2008_01_25

DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA

Carte di e h c a n cro di Ferdinando Adornato

OTTO PAGINE SPECIALI

Fede e libertà Ferdinando Adornato, Paola Binetti, Rino Fisichella, Franco Frattini, Savino Pezzotta, Camillo Ruini, Claudio Scajola

a pagina 9

modello Attalì DIECI PUNTI PER IL BENE COMUNE di Giuliano Cazzola

a pagina 4

fecondazione LE SENTENZE IN PROVETTA Francesco D’Agostino Assuntina Morresi a pagina 5 Gabriella Mecucci

centrodestra TORNIAMO ALLA COSTITUENTE

pagina 6

Poste italiane spa • Spedizione in abbonamento postale d.l. 353/2003 (conv. in L. 27-02-2004 n.46) art. 1; comma 1 - Roma

di Sandro Bondi

sicurezza

LA MIA RICETTA PER IL XXI SECOLO di Rudolph Giuliani

FINE FINE DI DI UN UN PREMIER PREMIER

Il piccolo diavolo Bilancio e psicoanalisi di un italiano testardo nel comandare, ma destinato a dividere e a fallire PAGINE

QUOTIDIANO • 25

GENNAIO

2

E

medio oriente

NON FINANZIAMO PIÙ L’AUTORITÀ PALESTINESE pagina 18

di Daniel Pipes

musica

ORA GATTI ESPUGNA BAYREUTH di Jacopo Pellegrino

pagina 21

ISSN 1827-8817 80125

3

2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •

pagina 7

9 771827 881004

NUMERO

11 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30

pagina 2 • 25 gennaio 2008

il piccolo

diavolo

Un leader senza popolo, un generale senza truppe

STORIA DI UN ITALIANO PICCOLO PICCOLO di Gennaro Malgieri o abbiamo visto a Montecitorio e a Palazzo Madama pietire fiducie che sapeva di non meritare. Fuori dai Palazzi schivare la gente che lo fischiava ed accostarsi con gli occhi socchiusi, compiacente, a giornalisti-tappetini che lo blandivano. Gli abbiamo sentito dire banalità incommensurabili, con aria ispirata, al punto di suscitare il riso o il compatimento. In ogni suo atteggiamento abbiamo colto i tratti di un furbo levantino sul punto di vendicarsi di qualcuno, nemico dichiarato o amico sospettato di tradimento: magari non è così, ma questa è l’impressione che dà. Comunque mai la sua voce, il suo incerto eloquio o i suoi gesti ci sono apparsi quelli di uno che voleva mostrarsi gradito e gradevole. E ci siamo chiesti: ma da quale anfratto della complessa psicologia degli italiani è venuto fuori Prodi? A quale “anima”del Paese è riconducibile il suo “spirito animale”che lo guida nel dividere e mai nel tentare di unire?

L

Un uom o capace di scatenare risse tribali in una società fragile preda degli umori più volubili o di farsi sopraffare tanto per il gusto di dimostrare la sua testardaggine, non sarebbe un problema se non facesse il presidente del Consiglio. Per nostra disgrazia è un problema di dimensioni gigantesche dal momento che non si è mai reso conto quanto la sua impopolarità renda insopportabile la vita pubblica.

Questo dato non può essere sottaciuto.

E’ un dato pre-politico, al quale Gustav Le Bon o Scipio Sighele, studiosi della dimensione pubblica delle personalità, conferiscono un’importanza tutt’altro che marginale nel raccontare le fortu-

“

ne dei potenti o dei semplici rappresentati del popolo. Prodi suscita entusiasmi cimiteriali perché esprime un’Italia dimessa, priva di grandezza, di generosità, di ambizioni.

Vi vacchi a com e può, per quanto può.

A guisa di quegli emarginati metropolitani che non si domandano mai se hanno un destino oppure no: punta a durare. Ogni giorno che passa non è un giorno perduto, ma guadagnato. E si avvia così alla gloria dei sopravvissuti, come tanti altri italiani che hanno avuto la ventura di salire i gradini del

Si è rivelato un uomo capace

”

capacità di stabilire un rapporto di simpatia con i suoi governati.

E, sopra ttutto , non am mette che lo si trascuri. Quando lo defenestrarono da presidente del Consiglio, esattamente dieci anni fa, pretese la presidenza della Commissione europea e alla scadenza del mandato, non ha fatto altro che preparare le condizioni per tornare a governare, inventando (anzi facendosi inventare) un partito che non è mai nato sotto la sua guida. Insomma, un leader senza popolo, un generale senza truppe. Fastidioso il po-

di scatenare risse tribali in una società fragile, preda degli umori più volubili o di farsi sopraffare

tanto per il gusto di dimostrare la sua testardaggine.

Ogni giorno che passa non è un giorno perduto, ma guadagnato. Ora si avvia alla gloria

dei sopravvissuti, come tanti altroché hanno avuto la ventura di salire i gradini del potere

potere e goderne senza apprezzarlo.

La grande scuola di politologia napoletana, applicata alla miseria, direbbe di Prodi che il suo massimo piacere è quello di “chiangere e fottere”. L’interpretazione è variabile. Ma questo è il dato del suo carattere politico. E per quanti sforzi si facciano al fine di nobi-

dalla dispensa che dai preziosi arredi.

Prodi attraversa il deserto della politica italiana senza neppure darsi l’aria di chi si finge salvatore della Patria: salvare se stesso o affermare il suo smisurato ego è tutto. Non si spiegherebbe altrimenti l’esaltazione che lo pervade quando sta per cadere, né l’in-

Piacque, dispiacque, ripiacque per poi diventare un fastidio

iaceva Romano Prodi nell’ormai lontano 1995, quando fu scelto come volto di uno schieramento di sinistra che non poteva candidare uno dei suoi leader a Palazzo Chigi. Piaceva a tutti perché veniva dall’extra-politica (cioè dall’Iri), perché era comunque un uomo di potere, perché la sua cultura era il dossettismo, perché era un nome del Mulino. Unico ad esprimere qualche riserva era stato Massimo D’Alema, con la sua famosa battuta: «Noi mettiamo i voti, gli altri gli eletti».

Piaceva un po’ meno nell’ottobre del 1998, quando andò incontro alla sfiducia di Fausto Bertinotti e dovette lasciare la guida del governo. Era già diventato scomodo e ingombrante, Piaceva ancora meno quando alle elezioni europee del 1999 i suoi amici presentarono la lista dell’Asinello, che i Ds vissero come fastidiosi concorrenti. Ma comunque era lontano, era a Bruxelles e non si parlava ancora del suo ritorno in patria da protagonista.

Ricominciò a piacere nel 2005, quando le sinistre

P

litarlo, resta quello che è: un politico senza vocazione. E niente c’è di peggio che essere governati da una figura di tal genere. Infatti, cooptato per disperazione da una classe politica orfana di leader, dal 1996 immagina che gestire la cosa pubblica equivalga a prendersela: Palazzo Chigi non è la sede del governo, ma un’agenzia di collocamento di amici (possibilmente fidati) che devono gestire il patrimonio dello Stato sotto l’abile regia del presidente del Consiglio. Come quegli italiani che mettendo piede in una prestigiosa dimora sono attratti più dalla cantina e

pensarono di affidarsi di nuovo a lui nel conto alla rovescia per la rivincita contro Berlusconi. Piaceva ancora la sua primitiva immagine bonaria, anche se la durezza della politica l’aveva incupita.

Piaceva la sua capacità di tessitore, la tenacia con cui poteva tenere insieme la variegata coalizione. E piaceva al punto tale che gli vennero costruite attorno prima le liste di Uniti nell’Ulivo (le nonne del Pd che c’è ora) e poi le primarie con le quali venne caricato di milioni di voti, con un’investitura di cui tutti si sarebbero rapidamente pentiti. E al punto tale da meritarsi l’endorsement del Corriere della Sera.

Piaceva sempre più quando vinse le elezioni del 2006. Se non altro perché, pur avendole pareggiate, fu lui a mostrarsi in pubblico e a proclamare che sa-

polo, fastidiose le truppe.Vuoi mettere: piangere e fottere, come direbbero tutti gli altri italiani, è molto meglio. Almeno fino a quando popolo e generali (nel senso di partitocrati) decretano che il suo tempo è scaduto. E allora, a Prodi non resterà che l’ultimo treno per Bologna.

rebbe rimasto a Palazzo Chigi per tutta la legislatura. Piaceva ancora di più nell’estate successiva quando – grazie al protagonismo di D’Alema – l’Italia assunse la guida della missione Unifil 2 e la sua politica estera venne eletta a modello, grazie ad una campagna mediatica. Piaceva poi da impazzire, quando presentò il famoso pacchetto Bersani: finalmente – si disse – le liberalizzazioni che non aveva fatto la destra erano realizzate dalla sinistra.

Ma l’incantesimo finì lì. Alla prima Finanziaria, Romano Prodi cominciò a non piacere più ai suoi sponsor e ai suoi alleati, anche se questi capirono che non potevano liberarsene. E, quando smise definitivamente di piacere, anzi cominciò davvero a dispiacere, nel giugno dell’anno scorso Walter Veltroni fu trascinato alla guida del Pd, allo scopo di cancellarne l’immagine ormai pregiudicata. Cominciò a diventare un fastidio ed un fastidio è rimasto fino all’ultimo.

il piccolo

diavolo

25 gennaio 2008 • pagina 3

Psicoanalisi del professore

L’homo prodianus? È il portavoce della depressione di Claudio Risé

Dal ’96 ad oggi il bilancio della sua vita politica è segnato da un permanente “vorrei ma non posso”

L’Incompiuto di Giancristiano Desiderio rodi è una metafora. Nato da un parto tormentato, il governo del Professore ha mostrato fin dal primo vagito il suo limite: una fiducia legale senza fiducia popolare. Numeri e voti insufficienti? Non solo. Più che altro una mancanza di credibilità, persino da parte dei suoi che facevano finta di crederci per contratto e interesse parlamentare. In due parole: un governo senza qualità nato per durare perché, come diceva il gigante Andreotti, tirare a campare è meglio che tirare le cuoia. Un governo piccolo piccolo ma con un naso grande grande perché, come il classico ragazzino tutto pepe nato dalla fantasia di Collodi, ha raccontato una mare di bugie agli italiani. Non per cattiveria, però. No. Per necessità.

Perché il centrosinistra italiano è fatto così: non sa uscire dai confini politici e sociali che delimitano la sua stessa esistenza. E così mette al mondo governi-ragni, ossia dei governi che tessono una tela sterile che alla fine finisce con inghiottire lo stesso governo e la sua maggioranza. I governi Prodi sono la forma più avanzata di questi governi-ragnatela che mangiano se stessi. E Prodi stesso è il presidente-uomo-ragno. Il suo governo della fiducia legale è già da sempre un governo sfiduciato: sta in piedi, ma non respira. Muove la zampette, tesse con pazienza la tela che lo seppellirà. Purtroppo, questa è l’amara eredità di una Seconda Repubblica che avrebbe dovuto realizzare la democrazia dell’alternanza e ha costruito la democrazia dell’altalena.

L’unica cosa che non mente è la storia. Persino la storia politica di Romano Prodi. Basta saperla ricostruire o anche solo ricordare.

La prima volta l’uomo ragno durò due anni o poco più e fece nulla o

P

poco più. Precisamente il governo Prodi I fece l’euro. Ricordate? Anche in quel caso ci fu il ricorso a una Grande Bugia: niente tasse. E invece la tassa per “entrare in Europa” ci fu e salata e con la falsa promessa: “Poi restituiremo tutto”. Stiamo ancora spettando. Ma lasciamo stare, questa è un’altra storia. Perché ciò che interessa a noi oggi è la incompiutezza del Prodi politico. Fatto l’euro, infatti, il governo Prodi si sgonfiò come un pallone gonfiato male o, per continuare con l’immagine del ragno, cadde nella tela che con cura aveva preparato. Prodi perse la

La sua è da sempre una sfida alla legge di gravità: cammina ma non si muove, parla ma non dice, opera ma non agisce bussola, non sapeva bene cosa fare e cosa scrivere nell’agenda di Palazzo Chigi, mentre Fausto Bertinotti aveva la voglia matta di girare pagina. Andò come andò: tutti giù per terra, con Prodi e Veltroni che reclamavano il ritorno al voto, e con D’Alema che passò loro sopra per realizzare l’idea di Francesco Cossiga: il governo con il primo presidente del Consiglio ex comunista o giù di lì. Il governo dell’Ulivo - il famoso Ulivo mondiale, ricordate? Sì, ricordate, ma non ridete che è storia vera non mise radici, pur essendo il centrosinistra ben radicato nelle istituzioni e nella società, tanto da rappresentare quello che fu chiamato il Potere italiano. Ma passia-

mo al Prodi II. La seconda volta, si sa, è una farsa. Quasi sempre è peggio della prima volta. Nel 2005 c’è il ritorno.

Ancora una volta il Professore è presentato come il salvatore della patria. Soprattutto della patria centrosinistra. Ma inizia subito male. Pur sapendo di non aver vinto le elezioni, mette su l’esecutivo più numeroso e pingue della storia repubblicana: un’orchestra stonata composta da ben 102 elementi.

Per dirigere una tale filarmonica ci sarebbe voluto il genio di un Toscanini, ma Prodi suona a orecchio e, soprattutto, ripete sempre la stessa musica. Passa un anno e siamo nuovamente al punto di partenza: nasce il Pd e muore il governo. Prodi continua ad andare a Palazzo Chigi, ma ormai la sua è una sfida alla legge di gravità. Cammina ma non si muove. Parla ma non dice. Opera ma non agisce. La storia, che non sarà maestra di vita ma pur ha qualcosa da dire, si ripete. Il Professore si incarta e mostra ancora una volta di essere una promessa non mantenuta. La ragnatela del centrosinistra lo avvolge in un abbraccio mortale.

La storia politica di Prodi, del Professore bolognese che inventò l’Ulivo, è questa: è un capitolo della più ampia storia della sinistra ex e post comunista.Tuttavia, è una storia essenziale perché nei panni del personaggio Prodi quella storia sembra quasi passare dalla politica alla letteratura, dalla vita reale alla sua commedia e diventare così una metafora o una sineddoche.

Il centrosinistra identificandosi con la storia politica, sociale e costituzionale della Repubblica adotta una politica più che conservatrice che si limita a fare “il giro della prigione”. Prodi è stato allo stesso tempo il carceriere e il carcerato di questa politica.

ove non riuscirono due guerre mondiali, una guerra civile, una storia di miseria secolare, di ricchezza guadagnata con enorme fatiche e inquietanti squilibri, è riuscito, in una manciata di mesi, Romano Prodi.

Il Buster Keaton alla rovescia, l’uomo che ridendo ti mette voglia di piangere, ce l’ha fatta a vincere il tradizionale ottimismo e vitalità degli italiani, a farli diventare tristi. Se ne è accorto persino il New York Times, e molti, sia a sinistra che a destra si sono inalberati. Gli italiani tristi? Che enorme sciocchezza! Invece è proprio così. Tutti i sondaggi segnalano aspettative nerastre, stanchezza, voglia di gettare la spugna. C’è una continua crescita dell’emigrazione fra i giovani quadri più qualificati, soprattutto verso Inghilterra, USA, ma anche Mosca e l’Est. E gli stranieri hanno gettato la spugna anche loro: piuttosto che cercare di comprare e mettersi a trattare con la corte di burocrati di Prodi, vendono i marchi italiani che avevano collezionato. Ultima Nestlé che si vende la Buitoni.

Come mai quest’effetto neppur troppo vagamente gotico per quest’emiliano paffuto, che ha inutilmente cercato di annettersi l’aura allegra e da bon vivant che accompagna i suoi conterranei amanti di tortellini e, appunto, mortadella?

Il fatto è che l’inconscio collettivo non è scemo, non si lascia abbagliare dalle apparenze. Non basta assomigliare ad una mortadella per esserlo. Se vai al potere per le alchimie di una legge elettorale balzana in un elettorato spaccato in due; ci rimani in una situazione di minoranza intermittente; contrattando fino allo spasimo ogni provvedimento pur di non finire a gambe all’aria; rinunciando a tutti quelli, pur necessari, che non ti danno spazio di mediazione; non lasci passare un affare di rilievo senza porre le tue condizioni ed i tuoi uomini; e intanto te ne infischi completamente dei sondaggi che ripetono sempre più che il popolo non solo non ti ama, ma di odia; assomiglierai pur a una mortadella, ma in realtà sei un tiranno. Nel senso di uomo cui interessa soprattutto il potere, infischiandosi dei suoi effetti sul paese, e della volontà popolare di togliertelo. Questo tipo di politico, tirannico appunto, anche se può affermarsi in un regime totalitario, ma anche in una democrazia ( certo non troppo in buona salute), getta il popolo in depressione, come osservava acutamente Vilfredo Pareto, il padre della scienza politica, già all’inizio del secolo scorso. Il popolo si deprime perché soffre di asfissia, gli manca l’aria per respirare. La società respira quando cresce, quindi cambia, innova, immagina, rischia.

Quando nulla di tutto questo può accadere, perché tutto è deve solo mantenere l’esistente, magari rallentandolo ancora di più (come è accaduto nei grandi affari durante il consolato prodiano) per evitare nuovi ingressi, nuovi sviluppi, e conservare, rafforzandolo, il potere, la società si mummifica. Il Palazzo diventa così, anziché il promotore delle forze di domani, il museo del potere di ieri, che è anche quello di oggi, e pretende di rimanere per sempre. La casa dei morti viventi, da cui ogni tanto escono progetti in tono con lo stile complessivo: le stanze per il buco, l’eutanasia, l’eugenetica prenatale. Uno scenario horror, che farebbe impressione a chiunque. Gli italiani sono brava gente, finora indomita. Questa volta, però si sono impressionati. E sono diventati tristi. Speriamo che passi.

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scenari Consensi bipartisan ad un’ipotesi che resta assai difficile

E nei Palazzi si fa strada la chimera delle larghe intese di Errico Novi ROMA – La convinzione si fa strada anche nel centrosinistra, e sarebbe ingiusto spiegare la tendenza solo con quanto avvenuto ieri in Senato: serve una fase nuova, di riconciliazione e accordo tra le parti per lavorare alle riforme più urgenti, non solo a quella elettorale. Lo hanno detto ieri figure di peso del Pd come Anna Finocchiaro e Nicola Latorre, prima che si compisse il destino del governo Prodi. Giuseppe Caldarola non deve far altro che restare coerente alle tesi sostenute da tempo: «Non c’è altra strada che quella del dialogo. Il clima di scontro all’ultimo sangue ha prodotto danni innumerevoli. Si è avvelenata la vita civile e si sono paralizzate le istituzioni. Soprattutto direi che la classe politica è stata selezionata in modo che prevalesse la figura del guerriero su quella dell’uomo di governo. È arrivata l’ora di trovare un accordo transitorio, temporaneo e limitato quanto si vuole».

Allo stesso centrodestra non può sfuggire che in un clima di recessione la convergenza sulle riforme conviene. «E ci immaginiamo», si chiede Caldarola, «cosa potrà accadere se il Kossovo dichiara l’indipendenza e la Serbia non ci sta? Torniamo a una crisi tragica come quella del ’98 e noi stiamo ancora ad occuparci di cose invisibili come il Procuratore capo di Santa Maria Capua Vetere».

ra il dire (di una commissione di studio) e il fare (di un governo e di un’assemblea legislativa) c’è di mezzo il mare (della politica e della dialettica degli interessi), anche in Francia. La Commissione Attali è sicuramente autorevole (saremmo curiosi di conoscere come si è espresso in quella sede il nostro Franco Bassanini considerando le posizioni dello schieramento politico di cui è componente prestigioso ancorché emarginato); ma anche in quel paese la strada del cambiamento s’inerpica in salita. Il presidente Sarkozy, però, ha cominciato bene. Non si è lasciato intimorire, quando ha scelto di rivisitare i regimi pensionistici privilegiati (Oltralpe – diversamente dall’Italia - sempre scampati agli interventi riformatori), nonostante l’asprezza delle proteste dei sindacati e dell’opposizione (il paese è stato sull’orlo della paralisi per alcune settimane).

Il governo Fillon ha raggiunto, nei giorni scorsi, un accordo con le parti sociali su di un sistema di flexecurity che ha innovato persino la (delicata) disciplina della risoluzione del rapporto di lavoro, la cui revisione in senso meno vincolistico è la sfida cruciale (si vedano le indicazioni del Libro verde

T

Lo svenimento del senatore Cusumano (Udeur) causato dalla tensione in aula dopo la sua scelta di votare la fiducia al governo L’assemblea costituente può essere lo strumento per mettere il Paese sul binario della responsabilità? «Ne sono convinto. Non solo ci darebbe la possibilità di riscrivere le parti della Carta che riguardano l’ordinamento senza per

questo distrarre il Parlamento», nota il parlamentare democratico, «ma darebbe essa stessa un senso di pacificazione.

Sarebbe un raggio di sole».

Sul fronte del centrodestra ci sono le posizioni di assoluta apertura come quella

dell’Udc. Ma anche da An, assai meno sedotta dell’ipotesi del governo istituzionale, si ragiona in modo molto possibilista sull’apertura del dialogo. Alfredo Mantovano parte da un vincolo, dalla necessità che il centrodestra «abbia una propria posizione molto chiara sulle regole costituzionali ed elettorali.

Dopodiché si può arrivare a decisioni importanti anche affrontandole una per volta», spiega il senatore, «basterebbe recuperare proposte avanzate dallo stesso centrosinistra in questi ultimi anni assolutamente condivise dal nostro schieramento. A cominciare dal rafforzamento dei poteri del premier, svolta sulla quale eravamo tutti d’accordo già nella Bicamerale. Altra strada che si può percorrere insieme, almeno con il Pd, è la riforma della giustizia. È stato Luciano Violante a proporre in passato di assegnare la funzione disciplinare nei confronti dei magistrati oggi svolta dal Csm a un organismo di garanzia diverso». Mantovano ricorda un tema improvvisamente cancellato dal dibattito politico, «quello della sicurezza: i sindaci del centrosinistra si sono trovati nei mesi scorsi su posizioni molto più vicine alle nostre che a quelle della loro parte. Dubito che su problemi del genere potremmo coinvolgere la sinistra estrema. Ma dal Pd arrivano segnali positivi che lasciano aperti molti spazi».

Il modello francese della commissione Attali

Dieci punti per il bene comune di Giuliano Cazzola della Ue) della riforma del mercato del lavoro. C’è da aspettarsi, allora, che il “pacchetto Attali”troverà le gambe per camminare, anche se si renderanno necessari quei giusti compromessi che costituiscono, al dunque, una delle regole fondamentali di un regime democratico. Per noi italiani la sorpresa c’è; ed è tanta nell’assistere ai contenuti del dibattito in cui sono impegnati i nostri “cugini”. In Italia siamo costretti a misurarci con un muro di luoghi comuni – la cosiddetta precarietà, la mistica della “quarta settimana”, la presunta condizione d’indigenza dei pensionati e quant’altro è stato usato dalla sinistra per avvelenare i pozzi della convivenza civile fino a diventarne essa stessa vittima – che non vengono soltanto branditi come clave nella lotta politica, ma che ormai sono accettati (senza discussione e senza verifiche) ed amplificati persino dai media.

Il Belpaese è l’unico nel mondo sviluppato che ha abbassato l’età pensiona-

bile, pur assumendo una prospettiva di incremento più graduale ma inficiato da pericolose (per i conti pubblici) agevolazioni per il c.d. lavoro usurante. In precedenza, il solo esecutivo ad aver adottato misure di riduzione (a 60 anni) era stato il primo di Francois Mitterrand: sono trascorsi oltre trentacinque anni, però. Si è osteggiata la legge Biagi, modificandola in parte (per fortuna contenuta) nonostante gli evidenti risultati positivi che la moderna legislazione dell’ultimo decennio (a partire dall’opera di Tiziano Treu) ha conseguito sul versante dell’occupazione. La manomissione del lavoro a chiamata e l’abolizione della somministrazione di lavoro sono veri e propri atti di luddismo legislativo. Neppure il governo Berlusconi si sarebbe mai sognato di mettere a fuoco tanti problemi – innovativi ma dirompenti – come i dieci punti di Attali. Andando ancora più indietro, ai tempi del primo governo Prodi, venne dato l’incarico ad una com-

missione, presieduta da Paolo Onofri, di elaborare un progetto di riforma del sistema di sicurezza sociale. Ne scaturirono talune relazioni che ancora adesso rappresentano un livello di elaborazione organica, in seguito mai più eguagliato. Ma quel progetto, respinto e liquidato in pochi minuti da parte dei sindacati, finì in un cassetto, dove è rimasto ad ammuffire nell’oblio. Ogni popolo ha il governo che si merita. Si vede che a noi tocca pagare il fio di qualche grave peccato originale.

la polemica

25 gennaio 2008 • pagina 5

La “carica” della magistratura, amministrativa e non, per “forzare” la legge 40 sulla fecondazione artificiale

LE SENTENZE IN PROVETTA Parla Francesco D’Agostino

«La difesa della vita del nascituro non è aggirabile» di Gabriella Mecucci a sentenza del Tar del Lazio si esprime per la cancellazione del divieto di diagnosi prenatale. Questa volta è toccato alla giustizia amministrativa romani esprimersi, in precedenza, nella stessa direzione, si era mossa anche la magistratura fiorentina e quella caglieritana. A Francesco D’Agostino, giurista cattolico ed ex presidente del comitato nazionale di bioetica, chiediamo il perché di questi ormai numerosi pronunciamenti.

Professore, la legge 40 sulla procreazione assistita rischia di essere stravolta?

La 40 è una legge tormentata che una parte dell’opinione pubblica continua a non accettare: si cerca con una serie di ricorsi di intaccarla. Mi sembra comunque positivo che in questa occasione si è deciso di rinviare la questione alla Corte Costituzionale: è un bene che l’Alta Corte si esprima chiaramente e, io spero saggiamente, su questo argomento. Sulla legge si sono dette e scritte cose inesatte.

Ad esempio?

Non è vero che la 40 sia ostile alle diagnosi prenatali e quindi abbia un atteggiamento antiscientifico. La legge le vieta solo se costituiscono un danno per l’embrione o se vengono poste in essere con la priorità di distruggere l’embrione malato. Se servono a curarlo sono autorizzate. Se invece sono funzionali ad una selezione eugenetica non sono permesse. La 40 non è, dunque, contro le diagnosi prenatali, ma deve essere chiaro che si fonda su un principio fondamentale: la difesa della vita del nascituro. È questo principio che si vuol far saltare?

Non possono essere le sentenze a cambiare l’ispirazione fondamentale della legge. Per fare ciò occorre una riforma approvata dal parlamento oppure un pronunciamento della Corte Costituzionale.

Sembra complicato sostenere che la difesa della vita del nascituro è anticostituzionale?

Purtroppo in Italia ci sono usi linguistici perversi sulla base dei quail, ad esempio, l’aborto eugenetico viene chiamato aborto terapeutico. Trucchi per far passare aberrazioni di tipo morale. Ma io spero nella saggezza della Corte Costituzionale. La legge 40 bilancia l’interesse procreativo di una coppia con l’interesse del bambino a nascere. Questo è il suo principio di fondo.

Il ministro Livia Turco sta lavorando alle nuove linee guida della legge, ma sin qui non le ha presentate.

Perchè questo ritardo?

Il ministro si muove con grande prudenza, ma è evidente che è sottoposto a fortissime pressioni per snaturare la legge. Non c’è dubbio che si trovi in una situazione di imbarazzo. Le linee guida però servono a dettagliare la legge. Hanno una caratteristica tecnica, non dettano principi: non possono dunque intaccare l’essenza della 40 che è – come dicevo – la difesa della vita del nascituro. Non possono creare spazi che la legge esclude.

L

di Assuntina Morresi intervento a gamba tesa del TAR del Lazio sulla legge 40, è l’ultimo, e sicuramente il più pesante, fra quelli dei giudici che mirano a demolire l’impianto della legge sulla procreazione medicalmente assistita, approvata da una maggioranza parlamentare e confermata dai referendum del giugno 2005.

Si vuole colpire, annullandolo, il divieto della diagnosi preimpianto – l’esame genetico su embrioni prodotti in laboratorio prima del loro trasferimento in utero – cioè uno dei punti nodali della normativa sulla procreazione medicalmente assistita: secondo il TAR del Lazio tale divieto è contenuto non nel testo di legge ma nelle linee guida, che lo avrebbero inserito per “un eccesso di potere”.

L’

È n o t o invece che l’impianto della legge 40 è costruito sul fatto che le nuove tecniche di fecondazione in vitro vogliono essere solo un’opportunità per coppie infertili di diventare genitori, e non sono disponibili per chi volesse usarle per scegliere di avere un figlio sano, scartando quelli malati. Quest’ultima è una pratica chiaramente eugenetica, ed è esplicitamente vietata nell’art.13 della legge, laddove si vieta ogni selezione a scopo eugenetico degli embrioni. E d’altra parte, coerentemente, le coppie portatrici di malattie genetiche non hanno accesso, per la 40, alle tecniche di fecondazione in vitro. Permettere la diagnosi

preimpianto scardinerebbe quindi una parte importante della legge, stravolgendone il significato e gli obiettivi globali.

Nonostante la Corte Costituzionale nel 2006 si sia già pronunciata sull’argomento, dichiarando inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art.13 della legge proprio nella parte che vieta di effettuare la diagnosi preimpianto, lo scorso anno due sentenze di tribunali ordinari si

Si vuole vanificare il risultato referendario e le decisioni del Parlamento.

Positivo che si esprima la Corte Costituzionale

sono pronunciate in merito, dichiarando illegittimo il divieto: il tribunale di Cagliari, lo scorso settembre, e quello di Firenze, a dicembre.

Curi osame nte, durante la campagna referendaria chi si opponeva alla legge 40, affermava che questo divieto era inserito nella legge, e per questo motivo ne chiedeva l’abolizione di alcune sue parti, mentre adesso le stesse persone affermano convinte che il problema non è la legge, ma solamente le sue linee guida.

Si cerca quindi di modificare sostanzialmente l’impianto della normativa aggirando il parlamento – dove non ci sono maggioranze disponibili a questa operazione, indipendentemente dall’attuale momento di crisi – e ignorando allegramente il risultato referendario: ancora una volta a sostituirsi alla politica arrivano i giudici, come oramai sembra d’uso nel nostro paese.

Chiamata in causa dal TAR del Lazio, la Corte Costituzionale dovrà di nuovo pronunciarsi in merito ad alcune parti della 40, stavolta sul limite massimo dei tre embrioni da produrre e poi impiantare contemporaneamente, e sulla loro crioconservazione.

Sarà bene, allora, che la formulazione delle nuove linee guida attenda il pronunciamento della Consulta, che metterà la parola fine a questa serie ininterrotta di attacchi e di interpretazioni arbitrarie.

pagina 6 • 25 gennaio 2008

pensieri

editoriale che ha aperto il primo numero di liberal quotidiano centra con acume e profondità politica tutti i problemi cruciali che una classe dirigente degna di questo nome deve porsi se vuol dare al Paese le risposte che questo legittimamente si aspetta dopo quasi due anni di laceranti sofferenze inflitte da un governo delle sinistre che, per arroganza e incompetenza, non ha uguali nella storia della Repubblica. L’errore fondamentale che ha posto le basi per il nuovo, definitivo fallimento dell’Unione fu compiuto la notte delle elezioni quando, con i risultati del voto non ancora proclamati dal Viminale, annunciarono al loro popolo di aver vinto le elezioni. Il presidente Berlusconi ha più volte parlato di ”notte degli spogli e dei brogli” e quella fu, in effetti, la prima di tante pagine nere scritte in quasi due anni sulla pelle degli italiani. Se invece di arroccarsi in una inesistente autosufficienza politica, la sinistra avesse coscientemente ammesso di avere se non perso, almeno pareggiato la contesa elettorale, non avremmo perso due anni preziosi sulla strada delle riforme. aese.

L’

Adornato giustamente rimarca che non è più tempo di grandi coalizioni: si può al massimo aspirare a disegnare insieme una cornice di regole, ma i veleni iniettati dal governo Prodi nella vita politica e nel corpo sociale sono tali e tanti che ci vorranno anni prima di poter ristabilire in Italia le condizioni di un Paese normale. La Grande Coalizione si sarebbe dovuta fare all’inizio di questa legislatura, invece si è scelta la strada della protervia che ha portato la sinistra italiana in un vicolo cieco, con un premier che, invece di prendere onestamente atto del suo fallimento politico, ha avvelenato tutti i pozzi prima di lasciare Palazzo Chigi. Un comportamento irresponsabile, non degno di un uomo di Stato.

Ora, probabilmente, toccherà al centrodestra risollevare l’Italia dalle macerie in cui l’hanno gettata due anni di malgoverno, e sarà un’impresa difficile, drammatica, ma anche esaltante se sapremo affrontarla con il giusto spirito di ricostruzione nazionale.

Adornato giustamente si chiede: esiste ancora un principio di unità della nazione? E individua la causa prima di questa anomalia storica, nel germe della guerra bipolare che ha prodotto non solo una nazione imperfetta, ma anche un perenne deficit di riformismo. E’indubbio che la Seconda Repubblica, nata per far uscire l’Italia dalla palude del bipolarismo forzato Dc-Pci, ha fallito il suo compito, ma questo è avvenuto quasi esclusivamente a causa dei ritardi storici che rinchiudono la sinistra italiana in una prigione ideologica. La Seconda Repubblica era nata grazie al forcipe di Tangentopoli e della falsa rivoluzione giudiziaria, e non avrebbe potuto avere peggior levatrice, poi la discesa in campo di Berlusconi le impresse una svolta di modernità e tentò di imporle una poderosa spinta di omologazione alle grandi democrazie occidentali. Ma, se ben guardiamo, un esempio di democrazia governante l’abbiamo sperimentato solo nei cinque anni in cui la Cdl è stata alla guida del Paese, pur con tutte le carenze e i freni derivanti - come osserva giustamente liberal - da un sistema di regole completamente inadeguato, perché il premier continua ad essere solo un ”primus inter pares” e non il dominus del governo.

Cosa significa questo? Significa che non conviene solo al centrodestra ”stare insie-

L’INTERVENTO

Il coordinatore di Forza Italia sul dibattito aperto da Ferdinando Adornato

Riprendiamo con gli alleati il cammino (costituente) interrotto di Sandro Bondi

È giusto: occorre seppellire l’ascia di guerra e ricostruire l’alleanza sulla strada indicata dalla Costituente

me”: conviene all’Italia, perché non ci sono alternative valide, e perché gli ex comunisti, epigoni di se stessi, tutto hanno fatto in questi quindici anni tranne che una seria revisione della propria storia.

Abbiamo sentito tante successive abiure, ma le vecchie prassi, i vizi inveterati e gli impulsi alla mistificazione sono sempre rimasti gli stessi, tanto che quando il centrodestra ha varato una riforma costituzionale, sia pure migliorabile, la sinistra l’ha tacciata di golpismo, salvo poi riproporla praticamente negli stessi termini nella legislatura successiva. Classico esempio di un modo assolutistico di intendere la politica che contiene ancora in sé tanti, troppi elementi di leninismo.

Non è in base ad una facile deriva autoassolutoria, dunque, se affermo che le colpe maggiori della palude di immobilismo a cui è stata coindannata l’Italia sono di questa sinistra che, dopo aver debellato il riformismo craxiano come fosse un virus venefico, si è persa nella terra di nessuno degli apolidi in cerca di radici e di casa. La sinistra, smarriti quasi tutti i suoi riferimenti ideali, conserva ormai solo feticci: la Costituzione intoccabile, anche se, dopo sessant’anni, l’Italia è ancora prefigurata come una Repubblica fondata sul lavoro - concetto mutuato dall’Unione Sovietica - e non sulla libertà, che è il valore dei valori. Come pure l’ambiente, anch’esso ritenuto intoccabile, per cui si chiudono tutte le discariche, non si

fanno i termovalorizzatori e si condanna così Napoli, una delle più belle città del mondo, a vivere in apnea sotto una vergognosa babele di spazzatura. E poi il laicismo diventato integralista, per cui la crema - anzi, la schiuma - di certa intellighenzia si indigna perché un Papa teologo apertissimo al dialogo è stato invitato in un ateneo italiano. Questa regressione di una parte non marginale della sinistra - il dieci per cento, o più, di essa si riconosce ancora orgogliosamente nel comunismo! - ha contribuito non poco al fallimento della cosiddetta Seconda Repubblica. Che ha segnato - e segna - una palese alterazione democratica a causa del patto surrettizio tra una parte della sinistra e una parte della magistratura. E io credo, cari amici di liberal, che dovremo partire proprio da qui per rifondare l’Italia: dalla separazione delle carriere tra magistratura inquirente e magistratura giudicante. Ci avevamo provato nella passata legislatura, ma contrasti politici e resistenze corporative ebbero la meglio sulla determinazione riformista. Ferdinando individua nell’Assemblea costituente l’unico strumento in grado di avviare una concreta stagione di riforme.

Non so, sinceramente, se un’opinione pubblica stremata da due anni di politica politicante, di tasse ingiuste e di clientelismo sfrenato, che hanno scavato un solco tra Palazzo e Paese alimentando i fantasmi dell’antipolitica, sarebbe felice di vedere incrementato il numero dei parlamentari dovendo eleggere rappresentanti di ben tre Camere, quando la richiesta vibrante che sale dal Paese è quella di diminuire i costi della politica. Demagogia? Forse, ma ci sono momenti storici in cui la politica, pur certa delle proprie ragioni, non può voltarsi dall’altra parte per non vedere e ascoltare gli umori della gente. Ed è questo che ha fatto Berlusconi quando, dopo lo straordinario successo della mobilitazione popolare dei gazebo, ha annunciato la fondazione del nuovo partito. Io sono convinto che se

Veltroni e il Partito democratico sapranno far valere le proprie ragioni, sapendo che le riforme vanno fatte davvero, non ci sarà bisogno di un’Assemblea costituente, perché il prossimo diventerà un Parlamento costituente. E veniamo al centrodestra. Mi sembra che tutti, o quasi, abbiano riconosciuto che la tattica delle tre punte, alle elezioni del 2006, è stata una delle cause della non vittoria. Perché se un merito va attribuito alla Seconda Repubblica, è aver affermato la democrazia del leader, che è ormai il modello di tutte le grandi democrazie occidentali. Certo che il leader non basta, come dice giustamente Adornato, e infatti in questi anni Forza Italia ha fatto crescere una classe dirigente che non è seconda a nessuno.

E’ stato questo, e lo rivendico con orgoglio, il tratto distintivo del mio coordinamento nazionale. Ma il leader è l’elemento primario del cambiamento democratico.

Ritengo necessario, a questo proposito, chiarire un equivoco: quando Berlusconi ha fondato il PdL lo ha fatto non per mettere nell’angolo Forza Italia e i suoi alleati, ma per imprimere un’accelerazione a un processo storico che va completato nei tempi necessari, ma al più presto. Condivido in pieno le argomentazioni di Adornato quando sostiene che il compito che ci attende è talmente gravoso che dovremo coinvolgere nell’opera di ricostruzione nazionale anche istanze sociali al di fuori del centrodestra. Era proprio questo l’intento di Berlusconi quando ha costruito, con il nuovo partito e con i circoli, un’area di azione politica e di pensiero in grado di attrarre energie nuove, e non è certo un caso che ai gazebo per cacciare via il governo Prodi siano affluiti tanti cittadini che avevano votato per il centrosinistra. Non si sono certo esaurite le ragioni storiche, politiche e culturali per riprendere insieme il cammino con i nostri alleati. C’è un filo riformista da ricominciare a tessere, e c’è un’identità di vedute che non può essere andata dispersa in questi due anni di traversata nel deserto. Non sono solo le ragioni della politica, c’è l’interesse nazionale a imporci di presentare agli italiani un’alleanza fondata su basi nuove ma sugli stessi valori comuni e su un serio programma di riforme. Di fronte a un’emergenza così drammatica, sarebbe irresponsabile da parte di tutti non seppellire per sempre l’ascia delle incomprensioni. Se vogliamo rispondere alla sfida del Pd, e alla sua dichiarata vocazione maggioritaria, abbiamo solo una strada da percorrere: riprendere il cammino dell’aggregazione unitaria, in nome dei valori del Ppe, certo in modo graduale e partecipando con pari dignità ad un autentico processo democratico. Perché allora non riprendere il cammino nel punto in cui ci eravamo fermati nel 2005, e cioè dall’assemblea costituente, che, grazie al comitato di Todi e al lavoro appassionato di Adornato, aveva consentito di giungere ad un passo dal traguardo finale?

&

parole

el primo decennio del Ventunesimo secolo, gli Stati Uniti hanno dovuto far fronte al più mortale degli attacchi e al più distruttivo dei disastri naturali nella storia del Paese. Il termine «sicurezza interna» (homeland security) non era sul tavolo del dibattito nazionale delle elezioni del Duemila. Ora, dopo l’11 settembre e l’uragano Katrina, ogni americano comprende che la sicurezza interna è al centro delle responsabilità di un presidente.

Secondo i rapporti ufficiali, ci sono stati non meno di 14 tentativi d’attacco terroristico interno e nove complotti internazionali contro interessi e cittadini americani. C’è stato un piano per far saltare il ponte di Brooklyn e alcuni aerei sulla rotta atlantica. Dei terroristi hanno cospirato per ammazzare soldati americani a Fort Dix e pianificato di incendiare i condotti del carburante all’aeroporto internazionale Jfk. Ad oggi, non un singolo complotto «post 9/11» sul suolo statunitense ha avuto successo. Non è un caso: è la misura, a livello nazionale, dell’aumento dei controlli.

Combattere contro al-Qaeda e altri gruppi terroristici sarà, negli anni a venire, la sfida più importante per l’America. Solo attaccando otterremo la vittoria, in quella che definisco la guerra dei terroristi contro di noi: sconfiggendo le organizzazioni terroristiche e braccando i suoi capi, dovunque si trovino; aiutando l’Afghanistan e l’Iraq a costituire dei governi rappresentativi e stabili; aiutando a diffondere il buon governo in tutto il mondo islamico; e sconfiggendo l’Islam militante nella guerra delle idee.

Questi sforzi a livello internazionale sono fondamentali, ma non sufficienti, per vincere la guerra. Dobbiamo anche proteggere la nostra gente e la nostra economia, rendere sicuri i confini, e prevenire attacchi terroristici, qui a casa nostra. Queste responsabilità sono la componente nazionale di un confronto più ampio, e hanno bisogno di puntare a qualcosa di più che solo al terrorismo. Come ha sottolineato Stephen Flynn nel suo libro The Edge of Disaster, «circa il 90 per cento degli americani vive in posti che li collocano ad un rischio medio-alto rispetto a fenomeni come i terremoti, le eruzioni vulcaniche, gli incendi, gli uragani, le alluvioni, o i danni da tempeste di vento».

Prepararsi contro attacchi terroristici o i disastri naturali sono obiettivi complementari: quando le città e gli Stati si attrezzano per le calamità naturali, rafforzano anche la nostra risposta contro i pericoli potenziali del terrorismo. (...)

N

Prevenire attacchi terroristici, prima che accadano, deve essere il nostro obiettivo principale. Naturalmente, l’America deve mantenere un atteggiamento offensivo, sul piano internazionale, quando affronta temi come le armi di distruzione di massa (Wmd), usando una diplomazia risoluta e misure economiche per scoraggiare gli Stati dal commercio di materiali pericolosi che minaccino gli americani. Le nazioni che continuino in tale commercio devono subire un embargo – o peggio. Qui a casa e nei porti d’oltremare dobbiamo dislocare il meglio della tecnologia per quanto riguarda i controlli sulla radioattività, per proteggerci dal materiale nucleare fissile, come dalle bombe «sporche», e da altri ordigni radioattivi, e dobbiamo continuare con lo sviluppo e l’accumulo di vaccini per la difesa contro il bioterrori-

25 gennaio 2008 • pagina 7

Guerra al terrorismo e SICUREZZA interna, la mia ricetta per le SOCIETÀ del XXI secolo di Rudolph W. Giuliani

”Dobbiamo rendere l’America più sicura, ma anche dimostrare ai nostri amici che siamo una società aperta e non una fortezza impenetrabile” smo. Dobbiamo anche essere pronti per altre forme di attacco, come il cyber-terrorismo – un’arma di disturbo di massa.

Le tecnologie digitali guidano la nostra economia nazionale e controllano gran parte delle infrastrutture cruciali. L’America non può permettersi di aspettare una Pearl Harbor elettronica prima di prendere sul serio il cyber-terrorismo.

Ma questi passi, se pur importanti, non risolveranno quello che è ora largamente riconosciuto come il problema della condivisione delle informazioni fra le nostre agenzie federali d’intelligence e quelle giudiziarie, così da permetterci di «unire i punti» per scoprire gli attacchi terroristici prima che accadano. Alcuni teorizzano, basandosi sul rapporto della Commissione 9/11, che gli attacchi dell’11 settembre avrebbero potuto essere evitati, se Cia e Fbi avessero superato gli impedimenti istituzionali interni ed esterni alle agenzie e avessero condiviso le informazioni. Giusto per fare un esempio molto conosciuto, la Cia all’inizio del Duemila sapeva che un sospetto terrorista di al-Qaeda aveva ottenuto un visto d’ingresso e che un’altro era volato fino in California. Ma Langley (la sede della Cia, ndr) non lo comunicò all’Fbi e non

registrò il soggetto nella lista nera del dipartimento di Stato. Come risultato, due dei futuri dirottatori dell’11 settembre, s’infilarono negli Usa. Indipendentemente dal fatto che una migliore comunicazione potesse essere stata o meno sufficiente per un’azione preventiva contro gli attacchi, è sicuramente prudente per il futuro eliminare questa lacuna.

Molti tipi di impedimenti ci hanno intralciato negli anni Novanta. Alcuni riflettono le differenze culturali fra le agenzie dirette all’azione penale e quelle della comunità dei servizi, orientate alla raccolta d’informazioni. Altre erano richiesti per legge, come la limitazione nel condividere informazioni che provenivano da udienze preliminari e intercettazioni sulla criminalità. Altre ancora erano autoimposte, come il famigerato «muro» eretto dal dipartimento della Giustizia dell’amministrazione Clinton, nel 1995, che complicò la collaborazione fra gli agenti del controspionaggio estero dell’Fbi e i propri investigatori sul crimine organizzato. (...)

La sicurezza interna e quella dei confini sono inseparabili nel Ventunesimo secolo. La storia di Ra’ed al-Banna è un agghiacciante promemoria sul perché. Il 14 giugno del 2003, ad al-Banna fu negato l’ingresso negli Usa, all’aeroporto internazionale «O’Hare» di Chicago, dagli ispettori della Customs and Border protection, che lo interrogarono dopo che il Sistema automatico d’identificazione (Ats) l’aveva individuato come meritevole di ulteriori accertamenti. Il 28 febbraio del 2005, al-Banna si fece esplodere coin-

volgendo altre 125 persone nei pressi di una clinica di Hilla in Iraq. È stato uno degli attacchi suicidi più letali di al-Qaida sul suolo iracheno. Non sapremo mai se al-Banna era giunto negli Usa per infliggere la stessa ferita, ma un forte sistema di sicurezza frontaliero gli ha impedito di averne l’occasione. Ancora, un recente Nie (National intelligence estimate) concludeva che al-Qaeda sta intensificando i suoi sforzi per infiltrare agenti operativi all’interno degli Stati Uniti. La sicurezza deve migliorare agli ingressi ufficiali come l’O’Hare, alla stessa maniera che lungo la nostra porosa frontiera terrestre.

Porre termine all’immigrazione illegale e identificare tutti i cittadini senza permesso di soggiorno è fondamentale per prevenire il terrorismo. Ci servono carte d’identità biometriche a prova di frode per tutti i cittadini illegali e un unico database nazionale su di loro, che includa informazioni sulla data di partenza obbligatoria. E se i cittadini senza permesso commettono crimini, dovranno essere espulsi dopo aver scontato il periodo di detenzione (...) Anche se dobbiamo rendere l’America più sicura, dobbiamo mostrare ai nostri amici, in giro per il mondo, che l’America è un Paese aperto agli affari, non una fortezza impenetrabile. I migliori e i più brillanti dovranno venire in America – per studiare qui, per lavorare qui, e in qualche caso per diventare cittadini americani. È solo attraverso questo processo che intensificheremo i legami tra l’America e il mondo musulmano che sarà indispensabile per prevalere sull’estremismo islamico radicale. © City Journal

pagina 8 • 25 gennaio 2008

focus Dopo l’endorsement di David Cameron per John McCain

Il mondo può votare per la Casa Bianca? È il nostro partner ma non siamo inglesi.

Noi tifiamo sempre

Rivendico il mio diritto di ingerenza nelle primarie Usa

I tories topparono quando scelsero Bush contro Clinton

di Margherita Boniver

di Giorgia Meloni

di Ettore Greco

n Inghilterra come si sa le regole sono in genere rispettate, quindi ha fatto un certo scalpore che David Cameron rompendo il bon ton diplomatico si sia schierato per la candidatura di John McCain. Da noi, così fan tutti, si tifa apertamente per questo o per quello e a volte sembriamo dei grandi esperti quando discettiamo del voto dei lavoratori alberghieri a Las Vegas (che è andato a Hillary).

La corsa per la nomination è la più lunga di qualsiasi democrazia, e per i candidati che si spostano da stato a stato per vincere le primarie, in realtà è cominciata gia da un anno. È un rito che nasce con i founding fathers e malgrado il complicato meccanismo non è del tutto privo di fascino.

A questo stadio la corsa è ancora apertissima e non mancheranno colpi di scena a iosa. Ma procediamo con ordine. Per la regola del pendolo che in genere funziona, gli osservatori dicono che dopo Bush questa dovrebbe essere la volta di un democratico alla Casa Bianca. E per la verità è in casa loro che si trovano i due candidati più “nuovi”e capaci di suscitare passioni: Hillary, che “nuova” non è ma anzi nuovissima visto che è la prima volta nella storia che c’ è una candidata donna con serie possibilità di farcela. E poi c’è Obama, con la sua carica travolgente di nuovismo e di oratoria appassionante.

Preferenze a parte, è giusto ricordare una semplice verità: chiunque sia, il nuovo presidente degli Stati Uniti rimarrà ai nostri occhi il principale partner, non l’unico, con il quale collaborare per la guerra contro il terrorismo e il rafforzamento della democrazia. È stato fatto con molta convinzione e mirabile coerenza durante il governo Berlusconi, il quale ha avuto da parte del Congresso un fragoroso riconoscimento bipartisan, in modo malmostoso e spesso petulante dal litigioso esecutivo Prodi che alcune missioni di pace le ha comunque confermate.

Proprio in ossequio a questi fondamentali, ogni volta che mi si chiede per chi voterei rispondo con voluta contraddizione: sia per Hillary che per Giuliani. Forse perché li ho conosciuti entrambi, ma sembrano davvero i più adatti a ricoprire una carica con responsabilità planetarie.

La prima, non tanto e non solo perché donna, ma per le sue indubbie capacità politiche e intellettuali e per la sua decennale battaglia per estendere le cure mediche a quella fascia di popolazione priva di assicurazione.

Giuliani per tutto quello che ha fatto per rendere l’affascinante città di New York tra le più sicure al mondo ma soprattutto per il lodevole comportamento che ha tenuto sempre a New York, in quel terribile 11 settembre, quando è cominciata ufficialmente la terza guerra mondiale.

ersonalmente, trovo questa consuetudine diplomatica inglese, per cui non si possono esprimere considerazioni sui candidati alle presidenziali statunitensi da questa parte dell’Atlantico, piuttosto insulsa. Non mi stupisce, dunque, che il britannico David Cameron abbia infranto questa tradizione spendendosi in favore del senatore John McCain. Se poi consideriamo il fatto che la politica italiana viene costantemente giudicata da tutti, a qualunque latitudine terrestre, e spesso con poca obiettività, mi pare quasi di esercitare un diritto di legittima difesa.

A parte questo, la corsa alla nomination per la Casa Bianca è un fatto di tale rilevanza per il mondo che certamente merita attenzione. Resto convinta che la politica americana sfugga agli schemi convenzionali con cui leggiamo la politica italiana. Non è facile distinguere, tra le argomentazioni di una campagna elettorale così agguerrita, la visione d’insieme degli sfidanti.

Nel campo repubblicano, verso il quale sono portata dalla “ragion politica”, faccio fatica a scorgere elementi di grande novità dal punto di vista della politica estera, di quella economica e sotto l’aspetto dei valori profondi. Temo che nessuno tra i candidati repubblicani riuscirà a fare quanto è riuscito a George W. Bush, ovvero mettersi in sintonia perfetta con l’America profonda, con la cosiddetta Right Nation.

Il più governativo mi sembra Rudolph Giuliani, ma mi appare debole dal punto di vista valoriale. Viceversa, Huckabee si mostra troppo chiuso all’interno di una dimensione prettamente confessionale. Faccio fatica ad entusiasmarmi per Romney, che neanche a suon di dollari riesce a sprigionare emozioni e partecipazione popolare. Resta McCain che con la sua immagine da vecchio combattente fa grande simpatia, ma mi sembra davvero poco preparato a reggere le sorti della superpotenza americana. Insomma, ad ogni candidato dell’elefantino manca qualcosa che possiedono gli altri.

Servirebbe un uomo capace di riassumere il meglio di tutti.

In campo democratico, Hillary Clinton, per quanto intelligente e preparata, mi sembra blindata dal gruppo di potere di Bill Clinton ed incapace di affrancarsi politicamente dal marito anche durante la campagna elettorale in corso. So di sorprendere molti, ma sono sempre più convinta che l’unica vera novità di queste elezioni primarie sia Barak Obama.

Il senatore afroamericano non mi sembra un prodotto dei mass media o “una favola per bambini”, ma un uomo che sa quel che vuole e lo afferma con lucidità e calore. Sta mantenendo un profilo sobrio e determinato, affronta argomenti politicamente controversi, senza troppa paura di compiere rotture politicamente sconvenienti. Lo dico sottovoce, Barak Obama mi ricorda Nicolas Sarkozy. Quello della campagna elettorale.

ameron non è tanto ingenuo da pensare che la sua presa di posizione, per certi versi sorprendente, a favore di John McCain possa davvero avere una qualche influenza sull’esito delle primarie americane. È vero, i sondaggi indicano che la Gran Bretagna resta il paese più popolare fra gli americani – soprattutto fra quelli che si dichiarano repubblicani - ma sono ben altri i temi al centro delle primarie, a cominciare dalla recessione incombente e dalla situazione in Iraq. Se il leader dei tories ha deciso di puntare sul senatore veterano delVietnam è soprattutto perché lui e il suo partito sono da tempo alla ricerca di collegamenti internazionali che possano rafforzarne la reputazione sia all’interno che all’estero dopo tanti anni di opposizione.

Che la mossa sortisca l’effetto voluto è tutto da vedere. Certo non è una mossa esente da rischi per le reazioni negative che può suscitare sia fra gli altri candidati repubblicani sia in campo democratico – già nel 1992 i tories non fecero una scelta felice quando sostennero esplicitamente Bush senior contro Clinton. Forse Cameron lo considera un rischio calcolato: McCain è da qualche tempo in testa nei sondaggi fra i repubblicani e Rudolph Giuliani, l’altro candidato repubblicano conosciuto e apprezzato dai tories – anche più di McCain - appare in crescente difficoltà. D’altronde McCain coltiva da tempo i rapporti con i conservatori britannici. Nel 2006 al congresso del partito a Bournemouth pronunciò un discorso di aperto e caloroso sostegno a Cameron.

Soprattutto sui temi di politica estera McCain è molto più in sintonia con i tories del presidente Bush. E a differenza degli altri candidati repubblicani, non ha esitato a prendere le distanze dagli aspetti della “guerra al terrore”considerati più odiosi in Gran Bretagna – anche dalla maggior parte dei tories - come la prigione di Guantanamo e il ricorso alla tortura. Nel motivare il suo appoggio a McCain, Cameron ha citato in particolare la linea coerentemente liberista del senatore repubblicano, le sue prese di posizione contro “le false speranze del protezionismo” che sono invece alimentate, in maggiore o minore misura, da tutti gli altri candidati (sia repubblicani che democratici) di fronte alle sfide della globalizzazione. Qui Cameron lancia un messaggio politicamente rilevante di cui non sarebbe male tenessero conto non solo i repubblicani americani, ma anche quanti in Europa continuano a scagliarsi populisticamente contro le politiche di liberalizzazione commerciale, o, come fa qualcuno qui da noi, contro il “mercatismo mondialista”.

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25 gennaio 2008 • pagina 9 APPROFONDIMENTI

A proposito dei dialoghi tra Ferdinando Adornato e Rino Fisichella

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FEDE E LIBERTÀ

Possono camminare insieme? faccia a faccia tra PAOLA BINETTI e FRANCO a cura di NICOLA PROCACCINI Franco Frattini e Paola Binetti. Il commissario europeo che coordina la lotta al terrorismo e la senatrice “teodem” che non ha mai fatto mancare la propria voce nella lotta al relativismo etico. Un laico ed una cattolica.

Torna lo schema di “Fede e libertà”, il libro di Ferdinando Adornato e Monsignor Rino Fisichella. Due protagonisti della vita pubblica del Paese riflettono insieme sullo “spirito del tempo”.

FRATTINI: questo libro ha confermato la mia convinzione che quando si parla di scontro fra laici e cattolici, si commette un grosso errore. Si confondono i termini e si mistifica una realtà.

Ciò che personalmente trovo più fastidioso è l’usurpazione della parola liberale. Coloro che si sentono insidiati nella propria indipendenza e rigettano il confron-

to sereno con le religioni sono laicisti non liberali. Se io credo o no è questione personale. La persona umana è il centro dell’esistenza. Il merito di questo libro sta proprio nel mostrare come le differenze non siano poi così importanti e certamente superate dalle molte similitudini. Il dialogo tra Ferdinando Adonato e Monsignor Fisichella sventa il tentativo di metter contro fede e libertà. Di più, sfida la contrapposizione tra fede e ragione.

BINETTI: Mi sorprende, in un contesto così relativista e tollerante, quale è quello in cui viviamo oggi, come scatti facilmente un atteggiamento di intolleranza nei confronti del cattolicesimo allorché si configura come una realtà di pensiero forte. Alla Chiesa si chiede di occuparsi solo della propria missione caritatevole.

Ho la sensazione che in questo modo ci si liberi la coscienza da quei doveri che dovrebbero gravare sulle spalle di tutti, a prescindere dal fatto se si creda o meno. Dunque, si guarda con benevolenza e gratitudine alla comunità ecclesiale quando si occupa di poveri, malati, anziani.

Quando la Chiesa svolge le sue innumerevoli opere di misericordia, si fa carico delle sofferenze altrui e lo fa prescindendo dalle razze, dalle religioni, dai ceti sociali o dalle ideologie, non capita mai di ascoltare denuncie di ingerenza nella vita degli uomini. Ma quando la Chiesa pone la questione antropologica, quando tratta della natura dell’uomo e dei suoi diritti, allora la posizione della Chiesa diventa ingombrante. Quando il Papa invita al senso di responsabilità nelle relazioni quotidiane, quan-

FRATTINI do ricorda che un desiderio diventa diritto solo se corrisponde alla natura dell’uomo e al rispetto dell’altro, ecco che diviene invadente. Non fa piacere, naturalmente, una posizione che ricorda dei doveri, ma tanto è, su questo possiamo fare poco. Il pluralismo delle idee si ferma inevitabilmente davanti ad alcuni principi di fondo. Sui principi di pace e solidarietà il consenso è diffuso, ma già sul diritto alla vita iniziano i distinguo e le contrapposizioni.

In uno dei passaggi del libro, Mons. Fisichella cita Simpliciano: “Finchè non ti assumi degli impegni davanti a tutti non sarai cristiano”. La fede deve restare qualcosa di intimo?

BINETTI: Se la fede non è qualcosa di intimo, semplicemente non è fede. Se manca questo ambito

privato e nascosto agli occhi di tutti, la fede è soltanto un vestito, una ostentazione di qualcosa che non c’è. Ma proprio per questo, l’autenticità del credere in Dio deve rivelarsi nella totalità dei gesti quotidiani, in uno stile di comportamento. Non c’è fede autentica senza l’assunzione di una responsabilità nei confronti di se stessi e della propria comunità. Si tratta di riconoscere nell’altro un sentimento di fraternità. Il meno realizzato dei principi alla base della rivoluzione francese. Nello stile di vita del cristiano esiste una dimensione che fa dell’altro qualcuno che ci è caro, una dimensione di servizio, un istinto di solidarietà, un sentimento di calore. Nell’ambito politico, tutto il mio agire è da cri-

continua a pagina 10

Un libro che disegna il nuovo incontro tra laici e cattolici

pagina 10 • 25 gennaio 2008

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Frattini: «Quando si parla di scontro tra laici e cattolici si confondono i termini». Binetti: «Troppi abusano della religione per atti di violenza» segue da pagina 9 stiano. Naturalmente, le categorie logiche che uso per leggere la realtà sono intelligenti, nel senso che provo ad elaborarle con razionalità e realismo, ma non sono mai sganciate da una dimensione verticale. Non mi servo strumentalmente delle mie argomentazioni cristiane per ottenere risultati a livello politico, ma tutto il mio modo di pormi rifletterà il mio credere. Una delle accuse più frequenti che vengono rivolte ai cristiani è quella di essere sotto scacco del Vaticano, dei cittadini italiani che prendono ordini da uno Stato straniero. La verità è che il cristiano non ha alcun bisogno del Vaticano per discernere il bene dal male poiché risponde delle sue scelte a quel “depositum fidei” che è comune a tutti i cristiani. Non c’è bisogno di alcuna imposizione da parte della Chiesa, perché il cristiano porta dentro di sé alcuni valori e deve solo trovare il coraggio e la ragionevolezza per concretizzarli. Una fede intima non vuol dire chiusa in fondo al proprio cuore.

FRATTINI: La scelta della fede, a mio modo di vedere resta personale. Ma sarebbe una grande contraddizione, se negli atti di ogni giorno il credente ritenesse

di poter contraddire i principi essenziali della propria fede. Io non mi sono mai immaginato che la Chiesa debba essere una Chiesa del silenzio, condannata a non esprimersi. Io non solo non mi sono mai sentito obbligato all’eterodirezione, ma il parametro del liberale è proprio il dirittodovere di esprimersi liberamente. Resto scandalizzato dall’ostilità con cui è stata accolta la visita di Benedetto XVI alla Sapienza. Bene ha fatto il Pontefice a rinunciare alla visita perché ha posto la nostra nazione di fronte ad un serio esame di coscienza.

Peraltro il suo discorso è stato di straordinaria libertà, ma non mi sarei sentito conculcato nella mia sovranità neanche se il papa avesse espresso un pensiero diretto verso la conversione dei non credenti. La reazione preventiva al suo intervento mi ha offeso come laico e liberale. Chi ha reagito in maniera così stupida ed intollerante non sono stati i liberali, ma i laicisti ideologizzati. Questo è il mio pensiero.

Pace e tolleranza, mille declinazioni per due concetti largamente condivisi eppure in grado di dividere il mondo.

FRATTINI: Viviamo una stagione in cui tolleranza e rispetto, particolarmente nel contesto europeo, sono argomenti delicati poi-

ché il confronto tra religioni diverse è diventato un punto critico destinato a scrivere l’agenda politica dei prossimi 50 anni. Ci stiamo rendendo conto che l’affermazione: “le religioni sono tutte uguali” rischia di deviare il nostro ragionamento. Un esempio, la diffusione della poligamia, in virtù del fatto che la religione islamica lo consente, non può essere accettata nelle nostre società. Il concetto di tolleranza può voler dire che sopporto chi non condivido, ma non mi integro con lui. Invece, secondo me, la declinazione giusta del termine tolleranza è conoscere per capire, predisporsi alle ragioni dell’altro, ma questo non vuol dire equiparazione. Non si tratta dell’affermazione sdegnata di una superiorità, ma della riaffermazione dei miei valori strutturali. L’appiattimento ingenuo su di un significato passivo della tolleranza può significare il rischio di perdita di valori e punti di riferimento. Posso guardare oltre me se mi conosco, se la mia identità non si annacqua nel relativismo.

Oggi l’Europa è sfidata a mettere in pratica il rispetto. Se vogliamo integrare davvero dobbiamo abbandonare il multiculturalismo ideologico e la tolleranza che tutto permette. E riaffermare, come avviene nelle parole di Monsignor Fisichella, la sacralità

del rispetto. Questo ci porta ad una declinazione del termine pace che costituisce la grande sfida dell’Europa. Il nostro continente ha ben conosciuto le stagioni dell’odio e la sofferenza della guerra. Oggi, se la nostra Europa ha una missione politica epocale è quella di promuovere pace e democrazia, senza imposizioni ingiuste ed inefficaci.

Occorre difendere l’affermazione della pace, ma, attenzione, pace non vuol dire voltare le spalle dinanzi alle tragedie umanitarie. Io non credo che uno spietato dittatore potrà mai essere costruttore di vera pace. Non penso che si possano accettare tesi, diffuse persino in alcuni ambienti dell’associazionismo cattolico che l’attentato dell’11 settembre a New York sia stato compiuto dagli stessi americani per giustificare l’attacco all’Islam. Infine ritengo, con riferimento al diritto naturale, che se c’è la possibilità di salvare vite innocenti occorra una azione. Mi preme nel petto una provocazione a questo punto, se si è d’accordo su questo principio, allora come si giustifica l’aborto? Una nuova contraddizione si presenta ai miei occhi all’interno dell’ideologia terzomondista: come si può combattere una battaglia per la vita ovunque nel mondo senza lottare con coraggio per la

difesa della vita sin dal suo concepimento?

BINETTI: Il termine pace non può essere declinato senza i valori di libertà e giustizia. Non si può essere a tal punto relativisti da pretendere il rispetto dell’altro e nel contempo negare che il primo, fondamentale, diritto dell’uomo è quello alla vita. L’Italia ha potuto festeggiare la moratoria della pena di morte perché si è affermato un diritto straordinario. A prescinder dal crimine commesso o dalla fondatezza del giudizio, nessuno si può arrogare la facoltà di togliere la vita. C’è un passaggio importante nel libro, ovvero la percezione sbagliata per cui ciò che non si vede non esiste. Quando si pensa alla pace, oggi, dobbiamo star bene attenti a non incastrarla in una guerra tra le religioni. Il progresso dell’uomo è un altro nome della pace. Detto questo, io credo che tra le sfide più affascinanti che ci attendono ci sia proprio il riconoscimento del valore della vita. Mi chiedono in molti: cosa succederà dopo la provocazione positiva di Ferrara?

Probabilmente, dal punto di vista macroscopico poco o nulla, ma si è avviata una riflessione diffusa su cosa è la vita e sull’aborto come dramma della donna e della società. Non si dice più che

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Modello De Gasperi di Claudio Scajola Questo prezioso, attualissimo e stimolante libro, pubblicato per Liberal Edizioni, che contiene cinque dialoghi sullo spirito del tempo, tra il politologo Ferdinando Adornato ed il vescovo Rino Fisichella, nell’ambito del rapporto tra fede e libertà, cade in un momento del tutto particolare della vita politica e civile del nostro Paese. Sono cronaca recentissima la dolorosa rinunzia di Benedetto XVI a partecipare alla cerimonia inaugurale dell’anno accademico dell’Università di Roma, in seguito ad una presa di posizione avversa di una minoranza di docenti; e subito dopo la imponente manifestazione di affetto, di vicinanza e quasi di riparazione, da parte di cattolici e non credenti, al Santo Padre, a Piazza S. Pietro, per sottolineare in maniera tangibile come la grande maggioranza degli italiani riconosca nel Pontefice l’espressione più alta di valori che – anche per i non credenti – hanno uno straordinario significato morale e civile.

Questo episodio denunzia lo stato di inconsistenza politica e culturale di certa sinistra, e il rischio di una risorgenza di vecchi steccati, a causa di sparute minoranze di intellettuali laicisti, epigoni di ideologie condannate dalla storia. In questa occasione è stato violato proprio quel principio della tolleranza che rappresenta il cuore del patrimonio culturale dell’illuminismo. Anche se, nel concetto di tolleranza, inteso in termini soltanto razionalisti, è sotteso un distinguo improprio: si tollera, ma la tolleranza non è il rispetto e l’attenzione alle ragioni dell’altro da sé. Ciò che Mons. Fisichella efficacemente definisce il guardare oltre se stessi, l’orientarsi verso gli altri e il cogliere in profondità le ragioni dell’altro. Il valore di quest’opera, al di là dei cruciali temi trattati, consiste nel rappresentare un esempio meritorio, di come “le nuove strade di dialogo, oggi aperte, conducano non ad un appiattimento, ma ad una valorizzazione più ampia e argomentata della verità del cristianesimo”. Queste parole del cardinale Ruini, che cito dall’introduzione del volume, definiscono bene il significato e l’importanza di un’opera della quale sono grato ad Adornato e a Fisichella, prima come cittadino, e poi come cattolico liberale impegnato in politica. Le sfide della globalizzazione, in chiave culturale e sociale, oltre che economica, il confronto, crescente ed antagonistico, tra civiltà diverse, delle quali alcune ancora soggiacen-

l’aborto è un diritto, ma un dramma. Non si dice più che la massima autodeterminazione della donna si realizza nell’aborto. Si riconosce l’aborto come una grande sconfitta della società perché non siamo stati in grado di garantire alla donna la libertà di non abortire. Questo dibattito ha obbligato la politica ed i comunicatori a riflettere sulla questione a rileggere, spesso per la prima volta, cosa è scritto nella legge 194.Abbiamo scoperto, per esempio, che nel primo articolo del dispositivo viene contemplato il diritto alla vita fin dal suo inizio. Ebbene, io voglio che la 194 diventi fortemente responsabile nel garantire questo diritto e che il titolo diventi: “legge per la tutela sociale della maternità”.

Questo vuol dire che la società, non solo la madre, deve garantire la vita. Come? Individuando percorsi alternativi al dramma dell’aborto, concedendo risorse economiche, logistiche e mediche alle donne che scelgono di non abortire. Il diritto alla vita è davvero una bella sfida da affrontare insieme.

La democrazia è un valore universale? Come vi ponete rispetto al dialogo tra Adornato e Fisichella su questo punto?

BINETTI: La democrazia è la grande conquista del pensiero occi-

dentale. Una vittoria sofferta dell’uomo su stesso che ha collocato la persona al centro del progetto sociale. Sappiamo che non basta, sappiamo che la libertà degli uomini si nutre di molti altri diritti. Eppure, ritengo la democrazia irrinunciabile poiché capace di riassumere ed esaltare le potenzialità dell’uomo. Non credo nella esportazione della democrazia anche se la ritengo un valore assoluto. Il modello democratico può essere proposto attraverso la suggestione che l’esercizio della libertà esercita nei confronti di qualunque popolazione.

Resto convinta che la democrazia non si possa imporre.

FRATTINI: Sono d’accordo con la senatrice Binetti. Se la democrazia è diritto individuale, o meglio personale, questo principio non si può imporre con la forza. Si deve lasciar scegliere. Ritengo la democrazia un elemento stesso del Cristianesimo che non per niente, a differenza di altre religioni, si fonda sulla parola, e non sulla scrittura. La logica della parola vuol dire far conoscere libertà e democrazia. Resto convinto del contagio positivo della libertà nella storia.

L’esportazione forzosa della democrazia mi preoccupa e la ritengo inefficace, nel migliore dei casi. Come detto in preceden-

ti ad una visione teocratica, l’aggressione terroristica e subdola dell’integralismo islamico all’Occidente e alle sue radici cristiane, con persecuzioni, attentati, violenze, l’inquinamento delle nuove generazioni con il traffico degli stupefacenti e con modelli di vita distruttivi e nichilistici, sono tutti temi cruciali, sfide nuove che gli stati e le società dell’occidente devono attrezzarsi per affrontare.

Di fronte a questi processi epocali, è necessario che le nuove strade del dialogo fra cattolici e laici si rafforzino, nel riconoscimento dei comuni valori di un umanesimo integrale, evitando di disperdere energie in confronti di retroguardia, tra integralisti e laicisti, tra clericali e anticlericali. La sfida del laicismo guarda al passato e non al futuro dell’Italia, dell’Europa e del mondo.

Il terreno di confronto fra cattolici e laici, tra cristiani e non cristiani, tra credenti e non credenti, esiste, ed emerge con chiarezza proprio dalla lettura di queste pagine: la centralità dell’uomo, la dignità della persona umana, la libertà e la democrazia. Date queste premesse, non ha neppure più senso discutere la laicità dello stato, che è essa stessa d’altronde un portato della cultura cristiana, e che oggi è un dato acquisito, nelle democrazie liberali dell’occidente.

Quelle democrazie che si fondano proprio sulla garanzia delle libertà, di tutte le libertà del cittadino, a partire da quella della professione di fede e di culto.

Anche per questo la stella polare, per noi cattolici liberali, rimane la figura, e l’opera, di Alcide De Gasperi, che seppe coniugare, senza mai cedere agli opposti, la laicità dello Stato con la salvaguardia della libertà religiosa.

za, considero invece giusto qualunque intervento in difesa della vita. Lo sostiene anche la Chiesa, se si possono salvare le vite degli innocenti occorre intervenire.

L’intervento umanitario, come nel caso del Kosovo, è un’azione che non si intraprende a cuor leggero. Ma spesso è necessaria.

Cristianesimo, Islam e la questione religiosa nel mondo.

FRATTINI: Il grande tema delle religioni e della guerra incrocia le mie responsabilità di Coordinatore europeo nella lotta al terrorismo. Troppi giovani abusano di una religione per azioni di violenza senza dignità. Nessuna religione può giustificare l’assassinio, neanche l’Islam.

BINETTI: Il cristianesimo presenta alla base della propria struttura la responsabilità, la sacralità della vita e la fraternità. C’è un punto straordinario nel libro, dove si afferma che il cristianesimo ha permesso la maturazione della libertà nell’intimità dell’uomo occidentale. Per questo i cristiani realizzano la coesione nelle società in cui vivono. Per questo, i cristiani devono riappropriarsi della dignità della loro fede, del senso della loro storia.

Dobbiamo mandare un messaggio agli amici musulmani moderati perché si discostino dalla

violenza ed isolino i mestatori di odio. Questa è la grande responsabilità del cristiano, non abdicare alla propria missione di fede e libertà.

Un considerazione conclusiva?

FRATTINI: Quando questo libro è stato scritto, non potevano sapere i due autori che a metà dicembre dello scorso anno un accadimento epocale avrebbe dato ragione ad uno dei pezzi forti del loro volume. E’ stata approvata dal Consiglio D’Europa la Carta dei diritti fondamentali dell’uomo. La dimostrazione evidente di come il diritto naturale stia sopra e prima di qualunque legge umana. E’ un decalogo di principi che parla della vita, della dignità, dell’eguaglianza degli esseri umani, tutti principi del diritto naturale che chiaramente nascono insieme al cristianesimo. Che incredibile contraddizione questa dell’Europa che proclama i diritti dell’uomo negando a se stessa quelle radici cristiane che hanno creato e difendono tali diritti. Questa contraddizione è davvero stridente.

tanti, quelle che non sempre il dibattito quotidiano è in grado di affrontare. Per molti aspetti, è un libro politicamente scorretto. Nel senso buono del termine.

Quest’ultima riflessione pone in evidenza come la Carta dei diritti venga presentata secondo un modello descrittivo, senza il coraggio delle prescrizioni. La natura umana è già un concetto di verità. L’uomo della strada conosce la natura dell’uomo, distingue ciò che è umano da ciò che è “disumano”.

Il relativismo ha rimosso il principio di verità e si abbandona alla mera descrizione positiva. Il libro rimette al centro della questione antropologica non la natura, ma il diritto naturale. D’altra parte ciò che rende giusta una legge è la sua dimensione etica, quando essa risponde al concetto di diritto naturale e realizza ciò che l’uomo è. Abbiamo bisogno che il linguaggio della politica, della cultura, della scienza torni a pensare alla propria ragion d’essere, senza temere le sfide che verranno.

BINETTI: Questo libro offre molti spunti di riflessione. Leggendolo ognuno segue un percorso individuale. Attraversandolo ognuno cerca le risposte ai propri interrogativi, alle domande più inquie-

FRATTINI: Mi definisco un liberale perché pongo la persona al centro della vita e mi batto perché vinca la libertà. In questa sfida, laici e cattolici sono schierati dalla stessa parte del campo.

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ATTUALITÀ DI G

Mettendo l’Uomo prima della Legge, il cristianesimo produce sostenere che niente può oltraggiare i valori naturali e unive di Ferdinando Adornato e Rino Fisichella Pubblichiamo un estratto dell’ultimo capitolo del libro “Fede e Libertà”, dedicato alla figura di Gesù di Nazaret.

Rino Fisichella - Inizierei questo nostro dialogo conclusivo incentrato sulla figura di Gesù di Nazaret, a partire dal recente libro di Benedetto XVI, in modo provocatorio.

John Henry Newman, il grande convertito del Diciannovesimo secolo, concludendo il suo volume Grammatica dell’assenso, un testo di profonda e attualissima apologetica, scriveva che non si sarebbe mai arreso al fatto di considerare Gesù di Nazaret come un reperto archeologico, perché la sua forza vale per l’oggi e la sua persona viene resa viva dalla testimonianza dei cristiani. Nello stesso modo ritengo che Gesù di Nazaret abbia ancora molto da dire oggi, nonostante tutti i tentativi di questi ultimi anni per minare la credibilità del cristianesimo e per distruggere inutilmente la stessa realtà storica di Gesù.

Nonostante i romanzi alla Dan Brown o il Dio non è grande di Hitchens, e Odifreddi, Gesù di Nazaret rimane una figura che si pone con forza dinnanzi a tutte quelle persone che ricercano il senso della loro vita. Questa attualità è determinata da una prima esigenza che è racchiusa nel cuore di ogni persona; è una dimensione tipicamente antropologica e culturale. Il mondo di oggi appare smarrito in ciò che è decisivo per ogni persona: il senso della propria esistenza.

Manca, purtroppo, una grande progettualità, cioè la capacità di poter esprimere qualche cosa della propria vita vivendola in relazione con gli altri, sentendosi socialmente impegnati nella costruzione di un progetto che non è più soltanto personale ma anche collettivo.

Il periodo di crisi culturale che stiamo vivendo fa sentire le sue conseguenze più immediate nella vita di ciascuno. La persona oggi rimane ancorata ai suoi problemi, che sono quelli di sempre, da quando esiste l’homo sapiens: dove va la mia vita? Che senso ha l’esistenza? Che senso hanno il dolore, la sofferenza, la morte?

C’è qualche cosa dopo questa vita? Poiché ognuno di noi vive questa dimensione di inquietudi-

ne, a queste domande si cerca necessariamente di dare una risposta, e lo si fa in modi oggi assai differenziati. Da una parte c’è ancora una proposta molto forte del divertissement di pascaliana memoria: l’uomo non avendo potuto guarire né la malattia né la morte, ha deciso di non pensarci e mentre ai tempi di Pascal si andava a caccia, oggi si organizzano concerti rock, oppure si attende in maniera spasmodica il venerdì o il sabato sera, per concludere drammaticamente la propria vita in un non senso.

Intere giovani generazioni sciupano così la propria esistenza, la buttano via senza che nessuno abbia il coraggio di fermarle, dicendo loro che così facendo si bruciano completamente. (…)

Ferdinando Adornato - Sì, Gesù parla davvero a tutti. E proprio per questo è il vero incubo dei laicisti. Perché il Padre è lontano, ma il Figlio è vicino. È relativamente più facile, per chi non crede, fare i conti con la figura di Gesù Cristo, mentre è più difficile denunciare l’insostenibilità dell’esistenza di Dio. Di Gesù infatti non si può certo contestare l’esistenza, al massimo se ne può negare la divinità. (...) Nel mio ultimo libro “La nuova strada” ho riflettuto sul rapporto tra la figura di Gesù e quella di Socrate. Il mio tentativo era quello di dimostrare come i valori del cristianesimo non siano cose oscure, cose lontane da un’etica umana ispirata al bene comune che non necessariamente si basi su presupposti di fede. Insisto su questa tesi ancora oggi: non c’è bisogno della fede per riconoscere che Gesù è la più grande fonte di ispirazione morale che illumina il cammino della civiltà umana, in particolare di quella occidentale. Da dove altro giunge a noi l’idea del primato della coscienza nella storia, la forza della libertà dell’uomo contro ogni dogma, l’idea della responsabilità del singolo nella scelta tra bene e male, l’equilibrio tra la vita di fede e la vita di ragione? Tutto le grandi issues morali dell’Occidente vengono da Gesù.

Noi tendiamo a rendere le cose sempre più complicate di quello che sono, ma da che mondo è mondo esistono due maniere diverse di interpretare la vita:

una è la «via umanista», i pensieri che mettono l’uomo al centro della storia; l’altra è la «via razionalista» i sistemi mentali che di volta in volta hanno messo al centro il potere, lo Stato, la scienza. Nella storia della cultura occidentale queste sono state e sono le due grandi strade alternative.

Tra l’altro, secondo me, anche la visione nichilista di Nietzsche può essere considerata all’interno della «via razionalista» perché è un tentativo di usare l’intelligenza a fini distruttivi. L’uomo è purtroppo capace di tutto, anche di distruggere: ma per distruggere deve comunque usare la ragione.

Viceversa la «via umanista», in tutte le sue versioni, cristiana, liberale, etc., impedisce di trattare l’uomo come strumento di qualsiasi dominio, di qualsiasi logos, che si tratti di quello dello Stato o della scienza. Per questa via è impossibile ridurre l’uomo a merce di qualsiasi pensiero.

Attenzione: quando nell’umanità si fa strada un pensiero del crimine vuol dire che prima è sempre

“

Cristo parla a tutti.

Proprio per questo è l’incubo dei laicisti maturato un crimine del pensiero. Il rapporto tra crimine e pensiero è sempre un rapporto di stretta correlazione. Tant’è che Gesù non scrive niente. Non sembri paradossale: la sua forza, come del resto quella di Socrate, è di non aver lasciato alcun testo scritto. Non ci sono dogmi codificati. Gesù non propone pensieri, ci regala solo parabole, cioè esempi concreti. Che sono in realtà metafore geniali di tutta la nostra vita. Pensieri in azione.

Quando Gesù lava i piedi dei suoi apostoli dice, nella maniera più forte possibile, che nessun vero maestro può mai sentirsi un tiranno rispetto ai suoi discepoli; al contrario deve sapersi anche mettere al loro servizio.

Chiunque voglia entrare nella dialettica maestro-discepolo sa da allora, sa da Gesù, che è questa la giusta filosofia. E lo stesso

”

discorso si può fare per centinaia di altre «opere morali». Ebbene, l’attualità morale di Gesù non è mai venuta meno, lungo tutta la storia dell’Occidente, da duemila

anni. Solo nel Ventesimo secolo essa ha rischiato di interrompersi, perché l’uomo ha di nuovo cercato di crocifiggere Cristo.

Non più i romani, né gli scribi, i farisei o il Sinedrio ma le classi dirigenti europee hanno deciso di decretare la morte di Dio – quella che Nietzsche aveva già preannunciato – e con essa quella dell’uomo. In fondo la «morte di Dio» teorizzata sia dal comunismo che dal nazismo poteva anche rimanere «solo» un aberrante dogma filosofico. Invece no: essa si è concretizzata nell’uccisione di esseri umani, nella più atroce persecuzione dell’uomo.

Si è così paradossalmente dimostrata la verità del dogma cristiano: veramente il Padre e il Figlio sono legati. La morte di Dio si è infatti realizzata attraverso l’uccisione del Figlio, il sacrificio cristologico di milioni di esseri umani.

Ecco perché oggi assistiamo a un prepotente «ritorno di Dio»: per cercare di porre rimedio agli errori e agli orrori del Novecento.

Fisichella - Vorrei riprendere quest’ultima osservazione del presidente Adornato perché mi riporta alla mente un’espressione molto significativa e direi molto attuale di Kierkegaard quando

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GESÙ

e la sua vera rivoluzione: ersali dell’essere umano

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non si può dire del cristianesimo.

Il cristianesimo è stato, è e rimane la religione della Parola; l’inizio del Vangelo di Giovanni – «All’inizio c’era la parola» – è il fatto fondamentale. Il cristianesimo è logos, è parola.

Questa considerazione è talmente interessante e importante che il documento del Concilio Vaticano II che affronta questi argomenti – cioè la Dei verbum, la costituzione dogmatica della divina rivelazione, del cuore, del centro, del fondamento della nostra fede – quando parla della Sacra Scrittura parla di locutio Dei. Paradossale: si parla della Scrittura e la si definisce come locutio, cioè non come qualcosa di scritto ma come qualcosa che continuamente parla e quindi può essere ascoltato. Gesù è la parola e questa parola continuamente permane nella storia di tutti i tempi. Ora, proprio perché è parola – ed è il secondo aspetto – bisogna considerare cosa questa parola dice, e quello che dice, di fatto attesta che in quell’uomo – Gesù – non c’è soltanto l’umanità, ma c’è la piena consapevolezza della divinità. Se non si leggono i Vangeli con miopia e con pregiudizi che non permettono mai – anche a una corretta ermeneutica – di entrare correttamente nel testo, allora si scopre in maniera incontestabile come in Gesù di Nazaret ci fosse la piena consapevolezza di essere l’ultima parola che Dio inviava all’umanità e questa ultima parola era determinata dal fatto che egli non era più uno dei tanti mediatori, uno dei tanti profeti, ma era Dio stesso che si faceva uno di noi.

Una delle espressioni che senza

È una provocazione progettuale che spinge a chiederci chi siamo sosteneva che se Cristo fosse ritornato oggi, non sarebbe più stato crocifisso, ma sarebbe stato messo in ridicolo. Ecco, io credo che questo tentativo sia ancora in essere: visto che non si riesce a perseguire la strada della morte, allora bisogna perseguire la strada dell’immaginazione e del ridicolo. E le cronache di questi giorni non fanno che attestare quanto lungimirante fosse il pensiero di Kierkegaard in proposito.

Perché mettere Cristo in ridicolo?

Perché evidentemente ciò che è frutto del sorriso ironico o della risata sguaiata non viene preso sul serio e quindi è un modo ulteriore di emarginare non soltanto la presenza dei cattolici nella vita culturale, pubblica, sociale, politica di un Paese ma è soprattutto il tentativo di impedire che il loro messaggio possa avere una valenza sociale e pubblica.

”

Ribadisco, invece, che il cristianesimo e la persona di Gesù non sono oggetti da rinchiudere in sacrestia, né reperti archeologici; sono piuttosto una provocazione costante, progettuale, che ci spinge a prendere in seria considerazione chi siamo, a cosa tendiamo e cosa vogliamo costruire. (…) Vorrei, a questo punto, tentare di costruire due indicazioni utili alla nostra riflessione. La prima parte dal fatto, suggerito dal presidente Adornato, che Gesù non ha scritto nulla. Anche Tommaso d’Aquino nella Summa theologica considera questo fatto e si pone l’interrogativo: come mai Gesù non ha scritto nulla? Delle tre risposte che Tommaso fornisce, l’ultima è particolarmente significativa. Gesù non ha scritto nulla proprio perché la sua parola rimanesse

costantemente viva e venisse conservata dalla trasmissione che una comunità – la sua comunità – dava di lui e del suo insegnamento. Proprio questo mette al riparo il cristianesimo da ogni forma di fondamentalismo. Il cristianesimo non potrà mai essere definito «la religione del libro», e chi lo fa riferendosi alle tre religioni del libro, sbaglia. È abbagliato da una non corretta conoscenza del cristianesimo.

Certamente posso condividere che l’ebraismo e l’islam sono religioni del libro, ma la stessa cosa

ombra di dubbio riporta il linguaggio stesso di Gesù è certamente contenuta nel Vangelo di Luca, quando a Gesù vengono contestate le affermazioni che lo identificano come Dio. Davanti a queste contestazioni Gesù risponde: «Se io caccio i demoni con il dito di Dio è perché è giunto a voi il regno di Dio». C’è un’identificazione totale tra la persona di Gesù e il regno di Dio, cosa inaudita per l’epoca. A livello di critica testuale ed ermeneutica, è proprio la discontinuità totale tra quello che Gesù diceva e la cultura comune all’interno della quale ognuno si esprimeva a quell’epoca che permette di capire come egli avesse la piena consapevolezza di esprimere la sua vita, il suo insegnamento e i gesti che compiva con un’autorevolezza che non aveva confronti a livello umano. (…)

Adornato - Sono personalmente affascinato dalla ricostruzione storica e intellettuale che lei propone per dimostrare la divinità di Gesù. Ma il mio ragionamento deve necessariamente seguire un altro percorso. Infatti, come uomo pubblico, sento il dovere di spiegare, con argomenti razionali, perché l’uomo non deve comportarsi «come se Dio non ci fosse»; al contrario, anche se Dio non ci fosse, penso che bisognerebbe comunque cercare di vivere da cristiani. La vita che noi troviamo sulla Terra ha bisogno di precise coordinate morali; io non riesco a rintracciarne di migliori di quelle proposte da Gesù e dalla storia del cristianesimo. (...)

Io non sono un uomo di Chiesa, il mio compito è quello di spiegare razionalmente nei luoghi della sfera pubblica, nella vita politica che i principi ispiratori della nostra vita e della nostra democrazia non possono che essere quelli del cristianesimo perché sono i migliori: indipendentemente dal fatto che uno creda o non creda. Sostengo la tesi esattamente opposta a quella del relativismo. L’uomo non può fare come se Dio non ci fosse, deve piuttosto comportarsi virtuosamente anche se Dio non ci fosse.

Anche questa, a mio avviso, è una logica conseguenza degli insegnamenti di Gesù, una conseguenza della rivoluzione che egli ha prodotto.

Cristo, infatti, è certamente un rivoluzionario, ciò che ha permesso – Monsignor Fisichella lo ricordava – a chi non ha avuto voglia di leggere con attenzione le sue parole, di creare un grande equivoco.Tutta l’iconografia rivoluzionaria marxista si ispira a Gesù, perfino ai suoi tratti estetici – basta pensare a Che Guevara; ciò ha causato il fatto che anche la cosiddetta teologia della liberazione venisse presentata come vicina al messaggio di Cristo. In realtà Gesù è davvero un rivoluzionario per il motivo opposto: perché la sua rivoluzione, come egli dice, «non è quella

di abolire la legge ma di dargli compimento». Le teorie rivoluzionarie marxiste non corrispondono minimamente al cristianesimo, se non altro perché in loro nome si uccidono esseri umani.

In ogni caso va ribadito come il pauperismo non fa parte della visione sociale proposta da Gesù, così come non gli corrisponde alcuna idea astratta di rivoluzione sociale in nome dei poveri. Il messaggio di Gesù è universale, vale per i poveri come per i ricchi, è il messaggio dell’intenzione morale, non della rivoluzione sociale. Abbiamo detto come Gesù non voglia abolire la legge, ma è anche vero che ordine e conservazione non sono le sue parole-chiave. Al contrario Gesù dice: «Io sono qui per usare la spada», «per dividere la madre dal figlio». Non intende certo separare le famiglie… quello che vuole dire è che più importante seguire il suo messaggio che mille precetti codificati. È questo il punto. Gesù rompe con la spada la tradizione, produce una rivoluzione. (...)

Il messaggio di Gesù è invece davvero rivoluzionario perché non codifica una nuova legge ma chiama il singolo essere umano a uno sforzo permanente di consapevolezza e di responsabilità nello scegliere tra bene e male, nel sapere che la verità non è fuori dalla legge ma è «oltre la legge». Questo è un nodo delicato, perché spesso alla Chiesa o alla comunità cattolica si imputa appunto di vivere in qualche modo oltre la legge. È vero – sarebbe ipocrita negarlo – che per il cattolico, anche per il politico cattolico, esistono dei valori che non possono essere messi in discussione. Il problema non è negare che la comunità dei credenti abbia dei valori irrinunciabili anche rispetto allo Stato, il fatto è che questa condizione dovrebbe essere riconosciuta anche da chi non crede.

Dovrebbe cioè essere ammesso da tutti, credenti e non credenti, che esistono valori non negoziabili. Quindi in un certo senso è vero che la comunità dei credenti vive oltre alla legge quando si tratta di difendere i valori che presiedono la vita della comunità, nel senso che non riconosce una legge che nega i valori universali. Ma questo è vero anche per la comunità dei non credenti liberali e dovrebbe essere vero per tutti: come dicevo, il problema è capire che, indipendentemente dalla fede, la comunità democratica deve considerare quei valori irrinunciabili e quindi non negoziabili. Ma nonostante siano trascorsi duemila anni questa storia non è ancora del tutto chiara. (...) Insomma, Cristo non solo è il punto di discrimine tra chi crede e chi non crede ma è anche la cartina di tornasole di chi frequenta un’idea aperta, liberale di società, di comunità e di democrazia e chi invece segue il modello giacobino.

ROMPERE I VECCHI SCHEMI di Savino Pezzotta

bituati a confronti stereotipati o, come si dice oggi, «politicamente corretti», quest’incontro-confronto tra Monsignor Rino Fisichella e Ferdinando Adornato ci apre lo sguardo mostrandoci come non possa esistere dialogo se, nel confronto, le diverse posizioni non si evidenziano anche attraverso contrasti e differenziazioni.

In questi anni noi siamo stati invitati in ogni modo e forma a dialogare, ma spesso le raccomandazioni sembravano anche contenere un invito all’autocensura, all’appiattimento delle proprie visioni, all’eliminazione di posizioni che potessero in qualche modo, anche solo minimamente, accendere una dialettica. Così il dialogo si è trasformato in monologo, senza affrontare le questioni vere di fondo: si è galleggiato.

A

Oggi se un cattolico prova a porre con semplicità e chiarezza i suoi convincimenti viene subito additato, dai suoi correligionari e dai suoi interlocutori, con l’epiteto offensivo di «integralista». Abbiamo così imparato a galleggiare e/o a esercitare il nostro pensiero con la durezza purificante della dialettica, facendo però slalom: siamo diventati campioni dello scivolamento e dello sci culturale. Quanto questo ci impoverisca, però, non ci è ancora dato di sapere. Di certo noi cristiani ci siamo immersi in una sorta di nebbiolina che impedisce di vedere chiaramente chi siamo e come possiamo trasmettere ciò in cui

crediamo. In questo modo abbiamo contribuito a fare sì che il messaggio cristiano non rappresenti più una novità per nessuno. Il cristiano, per sua natura, è chiamato ad aprirsi agli altri e lo deve certamente fare con rispetto e dolcezza, ma anche con chiarezza cercando di evitare che alla fine prevalga il «tutto si equivale».

Occorre essere vigili di fronte

mente limita una reale ricerca della verità. Il dialogo è possibile solo quando è animato da una volontà di verità. Non basta ridurre il dialogo a uno scambio di opinioni attraversato dall’inquietudine e dalla tensione verso la verità, perché in tal modo si traduce in un inutile chiacchierare.

Leggendo questo libro ho avuto invece l’impressione che

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simo impegnati nella pratica delle virtù repubblicane oggi così neglette, nel rispetto della legalità. La mia adesione alla fede cattolica rappresenta un modo d’essere che voglio comunicare anche ad altri, che non mi rende migliore o superiore agli altri. Considero la laicità non come un contrasto alla mia fede e alla vita cristiana, ma come conseguenza diretta della

Solo nella chiarezza delle posizioni e dei dubbi è possibile un incontro tra persone diversamente credenti.

E superare steccati antichi

all’avanzare del relativismo.

Non auspico militanti dalla voce sonora e dall’impeto incontrollato, ma solo persone fedeli e modeste che non abbiamo timore di dire quello che sono. Già a suo tempo Jacques Maritain c’invitava a essere molto chiari e a non usare mai, quando parliamo di fede e di religione, «parole quali “conservatore” e “progressista” più consone a delineare un comportamento politicosociale». Questo, purtroppo, non avviene e ci troviamo di fronte al primo impedimento al dialogo necessario tra credenti e diversamente credenti. Se la posizione politica delle persone diventa pregiudizio preventivo, ogni possibilità di confronto è inibita e contestual-

si sia voluto andare oltre e scavare in profondità la realtà del nostro tempo superando i soliti ragionamenti teoretici. C’è la dimostrazione che solo nella chiarezza delle posizioni e dei dubbi sia possibile il dialogo tra persone diversamente credenti.

Uso non a caso la locuzione «diversamente credenti» perché come cittadino della Repubblica italiana mi sento profondamente laico e vorrei che questa mia laicità fosse riconosciuta anche quando affermo la mia cattolicità.

Siamo, laici e credenti, ugualmente cittadini della stessa Repubblica italiana e vorrei che tutti recuperassimo questo senso d’appartenenza, che fos-

”

fede in un creatore: la creazione, superando il concetto d’emanazione e ogni commistione panteista, separa Dio dal creato e rende l’uomo un essere essenzialmente libero. (…) Il libro pone una questione importante per il nostro tempo e cioè se la guerra possa essere l’estrema risorsa da usare al fine di un bene superiore che è la pace. La guerra difensiva è eticamente motivata, mentre l’intervento a favore della libertà deve essere valutato con molta attenzione, e in questa valutazione deve entrare anche il tema del rapporto che interviene tra menzogna e verità. È vero che Saddam Hussein ha mentito e che per lungo tempo ha confuso la comunità internazionale. Non credo però che

questo possa giustificare una guerra e l’intervento preventivo. È vero che la democrazia non può essere intesa solo come insieme di regole e procedure. Ogni democrazia ha bisogno di valori di riferimento, altrimenti cade nell’anomia. A questo punto la questione non è se il cristianesimo debba condurre una battaglia con l’Occidente per la democrazia nel mondo. Quello che dobbiamo domandarci è se oggi l’Occidente sia in grado di riconoscersi nella prospettiva dell’universalismo e nella cattolicità. Questo significa verificare la sua capacità a tendere verso una visione globale capace di superare il multiculturalismo che sembra ancora contraddistinguere il mondo di oggi. In pratica l’Occidente si deve domandare se è capace o se è possibile produrre nuovi elementi di inculturazione del suo sapere, della sua scienza e della sua tecnica, rinunciando a pretese egemoniche nelle prospettiva di una interculturalità profonda e dinamica. Il cristianesimo ha saputo inculturarsi nella grecità, nella romanità e nei popoli nuovi che invasero l’impero romano, attraverso un dare e un ricevere che poi nel crogiolo del Medioevo hanno prodotto l’Occidente. Dobbiamo allora pensare se non sia possibile un impegno teso a germinare una nuova civiltà planetaria in un mondo reso interconnesso e interdipendente dalla globalizzazione.

Sono convinto che il cristianesimo non possa rinunciare a questa prospettiva. Si tratta di vedere se l’Occidente sarà in grado di reggere il passo.

Giovanni Paolo II ha aperto questo spazio con il grande incontro interreligioso di Assisi. Mi domando se lo spirito di Assisi sia stato colto dall’Occidente oppure se l’abbia solo tollerato. Camminare in questa direzione richiede che non sia annullata la dimensione dell’appartenenza e della differenza, ma che anzi sia resa più recettiva. Come ci ha insegnato Colombo se si marcia verso Occidente si arriva a Oriente. Forse la rotondità del mondo non è ancora penetrata nella nostra visione culturale che continua a esser troppo tolemaica. Per questa ragione occorre che le nostre terre non siano colonizzate dal nichilismo, non perché se l’Occidente abbandona il cristianesimo abbandona se stesso e nemmeno perché esista un’identificazione tra cristianesimo e Occidente. Il cristianesimo ha una missione universale, è cattolico e pertanto è portato a È ovunque. inculturarsi l’Occidente ad avere il problema e a doversi chiedere se potrà continuare a essere quello che è se abbandona il cristianesimo e i suoi valori. In questo caso potrebbe perdere il senso stesso della democrazia. (…)

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Carte

È qualcosa di più di un “dialogo” di Camillo cardinal Ruini uesto agile volume, frutto di cinque serrati dialoghi tra Ferdinando Adornato e Monsignor Rino Fisichella avvenuti nell’arco di quattro anni, è un riuscito esempio di una tendenza nuova ma ormai ricca di risultati, in Italia come in vari altri Paesi. Si tratta di qualcosa di più rispetto a un semplice dialogo tra un «laico» e un credente, inteso nel senso di un confronto, sia pure amichevole e costruttivo, tra opinioni diverse.

Registriamo infatti tra i due interlocutori una vera e larga concordanza di vedute e comunanza di intenti su alcuni punti decisivi per il presente e il futuro della nostra civiltà. Si può dire dunque che questo libro si colloca pienamente nella stessa linea di quel dialogo tra il Cardinale Joseph Ratzinger e il presidente Marcello Pera che produsse tre anni fa il volume Senza radici.

Europa, relativismo, cristianesimo, islam e che segnò una svolta densa di significato nel panorama culturale dell’Italia.

Q

Adornato e Fisichella rimangono naturalmente figure assai diverse, per formazione e per interessi: entrambi sono uomini di studio ma uno è di estrazione «laica» e ha ora un ruolo politico, mentre l’altro è un vescovo e un teologo. Proprio per questo però è indicativa e rilevante la comune passione e preoccupazione che li anima e che, pur nella differenza degli approcci e nella libera dialettica delle rispettive opinioni, trova abbondante espressione in queste pagine.

L’oggetto di tale comune passione emerge con nettezza già dal titolo del libro, Fede e libertà, e più concretamente dai contenuti dei cinque dialoghi che lo compongono. Nati in circostanze diverse, essi ruotano comunque intorno alla preoccupazione per la situazione attuale dell’Occidente: una preoccupazione che ha certamente un suo motivo di nella evidenza immediata minaccia del fondamentalismo e del terrorismo di matrice islamica, ma che alla fine deriva soprattutto da ragioni interne allo stesso Occidente, come le spinte del relativismo e del nichilismo, che sembrano allontanarlo sempre più dalle sue radici cristiane, renderlo rassegnato e incerto di se stesso.

Le problematiche classiche delle relazioni tra fede e cultura, della laicità delle pubbliche istituzioni, della verità e della libertà e del loro rapporto reciproco assumono in questo contesto un volto nuovo e obbligano a un ulteriore sforzo di riflessione, come del resto profondamente nuova è quella «questione antropologica» che nasce dalle possibilità, rapidamente crescenti, di trasformare l’uomo agendo direttamente sulla sua realtà fisica e biologica. Merito di questo libro è quanto meno prendere sul serio la novità di queste problematiche. Al riguardo vorrei azzardare una riflessione: in Italia, sia in ambito laico sia in ambito cattolico, non di rado si guarda con sospetto e con una certa insofferenza ai rapporti non solo di dialogo ma di collaborazione e convergenza che si stanno stabilendo tra uomini di

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carsi dalle radici cristiane della nostra civiltà, questo fatto – dicevo – non sembra aver indotto finora vari intellettuali cattolici a riconsiderare la loro contrarietà e i loro sospetti.

Entrano in gioco qui, indubbiamente, ragioni e preferenze di ordine politico. Ma, al netto di queste, non è difficile individuare radicati convincimenti di ordine storico e culturale, che si sposano a determinate idee teologiche.

Si continua a muoversi cioè nel tacito presupposto che la secolarizzazione sia un dato sostanzialmente irreversibile, il grande «segno dei tempi» a cui la presenza dei cristiani nel mondo dovrebbe adeguarsi. Proprio questa valutazione, però, non fa sufficientemente i conti con la profondità dei cambiamenti in atto, le cui dinamiche non appaiono certo destinate a esaurirsi nel breve periodo, ma al

Partendo da posizioni diverse, Adornato e Fisichella arrivano a conclusioni simili

cultura di matrici diverse. Il fatto che ne sia stato protagonista un Cardinale divenuto poco dopo Pontefice e che egli stesso ne abbia dato una motivazione molto seria nella relazione tenuta a Subiaco il 1° aprile 2005, formulando per conseguenza l’invito, «anche a chi non riesce a trovare la via dell’accettazione di Dio», a «cercare di vivere e indirizzare la sua vita veluti si Deus daretur, come se Dio ci fosse» (L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, pp. 62-63), e poi, al Convegno di Verona dell’ottobre 2006, abbia affermato espressamente che la Chiesa e i cattolici italiani sono chiamati a cogliere in maniera consapevole la grande opportunità rappresentata dalla presenza di molti e importanti uomini di cultura, anche non credenti o almeno non praticanti, che danno voce alla percezione, diffusa nel popolo italiano, della gravità del rischio di stac-

”

contrario tendono a rafforzarsi e ad accelerarsi. L’esempio più eclatante è quello dello sviluppo scientifico-tecnologico, con la sua presenza sempre più invasiva in ogni ambito dell’esistenza.

Ma anche la posizione centrale e in larga misura egemonica di cui l’Occidente ha goduto negli ultimi secoli è ormai avviata a un rapido e duraturo ridimensionamento, e non sarebbe difficile elencare vari altri fattori di cambiamento.

Le questioni che riguardano il senso stesso, l’origine e la direzione dell’esistenza dell’uomo sulla terra, le grandi religioni e i loro rapporti reciproci, la loro rilevanza non solo personale ma anche pubblica, e in ultima analisi la loro pretesa di verità in questo mondo che si trasforma, si pongono dunque in forma nuova e con forza crescente, rispetto alle quali lo schema della secola-

rizzazione si rivela sempre più insufficiente. Ugualmente insufficiente appare una concezione della laicità che si limiti a rivendicare la distinzione e l’autonomia reciproca – certo fondamentali e irrinunciabili – tra la religione e la politica, negando o mettendo tra parentesi il ruolo pubblico che le religioni possono e devono svolgere, proprio in una società aperta e messa di fronte a radicali problemi etici e antropologici, per alimentare e sostenere la convivenza civile, nel pieno rispetto della libertà religiosa e del carattere non confessionale delle strutture dello Stato.

Sono questi i motivi per i quali sarebbe sbagliato e poco lungimirante vedere nelle convergenze che trovano espressione anche in questo libro soltanto una moda effimera o il risultato di interessi di parte. Si tratta piuttosto del segno, e vorrei dire della presa d’atto, dell’imporsi di situazioni e problematiche nuove, alle quali non si può rispondere restando prigionieri di schemi e contrapposizioni del passato. In positivo, sembra anzi necessario allargare gli spazi di un dialogo che diventi, su tali questioni decisive, concordanza di vedute e comunanza di intenti, facendo emergere e rendendo efficaci e operative alcune percezioni e convincimenti che sono sempre più diffusi anzitutto a livello popolare ma anche tra coloro che hanno più voce e più responsabilità in ambito culturale e sociale, al di là delle appartenenze ideologiche e politiche. (…) Le contrarietà e le diffidenze

che si sono registrate in questi ultimi anni anche in ambito cattolico – e proprio tra coloro che spesso si sono mostrati assai pronti e disponibili al dialogo – possono comunque aiutarci a tenere in evidenza due preoccupazioni giuste e irrinunciabili.

La prima riguarda il senso e la direzione del contributo che la fede cristiana è chiamata a dare alla vita e all’autocoscienza del nostro popolo: un tale contributo deve andare in un senso genuinamente cristiano, orientando quindi non a una rivendicazione chiusa e conflittuale della propria identità, ma piuttosto a conservare e valorizzare questa identità promuovendo per quanto possibile la comprensione reciproca e la pace, la riconciliazione e la collaborazione anche con popolazioni diverse. In secondo luogo, il cristianesimo può svolgere in maniera efficace e duratura il proprio ruolo pubblico soltanto se vi sono oggi persone e comunità che lo vivono concretamente e intensamente, nella sua verità, evitando così che esso si riduca a una, sia pur grande e magnifica, eredità culturale del passato, destinata come tale ad allontanarsi e diluirsi progressivamente. Nella misura in cui queste condizioni si realizzano, vengono meno i rischi di strumentalizzazione e di snaturamento dell’esperienza cristiana per finalità a essa eterogenee, e quell’incontro tra cattolici e «laici» che trova espressione anche in questo libro può sviluppare tutte le potenzialità di cui è ricco.

edizioni

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FERDINANDO ADORNATO RINO FISICHELLA

FEDE E LIBERTÀ Dialoghi sullo spirito del tempo

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economia

25 gennaio 2008 • pagina 17

L’amministratore delegato costretto a reinventare il modello di business per superare l’attuale stallo

Senza rete e rendite fisse, l’azzardo di Bernabè per la nuova Telecom di Francesco Pacifico siano sempre meno remunerative. Indipendentemente dal futuro della Next generation net, la rete in larga banda che manca all’Italia, l’Ad di Telecom sa bene che l’attuale asset impone costi di esercizio e di manutenzione maggiori, a fronte di un tasso di guasti sempre più alto. Senza contare che già oggi Vodafone, con la offerta Casa, passa dalla rete senza accollarsi spese fisse.

n debito monster da 38 miliardi di euro, lasciatogli in eredità. Un modello di business, legato al fisso com’è, che nel medio termine potrebbe diventare obsoleto. Il regolatore che chiede la separazione della rete, azionisti (Telefonica in testa) non granitici e una prima linea di manager figlia di gestioni diverse. A guardare l’agenda di Franco Bernabé, si comprende perché l’amministratore delegato di Telecom ripeta che «ci vuole prudenza».

E faccia intendere che non ci saranno cambiamenti epocali a breve. Eppure il manager trentino sta già imponendo una linea che potrebbe mettere le basi per una svolta.

U

Senza rimescolare la prima linea, ha fatto entrare manager a lui vicini mettere a lui vicini (Oscar Cicchetti e Luca Tommasini). Con rapidità ha deciso la dismissione delle attività poco remunerative di Alice France. Chiede circa 800 milioni di euro, ma forse si accontenterà di meno. Anche perché servono soldi per riprendere l’espansione all’estero.

Al riguardo Bernabè non esclude di investire in Brasile, dove il suo socio Telefonica promette risorse per la sua Vivo pari a 7 miliardi di dollari. In realtà gli analisti scommettono su un rafforzamento nell’interessante mercato tedesco – dove Harald Rosch sta sistemando i conti della ex Hansenet – e qualche acquisizione nel più profondo est europeo. Ma il colpo di genio che ha spiazzato un po’ tutti, in primis l’Agcom di Corrado Calabrò, è stato aprire al-

Il manager ha riallacciato i rapporti con l’Agcom di Calabrò e non esclude l’ipotesi di quotare in Borsa l’infrastruttura per tagliare spese sempre più proibitive. Telefonica permettendo l’ipotesi di una societarizzazione della rete, che va ben oltre la separazione funzionale chiesta dall’autorità.

Ai piani alti di Telecom nulla è stato deciso, ma la fine del muro contro muro basta per riallacciare i rapporti con Calabrò. Che ieri ha annunciato di voler

andare avanti con la separazione anche se il governo è in stallo. Ma sono in molti a scommettere che Bernabè, forse aiutato in questo aiutato da consiglieri come Umberto De Julio più interessato al business che alla finanza, abbia chiaro quanto le attività legate al fisso

Così il modello Terna, mettere sul mercato l’intera infrastruttura, potrebbe portare tanti benefici: intanto ridurre il debito attraverso la vendita di quote di questa newco o allocandolo in capo a essa assieme a dipendenti in esubero.

Sarebbero finalmente chiuse le querelle con i regolatori e con concorrenti, con questi ultimi magari coinvolti nella manutenzione dell’infrastruttura. Far entrare poi un soggetto pubblico come la Cassa depositi e prestiti renderebbe incontendibile l’asset.

Innumerevoli sono gli ostacoli in questo percorso, che per gli analisti necessiterà di almeno 5 anni. Intanto perché Telecom, grazie al controllo della rete, mantiene il monopolio della telefonia mobile, ma anche una posizione avvantaggiata nella trasmissione dati per le aziende e nell’Iptv. E poi, prima di fare questa rivoluzione, l’Ad deve convincere e spiegarla al mercato per salvaguardare un titolo già debole. Per non parlare del socio spagnolo, che in Italia non vuole fare passi indietro sul controllo dell’asset. Una scommessa complessa, quindi, quella di Bernabè.

Il pacchetto sul clima di Bruxelles potrebbe avere ripercussioni soprattutto sull’Italia. Barroso promette di salvaguardare la competitività

Energia, la rivoluzione verde della Ue costa 50 miliardi alle imprese arà molto difficile inseguire l’obiettivo del 17 per cento di energie rinnovabili». A commentare il vincolo imposto all’Italia dal pacchetto legislativo appena varato dalla Commissione Ue, è la vicepresidente di Confindustria Emma Marcegaglia. Ma dello stesso parere è anche il ministro delle Politiche europee, Emma Bonino. Il timore delle imprese – che pure definiscono la decisione di Bruxelles «un’occasione da prendere al volo e un potenziale volano di “sviluppo per il nostro sistema industriale» – è sempre lo stesso: che aumenti il carico di costi fissi che grava sulle imprese, già ampiamente messe a dura prova. Così, se la versione definitiva del piano italiano che assegna le quote di emissione di CO2 - al 13 per cento nel 2010 – sta per essere ‘licenziata’ dopo aver superato i blocchi (incrociati) di partenza per i soliti infiniti battibecchi tra Ambiente e Sviluppo economico sul ruolo del carbone, Confindustria rilancia con una serie di proposte volte a migliorare l’efficienza energetica italiana in tutti i settori.

In teoria l’obiettivo perseguito dalla Ue sarebbe quello di un nuovo modello di sviluppo sostenibile (accanto alla

«S

di Ilaria Donatio riduzione delle emissioni, il pacchetto contempla il ricorso al 20 per cento di energie rinnovabili nel mix nazionale, noi italiani ci fermeremo al 17, al 10 di biocarburanti nei trasporti e l’aumento del 20 dell’efficienza energetica), ma in pratica, questa appare essere un’operazione ad alto rischio. Una volta attribuita a ciascun Paese la percentuale di riduzione della CO2 insieme con quella delle rinnovabili, dopo un periodo di transizione in cui continueranno a essere cedute alle imprese doti gratuite di CO2, si approderà al sistema unico di asta nazionale. Ogni governo mette in vendita i propri permessi di emissioni (che le imprese acquisteranno e potranno poi girare ad altre imprese): si parla di un incasso annuo, per la Ue, vicino ai 50 miliardi di euro e per l’Italia di entrate pari a circa tre miliardi. È la proposta «più ambiziosa» fatta dalla Commissione da molti anni, ha dichiarato alla presentazione del pacchetto il presidente della Commissione europea, Josè Manuel Barroso, «ma attuarla costerà meno dello 0,5 per cento del Pil, cioè circa 3 euro a persona» da qui al 2020. A dispetto

di come è stata presentata, si tratta in realtà di una vera e propria “tassa” sull’industria europea che ha bisogno di mantenersi competitiva rispetto a Usa e Cina. E per farlo ha due opzioni: delocalizzare le proprie produzioni o ‘inevitabilmente, scaricare quei costi sui consumatori, aumentando i prezzi.

Il rischio esiste ed ecco la levata di scudi delle imprese, soprattutto delle energivore (per le quali, tuttavia, in caso di minaccia concorrenziale da paesi terzi, la distribuzione continuerà gratis oppure saranno gli importatori a pagare i permessi). Il punto è che, pure salutata come una «rivoluzione industriale dell’economia a bassa emissione di carbonio», questo processo non si riveli soltanto una rivoluzione dai costi talmente alti (circa 50 miliardi l’anno) da risultare unilaterale benché nobile.

Barroso ha tranquillizzato tutti promettendo un «accordo internazionale», come antidoto per salvare la competitività dei Paesi. Per ora, resta la constatazione di un’Europa meno ideologica e più solida. Il cui impegno appare ancora troppo unilaterale, per confrontarsi con le politiche globali delle altre economie, sviluppate ed emergenti.

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mondo

Gaza: continua l’esodo verso l’Egitto. Dall’Onu Ban Ki-Moon chiede altri soldi

Smettiamo di finanziare l’Autorità palestinese di Daniel Pipes a quando Hamas si è impossessata di Gaza nel giugno scorso, elargire denaro a Mahmoud Abbas e all’Autorità palestinese per conseguire la pace è divenuto un pilastro della politica occidentale, inclusa quella israeliana. Ma questo rubinetto aperto ha sortito dei risultati controproducenti e va chiuso con una certa sollecitudine. Alcuni antefatti: Paul Morro del Servizio ricerche del Congresso Usa riferisce che, nel 2006, l’Unione Europea e i suoi Paesi membri hanno dato 815 milioni di dollari all’Autorità palestinese, mentre gli Stati Uniti, di milioni di dollari, ne hanno inviati 468. Inclusi i finanziamenti offerti da altri donatori, l’incasso complessivo ammonta a circa un miliardo e mezzo di di dollari.

La manna continua a fioccare. A ottobre, il presidente George W. Bush ha chiesto di incrementare la cifra di 77 milioni di dollari per “devolverli“ entro i primi mesi del 2008. Il Dipartimento di Stato ha giustificato questa munifica somma sulla base del fatto che essa «consolida un impellente e cruciale bisogno di supportare il nuovo governo dell’Autorità palestinese che tanto gli Stati Uniti quanto Israele considerano un autentico alleato per la pace». Nel corso di una recente udienza, Gary Ackerman, presidente del sottocomitato della Camera sul Medio Oriente e sull’Asia del Sud, ha approvato la pro-

D

posta di donazione supplementare.

Non contenta di spendere il denaro dei contribuenti americani, in dicembre, il segretario di Stato Condoleeza Rice ha lanciato una «partnership pubblico-privata tra gli Stati Uniti e i palestinesi», coinvolgendo finanzieri del calibro di Sandy Weill e di Lester Crown, per foraggiare come asserisce la Rice «progetti che riguardano direttamente i giovani palestinesi e che siano in grado di prepararli a una futura assunzione di responsabilità e leadership».

Un rapporto mostra che nel 2007 l’Unione Europea ha convogliato ai palestinesi circa 2 miliardi e mezzo di dollari.

Nell’ottica di una prospettiva di lungo periodo, alla Conferenza dei donatori per l’Autorità palestinese, tenutasi il mese scorso a Parigi e cui hanno partecipato una novantina di Paesi, Abbas ha annunciato di voler conseguire l’obiettivo di raccogliere la somma di 5 miliardi e 800 mila dollari in aiuti finanziari per i prossimi tre anni, dal 2008 al 2010. (Utilizzando la stima più attendibile della popolazione composta da un milione e 350mila palestinesi che vivono in Cisgiordania, si raggiunge la sbalorditiva somma di oltre 1.400 dollari l’anno pro-capite, all’incirca ciò che un egiziano guadagna annualmente.) Appoggiato

dal governo israeliano, alla Conferenza dei donatori Abbas ha trovato quasi per intero quella somma per il 2008.

Un buon accordo se funziona, non è vero? Alcuni miliardi di dollari per porre fine a un pericoloso conflitto secolare sono in realtà un’occasione da non perdere.

Ma uno studio innovativo condotto da Steven Stotsky, un analista del Committee for Accuracy in Middle East Reporting in America (Ca-

“

quanto le vittime israeliane e palestinesi). Il risultato è impressionante: per farla breve ogni 1,25 milioni di dollari in aiuti relativi al budget si traducono in una vittima l’anno. Moltiplicando la cifra per i miliardi di aiuti la cifra è da brividi. Come osserva Stotsky «Queste statistiche non stanno a indicare che gli aiuti stranieri sono causa di violenza; ma esse sollevano degli interrogativi in merito all’efficacia di utilizzare le donazioni provenienti dall’estero per promuovere la modera-

Per i direttore del Middle East Forum la decisione di “foraggiare” Abbas è una follia. I fondi - studi alla

mano - fanno prosperare violenza e terrorismo. E lancia una provocazione: tutti i Paesi occidentali, a partire da Israele, dovrebbero bloccare gli aiuti. Subito.

mera), rileva che un afflusso di denaro ai palestinesi sortisce storicamente l’effetto opposto.

Basandosi sui dati forniti dalla Banca Mondiale, dal Fondo Monetario Internazionale e su altre statistiche ufficiali, Stotsky compara due diagrammi, partendo dal 1999, riguardanti gli aiuti relativi al budget fornito annualmente all’Autorità palestinese e l’ammontare degli atti di violenza perpetrati ogni anno dai palestinesi (includendo tanto le attività criminose e terroristiche

”

zione e combattere il terrorismo».

L’operato palestinese si conforma a uno schema più ampio, come osservato da Jean-Paul Azam e Alexandra Delacroix in uno studio universitario del 2006, Aid and Delegate Fight Against Terrorism. I due infatti rilevano «un ottimo risultato empirico comprovante che l’offerta di attività terroristiche da parte di qualunque paese è del tutto correlata con la quantità di aiuti stranieri

ricevuti da quel Paese» - vale a dire più aiuti stranieri, più terrorismo.

Se tali studi procedono in direzione diametralmente opposta alla supposizione convenzionale che l’indigenza, la disoccupazione, la repressione, “l’occupazione” e il senso di malessere inducono i palestinesi alla violenza, essi non fanno altro che suffragare la mia argomentazione di vecchia data in merito al fatto che “l’euforia palestinese” rappresenta il problema. Maggiori finanziamenti riceveranno i palestinesi, più forti essi diventeranno, e più motivati saranno a imbracciare le armi.

Un’interpretazione rovesciata dell’economia di guerra è prevalsa in Israele sin da quando presero il via i negoziati di Oslo, nel 1993. Piuttosto che privare i loro nemici palestinesi delle risorse, gli israeliani hanno seguito le riflessioni mistiche di Shimon Peres, specie il suo tomo del 1993 dal titolo The New Middle East, per conferire loro più potere a livello economico. Come scrissi nel 2001, ciò «equivale a inviare le risorse al nemico, mentre ancora si combatte: e non è un’idea molto brillante».

Piuttosto che finanziare ulteriormente la bellicosità palestinese, i Paesi occidentali, a partire da Israele, dovrebbero bloccare tutti gli aiuti finanziari destinati all’Autorità palestinese.

mondo

25 gennaio 2008 • pagina 19

Count down per le nomine del 2009. In corsa Blair, Juncker, Solana e Bildt

Il manuale Cencelli della Ue di Enrico Singer ’appuntamento sembra lontanissimo: il primo gennaio del 2009. Ma le manovre sono già cominciate perché in gioco c’è tutto il vertice della piramide del potere dell’Unione europea ormai allargata a 27 Paesi. E perché, questa volta, ci sono da assegnare due poltronissime in più: quella del presidente “stabile” del Consiglio della Ue e quella dell’Alto rappresentante per la politica estera che diventerà vicepresidente della Commissione europea. Anche i candidati sono in pista. Nomi eccellenti. L’ex premier britannico, Tony Blair e il primo ministro lussemburghese, Jean-Claude Juncker, si contendono la carica di presidente del Consiglio europeo.

Quella di Alto rappresentante per la politica estera è inseguita dallo spagnolo Javier Solana, che ha già questo titolo, sia pure con meno poteri, e dal ministro degli Esteri svedese, Carl Bildt. Da quando il vertice di Lisbona, lo scorso dicembre, ha raggiunto il compromesso sulla riforma del Trattato che ha preso il posto del progetto di Costituzione caduto sotto i “no”dei referendum in Francia e in Olanda, la corsa alle nuove cariche è partita in tutte le capitali. Con un intreccio di contatti, più o meno segreti, per costruire alleanze secondo le regole di un “manuale Cencelli” europeo che prevede la spartizione dei posti che contano in base all’appartenenza alle diverse famiglie politiche, ai Paesi grandi e piccoli, a quelli vecchi e a quelli nuovi dell’Unione e al Nord o al Sud del continente. È una specie di grande gioco di domino che non si limita alle due nuove figure istituzionali, ma comprende anche il presidente della Commissione - l’esecutivo europeo - e quello del Parlamento. Quattro cariche tra le quali, per il “Cencelli” accennato prima, deve esserci un equilibrio: così, se il presidente del Consiglio sarà davvero il laburista Tony Blair, quello della Commissione dovrà essere un popolare. E se il socialista Javier Solana sarà il nuovo Al-

L

to rappresentante per la politica estera, anche la presidenza dell’Europarlamento spetterà a un popolare. Questo scenario potrebbe favorire il disegno dell’attuale presidente della Commissione, il portoghese Manuel Barroso, che punta a un secondo mandato. Ma metterebbe in pericolo l’attesa staffetta alla presidenza del Parlamento euro tra il popolare tedesco Hans-Gert Poettering e il socialista tedesco Martin Schulz. Un bel pasticcio che offre ai sostenitori dell’altra cordata un argomento in più

ogni sei mesi) e lo ha addirittura invitato come ospite d’onore al congresso del suo partito a Parigi la scorsa settimana. Una mossa in sintonia con la linea della rupture del Presidente francese che ha voluto nel governo di casa anche personalità della sinistra - come il ministro degli Esteri, Bernard Kouchner - e che vuole rilanciare l’esperimento su scala europea per sparigliare l’altro campo e ”ipotecare” la prossima presidenza dell’Unione.

Tony Blair ha anche l’appoggio, scontato, della Gran Breta-

In alto, da sinistra: Manuel Barroso, il ministro degli Esteri svedese Carl Bildt, l’ex premier Tony Blair, il primo ministro del Lussemburgo Juncker e il tedesco Poettering

Mesi di fuoco: da definire due nuove figure istituzionali - presidente del Consiglio e ”ministro” degli Esteri - e il cambio di guardia alla presidenza della Commissione e del Parlamento. per proporre il popolare lussemburghese Jean-Claude Junker al posto di presidente del Consiglio - magari offrendo la presidenza della Commissione all’ex premier liberale belga Guy Verhofstad, o allo stesso Tony Blair - e il conservatore Carl Bildt (che negoziò per l’Europa gli accordi di Dayton ed ora è ministro degli Esteri svedese) come successore di Solana.

La partita è appena cominciata. E tra i paladini della prima soluzione c’è Sarkozy che si è pronunciato apertamente a favore di Blair come primo presidente “stabile”del Consiglio (fino al gennaio del 2009 le presidenze continueranno a ruotare

gna e del suo premier laburista Gordon Brown, e quello trasversale di buona parte dei “nuovi” Paesi entrati nella Ue. Soprattutto quelli dell’ex blocco comunista. Chi spinge per Blair, poi, insiste su un tasto sempre molto sensibile della politica europea: coinvolgere Londra il più possibile nelle istituzioni per tenerla legata al progetto europeo. Ma proprio la particolare posizione della Gran Bretagna nella Ue - non è nell’euro e nemmeno in Schengen - è l’argomento-chiave del fronte dei contrari a Blair che comprende anche Romano Prodi e Angela Merkel.

Chi avrà il compito di rappresentare, per la prima volta, la

Ue come presidente del Consiglio deve essere espressione di uno dei Paesi che hanno accettato tutte le scelte di coesione: dalla moneta unica, alla libera circolazione dei cittadini. Se poi fosse il leader di uno dei Paesi fondatori, tanto meglio.

Questa è la tesi del fronte che sostiene il lussemburghese Junker. Uno schieramento altrettanto trasversale che mette il dito su un altro nervo scoperto: la trattativa per l’ingresso della Turchia nella Ue che ha in Blair un sostenitore convinto e in Juncker un negoziatore cauto. La prima conta dei due fronti arriverà in giugno, nel vertice che concluderà l’attuale presidenza slovena e che passerà la mano alla presidenza francese sotto la quale, in dicembre, si arriverà alla scelta. Da oggi ad allora, però, molte cose potrebbero cambiare spostando gli equilibri da un campo all’altro: dalla Spagna (dove in marzo ci saranno le elezioni), fino all’Italia.

Per il momento, il nostro Paese è rimasto ai margini del risiko delle poltrone europee.

Qualcuno ha fatto circolare il nome di D’Alema tra i pretendenti alla guida della politica estera. Altri giurano che lo stesso Prodi, già passato per Bruxelles come presidente della Commissione, ci tornerebbe adesso molto volentieri come primo presidente del Consiglio per prendersi una rivincita personale dalla sue disgrazie interne. Ma queste sono soltanto voci dei palazzi romani che non trovano alcuna sponda nelle altre capitali della Ue. E, al di là delle simpatie politiche, la considerazione che se ne trae è amara: l’assenza dell’Italia dal grande gioco del potere europeo è proporzionale al suo declino. Che ci sia stato, oppure no, il sorpasso spagnolo non conta più di tanto. Agli occhi dei nostri partner del triangolo Parigi-Londra-Berlino è quello sventurato triangolo tra Ceppaloni, la discarica di Pianura e la Sapienza interdetta al Papa che toglie peso e credibilità all’Italia. Anche nella scalata alla piramide delle istituzioni comuni di Bruxelles.

si dice in Turchia Sventato colpo di Stato La polizia turca ha proceduto agli arresti di 35 persone sospettate di fare parte di una organizzazione segreta nazionalista chiamata Ergereken, dal nome del luogo dove, dice una leggenda, è nata la razza turca. Le indagini, ha detto il governatore di Istanbul Muammer Guler, sono iniziate otto mesi fa in seguito all’esplosione di un deposito di armi in un appartamento di Umraniye (Istanbul), di proprietà di un membro dell’organizzazione.

Intercettazioni sono state successivamente effettuate dopo vari attentati avvenuti ad Istanbul, Smirne, Malatya e Adana. L’organizzazione è costituita da militari in pensione, giornalisti e avvocati.

OMICIDI ECCELLENTI

Don Santoro e Hrant Dink L’organizzazione è sospettata di essere coinvolta in vari omicidi, come quello di Don Andrea Santoro ucciso a Trebisonda nel 2006 e quello di Hrant Dink, il giornalista turco assassinato lo scorso anno. Lo riporta l’agenzia AsiaNews.

Tra le persone arrestate spiccano alcune figure assai note: il generale in pensione Veli Kucuk, presunto fondatore all’interno della gendarmeria di un’unità clandestina ritenuta responsabile della morte dell’avvocato e attivista nazionalista Kemal Kerinisiz; Sami Hostan, uomo chiave identificato dopo un casuale incidente stradale nel 1996 e quello della Sevgi Erenerol, portavoce del cosiddetto Patriarcato ortodosso turco.

PRONTI A COLPIRE

Nel mirino Orhan Pamuk L’organizzazione stava preparando un attentato nei confronti dello scrittore e premio nobel Orhan Pamuk e di altre importanti personalità del mondo politico e intellettuale turco. Secondo il quotidiano turco Hurriyet, per l’attentato contro Pamuk il gruppo stava raccogliendo fondi per oltre un milione di euro.

«Ergereken è una grande operazione», ha detto il deputato del partito di Erdogan, Dengir Mir Mehmet Firat, e «sono molto curioso per l’esito delle indagini».

In altre parole, come si dice negli ambienti giornalistici e diplomatici, è cominciato lo smantellamento di organizzazioni conniventi con vari settori dell’amministrazione pubblica.

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cultura

La vulgata antirisorgimentale ne ha fatto un antieroe. In un saggio Aldo Ricci rivaluta il mito

Garibaldi: revisionista ormai è solo chi ne parla bene di Riccardo Paradisi a storia per sua natura è revisionista. E revisionismo non è una brutta parola in sistemi che non prevedono il pensiero unico di Stato e la fedeltà a una linea ideologica.

Senza revisionismo storico non avremmo conosciuto l’altro volto del Novecento, non avremmo visto mai il “male”che c’è nel “bene”e il “bene” che c’è nel “male”. Senza revisionismo ci saremmo dovuti sorbire la storia ufficiale, una lunga teoria di agiografie, di verità preconfezionate. Un album di icone polverose e ingiallite utili solo a costruire mitologie politiche e ideologiche. Da questo filone benemerito che è il revisionismo abbiamo anche conosciuto gli errori e gli orrori del nostro Risorgimento, le repressioni spietate, i lager dei Savoia addirittura. Abbiamo scoperto che anche questa (una volta) celebratissima pagina di storia patria, come ogni pagina di storia, è cosparsa di lacrime e sangue (ma va?).

Tutto bene. Però come la mettiamo se il revisionismo diventa a sua volta vulgata? Conformismo?

Perchè ormai il problema non è più se si può dire male di Garibaldi, il problema è che non si trova in giro più quasi nessuno disposto a dirne bene.

Nemmeno in questo bicentenario garibaldino così dimesso, celebrato qua e là nella penisola in

L

camicia rossa «Per quello che la sua memoria era stata e avrebbe ancora potuto essere, Garibaldi non voleva uno dei tanti santuari patri su cui, passata la stagione dei riti e delle cerimonie, si sarebbero inevitabilmente accumulate la polvere del tempo e le ragnatele dell’oblio.

Anche per questo...il nostro eroe, di solito così noncurante di tutto quello che riguardava la sua persona, aveva preparato accuratamente una conclusione che può essere definita degna di un eroe omerico. Garibaldi sapeva bene gli effetti misterici, i contenuti simbolici e le implicazioni epiche di un finale in cui il vecchio guerriero in camicia rossa brucia davanti al suo mare.

Un eroe che si consuma nel fuoco, come Ettore, Achille o Artù, perde il corpo mortale per acquistarne uno mitico e imperituro: un effetto troppo in contrasto con una ritualistica che si andava invece indirizzando verso risultati molto più burocratici, all’insegna di una religione civile di largo consumo, immune da slanci imprevedibili e potenzialmente pericolosi. Insomma, verso una religione laica di Stato, piuttosto che verso una religione civile della Nazione: una religione destinata al declino parallelamente al declino dello Stato stesso».

Esce oggi in libreria ”Obbedisco” dove il Generale torna ad essere, dopo anni di dura critica, il simbolo dell’unità nazionale e l’eroe di una religione civile italiana. Necessaria in un momento di crisi identitaria e istituzionale così acuta modo semiclandestino, di fronte a qualcuno degli oltre seicento monumenti lapidi e busti dedicati in Italia all’eroe dei due mondi. Eppure malgrado l’aria che tira e la vulgata antirisorgimentale qualcuno disposto a dir bene di Garibaldi ancora si trova. Aldo Ricci, direttore dell’archivio centrale dello Stato, è uno storico che si è a lungo occupato di storia repubblicana: oggi in libreria esce il suo Obbedisco. Giuseppe Garibaldi eroe per scelta e per destino. (Palombi editore) Un libro, racconta Ricci, «nato dall’indignazione per le accuse e le diffamazioni con cui si cerca di seppellire la figura del generale. Lo si è insultato in ogni modo: schiavista, profittatore economico, prototerrorista assatanato di sangue, rovina per il mezzogiorno. Era giusto tornare a raccontare Garibaldi per quello che è stato: un eroe nazionale». La notizia è che Ricci, a differenza di quelli che fanno del brigantaggio un fenomeno romantico e alimentano curiose nostalgie per lo stato dei Borboni, pensa che Garibaldi sia stata una figura positiva.

Quando ha potuto Garibaldi gli schiavi li ha liberati, in Sicilia ha governato con saggezza l’emergenza, e i decreti emessi da dittatore del regno delle due Sicilie potrebbero essere sottoscritti ancora oggi.

Ma quello che a Ricci sta più a cuore, dopo aver replicato sul piano della storia, è recuperare Garibaldi al mito nazionale. Garibaldi è stato fino alla seconda guerra mondiale l’eroe di tutti, irredentisti e socialisti, fascisti e antifascisti: un eroe vero, un’idea vivente. Dopo la seconda guerra mondiale comincia invece il processo di

imbalsamazione del generale, che diventa una specie di santino della religione di Stato. Cosa è accaduto?

Che l’Italia che esce dalla Seconda guerra mondiale è un Paese vinto, umiliato, lacerato. Un Paese che ha subito l’8 settembre, dove l’idea di patria è morta. Che poteva dire a un Paese così uno come Garibaldi, eroe per scelta e destino, che della rinascita nazionale e dell’unità nazionale aveva fatto la sua missione, che dopo quella dei Cesari e dei Papi sognava la terza Roma repubblicana? È accaduto che l’eroe di tutti è diventato l’eroe delle commemorazioni rituali di un Paese dentro la cui anima non c’era più quello che il generale aveva rappresentato. Garibaldi non è più l’eroe di nessuno. Anzi, diventa un antieroe. Come se nel Paese fossero venute meno non solo le ragioni profonde per rivendicare questo simbolo ma fosse intanto nato e cresciuto in Italia qualcosa di profondamente avverso a ciò che Garibaldi e il Risorgimento hanno rappresentato. Per questo riaffermare come fa Ricci, con il minimo di retorica possibile, l’importanza di un mito fondante della nostra storia nazionale significa aprire una strada per uscire dalla tendenza psicologica autodistruttiva che sembra percorrere l’Italia. E ricordare che i 150 mila di Milano che cacciano l’esercito più potente d’Europa dalla città nel marzo del 1848; la resistenza di Venezia nel 1848-49; i 50mila che arrivano a Napoli con Garibaldi nel settembre del 1860, dicono di un’altro Risorgimento e di un altro Giuseppe Garibaldi rispetto a quelli raccontati dalla vulgata antiunitaria.

musica

25 gennaio 2008 • pagina 21

Dopo il successo del “Parsifal” a Santa Cecilia

Ora Gatti espugna Bayreuth di Jacopo Pellegrino uinto direttore italiano, dopo Toscanini, de Sabata, Alberto Erede, Sinopoli a espugnare la cittadella wagneriana di Bayreuth, Daniele Gatti vi farà i suoi debutti la prossima estate con Parsifal. Un’anteprima del quale ha appena finito di offrire al pubblico della capitale con tre fortunate esecuzioni in forma di concerto presso l’Accademia di Santa Cecilia.

Un luogo dove il «dramma scenico sacro-festivo» (questa traduzione del sottotitolo indicato da Wagner non è bella, ma ha se non altro il pregio di una maggiore aderenza

Q

all’originale di quella normalmente stampata su locandine e programmi) sembra essere riserva esclusiva per direttori stabili, o almeno, per quanti lo sono stati: una ventina di anni fa toccò a Sinopoli, oggi, appunto, all’ex Gatti.

Osservando dalla prospettiva di questo Parsifal lo stato attuale della vita musicale romana, viene spontaneo parafrasare il celebre aforisma di Brecht sui popoli e sugli eroi: fortunate quelle stagioni musicali che soddisfanno il nostro bisogno di eroi. E che potendo disporne li-

beralmente, li sottopongono a fatiche improbe, tali da sollecitare ogni volta il massimo impegno. Il Teatro dell’Opera, per la terza volta in poco più di quindici anni, apre i battenti con Tosca. Beninteso il melodramma di Puccini appartiene al novero dei capolavori indiscutibili, ma eleggerlo a proprio biglietto da visita, destinandolo oltretutto alle mani di Franco Zeffirelli, che già tante volte l’avevano «violato», segnala la volontà di rifuggire a priori qualsiasi rischio. Ora, nessuno vorrà tacciare d’eccentrico o temerario il cartellone di Santa Cecilia, anzi; eppure, per volontà o per caso, azzardi e sorprese sfuggono di

ma anche una certa qual propensione al bercio, persino nel piano, non proprio gradevole.

Niente da rimproverare, invece, all’ensemble di voci biance istruito da José Maria Sciutto.

Defatigante per i cantanti, quasi tutti a posto e specialmente obbedienti alle prescrizioni della bacchetta. Simon O’Neil è un protagonista di voce chiara, giovanile e squillante, come si conviene; canta anche piuttosto bene, attento al legato e senza forzare, in rapporto però a una statura di interprete ancora timida. Quella che non difetta al Gurnemanz introverso e umanissimo di Georg Zeppenfeld, in compenso, un po’ leggero per timbro e volume.

Dopo Sinopoli, il quinto direttore italiano a essere invitato nel tempio wagneriano quando in quando alla censura preventiva. Come appunto è stato il caso del Parsifal.

Impresa defatigante l’estrema creatura wagneriana (1882), per tutti. Per il pubblico, che al primo intervallo rompe i ranghi e se la fila. Chi resta (e sono i più) mostra di gradire; fin troppo, o almeno in forma intempestiva, a giudicare dalla ramanzina cortese che il direttore ammannisce agli astanti, coll’invito (sacrosanto) a prestare un po’ più d’attenzione al silenzio che circonda e circonfonde la musica. Defatigante per l’orchestra, chiamata a una concentrazione implacabile per oltre 4 ore e mezzo. Minore, ma non meno delicato, l’impegno richiesto al coro: da quando alla sua guida è tornato Balatsch, ha recuperato la pastosità d’un tempo,

Amfortas meno violento che doglioso Detlef Roth, bene il Titurel di Jaco Huijpen, il nostro Lucio Gallo incarna un Klingsor di tradizionale malvagità.

Sul fronte femminile, Evelyn Herlitzius funziona meglio negli affondi sardonici e aspri di Kundry; la sensualità (della carne prima, poi dello spirito) le si attaglia di meno.

Ciò detto, Parsifal può anche essere, o meglio, dev’essere un’impresa esaltante. Tale a Roma è risultata per merito di Gatti. Di prim’acchito il direttore milanese pare ricollegarsi alla scuola storica tedesca quella dei Furtwängler e dei Knappertsbusch - nei tempi molto larghi (la prima sera l’atto iniziale è durato 2 ore e 6 minuti, una quindicina in più del normale) e soprattutto poco variati all’interno, statici: un Wa-

gner immerso nell’aura lontanante e atemporale del mito, laddove le pause assumono un peso eguale alle note (Preludio, monologo di Gurnemanz). Oltre al passo, anche il tono del racconto, oscuro denso, con i soli strumentali che muovono da un fondo compatto e magmatico si riconnette all’antica tradizione germanica. Sennonché questa impostazione arcaico-monumentale è subito erosa dall’interno, in virtù d’una tavolozza dinamica che predilige lo sfumato, l’accento sommesso, tanto in orchestra quanto nelle voci. Ogni motivo, ogni linea si stacca a fatica dal silenzio, subito anelando a reimmergervisi. L’incedere grave e sacrale unito all’ascolto dell’interiorità offre una chiave per entrare nel mistero del Mitleid, della compassione, posto al cuore di questo immane monumento artistico-ideologico: solo riconoscendo l’unità originaria nel tutto (l’orchestra come entità indifferenziata) e annullando ogni istanza soggettiva (la tensione al silenzio) la redenzione diventa una possibilità reale. La lettura di Gatti, tecnicamente irreprensibile, peraltro capace anche di grandi accumulazioni sonoro-emotive (finali I e II), non si adatta facilmente alle componenti preliberty della scena nel giardino, e non riesce ancora ad assicurare un’adeguata tensione interna all’intero arco narrativo. Potrebbe ottenerla con un’orchestra tedesca, più adusa della pur motivata compagine ceciliana (ma attenti al corpo degli archi e all’intonazione dei legni!) a un suono lungo e privo di scossoni interni? Chi vivrà (l’esperienza delle recite a Bayreuth) vedrà.

opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog LA DOMANDA DEL GIORNO

I politici litigano,l’Italia subisce.C’è ancora speranza? popolo. E non vi lamentate se per la politica c’è sempre più disinteresse. La colpa è solo di tutti i deputati e i senatori che rendono la politica ogni giorno che passa sempre più lontana dalla vita di tutti i giorni.

Andrea de Santis - Bologna

La politica ai politici. A noi italiani rimane il compito di votarli per i loro meriti Certamente non è un grande spettacolo vedere i politici litigare fra loro, ancora peggio se i litigi avvengono all’interno della stessa alleanza. Noi cittadini possiamo solo subire, al massimo possiamo avere l’onore di vederci pubblicate le nostre mail di protesta presso qualche giornale dal cuore tenero. Credo che la politica debba essere esercitata esclusivamente da politici, è un mestiere e deve essere esercitato da chi lo svolge al meglio per il bene della nazione e per l’interesse di tutti gli italiani. Mi sorge il dubbio che tale figura però non esista nel nostro Paese, io stessa non saprei esserne all’altezza, pur avendo mille idee da esprimere, ma metterle in pratica è tutta un’altra cosa. Si fa presto a dire: se ci fossi io. Ma ci toccasse davvero un simile compito, come ci comporteremmo? No, non ne saremmo capaci, a noi il compito di votarli per i loro meriti e non sulle promesse clientelari come avviene di solito in molte zone d’Italia.

Gloria Pellacani - Roma

L’effetto sui giovani?

Noia e indifferenza Direttore, sono un patito della politica ed ho trasmesso questa passione ai miei tre figli. Meglio, credevo di averla trasmessa. L’altra sera mi sono sintonizzato sul primo canale Rai per Porta a Porta e che noia!Ho virato allora su Matrix: stesso efffetto, chiacchiere chiacchiere chiacchiere. Mi sono poi accorto che tutti e tre i figli se ne erano andati. Uno navigava su internet, uno ascoltava musica e l’altra leggeva un libro. Alla mia domanda: ma non seguite le trasmissioni politiche? Oggi è una giornata importante, forse cade il governo, questa è stata la loro risposta: papà, mi sa che sei rimasto il solo a seguire quei buffoni. Aiuto!

Livio Muratori - Ancona

Basta con la legge elettorale.

I cittadini vogliono stabilità sul lavoro La crisi del sistema politico italiano è ormai irreversibile. Non c’è proprio più nulla da fare. E il vero problema è che i politici continuano ad arrampicarsi sugli specchi per mantenere potere e poltrona. I nostri problemi non si chiamano legge elettorale o fiducia di governo. Quello che ci interessa è la stabilità del posto di lavoro. I soldi per arrivare a fine mese. Il futuro dei nostri figli. Capire se le pensioni ci saranno ancora quando smetteremo di lavorare. Come fare ad accendere un mutuo per la casa nell’era del precariato. Queste sono le questioni concrete che interessano al

Ci vuole il coraggio di mettere in discussione il sistema democratico Faccio una provocazione a tutti i leader di coalizione, a partire da Pd e Pdl. Proviamo a estrarre a sorte 900 nomi di italiani diplomati. Un software che decide nomi a caso. Mettiamo i “fortunati”al posto di deputati e senatori attuali. Tempo tre mesi e faranno peggio di tutti quelli che ci sono oggi, la cui unica preoccupazione è la pensione a vita e i vari benefit perché, parliamoci chiaro, le elezioni non le vuole nessuno. Sapete cosa significa? Che il problema risiede nel sistema democratico. Siamo pronti a metterlo in discussione a questo punto?

Lorenzo Mangione - Firenze

LA DOMANDA DI DOMANI

Giovani: precari a vita o disoccupati?

Rispondete con una email a lettere@liberal.it

C’è bisogno di leader che guardino al futuro Egregio on. Adornato, ho letto con piacere il primo numero di Liberal e desidero farle i miei più sinceri complimenti. Leggendo i vari articoli è apparso come il giornale sia sintetico, ben strutturato e chiaro nel taglio e negli obiettivi. Come scritto dal direttore Foa, il quotidiano esce in un momento nel quale diventa sempre più importante discutere, dialogare, cercare e proporre nuove idee. L’era del ”dare contro”per ”partito preso” è finita; il centrodestra, con molta probabilità, sarà chiamato a governare il Paese e a questa sfida dovrà arrivare pronto e coeso. Condivido pienamente l’idea di riformare il centrodestra sulla base del trinomio leadershipclasse dirigente-progetto. Spero che questo possa avvenire e che lo spettacolo desolante a cui noi cittadini abbiamo assistito nel corso degli ultimi giorni possa concludersi. Mi auguro che il periodo di entusiasmo che il centrodestra sta vivendo grazie ai sondaggi e all’inadeguatezza del governo non siano di ostacolo al perseguimento di un confronto interno serio e strategico. L’Italia ha bisogno di leader che guardino al futuro e che rimettano il Paese in corsa. Per questo, spero che la riflessione che lei e altri esponenti di centrodestra avete iniziato possa continuare e che a questa si aggreghino tutti i moderati che hanno a cuore il futuro del nostro Paese.

Sara Carrer Perché non si parla più di Gabriele Sandri?

Vespa ci ha rintronato di trasmissioni su Cogne. La strage di Erba diventa un nodo cruciale. Meredith è la nuova morbosità italica. Fra poco su Rignano Flaminio ci faranno un giallo-thriller. Ho una domanda per la classe dei giornalisti. L’11 novembre moriva sull’autostrada A1 un ragazzo ucciso da un

QUI LO DICO Lei, Manuela Arcuri, guerresca diva che al solo sguardo sfinisce e sfibra, si è confessata. Reduce da un’abbuffata natalizia di rara intensità, ha pensato bene di smaltire le tossine accogliendo nel suo talamo un modello.

Giusto il tempo di snellire l’interiore travaglio, e poi ciascuno per la sua strada.

Noi, mortali ginnasti, più mortali e meno ginnasti se reduci da un cannellone al ragù e uno zampone, dobbiamo accontentarci di rimedi casalinghi. Appesantiti dai bagordi, ma smaniosi di leggerezza, non ci resta che raggiungere pigramente il divano, fare un po’ di zapping, e sperare in una replica di Io non dimentico.

proiettile sparato da un agente della polizia stradale. Perché non si parla più dell’omicidio di Gabriele Sandri? Storia troppo scomoda solo perché c’entra una divisa? Quando vedremo puntate di Porta a Porta o di Matrix o di Ferrara sulla storia di un ragazzo che ha la sola colpa di stare su una macchina che viaggiava in Italia?

Francesco Romano - Roma I rivoluzionari ci sono, le armi si trovano. Rivoluzione leghista Re Umberto siamo pronti. Le armi si trovano. I rivoluzionari ci sono. Evviva la rivoluzione.

Gianluca Laci - Brescia La priorità della Sicilia è sconfiggere la mafia In Sicilia si festeggia per una condanna di cinque anni al presidente della Regione. Quando festeggeremo tutti insieme per la vittoria contro la mafia? Così facendo, mai.

Gaetano Tazio - Palermo

dai circoli liberal DA UNA CULTURA CONSERVATRICE A UNA PROGRESSISTA E LIBERALE Dopo anni di impegno amministrativo e politico, di lotte, tensioni, scommesse per molti uomini politici, il Sud arranca. Perché? La risposta ha mille sfaccettature, tutte da ricomprendere in una sola affermazione: è necessario che il Mezzogiorno si dia una vera e forte identità interregionale, strettamente culturale ed europea. C’è infatti da chiedersi come mai il Sud, fonte inesauribile di umanisti, giuristi e letterati, non abbia mai visto crescere ed elevarsi il popolo che in esso vive, e per i cui luoghi ha un’affezione unica.

Molti pensatori e uomini di cultura, dopo essersi affermati nelle arti e nelle professioni, non si sono prodigati per costruire una forte e vera identità meridionalista, che si doveva affrancare dai luoghi comuni. Se è vero che dove maggiore è il livello di cultura liberale, nel modus vivendi e nella economia, maggiore è lo sviluppo delle stesse aree, allora vuol dire che il Sud deve fare un salto culturale e passare da una cultura agricola, conservatrice, patriarcale, e poco incline all’innovazione ed al confronto, ad una cultura d’impresa, libera-

le, matriarcale, intesa come valorizzazione della donna, e maggiormente aperta all’innovazione ed al confronto. Come realizzare tutto questo?

Costruire nuovi percorsi culturali è impresa ardua e che richiede anni, ma è l’unica vera via per costruire lo sviluppo del Mezzogiorno, e questo dovrebbe essere il compito prioritario di classi dirigenti, amministratori, politici di professione, imprenditori, insegnanti, letterati, uomini di cultura, organizzazioni sociali in genere. È necessario introdurre nella strutturazione della società meridionale una cultura della competizione razionalista, che costruisca nuovi modelli di cittadini responsabili che dominino l’eccessiva cultura umanista insita in ogni meridionale ed un’eccessiva cultura della rassegnazione presente in molte altre fasce della popolazione, e annullare l’influenza della criminalità organizzata. È utile dunque che lo Stato dia un contributo di idee, economico e progettuale, per lo sviluppo del Sud. Che si investa in saperi, in infrastrutture, strade, inceneritori; che si colmino i divari digitali, che vengano premiati i cittadini onesti e laboriosi, che si affrontino i problemi, e non si commissarino per rinviare le

decisioni. E’ utile anche che i cittadini si riapproprino dell’unico strumento democratico che essi hanno, il voto, per delegare a rappresentarli coloro i quali siano degni della loro fiducia. Ed è utile che si costruisca una cultura dell’ottimismo e del libero mercato, con regole palesi e chiare per tutti. Questo potrebbe essere l’inizio per costruire una nuova cultura e un nuovo meridionalismo meritocratico ed europeo.

Luigi Ruberto LIBERAL CLUB MONTI DAUNI (FG)

APPUNTAMENTI BARI - 28 GENNAIO 2008 Aula Aldo Moro - Facoltà di Giurisprudenza piazza Cesare Battisti 1 Presentazione del libro ”Fede e Libertà”, di Ferdinando Adornato e Rino Fisichella ROMA - 31 GENNAIO-1-2 FEBBRAIO 2008 Università Lateranense, Tempio di Adriano, Palazzo dei Congressi Meeting internazionale ”Cambio di stagione: 1968-2008, quarant’anni dopo”

opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog popolo italiano approvò a grande maggioranza. E qual è stato l’effetto? Su un giornale ho letto che le cause intentate contro magistrati sono state - non so in quanti anni 3912. Sa quante sono state le assoluzioni? 3912! Quali speranze per il povero cittadino? Nessuna. Cordiali saluti.

Giuseppe Felici - Macerata

LETTERA DALLA STORIA

”Tutte le sorti conobbi e a tutte fui pari J’ai vu mourir Louis XVI et Bonaparte” Caro Casimiro, ”j’ai vu mourir Louis XVI et Bonaparte” o, se non proprio questo, ho visto nella mia vita più di una cosa degna di memoria.

Ho visto Raniero il Mago giocare a mah-jongh; ho visto i cigni fendere le acque di velluto del lago di Amore di Bruges; ho visto Piccadilly a mezzogiorno e Montmartre a mezzanotte; ho visto il Mosè di Michelangelo e ho sentito Masnata parlare di antichità; ho fatto più di una volta colazione con Pirandello e ho conversato con Raimondo Arenella; ho visto la bellezza della principessa Jolanda e la bruttezza di suo marito; ho passeggiato sotto i tigli secolari di Windsor e sotto i cipressi insigni di Fiesole; ho visto la guerra e il più cruento dopoguerra; ho visto Mussolini in camicia nera e la giovane Alice in abito di corte; conosco Dante, amo Shakespeare, ho letto Goethe e ho subito i poemi di Lucio; sono stato schernito da Corradino; a Modena ho fatto la corte alla figlia di un oste e a Londra a lady Beauchamps.

Tutte le sorti conobbi e a tutte fui pari. Lo ripeto: ”j’ai vu mourir Louis XVI et Bonaparte”.

Libano: da fuoco amico a ”cuoco nemico” Dopo le morti da fuoco amico, rischiamo quelle da ”cuoco nemico”.

I nostri ragazzi sono morti e muoiono per l’uranio impoverito statunitense, Calipari cade sotto il fuoco degli alleati e oggi siamo arrivati alla cucina avvelenata. Quello che sta succedendo in Libano è un affronto all’Italia. Chi può faccia qualcosa, chi sa parli. Prima che sia troppo tardi.

Giovanni Marconcini

Giuseppe Tomasi di Lampedusa a un amico Caro Bertinotti, anche il medico fa un lavoro usurante Ho già inviato questa lettera a un altro quotidiano, ma inutilmente.

Sono un medico ospedaliero e tempo fa ho sentito Bertinotti dire: ”Non si possono mettere sullo stesso piano addetti alla catena di montaggio e medici”, riferendosi ai lavori usuranti. Domanda: caro Bertinotti quando al pronto soccorso di giorno o di notte arriva un giovane in over dose, un cittadino con un infarto del miocardio, un bambino in coma, il medico non svolge un lavoro usurante come un operaio che avvita bulloni? Grazie.

Lettera firmata Polveri sottili, è davvero solo colpa dell’uomo?

Caro Direttore, le pongo un mio dubbio: sono d’accordo che stiamo inquinando la nostra atmosfera con l’emissione di gas tossici, polveri sottili eccetera. Ma possibile che, rispetto a decine di miliardi di anni, poco più di 100 di industrializzazione possano determinare tale sfascio? Nella storia della terra periodi torridi alternati a glaciazioni sono già avvenuti, e l’uomo non ne era certo responsabile. E quindi, è giusto dire che noi non dobbiamo accelerare il mutae di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)

mento climatico, ma evitiamo di dire che ne siamo l’unica causa.

Grazie.

Marianna Abete - Bolzano Se in Italia la vera Casta è la magistratura Nel numero di giovedì ho letto con grande piacere la lettera a firma Filippo Arcesi sulla magistratura. Anche io penso che - se non proprio il più grande - sia comunque un grande problema italiano. Insieme alla inetta classe politica costituisce sicuramente una Casta, e se vogliamo la vera Casta, perché se i politici godono di tanti privilegi, i Magistrati godono del più grande privilegio: l’immunità assoluta. Direttore, non ricordo in quale anno fu indetto il referendum sulla responsabilità dei magistrati che il

“

Calcio, l’Osservatorio non ci capisce più nulla Tra tifosi romanisti e catanesi non scorre buon sangue. La trasferta da Catania viene permessa.

Il risultato, non quello della partita, ma del pronto soccorso capitolino, è di tre accoltellati, di cui uno grave. Tra romanisti e palermitani c’è un’amicizia storica. I tifosi rosanero non potranno invece venire a Roma. Non è che all’Osservatorio qualcuno non ci capisce nulla?

Leale Opposto Torre Suda (Le) Rifiuti Evviva il nostro Capo dello Stato, si è finalmente accorto che non esiste solo il problema ”munnezza ”, ma anche il problema Prodi. O siamo sempre lì?

Fedele Mura Campo di Giove (Aq)

”

Le dottrine puramente economiche necessariamente conducono al cannibalismo ERNST JÜNGER

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,

Giancristiano Desiderio, Alex De Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Angelo Mellone, Assuntina Morrese, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

il meglio di A GAZA TORNA IN SCENA IL CINISMO ARABO Ciò che sta avvenendo nella Striscia di Gaza in questi giorni è un paradigma dell’ambiguità e del cinismo arabo nello sfruttare le sofferenze della popolazione palestinese, usata come vero e proprio ”scudo umanitario”. Un territorio già devastato da mal e corruzione, governo trasformato in un avamposto terroristico da cui far partire migliaia di missili contro Israele: negli ultimi due anni e mezzo, dopo il ritiro da Gaza, circa 9300. Ma Israele si trova costretto, per ragioni ”umanitarie”, a sostenere i suoi stessi nemici. Il paradosso infatti è che Gaza dipende in tutto e per tutto da Israele, il quale però, se non vuole essere denunciato al pubblico ludibrio non può internazionale, permettersi di negare neanche i rifornimenti di elettricità e carburante a chi poi lo ricambia del favore bombardando senza sosta le sue città. (…) Israele non è l’unico stato ad aver posto ai propri confini un ”muro” per impedire ai terroristi di attraversare i suoi confini. Ieri mattina Hamas ha fatto saltare la barriera di metallo che per 14 km separa la Striscia di Gaza dall’Egitto. Decine di migliaia di palestinesi si sono recati nei vicini centri abitati egiziani per procurarsi merci divenute introvabili a causa del blocco israeliano. (…) Dopo il golpe di Hamas, il confine è stato chiuso e la missione degli osservatori sospesa. E’ evidente come Hamas abbia bisogno dell’apertura di quel valico per continuare la sua guerra, ma anche per motivi politici: sta tentando di ”regionalizzare” la crisi di Gaza, ricattando e minacciando apertamente tutti i

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leader arabi, ma in particolare Mubarak, con l’obiettivo di rompere l’isolamento politico.

JimMomo jimmomo.blogspot.com S E N ZA L U C E N O N RIUSCIAMO A BOMBARDARVI Negli ultimi 2 anni e mezzo dopo il ritiro di Israele da Gaza sono arrivati su Israele circa 9300 missili. Dalla Cisgiordania ancora occupata, zero. Gerusalemme però, nonostante tutto, non vuole arrivare a rioccupare Gaza.

Chiede solo che da Gaza non vengano più lanciati missili sulla testa dei propri cittadini, in modo da porre le basi di un altro ritiro dalla Cisgiordania. Niente da fare, Hamas non ne vuole sapere. Sa che così facendo diventa impossibile per il governo israeliano proporre lo sgombero dalla Cisgiordania (ovviamente l’israeliano medio direbbe: ma siete pazzi? già ci tirano i missili in testa da Gaza, e volete che ce li mandino anche dalla Cisgiordania?), e infatti il lancio di tali missili continua. (…) Questa è la dimostrazione di come ad Hamas non importi nulla del benessere dei palestinesi. Sono fanatici. Se amassero i propri fratelli, per il loro bene sarebbero disposti a riconoscere il diritto di Israele ad esistere. Madre amorevole non scambierebbe un princìpio, (il dovere di distruggere Israele previsto dalla Costituzione di Hamas) per il benessere dei propri figli? Ma Hamas è tutt’altro che una madre amorevole, anzi. Pur di uccidere israeliani, è disposta a passare anche sopra il corpo dei propri figli. Una madre degenere, appunto. Disposta a tutto pur di uccidere la pace.

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1968-2008 quarant’anni dopo

L’APERTURA 31 GENNAIO • ORE 15,00 UNIVERSITÀ LATERANENSE • PIAZZA S.GIOVANNI IN LATERANO, 4 SALUTO

INTRODUTTIVO

Monsignor Rino Fisichella

Siamo ancora prigionieri di vecchie e false idee È arrivato il momento di voltare pagina

INTERVENTI André Glucksmann Michael Novak Lorenzo Ornaghi Krzysztof Zanussi presiede Renato Cristin IL DIBATTITO

1

FEBBRAIO • ORE 09,30 TEMPIO DI ADRIANO • PIAZZA DI PIETRA

RELAZIONI/L’IDEOLOGIA Renzo Foa Gennaro Malgieri Monsignor Luigi Negri DISCUSSANT Renato Brunetta, Enrico Cisnetto, Lucetta Scaraffia FORUM/MEDIA E CULTURA Ferruccio de Bortoli Mauro Mazza Roberto Napoletano Gianni Riotta presiede Andrea Mancia

MEETING INTERNAZIONALE

CAMBIO DI STAGIONE ROMA • 31 GENNAIO 1 e 2 FEBBRAIO 2008

IL DIBATTITO FEBBRAIO • ORE 15,00 TEMPIO DI ADRIANO • PIAZZA DI PIETRA 1

RELAZIONI/LA VITA Francesco Alberoni Sergio Belardinelli Eugenia Roccella DISCUSSANT Giuliano Cazzola Assuntina Morresi Marcello Veneziani FORUM/I RAGAZZI DEL 2008 Mara Carfagna Giorgia Meloni Paolo Messa Gian Luigi Paragone presiede Angelo Crespi LE CONCLUSIONI 2 FEBBRAIO • ORE 10,00 PALAZZO DEI CONGRESSI VIA DELLA PITTURA Ferdinando Adornato José María Aznar Pier Ferdinando Casini Gianfranco Fini introduce Giuseppe Gargani presiede Angelo Sanza

fondazione