, con una documentazione e un’osservazione tra le più minuziose alle spalle, descrive il mondo scientifico e finanziario - ci deve essere sempre chi fornisce i denari per la realizzazione di un progetto così grandioso - senza tralasciare alcun aspetto, tra irritanti e rei-

terati idealismi e traffici di poco conto, tra invidie accademiche ed entusiasmi vulcanici. Beard diventa «un ladro» di idee e riacquista notorietà. Ma la sua vita privata si complica a dismisura: c’è l’assedio delle donne, c’è la sua incancellabile inclinazione a osservare qualsiasi donna come una possibilità e insieme una fantasia. Beard ha avuto una madre che per trent’anni s’è infilata in un famelico tunnel erotico. McEwan lo annota, senza azzardare quelle vischiose connessioni che la psicologia tende a evidenziare con superficiale automatismo. È un fatto e basta. Come d’altronde è un fatto «il fiato caldo del progresso». Come è un fatto che la sua mente «nelle decisioni cruciali potesse essere paragonata a un parlamento». La disordinata e vivacissima energia dell’universo è speculare al moto perpetuo delle sue pulsioni, al caos privato, al bellicoso dibattito tra le donne che ha conosciuto in passato e durante la sua fase di mondiale notorietà. Distratto in molte cose, Beard registra meticolosamente e automaticamente le minime ondulazioni dell’umanità che gli scorre davanti. Del resto, scrive l’autore, «la stupidità planetaria era il suo campo». Da altezze scientifiche stratosferiche Beard scende spesso nel tragicomico teatro delle piccole e grandi infedeltà, lui cornuto sdegnato ma anche bellamente fedifrago. Pur alle prese con equazioni difficilissime, Beard non riesce a risolvere la sua equazione personale, ci rimugina sopra, alla fine la teorizza pur costretto ad accettare un’immagine di sé che lo disgusta. Ma alla fine c’è un’onorevole via di salvezza? Una redenzione? Sarà una bambina, sua figlia, a donargli un fremito inusuale: «…percepì un turbamento insolito, una specie di groppo al petto, ma mentre spalancava le braccia ad accoglierla pensò che probabilmente nessuno gli avrebbe creduto se avesse cercato di spacciarlo per amore».

Autobiografia di una collezione privata

l 16 giugno è il compleanno della mia biblioteca». Così inizia il volume di Giuseppe Marcenaro dedicato ai Libri (Bruno Mondadori, 216 pagine, 17,00 euro), scritto da uno dei più importanti collezionisti italiani nonché autore di rilievo che ha al suo attivo numerose pubblicazioni, tra le quali ricordiamo Cimiteri, uscita un paio d’anni fa per i tipi dello stesso editore. Il riferimento è alla data del Bloomsday, il giorno del 1904 in cui si svolge, nell’arco di un’intera giornata, la vicenda rocambolesca dell’Ulysses di Joyce. La raccolta di saggi di Marcenaro si sviluppa intorno a una peculiare forma di collezionismo, in cui l’elemento affettivo o della curiosità, spesso commista a una sorta di esemplare casualità, è quanto mai presente. Non è un caso che l’autore conservi le carte trovate all’interno di volumi provenienti da altre biblioteche e che, intorno all’occasionale rinvenimento di una vecchia cartolina o di un «santino» longanesiano, imbastisca alcune delle pagine più avvincenti del libro. Essendo consapevole che «una biblioteca privata è anche l’autobiografia del suo proprietario», Marcenaro fa l’inventario degli esemplari più pregiati o cu-

«I

di Pasquale Di Palmo riosi della sua collezione, comprendente sia libri introvabili come la prima edizione della Saison en Enfer di Rimbaud, pubblicata a spese dell’autore (anzi dell’odiata madre) in un’oscura tipografia di Bruxelles nel 1873 sia titoli stravaganti, recuperati dall’oblio. Si ripercorrono così, con una buona dose di ironia, i momenti salienti di quella che l’autore stesso definisce una delle innumerevoli Storie di passioni, manie e infamie, come recita il sottotitolo, che caratterizzano le vicende legate alla bibliofilia. Raccontando tali vicissitudini lo scrittore ligure offre un anomalo ma esaustivo spaccato degli eventi che hanno segnato il percorso del libro: dagli incunaboli alla Bibbia di Gutenberg, dalle cinquecentine agli esemplari novecenteschi più rari. Marcenaro non si limita a descrivere gli aneddoti che sottendono una specifica pubblicazione, ma ci introduce, da par suo, in un mondo popolato dalla fauna antropomorfa più eccentrica: dai manuali di Bartolomeo Bosco, «il re dei prestigiatori e il prestigiatore dei re» che, nella prima metà dell’Ottocento, in-

È quella dello scrittore Giuseppe Marcenaro, che la racconta in una raccolta di saggi

cantò le corti di mezza Europa con le sue trovate illusionistiche all’Amphiorama di tal F.W.C. Trafford, scienziato svizzero che asserì, nell’eponima pubblicazione del 1874, di aver contemplato dalla cima della Castellana, «una delle ultime propaggini montagnose che, verso Portovenere, chiudono la baia della Spezia», alta appena 496 metri, nientemeno che gli opposti poli. Oltre a queste amenità Marcenaro passa in rassegna una serie di classici di cui enumera gli avvenimenti correlati a una determinata pubblicazione: dalla detenzione di de Sade conquistato dalla lettura del Petrarca alla figura eclettica di Giovanni Rasori, ispiratore del personaggio di Ferrante Palla nella Certosa di Parma stendhaliana, dalle vessazioni di Louise Colet nei confronti di Flaubert alla presa di distanza effettuata da Leopardi verso le opere «reazionarie» del padre, senza dimenticare la reclusione volontaria di Montaigne in una torre (in compagnia di cosa se non degli amati libri?). L’autore non disdegna poi di parlarci delle opere procuratesi per motivi affettivi, come l’acquisto, avvenuto nell’infanzia, del primo libro, dedicato alla vicenda del Titanic, che gli attirò gli strali dei familiari e che galleggia nella memoria «come un iceberg vagante, a indurci al privato naufragio nell’imbuto del nostro vissuto».


Religione

MobyDICK

11 dicembre 2010 • pagina 19

ALTRE LETTURE

NELL’INFERNO DEL GULAG CON VARLAM SALAMOV di Riccardo Paradisi

di Sergio Valzania

n tempi nei quali in molti si affannano a spiegare in forme diverse le ragioni per le quali non si deve fare affidamento su nessuna trascendenza, esce un libro molto agile che sostiene l’esatto contrario. Dio non esiste! Gli argomenti del nuovo ateismo di Gerhard Lohfink, edito da San Paolo (170 pagine, 14,00 euro), si impegna programmaticamente a smantellare le tesi della vulgata atea, per giungere infine a una conclusione inattesa ma molto profonda. Gli intenti dell’autore sono esposti in modo chiaro e conciso nell’introduzione, dove si legge che «questo libro intende mostrare come l’ateismo non sia un sistema scientificamente fondato, bensì poggi su supposizioni, congetture e pregiudizi privi di fondamento». La tesi centrale del testo consiste nell’affermare che l’ateismo moderno non va considerato come l’assenza di una fede, ma piuttosto come una fede concorrente con quella giudaicocristiana, una sua negazione, che nei tempi recenti si è fatta prima aggressiva e quindi oggettivamente offensiva, al punto da manifestarsi nella forma propria della bestemmia. A riprova viene proposto un testo a larga diffusione nel quale il Dio della Bibbia viene presentato nei termini di «un bulla misogino, omofobo, razzista, infanticida, genocida, figlicida, pestilenziale, megalomane, sadomasochista e maligno secondo il capriccio».

I

Lohfink organizza la sua argomentazione in otto capitoli, ciascuno dei quali è finalizzato a smontare, decostruire, una delle affermazioni abituali dell’ateismo contemporaneo. L’itinerario prende le mosse dal generale, per passare poi a un contenzioso più diretto, nel quale si respingono accuse diffuse e molto rozze, come quella citata prima, di solito basate sull’ignoranza dei testi da parte di chi le sostiene. Leggere un libro vecchio di duemilacinquecento anni come se si trattasse del giornale di oggi conduce il più delle volte a grosse incomprensioni. In questi casi diventa persino difficile distinguere la semplice, anche se colpevole, mancanza di strumenti filologici, esegetici e interpretativi dalla vera e propria malafede. Molto brillante risulta il primo capitolo di Lohfink, intitolato in modo provocatorio Dio nessuno l’ha mai visto, dunque non esiste. Il ragionamento si basa sull’analisi di quello che va considerato il paradigma fondamentale della scienza moderna, posto da Bacone e Galileo e in seguito stravolto nel suo significato da epigoni non all’altezza degli illustri predecessori. La scienza moderna nasce infatti rinunciando a una conoscenza complessiva del mondo per limitarsi allo studio di ciò che «si può contare e misurare». La scelta ha consentito di raggiungere risultati di immenso valore nel campo della fisica, della chimica, della biologia, della medicina, dell’astronomia, ma ha comportato una sorta di accecamento di quanti hanno perso la consapevolezza della sua origine e delle sue finalità. Così che «da una visione selettiva del mondo è scaturita una teoria complessiva della realtà», la quale non poteva che rivelarsi una forma di materialismo radicale. Dal riconoscimento del fatto che siamo in grado di contare e misurare solo materia ed energia si è voluto far di-

rima della discesa agli inferi della Kolyma, la sterminata distesa di ghiacci nella Siberia nordorientale dove il regime sovietico portò al massimo livello di efficienza il sistematico annientamento delle sue vittime, Varlam Salamov aveva già avuto modo di sperimentare l’orrore della repressione comunista: nel 1929 era stato condannato a scontare tre anni nel gulag della Visera, a nord degli Urali. All’inizio degli anni Settanta prende forma il racconto Visera (Adelphi, 233 pagine, 18,00 euro) che insieme a Kolyma costituisce il ditttico indispensabile per comprendere l’abiezione del gulag sovietico: la storia della sua nascita, la mentalità di chi li dirigeva, il meccanismo infernale utile a distruggere moralmente vittime e carnefici.

P

La ricerca di Dio in un quadro di van Gogh Gerhard Lohfink mostra come l’ateismo non sia un sistema scientifico bensì poggi su congetture e pregiudizi privi di fondamento. Ma riconosce anche che l’aspetto autentico del suo radicalismo lo accomuna alla fede cristiana scendere la conseguenza arbitraria che solo energia e materia esistono. Nonostante le evidenza contrarie siano sotto gli occhi di tutti. A dimostrazione del suo assunto Lohfink propone di prendere in considerazione un quadro di Van Gogh. La sua analisi in termini fisici e chimici ci permette di descrivere i materiali che lo compongono fin nelle loro basi sub atomiche, la ricerca storica lo può collocare nel contesto culturale nel quale è stato dipinto, fino a fornirci una datazione puntuale della sua esecuzione. Siamo in grado di ricostruire il pensiero dell’autore al suo riguardo e quello dei contemporanei.Tutto ciò però non ci dice niente del fenomeno artistico, ossia proprio della ragione che ci spinge a interessarci di quel quadro e di quell’autore, invece di uno dei molti altri quadri e autori che pure esistono e che rimangono sullo stesso piano di fronte a un’analisi meramente scientifico-materialista. Da ciò discende che «se le scienze naturali non possono cogliere il senso di un quadro, non possono neppure percepire il senso del mondo». In questo contesto di ricerca del senso del mondo la religione, e quella cristiana in particolare, può vantare un’esperienza millenaria nella ricerca di Dio, condotta con i mezzi propri di questa attività, la preghiera e la meditazione, che sono per forza diversi da quelli della scienza. Perciò attribuire a tale esperienza di Dio la qualità di conoscenza autentica non tradisce la scienza ma nega esclusivamente «la pretesa monopolistica che la vera conoscenza avvenga solamente là dove si calcola e si misura». L’esito di questo riduttivismo gnoseologico consiste in una diminutio antropologica. L’uomo anziché essere senziente si riduce a essere misuratore e

calcolatore. Il ragionamento di Lohfink prosegue affrontando i temi classici dell’antireligiosità, dalla tesi feuerbachiana che vuole Dio semplice proiezione dell’uomo, alla teoria in base alla quale le scoperte dell’evoluzionismo si contrappongono alla rivelazione biblica, fino al grande argomento che i cristiani definiscono come il mistero del dolore. Ma la sofferenza del mondo è un tema così profondo che non può essere affrontato in termini di pura razionalità, merita allo stesso tempo un rispetto silenzioso, un atteggiamento di compassione, nel senso letterale di coinvolgimento, fino al semplice sussurrare delle ipotesi di una sua spiegazione in relazione al peccato e alla libertà.

Il dolore del mondo trova forse la sua radice nel distacco della Creazione dal Creatore, che secondo i cristiani si rimargina nella passione di Cristo, nel sacrificio di Dio che muore per riscattare il mondo creato libero di rifiutarlo. Di fronte al dolore e alla morte il credente non dispone di una spiegazione ultima e proprio questo, sostiene Lohfink nella parte conclusiva del libro, lo avvicina alle posizioni dell’ateismo posto nella sua forma più coerente, non competitiva con le motivazioni e le esperienze del credente, ma capace di condividerne, da un altro punto di vista, le tensioni. «Tra la fede cristiana e l’ateismo autentico, che pone interrogativi radicali ed è al contempo tormentato, vi sono molti punti in comune».Tanto che Lohfink cita Michail Bachtin quando sostiene che «la fede vive al confine con l’ateismo, lo guarda e lo comprende», fino a concludere che «il vero credente comprende l’ateo perché anche lui è un critico delle religioni» dato che «il vero pericolo per la fede sta nell’indifferenza, la tiepidezza, la pigrizia intellettuale, l’arroganza: dall’interno come dall’esterno».

QUANDO L’EUROPA ERA UNA POTENZA *****

Q

uali sono le radici del predominio europeo nella storia mondiale? Rovesciando la prospettiva eurocentrica a lungo egemone negli studi storici, Jack Goldstone in Perché l’Europa? (Il Mulino, 248 pagine, 23,00 euro) utilizza la più recente storiografia internazionale per smentire la visione di uno sviluppo della civiltà che dalle origini greco-latine avrebbe acquisito una dimensione mondiale in forza dell’espansione europea. Il saggio dimostra la superiorità economica e culturale dell’Asia rispetto all’Europa fino a tutta l’età moderna e quindi illustra l’emergere, a partire dal Settecento, del divario tecnicoscientifico ed economico che, innescando la rivoluzione industriale in Gran Bretagna, sostenne l’ascesa dell’Europa e l’affermarsi del primato dell’Occidente.

IL MARTIRE DI SOLIDARNOSC *****

Europa dimentica in fretta i suoi martiri anche se non è facile dimenticare Jerzy Popieluszko, il sacerdote polacco vicino a Solidarnosc che pagò con la vita la sua battaglia per la libertà e la verità. Milena Kindziuk nella biografia dedicata a Popieluszko (San Paolo edizioni, 362 pagine, 26,00 euro) ripercorre i ricordi diretti delle persone che hanno conosciuto il sacerdote negli anni del suo ministero a Varsavia e della vicinanza a Solidarnosc. Il libro della giornalista polacca rappresenta il tentativo di invitare il lettore a compiere un viaggio attraverso la buona battaglia di Popieluszko, dall’apostolato svolto presso i lavoratori durante la rivolta anticomunista degli anni Ottanta alle sue messe per la Patria.

L’


pagina 20 • 11 dicembre 2010

di Enrica Rosso rguto, beffardo, commovente, disincantato, elegante, fervente, gentile e generoso… Si potrebbe comporre e scomporre così, per descriverlo, tutto l’alfabeto, giocando con le parole, come lui egregiamente sa fare, senza tema di restare a bocca asciutta. Mario Scaccia, un grande, 91 anni a Natale - una settantina dei quali dedicati al teatro - in scena al Teatro Arcobaleno di Roma in Interpretando la mia vita tratto dall’omonimo libro (che sottotitola: Il mio teatro, i miei personaggi, la mia storia, Paolo Emilio Persiani Editore, 144 pagine, 14,90 euro). Lo scopriamo in proscenio già accomodato su di una semplice poltroncina da teatro, elegantissimo nel dire e nel fare, a ripercorrere con noi la sua straordinaria avventura artistica inestricabile da quella umana. Non il rimembrare vacuo delle magistrali interpretazioni di cui è costellata la sua vita, ma il racconto, sempre ironico, di un mondo sconosciuto ai più, il pass per l’ingresso degli artisti a cui è dato accesso agli spettatori che possono quindi coinvolgersi con le personalità più significative del teatro del Novecento con i loro vezzi e vizzi: Anton Giulio Bragaglia che dirigeva smoccolando dalla galleria e che Anna Magnani mise a posto in un batter di ciglia; Paola Borboni, grande amica, celebre per le sue attitudini nudiste che cercò di coinvolgerlo in una vendetta ai danni dell’ex amante Salvo Randone, Memo Benassi, Federico Fellini, Eduardo De Filippo che gli cedeva il camerino del direttore, a lui e solo a lui, quando lo ospitava a Napoli nel suo teatro, il San Ferdinando e che gli scrisse una commedia (purtroppo mai rappresentata perché incompiuta).Tutti ricordati con stima e affetto, mai

A

Danza

Teatro Mario Scaccia, MobyDICK

spettacoli

ricordi

di un mattatore

svillaneggiati, compresi e colti come esempi di personalità forti che si davano pienamente al mestiere dell’attore, senza perdere mai smalto. Racconta anche di sé, naturalmente. Edoardo Sala, memoria storica di Scaccia (avendo con lui condiviso decenni di avventure artistiche) oltre che attore, drammaturgo e as-

semblatore della serata, lo stimola nella narrazione. «L’allievo storico» richiama alla mente un percorso, cita aneddoti, prepara i passaggi, con grazia e tangibile affetto; il Maestro non perde un colpo e ci apre il suo scrigno di ricordi snocciolando, con la classe che lo contraddistingue, i dietro le quinte di amici e colleghi da cui si evince a tutt’oggi un attaccamento, un rispetto, un amore profondo per il teatro, che sono alla base dell’espressione artistica, a dispetto dei tanti orribili esempi di sciatteria presupponente e squallida di troppi pseudo attori che abitano la scena contemporanea. Al proposito cito: «Ognuno sta solo nel vasto teatro/ trafitto dal grido di un guitto./ Ed è subito tedio», una composizione tratta dall’Antologia rifatta firmata da Scaccia e pubblicata da Trevi nell’81. A tratti frammenti di interpretazioni memorabili recuperate dalle Teche Rai vengono proiettate sullo schermo alle loro spalle ed entrano in scena Shylock e Petrolini. A conclusione della serata, Mario Scaccia, con incedere lento, poggiandosi al bastone, ma dritto come un fuso, guadagna il cuore della scena, si illumina e ci restituisce vivi attraverso i loro versi, Pascoli, Montale,Trilussa e Belli. Giovani attori: andate e imparate.

Mario Scaccia - Interpretando la mia vita, Roma, Teatro Arcobaleno, fino al 19 dicembre, info: www.teatroarcobaleno.it tel. 06 44248154

DVD

TRA NAPOLI E MILANO L’HEIMAT DI SALVATORES na specie di Heimat all’italiana, un serial di storia patria vista attraverso gli occhi di un ragazzo e lo stile di un nuovo format tv». Nelle parole di Gabriele Salvatores, napoletano cresciuto a Milano, c’è il cuore pulsante di 1960, bel documentario costruito dal regista di Nirvana attraverso materiali di repertorio. Interpolati con l’Italia del boom, i frammenti di realtà si alternano alla storia di due fratelli distanti, in un costante andirivieni tra storia privata, immaginario collettivo e mutamenti sociali. Salvatores rilegge lo stile documentario con la consueta cifra sperimentale: promosso a pieni voti.

«U

DIRETTA TV

TRENT’ANNI DOPO FRATE CIONFOLI rent’anni dopo frate Cionfoli, sbarcano in Italia dalla Francia Les Pretes, un trio religioso che ha già all’attivo mezzo milione di copie vendute, parecchi sold out, e un posto stabile nella top 50 degli album più venduti all’estero. Spiritus Dei, loro album d’esordio, nasce dalla necessità di raccogliere fondi per costruire una chiesa e aiutare una scuola in Madagascar. I 16 brani scelti per il pubblico italiano vantano una doppia versione in italiano e in latino. Chi è curioso potrà ammirarli il 24 dicembre, quando canteranno in diretta in occasione della veglia natalizia di Raidue.

T

di Francesco Lo Dico

Sul palco dell’Opera, la Carmen e l’Arlésienne di Petit on un significativo anticipo rispetto agli anni precedenti, mercoledì 22 dicembre il Teatro dell’Opera di Roma apre la sua stagione di balletti. Per lo spettacolo inaugurale, il teatro capitolino è tornato a interpellare una firma del balletto novecentesco: Roland Petit, dedicandogli una serata a tema in un allestimento in collaborazione con il Teatro alla Scala di Milano. Le serate monotematiche dedicate al grande coreografo sono oramai un classico nei nostri teatri stabili; il sicuro successo del segno del maestro francese lo ha reso particolarmente appetibile e la programmazione natalizia del Teatro dell’Opera appare una scelta culturale ben ponderata che si propone ai ballettofili come una valida alternativa al tradizionale Schiaccianoci. Con la Serata Roland Petit, il Teatro dell’Opera di Roma riporta dunque in scena la fortunata Serata Petit scaligera del 2008. La triade originale è

C

di Diana Del Monte stata tristemente privata del capolavoro nato dalla collaborazione di Petit con Jean Cocteau, Le jeune homme et la Mort, interpretato dal divo della danza Roberto Bolle, per un nuovo programma che lascia il palcoscenico romano in balia di due donne dal carisma prepotente e fatale: Carmen e L’Arlésienne, entrambe accompagnate dalla musica di Bizet.Tratto da un’opera di Alphonse Daudet, L’Arlésienne di Petit ricalca la trama originale del racconto non mo-

strando mai la figura della donna di Arlés; nonostante ciò, la sua influenza su Frederi, il giovane protagonista prossimo alle nozze con la compagna d’infanzia Vivette, è resa in maniera quasi tangibile nella coreografia. Petit rielabora per la sfortunata coppia l’idea del passo a due andando in direzione opposta alla concezione romantica; l’utilizzo dello sguardo di Frederi, sempre più frequentemente perso nel vuoto, e dei disequilibri di Vivette, ultimi disperati tentativi della ragazza di trattenere lo sfuggente fidanzato, trasformano l’emblema della danza d’amore, il pas de deux appunto, in un addio unilateralmente provocato, straziante e indifferente allo stesso tempo. Lapalissiana, in questa coreografia del 1974, l’evocazione del lavoro dei fratelli Nijinskij; se la scelta del bianco e nero per i costumi, con l’utilizzo dell’abbigliamento tradizionale pro-

venzale, sembra quasi una citazione di Les Noces della Nijinskaja, non meno meditati appaiono i richiami al rito nijinskiano del 1913 nei movimenti d’insieme, nelle pose collettive e nell’utilizzo dell’en-dedan. L’apertura della stagione del Teatro dell’Opera punta sul debutto di Eleonora Abbagnato e Ivan Vasiliev sul palco romano. Entrambi impegnati nell’Arlesienne, ma in serate diverse, i due ballerini hanno da tempo nel loro repertorio i due ruoli dei protagonisti; la figura delicata della Abbagnato è certamente vincente in ruoli come quello di Vivette e Vasiliev (omonimo del grande danzatore del passato) è già stato acclamato come il nuovo Nureyev. Interessante notare anche la conferma dell’interprete di Carmen, Polina Semionova, che due anni fa non convinse appieno il pubblico e la critica. La splendida ballerina russa, in realtà, riporta sul palco quella lettura un po’ androgina della sigaraia di Siviglia voluta proprio da Petit che, nel 1949, scelse come prima interprete della sua Carmen la futura moglie Zizi Jeanmaire.


MobyDICK

poesia

11 dicembre 2010 • pagina 21

Il tutto in poche, scarne parole L

Kavafis rientrò definitivamente nella sua terra d’origine, ad Atene, nel 1907, con alle spalle pochi testi pubblicati, 14 in una plaquette datata 1905, e vi visse inseguito dai fantasmi di una vita affettiva turbolenta, nono e ultimo figlio di una famiglia falcidiata dalla morte ancor prima di lasciare l’Egitto; inseguito da una omosessualità sempre più psicologicamente traumatica; e vi visse tra una notorietà internazionale consegnatagli da un saggio di E.M. Forster e una polemica divampata all’alba del 1919 tra letterati alessandrini e ateniesi che lo consumò fino alla fine, sopraggiunta per un cancro alla gola nel 1933, un anno dopo la visita di Ungaretti a quell’amato poeta che nonostante il grave malanno «altro non continuava ad avere, negli occhi e nei gesti, se non forme bellissime di luce». Nel panorama della poesia del Novecento l’opera di Kavafis occupa certamente un posto particolare. Cupo, solitario fino all’autosegregazione, ma allo stesso tempo attratto dalla vitalità e dalla solarità mediterranea, il poeta neoellenico rifiuta in blocco ogni aspetto del suo tempo, tuffandosi invece, con estasiata meraviglia, nelle suggestioni delle leggende mitologiche e della storia antica. Con le sue liriche ricrea il mondo ellenistico pagano-cristiano

il club di calliope

Voci ideali e amate di quanti sono morti, di quanti sono per noi perduti come i morti. A volte ci parlano nei sogni, a volte le ode la mente tra i pensieri.

di Francesco Napoli a sorte ha voluto che Konstandìnos Kavafis nascesse ad Alessandria d’Egitto, nel 1863, venticinque anni prima di Giuseppe Ungaretti che lo ricorda, in un saggio del 1957, in quanto gli «furono d’insegnamento ineguagliabile le conversazioni con lui, per il quale non aveva segreti la sua lingua nel trimillenario mutarsi e permanere». Così si può autorevolmente sfatare il mito di un poeta che, come gli altri grandi neoellenici Solomòs, Kalvos e Palamàs, avrebbe avuto nella tardiva acquisizione della propria lingua d’origine una tara espressiva mai colmata. Un attento vaglio linguistico ancora da compiersi metterebbe di sicuro in luce che per Kavafis e i suoi compagni di poetica sia il contenuto a influenzare l’espressione e quindi: via inutili purismi e uso di voci che apparirebbero assurde fuori dal loro contesto mentre risaltano nel tessuto di una poesia di ungarettiana ineguagliabile forza.

VOCI

dell’antica Alessandria nella sua pienezza, traendone in continuazione simboli e motivi. Gli esiti di questa operazione letteraria sono Col loro suono riemergono un istante la continua, disperata ricerca di una bellezza suoni della poesia prima della vita misteriosa e inafferrabile, un’evocazione di attimi nascosti e di amori cantati ora con accome di notte una musica che centi violentemente sensuali ora accorati e nostalgici, mescolati a una tragica visione in lontananza muore. della storia intesa come eterno scontro tra gli uomini e il destino. Nelle sue poesie campeggiano uomini e donne con i loro sentimenti, i Konstandìnos Kavafis loro dilemmi, la loro umana pietà. La bellez(in Poeti greci del Novecento za delle sue liriche è stupefacente: con poche, scarne parole Kavafis sa evocare tutto traduzione di Nicola Crocetti) un mondo tumultuoso. La sua cultura polisemica ha forse origine dalla consapevolezza che era la storia greca, oltre alla lingua e alla religione, a unire le comunità elleniche della diaspora. Egli frequentava unicamente ambienti mattine d’estate, mercati fenici in cui si commerciano greci, anche nei pochi anni vissuti tra Inghilterra e Istan- madreperle di corallo, di ebano, d’ambra, ma, naturalbul, quasi a non volersi mai allontanare dal mondo ori- mente, il nostos per cui «Itaca tieni sempre nella mente./ ginario. Riconosceva alla comune storia il valore di lega- La tua sorte ti segna quell’approdo»; riattizzando così me che univa tutti i suoi connazionali anche fuori della con nitida linearità il fuoco di un mito risvegliatosi con madrepatria. Sul tema della morte, centrale nella prepotenza nell’Occidente letterario novecentesco. sua poesia («Voci ideali e amate/ di quanti sono morti»), è famosa la lirica Nel mese di In Italia a cominciare dal 1919 si venne a conoscenza Athyr dove Kavafis tenta di decifrare la della sua opera, con qualche poesia mal tradotta, e di lui pietra tombale di un giovane cristiano scrissero Marinetti e, tempo dopo, Ungaretti, Montale, morto ad Alessandria, forse in epoca bi- Caproni. Alfonso Gatto, che lo lesse costantemente, gli zantina. Dalle poche parole che egli rie- dedicò versi nella sua postuma Desinenze, notandone al sce a leggere faticosamente comprende contempo «l’amara lentezza dello sguardo» e «la sagche il giovane fu molto amato. In questa gezza pigra dell’amore». Oggi l’assidua opera critica, ed come in altre liriche l’emozione non ha editoriale, di Nicola Crocetti e Filippomaria Pontani è alcuna mediazione: il solo fatto che il sfociata in un importante quadro d’assieme, Poeti greci defunto fosse giovane e molto amato del Novecento (Mondadori, CIII-1896 pp., 65,00 euro) crea un coinvolgimento emotivo e con- nella prestigiosa collezione dei Meridiani. Primus inter trappone in timide parole il conflitto di pares, i curatori avvertono con forza critica la necessità sempre tra Eros e Thanatos («A me pare di collocare un po’a sé Kavafis, per le sue caratteristiche che Lucio molto diletto fu./ E nel mese di poetiche, certo, ma perché evidentemente la sua opera Athyr Lucio s’addormentò»). La poesia, lineare sta stretta in un qualsivoglia tratteggio delle direttrici nella sua perfezione stilistica, è tra le più ricordate della storia della poesia neogreca del Novecento. E handel poeta e sembra fare il pari con Itaca dove Kavafis no buone ragioni per far questo, perché senz’altro Kavasembra quasi conversare con il grande eroe omerico, sol- fis è «esponente più noto e originale» tra i cosiddetti poelecitando il nobile interlocutore a un rapido ritorno all’i- ti-vati neoellenici e, dunque, «non si lascia inquadrare in sola ed evocando, con lucentezza tutta mediterranea, alcun disegno evolutivo o schema classificatorio».

Amore o come ti deve chiamare uno che ha sul petto collane di lune ubriache e che crede che Dio esista solo se con te sotto i portici delle albe si vede… *** L’amore non ha contrari, nemmeno l’infelicità. Nemmeno gli occhi spenti, amari di luce affranta L’amore sempre, sempre sanguina e canta Davide Rondoni

IL DESTINO DI UN MAESTRO DELL’ANIMA in libreria

di Loretto Rafanelli

Rita Stilli scrive di Roberto Carifi: «È poeta non soltanto per talento, per genio, o per semplice grandezza, ma per destino». Meglio, pensiamo, non si poteva dire dell’autore pistoiese, poeta a noi particolarmente caro, e da considerare, con assoluta obbiettività, tra i maggiori della poesia italiana di oggi. Questo e molte altre cose la Stilli le dice in un libro (Roberto Carifi. La compassione e il pensiero, Edizioni Baba Jaga, 15,00 euro) che non possiamo considerare un saggio critico, come l’autrice peraltro afferma, o una biografia, per quanto romanzata, neppure una mappa, una guida, ma solo una intima, emozionata, adesione a una vita, a una poesia consegnata a chi «è toccato in sorte di essere prescelto fra coloro che hanno qualcosa da dire, qualcosa che non è stato mai detto, che non lo sarà mai più». Carifi è una figura rara che congiunge in sé non solo il dono del verso, ma pure la profondità del pensiero filosofico e la Stilli ritiene che egli sia «il seme di questo nostro tempo», un tempo orfano, e lui, orfano per eccellenza, nella sua «mancanza di appartenenza a qualsivoglia classificazione», ci appare come un grande maestro dell’anima, in grado di raggiungerci e di parlarci, dall’alto di un pensiero caritativo, quello della poesia.


Personaggi

pagina 22 • 11 dicembre 2010

a gli occhi tipici di colui «che ha visto», per usare un’espressione cara agli sciamani. Nessuno gli darebbe i 77 anni che ha. Il suo carisma è evidente, tuttavia lo è anche la sua umiltà benché negli Stati Uniti, dove vive e opera da ormai quant’anni, Stanislav Grof sia una star indiscussa, un personaggio estremamente popolare grazie ai suoi fortunatissimi libri, alle sue affollatissime conferenze e alle sue rare, e seguitissime, apparizioni televisive. Questo singolare psichiatra e filosofo - fondatore assieme a Ken Willberg della psicologia transpersonale, una scuola di pensiero che pone al centro della sua ricerca e della terapia la «quarta dimensione» (il Sé per dirla all’orientale o l’anima per dirla all’occidentale) -, grazie alla sintesi tra scienza e spiritualità, nonché alla rara capacità di rendere chiari concetti e visioni tutt’altro che semplici, è riuscito a influenzare profondamente la mentalità di tantissimi americani (e non solo). Nel suo ultimo libro uscito negli Stati Uniti (già pubblicato in altri Paesi, ma non in Italia), When The Impossible Happens: Adventures In Non-Ordinary Reality (Quando si verifica l’impossibile.Viaggio alla scoperta di realtà straordinarie), un titolo che è tutto un programma, Grof fa il punto su un cinquantennio di ricerche sulla coscienza offrendo una panoramica di fenomeni puntualmente documentati capaci di sconvolgere l’abituale visione della realtà.

H

MobyDICK

ai confini della realtà

Grof,

il nocchiere dell’aldilà

«Da giovane ricercatore ceco - ci ha racconta in occasione di un nostro incontro a Milano - sono stato formato a una rigida visione materialistica della vita e del cosmo. Poi qualcosa è cambiato. Tutto cominciò con le sperimentazioni sulle sostanze allucinogene (Lsd e dintorni), a proposito delle quali colleghi statunitensi mi riferivano novità strabilianti. Così decisi di studiare a fondo l’argomento: con i membri della mia équipe cominciai ad assumere le sostanze che poi, sulla base dei risultati, cominciammo a somministrare ai pazienti». E qui la prima delle due grandi sorprese proveniente dal regno del cosiddetto alterated state of consciousness (stato straodinario di coscienza). Normalmente noi viviamo in una dimensione di «coscienza ordinaria», ossia percepiamo una porzione estremamente limitata della realtà. Grof e i suoi collaboratori si accorsero invece di vivere esperienze che solo in seguito rivelarono la loro portata... Esperienze mistiche e «medianiche» caratterizzate da una fortissima gioia, da uno stato di coscienza che potremmo definire estatico. «Non abbiamo fatto altro che constatare due dati di fatto - spiega Grof - davanti ai quali non potevamo chiudere gli occhi.Innanzitutto, i numerosi riscontri oggettivi di tante esperienze di questo genere... Fra i tantissimi episodi mi colpì in particolare il caso della moglie di un mio carissimo amico e collega morto improvvisamente,

di Marino Parodi che si sottopose a una delle nostre sedute allo scopo di elaborare il lutto. In realtà stabilì un contatto con il marito che si sarebbe potuto interpretare come una fantasia o una proiezione della donna se non fosse che ella ricevette da lui una serie di informazioni, di natura pratica e professionale, a lei del tutto sconosciute, con tanto di dati e cifre.Verificammo subito e constatammo che era tutto esatto! Questo è soltanto uno dei tanti episodi ma è stato possibile un’infinità di volte constatare l’assoluta veridicità delle informazioni ottenute nel corso di questi “viaggi nelle dimensioni superiori”. Penso ad esempio alle descrizioni della vita degli antenati,

nitiva la teoria di Grof? Alla base dell’universo vi è una Intelligenza che tutto sovrasta e ingloba. La natura dell’essere umano è fondamentalmente spirituale e certo la coscienza (o se si preferisce l’anima), la quale coincide con il nucleo più profondo e autentico del nostro essere, non finisce con la morte che altro non è che il passaggio verso nuove dimensioni. Del resto la sopravvivenza della coscienza alla morte fisica è una realtà ampiamente supportata da un altro campo di ricerca che negli ultimi decenni ha compiuto passi da gigante: gli studi sulle Nde (Near Death Experiences), ovvero sui cosiddetti risuscitati. I pazienti reduci dal

Psichiatra e filosofo, negli Stati Uniti è una star indiscussa, capace di guidare anche i più scettici, attraverso le sue terapie, in viaggi alla scoperta di straordinarie realtà, veri e propri incontri ravvicinati con l’altro mondo. Quello della vita dopo la morte... esattissime sul piano storico, antropologico, quasi provvenissero da una telecronaca di un viaggio nel tempo. La seconda prova dell’importanza di tali esperienze consiste nel loro valore terapeutico: in tempi estremamente rapidi tanti pazienti, attraverso questo tipo di sedute guarirono da forme patologiche assai gravi, spesso considerate addirittura inguaribili». Grof e i suoi collaboratori hanno anche constatato - e siamo alla seconda sorpresa - che la sostanza stupefacente non è di per sé necessaria perché le esperienze che si verificavano non erano un prodotto del Lsd o di altre sostanze che fungevano solo da catalizzatori. Gli stessi risultati si potevano raggiungere per via «naturale», attraverso tecniche di meditazione «olotropiche», ossia basate sul respiro, di millenaria provenienza indiana. Così le sostanze allucinogene sono state sostituite da tecniche di meditazione, sia per gli scopi terapeutici che per la ricerca. Ma qual è in defi-

Nde si sono rivelati spesso in grado di riferire fatti verificatisi durante il loro stato di coma o d’incoscienza. Il paziente, indipendentemente dalle sue idee precedenti - poco importa se prima credesse nella vita dopo la morte - è convinto di essere stato nell’aldilà e ciò lo induce spesso a una

visione spirituale della propria esistenza, il che si rivela estremamente significativo anche sotto il profilo terapeutico. Tutte le esperienze di Nde dimostrano l’indipendenza della coscienza rispetto al corpo e alla materia. «Sono tante le scoperte scientifiche - spiega Grof - che vanno in questa direzione, al punto da rendere evidente la totale inadeguatezza e inconsistenza del modello materialistico a cui si ispirava la vecchia scienza. Esplorando gl’immensi sentieri della coscienza, diventa sempre più evidente che la materia non è che uno strato, una delle tante dimensioni, assai più fragile e inconsistente rispetto allo spirito. La spiritualità indiana, che insegna a sollevare il velo di Maja, ovvero ad andare al di là delle apparenze ingannevoli dei cinque sensi, dimostra di avere da vari millenni le idee ben chiare in proposito. Ma anche tradizioni spirituali di altra provenienza - il buddismo zen, lo sciamanesimo, la mistica cristiana - possono essere di supporto in questo percorso. A sostenere ulteriormente questa visione interviene la sincronicità, cavallo di battaglia della riflessione di Carl Gustav Jung. Potremmo definire la sincronicità come il modo in cui la mente divina interagisce con le nostre esistenze: si tratta di quelle “misteriose” e “apparenti” coincidenze, le quali stanno a indicare come nell’immenso gioco cosmico a ciascuno di noi spetti una parte importante e insostituibile».

Questa visione spirituale-scientifica è accessibile a tutti. Non si tratta infatti di «parapsicologia» - scienza nata alla metà dell’Ottocento che ha fatto da apripista in un’epoca in cui si brancolava nel buio circa le potenzialità della coscienza. In quell’ambito si pensava che le facoltà «paranormali», ossia situate al di là delle normali potenzialità della mente, fossero limitate a una categoria assai ristretta di individui. Secondo Grof invece la nostra coscienza, proprio poiché siamo esseri spirituali, è per sua natura dotata di richissime potenzialità le quali sono a disposizione di tutti gli esseri umani. Il problema è scoprirle, divetarne consapevoli e valorizzarle. Psicologia, biologia, fisica e medicina, almeno per quanto riguarda i ricercatori più aperti, stanno ormai inglobando in misura sempre maggiore ciò che una volta era considerato il campo della vecchia parapsicologia. La conclusione di Grof è che «attraverso questo percorso è possibile non solo ampliare la conoscenza di quel regno meraviglioso e infinito che è la coscienza umana, ma anche guarire da ogni dolore e sofferenza: il potenziale terapeutico presente nel profondo di ciascuno di noi è immenso e ancora tutto da scoprire».


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.