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mobydick

SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

di Anselma Dell’Olio

CHRISTMASCOPE I film di Natale

ome faremo a digerire le abbuffate di leccornie, regali e parenti senza l’aiuto di un buon film? Per fortuna l’offerta è ampia, l’annata è buona, e di seguito troverete la selezione fatta tra i diversi settori d’interesse: per bambini, per adulti, per tutti. Cominciamo con quelli adatti ai piccoli, com’è giusto per la stagione a misura dei lillipuziani e di genitori in disperato bisogno di una tregua. Bolt, film in animazione digitale della Disney, è la storia di un cane dello stesso nome, identificato come «pastore bianSpassosi co americano» nel anche per pressbook, razza

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gli adulti “Bolt” e “Madagascar 2” destinati ai bambini. Bello il racconto di formazione “Stella” e “La felicità porta fortuna” è una commedia di qualità per tutti. Mentre “Il giardino dei a noi sconosciuta. Bolt (signifilimoni”…

ca saetta, e il cane ne ha una stampata sul fianco) è l’inconsapevole star di una serie televisiva, in cui ogni settimana deve salvare la sua padroncina Penny da un Uomo Cattivo, e ci riesce sempre grazie ai suoi superpoteri, dovuti a un’immaginaria manipolazione fantascientifica. Modificazione genetica a parte, la storia ricorda Truman Show, in cui il protagonista (Jim Carrey) non sa che la sua intera vita è un reality show, trasmesso in tempo reale a un vasto pubblico. Quando per un incidente di percorso, Bolt finisce lontano dagli studi televisivi dove ha sempre vissuto, è convinto che deve salvare Penny da un rapimento. Lungo la strada del ritorno incontra una gatta e un criceto dentro un globo di perspex che gli fanno da spalla e da ciceroni, nel rude e progressivo risveglio alla consapevolezza di essere un cane normale. Non appartiene alla categoria del capolavoro, come Wall-e e Nemo, ma il film è esuberante e spiritoso (tocca il sublime con il coro greco di diversi gruppi di piccioni) e divertirà i piccoli senza annoiare gli adulti. Il doppiaggio italiano, come sempre, è molto meno caratterizzato e spassoso dell’originale, ma non è una novità. Nel film d’animazione della Dreamworks, Madagascar 2, continuano le pazzoidi, meravigliose, esilaranti avventure degli animali selvatici fuggiti in Africa dallo zoo di New York.

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9 771827 881301

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ISSN 1827-8817

Parola chiave Parigi di Gennaro Malgieri Byrne & Eno coppia vincente di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Il Presepe di Turoldo di Francesco Napoli

Notizie dalla base di Babbo Natale di Dianora Citi Il volo di Mussapi sulle ali dell’Albatro di Pier Mario Fasanotti

Viola & Bellini visione incrociate di Marco Vallora


christmascope

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segue dalla prima

occasione per litigi, regolamento di conti, avventure inaspettate, incontri freschi e affetti rinnovati o trovati forse per la prima volta. Un ensemble d’attori che rasenta la perfezione, con menzione speciale per Mathieu Amalric (Henri) e Emmanuelle Devos (Faunia). Si può portare la famiglia: i bambini (e non solo) si divertiranno con i fratellini Baptiste e Benjamin (Thomas e Clément Obled) e la loro recita natalizia. Il regista Arnaud Desplechin è nato e cresciuto a Roubaix, la città tessile dove il film è ambientato. Anche di The Milionaire di Danny Boyle s’è già scritto. È una delizia, molto adatto alla stagione: colorato, avventuroso, rutilante. Non toglie nulla al divertimento il fatto che il film sia zeppo di avvenimenti piuttosto prevedibili. Come le fiabe, come i sempre uguali film di Bollywood, giova ripetere la liturgia appagante di un povero chai wallah (inserviente del tè) perseguitato, sfruttato, umiliato, torturato, che dopo pericolose avventure conquista fama, denaro e la donna amata e persa. E lo fa rispondendo a tutte le domande di Chi vuol essere milionario in versione indiana. Ogni domanda è lo spunto per un ritorno al passato che illumina gli eventi che hanno permesso a un orfano cresciuto per strada e senza istruzione di conoscere la risposta corretta. Vale il viaggio per la perfetta realizzazione e lo splendore della città di Mumbai, che dopo gli attentati di novembre è già tornata alla vitalità brulicante che si vede nel film, e per il ballo finale a Victoria Terminus, la stazione centrale.

Se la parte del leone è letteralmente e metaforicamente di Alex (il re della giungla ballerino riunito con i suoi genitori), centrali al divertimento sono i personaggi di contorno: non solo Gloria l’ippopotamo rubacuori, Melman la giraffa innamorata e Marty la zebra baraccone, ma il demenziale lemure «re Julien» (chissà chi avrà rimpiazzato la voce dell’insostituibile Sacha Baron Cohen nella versione italiana) e una fantastica, geniale coorte di pinguini aviatori, scimpanzè geniali e altri compagni di viaggio che divertono e intrattengono molto più del protagonista e del primo film. Vale più di una visita. Stella è un film per tutti, grazie all’annullamento del divieto ai minori di 14 anni del debutto. È la storia di una bambina di 11 anni che vive in un bar gestito da genitori proletari e frequentato da operai ed emarginati, che per caso finisce in un liceo «bene» che le offre un inaspettato riscatto. Autobiografico racconto di formazione della regista, Silvie Verheyde, la vita di Stella è un’altalena tra il calore e i pericoli del locale fumoso, pieno d’ubriaconi e peggio, e il non meno accidentato ambiente borghese della scuola. Isolata in aula (le compagne animaliste sono schifate dal suo colletto «di vero coniglio») e insidiata a casa, rischia più volte l’espulsione per combattività e ignoranza. Struggente la scena in cui la madre, tosta e capace popolana, si destabilizza durante il colloquio spaesante con la colta, autorevole e severa preside. L’amicizia con l’anomala Gladys, ebrea argentina e figlia di psichiatri distratti quanto i genitori baristi, è la ciambella di salvataggio alla quale Stella s’aggrappa con forza e gratitudine, mentre impara ad amare la cultura. Da vedere con i ragazzi.

La felicità porta fortuna di Mike Leigh è un film di qualità per tutti. Sally Hawkins è la gioiosa, congenitamente felice protagonista Poppy, insegnante in una scuola materna, amica e amante della vita. Sviluppato come sempre dal regista in lunghe improvvisazioni con gli attori, il film segue le avventure di una trentenne che non ha mai visto un bicchiere mezzo vuoto. Tutt’altro che oca giuliva, Poppy dimostra la sua notevole capacità di discernere quando la situazione si fa grave. Ma è una che quando le rubano la bicicletta, metabolizza l’incidente con un «Nemmeno il tempo di dirci addio!» e s’iscrive a una scuola guida. Gli incontri con l’istruttore (un formidabile Eddie Marsan) iracondo e malmostoso, un barbone farneticante, un assistente sociale innamorato, la sorella incinta, una focosa maestra di flamenco, formano l’ossatura di un viaggio con una compagna che non si vorrebbe più mollare. Abbiamo già scritto di Racconto di Natale, ma vale la pena ricordare che un film più adatto alla stagione non si troverà. Infinitamente godibile, la riunione di tutta la famiglia Vuillard per festeggiare il Natale, e non incidentalmente trovare un donatore di midollo osseo compatibile per salvare la matriarca Junon (Catherine Deneuve), malata di una rara leucemia, è

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa a cura di Gloria Piccioni

Alcune immagini dei film in programmazione a Natale. Dall’alto in basso: “Stella” “The Millionaire”, “Racconto di Natale”, “Il Giardino dei limoni” e “Madagascar 2”

Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento)

Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C Via di Santa Cornelia, 9 • 00060 Formello (Roma) Tel. 06.90778.1 Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118 Abbonamenti Gaia Marcorelli 06.69924088 • fax 06.69921938

Da Israele arriva Il giardino dei limoni, un altro regalo che merita di essere spacchettato durante le feste natalizie. Il tema del film è il perdurante conflitto israelopalestinese, raccontato attraverso la metafora di un limoneto che confina con la nuova villa del ministro della difesa ebraico, che appartiene alla vedova palestinese Salma Zidane. Offre un riparo perfetto per i terroristi, e i servizi segreti israeliani ne esigono lo sradicamento. Salma, la splendida Hiam Abbass, decide di dare battaglia legale, perché gli alberi sono il suo unico, magro provento, piantato dal padre cinquant’anni prima. Il film è un emozionante viaggio fino alla conclusione brutalmente salomonica, simbolo della tragedia della vita nella celebre definizione di Jean Rénoir: «Ciascuno ha le sue ragioni». Ci sono altre due letture possibili di questo bel film, che ha vinto il premio del pubblico al Festival di Berlino. È la storia di due donne: Mira, la moglie turbata del ministro Navon, egolatrico e fedifrago, e di Salma, che subisce anche il roccioso maschilismo dei suoi «protettori» palestinesi. L’ultima riflessione è collegata al regista israeliano Eran Riklis (La sposa siriana), e la luminosa profondità del suo sguardo sulla storica inimicizia e diffidenza tra i due popoli della Bibbia. Se e quando un regista palestinese potrà o vorrà fare un film altrettanto comprensivo e intriso di compassione per le ragioni e le sofferenze degli israeliani, si potrà ragionevolmente confidare in una risoluzione duratura del conflitto in Medio Oriente.

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MobyDICK

parola chiave

inverno ferma il pensiero sulla bellezza. È come se lo cristallizzasse. La bellezza statica, priva di movenze, uguale a se stessa può anche avere la forma di una città con la sua storia, i suoi edifici, i suoi abitanti, i suoi costumi, i suoi colori. D’inverno Parigi, più che nelle altre tre stagioni, dà l’idea di un mondo immobile dove sai che ogni cosa è al suo posto. E in questo ordinatissimo equilibrio ritrovi te stesso immerso in un contesto che dovrebbe esserti estraneo eppure non lo è. Fluisce la vita immergendosi nei grandi boulevard come nelle viuzze del Marais, e la sensazione che si ha è quella prossima a un’intimità sempre cercata e mai completamente incontrata altrove. Forse per altri è diverso, naturalmente. Ma si converrà che Parigi è come una custodia preziosa nella quale, se ci guardi dentro, puoi trovarci tesori non tanto splendenti o incredibilmente sonori, ma appunto «intimi», siano essi profani o religiosi. E in questa convivenza la bellezza s’esprime più che altrove. Quando i segni del sacro sono stati abbattuti, Parigi è diventata decadente. E a lungo lo è stata. L’equilibrio lo ha trovato nei momenti in cui l’epifania della religiosità non è stata manomessa dal laicismo illuminista, ma con la ragione ha convissuto la fede e a Parigi, nei secoli dello splendore teologico, l’irradiazione della cultura dell’anima è stata più intensa che altrove. Ritrovare le tracce di tutto ciò è congeniale al viandante che sa leggere le contraddizioni insite in una grande storia e in esse cerca le ragioni di una fascinazione avvolgente intessuta di cento anime in ognuna delle quali si può riconoscere. Parigi è perciò un miracolo. Un miracolo invernale perché soltanto nella stagione fredda ci si concede il lusso di raccogliersi senza distrazioni eccessive davanti ai simboli di ciò che poteva essere la capitale d’Europa, dopo Roma, e non lo è stata per il semplice motivo che i sanguinari dell’Ottantanove divisero e distrussero ciò che perfino gli eredi della grandezza dell’impero avevano riconosciuto: Lutetia che accoglie le legioni che si preparano a resistere all’assalto e alla decadenza; Lutetia che innalza sugli scudi come imperatore Giuliano (impropriamente e stupidamente detto l’Apostata); Lutetia dalla quale muovono alla riconquista dell’idea imperiale i pagani convertiti che evangelizzeranno la Francia dopo i Merovingi, i Carolingi e poi i Capetingi. La Lutetia dove s’innalzano le insegne dello Stato ritrovato, dopo la fine di Roma e del popolo che si fa nazione.

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Ma oltre la storia, resta l’anima. O le anime, come dicevo. E Parigi si rivela per quello che è: il regno del flâner che in questo caleidoscopio di emozioni e di storie e di vicende e di attrattive gode dell’immensità di una svogliatezza vigorosa e paradossalmente attiva. Lasciandosi andare, attraversando la bellezza, inseguendo pensieri negli occhi delle ragazze di Saint Germain, offren-

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PARIGI La Lutetia dei Romani, i lutti dell’Ottantanove, Les Invalides e il dispotismo non esportabile di un piccolo, grande imperatore, Père Lachaise e gli occhi delle ragazze di Saint Germain, i bistrot e il Marais. Un caleidoscopio che soggioga il flâner del XXI secolo

La cultura dell’anima di Gennaro Malgieri

Si dice che sia la città dell’amore per antonomasia. Quel che è certo è che la sensualità, il senso di intimità, particolarmente favorito dalla stagione fredda, e la malinconia sono diffusi ovunque. E producono uno strano effetto: solo a Parigi l’effimero induce a guardarsi dentro dosi liberamente ai godimenti spirituali che un catalogo di eccentriche modernità può eccitare. Non c’è limite all’estetica della nostalgia che si fa letteratura a Parigi. E il flâner è il letterato per eccellenza che disvela la sua intima, e talvolta inespressa vocazione letteraria, nell’inseguimento delle forme della vita, nella vitalità stessa che esse provocano, negli ardori che alimentano e nella sensualità a essi connessi. Non saprei dire se Parigi è la città dell’amore per antonomasia, come si sostiene da tempo immemorabile. So per certo che la sensualità qui è di casa ed è diffusa ovunque, non concentrata soltanto in alcuni angoli particolar-

mente suggestivi come l’oleografia vorrebbe. Come la malinconia che non si attenua davanti alle suggestioni materiali. Anzi, al contrario, al loro cospetto si rinnova, con più forza. Perché soltanto qui, almeno così mi è parso, l’effimero induce il viandante a guardarsi dentro più che intorno e paragonando la finitezza delle cose alla sua propria finitezza è incredibile come sprofondi nella malinconia dalla quale, tuttavia, non ricava quasi mai pensieri funesti o propositi disonorevoli, ma autentiche spinte di desiderio amoroso sia esso rivolto a persone che a cose. Tra i segreti di Parigi (che sono tanti, cominciando dall’immenso sottosuolo:

del resto la città che appare ho sempre pensato che fosse la parte emergente di un labirinto nascosto) vi è anche l’odore dell’amore, appunto. Come in nessun’altra parte del mondo forse. Ed è questa caratteristica, che più banalmente potremmo tradurre in sentimento, che attrae, avvince, soggioga, lega il viandante alla città. E non a caso in essa l’accoglienza è migliore che altrove, meno problematica, più generosa, universale. Attraverso interi quartieri, alle volte, e incontro «francesi» africani, asiatici, sudamericani. È un bene, è un male? La vita fiorisce dove vuole e quando vuole. Se poi gli europei non sono più capaci di essere tali, né a Parigi, né altrove, il problema è tutto loro, non di chi viene qui e aggirandosi al Père Lachaise, come ho visto fare a una signora di colore, piangere lacrime vere davanti a tombe prive di un fiore, sepolcri di glorie dimenticate che nessun parigino onora più.

L’amore abita in quel cimitero, ma anche altrove. E non ha i lineamenti definiti. È davanti al bistrot affollato che lo trovi o nella metropolitana dove ti senti meno solo attraversando da un capo all’altro la città; a Place des Vosges o all’Ile Saint Louis; perfino sugli Champs-Elysées o alla Concorde. Dove non c’è amore - e rivendico la mia faziosità nell’ammetterlo - è davanti al funereo monumento di Danton a Saint Germain. Qui gli incubi riprendono forma e l’Ottantanove ritorna con i suoi lutti, i diritti traditi, la morte Dio dichiarata e mai ritrattata. Parigi è anche questo. E non basta starne lontani per fingere che non esista. Vi sono demoni che riappaiono, ingiurie che si perpetuano, sentimenti che affogano nel sangue quando meno te lo aspetti. La gentile e amorevole Parigi è così per ricordarci tutto questo, racchiuso magari nella tomba sontuosa di un imperatore morto in esilio e poi perdonato e poi compreso e infine amato e osannato. A Les Invalides è raccolto in un sarcofago troppo grande perfino per un faraone, il corpo corrotto di chi voleva conquistare il mondo senza sapere che il mondo non è conquistabile e che, allora come oggi, la sua democrazia non poteva essere esportata con le armi: neppure il dispotismo, naturalmente. Ben lo sapeva chi amava Roma stando a Parigi e di quel mondo è stato in questa città il cantore più elegante e raffinato. Passo talvolta per rue du Bac e mi soffermo davanti a un portone. Un giorno, agli inizi degli anni Settanta, ne uscì uno scrittore morto per farsi cremare. Dopo, aveva disposto, le sue ceneri sarebbero state sparse nel Foro romano. Si chiamava Henry de Montherlant. Era ai «cari romani» che intendeva ricongiungersi e così fece. Parigi, dopotutto, non è così lontana da Roma. E tutte e due sono, per motivi diversi, città d’amore. Non lo dice il viandante del Ventunesimo secolo, ma ce lo ricordano poeti e imperatori.


musica Il gioco di squadra di Byrne & Eno MobyDICK

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cd

di Stefano Bianchi avid Byrne & Brian Eno. Ventisette anni fa, mi sembrò una liaison dangereuse: il leader dei Talking Heads dal suono schizzato che si prendeva la briga d’incidere un ellepì con l’ex Roxy Music e alchimista dell’elettronica ambientalle. Invece, My Life In The Bush Of Ghosts si rivelò un gioiello d’avanguardia costruito su ritmi tribali, funk, canti di muhezzin, voci d’assatanati esorcisti e salmodianti predicatori. Sovvertendo ogni regola, l’azzardo innescava una lungimirante rivoluzione: Byrne & Eno, avevano di fatto preparato il terreno a quei campionamenti hip-hop e alla world music che sarebbero arrivati ben più in là. Oggi, dopo più d’un quarto di secolo, il duo si ricompatta con Everything That Happens Will Happen Today suddividendosi il lavoro nel più classico dei modi: Byrne ha scritto pressoché tutti i testi delle undici canzoni; Eno s’è premurato di comporle. Prima di ascoltare questo disco, però, se ancora non conoscete My Life In The Bush Of Ghosts fatelo, poiché ne vale davvero la pena. E poi fingete che non sia mai esistito, giacché paragonarlo al nuovo repertorio sarebbe come mettere in competizione Superman con Harry Potter. Ma se proprio non ci riuscite, sappiate che quell’album ipotizzava e concretizzava una nuova sperimentazione, mentre Everything That Happens Will Happen Today ragiona in maniera del tutto diversa: è più popular, lineare, memorizzabile. Senza peraltro nulla togliere a David & Brian, che anche stavolta annichiliscono gran parte della concorrenza, musicante o compositiva che sia. Perfino quando, col brano Home, si mettono a scimmiottare senza farsi troppe menate The Sound of Silence di Simon & Garfunkel; o quando, con My Big Nurse, tira-

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in libreria

no in ballo tutti gli stereotipi possibili della country music. E siccome la classe non è acqua, e alla geniale coppia riesce ogni gioco di prestigio, ecco che I Feel My Stuff manipola in un sol colpo jazz, rock e funky. Quel funky (rima baciata con Talking Heads) che ritroviamo in Strange Overtones, «muscolarizzato» in funk dentro Poor Boy e abilmente mischiato alla soul music nell’immediatezza di Life Is

Long. In tanto ben di dio, parrebbe David Byrne il mattatore: la voce acidula e ciondolante è sempre la sua (Brian Eno fa l’umile corista) e spesso e volentieri la musica ha quell’indisciplinatezza che gli appartiene di diritto. In realtà, quel fine cesellatore d’un Eno cuce impeccabilmente ogni atmosfera, tira le volate al collega e firma col suo stile rarefatto («clonato» dalle sue incisioni più belle, da Another Green World a Before And After Science) i momenti più «ambientali» del disco: cioè il look celestiale di Everything That Happens, i soffici contrappunti di The River e One Fine Day, gli spigoli elettronici e le smussature «pop» di Wanted For Life. Gran gioco di squadra, per questo canzoniere «normale». Fondamentale, però. Come l’ellepì di ventisette anni fa. David Byrne & Brian Eno, Everything That Happens Will Happen Today, Opal/Goodfellas, 18,90 euro

mondo

riviste

BATTISTI SENZA MOGOL

GLI SMITHS NON TORNERANNO

BAND DA CENSURARE

U

na biografia di Battisti senza le parole di Mogol? Nella sterminata serie di libri dedicati al musicista di Poggio Bustone, le interviste al suo storico paroliere avevano sempre costituito il piatto forte. Invece con Sulle corde di Lucio (Giunti, 160 pagine, 12,50 euro) gli autori Franz Di Cioccio e Riccardo Bertoncelli hanno deciso di dare ascolto alla miriade di collaboratori e amici meno famo-

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entre la reunion dei Blur, almeno per una serie di concerti estivi, è stata ufficialmente annunciata, sembra che il ritorno degli Smiths resterà un sogno. Si sa che ai media inglesi basta poco per annunciare a caratteri cubitali il ritorno in scena di band famose: in questo caso era bastata la notizia che Morrissey e Johnny Marr, rispettivamente cantante e chitarrista degli

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Un’attenta biografia che non ricorre alla solita intervista col paroliere del mitico cantautore

Johnny Marr smentisce una ricongiunzione con Morrissey e preferisce rimasterizzare vecchi hit

I 30 peggiori gruppi di tutti i tempi in una classifica stilata da “Mojo”. Suggerita dagli You me at six

si, come Alberto Radius, Pietruccio Montalbetti e Alessandro Colombini. Senza neanche tentare di affrontare tutti gli aspetti di una parabola artistica e umana molto complessa, il volume raccoglie una bella serie di aneddoti e curiosità sulla nascita di canzoni che ormai fanno parte della cultura popolare italiana (e anche di quella alta). Ma il vero punto di forza del libro è la bellezza della scrittura che Bertoncelli, ancora oggi la migliore penna musicale italiana, è riuscita a infondere in questa manciata di pagine divertite e commosse. Il batterista della PFM Di Cioccio, che cofirma il libro, ha invece contribuito a una disanima attenta e piacevole degli aspetti tecnici delle composizioni di Lucio.

Smiths, si erano sentiti al telefono per dare come imminente un nuovo esordio del più importante gruppo inglese degli anni Ottanta. Ma Marr, ai microfoni della Bbc, ha spiegato che una possibilità del genere non è tra i suoi progetti e neanche lo attrae. Ha invece spiegato di essere impegnato nella rimasterizzazione di alcuni vecchi brani del gruppo in vista dell’uscita della prossima raccolta targata Smiths. Vista la qualità non eccelsa del suono dei loro album, si può pensare che la scelta di Marr sia quella più saggia. Meglio lasciare ai posteri una scintillante versione di How soon is now che tentare di ricreare la magia delle prime canzoni a vent’anni di distanza.

no semplicemente brutti, insignificanti o ridicoli. La rivista inglese Mojo ha pensato bene di elencare e analizzare i 30 peggiori nomi di band di tutti i tempi, proponendo chicche come Dananananaykroyd, Cancer Bats e Kajagoogoo, ma citando anche i più celebri Rage Against the Machine e i Limp Bizkit. L’idea di una classifica del genere è venuta all’autore dell’articolo «dopo aver ricevuto l’Ep di una band emo del Surrey, gli You me at six. Un nome del genere è peggio di Hitler. È vero che non è facile trovare espressioni geniali come The Beatles, ma con tutto il lessico inglese a disposizione forse era possibile fare qualcosa di meglio».

lcuni nomi di gruppi rock, se particolarmente azzeccati, riescono a trasmettere perfettamente il genere di musica e di messaggio che i musicisti avevano in mente (pensiamo ai Doors o ai Rolling Stones). Altri invece sono ricordati semplicemente perché particolarmente originali o difficilmente dimenticabili, come Velvet Underground e 13th Floors Elevators. Ma non pochi so-


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zapping

NATALE È... quattro note di Coltrane di Bruno Giurato è Natale dietro l’angolino per chi sa sognare. E Natale vuol dire a scanso di tutto una rinascita e un ritorno, parole che la modernità interpreta con paura o con smorfia cattiva. Ad esempio per Freud - biografo di questo Occidente che si strangola di io - ogni ritorno è ossessione. È il ritorno di un trauma che bisogna mettere in scena per superare. Ma per gli io un pochetto stupidi e un pochetto felici, per chi si permette il lusso di non capirsi fino in fondo, per chi non sa, non vuole o non può seguire il ritmo ossessivo/compulsivo del moderno, Natale può essere un festa. Certo, raccontiamo ai nostri figli piccoli che Babbo Natale esiste, perché se ne convincano. E soprattutto convincano noi. Ogni trascendenza si può smontare come esigenza umana troppo umana, ma resta sempre il dubbio che se quell’esigenza l’abbiamo ci sarà un motivo, dubbio che avevano anche Agostino e Kant. Il dubbio che un colpo d’ala immateriale ci abbia sfiorato mentre eravamo distratti a cercare un nome sulla rubrica del telefonino. Il dubbio che una «convinzione di cose invisibili» (ovvero la fede, secondo Pavel Florenskij), tenga sveglia l’immaginazione nei nostri cucuzzoni stolidi. C’è una musica per questo stato d’animo? Non so, ce ne sono tante. Saranno musiche dal ritmo che tira, un po’ stupide o un po’ felici. Niente dodecafonia, niente rock duro. Per qualcuno saranno le musiche da festa di paese. A love supreme di Coltrane potrebbe essere un inizio o una rinascita per qualcuno, con quelle quattro note che ritornano in tutte le modalità e tonalità, con intenzioni che vanno dal volo d’angelo all’urlo. Alla fine, carne per carne, spirito per spirito e sogno per sogno, è bello pensare che in qualsiasi angolo della realtà ci siano quattro note di Coltrane.

C’

teatro

Il corpo a corpo di Antonio Rezza di Enrica Rosso otofinish: ripresa filmata dell’arrivo di una corsa di velocità.Titolo fortemente espressivo e a suo modo suadente, che autodenuncia la necessità di fermare l’attimo e riconoscerlo. Il mercuriale Antonio Rezza con la complicità di Flavia Mastrella, sua ventennale compagna di giochi, dà corpo a un fenomeno teatrale piuttosto complesso. La signora in questione (scultrice, fotografa, autrice di video sculture e pluripremiati cortometraggi) si occupa da sempre delle forme che accolgono le ossessioni di Antonio Rezza. Non costruisce quindi delle scenografie, piuttosto delinea uno spazio e crea delle sculture in tessuto, per certi versi delle macchine teatrali, che siano in grado di contenere l’infinito immaginario del suo compagno d’arte. Lui le frequenta ed esplora in tutti i modi possibili, senza lasciare nulla di intentato, anzi prestando il suo corpo a questo gioco di frantumazione spaziale. Lo spettacolo che ne deriva è semplicemente una scusa per mostrare, mostrandosi, un’energia inquieta che trova finalmente uno sfogo e dilaga. Il testo segue una traccia decisamente rocambolesca e serve semplicemente a contenere una serie di immagini non necessariamente legate fra di loro; infatti, come recita la locandina stessa, non è mai stato scritto. L’idea portante è invece ben chiara e sempre presente davanti ai nostri occhi: un uomo che si fotografa per sentirsi meno solo ma che non riesce a fotografare la sua solitudine in quanto assenza di chi non ci è vicino. Un ottimo spunto di riflessione che il poliedrico autore-attore-regista assume e restituisce con bel senso comico mutandosi in un clown bianco. Rezza gestisce l’ora e trenta di spettacolo, con il sostegno di Armando Novara, usando il pubblico con la stessa libertà con cui usa se stesso. Lo insulta a più riprese, lo percuote, lo lecca, lo aggredisce, lo costringe a denudarsi fino alla cintola, palpa i deretani del gentil sesso. Il pubblico sta a questo gioco un po’ assurdo perché coglie la necessità del performer di entrare in un contatto carnale che in qualche modo elimini la distanza e gli per-

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metta di buttare in faccia alla gente la sua «difficoltà esistenziale». Lo spettacolo a tratti scabroso o irriverente è sempre assolutamente intelligente, colto, mai volgare, o peggio ancora qualunque, decisamente divertente, adatto quindi anche a un pubblico molto giovane. L’eclettico Rezza si insinua nelle fenditure delle candide forme mobili concepite da Mastrella e le possiede, a volte le violenta, in un corpo a corpo continuo e ininterrotto. Inarrestabile come un metronomo, rimbalza sul palcoscenico come materia incandescente. Lascia ampio spazio all’improvvisazione, nutrendosi delle reazioni della platea che da subito sta dalla sua parte. Un pubblico di aficionados coltivato negli anni che segue il lavoro di questa

coppia di iper creativi che ama esprimersi in totale libertà sconfinando spesso in altri linguaggi; hanno infatti al loro attivo svariate esperienze (sempre a quattro mani) scritte e realizzate per il video e per il grande schermo, oltre a libri e installazioni di vario genere. Insomma siamo di fronte a due personalità complesse di indubbio talento. Segnaliamo, per i più viziosi, la possibilità della replica di fine d’anno a cui farà seguito il fatidico cenone in palcoscenico e un’asta al buio battuta dallo stesso Rezza.

Fotofinish con Antonio Rezza, Teatro Vascello fino al 31 dicembre, Via G. Carini 78 Roma, Info: 06 5882021 www.teatrovascello.it

jazz

Raccontando Miles e quattordici capolavori di Adriano Mazzoletti ella sua breve vita, Richard Cook (1957-2007) ha dato e fatto molto per il jazz. I suoi scritti per il New Statesman e il Sunday Times, le sue trasmissioni per la Bbc sono sempre state improntate a criteri di grande impegno e affidabilità. Nel periodo in cui fu direttore di The Jazz Review e Wire, i due periodici ospitarono spesso scritti dei più importanti critici, storici e studiosi inglesi e non solo. Infine la monumentale The Penguin Guide to Jazz Recording del 1992 e la Richard Cook’s Jazz Enciclopedia del 2005 sono opere insostituibili per l’appassionato di jazz. Nello stesso anno, pubblicava per Atlantic Book, il suo ultimo e importante lavoro: It’s About That Time, Miles Davis On and Off Record, che oggi esce nella traduzione italiana di Guido Zurlino per i tipi del Saggiatore con il titolo Miles live e in studio. Si tratta di una

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straordinaria analisi dei quattordici album fondamentali realizzati da Davis nel corso della carriera. Il primo, The Birth of the Cool, in realtà è divenuto un album solo in seguito, quando i sei dischi a 78 giri con i celebri dodici brani incisi fra il 1949 e il ’50, vennero raccolti in un disco microsolco. Nelle trecentocinquanta pagine di questo volume, anch’esso insostituibile per comprendere in modo profondo l’opera di Miles, il lettore non ha di fronte l’ennesimo tentativo di scrivere una agiografia di Davis, bensì il tentativo, perfettamente riuscito, di separare il personaggio, diventato «mito» per la sua

musica e per la sua vita spesso misteriosa e caotica, dalle composizioni, esaminando e considerando il suo lavoro come è stato documentato su disco. Il supporto magnetico infatti sta al jazz, musica irripetibile, come la partitura sta alla musica accademica. Perciò l’analisi approfondita e documentata dell’opera registrata di una personalità, autentico caposcuola, come Davis, diventa un «racconto» affascinante. Ma Cook non si limita a una rigorosa disamina musicologica, entra anche nel difficile rapporto che Davis ha sempre avuto con la discografia spiegando, ad esempio, le ragioni

della scelta di certe copertine come quella di Miles Ahead della Columbia, illustrata da una fotografia di una donna elegante di razza bianca a bordo di uno yacht, con un vistoso cappello e un bambino sorridente a fianco. Immagine che non ha nulla a che vedere con il contenuto musicale del disco, ma rivelatrice del criterio con cui le case discografiche dell’epoca, il 1957, erano solite illustrare gli album di jazz. Il volume è ricchissimo di racconti spesso inediti, ma il suo valore risiede nell’analisi di quei quattordici album (Milestone, Porgy and Bess, Kind of Blue, Nefertiti, In a Silent Way, Bitches Brew, Agharta, i già citati The Birth of the Cool e Miles Ahead e altri cinque), che non dovrebbero mancare in nessuna discoteca di jazz privata o pubblica. Richard Cook, Miles live e in studio. Quattordici album fondamentali, il Saggiatore, 350 pagine, 29,00


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narrativa

Storia di Niudd’ R e delle sue femmene

libri

di Maria Pia Ammirati

igorosamente definito in un’andata e ritorno, diviso per capitoli intitolati ai nomi dei vari personaggi, La scordanza è il secondo romanzo di Beppe Lopez dopo l’esordio molto apprezzato con Mondadori nel 2000. Già dal titolo siamo introdotti nel mondo linguistico di Lopez, fatto di un impasto di italiano e dialetto barese che fa pensare a un idioletto creato dallo scrittore apposta per queste sue storie, radicate nel ventre pugliese di Bari. Era successo col primo romanzo che la critica e i lettori fossero attratti da questa ruvida lingua, espressiva quanto la storia angolosa e brutale della Capatosta, la protagonista femmena dell’esordio narrativo. Succede ancora oggi con questo romanzo più corale del primo che struttura le vicende su una vera e propria saga familiare che lascerà il posto alla storia di Antonio- Niudd’. La vicenda di Niudd’, scritta in terza persona, ha ancora questo forte risvolto femminile se i personaggi dei capitoli (a cui corrispondono gli anni) sono tutte donne, le donne che scandiscono la vita del protagonista a cominciare dalla sua prei storia, ovvero la nonna Momen’, una piccola bambina povera che darà vita alla famiglia di Niudd’. Dopo la nonna arriva la strana storia di Ioland’, anche questa giovane poverissima, che vale la pena di riassumere per capire cosa c’entri con la vita del protagonista. Siamo nel 1946, un anno prima della nascita di Niudd’: «l’anteprima della vera e propria storia di Niudd’, si svolge nella campagna di Mungivacca, in una catapecchia». Qui una vecchia levatrice ha orchestrato una fetenzì, una schifezza, un imbroglio, una cosa che non si potrebbe fare, ha rinchiuso in casa una ragazzetta orfana, Ioland’, perché concepisca e partorisca un figlio su ordinazione senza che nessuno se ne accorga, una sorta di utero in prestito non pescato nei paesi poveri

come accade oggi, ma reclutato tra i poveracci della zona. La ragazza a ore stabilite viene chiusa in una stanza al buio una decina di giorni e ficcata nuda sotto le coperte. Ogni giorno un uomo si infila, anch’egli nudo, nel letto e copula. La giovane riconosce in quegli incontri assurdi un tratto gentile, una sorta di affezione a cui lei non è abituata. Dopo nove mesi nasce un maschio e Ioland’lascia il bambino al padre, abbandona il paese per sempre e fugge a Roma. Ecco l’anteprima di Niudd’ che incrocerà altre piccole (ma non innocue) storie, la sorellastra figlia di una zia, la madre Porziell’ afflitta dai tradimenti del padre, una seconda sorellastra conosciuta a Roma, le prime iniziazioni sessuali con giovanette sposate male e desiderose di fuggire dagli stretti vincoli meridionali, la moglie Iagatedd, anch’essa espressione di un meridionalismo generoso, ma soffocato dal ricatto e infine da un impietoso gusto per la vendetta. Giù giù fino alla seconda parte di questo corposo e articolato romanzo, intitolata al ritorno, quando Niudd’, stanco della vita di giornalista e di militante politico, angustiato dalla deriva degli anni Settanta e dal riflusso degli anni Ottanta, vende la sua casa romana, brucia ricordi di quarant’anni di vita e torna a Bari, per dimenticare e ritrovare due amori assoluti della sua vita. Le uniche femmene che ama sopra ogni cosa e che mai ha pensato di abbandonare: Saverin, la figlia, e Lupit’la cagna. Lupit muore per un’infezione, Saverin compare improvvisamente nei sogni del padre morente per meningite nell’ospedale maggiore di Bologna. Entrambe lasciano solo il protagonista, entrambe come il colpo di coda della storia, puniscono involontariamente chi dalla vita, forse, ha avuto tanto. Beppe Lopez, La scordanza, Marsilio, 378 pagine, 19,50 euro

riletture

Nicola Lisi, la pace come vocazione naturale di Leone Piccioni n libro molto importante del 1942 di Nicola Lisi (1893-1975) - Il diario di un parroco di campagna non è stato mai ristampato. Mi giunge ora notizia, però, da Giuseppe Lisi (figlio di Nicola, autore di scritti di molta profondità, uno è uscito da poco, La gabbia matta, libreria Editrice Fiorentina) che la ristampa è vicina. Riprendo perciò il libro in mano e mi confermo nella straordinaria presenza letteraria di Nicola Lisi per il suo linguaggio, per la sua pacatezza, per la sua ironia e non solo. Ho voluto molto bene a Lisi, al di là delle sue opere indimenticabili che mi hanno fatto compagnia almeno dagli anni Quaranta: oltre al Diario di un parroco di campagna, la straordinaria Parlata dalla finestra di casa del ’65. Gli ho voluto bene per la sua serenità, per la sua pacificità - vorrei dire armata - per saper guardare tante volte anche alle cose da rifiutare, per una sorta di buona previsione

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delle cose che qua e là appariva non senza ironia. Le sue pagine diurne e lunari, i suoi rapporti con le stagioni, quelle del freddo, quelle dei fiori, con il tempo misurato sulle meridiane piuttosto che sugli orologi svizzeri. E certo i suoi libri (aggiungo tra gli altri le Favole del 1933). E soprattutto forse gli ho voluto bene per la sua Fede, per la sua visione cristiana della vita, non mai lontana da una sorta di laicità: «I miei peccati sono sempre gli stessi. Vorrei liberarmene ma non ci riesco. Pecco, mi confesso, ripecco. Sarò ostinato sino all’ultimo; però sono ostinato anche nella riconoscenza pel Signore. Neppure sono un peccatore profondamente contrito: la speranza è molto sensibile nel mio cuore». La sua Fede gli ha fatto superare anche «l’inferno» che ebbe nelle sue esperienze. Con le parole di un sacerdote Lisi ci indica che subito nella Scrittura avvenne «la creazione delle piante» e precedentemente «gli animali e l’uomo». Si rende conto che ormai «la terra sia decrepita» e l’an-

nuncio della guerra per «gravezza di pene… schiantava il cuore». (Ci sarebbe a lungo da dire della lingua e dello stile di Lisi, certamente rinata attraverso anche l’esperienza dell’antica Toscana). «Si capisce - dice - che comunque vadano le cose trascorreranno in breve gli anni che gli rimangono e che se anche fossero molti di più passerebbero lo stesso ed uguali in breve». Lisi ci avverte di come sia «pernicioso errore la pretesa di giudicare le vicende del passato con i criteri d’ora». Quando uscì Il diario di un parroco di campagna, avevamo già letto il libro con lo stesso titolo di Bernanos fin da quando era uscito in Francia. Eravamo, del resto, grandi ammiratori di Bernanos, rappresentante emerito anche della cultura cattolica (insieme a tanti altri non solo italiani e francesi), ma allora quei nomi per noi, oltre al significato letterario, assumevano valore per una sorta di confronto certamente non perduto rispetto alla moda corrente, spesso abbracciata per convenienza e superficialità, della cosiddetta cultura marxista.

Forse, a prima vista, il Parroco di Lisi ci deluse un po’proprio paragonando la sua serenità, la sua pacatezza, il suo giusto modo di giudicare, alla tragicità di certe pagine e di certe parti del libro di Bernanos. Ma ci ricredemmo presto perché la pace di Lisi non appariva superficiale e provvisoria, ma scavava nella profondità della sua origine e la riproponeva in moti, sensi, affermazioni del tutto desiderati e sospirati. Lisi partecipava delle vicende politiche e sociali, come si è detto. Vedeva pochi amici: «Ci si sedeva su di un muricciolo e così raccolti si parlava di quel che, in conformità di tanta pace, ci veniva in mente». Seguiva i grandi e i piccoli avvenimenti. Si temeva molto, allora, per tentazioni di guerra che venivano dall’Est mentre due Stati si contendevano la proprietà di una terra solcata da due fiumi: il Giordano e l’Ussuri. Quei popoli, quella gente sulle rive di quei fiumi «ricchi di pesci come sono o erano» - diceva Lisi avrebbero dovuto «ospitare tante lenze e tanti pacifici pescatori».


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classici

Quella monaca-soldato che piaceva a Borges di Filippo Maria Battaglia a storia ha inizio con i pregiudizi di un nobile iberico: «Una notte dell’anno 1592 (ma quale di esse è un segreto che ammette 365 risposte), un hidalgo spagnolo della piazzaforte di San Sebastiano, ricevette da una monaca la spiacevole notizia che sua moglie aveva appena partorito una bambina. La poveretta non sapeva che non avrebbe potuto fargli un omaggio più estraneo ai suoi propositi». Il nostro aveva infatti già tre figlie e, come ricorda De Quincey, «c’era sempre posto per un altro maschio, ma in Spagna l’eccesso di figlie era la peggiore delle seccature». Pensa e ripensa, e alla fine la scocciatura pas-

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filosofia

sa dunque per la soluzione più canonica: il convento. Così, l’hidalgo «avvolse in un panno la neonata, odiosa ai suoi occhi parenti, e dopo essersi ben riparato il collo, si recò al vicino convento di San Sebastiano». Sennonché la piccina, subito ribattezzata dalle suore come Catilina, dimostra col tempo di possedere tempra e carattere decisamente poco mansuete e alquanto inclini a fughe e trasgressioni. Di qui, ne nasce un copione declinato come solo uno scrittore del calibro di Thomas De Quincey era in grado di fare. Tra una condanna e un’evasione, Catilina si ritroverà travestita da soldato nelle foreste e nelle pampas di una lussureggiante America spagnola, suscitando molti anni dopo l’estatica ammira-

zione di Jorge Luis Borges che in più di un’occasione rievocherà «le straordinarie avventure della monacamilitare, insieall’amme piezza di terre e di mari che il suo destino abbraccia». Segnata da un destino incerto e spietato e da un idealismo tenace e ribelle a ogni convenzione, la suora valicherà le Ande, navigherà gli oceani, assisterà a lunghe malattie e guarderà in faccia alla morte. Metà Don Chisciotte, metà Jeeves, la sua condizione non

è mai così retorica da poter essere definita malinconica, e al tempo stesso non è mai così umoristica da poter essere descritta come grottesca. E il suo tragico epilogo, descritto con la grazia di un grande scrittore, non fa che imperlare questo piccolo capolavoro come uno dei più brillanti romanzi d’avventura dell’800 europeo. Thomas De Quincey, Le avventure di una monaca vestita da uomo, Excelsior 1881,176 pagine, 14,50 euro

Come comprendere il senso della sensibilità di Renato Cristin ambito di ricerca chiamato «antropologia filosofica», di cui Helmuth Plessner è tra i fondatori e principali esponenti, rappresenta una disciplina dai contorni non ben definiti ma non dalla concettualità imprecisa. Questa linea d’indagine sorge nei primi anni del Novecento, insieme alla critica del positivismo e allo sviluppo della psicologia non sperimentale, al declino dell’idealismo e alla nascita della «filosofia della vita», alla crescita della Helmuth «scienza della cultura» e Plessner alla tematizzazione dell’uomo come luogo di sintesi fra natura e spirito. La riflessione di Plessner

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personaggi

si situa in un segmento storico e tematico in cui emerge la costante opposizione al razionalismo e al costruttivismo, che hanno segnato una precisa concezione dell’uomo in cui la parte intellettiva viene anteposta a quella sensibile. In questo movimento di rifiuto, l’obiettivo di Plessner è ambizioso: competere con Kant sul terreno di una «critica della ragion sensibile», che egli espone nel 1923 in un ampio trattato che mira a una «estesiologia dello spirito», a un’analisi della dimensione sensibile (ma non meramente materiale) che caratterizza l’essere umano nella sua esistenza anche spirituale. Il libro che l’editore Cortina ha da poco mandato, molto opportunamente, in libreria e che risale al 1970, è un estratto e al

tempo stesso uno sviluppo di quel testo sistematico del ’23 e si organizza in brevi capitoli dedicati al «corpo vivente», scomposto secondo le varie «estesiologie» corrispondenti ai sensi e con l’aggiunta di una sesta dimensione: «l’unità dei sensi» nella «motricità» dell’esperienza vissuta. Si tratta di quella dimensione attiva che Plessner chiama «incorporazione» e che costituisce lo spazio in cui si manifesta «l’intreccio di corpo fisico e corpo vivente» e in cui «l’uomo diventa figura». Solo a partire dalla tematizzazione e dalla comprensione dell’unità «senso-motoria» si può aprire la via per comprendere «il senso» della sensibilità. L’antropologia, in quanto teoria, diventa qui dunque una sorta di scatola nera in cui si riversano non solo i dati dell’esperienza sensoriale, ma pure le stratificazioni dell’esperienza psichica. Helmuth Plessner, Antropologia dei sensi, Raffaello Cortina Editore, 123 pagine, 11,00 euro

I demoni di Puccini secondo Krausser di Massimo Tosti a biografia di un grande compositore, amatissimo in tutto il mondo, del quale - proprio in questi giorni ricorre il centocinquantesimo anniversario della nascita: Giacomo Puccini. Ma non la «solita» biografia, perché l’autore, Helmut Krausser ci racconta la vita di uno dei geni del melodramma in forma romanzata. Krausser usa la definizione di «romanzo documentario», e nelle note conclusive elenca (uno per uno) i passi inventati, che - se non veri - sono tutti verosimili. Nel senso che l’autore si è discostato dalla realtà (della quale esistono prove certe) soltanto per rendere più leggibili e fede-

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li al personaggio le vicende che lo riguardano. Sul quale ha studiato a lungo, visitando i luoghi nei quali Puccini ha vissuto, scavando negli archivi, cercando testimonianze e documenti. Al punto da aver colmato una lacuna che i biografi precedenti non erano riusciti a colmare: l’identità di una misteriosa amante del Maestro, conosciuta fino a oggi soltanto con il soprannome di Corinna. Si trattava di una sarta torinese, Maria Anna Coriasco, scomparsa (ottantenne) nel 1961. Corinna fu una delle tante donne conquistate da Puccini, che si definiva «un potente cacciatore di uccelli selvatici, libretti d’opera e belle donne». Era un animo inquieto, ma anche un gaudente, che amava la vita e

compositore quando la sua donna di servizio, Doria Manfredi, morì avvelenata. Krausser è affascinato dalle storie che riguardano la musica e i suoi protagonisti. Negli anni scorsi ha venduto milioni di copie con un altro romanzo storico, Melodien, che raccontava le vicende di un mago e alchimista del Cinquecento (curioso e cialtrone, avventuriero e cortigiano) che - alla corte di Gianfrancesco Pico, signore di Mirandola - abbandona d’un tratto le ricerche destinate a trasformare in oro i metalli volgari per tuffarsi anima e corpo nei misteri della musica. che ne fu riamato. I demoni di Puccini ricostruisce anche - con l’aiuto di documenti scoperti di recente - lo scandalo che coinvolse il

Helmut Krausser, I demoni di Puccini, Barbera editore, 286 pagine, 15,50 euro

altre letture Nel ricordare il Sessantotto si tende a focalizzarne alcuni aspetti appariscenti: la sollevazione giovanile internazionale, le manifestazioni e gli scontri, gli scontri e gli slogan, gli atteggiamenti sovversivi. Il Sessantotto fu un movimento internazionale, complesso e composito, che scosse e intaccò le strutture dei comportamenti e delle istituzioni. Sandro Becchetti armato della sua Laika fotografa un’altra Italia, un altro Sessantotto. Dopo il corteo, oltre gli striscioni e le scritte murali, mostra ancora altri italiani: quelli che vivevano nelle baracche dei borghetti, nei palazzoni delle periferie, nella povertà della campagna e i terremotati del Belice. Il bianco e nero delle sue fotografie, raccolte in L’altro Sessantotto (Gaffi editore, 219 pagine, 18,00 euro), segnate da una ricerca estetica costante, rivela uno sguardo lucido e partecipe in grado di trasmettere un ritratto storico puntuale di «come eravamo».

La prigioniera

dell’abbazia - il nuovo romanzo di Rosa Alberoni (Rizzoli, 520 pagine, 21,00 euro) - è una saga famigliare con personaggi indimenticabili, che lottano per non essere annientati dal vento della rivoluzione che soffia sull’Europa intera, travolgendo nazioni, casate e gente comune. E il cardinale Ruffo, per difendere la Chiesa dall’ateismo dilagante, si impegna come condottiero del popolo dei credenti. Rachele, la voce narrante, cerca di scoprire che nesso ci sia fra lei e la protagonista del romanzo, e chi sono in realtà la veggente e il capitano del vascello che la conduce nel labirinto dell’epoca napoleonica.

Nella sua scrittura Maria Zambrano ha sempre dato rilievo all’educazione nel significato più vasto della parola, mettendo l’accento su figure di maestri esemplari quali furono per lei il filosofo Josè Ortega Y Gasset e Miguel de Unamuno. In questa raccolta di saggi - Per l’amore e per la libertà (Marietti 1820, 193 pagine, 24,00 euro) alcuni dei quali ancora inediti, l’autrice giunge ad ampliare il tema, mettendo in luce l’educazione nel suo più intimo significato. Si alternano meditazioni sulla pedagogia e il suo legame con la società: sull’importanza del maestro in un mondo in rapido cambiamento; su una giovinezza irrequieta, disordinata e bisognosa di guide che ne sorreggano il cammino.


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reportage

VIAGGIO NELL’ARCIPELAGO DELLE SVALBARD, IL POSTO ABITATO PIÙ VICINO AL POLO NORD. SITUATE TRA IL 74° E L’81° PARALLELO NEL MAR GLACIALE ARTICO, LE ISOLE FURONO SCOPERTE NEL 1596 DA WILHELM BARETNS CHE LE BATTEZZÒ “TERRA DALLE CIME APPUNTITE”. ANDARCI È UN’ESPERIENZA DELLO SPIRITO. PER LA LUCE (O LA MANCANZA DI ESSA), LA NATURA, IL SENSO DI SOLITUDINE CHE DÀ PIENEZZA…

Notizie dalla base di Babbo Natale di Dianora Citi n giorno uscendo di casa ho visto una renna. Brucava, se così si può dire, alla ricerca di qualche filo d’erba che sbucasse vicino al pavimento di legno davanti alla porta. Ma era tutto neve, l’erba era un suo desiderio, anzi una sua vaga speranza, un suo sogno. Non ero a Roma ma a Longyearbyen, sull’isola Spitzbergen, nell’arcipelago delle Svalbard. Il posto abitato più vicino al Polo Nord, bel oltre il circolo polare artico. Ma quella che ho visto non era una renna vestita di rosso come quelle di Babbo Natale. Nessuno può dire se Babbo Natale sia mai stato da queste parti, al Polo Nord. Sono in molti a rivendicare l’esistenza, nel proprio territorio, della «base» dell’uomo con la barba, quello che in una sola magica notte compie milioni di chilometri e porta i regali ai bambini, non importa se questi vivano nel deserto dell’Africa o nelle zone paludose del Sud-Est asiatico. Ma è molto probabile che Babbo Natale, creatura solitaria e molto misteriosa, si sia accampato su questi ghiacci. Forse per una sosta, chissà. D’altra parte uno come lui non ha bisogno di attrezzature speciali. Parla poco, o per niente. Bisogna intuire. E a noi piace immaginare che in queste distese bianche sia di casa.

passionati di natura offrono l’opportunità di vedere animali selvatici particolari, come la volpe artica, diversi tipi di foche, beluga, balene, topi muschiati, i trichechi, le renne, i gufi artici oltre a un gran numero di diversi uccelli migratori in estate. E soprattutto gli orsi bianchi, i grandi e possenti orsi polari. Appartengono a una specie protetta e in questi anni si sono moltiplicati notevolmente. Inoltre, il famoso «scioglimento» dei ghiacci fa sì che specialmente durante la primavera i poveri animali, più o meno risvegliati dal letargo e ben affamati, si ritrovano sulla terraferma alla ricerca di cibo, arrivando spesso vicino agli insediamenti abitati, che siano le cittadine o le navi rompighiaccio usate come al-

Alle Svalbard, non si arriva così, per caso, né facendo un giro in macchina, né, appunto, su una slitta trainata da renne rossovestite. Non so per gli altri abitanti o turisti delle Svalbard, per quello che mi riguarda tutto nacque quando, negli anni Sessanta, fui portata a vedere un appassionante film, La tenda rossa (con una bellissima Claudia Cardinale, un sempre fascinoso Sean Connery e un misterioso Peter Finch), che raccontava la storia del salvataggio del Comandante Umberto Nobile e dei suoi compagni rimasti intrappolati tra i ghiacci. Ma che posto era quello dove apparentemente solo il bianco della neve dominava? Fino a pochi anni fa andare in quel posto misterioso era solo uno dei tanti desideri che aspettavano pazienti nei cassetti della mia mente, come capita a molti. Poi una serie di fortuite coincidenze mi permise di partire un giorno per Oslo e poi da là per TrØmso e poi ancora avanti, verso il Nord, volando verso la calotta artica, fino a uno degli aereoporti più «in alto» che ci sia, quello di Longyearbyen. L’arcipelago delle isole Svalbard, formato da tantissime isole di diverse dimensioni, fu scoperto da Wilhelm Barents nel 1596. Le battezzò Spitsbergen, terra dalle cime appuntite, e il nome è rimasto a indicare talvolta tutte le isole dell’arcipelago. Si estende tra il 74° e l’81° parallelo Nord nel Mar Glaciale Artico, su una superficie complessiva di 63 mila kmq. L’isola principale, cui è rimasto il nome di Spitsbergen appunto, occupa circa 39 mila kmq. È l’unica isola con una popolazione permanente e oltre la metà degli abitanti, circa duemila persone, vive stabilmente nella capitale, Longyearbyen. All’inizio del Novecento si erano installate anche due comunità russe, una a Barentsburg (ancora presente) e l’altra a Pyramiden, dove però l’esaurirsi della vena della miniera di carbone ha portato all’abbandono della cittadina. A Svea abitano 200 minatori mentre Ny Ålesund è la sede degli Istituti scientifici di ricerche artiche dei principali paesi europei. Ma le Svalbard non sono solo carbone o ricerche artiche. Per gli ap-

berghi. E agli orsetti piccoli va bene anche l’imbottitura dei sedili delle motoslitte: il profumo del materiale interno li attira e le motoslitte sono spesso prese di mira quando lasciate incustodite. Questo autorizza chiunque a girare armato: non ci sono restrizioni per il porto d’armi, anzi, è obbligatorio essere armati fuori città. Le autorità locali non danno il permesso di andare a fare delle escursioni se non provvisti di un bel fucile! E nei negozi, alla posta, negli alberghi, dei garbati cartelli ti invitano a mettere le tue armi nelle apposite cassette, prima di entrare. Un po’ come da noi quando andiamo in banca con la borsa o l’ombrello. Malgrado la posizione marcatamente settentrionale, il clima rende la vita relativamente possibile: la calda corrente del Golfo scorre lungo le coste occidentali e settentrionali rendendo le temperature estive e invernali sopportabili. Alla stessa latitudine in Groenlandia o in Alaska le condizioni di vita sono invece impossibili. Alle Svalbard le temperature medie durante l’inverno si aggirano intorno ai -12/14 °C come massime e -22/24 °C come minime. Le temperature più basse si riscontrano a febbraio-marzo dove si è raggiunto il valore record di - 40 °C. D’altronde un proverbio norvegese dice che il freddo viene con la luce. D’estate i valori medi sono attorno ai 5/7 °C pur avendo delle punte di temperature sotto lo zero anche nel mese di luglio. Il mare si ghiaccia da fine dicembre fino a inizio maggio. Si scalda, ma anche d’estate rimane su valori abbastanza bassi, raggiungendo al massimo i 4°C. Ma dire Svalbard, oltre che clima particolare, vuol dire anche luce particolare. La loro posizione all’estremo Nord e l’inclinazione dell’asse terrestre comporta d’estate il fenomeno del sole a mezzanotte e d’inverno una stagione buia e gelida, con la grande palla gialla che, mantenendosi sotto l’orizzonte, cede il passo all’oscurità totale. Per un certo periodo sembra comparire il sole, inizia una specie di aurora, come se arrivasse l’alba ma dopo qualche ora i colori si trasformano in quelli del tramon-

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Bisogna fare attenzione al colore. Non è tutto bianco, la neve assume tonalità che vanno dal rosa al rosso, i ghiacciai riflettono la luce del mare fino al verde smeraldo. Anche le case di Longyearbyen sfoggiano le tinte della natura to. A Longyearbyen, la capitale situata al 78° parallelo, a poco più di mille chilometri dal Polo Nord, il sole di mezzanotte dura dal 20 aprile al 20 agosto, mentre la notte polare inizia il 28 ottobre e termina il 14 febbraio con il risorgere del primo raggio di sole. Nel Museo della cittadina è stata costruita una splendida sala con il pavimento ricoperto di pelli di foca e morbidi cuscini. Due lati della stanza sono costituiti da delle enormi vetrate a tutta parete: è tradizione riunirsi in questo posto il 14 febbraio per assistere al primo raggio di sole che rispunta da dietro le montagne per un attimo dopo tanti mesi di buio. Le basse temperature, il fenomeno del permafrost (al di sotto dello strato superficiale che si disgela in estate, il suolo rimane permanentemente congelato) e la mancanza di luce per tanti mesi dell’anno giustificano l’assenza della vegetazione arborea mentre in estate muschi e licheni di tutti i colori ricoprono le rocce.

Guai a soffermarci sulla temperatura. Non è questa l’attrattiva vera. Bisogna fare attenzione al colore. Stando nella tiepida Europa ci immaginiamo che sia tutto bianco. Ma non è così. D’estate e in primavera emerge una piccola vegetazione, e la neve assume mille colori che vanno dal rosa al rosso per i riflessi del cielo nei momenti dei lunghissimi tramonti di un sole che non tramonta. I ghiacciai riflettono la luce dal mare e dal grigio possono arrivare fino al verde smeraldo. Le casette di Longyearbyen ci dicono tutto questo: ciascun abitante può dipingere la propria abitazione di qualsiasi colore a patto che sia presente in natura sulle isole. E, sinceramente, non ho visto nemmeno una casa bianca! Longyearbyen è la porta d’ingresso all’avventura artica. In passato da qui e da Ny Ålesund sono partite molte delle grandi spedizioni polari, da quella finita tragicamente in mongolfiera di Andreé a quella in dirigibile di Amundsen e Nobile (che con il passaggio sulla calotta polare aprirono la strada alle attuali rotte transpolari e dimostrarono che non


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“L’attrazione delle regioni polari - diceva Umberto Nobile - per chi vi è stato una volta, è irresistibile. Quel senso di assoluta libertà, quell’allontanamento da ogni cura di cose materiali che non siano indispensabili all’esistenza...”

La missione dello Spitsbergen Airship Museum o Spitsbergen Airship Museum (www.spitsbergenairshipmuseum.com) è stato inaugurato il 15 novembre scorso (il 2008 è l’Anno Polare Internazionale, il 30° anniversario della morte di Umberto Nobile, l’80° anniversario della tragedia dell’Italia di Nobile e della morte di Amundsen), alla presenza delle principali autorità di Longyearbyen e dell’ambasciatore italiano presso il Regno di Norvegia, Rosanna Coniglio. L’edificio in cui è collocato il museo, messo a disposizione dal comune di Longyearbyen e situato nella zona antica della città, è considerato oggi monumento storico nonché patrimonio culturale delle Isole Svalbard. La struttura è a due piani, l’area museale è situata al piano terra e occupa 300 metri quadri. Il museo vuole divulgare, con ogni tipo di documentazione cartacea in originale, prestito o copia, libri e filmati d’epoca, modelli o riproduzioni, la conoscenza e la storia delle tre spedizioni intraprese sulle terre artiche con il dirigibile (la spedizione del dirigibile America - Wellman Chicago Record Herald Polar Expedition - del 1907-1909; la spedizione del dirigibile Norge - Amundsen-Ellsworth-Nobile, Transpolar Flight - del 1926; la spedizione del dirigibile Italia con Umberto Nobile nel 1928 e le successive operazioni di soccorso effettuate alla Terra di Nord-Est). Non è da dimenticare che all’inizio del Ventesimo secolo diverse aree del pianeta erano ancora inesplorare e le

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spedizioni effettuate in dirigibile partendo dalle Svalbard verificarono l’assenza di terre emerse nell’Artico. Il desiderio del museo e dei suoi realizzatori, Stefano Poli e Ingunn Løyning, è principalmente quello di riunire e salvaguardare quel che ancora esiste di un patrimonio culturale che va protetto e tramandato alle generazioni future. Infatti in particolare la conoscenza delle spedizioni del Norge nel 1926 e dell’Italia nel 1928 non fu divulgata correttamente e ancora oggi presenta inesattezze e malintesi, a causa di interessi politici e ambizioni personali che ne favorirono la mal interpretazione. Gli avvenimenti storici oggetto del museo si svolsero alle Svalbard che dunque rappresentano la migliore locazione per il progetto museale. Le Svalbard sono inoltre, per il Trattato Internazionale Svalbard Treaty (Sevres, Francia 1925), un territorio internazionale e le 9 nazioni coinvolte nelle diverse spedizioni (Norvegia, Italia, Francia, America, Russia, Svezia, Germania, Canada, Svizzera) sono tutte firmatarie del Trattato. L’intento dello Spitsbergen Airship Museum, gestito come organizzazione no-profit, è di mantenere non solo viva l’attenzione per le terre Artiche, già al centro del problema climatologico mondiale, ma soprattutto ricordare la particolarità di un territorio che, per la sua conformazione e per la sua storia, è un ve(d.c.) ro patrimonio dell’umanità.

c’erano altre terre emerse fino all’Alaska) a quella tragica di Nobile e del suo equipaggio con il dirigibile «Italia». Proprio per far meglio conoscere la storia di queste spedizioni «aeree» che partirono dalle Svalbard negli anni che vanno dall’inizio del 1900 fino agli anni Trenta, è stato aperto da poco lo Spitsbergen Airship Museum che raccoglie ogni tipo di testimonianza (giornali, foto, diari, lettere, oggetti ritrovati, filmati e quant’altro immaginabile) di queste avventure. Anche solo scorrendo frettolosamente la lista delle spedizioni e dei progetti di spedizioni si comprende come il viaggio, qualsiasi esso sia, a queste latitudini non sia destinato a tutti. Bisogna essere preparati e attrezzati. Altrimenti difficilmente si potrebbero superare le difficoltà che si presentano in questo mondo «estremo». Certo, oltrepassato tutto questo appare ai nostri occhi l’ultima terra selvaggia del mondo, una natura unica e irripetibile, paesaggi straordinariamente insoliti. A pochi metri da noi si muovono animali non addomesticati.

Significative alcune frasi pronunciate un giorno da Umberto Nobile, che, come diceva sua figlia Maria, era stato «ammaliato dalla sfinge»: «L’attrazione delle regioni polari, per chi vi è stato una volta, è irresistibile. Quel senso di assoluta libertà dello spirito; quell’allontanamento da ogni cura di cose materiali che non siano quelle indispensabili all’esistenza; quel perdere valore di idee, principi, sentimenti che sembrano essenziali e importanti nel mondo civile; il denaro, l’oro, gli oggetti comunque preziosi, che diventano cose assolutamente inutili, da buttare via senza rimpianto; la legge umana che più non esiste e cede il posto a quella della natura; quella solitudine immensa dove ognuno si sente re di se stesso: tutto questo una volta provato, non si dimentica più, ed esercita un fascino al quale non è possibile resistere». Forse a questa libertà si riferisce la nostra fantasia quando indica il Polo Nord come terra di Babbo Natale.


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saggi

Poesia, miti e favole intorno al volo nel libro di Roberto Mussapi

Sulle ali dell’Albatro di Pier Mario Fasanotti stenetevi dal leggere questo bellissimo libro di Roberto Mussapi se non apprezzate la poesia, i miti, le favole, se non riuscite a staccarvi da terra, se non avete mai immaginato i contorni immaginari delle nuvole, se non vi siete mai interrogati sulla destinazione degli uccelli, se, insomma, non avete mai sognato di volare e considerate un Boeing un banalissimo autobus che solca il cielo. Appena pubblicato da Feltrinelli, Volare di Roberto Mussapi, poeta e fine saggista, è un inno, per nulla retorico, all’Albatro (che l’autore scrive con la «a» maiuscola, amichevolmente), il volatile presente in miti, leggende e poesie, e anche simbolo dell’ignavia umana, della cattiveria di marinai che s’affidano frettolosamente a un presagio oscuro salvo poi comprendere che l’assenza di vento e di vita in cielo non è altro che il preludio di lenta morte, il più terribile di tutti i destini.

A

Ma qui non si parla solo dell’Albatro. In ogni caso Mussapi parte da questo favoloso bipede citando il diario di bordo di Gorge Shelvocke, comandante di un vascello privato, pirata di mezza tacca. Siamo nel 1719 e un marinaio, passato lo stretto di Le Maire, uccide un albatro che sorvola le teste impaurite e infreddolite dell’equipaggio. Un sacrificio, pensando che poco dopo debba arrivare il vento buono. Un atto dettato dalla malinconia, anticamera della disperazione. Samuel Taylor Coleridge, grande poeta inglese, riprese l’episodio nella Ballata del vecchio marinaio. Coleridge ambienta la vicenda tra gli iceberg dell’Antartide, il continente bianco. Compare l’albatro, «attraverso la nebbia… come fosse un’anima cristiana», che «per cibo o per diletto» segue la nave finché viene abbattuto da una freccia. Un gesto di immotivata ribellione all’ordine divino, scrive Mussapi, «frutto dell’indifferenza». Il poeta inglese, annota l’autore di Volare, «sviluppa l’intuizione: il male, il vero male, prima ancora della violenza, la collera, l’o-

dio, è l’indifferenza malinconica, l’accidia, l’apatia». Raggiunto l’Equatore, arriva «la morte inerme, immobile, assetata» e duecento corpi di marinai cadono nel vortice nero della morte. Coleridge indica nell’uccisione dell’uccello la rottura di una relazione, di una sorta di matrimonio tra la natura e il divino che ha origine ai primordi della cultura. I volatili sono anche messaggeri. Di gioia e di dolore. E in quanto messaggeri «sono parte di noi». L’intuizione poetica l’ebbe Catullo, che pianse per la morte del passero dell’amata Lesbia, inghiottito dalle «maledette tenebre dell’Orco», le tenebre che divorano ogni dolcezza. La morte dell’uccellino racchiude anche la morte di una parte dell’amata. A proposito di passeri, ine-

Càer. Si stacca dal lago e abbraccia Oengus: «Trascorrono la notte in forma di cigni… e da quel giorno lui e la giovane donna vissero insieme amandosi in forma di umani e di cigni». Secoli dopo un altro grande poeta, William Butler Yeats, sarà rapito dal fascino dei cigni selvatici e scriverà uno dei capolavori del Novecento.

C’è poi la rondine e, come scrive Mussapi, il Pascoli col suo «patetismo piagnucolare», almeno come lo ha percepito da bambino. Straordinaria è invece la favola della rondine che cerca di raggiungere, prima dell’inverno, il caldo Egitto, ma s’innamora di un giunco e quindi si stacca dal gruppo delle compagne di migrazione. Il giunco è immobile, danza solo con

Il simbolismo dell’uccello ucciso da un marinaio che ispirò Coleridge, quello dei cigni che affascinò Yeats o della rondine cantata da Pascoli. E poi Catullo, Leopardi, Walt Whitman, Shakespeare… A insegnarci come staccare i piedi da terra vitabile ricordare la poesia di Leopardi che, secondo Mussapi, «lo usò come allegoria dell’uomo, in modo non dissimile da Esopo. In una delle più belle fiabe d’Irlanda s’immagina che Oengus, giovane dio, s’innamori perdutamente di una donna che durante una notte si accosta al suo letto prima di scomparire. Lui, che non riesce a trovarla da nessuna parte, s’ammala d’amore, deperisce. Finché gli eventi lo porteranno a capire che per cercare quella magnifica donna deve scrutare il volo dei cigni. Gli verrà rivelato che lei «per un anno intero vive in forma di uccello, l’anno successivo in sembianze umane». Si chiama

il vento, non sa offrire nulla. Quindi la rondine prosegue nella sua rotta e sorvola una città.Vede una statua su un’alta colonna, è quella del Principe Felice, chiamato così perché trascorse la sua breve vita protetto dal mondo, come murato vivo. Alla sua morte erigono un monumento in sua memoria, «scintillante e prezioso», cosparso di oro e rubini. La rondine si ferma lì, per la notte. Il cielo è sereno, ma lei avverte gocce d’acqua sulle sue piume, malgrado il ricovero eccezionale. A bagnarla sono le lacrime del Principe, triste perché finalmente ha visto, da lassù, le miserie del mondo. Ma essendo fis-

so a terra, non può intervenire. E piange dinanzi a povertà, disperazione, stenti, fame, fatica di quel popolo che non aveva mai realmente conosciuto. La rondine, che è già antico simbolo di tristezza secondo numerosi scrittori, conosce il motivo di quel dolore e decide di esaudire il desiderio del Principe (solo un tempo felice). Lui vuole che la rondine stacchi un rubino dai suoi occhi e lo depositi sul tavolo di una donna che non sa come sfamare il figlio. Poi un altro incarico, in favore di una fiammiferaia (figura ricorrente nelle fiabe), e alla fine il Principe rimane cieco. Malgrado il desiderio di raggiungere il tepore del Nord-Africa e l’allegria delle sue compagne, la rodine resta nella piazza per far compagnia al giovane di pietra. Rimane, ma il freddo di quella città non ha pietà di lei. Avverte l’arrivo della morte e chiede di essere baciata dal Principe. Questi è sollevato perché convinto che il piccolo essere volatile sia in procinto di volare verso l’Egitto. «No, io sto andando nella Casa della Morte» gli spiega. Narra Mussapi: «Lo baciò sulla bocca, ricambiata, e cadde morta ai suoi piedi. Il quel momento risuonò uno strano schianto all’interno della statua: il cuore di piombo s’era spezzato in due». Entra in scena addirittura Dio che chiede a un suo angelo di portargli «le due cose più preziose di quella città». E l’angelo prese con sé il cuore di piombo e l’uccello morto. Se in Pascoli, osserva Mussapi, «la rondine e l’aquilone comunicano solo tristezza e la morte è nuda, assoluta e compiaciuta», in questa favola, così come in alcuni versi di Walt Whitman e di William Shakespeare (Romeo e Giulietta), «la morte è indissolubilmente legata all’amore». Ci sarà la vita eterna. Grazie a un poeta. O meglio: grazie a tutti i poeti che aspirano a volare, a vivere per rinascere, a far vivere e a far rinascere. Roberto Mussapi, Volare, Feltrinelli, 241 pagine, 18,00 euro


tv

video

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Quello che

Rita

non dice

Enrico Ruggeri, conduttore di “Quello che le donne non dicono”. In alto, Rita Rusic, ospite recente della trasmissione

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discutere e ad approfondire ci pensano - quando lo fanno - i giornali e i settimanali. La televisione sbircia. E descrive con immagini quel che si può leggere, a puntate, sulle riviste più popolari. È in questa chiave che è stato pensato il programma condotto da Enrico Ruggeri, il cantante con la faccia buona che diceva «Dimmi quant’è che hai vissuto le piccole cose col gusto della vita». Ora fa l’intervistatore per Italia 1 (Quello che le donne non dicono, dopo le 23). Ogni puntata una donna che si racconta secondo un meccanismo che prevede sette «file» (filmati commentati) sui quali si esprime un ospite segreto, che appare all’ultimo: artificio usatissimo in passato. Tra le ultime ospiti di Ruggeri, milanese bonario e fin troppo signorile nel porre le domande, c’è stata Rita Rusic, nata a Parenzo (Croazia) nel 1960, e in Italia (con la madre e il padre che si dichiarò profugo politico) dall’età di quattro anni. Senza dubbio bella e procace, Rita non ha eluso le domande, ma si è dimostrata abilissima nel rispondere in modo generico. Dando prova di buon senso, esaltando i valori della famiglia, tenendo molto ad adombrare l’ipotesi che tra il suo ex marito, Vittorio Cecchi Gori, e lei, la vera imprenditrice era quella che portava la gonna. Rita, non a caso, ha definito «capo» il suocero Mario, fattosi dal niente e diventato uno dei più grandi produttori cinematografici italiani (ricordate Il sorpasso di Dino Risi?). Accenni senza livore o risentimento, an-

A

web

zi fatti con tono prudentemente assolutorio: «Eh sì, lui dava troppo retta a certe persone, alcune delle quali cattive….». Abbiamo saputo qualcosa di importante sulla nostra vip e più in genere sul mondo femminile? Assolutamente no. Quel che le donne non dicono alla fine non viene proprio detto, colpa anche di Ruggeri che non scava mai, che non mette all’angolo la donna da spogliare con le parole. La sua è una dichiarazione continua di solidarietà, di comprensione, di «scusi se mi permetto» o «non vorrei sbagliare se…». Spiace dirlo visto che è un gentiluomo e per nulla insinuante o volgare, ma è proprio così. Quindi Italia 1 manda in onda un intrattenimento leggero con un titolo che promette molto più di quel che mantiene.

games

Rita Rusic ha incontrato il cantante-intervistatore in piazza del Duomo, a Milano, poi i due si sono incamminati verso la Galleria, al centro della quale è stata allestita una gabbia di vetro, un ufficio televisivo semi-futurista e aperto al pubblico, che può curiosare senza sentire o intervenire. La parte più interessante dell’intervista è stato il ricordo del periodo della fuga dalla Croazia («là non c’erano prospettive, né di buona vita né di lavoro»), alla permanenza nel centro di San Sabba (brutto luogo triestino che rimanda al campo di concentramento), poi a Latina. Ogni famiglia, non importa quanti componenti, in una sola stanza. Il bagno in comune, nel corridoio. Nessuna amarezza si è disegnata nel volto algido di Rita, sostenitrice dell’ottimismo e ottimista lei stessa. Qualcosa che assomiglia all’ombra è apparsa dinanzi alla foto del padre. Per il resto bella e impassibile. Ex attrice con parti modeste e in film trash dove il regista otteneva l’esibizione del suo seno (come in Attila, il flagello di Dio con Diego Abatantuono), la slavissima Rita si è realizzata come produttrice: «La cosa più divertente è comandare». Ha scoperto Leonardo Pieraccioni (Il ciclone) e altri toscani (Cecchi Gori, già sfortunato e maldestro patron della squadra di calcio viola, è fiorentino, gente «tagliente» come ha detto lei), ha guadagnato soldi con cinque film prodotti dalla sua società. Saranno «taglienti» i toscani, ma come appaiono freddi (e de(p.m.f.) terminati) i balcanici!

dvd

LA RETE DEI BAMBINI

LITIGARE CON I GIORNALISTI

DE NIRO DI NUOVO OSCURO

C

he sia effettivamente, come annunciano i creatori, «il primo sito web 2.0 nato appositamente per i bambini», non è del tutto sicuro. Di certo www.mypage.it è un progetto serio, che cerca di avvicinare utenti giovanissimi, dai cinque anni in su, ai principali strumenti in uso per blog e social network, insegnando loro a comunicare e imparare in Rete. Il funzionamento di mypage è semplice:

C

ome diceva giustamente fa l’allenatore dell’Inter Josè Mourinho, «le partite iniziano nella conferenza stampa del mattino e finiscono con le interviste del dopogara». I creatori di Football Manager sembrano aver fatto tesoro di questa massima, e per l’edizione 2009 del gioco hanno deciso di approntare una serie di realistici incontri con i giornalisti nel preparti-

B

In “Mypage” una serie di pagine da personalizzare a disposizione dei più piccoli e in cui giocare

Dai rapporti con la stampa, a quelli con i tifosi: in “Football Manager” gli aspetti tattici della partita

Esce “Sfida senza regole”, pellicola cucita addosso al protagonista di “Taxi driver” e ad Al Pacino

ogni utente ha a disposizione una serie di pagine da personalizzare con sfondi, suoni e icone. Una volta realizzata la struttura del proprio sito il bambino può inserire video, giocare, colorare e leggere tramite i kidget, i giocattoli digitali. Le istruzioni disponibili rendono l’approccio parecchio intuitivo, tanto che l’aiuto dei genitori non dovrebbe essere indispensabile. Per garantire la tutela dei piccoli utenti, mypage non offre alcuno strumento di contatto diretto tra gli utilizzatori del sito e non vengono richieste informazioni che permettano il riconoscimento dei bambini. Il progetto è stato interamente sviluppato in Italia e ora verrà esportato anche in Francia e nel Regno Unito.

ta: spesso non è facile destreggiarsi di fronte al fuoco di fila di domande alle quali si viene sottoposti, tenendo conto che le risposte date possono influenzare il rendimento dei giocatori. Oltre ai rapporti con la stampa, l’allenatore virtuale deve curare quelli con il presidente e i tifosi e gestire lo spogliatoio. Si capisce quindi che il momento di sedersi in panchina per assistere alla partita diventa quasi una liberazione. Il simulatore in tre dimensioni delle azioni di gioco non ha nulla a che vedere con la grafica sofisticata ammirata su Fifa 09 o Pro Evolution Soccer, ma è noto che per Football Manager conta solo l’aspetto tattico della partita.

da novanta del cinema americano, Al Pacino. Sfida senza regole, uscito questa settimana in dvd, sembra proprio una pellicola cucita addosso ai due protagonisti: la trama è poco originale e non molto elaborata, come se il regista Jon Avnet avesse l’intenzione di non disturbare la libera interpretazione dei due attori, di nuovo assieme davanti la macchina da presa dodici anni dopo Heat, La sfida. La versione in dvd, curatissima nel suono e nella resa delle immagini, restituisce una New York livida e oscura anche nelle rare scene diurne, come si conviene a una crime story come questa. Da segnalare, tra gli extra, l’ottimo commento audio di Avnet.

uona parte della critica lo aveva ormai dato per artisticamente disperso, arreso a interpretazioni in film comici di bassa lega, nei quali il suo viso perennemente corrucciato finiva sempre per sembrare una maschera fuori posto. Forse per questo Robert De Niro ha deciso di tornare a un suo vecchio amore, il thriller poliziesco, e per farlo ha voluto accanto a sé un altro pezzo


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poesia

Il Presepe di Turoldo l Friuli e le origini contadine («In mezzo ai campi,/ mentre il gregge ruminava in pace/ io Ti chiamavo, Tu mi chiamavi»), anche come primigenio motore di una scelta consacrata a Dio, sono posti quasi in esergo all’intera produzione poetica di David Maria Turoldo (1916-1992) laddove si esplicita il mito d’un tempo tra infanzia e adolescenza vissuta nella terra natìa. E in questo momento iniziale della sua vicenda irrompe anche l’alta intimazione al sacerdozio: «Ricordo la tua mano protesa/ verso la mia casa/ e mi dicesti: “Sali/ a metterti la veste”». Si tratta delle due persistenze di Turoldo, una sorta di duplice emergenza tra il percorso di scrittura e quello sacerdotale e missionario. Le due urgenze, per sua stessa ammissione, hanno per lui tanto in comune: «La vera, la grande poesia, finisce sempre in preghiera (…) queste mie cose, comunque siano, nascono in un contesto appunto di preghiera».

I

Nei versi qui riproposti e dedicati al Natale, infanzia e Friuli ricompaiono con nitore a distanza di anni dagli esordi, avvenuti nel 1947 con Io non ho mani, la raccolta che la successiva Gli occhi miei lo vedranno (1952), lo portò alla ribalta anche letteraria. Nella poesia qui riprodotta, pubblicata nel mondadoriano Se tu non riappari … (1963), il tema del pastore di pecore che diventa pastore di uomini viene ripercorso in una visione essenziale. Come essenziale è l’intera poesia di David Turoldo, fondata su una stretta contiguità con la vita che lo spinse a una sorta di personale rielaborazione del famoso manifesto ermetico «letteratura come vita» dell’amico Carlo Bo: «Nessuno creda che si possa staccare la poesia dalla vita; la poesia non è un esercizio letterario». Sul piano tematico, poi, da subito il suo fare da un lato si concentra sulla profondità dell’essere umano e del vivere, irrorando una pronuncia iniziale quasi ermetizzante con una diffusa inclinazione melica, e da un altro si pone con attenzione elettiva alla storia degli uomini, alle miserie e alle menzogne che spesso la accompagnano e che sono state anche oggetto dell’intensa attività oratoria e di lettura dei Vangeli di questo sacerdote di certo scomodo, spesso in conflitto con l’establishment della Chiesa. La divaricazione persiste anche nell’onnicomprensivo volume rizzoliano O sensi miei… (1990) tra tensione verso la bellezza e la purezza assolute, che non sono della terra, e un incedere antilirico che sospinge l’eloquio verso denunce e ricognizioni sulla negativa condizione dell’uomo sul-

di Francesco Napoli

NATALE Ma quando facevo il pastore allora ero certo del tuo Natale. I campi bianchi di brina, i campi rotti al gracidio di corvi nel mio Friuli sotto la montagna, erano il giusto spazio alla calata delle genti favolose. I tronchi degli alberi parevano creature piene di ferite; mia madre era parente della Vergine, tutta in faccende finalmente serena. Io portavo le pecore fino al sagrato e sapevo d’essere uomo vero del tuo regale presepio.

David Maria Turoldo da Se tu non riappari…

la terra. Tornando ora al nostro esemplare, c’è da aggiungere che fino a quando Turoldo ha avvertito di aver conservato una piena dimensione pastorale ha anche avuto nel suo profondo la certezza del Natale del Signore. A distanza di anni dai voti sacerdotali si rammenta di quando conduceva «le pecore fino al sagrato» e da questo semplice agire ricava la percezione netta del suo essere prima d’ogni cosa uomo. I versi mostrano al lettore un presepio alquanto scarno, descrivendo con spoglie forme un paesaggio fatto di «campi bianchi di brina» e «rotti al gracidio di corvi» e tronchi d’alberi come uomini («I tronchi degli alberi parevano/ creature piene di ferite»). A ravvivare uno scenario così inesorabilmente bianco e immoto, la figura materna rasserenata dall’essere «tutta in faccende» ed elevata quasi al cielo in una sorta di apparentamento mariano. Una povertà quasi francescana pervade dunque questo presepio allora in contrasto con l’incipiente boom consumistico. Il Friuli, per sempre nelle sue corde, lo rivide agli inizi degli anni Sessanta parroco a Udine e impegnato in uno stimolante dialogo culturale con l’agnostico Pier Paolo Pasolini sfociato in un film, Gli ultimi (1962).

David Maria Turoldo, al secolo Giuseppe, da Coderno, frazione di Sedegliano in provincia di Udine, è stato un grande rinnovatore del cattolicesimo italiano. Si era posto da subito come coscienza inquieta della Chiesa, aderendo al postbellico «progetto Nomadelfia» di don Zeno Saltini, una comunità «con la fraternità come unica legge» che accoglieva nell’ex campo di concentramento di Fossoli orfani di guerra. Al suo arrivo a Milano, inizi anni Quaranta, entra tra i Servi di Maria e si distingue con particolare energia nella Resistenza meneghina intesa come «momento di comunione e di carità», come scrisse Carlo Bo che gli fu da subito tra i suoi più attenti interlocutori anche in poesia verso la quale fu instradato, se così si può dire, da un altro grande maestro di scuola cattolica, Mario Apollonio. Turoldo approdò allora alla lettura di Ungaretti, che appose una prefazione al suo volume Udii una voce del 1952, ma poi seppe dare «alla sua voce un’intonazione più alta, più religiosa, iniziando quel suo lungo itinerario che lo ha portato a rappresentare la famiglia dei salmisti in un mondo che non ha quasi più nulla dell’antica luce religiosa» (Bo), mostrandosi pienamente capace di rinnovare la forza della parola che fu di Ambrogio e dei suoi Inni.


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il club di calliope PER IGNORANZA

Pensieri piccini - e ciononostante, gremiti, per ignoranza, di errori e abbagli. Avrei dovuto la botanica imparare e la chimica: distinguere l’intima energia che matura in rosso certe bacche e altre ne rende azzurre. Praticare quel che è più umano, spremere il seme e il succo da ogni sodalizio, sebbene e amaramente succo e seme si rivelino a sodalizio sciolto, l’amore dopo l’amore, e la vita non si dia intera che dopo la vita. Ora è tardi anche per dire che è tardi.

Silvio Ramat

UN POPOLO DI POETI Afferra il colore prima che sbiadiscano i confini. Salva l'affresco Che sia eterno è mestiere tuo. Nella miseria della memoria trovagli un posto. L'alloro secca nel cambio di stagione, tu fallo verde per sempre. Abiti gli estremi come i confini. Vieni e segna una traccia possibile che sia te di nuovo. Torna la terra rossa, la sabbia di turchese impastata sul muro. Viene per ferire E mi raggiunge.

LAURETANO SULLE TRACCE DI PAVESE in libreria

di Loretto Rafanelli i Cesare Pavese, autore ancora molto letto e amato, escono di continuo lavori critici e tentativi di chiarire alcuni aspetti della sua vita. Tra questi segnaliamo quello del poeta Gianfranco Lauretano, La traccia di Cesare Pavese (Bur, 247 pagine, 10,00 euro), un libro atipico rispetto a un semplice saggio o una biografia. L’autore, ha infatti unito ampie valutazioni critiche (con scritti esplicativi di

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cupì, ciò che egli trasportò, dei luoghi, nelle sue poesie (Lauretano ritiene Pavese prima di tutto un poeta, come peraltro lui stesso si sentiva), nei suoi romanzi (con l’emozione nel vedere la casa in collina, proprio quella dell’omonimo romanzo). Ci sono le Langhe, quindi Brancaleone, il paese calabro dove Pavese venne mandato al confino, poi Casale, dove passò due anni, 1943-45, nel Collegio Trevisio dei Padri Somaschi,

Gli itinerai dello scrittore piemontese, anche quelli dello spirito nei rapporti con il suo confessore, in un libro che è qualcosa di più di una semplice biografia Pavese) e annotazioni varie, soprattutto di viaggio negli itinerari pavesiani, costruendo così un libro gradevole e istruttivo. Lauretano si è messo, realmente, sulle tracce di Pavese, attraversando, e visitando, i luoghi della sua vita e parlando con le persone che ancora lo ricordano (per esempio Silvia Balbo a Serralunga, a cui Pavese insegnò come doveva intonare una canzone). L’autore, ha osservato le marine, le strade, le campagne, le case dove Pavese ha vissuto. Ne viene fuori una storia avvincente, dove si scoprono mille cose del grande scrittore, toccando quasi con mano ciò che balenò nel suo occhio, ciò che lo in-

nascosto, per il timore di essere arrestato dai tedeschi, infine Torino. A Casale ci fu l’incontro con padre Felice Baravalle, che divenne suo amico e suo confessore. Lauretano inserisce nel libro, impreziosendolo, il testo di una conferenza che il frate tenne per ricordare Pavese, dove sosteneva la tesi di una conversione religiosa dello scrittore, o perlomeno di una sensibilità molto vicina alla fede.Tesi controversa questa, respinta da alcuni intellettuali comunisti. Ma, suggerisce Lauretano, come si può negare che quella «crisi religiosa» ci sia stata? Essa, dice, traspare anche in alcuni suoi libri, se letti senza pregiudizi.

Ma tu figura un desiderio all'attacco nei giorni. Vieni di nuovo ad aver ragione. Come sapevi la fine in anticipo. I confini Laura Vallieri

Accade. Accade d'un tratto che le tue pupille Pendano la pancia. Qui, proprio qui Sotto gli ulivi longevi. Francesco Gaspari

«Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma


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mostre

vevo già pensato di suddividere la rubrica in questo modo atipico, quando il breve articolo (un poco evasivo) che il narratore-critico del teatro Franco Cordelli (un amico da cui spesso amichevolmente dissento) ha dedicato a Bill Viola sul Corriere della Sera, diciamo pure con spensierata sufficienza, mi ha radicato in quest’idea di insistervi. Anche perché lui racconta d’avervi incontrato in mostra un altro stimabile amico come Alberto Boatto, con cui sull’arte figurativa forse concordo di più, e dissento dunque che Cordelli gli appioppi una soggettiva decrittazione d’enigma, che forse andrebbe indagata più a fondo e che vorrei capir meglio. Che significherà mai, per Bill Viola - grande artista contemporaneo - la sentenza: «è il colore della penitenza»? Dubito abbia il senso retrivo del titolismo da quotidiano: «videopenitenza» (come si legge appunto sul Corriere). E se Boatto avesse voluto alludere invece a qualcosa di più profondo, di più riformato? Di penitenziale, nel senso sacro della parola? Cordelli l’Impaziente, appena fuoriuscito dal Cechov dell’Eliseo (magari malmostoso per via di regia, posso capirlo) si vanta del suo record sportivo, d’aver liquidato Bill in quindici minuti. «Quei così rallentati movimenti ci vogliono portare in Paradiso. Io in paradiso non voglio andare». Credo che a Viola il destino dantesco dei suoi «critici» non stia così a cuore. Io invece debbo fare autocritica: forse è quella la volta in cui mi sono sbagliato di più, né mi costa ammetterlo. Anni fa, quando Viola non era ancora un mito (per eletti, constato) arrivò alla Biennale il suo video pontormesco sulla Visitazione (che certo avrebbe esaltato Pasolini). Alla vernice per la stampa si va spesso alla Biennale con i tempi contingentati dagli stessi padiglioni: ricordo e ammetto che, intruppato in quello svogliato tapis roulant di gente frettolosa e spingente, non avevo percepito così bene la profondità remota di Viola. Belle immagini sì, ma senza «tempo» di sviluppo. E ricordo che fu il vecchio e rimpianto amico Roberto Tassi (che per qual-

A

Dal tempo di Viola al manto di Bellini di Marco Vallora

arti

Tassi e mi denuncio ammiratore incondizionato di Viola. E a differenza di Cordelli penso che il lento tempo di «penitenza» creativa sia fondamentale, consustanziale all’opera, se no saremmo ancora lì alla bêtise di ripeter che Bruckner non la finisce mai (che tormento!) e che Proust annega in frasi troppo lente e involute. Dio ne scampi, cose da Bouvard e Pécuchet! Per gustare Viola bisogna lasciarsi intridere di lentezza umida e di tensione esplosiva, proprio come quei suoi uomini di buio, che scoppiano d’acqua e si gonfiano di pianto (Haendel, Rinaldo: «lascia ch’io pianga»). Se sei impaziente e vuoi andare al fine, non godrai nulla di lui. È una lezione importante, questo suo saper far scontare il tempo, anzi, far «vedere» il tempo, monito agli altri inesistenti video-artisti e per certi vani colleghi-critici, grandi sostenitori per di più della video-arte. Che quando sono in visita a mostre e Biennali - io me li spio spesso e volentieri, perché tutto ciò spiega molto entrano ed escono dei tunnel preposti alla visione video dopo un attimo, convinti d’aver già capito tutto e senza vedere nulla: sanno. Si provi invece a vedere in sequenza il Giambellino, alle Scuderie del Quirinale a Roma e poi Viola al contiguo Palazzo delle Esposizioni, per capire quanto pathos dell’arte abbia metabolizzato. Bellini, ovvero il «sentire della penitenza?». Già avverto sulle spalle il fiato d’un altro amico, che mi dice: «basta citare Longhi per Bellini, ma se ha fatto tanti guasti! Scrittura magnifica, è vero, però chi bada mai agli equivoci che ingenera?». Sarà vero, chissà, ma anche qui non riesco a sottrarmi al fascino di ricopiarlo, come uno scoliaste. «Uomo di meditazioni instancabili, mai pago di evocare l’antico, d’intendere il nuovo egli fu tutto quel che si dice: prima bizantino e gotico, poi mantegnesco e padovano, poi sulle tracce di Piero e di Antonello, in ultimo fin giorgionesco: eppure sempre lui, caldo sangue, alito accorato, accordo pieno e profondo tra l’uomo, le orme dell’uomo fattosi storia, e il manto della natura». Credo sia difficile dir meglio: la bellezza non rassicurante della scrittura è già comunque intelligenza. Manto protettivo: placenta.

che sciocco passa ancora come un rétro da poco) ad allertarmi: «dammi retta, torna a fine giornata, quando non c’è più gente e puoi star dentro quanto vuoi». Cioè quanto vale Bill Viola, Cechov a prescindere: da allora ringrazio la perspicacia di

Bill Viola, Roma. Palazzo delle Esposizioni, sino al 6 gennaio; Giovanni Bellini, Roma, Scuderie del Quirinale, sino all’11 gennaio

diario culinario

Ricette e memorie dall’Orto degli Angeli di Francesco Capozza aper vivere con piacere il passato è come vivere due volte». Questa massima di Marziale si confà egregiamente al bellissimo libro La cucina degli Angeli Nieri Mongalli, curato dalla storica e antropologa Maria Luciana Buseghin ed edito dalla casa editrice umbra La Rocca. Parlare di raccolta di ricette sarebbe riduttivo per il volume in questione. Piuttosto ci piace definirlo un «goloso album di memorie» che ripercorre la vita, i ricordi, le persone che hanno caratterizzato un secolo di vita della famiglia dei conti Angeli Nieri Mongalli. Il percorso storico e fotografico porta il lettore a conoscere non soltanto le tradizioni di una famiglia della piccola nobiltà umbro-marchigiana del secolo scorso, ma introduce anche alla conoscenza di una cultura gastronomica popolare resa attuale dalla rielaborazione degli scritti dell’e-

«S

poca custoditi gelosamente di madre in figlia, o figlio, come in questo caso. È infatti un maschio l’ultimo discendente della casata, Francesco Antonini dei conti Angeli Nieri Mongalli, che ha voluto attraverso questo libro e attraverso la sua casa, la fascinosa residenza d’epoca L’Orto degli Angeli a Bevagna, che al suo interno custodisce gelosamente e golosamente un ottimo ristorante dal nome evocativo, il Redibis (speciale anche per la sua collocazione, negli ambulacri maggiore e minore perfettamente conservati del teatro dell’antica Mevania, costruito nel primo secolo dopo Cristo, sotto l’imperatore Traiano), riportare alla memoria tanti ricordi e tante emozioni vissute fin da bambino. L’Orto degli Angeli è una casa meravigliosa, aperta a un pubblico selezionato non tanto dal prezzo, ma, osiamo credere, dalla cultura e dalla passione per le cose belle. Una passione e una cultura che, inutile dirlo, non sono proprie di tutti.

Un «goloso album fotografico» si diceva. È questo termine che ci viene in mente sfogliando le pagine ove si alternano bellissime immagini di piatti eseguiti con amorevole passione dallo chef del Redibis Antonio Falcone (con la consulenza «storica» del conte Francesco e della sua preziosissima moglie Tiziana) a fotografie che ripercorrono la storia della casata, alcune risalenti ai primi anni del Novecento. Scrive Francesco: «Le ricette di Casa Angeli sono state scritte tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, perciò alcuni degli elementi di cui sono composte appaiono oggi superati, almeno per quanto riguarda la realizzazione della ricetta, la sua traduzione in gustosa pietanza». Per rendere le ricette fruibili, infatti, si è dovuto in un qualche modo «attualizzarne» i contenuti, sostituendo alcuni ingredienti non più reperibili ovvero troppo pesanti rispetto a quelli utilizzati in passato (tipo l’uso del lardo o dello strutto, o di alcuni tipi

di cacciagione oggi non più in commercio). Un valore aggiunto ai menù riproposti nel volume (come pure in quelli del Redibis) è il fatto che essi seguono scrupolosamente, proprio come nell’antico ricettario di famiglia, un calendario stagionale legato anche alle festività. È questo il caso del menù proposto per la festività di Ognissanti con la suadente minestra di fagioli in purè o il sedano ripieno o in quello rielaborato per il Natale con i Cappelletti in brodo di cappone, galantina, o con la rinfrescante Plombière alla moscovita. Un modo nuovo per avvicinare il lettore alla cucina, stimolandolo visivamente, certo, ma ancor prima storicamente e culturalmente. Chi scrive è già in partenza per il locus amoenus in quel di Bevagna, siamo certi che farà lo stesso effetto al lettore. Maria Luciana Buseghin, Le ricette degli Angeli Nieri Mongalli, Editrice La Rocca, 254 pagine, 24,00 euro


MobyDICK

20 dicembre 2008 • pagina 15

moda

Negli schizzi degli stilisti il destino delle donne di Roselina Salemi li stilisti si dividono in due categorie: quelli che amano le donne (e le assecondano, accettano l’idea di un corpo, di una struttura che limiti la loro creatività) e quelli che le odiano, perciò vogliono trasformarle in qualcos’altro. Con il pretesto della moda, creano impalcature leggere che purtroppo devono essere indossate, ma sarebbe meglio di no. Senza le donne, alcuni sarebbero architetti, pittori, scultori, artisti. Le donne sono un limite fastidioso, però esistono, e comprano, perciò la moda deve tener conto di un dettaglio non trascurabile: soltanto le masochiste, che pure non mancano, scelgono abiti impossibili. Per capire chi ama le donne e chi no, bisogna andare a vedere i disegni. Perché c’è un momento, uno «stato nascente» in cui la giacca, la gonna, i pantaloni non esistono ancora, ma esiste il bozzetto, che spesso racconta molto più di una collezione. E dice sempre la verità. Gianni Versace ha pubblicato alcuni suoi strabilianti disegni (amava le donne, anche se le obbligava a essere sexy in modo piuttosto impegnativo) e ora De Agostini manda il libreria, una curiosa raccolta di Larid Borrelli, Lo stile degli stilisti: sessanta grandi

G

firme della moda e loro schizzi, a volte rapidi tratti di matita, a volte inchiostri acquerellati, da incorniciare, ma soprattutto uno sguardo attento sull’identità femminile. Yves Saint Laurent era un

archeologia

Uno schizzo di Sonia Rykiel e, a destra, uno di Christian Lacroix

mistico: non sapeva mai, prima di cominciare, che cosa avrebbe disegnato. Gianfranco Ferrè, l’Architetto, non riusciva a immaginare il Vestito. Pensava a lunghe, eleganti figure, le spalle, la vita e gambe infinite che sfioravano il margine del foglio. I suoi abiti contemplavano un pizzico di sadismo: ce n’erano di stupendi, da sera, talmente rigidi e complessi che si potevano portare soltanto in piedi e muovendosi pochissimo. All’opposto, Giorgio Armani aveva in mente un modello preciso già negli anni lontani in cui lavorava alla Rinascente. Immaginava una donna in greige con le famose giacche fluide, rigorose, un po’maschili. La trasformava in un’elegante working girl, prima ancora che le working girl esistessero. Diciamo pure che ha dovuto inventarle, per poi vestirle. Ma, anche quando non ci sono rivoluzioni, e dalla matita non nasce la minigonna o la petite robe noir, ognuno mette qualcosa di speciale nel disegno: Christian Lacroix le emozioni, il senso del colore, Jean Paul Galliano la follia (e raramente, un Dior somiglia allo schizzo dal quale è nato, a cominciare dalle proporzioni), Sonia Rykiel un’anima bambina, Bruno Frisoni (direttore creativo di Roger Vivier) la pignoleria.Tra il bozzetto e la boutique ci sono mesi di tormento e di estasi, metri di tessuti preziosi, nastri, gale e volumi visionari, operazioni di marketing e

spionaggio. C’è il business. Ma se i disegni possono dimostrare qualcosa, in questo caso dimostrano che l’identità femminile si è frammentata in mille

schegge, si è talmente liquefatta che soltanto il vestito può ridarle forma. E lo schizzo contiene già un destino. Larid Borrelli, Lo stile degli stilisti, De Agostini, 192 pagine, 45,00 euro

La parabola degli Inca e gli scavi dei Fori Imperiali di Rossella Fabiani lcuni libri di archeologia da far trovare sotto l’albero. Per appassionati, cultori o semplicemente curiosi. Bisanzio, Costantinopoli, Istanbul, a cura di Tania Welmans. Fondata come colonia megarese alla metà del VII sec. a.C., Bisanzio, mille anni dopo, non solo cambiò nome, ma, grazie a Costantino, che l’aveva eletta sua residenza, divenne la nuova capitale dell’impero. Ancora dopo un altro millennio, assediata e infine conquistata dalle truppe del sultano Maometto II, continuò a svolgere il ruolo di capitale, ma questa volta dell’impero ottomano, assumendo il nome di Istanbul. Di questa città straordinaria il volume offre un profilo accurato, supportato da un apparato iconografico di prim’ordine. (Jaca Book, 150,00 euro). La Dacia Romana, di Radu Ardevan e Li-

A

vio Zerbini. Gli autori ripercorrono le vicende dei territori che in gran parte corrispondono alla moderna Romania. Confermando la particolarità del «caso Dacia» nell’ambito dell’espansione dell’impero romano. (Rubbettino, 19,00 euro). I Fori Imperiali, di Roberto Meneghini e Riccardo Santangeli Valenzani. Preceduti dal dibattito lungo e a dir poco rovente, gli scavi nell’area dei Fori Imperiali sono stati ripresi oltre 15 anni fa. Di questa nuova stagione di indagini dà conto il libro. (Viviani Editore, 30,00 euro). Il viaggio dell’arte indiana, di Michel Delahoutre e Véronique Crombé. L’opera, illustrata dalle foto di Mireille Vautier, non affronta l’intera arte indiana, ma gli influssi che essa ha esercitato nei territori di Sri Lanka, Birmania o Myanmar, Thailandia, Cambogia, Laos e Indonesia. Di questo viaggio

gli autori sottolineano il carattere non violento: l’arte dell’India venne infatti trasmessa pacificamente e non fu imposta con dinamiche simili a quelle delle acculturazioni che hanno accompagnato molte grandi conquiste della storia (Jaca Book, 90,00 euro). Gli Inca, testi di Carolina Orsini. Alla metà del XII sec. gli Inca fecero la loro comparsa nella vallata di Cuzco (Perù) e, in poco meno di due secoli, diedero vita all’impero più esteso e potente del nuovo mondo. Che però, all’indomani dell’imboscata tesa nel 1533 da Francisco Pizarro al re Atahualpa, si sgretolò nell’arco di pochi giorni. A quella parabola straordinaria è dedicato questo bel volume, forte di un ricco corredo iconografico (White Star, 29,00 euro). Il disco di Phaistos, di Ennio G. Madau. Sacerdote francescano nonché studioso di archeologia e di epigrafia, l’autore propone la sua soluzione al «mistero» del disco di Festos. Un documento sulla cui interpretazione la disputa è ben lontana dal potersi dire conclusa (Zonza Editore, 20,00 euro). Cave Art, di Jean Clottes. Il libro, dedicato all’arte preistorica, conduce il lettore in un viaggio fantastico, attraverso più di ventimila anni di storia, ai quattro angoli del mondo: dalle celebri grotte della regione franco-cantabrica, con le note pitture parietali di Lascaux, alle misteriose rocce dipinte dell’Australia (Phaidon Press, 75,00 euro).


pagina 16 • 20 dicembre 2008

i misteri dell’universo

MobyDICK

ai confini della realtà

ra le persone attive in campo scientifico, i matematici non sono certamente quelli più noti al gran pubblico, e tantomeno è noto il contenuto delle loro ricerche. Questo è in parte dovuto al fatto che la matematica è una scienza basata su concetti in gran parte astratti e su risultati ottenuti con procedimenti spesso altamente tecnici e non banali. Dagli studi delle scuole secondarie i nomi di matematici usualmente noti che restano sono quelli di Archimede, Euclide, Newton, Leibnitz, Gauss. Meno noti ma considerati nel corso degli studi quelli di Diofanto, Cartesio, Eulero, Cauchy, Riemann, Hilbert, Goedel, Ramanujan e, fra gli italiani, Peano e Volterra.

F

Il numero di articoli matematici scritti negli ultimi duemila anni è superiore a tre milioni, e da anni è attivo un programma dell’Unesco per creare un sito internet dove siano tutti disponibili, in lingua originale e in inglese. Programma che richiederà non si sa quanti anni e che dovrà affrontare varie difficoltà, come i problemi di copyright. Ebbene, di tre milioni di lavori la maggioranza appartengono all’ultimo secolo, con una produzione annuale distribuita su migliaia di riviste, e in continua crescita (grazie in particolare ai contributi dei matematici asiatici). E tuttavia sarebbe difficile, chiedendo a una persona di buona cultura quali siano i matematici importanti dell’ultimo mezzo secolo, avere una risposta. Difficoltà che pure si avrebbe ponendo la domanda ai matematici stessi, che conoscono generalmente solo coloro che lavorano nel loro specialistico campo. Ad esempio, per restare in Italia, chi saprebbe riconoscere in De Giorgi, Bombieri, Zellini, Sergeyevich, Trigiante, Bini, Magenes alcuni dei maggiori matematici italiani di tale periodo? La stessa sorte tocca al matematico ungherese Jeno Egervary, morto tragicamente cinquant’anni fa, al quale è stata dedicata all’inizio dell’autunno a Ischia una sessione del convegno annuale della Società Italiana di Ricerca Operativa. Egervary è stato ricordato per tre motivi in particolare: - in collaborazione con l’amico Koenig fu il primo a dare, negli anni Trenta, un efficiente algoritmo per l’ottimizzazione combinatoria, una delle principali classi del problema dell’ottimizzazione, fondamentale nelle applicazioni. Tale metodo, pubblicato in

Alla riscoperta di Egervary di Emilio Spedicato ungherese, fu tradotto in inglese all’inizio degli anni Cinquanta dal matematico Harold Kuhn di Princeton, che utilizzò un vocabolario lavorandoci per un paio di settimane, e fece controllare la traduzione dalla nonna ungherese. Il metodo da allora è noto come metodo ungherese ed è stato lo spunto per ampi sviluppi, su cui ha

fatto una rassegna il professor Martello dell’Università di Bologna; - è autore di un bellissimo teorema, che stabilisce l’equivalenza delle equazioni di moto del problema dei tre corpi, quello che provocò a Newton un tremendo mal di testa, non essendo risolubile con formule, con le equazioni del giroscopio rigido;

L’importanza del matematico ungherese morto suicida a causa della persecuzione comunista. Come quella di Nash, raccontata al cinema da Ron Howard, anche la sua vicenda fornirebbe materiale interessante per una trasposizione sul grande schermo - in una serie di lavori ha studiato le proprietà di una speciale trasformazione matriciale e l’ha applicata alla soluzione di sistemi lineari continui, e diofantei omogenei. Tale trasformazione è alla base dei metodi cosiddetti ABS, documentati in circa 400 lavori e in due monografie, e sviluppati a partire dal 1981 nell’ambito di una collaborazione fra l’Università di Bergamo (da me) e ricercatori ungheresi (Abaffy, Galantai), inglesi (Broyden, Dixon), cecoslovacchi (Luksan, Tuma), russi (Belyankov, Burdakov), iraniani (Mahdavi-Amiri, Esmaeili) e particolarmente cinesi (Deng, Xia, Huang, Zhang). Tale collaborazione ha portato a una unificazione degli algoritmi per la soluzione di sistemi lineari e non lineari, continui e a interi, e degli algoritmi per l’ottimizza-

zione non lineare con vincoli lineari. Si è ottenuto un metodo per sistemi lineari con complessità inferiore a quella del metodo di Gauss, e la più generale classe di algoritmi per il sistema diofanteo, decimo problema di Hilbert lineare, generalizzando risultati di Eulero e di Rosser.

Come l’amico Koenig, suicida a causa della persecuzione fascista, Egervary morì suicida per i problemi creatigli dalla burocrazia comunista. Un caso dimenticato di persecuzione di una grande scienziato, che si è voluto onorare con la speciale sessione del convegno. Un caso di estremo interesse, perché vede l’interazione fra scienziati e poteri politici che fornirebbe materiale per un’avvincente trasposizione cinematografica. Su matematici sono stati prodotti pochi film, il più notevole è stato quello su Nash, A Beautiful Mind di Ron Howard, divenuto interessante per il suo problema di schizofrenia. Nash, fra l’altro, è citato soprattutto per i lavori di teoria dei giochi, ma lo stesso Von Neumann li aveva dichiarati ovvia conseguenza delle sue teorie, e lo stesso ha confermato Kuhn nella lectio magistralis che tenne a Bergamo quando ricevette la laurea honoris causa. Il risultato importante di Nash riguardava la soluzione di uno dei 23 problemi di Hilbert, ma questa era già stata ottenuta e pubblicata su una rivista italiana da Ennio De Giorgi, il matematico cattolico che, come cattolico, non avrebbe potuto essere un matematico secondo i dogmi di Odifreddi.


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