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QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA

Occidente he di c a n o r c

Così la jihad sta sbarcando in Africa

di Ferdinando Adornato

Rossella Fabiani Justo Lacunza Balda Stefania Hanson pagina 12 Maurizio Stefanini

stereotipi IL CUORE TRAGICO DI NOI PULCINELLA pagina 9

Angelo Crespi

medioriente

Poste italiane spa • Spedizione in abbonamento postale d.l. 353/2003 (conv. in L. 27-02-2004 n.46) art. 1; comma 1 - Roma

Un piano strategico israeliano

I RISCHI DELLA POLITICA-IMMAGINE

Crollano i consensi del leader francese: un avviso ai naviganti italiani

Boomerang Sarkozy FEBBRAIO

2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •

NUMERO

24 •

WWW.LIBERAL.IT

pagina 10

Daniel Pipes

heidegger IL PRIMO DEGLI “ATEI DEVOTI“ Giancristiano Desiderio pagina 20

rock SCARLETT JOHANSSON CANTA WAITS E TRADISCE WOODY Alfredo Marziano

alle pagine 2, 3, 4 e 5

MERCOLEDÌ 13

Gaza? A Mubarak

• CHIUSO

pagina 21

80213

9 771827 881004

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


pagina 2 • 13 febbraio 2008

boomerang

Sarkozy

Da Parigi un avviso ai nostri leader che puntano sull’immagine

Boulevard des Italiens di Renzo Foa a crisi di fiducia che sta investendo in Francia Nicolas Sarkozy pone qualche problema a chi, anche qui in Italia, l’ha eletto a modello di virtù e di capacità politiche. Il problema principale consiste nel fatto che un’esperienza eccezionale di vittoria elettorale non si è automaticamente tradotta in arte di governo. Cos’è successo? Che il politico dalle idee chiare e dai comportamenti decisi si era trasformato in una potente macchina da guerra quando era riuscito a costruirsi l’immagine dell’«uomo nuovo», in contrapposizione diretta a Jacques Chirac, che pure apparteneva alla stessa famiglia post-gollista. Che questo stesso uomo politico era riuscito abilmente a sottrarre la carta dell’alternativa alla socialista Ségolène Royal e aveva vinto trionfalmente sparigliando tutti i giochi e promettendo un nuovo protagonismo francese. E poi è successo che questo capitale è stato consumato rapidamente, in meno di un anno. Al punto non solo da veder crollare gli indici di gradimento, ma perfino da far dire che il sarkozysmo è ora fuori controllo.

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Tutta colpa di Carla Bruni, di una storia foglorante di amore (e di potere)? Se fosse solo così, la lezione sarebbe semplice. Ma non lo è. La separazione e il divorzio da Cécilia e l’amore travolgente con la modella sono probabilmente solo un contorno, in una società dove i presidenti hanno sempre fatto quel che volevano, nella dimensione privata come nella sfera pubblica. Ma sono comunque un contorno di quella sovraesposizione mediatica - appunto l’immagine – a cui si è ridotta la presenza politica del presidente. Ecco il divario che è stato sottolineato davanti a tutti, fra un simbolo sovraccaricato di attese e la reale corrispondenza dell’azione alle attese. Perdipiù un simbolo costruito attraverso continui atti simbolici. Con l’apertura a personalità dell’altro

schieramento e il loro coinvolgimento diretto nel governo. Con l’ormai famoso rapporto Attali, stilato dal meglio dei cervelli europei. Con un’intensa rete di contatti internazionali a segnalare una fase completamente nuova dell’approccio di Parigi con il mondo. Il tutto in un crescendo vorticoso di presenza sui media, attraverso dichiarazioni e immagini con la cravatta e senza cravatta, con la Bruni e senza, molto spesso al telefonino, comunque sempre raffigurato in movimento. Sovraesposizione, si è detto. Ma di cosa? Ecco il problema. Il martellamento mediatico non ha riguardato una politica, ma essenzialmente la raffigurazione di una leadership.

Non è quel che sta accadendo anche in Italia? Il dubbio c’è, visto che Nicolas Sarkozy vanta infiniti tentativi di imitazione. Ad esempio, la chiamata improvvisa di Walter Veltroni alla guida del Pd, avvenuta nel giugno scorso su iniziativa dei maggiorenti della Margherita e dei Ds che avevano ormai deciso la confluenza, non ricalcava lo stesso meccanismo sperimentato in Francia? Veltroni invocato per costruire ed esprimere non la continuità con Romano Prodi, ma la sua alternativa. Veltroni chiamato a far dimenticare la disastrosa esperienza dell’Unione, così come a Parigi era stata fatta dimenticare la vetustà di Chirac. Veltroni gettato nella competizione politica come «il nuovo», come il simbolo di una fase completamente diversa. Veltroni che addirittura, più direttamente, non nascondeva la sua preferenza per il modello elettorale francese, cioè il doppio turno, destinato a falcidiare gli alleati e a cancellare i cespugli politici e a costruire un sistema attorno alla sola figura del leader. Veltroni che poi è sempre stato l’uomoimmagine della sinistra, sfumata nei contenuti e messa a fuoco invece sulla personalità. E questo è stato solo l’inizio. Perché la continuazione della

Sarkozy e Segolene Royal in campagna elettorale

storia è andata nella stessa direzione. Tra l’altro non c’era giorno che questo o quel giornale non proponesse un richiamo al sarkozismo, con le domande un po’ stucchevoli su chi vorreste dell’altro schieramento nel vostro governo o come comporreste la vostra commissione Attali. Il tutto per costruire immagini e per avvolgere la politica in una cornice di virtualità. Ma in questo passaggio che l’Italia ha vissuto negli ultimi Vel-

avrebbe potuto logorarsi e che quindi, all’improvviso, dal predellino dell’automobile aveva annunciato in Piazza San Babila lo scioglimento di Forza Italia e la nascita del Partito delle libertà. Berlusconi che ha scelto di dialogare con Veltroni e di diventare il protagonista del superamento del bipolarismo, dopo esserne stato il fondatore. Di essere lui, in altre parole, non solo l’alternativa a Prodi, ma anche l’alternativa a sè stesso. Berlusconi che, altrettanto im-

L’ultima lezione venuta da Parigi è che non basta costruire una possente macchina per la vittoria ed essere una presenza mediatica quotidiana fra gli elettori. Il problema principale resta ovunque quello di governare bene troni è stato in buona compagnia. Va detto che è stato un passaggio strano e confuso. Con un governo che nessuno più voleva, ma che si reggeva su una maggioranza motivata soltanto dalla mancanza di un’alternativa e dall’incertezza verso il futuro. Con un sistema dei partiti in crisi. Con una frattura crescente fra la società e le istituzioni e con un’incontenibile frammentazione di interessi (i «coriandoli» di cui ha parlato Giuseppe De Rita). Così, la buona compagnia di Veltroni si è manifestata all’improvviso nel cambio di passo, attuato da Silvio Berlusconi. Berlusconi che dall’indomani del voto del 2006 si era trincerato nell’idea dell’illegittimità del risultato e nella speranza della spallata parlamentare, anzi nella certezza della spallata che aveva annunciato per il 13 novembre. Berlusconi che ha capito che, senza alcun risultato, il suo straordinario appeal verso l’elettorato

provvisamente, ha scelto il listone unico con Alleanza nazionale per sancire l’inaugurazione di una stagione bipartitica ed essere vissuto come il fondatore di una nuova fase italiana. Sono stati mesi di crisi in cui la partita politica – con la sola eccezione della caduta del governo, la cui causa diretta è stata l’iniziativa di una procura della Repubblica – si è giocata essenzialmente sull’immagine dei due leader, con una loro costante sovraesposizione mediatica. E, sicuramente, tutto ciò continuerà anche in campagna elettorale.

Dove sono i programmi? So che saranno presentati, sono un obbligo. Ma saranno un cappello da porre su una costruzione già completta. Finore Berlusconi e Veltroni non hanno sentito il bisogno di presentarli. Li hanno annunciati. Hanno indicato alcune priorità, tra l’altro spesso coincidenti, come il cambia-

mento consensuale delle regole, come la riduzione della pressione fiscale, come la sicurezza dei cittadini. Ma a lungo è mancato un testo, neanche una paginetta come quella del «contratto con gli italiani». L’unico programma è stato la prefigurazione di un bipartitismo – naturalmente senza partiti pesanti – che in realtà è la prefigurazione della continuazione del confronto tra due leader. Due leader che si presentano entrambi come alternativi al passato, innanzitutto a Prodi, ma poi a quel che è stato il quadro politico dal 1994 ad oggi. C’è l’immancabile polemica su chi, dei due, è «nuovo» e chi è «vecchio». Quel che manca è l’indicazione di ciò che si intende fare, se non per linee generali. È, in altri termini, la costruzione di un’atmosfera.

Così come Sarkozy è stato in Francia la promessa di una svolta, anche Berlusconi e Veltroni raffigurano con il loro stile, con la loro oratoria, con il loro abbigliamento la promessa di un cambiamento. Per farlo hanno dovuto azzerare la gran parte delle simbologie politiche esistenti. Hanno ridotto tutto al ruolo personale del leader, alla sua capacità di fissare il rapporto con l’elettorato. Hanno definito una sola novità: quella di un conflitto che non avrà toni aspri. Il resto è la costruzione di un’immagine, è l’uso del potere mediatico, è una presenza costante nell’attenzione degli italiani. Hanno appunto inseguito il modello del piccolo uomo politico francese che è diventato grande costruendo una possente macchina per vincere, ma non per governare. Se hanno il tempo di dare un’occhiata ai giornali francesi, possono capire di avere il tempo di correggersi.


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Sarkozy

13 febbraio 2008 • pagina 3

Sergio Romano giudica la politica “virtuale” di casa nostra

L’Italia è da sempre un teatrino. Ora attenti a non piombare nella farsa di Riccardo Paradisi

«Il desiderio di Veltroni e Berlusconi è evidente: abbassare i toni dello scontro per non pregiudicarsi l’intesa dopo il voto del 13 aprile» ROMA. Nicolas Sarkozy sta esagerando. E i francesi, che ancora hanno una certa idea della Francia, cominciano ad averne abbastanza. Delle sue intemerate, della sua teatralità, del suo esibizionismo. Dell’invadenza della sua sfera personale e famigliare nella vita pubblica francese. La sua forza sembra stia diventando la sua debolezza. In Italia non c’è nessun Sarkozy ma l’estetizzazione della politica è a livelli mai visti. Fonti bene informate danno Veltroni arrabbiatissimo per l’inquadratura Rai, secondo lui punitiva, durante il discorso di Spello mentre la cura dei particolari con cui Berlusconi sta curando la coreografia delle sue kermesse sembra avere raggiunto ormai tratti parossistici. Ma possono reggere sistemi politici fondati sulla guerra delle immagini? L’ambasciatore Sergio Romano, editorialista del Corriere della Sera, storico e osservatore smagato dei fatti politici italiani invita a non drammatizzare. E a non fare paragoni impropri La Francia come l’Italia dunque? Non regge un confronto tra Sarkozy e gli attori politici italiani. Il presidente francese esce completamente dalla norma, va oltre la personalizzazione e la spettacolarizzazione della politica. Non si limita a portare la propria vita privata sul proscenio, apre addirittura le porte della propria intimità allo sguardo pubblico come fosse Luigi XIV. Né Berlusconi, né Vetroni, né nessun altro, nemmeno negli Stati Uni-

ti, è arrivato a tanto. È un modo abbastanza imprudente di agire. Le reazioni dei francesi lo dimostrano. Ma non rischiamo anche qui una mediatizzazione eccessiva del discorso politico? Mi sembra che siamo dentro questa dimensione da decenni ormai. Non riesco a vedere la novità. Ma scusi se li ricorda i congressi del Partito socialista di Craxi? Adesso anche la sinistra è scesa su questo terreno. La novità è questa. Veltroni che usa gli strumenti di comunicazione dell’avversario storico. E Berlinguer in braccio a Benigni? Berlinguer, il segretario del vecchio Pci, in braccio a un comico! Lei come chiama questa scena se non spettacolarizzazione della politica? Stiamo parlando di cose accadute trent’anni fa, che riguardano la sinistra italiana. Perchè sor-

prendersi che trent’anni dopo la politica si sia ulteriormente teatralizzata? Niente di nuovo dunque sotto il sole. Ma questa spettacolarizzazione ha ridotto o no secondo lei la valenza riflessiva del discorso politico? I programmi, certo. Noi parliamo sempre di programmi senza però renderci conto di rianimare uno dei dibattiti più ingannevoli della politica italiana. Noi infatti parliamo di programmi come se le classi politiche nazionali in Europa fossero libere di manovrare le leve della politica e dell’economia a loro piacimento. Non c’è mai

stato periodo storico in cui la politica nazionale è stata meno libera. Così a sovranità limitata. Ambasciatore Romano ammetterà almeno che Berlusconi ha trascinato anche la sinistra sul terreno della virtualizzazione del discorso pubblico. Non vorrà negare due decenni di polemica ad alzo zero contro la politica di plastica, il partito di plastica, portata in punta di lancia dalla sinistra italiana. Veltroni nel discorso di Spello, fatto su uno sfondo naturalistico-virtuale non dice più una parola contro il nemico storico. Io lo leggo come

Sarko perde 20 punti in tre mesi Crollo nei sondaggi di popolarità per il presidente francese, Nicolas Sarkozy. Secondo un sondaggio commissionato all’istituto di ricerca Ipsos dal settimanale Le Point, l’inquilino dell’Eliseo all’inizio di febbraio ottiene soltanto il 39 per cento di giudizi favorevoli, contro il 49 per cento raccolto a febbraio. Un crollo del 10 per cento, che diventa addirittura doppio se si confrontano i dati di febbraio con quelli di novembre, quando Sarkozy aveva ottenuto il 58 per cento di pareri positivi. Oggi, invece, la stessa percentuale di francesi si dichiara “insoddisfatta” (mentre gli indecisi sono soltanto il 3 per cento). Il dato di Ipsos è confermato an-

che da due sondaggi pubblicati nei giorni scorsi (Tns-Sofres per Le Figaro e Lh2 per Liberation), che vedevano la popolarità del presidente superare appena il 40 per cento. Cresce, invece, sempre secondo Ipsos, la fiducia nei confronti del premier Francois Fillon, che dal 45 per cento di gennaio è salita al 52 per cento di febbraio. A un mese dalle amministrative, che si annunciano difficili per la maggioranza, sale la tensione nell’Ump: i candidati locali, fra i quali numerosi deputati, temono infatti di subire il calo vistoso di Sarkozy nei sondaggi e prendono le distanze dal capo dello Stato, diventato all’improvviso ingombrante.

il desiderio dei due leader dei maggiori schieramenti italiani di non pregiudicare la possibilità di un’intesa, di un rapporto e di una collaborazione reciproca. L’Italia ha vissuto il bipolarismo come uno schema da guerra civile. Adesso si sono smorzati i toni: Veltroni e Berlusconi si contrappongono, ma con accenti che non pregiudichino accordi futuri. Non c’è mutazione antropologica della sinistra dunque. No c’è una persona intelligente come Veltroni che non si brucia i ponti alle spalle, che apre una stagione interlocutoria con Berlusconi. Che dovrebbe essere salutata come la benvenuta. Detto questo è evidente che molto a sinistra sia cambiato. È morto il Pci, ci hanno messo una decina d’anni a creare qualcosa di diverso, è stato difficile, laborioso; hanno perso pezzi lungo la strada, e hanno fatto del bipolarismo una guerra civile. Ma non dimentichiamo che all’interno del partito c’erano già i Morando, i Salvati, i De Benedetti che dicevano che con l’antiberlsuconismo militante non si andava da nessuna parte. Nessuna mutazione ma un cambiamento e in positivo si. Lei non vede pericoli di estetizzazione della politica italiana? L’Italia è sempre stato un palcoscenico. Il rischio non è la teatralizzazione della politica, ma lo scadimento a carnevalata. L’episodio al Senato il giorno della caduta del governo Prodi è stato uno dei tanti siparietti che danno qualche preoccupazione.


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boomerang

Sarkozy

André e Raphael Glucksmann: padre e figlio, in un’intervista atipica giudicano i primi nove mesi della presidenza Sarkozy

Nicolas, vai avanti così.

LA ROTTURA non può essere indolore Colloquio con André e Raphael Glucksmann di Luisa Arezzo l capo dello Stato francese, Nicolas Sarkozy, perde 10 punti di popolarità in febbraio: secondo un sondaggio dell’Ipsos, solo il 39 per cento degli intervistati si dichiara soddisfatto del suo operato, contro il 49 per cento in gennaio. Il calo dei consensi (ma di 6 punti) è confermato da un’altra indagine Csa pubblicata ieri a Parigi. Il presidente francese non commenta e tira diritto per la sua strada. E questa è probabilmente la sua forza e quel che ci si aspetta da lui. O almeno quel che si aspetta il suo “sponsor” d’eccezione - nonché sua principale spina nel fianco - André Glucksmann. Che domani, regalo di San Valentino - «è un caso» ribatte lui pubblica in Francia il suo ultimo titolo Il maggio ’68 spiegato a Nicolas Sarkozy, scritto assieme al figlio Raphael, deus ex machina di Etudes sans frontieres, un’organizzazione attiva in Europa e Usa che offre corsi di studio a brillanti studenti di “aree di frontiera”, come la Cecenia e il Ruanda. Ne nasce un’intervista atipica, un bilancio dei primi nove mesi di presidenza Sarkozy che è quasi un coro di idee e consigli. Comincia

I

Raphael, con un distinguo: «Questo libro è figlio di un sorriso e di una lunga polemica. Il sorriso è quello di mio padre,

venti: quello in cui affermò di voler liquidare l’eredità del Sessantotto. Una scena paradossale, visto che solo pochi minuti

Esce domani in Francia ”Il Maggio del ’68 spiegato a Nicolas Sarkozy”, primo lavoro a quattro mani dei Glucksmann padre e figlio. In Italia arriverà a marzo pubblicato da Piemme. La tesi di fondo: il capo dell’Eliseo è figlio di quegli anni. Altrimenti non avrebbe mai messo piede all’Eliseo

che meno di un anno fa, in campagna elettorale con Sarkozy, scende dal palco e lascia la parola al futuro capo dell’Eliseo per uno dei suoi più famosi inter-

prima Glucksmann (lo chiama sempre così, ndr) lo aveva sostenuto. Da lì il suo sorriso, non sfuggito ai media, e la polemica. Da lì l’idea di questo libro. Perché Sarkozy è un figlio perfetto del Sessantotto». Messa così sembra quasi una vendetta… André: Non lo è. Mentre è un fatto che Sarkozy sia figlio del Sessantotto. Così non fosse non avrebbe mai potuto essere eletto alla presidenza della Repubblica francese. Perché era divorziato, come d’altronde sua moglie, e non nascondeva certo la possibilità di un nuovo divorzio. Perché era di origine ungherese ed ebrea, mentre in Cecilia, per sua stessa ammissione, non scorreva nemmeno una goccia di sangue francese. Il suo cognome Albeniz è di origine spagnola ed ebrea. In più Sarkozy mancava di un “ingrediente” che Chirac ha sempre ritenuto indispensa-

bile per guidare la Francia: la capacità di parlare al popolo delle campagne. Raphael: Sarkozy è un uomo di città che nulla ha a che spartire con la Francia rurale e tradizionalista. Lo slogan principale dei Sessantottini era “siamo ebrei tedeschi”, coniato proprio per indicare un movimento di persone senza radici il cui desiderio era rompere l’immagine mitica di Asterix e della Francia imperiale ed eterna. Sarkozy fa parte di questa famiglia. Di più: questa famiglia con lui sale all’Eliseo. Questo presidente incarna la globalizzazione che sale al potere contro la Francia tradizionale ed i suoi miti. Chiarissimo. Il suo agire suscita però grande sconcerto e ancora non mi è chiaro se voi lo appoggiate oppure no. Raphael: Certo che si. Ma vogliamo anche dirgli che il suo modo di fare è figlio del Sessantotto. La sua rottura con il concetto di sacralità dello Stato francese proviene da quel movimento. Non dimentichiamo che da noi il peso dello Stato corri-

sponde al peso che voi date al Vaticano. Sarkozy, questo peso ha deciso di alleggerirlo. E lo dimostra anche andando con Carla Bruni. Per i francesi tutto ciò è un disastro. André: Il disastro non è l’amante, oggi già moglie, ma di non averla tenuta segreta. Come ha invece fatto Mitterand, che le aveva anche destinato un castello pagato dall’Eliseo ma nascondeva il tutto sotto il segreto di Stato. Smitizzare lo Stato può essere molto pericoloso in un Paese come la Francia… Raphael: Ma lui rompe con un primato trasversale, che tocca i gollisti come i comunisti e la destra tradizionalista: quello di una Republique che ha sempre ragione. Sarkozy è il primo ad aver detto: bisogna guardare oltre e ad altri modelli, quello inglese e quello americano. Nessuno lo aveva mai fatto. Superamento della centralità dello Stato, imposizione dell’amante, nuovo matrimonio, smitizzazione della superiorità francese. Pesantino come bilancio.


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C’è dell’altro? Raphael: La dissacrazione del passato. Faccio un esempio: tutti i nostri grandi uomini di Stato hanno sempre fatto riferimento al passato e alla Storia, quella con la S maiuscola. Tutti i nostri presidenti hanno scritto libri su eventi o personaggi storici del passato mitico francese. André: Sarkòzy scriverà un libro su di sé! (ride) Raphael: C’è un altro esempio: il Ruanda. Per molti Paesi europei l’Africa e il Ruanda non hanno lo stesso impatto che in Francia. Dal genocidio in poi la linea del governo è stata: gli Hutu sono amici e i Tutsi i nemici. Era così, punto. Sarkozy - assieme a Kouchner - ha sovvertito questo assioma che voleva il governo salito al potere, alleato degli Usa, ostile alla Francia. Hanno preso contatti con questo governo, stabilito delle relazioni con loro e avuto ragione. Ma molti a Parigi, da Balladur a Juppé, sono assolutamente infastiditi. La verità è che lui parla del Passato come se niente fosse successo. André Glucksmann, solo poche settimane fa lei ave-

Sarkozy

va lanciato un duro attacco a Sarkozy, levandogli quasi il suo appoggio. Un malessere rientrato? La questione è più complessa. Ho sostenuto e sostengo Sarkozy ma ciò non significa che lui abbia sempre ragione. Stendhal diceva che in politica bisogna essere atei. Il mio sostegno non implica un’ adesione fideistica al suo operato e mi lascia libero di criticare ciò che non approvo. Nel caso specifico ho espresso la mia opinione sul rapporto di Sarkozy con Putin, una questione di fondamentale importanza. Bisogna decidere come trattare Putin. Sarkozy non crede che l’anima di Putin sia senza macchia come ha creduto Bush, né è un suo amico personale come Berlusconi. Non è nemmeno sul suo libro paga che io almeno sappia - come Shroeder e non detetsta gli americani al punto di preferire Putin a Bush, come invece ha fatto Chirac. Però ritengo che abbia commesso un errore nel trattarlo coi guanti bianchi, sperando così di renderlo più conciliante su diverse questioni, fra cui il Kosovo. E

sta facendo un errore che molti capi di stato europei, compreso Blair, hanno commesso. Credere che Putin sia sensibile ai segnali di amicizia. Un sentimento in cui Putin non crede. D’altronde, un figlio dei 70 anni di dittatura, madre di gulag e servizi segreti, non può credere nei buoni sentimenti. Con Putin si devono intavolare relazioni di confronto, ragionevoli, ma facendogli comprendere che non può fare tutto ciò che vuole.

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la carta russa per acquisire una certa indipendenza dagli Usa. Se invece rispetterà quanto promesso e detto in campagna elettorale, promesse forti, si schiererà a favore dei diritti umani e della democrazia. La responsabilità e il dovere dei cittadini francesi è quello di ricordargli i suoi impegni. André: C’è una cosa che dobbiamo subito riconoscere a Sarkozy: il piccolo trattato europeo (approvato pochi giorni fa, ndr.). Se avessero vinto i socialisti i negoziati sarebbero andati avanti – loro ammissione – almeno tre anni. L’Europa si sarebbe trovata nell’impasse, visto che per i 27, presto i 29 paesi, sarebbe stato difficile accettare un simile trattato. Di più: se Sarkozy non avesse condotto una forte battaglia a destra, la Francia di Chirac non avrebbe mai dato il consenso all’ingresso di nessuno dei nuovi dieci Paesi nella Ue. Non dimentichiamo che per Chirac, in pieno accordo con Putin, i dieci avrebbero solo dovuto tacere. Raphael: i prossimi appuntamenti importanti saranno il summit della Nato a Marzo e quello di Bucarest in autunno. Entrambi discuteranno se aprire le porte della Nato alla Georgia e all’Ucraina. Ci vorrà del tempo, certo. Ma almeno con il trattato il problema di ingolfamento istituzionale è superato e ci si potrà concentrare su altre questioni. André: Come l’energia. Non è un segreto per nessuno che Putin e Gazprom abbiano ambizioni elevate in questo ambito. La Ue è molto divisa al riguardo. Così come sul nucleare. Torniamo al libro che esce domani. Lo avete scritto assieme? Raphael: Non proprio. Comincia con un dialogo fra di noi. Poi è scritto in maniera autonoma, d’altronde abbiamo esperienze diverse. Io porto il contributo di un ragazzo di trent’anni. Per me il Sessantotto è un’emancipazione, una liberazione culturale a cui non ha corrisposto un cambiamento dello Stato. C’era Mitterrand prima e Mitterrand dopo. La Francia, il mito francese, è rimasto immutato. Il risultato è la Francia schizofrenica di oggi:

Questo presidente incarna la globalizzazione che sale al potere contro la Francia tradizionale ed i suoi miti Dove andrà la Francia di Sarkozy? Raphael: Questa è una domanda che si pongono tutti i francesi. È il cuore del dibattito politico in corso. Dove andrà a parare Sarkozy? Quando lui parla di rottura cosa intende? Per capirlo basta seguire i rapporti che intratterrà con il Cremlino: se seguirà la tradizione secolare francese del Quai d’Orsay, giocherà

una società modernizzata e dinamica e uno Stato che è un mammut, un obelisco del pantheon. André: Possiamo dire che lui ha subito le ambiguità del ’68 con la sua politica statica. Mentre io ne ho vissuto l’ambivalenza entusiasmante. Raphael: Chiude il tutto un mio testo sul concetto di rivoluzione. In effetti si tratta di un testo

sull’Italia. O meglio: su Roma e Venezia. La globalizzazione si comprende andando a leggere le origini dell’Europa moderna. E queste si radicano nell’Italia dei Comuni che hanno utilizzato modelli diversi per mettere ordine nel caos del mondo. Due modelli per la precisione: quello della Roma di Machiavelli che accetta la rivoluzione permanente e quindi il modello Sessantottino, quello a cui speriamo si ispiri Sarkozy, e quello veneziano che idealizza la propria identità e che ripartisce lo spazio del potere in maniera equilibrata, secondo la ben collaudata idea gollista. André: Insomma, un libro sull’Italia quando ancora non sapevamo che avrebbe sposato la Bruni. Avete impiegato molto tempo a scriverlo? André: Io ho impiegato più tempo di Raphael. Ma sono rimasto colpito dalla novità dei suoi testi. Parla di Machiavelli, Shakespeare e arriva alla rivoluzione arancione della Timoshenko. Fa il punto sul concetto di rivoluzione, non più avvertita come sanguinaria e giacobino-leninista. Il Sessantotto ha scardinato anche questa visione, permettendoci di simpatizzare con i rivoluzionari portoghesi, la fine del franchismo in Spagna e le rivoluzioni di velluto ad Est. Raphael: Si, la caratteristica di queste rivoluzioni è che non hanno bisogno di un soluzione finale e questo ci ricongiunge al pensiero di Machiavelli su Roma. Una rivoluzione sempre in corso e che non ha mai fine. André: Le stesse parole che usa Putin riferendosi alla Georgia e all’Ucraina: “Rivoluzioni permanenti”. Peccato che in bocca a lui suonino come una minaccia. Raphael, una domanda che non dovrebbe essere fatta davanti a un padre. È stato difficile lavorare con Glucksmann, come lo chiami tu? Raphael: È stato facile. E non saprei nemmeno dire perché. Forse perché è più modesto di me. André: Lui ha avuto sempre un forte senso di indipendenza. A tre annni leggeva l’unico giornale che noi non leggevano mai: L’Equipe, quello di sport. È lì che ha imparato a leggere, a contare e ad appassionarsi al tennis. Raphael: Basta, Stop. Qui finisce che cominceranno a raccontarti quando facevo pipì sui libri. In suo aiuto arriva Françoise, la sua bellissima madre. È ora di andare. Devono comprare dei regali a una bambina cecena di cinque anni che i russi volevano ammazzare per costringere sua madre a “parlare”. Oggi quelle paure sono svanite. Oggi è a Parigi. «Grazie a Sarkozy». E queste non sono parole, è un coro familiare.


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politica

Udc e Lombardo: accordo per politiche e regionali

Ora senza i moderati in Sicilia non si vince di Errico Novi

ROMA. Basta pensare all’effetto domino. Il meccanismo fatale che rischia di complicare la vita al centrodestra, e al Popolo della libertà, funziona esattamente così: viene giù un tassello dopo l’altro. A cadere per primo e a innescare il processo è il quadro delle intese in Sicilia. Da ieri è certo che il Movimento per l’autonomia di Raffaele Lombardo correrà insieme con l’Udc. E che il presidente della Provincia di Catania si candiderà governatore. Svolta che pesa sugli equilibri elettorali non solo dell’Isola ma di tutto il Paese. Se i centristi non entreranno nella coalizione di centrodestra, i moderati rischiano di perdere le amministrative in Sicilia. Regione in cui alle Politiche vengono assegnati 26 seggi per il Senato. Con il fronte del centrodestra diviso, la maggioranza di questi seggi, 15, finirebbe al Partito democratico o comunque all’ex Unione. Il Pdl ne prenderebbe 6, l’Udc e l’Mpa insieme altri 6. E negli equilibri di Palazzo Madama un esito del genere peserebbe eccome.

Gianfranco Fini ha detto che «alla scelta del candidato alla presidenza della Regione Sicilia è legato anche il negoziato nazionale con l’Udc». L’accordo per Palermo è cruciale, infatti. Ma al momento appare complicato. Dai vertici locali del partito di Pier Ferdinando Casini è arrivata una indicazione netta: correremo con il nostro simbolo, costi quel che costi. È d’accordo Salvatore Cuffaro, è di questa idea il segretario siciliano dei centristi, Francesco Saverio Romano. È stato lui a firmare il patto di ferro con Lombardo: la sigla Mpa comparirà in ogni caso nel simbolo dell’Udc. Certezza da cui ne consegue evidentemente un’altra: lo stemma di via dei Due Macelli sarà presente sulla scheda delle Politiche. Non sembrano esserci più dubbi, su questo. Anche se il responso finale dovrebbe arrivare dall’incontro tra Berlusconi e Casini in programma tra oggi e domani. Di certo Udc e Mpa sono già sulla stessa lunghezza d’onda nel chiedere che le re-

gionali siciliane si tengano prima di quelle nazionali. Oggi a Palermo è convocata la giunta, che dopo le dimissioni e la sospensione di Cuffaro è presieduta dal suo vice, Lino Leanza, esponente proprio del movimento di Lombardo. Leanza dovrà decidere con gli altri assessori se indire il voto per il nuovo governatore il 6 o il 20 aprile. Il fronte centrista spinge compatto per la prima opzione: se si andrà alle Regionali con due candidati del centrodestra, spiegano dall’Udc palermitana, «è molto meglio anticipare la campagna elettorale rispetto alla data per le Politiche». Ma soprattutto Udc e Mpa sono

Il leader del Mpa si candida governatore. E per Palazzo Madama i seggi dell’Isola tornano in gioco concordio nel sostenere Lombardo per la presidenza della Regione. «Non escludo alleanze con il centrodestra, purché ci sia il nostro simbolo in evidenza», dice il fondatore del Movimento per l’autonomia, «e l’ipotesi di poter correre senza l’Udc alleata sarebbe strana e

poco comprensibile. Di certo la mia formazione non entrerà nel Pdl». È la conferma tutt’altro che implicita dell’intesa appena ricordata con Francesco Saverio Romano.

Nelle prossime ore sarà tutto più chiaro. Arriveranno contemporaneamente due decisioni. Quella sul patto di coalizione tra Popolo della libertà e Udc-Mpa e l’altra che riguarda il candidato governatore del Pdl. Sul nome di Gianfranco Micciché l’intesa con i centristi è impossibile. Lo sa bene anche An, che con il vicepresidente dell’Assemblea regionale siciliana, Raffaele Stancanelli, già lunedì scorso aveva assunto una posizione problematica: «Esiste un veto assoluto dell’Udc e di Cuffaro su Micciché: non sarò certo io a decidere, mi auguro però che si abbia il senso di responsabilità di scegliere un candidato presidente condiviso». È stato lo stesso Stancanelli a fare i conti sulle conseguenze al Senato dell’eventuale frattura in Sicilia: «Con tre coalizioni vince il centrosinistra, 15 senatori su 26 sarebbero suoi. E si creerebbe un serio problema di governabilità a livello nazionale». Fini ha ripreso il discorso poche ore dopo. Nella stessa Forza Italia si rendono perfettamente conto dei

rischi. Dice Osvaldo Napoli, vice di Mario Valducci nel coordinamento azzurro degli enti locali: «Finché non ci sarà una risposta definitiva sull’intesa a livello nazionale non può muoversi nulla per le candidature nelle città. Si sono fatte solo ipotesi, ma diciamo pure che per la scelta dei sindaci discutiamo ancora del sesso degli angeli. Se non c’è l’accordo romano le ripercussioni per le amministrative sono ovvie, nel senso che bisognerà proprio riconsiderare gli interlocutori

per la scelta dei candidati locali». In Sicilia si vota oltre che per la Regione anche per eleggere i presidenti di 7 province su 9, Palermo compresa, che usciranno dalle urne l’8 e il 9 giugno. Nel resto d’Italia spicca il voto per la Regione Friuli-Venezia Giulia, per le province autonome di Trento e Bolzano, per Roma (Provincia e Comune) e 8 comuni capoluogo. Con altre 500 amministrazioni cittadine minori coinvolte. La partita per il centrodestra è tutta da giocare.

Sabato ad Arezzo la convention dei Circoli ”dissidenti”

Scissione dalla Brambilla, spunta un’altra rete ROMA. C’è una scissione nei Circoli della libertà. In Lazio, Lombardia, Umbria e Toscana diversi club hanno deciso di revocare la propria affiliazione al circuito di Michela Brambilla e lavorano per formarne uno nuovo. L’obiettivo è quello di acquisire «maggiore visibilità», ma la scintilla è stata innescata dalla scelta dei coordinatori regionali compiuta nelle scorse settimane dalla presidente. Diverse figure che sembravano avere acquisito un sufficiente peso per ambire all’incarico sono stati delusi dalle scelte dell’ultimo momento. Ora cercano un riscatto con l’assemblea nazionale che si terrà sabato prossimo ad Arezzo. Sempre nell’ambito del Popolo della libertà ma in modo autonomo. In pri-

ma fila ci sono i club dell’Umbria, dove in 26 su 29 hanno aderito alla scissione. Ma anche il dato di Roma è significativo: se ne vanno per la propria strada 13 cellule su 26. Dietro la sorprendente decisione pare che ci sia anche l’ex vicepresidente dei Circoli della libertà, Maurizio Del Tenno. Il suo ruolo è stato ridimensionato da Michela e ora viene dato come regista, seppur senza un ruolo ufficiale, della scissione. Del Tenno peraltro ha un rapporto molto stretto con la Lega, dunque la vicenda può avere ripercussioni al Nord anche oltre i confini lombardi.Tra i presidenti dei circoli coinvolti in questo circuito parallelo ci sono anche alcuni candidati per le amministrative.


politica

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Pessato (Swg): «Finché il quadro non è chiaro, non servono»

I sondaggi? Inutili di Susanna Turco Renato Mannheimer, il re dei sondaggisti

d i a r i o

d e l

g i o r n o

Berlusconi a Porta a Porta Silvio Berlusconi a ”Porta a porta” ha parlato del suo programma economico e in particolar modo della sua volontà di abolire l’Ici sulla prima casa. «Ho studiato la situazione con Tremonti, l’importo è qualcosa di possibile da sostenere», dice Berlusconi. L’ex premier ha fatto notare che con l’esecutivo Prodi c’è «stato un importante calo di consumi».

«Governabilità: si aiuta votando i grandi» «La colpa non è sempre della politica, ma è dei cittadini che votano i piccoli partiti. Se si vuole la governabilità non si dovrebbero scegliere i piccoli partiti, ma i grandi partiti come avviene nelle grandi democrazie del mondo».

«La premiership non è in discussione» «È impensabile che in campagna elettorale qualcuno esca e dica nuovamente che Berlusconi non è più il miglior candidato premier. Questo è un rischio che non possiamo correre». In questo modo Silvio Berlusconi spiega la necessità di presentare l’intero centrodestra sotto un unico simbolo, Udc compresa.

«A Udc chiedo la rinuncia al simbolo» «Stiamo parlando, i nostri incaricati si stanno confrontando, l’auspicio mio è che ci si presenti agli elettori che non si riconoscono nella sinistra con un’unica lista, con un’unica formazione, con un unico gruppo parlamentare, con un unico programma per garantire che quello è il programma che presentiamo, che tutti lo condividiamo».

«Io concentro, Ferrara fa un altra lista»

ROMA. È il compagno fisso di ogni leader politico. In campagna elettorale soprattutto. E tanto più in quella attuale, coi confini delle forze politiche ancora indefiniti. È quindi ancora a lui, al taumaturgico sondaggio, che si affidano le sorti di eventuali apparentamenti, coalizioni, corse solitarie. Eppure, a parlare con i gran ciambellani di bacini d’opinione ed elettorati potenziali, se ne deriva la convinzione che alle percentuali attribuite a questo e a quello, al momento, non si debba dare gran credito.

« I n u m e r i a t t u a l i s o n o i n u t i l i », esordisce Maurizio Pessato, amministratore delegato di Swg. «Stiamo entrando in una nuova fase, e il cittadino elettore lo percepisce. Però la nuova situazione non ha ancora preso forma, non ci sono leader e partiti definiti». I dati che girano adesso si riferiscono al momento di crisi del governo Prodi, quindi al vecchio schema Cdl-Ulivo. «Alla domanda: chi voti domani? Viene fuori che il centrodestra è dieci punti avanti, 54 a 45 diciamo. Ma già se chiedi di Pd, Pdl eccetera, le cose cominciano leggermente a cambiare. E magari il Pdl scende al 50. Ma finché l’offerta non è davvero definita, non si può dire fino a che punto i numeri cambieranno». Oscillazioni an che s ign ificative non arriverebbero comunque a rovesciare la previsione di una vittoria del Pdl. Ma quale vittoria?

«Non è esclusa una maggioranza risicata al Senato», dice Pessato, «certo non si tratterebbe ancora della quasi parità, però anche avere sei senatori di scarto potrebbe creare dei problemi. Ma ora è difficile dirlo, non sappiamo dove andrà Casini, i radicali, i socialisti...». Ma ecco, appunto, sui giornali si legge che Berlusconi ha affinato la strategia di avvicinamento all’Udc proprio sulla base dei sondaggi arrivati sulla sua scrivania. «L’idea che le alleanze si facciano in base ai sondaggi è più finta che vera. Spesso i politici li utilizzano come alibi nelle trattative», sostiene l’ad di Swg. «Anche perché si tratta di una si-

«L’area più difficile da valutare è proprio il centro, perché non ha un vero e proprio ubi consistam dai tempi della fine della Dc» tuazione paradossale: i sondaggi che dovrebbero orientare la decisione non possono dare responsi realistici». Le simulazioni nelle quali si ipotizzano alleanze diverse e nuove, sono infatti pericolose: «Spesso è difficile perfino fare capire a un elettore comune la differenza che c’è tra, per esempio, l’Udc che va da sola, o in coalizione o apparentata al Pdl», dice Pessato, «Insomma, certe cose devono accadere, prima di poter otte-

Berlusconi a proposito della lista pensata da Giuliano Ferrara è stato perentorio: «ho passato giorni e notti a concentrare 18 sigle di partito in una, ora l’amico Ferrara ne propone una. Ma io credo che la sua sia una strategia va contro il volere degli italiani». Per Berlusconi «la missione che Ferrara si è dato non trova nella politica il palscoscenico giusto».

nere un riscontro realistico. Ne è un tipico esempio Forza Italia, che a dicembre 1993 davano prima al 6, poi al 16 e a gennaio 1994 addirittura il 30».

I bacini potenziali, insomma, sono puramente indicativi. «Certo è importante sapere che Pd e Fi hanno un bacino del 40 e l’Udc del 10-15, ma bisogna essere consapevoli che di solito i voti effettivi sono molti meno, quando non la metà», dice Pessato. Ma anche all’interno dei «bacini reali», esistono delle differenze. «Sappiamo per esempio che la sinistra arcobaleno è più attendibile, perché la forbice 8-12 per cento è un dato storico dei partiti che la compongono ed è anche comune ad altri Paesi. Livelli storici consolidati sono anche quelli di Fi e An e Pd. È abbastanza scontato quindi prevedere per loro rispettivamente 13 più 28 per cento, quindi 40, e 31 per cento». Misurare il centro è più difficile di tutto. Pessato: «Questa potenziale, probabile, strana, sedicente area centro è difficile da valutare: può prendere voti da tanti partiti, oppure cederne a tanti, perché non ha un vero e proprio ubi consistam dai tempi della fine della Dc. Un Casini che va solo potrebbe essere non scelto, oppure incanalare i voti di tutti quelli che vorrebbero un partito cattolico e anche di quelli che magari negli ultimi tempi non hanno votato perchè non c’era una offerta specifica».

«Detassare straordinari» «Durante il nostro governo i salari erano sopra l’inflazione. In questi due anni, complici aumento del costo della benzina e del gas, sono aumentati i prezzi. Cosa fare? Dare più soldi a chi è dipendente. Il prelievo sullo stipendio degli italiani è dovuto alle imposte. Sugli stipendi dobbiamo detassare gli straordinari. Che possono essere aumentati incentivando l’uso stesso degli straordinari. Cento euro di spesa dell’impresa sugli straordinari devono essere incassati tutti e cento dal lavoratore».

«I nipotini mi considerano Superman» «Ma io non sono Superman. Anche se in certi settori un po’ lo sono stato. Nella storia del calcio io sono il presidente della squadra che ha vinto di più. Un uomo si valuta anche per quello che fa. C’è chi ha solo parlato e chi come me è arrivato ad avere 57 mila collaboratori».

«Prodi, solo 2 miliardi dall’evasione» «La lotta all’evasione di cui questo governo ha fatto una bandiera è solo di 2 miliardi e non di 40 miliardi. Sono imposte. Per quello noi vogliamo ridurre le tasse».

«Piano edilizia per i giovani» «Vogliamo varare un piano di edilizia per i giovani. In due anni daremo la casa a chi oggi non può farsi una famiglia perché non ha una casa».

«Strano e Barbato? Fuori» «Credo che ci sarà l’opportuna severità nella scelta dei candidati e sono d’accordo con lei». Così Silvio Berlusconi, nel corso della registrazione di Porta a porta, risponde a Ferruccio de Bortoli che gli chiede l’impegno a non ricandidare quei senatori che si sono resi protagonisti a Palazzo Madama di scene grottesche, come mangiare la mortadella o sputare a un altro senatore. Insomma, Il Cavaliere s’impegna a non ricandidare Nino Strano e Tommaso Barbato.


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pensieri

L’INTERVENTO

Il ruolo del movimento liberal nell’Udc

La scommessa dei cattolici liberali di Angelo Sanza cattolici in politica serviranno sempre di più. Servirà il loro spirito di servizio, l’agostiniana diffidenza verso il potere e l’esperienza millenaria che ne ha costruito una cultura antropocentrica. A una certa politica secolarista questi discorsi piacciono poco, si preferisce zittire il Santo Padre, farlo sentire ospite sgradito in casa propria. Si preferisce far finta di niente davanti a un feto, a una vita rianimata, meglio discutere di numero di settimane, di leggi e normative, meglio mettere la regola fredda, razionale e senz’anima, piuttosto che confrontarsi con la coscienza e la cultura della vita che porta inevitabilmente alla responsabilità. Responsabilità di fronte e se stessi e di fronte alla comunità. Tutto questo, la vita, la persona le sue prerogative non negoziabili possono essere difese prevalentemente da chi le interiorizzate perché le sente parte

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della propria cultura, parte della verità dell’uomo, piuttosto da chi le mette nell’agenda politica come temi della contrattazione politica oggi può far comodo difenderle, domani è un altro giorno. Questa battaglia di valori che continuerò a condividere con gli amici di liberal, potrà essere difesa con più coerenza e verità, oggi che assieme a Ferdinando Adornato, abbiamo deciso di percorrere insieme un tratto di strada politi-

Ora occorre riannodare i fili del rapporto con i cittadini, che sembrano scoraggiati e non più disposti a dare fiducia alle istituzioni ca in comune. Pur essendo cresciuto nella cosiddetta sinistra dc, non ho avuto difficoltà a lavorare con le istituzioni con gli amici di FI. Perché? Ma perché, in fondo, avevamo da condividere molto di quella tradizione sturziana e degasperiana che

ariq Ramadan sostiene il boicottaggio della Fiera del Libro di Torino a cagione dell’invito a Israele come ospite d’onore. Ramadan rappresenta per molti la speranza di una via europea all’Islam. Ha abilmente creato un’immagine di sé stesso intimamente associata alle idee della sinistra liberal europea. Eppure la sua adesione ha ben poco di liberale. Nel motivare la sua scelta, Ramadan rivela invece il suo illiberalissimo pregiudizio, che nasconde dietro i soliti pretesti tipici della sinistra radicale, secondo cui boicottare una cultura è atto nobile, a difesa dei diritti umani degli oppressi, dimenticando che la cultura non é politica e la libertá della penna d’uno scrittore, in Medio Oriente, non é mai cosí garantita come in Israele. Ma passiamo ai fatti. All’inizio di febbraio, Ramadan rilascia un’intervista all’agenzia di stampa AKI-Adnkronos. Per Ramadan, «non bisogna recarsi in un posto destinato a celebrare uno Stato che pratica l’omicidio e la distruzione». La Fiera del Libro merita d’essere boicottata perché «non si può approvare nulla che provenga da Israele». Di fronte alle forti reazioni Ramadan ora fa marcia indietro e ritratta. Ma nel farlo rivela l’inganno: dice di non aver mai detto tali parole a Repubblica, il che è vero – le ha dette all’AKI-Adnkronos. Tale inganno gli permette poi di mascherare un altro aspetto della sua retorica anti-Israele. Ramadan insinua che, siccome il suo attacco è solo al posto d’onore dato a Israele e non ai suoi autori, la critica d’antisemitismo a chi boicotta Israele mira semplicemente a

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Berlusconi aveva ripreso e cercava di ravvivare. Anche nei cattolici che dialogavano con la sinistra, c’era più saldezza nei principi e nella loro difesa, un esempio è anche l’amore che dimostrava Aldo Moro per la famiglia, come istituzione. Basterebbe andarsi a rileggere i documenti della Costituente, per capire come oggi lo statista pugliese sarebbe con noi nelle battaglie in difesa della famiglia natu-

rale basata sul matrimonio coniugale. C’era meno disponibilità a contrattare su certi temi, avendo bene in mente che sui principi la moderazione è un grande difetto. Forza Italia dal grande partito carismatico non è voluto o po-

tuto passare all’istituzione. Questa è storia di questi giorni e Adornato e stato un lucido analista di tali passaggi politici. Ora si apre un nuovo capitolo che tanto nuovo non è, sempre nel centrodestra, con l’amico Pieferdinando Casini, con cui condivido lo stesso amore per la democrazia popolare di tradizione ebraicocristiana, che è la cifra che caratterizza l’Occidente delle libertà. Ora occorre avere ancora più coraggio, per riannodare i fili di un rapporto con i cittadini, che sembrano scoraggiati, amareggiati e non più disposti a dare fiducia alle istituzioni politiche. Coraggio nel dire no al compromesso e coraggio

Sul boicottaggio della Fiera del libro

Le contorsioni di Tariq Ramadan di Emmanuele Ottolenghi

mettere a tacere i critici, come lui, delle politiche israeliane. Tra l’altro, nel farlo Ramadan insinua che oltre all’insulto ci sia la beffa perchè l’Egitto (quel faro di democrazia e diritti umani in Medio Oriente), a cui inizialmente il ruolo principale era stato offerto, sarebbe stato prima invitato e poi soppiantato da Israele. Ramadan insomma si appiglia a un dettaglio per discolparsi da una frase che condanna un intero paese e la sua societá che va ben oltre il disaccordo sulle politiche. Il fatto è che il criterio d’invito non é mai stato quello di celebrare un governo o una politica, bensí di dar rilievo e spazio a una produzione letteraria, che nel caso d’Israele é senza dubbio di grande qualitá. In quanto all’Egitto, non è stato disinvitato dagli organizzatori che hanno invece suggerito, di comune accordo con il governo egiziano, di ospitare il paese della Sfinge l’anno prossimo, in coincidenza con una serie di manifestazioni culturali legate all’antico Egitto che trasformeranno Torino in una continua celebrazione del paese arabo e della sua ricca e variegata storia.

nella volontà di rischiare scelte impopolari, sapendo che l’obiettivo è il bene della comunità. I venti della crisi economica spirano tesi dall’Atlantico su di un Paese già sofferente, ci avviciniamo alle elezioni con le idee chiare sul da farsi. Nessuno dovrà essere lasciato indietro, ma dobbiamo preparare il terreno per chi, fra gli italiani, sarà più bravo a contribuire alla rinascita del Paese.. Una rinascita che dovrà partire dalle riforme ma anche dal cuore degli italiani perché nessuna legge, nessuna politica potrà mai funzionare se ogni cittadino non sarà convinto che sia così, che sia giunto il momento del riscatto per l’Italia.

Chissá se Ramadan, che probabilmente usa una chiave Usb (brevettata in Israele) per trasportare comodamente i suoi scritti in formato elettronico, ha un microprocessore nel suo computer forse sviluppato in Israele, comunica con i suoi cari utilizzando la tecnologia Sms (sviluppata in Israele) da un telefono che contiene forse una mini macchina fotografica (inizialmente inventata in Israele), comprende a fondo il significato della sua affermazione ed è pronto a rinunciare a tutte queste cose che provengono da Israele per coerenza. Gli auguriamo una buona salute, perché semmai dovesse ricorrere a una colonoscopia, gli toccherebbe scegliere tra il vecchio metodo intrusivo o il ricorso a una microcamera sviluppata in Israele che s’inghiotte come una pillola e viaggia in maniera rapida e indolore fino alle regioni basse degli organi vitali offrendo un’immagine nitida e una diagnosi accurata senza i fastidi collaterali della colonoscopia. Una scelta che imporrebbe una dolorosa coerenza, o un ripensamento della frase, poco liberale e poco intellettuale, secondo cui «nulla che provenga da Israele» merita approvazione. Gli organizzatori dell’evento si sono difesi rispondendo a Ramadan in una lettera aperta dove hanno spiegato la loro scelta dicendo che «il vero ospite d’onore é… la libera cultura d’Israele, perché sulla cultura, e non su altro, si misura l’onore di un paese». E, bisognerebbe aggiungere, é in base allo stesso criterio che si misura l’onore e il rigore d’un intellettuale.


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parole

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Carosello: la sceneggiata al Senato finisce in pubblicità

Ma non sanno che noi Pulcinella abbiamo un cuore tragico di Angelo Crespi a questione è bifida. Da un lato, ci possiamo domandare se dal punto di vista commerciale funzionerà lo spot della compagnia aerea Ryanair in cui, accanto alla scritta cubitale “CALMA! CALMA!, c’è posto per tutti!”, compare il fotogramma emblematico della caduta del governo Prodi: il senatore dell’Udeur

L

Tommaso Barbato che assalta, tra urla e sputazzi, il compagno di partito “traditore” Nuccio Cusumano. Dall’altro lato, potremmo indagare sulla persistenza all’estero di alcuni pregiudizi e sul nostro modo di fortificarli. Sul primo punto bastano poche considerazioni di marketing elementare. Il messaggio della pubblicità, comparsa nei giorni scorsi sul Corriere della Sera, è carico di negatività, un sentimento che di solito il buon copy cerca di evitare. Il colore giallo e il lettering grossolano richiamano l’aggressività di certi manifesti elettorali della Lega prima maniera. In quel caso però l’intento provocatorio era chiaro, l’idea di rivolta pure. Qui invece si tratta di trovare clienti per voli aerei, e il volare già di per sé genera spesso nel viaggiatore una certa dose d’ansia. L’immagine della zuffa senatoriale dovrebbe poi essere l’elemento spiazzante da affiancare al claim “Calma! Calma! C’è posto per tutti”. Ma all’italiano medio - almeno compulsando i commenti nelle miriadi di videoblog -

la sceneggiata non è piaciuta. E, detto per inciso, non è piaciuta neppure la contestuale abbuffata di mortadella del senatore di An, Nino Strano (scusato solo per la polisemia del cognome).

In ogni caso, sfugge l’ironia dell’accostamento. Significa forse che lì, in Senato, c’è posto proprio per tutti (e purtrop-

al limite del fetiscimo, rissoso per nulla, spesso sguaiato. «Gli italiani: buoni a nulla, ma capaci di tutto» chiosava Leo Longanesi che fu dei nostri vizi velleitario fustigatore. Appunto per questo, la maschera di Alberto Sordi ne “La grande guerra” di Mario Monicelli, rimane insuperabile rappresentazione del

Siamo un popolo pronto all’autocommiserazione, autolesionista da sempre, masochista al limite del feticismo, rissoso per nulla. Non lamentiamoci se all’estero l’Italia è ancora descritta con gli stereotipi, se anche le testate autorevoli ci dileggiano con pizza e mandolino po sappiamo che non è così, visto che un laticlavio è merce rara, e allora pure gli strapuntini di Ryanair per analogia saranno difficilmente acquistabili). Oppure significa che lì, in Senato, ci finiscono i proverbiali “cani e porci” (e anche in questo caso non capiamo perché dovrebbe suscitare ilarità una compagnia aerea che considera i propri clienti, pur praticandogli il 50% di sconto, appunto “cani e porci”). Infine, un poco di sano patriottismo impedisce una totale empatia con la pubblicità in questione e ci conduce diretti al secondo punto. Siamo un popolo pronto all’autocommiserazione, autolesionista da sempre, masochista

carattere nazionale: soldati codardi, ma alla fine “solo” per dimostrare agli stranieri che non ci manca il coraggio, capaci perfino dell’estremo sacrificio.

Così ci piace assai perderci in fazioni, sublimare il conflitto guelfi e ghibellini, farne una categoria meta-storica. Ma poi quando gli altri, nello specifico gli anglosassoni ci pigliano per i fondelli,“italiani che per finire la guerra dalla stessa parte devono tradire due volte”, oppure s’inventano il verbo “to badogliate” (tradire) per svilire un popolo attraverso le precipitose fughe di uno, o di pochi, smettiano subito di fare i buffoni e diventiamo seri. A tratti però, e non tutti. Ieri l’AdnK-

ronos ha battuto sul tema il surreale commento dello stesso Barbato che non esclude alcuna possibilità: “Chiederò - dice l’esponente Udeur - consiglio ai miei avvocati. Vedrò se questa pubblicità mi danneggia. In tal caso agirò in tutte le sedi secondo quanto prevede la legge”. Cosa lecita, sebbene il video della pazziata, cliccatissi-

mo in Rete, indurrebbe l’ormai decaduto senatore a più miti consigli. E’ la pubblicità, ovvero il non consono comportamento in aula, a danneggiare l’immagine del senatore, e latamente della nostra classe politica? Poi ci lamentiamo che oltreconfine il nostro Paese sia ancora descritto per mezzo di triti stereotipi. Che sulle cosiddette testate “autorevoli” si usa la pizza e il mandolino per rappresentare il Belpaese. Tra di noi, ci si capisce, ovvio. Si sorride delle pulcinellate, memori di Totò che ne fece sublime archetipo. E a nessuno verrebbe in mente di giudicare un politico solo per le sue sceneggiate, o per lo strano periodare (come quella volta negli anni Settanta che la diplomazia inglese si ostinò a tradurre con “non no-confidence” la “non sfiducia” con la quale il Pci sostenne il Terzo Governo Andreotti). Ma fuori, agli altri, giorno dopo giorno, chi gli spiega che sotto la maschera, batte un cuore tragico, e c’è perfino gente seria che lavora.


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mondo

La sicurezza di Gerusalemme e la salvezza degli abitanti della Striscia passano per Hosni Mubarak

Israele regala Gaza all’Egitto di Daniel Pipes scoltatemi bene - ha spiegato il presidente egiziano Hosni Mubarak al giornalista che lo ha intervistato il 30 gennaio scorso - Gaza non è parte dell’Egitto né lo sarà mai (...). Sento parlare della proposta di trasformare la Striscia in una estensione della Penisola del Sinai, e di scaricarne la responsabilità sull’Egitto, ma non è nient’altro che un sogno». Non è affatto un sogno. È una realtà che è emersa dal 23 gennaio, quando gli operativi di Hamas hanno demolito ampi segmenti del muro che separa Gaza dall’Egitto. Questa mossa a sorpresa ha richiamato l’attenzione del mondo sul fatto che un embargo egiziano, non meno di uno israeliano, impedisce agli abitanti di Gaza di lasciare il loro territorio e di effettuare scambi commerciali con il resto del mondo.Visto che gli abitanti di Gaza si sono dimostrati incapaci di instaurare un autogoverno responsabile e che Il Cairo dal 2000 ad oggi ha strategicamente permesso il traffico di armi, Mubarak va investito di responsabilità in merito alla Striscia di Gaza. Washington e le altre capitali dovrebbero considerare un fallimento l’esperimento di autogoverno a Gaza e dovrebbero esercitare pressioni sul presidente egiziano Hosni Mubarak affinché egli offra un proprio significativo contributo alla soluzione della crisi. Hamas concorda in parte. Uno dei suoi leader, Ismail Haniyeh, spera che Gaza possa «procedere verso il disimpegno economico dall’occupazione israeliana»; mentre un altro leader, Ahmad Youssef, vuole che il confine tra Gaza e l’Egitto sia aperto per gli scambi commerciali e che l’Egitto funga da “porta”

«A

di Gaza sul mondo esterno. Dal momento che Hamas assicura che la chiusura del muro da parte del Cairo, il 3 febbraio, non riporterà indietro l’orologio, i Fratelli musulmani d’Egitto, alleati di Hamas, chiedono che il confine di Gaza venga aperto. Mubarak può ignorare queste richieste che sono largamente condivise dagli egiziani? In realtà, Gaza ha già iniziato a imporsi su un Egitto riluttante. Alcuni israeliani desiderano soddisfare tali richieste. Il vice-ministro della Difesa israeliano Matan Vilnai, ad esempio, ritiene che il Cairo dovrebbe assumere il controllo a livello economi-

gresso libero per il rimpiazzo dei servizi da parte dell’Egitto, ed un invito a ottenere l’appoggio internazionale per collegare Gaza ai reticolati egiziani». Giora Eiland, un ex consigliere per la sicurezza nazionale israeliana rimuoverebbe Gaza dall’unione doganale con Israele e la Cisgiordania.

Queste iniziative israeliane forzerebbero la mano all’Egitto. Indubbiamente, gli egiziani con l’aiuto di Fatah e perfino di Hamas, cercheranno di resuscitare il confine e di re-imporre l’obbligo a Israele. Ma alla fine, la solidarietà

Matan Vilnai, viceministro della Difesa: «Desideriamo staccarci da Gaza». Hamas concorda: «Bisogna procedere verso il disimpegno economico dall’occupazione israeliana» co. «Essendosi Gaza aperta sull’altro lato, noi abbiamo perso ogni responsabilità su questo territorio. Pertanto, desideriamo staccarci da Gaza. Non vogliamo più erogarle elettricità. Né vogliamo più rifornirla di acqua e medicinali». Il fatto che la Suprema Corte israeliana abbia sentenziato il 30 gennaio che il governo può ridurre le forniture di carburante ed energia elettrica a Gaza rende possibile una scorciatoia. Come ottenere la cessione di Gaza? Robert Satloff del Washington Institute for Near East Policy mi suggerisce che Gerusalemme sta pensando a tre mosse: «Una data per la sospensione delle provvigioni israeliane di acqua, energia elettrica e l’accesso commerciale, l’in-

araba esige che i ”fratelli” egiziani rimpiazzino il nemico israeliano. Una volta che Gerusalemme taglierà i rifornimenti, Il Cairo non avrà altra scelta se non quella di approvvigionare gli abitanti di Gaza. Naturalmente, la dipendenza economica coinvolgerebbe ancor più l’Egitto, il che ha ulteriori conseguenze. Per cominciare, rilancia la vecchia idea di risolvere il conflitto arabo-israeliano attraverso una spartizione a tre da parte di Egitto, Israele e Giordania. In secondo luogo, permette a Hamas di collegarsi con la sua organizzazione madre, i Fratelli musulmani. In effetti, le forze di sicurezza egiziane hanno già arrestato almeno una dozzina di membri di Hamas in Egitto e altri residenti di Gaza

che indossavano cinture esplosive per attacchi suicidi. Controllare la violenza islamista fuori Gaza diventerà una priorità egiziana, ma Mubarak in 27 anni di presidenza ha tenuto testa agli islamisti ed egli è in grado di affrontare questa nuova sfida con modalità impraticabili per Israele. Infine, la terza conseguenza sarebbe la limitazione della libertà di Hamas e della Jihad islamica di attaccare Israele. Sì, gli egiziani sono favorevoli al lancio di missili su Sderot, ma il governo egiziano sa che continuare a lanciare i missili provoca le rappresaglie israeliane e probabilmente, prima o poi, una guerra totale. Per evitare che gli abitanti di Gaza creino problemi in Egitto o che attacchino Israele, occorre un controllo severo del loro territorio. Ciò presumibilmente implica che vengano rese meno severe le restrizioni rigorose circa il dispiegamento delle forze egiziane nei pressi del confine israeliano, come previsto dal primo allegato ufficiale al Trattato di pace del 1979 tra Egitto e Israele. Per fortuna, i servizi di sicurezza egiziani hanno solamente bisogno di essere provvisti di armi leggere e la Forza di Osservazione Multinazionale (Fmo) insediata nella Penisola del Sinai potrebbe includere queste mansioni di monitoraggio fra i propri compiti. In poche parole, Gaza può essere caricata sulle spalle dell’Egitto, fiduciosi del fatto che gli egiziani debbano accettarla e che impediscano agli abitanti di Gaza di attaccare Israele. Tuttavia, l’avvio di questo ”processo di pace” richiederà una certa immaginazione ed una buona dose di energia da parte di Israele e dei paesi occidentali.


mondo

13 febbraio 2008 • pagina 11

La Chiesa spagnola divisa sulla strategia contro Zapatero

Elezioni in Spagna: doppia sfida dei vescovi di Davide Mattei l prossimo marzo sarà cruciale per la Spagna. Pochi giorni prima delle elezioni legislative si terranno infatti anche quelle per la presidenza della Conferenza Episcopale Spagnola (Cee), una delle più importanti in Europa. Dalla coincidenza elettorale dipenderà il futuro rapporto tra Stato e Chiesa nella nazione che fu il bastione della “controriforma” e che è oggi uno dei tre paesi europei che consente i matrimoni gay. Poche volte come in questi ultimi anni la Cee aveva lasciato intravedere così chiaramente le correnti che la solcano. Il governo Zapatero ha sicuramente giocato un ruolo di primo piano in questo processo. Le leggi socialiste sono andate a toccare il nervo scoperto della parte più conservatrice della Chiesa, che si è fatta sempre meno dialogante. Ma non tutti i porporati spagnoli si sono riconosciuti in questa corrente - diretta soprattutto dalle diocesi di Madrid, Valencia e Toledo - ed hanno fatto sentire la loro voce. Esiste infatti una parte della Conferencia Episcopal che sostiene che la «cultura del laicismo» di Zapatero porterà alla «dissoluzione della democrazia», come dichiarò l’arcivescovo di Valencia, Agustín García-Gasco. O che le leggi socialiste fomentano «una regressione dei diritti umani», come disse il cardinale Antonio María Rouco Varela, arcivescovo di Madrid. Questa corrente è maggioritaria all’interno della Cee ed ha il suo terzo pilastro nell’arcivescovo di Toledo, Antonio Cañizares. Nell’ultima legislatura questa parte non ha esitato a scendere in piazza, spesso a braccetto con il PP, richiamando migliaia di fedeli per manifestare il suo dissenso alle leggi di Zapatero. La corrente più moderata della Cee fa invece capo al suo attuale presidente, il vescovo di Bilbao Ricardo Blázquez. Eletto contro ogni pronostico nel 2005, quando per un voto vinse sul favorito Rouco Varela, governa ormai in minoranza. Le sue idee moderate lo hanno spinto a scontrarsi con il resto della conferenza sulla legge dell’educazione

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I conservatori di Rouco e i moderati di Blázquez hanno idee diverse su come prepararsi alla sfida elettorale del 9 marzo civica voluta da Zapatero, a cui lui non si oppose. Blázquez fu criticato anche quando chiese perdono per le «azioni concrete» che la Chiesa svolse durante la Guerra Civile. Il cardinale arcivescovo di Siviglia, Carlos Amigo, affermò allora che il discorso del presidente della conferenza si svincolava dal sentire del resto dei membri. L’ultimo capitolo dello scontro è stato scritto la settimana scorsa con la lettera dei vescovi agli elettori spagnoli. Nella nota si chiedeva - pur senza dirlo esplicitamente - il voto per i popolari e si criticavano i socialisti per aver negoziato con Eta per arrivare ad una fine pacifica del conflitto basco. Il giorno dopo la controversa pubblicazione, la Conferenza Episcopale Tarraconense prese pubblicamente le distanze; poi fu il turno dell’influente comunità benedettina di Monserrat, che rincarò la dose. Alla fine anche lo stesso Blázquez affermò che «il vangelo non si identifica con nessun progetto politico». Le malelingue assicurano che dietro la critica alle conversazioni dei socialisti con Eta vi è anche una censura all’operato dei vescovi ba-

schi da parte di Madrid. E’ sembrato strano infatti che la Chiesa critichi ora il tentativo di risolvere pacificamente il problema basco quando lo ha sempre fomentato. Il Vaticano autorizzò il vescovo di San Sebastiàn, Juan Marìa Uriarte a svolgere un compito importante nello scambio di messaggi tra le due parti tanto sotto il governo Zapatero che sotto quello di Aznar. Ma proprio Uriarte e Blázquez hanno mantenuto aggiornata la Santa Sede sugli sviluppi delle conversazioni di Zapatero con Eta. I due vescovi baschi avrebbero in questo modo scavalcato la nunziatura vaticana di Madrid, saldamente in mano al conservatore Rouco. E proprio questi avrebbe voluto inserire la critica alle conversazioni con Eta per colpire direttamente Zapatero e, di rimbalzo, Blázquez. Da questi gesti si capisce che la candidatura di Rouco Varela avanza impetuosa.Tra le altre cose, l’arcivescovo di Madrid è amico di Papa Ratzinger, di cui fu alunno all’università di Monaco di Baviera. Questi sembra aver promosso tutti i suoi uomini più fedeli: ha nominato cardinale Antonio Cañizares; ha prolungato il mandato di Garcìa-Gasco, che avrebbe dovuto dimettersi per ragioni di età; e gli ha affiancato il gesuita Martínez Camino, facendolo vescovo ausiliare di Madrid. Chiari segnali. Blázquez può invece contare sul dubbio onore di essere l’unico presidente di una conferenza episcopale europea a non essere cardinale o almeno arcivescovo, un’anomalia che Roma non si è affrettata a correggere. Ma la duplice partita è ancora aperta. Per ora il prevalere dell’ala dura della conferenza ha dato al Psoe di Zapatero la scusa per soffiare sul fuoco della laicità mentre ha messo un bavaglio al popolare Rajoy, che ha glissato sul tema per non essere identificato come un ultraconservatore. Uno scenario con Zapatero e Rouco presidenti esacerberebbe probabilmente il clima di polarizzazione religioso-politica che si è vissuto ultimamente. Ma è ancora presto per saperlo, i primi giorni di marzo ce lo riveleranno.

d i a r i o

d e l

g i o r n o

Usa, primarie in Virginia e Maryland Martedì elettorale nella corsa presidenziale degli Stati Uniti. Ieri si sono svolte le cosiddette “primarie del Potomac” in Virginia, Maryland e Washington D.C. Mentre in campo repubblicano lo scontro tra John McCain e Mike Huckebee ha poco da dire, almeno a livello di delegati, in campo repubblicano le probabili vittorie di Barack Obama (favorito negli ultimi sondaggi) potrebbero significare l’ottava sconfitta di fila per Hillary Rodham Clinton. L’ex First Lady, però, punta soprattutto sui “superdelegati” (quelli espressi dal partito e non dal voto delle primarie). Alla convention democratica di agosto, infatti un congruo numero di voti (796 su 4.049) sarà infatti nelle mani di questi “grandi elettori” - per ora schierati in maggioranza con la Clinton - che avrebbero, almeno in teoria, i numeri per rovesciare la scelta uscita dalle urne.

GB: college e terrorismo Tutti i college britannici, d’ora in poi, saranno chiamati a ”valutare” il grado di rischio terroristico al loro interno. Lo prevedono le nuove linee guida dettate ieri dal ministero dell’Istruzione superiore britannico, secondo il quale le università e i college sarebbero diventati il bacino di reclutamento preferito dagli estremisti di alQaeda.

Spagna, la rimonta dei Popolari A un mese dal voto del 9 marzo, i Popolari spagnoli continuano la rimonta, assottigliando settimana dopo settimana lo svantaggio e ormai sono quasi appaiati ai socialisti di Jose Luis Zapatero. Secondo un sondaggio realizzato dal quotidiano economico “Expansion”, i socialisti sono al 41,1 per cento del voto, mentre il Partito Popolare è al 39,8. Gli stessi sondaggisti a gennaio davano un margine di distacco di 2 punti e a dicembre di 3,3 punti.

Iraq, Sadr condanna rapimenti L’ufficio del leader radicale sciita Moqtada Sadr, nella città meridionale irachena di Bassora, ha condannato ieri il rapimento di due giornalisti americani di Cbs News di cui si sono perse le tracce proprio a Bassora domenica scorsa. L’ufficio di Sadr «condanna qualsiasi aggressione contro i giornalisti in Iraq e in particolare a Bassora”, ha detto il rappresentante del leader sciita, Haret al Idary, citato dall’agenzia Nina «Invitiamo i rapitori a rilasciarli immediatamente».

Australia, aborigeni in Parlamento Per la prima volta nella storia dell’Australia gli aborigeni hanno preso parte all’apertura ufficiale della nuova assemblea parlamentare, animando l’aula con le danze e le musiche della loro tradizione.

Olmert: «L’Iran vuole l’atomica» Israele è certo che l’Iran stia attuando un intenso programma per arrivare al possesso di armi non convenzionali e lo Stato ebraico, che spera in efficaci sanzioni internazionali, non esclude alcuna opzione per sventare quella che considera una minaccia alla sua esistenza. E’ questo il messaggio che il premier Ehud Olmert ha lanciato ieri a Berlino nel corso di una conferenza stampa con il cancelliere tedesco Angela Merkel, a conclusione di due giorni di colloqui nel corso dei quali la questione iraniana è stata al centro dell’agenda. «Noi siamo certi - ha spiegato il premier israeliano - che gli iraniani sono impegnati in un programma serio, in parte clandestino, per acquisire capacità non convenzionali, incluso lo sviluppo di missili balistici a lungo raggio e di testate non convenzionali, in grado di colpire anche l’Europa».

Afghanistan: scambio di prigionieri? I talebani pakistani avrebbero offerto al governo di Islamabad di procedere a uno scambio di prigionieri, offrendo l’ambasciatore pakistano a Kabul scomparso lunedì in cambio di Mansour Dadallah. Secondo quanto riferisce il direttore della redazione pakistana di al-Jazeera, Ahmad Zaidan, i talebani pakistani guidati da Beitullah Mahsoud avrebbero annunciato di aver rapito l’ambasciatore pakistano in Afghanistan, Tariq Azizuddin, mentre attraversava ieri la zona tribale. Come condizione per il suo rilascio si chiede lo scambio di prigionieri per ottenere la liberazione del fratello del Mullah Dadallah, Mansour, catturato in Waziristan dall’esercito di Islamabad.


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AFFARI ESTERI

Occidente

IL TRIANGOLO DELLA JIH Justo Lacunza Balda a guerra sembra il pane quotidiano del continente africano. Il Ciad è l’ultimo anello di una catena che si aggancia al Kenya e che attraversa altri Paesi – dal Niger alla Somalia – dove, per ora, è la guerriglia ad agire. In Occidente molti sono tentati di analizzare quanto sta accadendo con un’unica lente: quella degli scontri tribali fingendo d’ignorare che le centinaia di morti e di sfollati, soprattutto nella capitale N’djamena, sono il pesante bilancio di un’operazione islamica che è appoggiata militarmente dal governo sudanese. E che è parte di un disegno strategico: aprire in Africa – dopo l’Asia, con l’Afghanistan, e il più vicino oriente con l’Iraq – un nuovo fronte. Le autorità di Khartoum sono determinate a continuare la conquista islamica: la storia tragica del Darfur lo dimostra in modo palese con le incursioni dei Janjaweed o guerrieri jihadisti,

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gli stessi che adesso si spingono anche in Ciad. Come è già successo in Kenya dove, qualche mese prima delle elezioni, gli islamisti si erano apertamente schierati con Odinga, leader dell’opposizione al governo. Qui il fondamentalismo islamico si è rafforzato anche con l’arrivo di migliaia di rifugiati somali, molti dei quali si affiancano alla corrente integralista che insegue l’egemonia dell’Islam in tutta la nazione africana. Il militarismo islamico del Corno d’Africa ha già cambiato la storia del Kenya e di quella dell’Africa orientale. Uganda e Tanzania, e soprattutto Zanzibar, continuano a subire le scosse islamiste da parte dei leader musulmani che vedono gli eventi in Kenya, Sudan e Ciad come una vittoria della jihad islamica.

È una conquista che non comincia adesso. Nel museo di El-Obeid si conserva ancora la

bandiera verde che accompagnava al-Mahdi (1844-1885) nelle sue imprese guerriere. Sulla bandiera si può leggere il testo della professione di fede islamica. Proprio come nella bandiera dell’Arabia Saudita. Il leggendario jihadista sudanese dichiarò guerra aperta all’impero britannico nel nome dell’Islam e lo spirito della jihad di al-Mahdi continua oggi ad alimentare le ambizioni egemoniche degli islamisti africani. C’è stato anche un altro guerriero musulmano, al-Hajj Omar (1797-1864), che organizzò le cosiddette “guerre sante” per islamizzare le tribù dell’Africa occidentale e assoggettare le popolazioni africane alla religione musulmana. Entrambi consideravano la jihad come la via maestra del Profeta per combattere le religioni africane e imporre con la forza l’Islam. Quello che è cambiato è lo strumento della conquista: una volta erano gli eserciti, adesso c’è

anche il terrorismo, con al Qaeda in prima linea. Oggi il continente africano è diventato il nuovo campo dell’islamizzazione da parte di quei movimenti (e degli Stati che li appoggiano) che considerano l’Africa una “preda musulmana” e che s’inseriscono nelle guerre civili o negli scontri tribali come succede anche in Nigeria, Somalia, Tanzania e Zanzibar. Lo slogan «l’Africa è musulmana» vuole cancellare anche l’idea di “nazioni indipendenti” uscite dal colonialismo e contagia Paesi come Burundi, Costa d’Avorio, Ghana, Malawi, Rwanda e Zambia.

Come Hamas e Hezbollah in Medio Oriente, i Talebani in Afghanistan e in Pakistan o la Jamiyya Islamiyya in Indonesia, anche le forze islamiste africane dichiarano la jihad, alimentano il sogno della conquista del potere, diffondo l’odio contro gli ebrei e la violenza contro

i cristiani. Tutto questo da all’Islam in Africa una impostazione militarista che non si conosceva all’inizio del periodo delle indipendenze nazionali. Bisogna dirlo molto chiaramente: quello che sta succedendo in Africa non è soltanto un fatto tribale, una questione etnica o una lotta per accaparrarsi le risorse naturali come i minerali o il petrolio, ma è una vera e propria islamizzazione. La storia dell’espansione araba e delle conquiste musulmane si rinnova sul suolo africano. Come successe ai tempi delle campagne militari musulmane (almaghazi) dopo la morte del Profeta a Medina nel 632. I califfi, chiamati i «ben guidati», in nome della jihad islamica, organizzarono le invasioni fuori dal territorio della Penisola Arabica e si lanciarono con gli eserciti contro le province asiatiche e africane dell’impero romano d’Oriente e contro l’impero persiano. Fino al periodo


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HAD AFRICANA della massima espansione del Califfato, la più grande istituzione politico-religiosa dell’Islam, e dell’impero arabo-islamico. Fu Kemal Ataturk (18811938), il fondatore della Turchia moderna, ad abolire il Califfato nel 1924, lasciando una ferita profonda nel mondo musulmano fino ai nostri giorni. Percorrendo la storia musulmana ed esaminando rapidamente l’elenco delle terre conquistate dall’Islam sin dai primi venti anni, ci si rende conto di come gli arabi avevano teorizzato e realizzato una specie di trinomio dell’islamizzazione: invasione, espansione, insediamento. I difensori della nuova religione nata in Arabia conquistano la Palestina nel 634, Gerusalemme nel 639, Damasco nel 635 e la Siria nel 640.

Fra il 637 e 651 le armate musulmane impongono la legge islamica, islamizzano le popolazioni e sconfiggono l’impero persiano. E se questo non bastasse l’Egitto viene islamiz-

zato dal 632 al 646. Sotto la dinastia degli Omayyadi, fondati da Muawiyya ibn Abu Sufyan, che aveva scelto Damasco come capitale dell’impero arabo musulmano, l’espansione islamica riprende a ritmo sostenuto, gli eserciti musulmani continuano la jihad dove prima c’erano antiche comunità cristiane. Entro il 705 tutta l’Africa settentrionale viene conquistata, islamizzata ed è sotto dominazione degli arabi musulmani. Qualche anno dopo, nel 711, gli arabi inizieranno anche la conquista della Spagna sotto la guida del generale Jibal Tariq, che diede il nome a Gibilterra. Seguiranno lunghi anni d’insediamenti musulmani nel Mediterraneo, dal Portogallo alla Sicilia, alle coste mediorientali. Ma c’è un altro filo conduttore nella storia dell’Islam: ogni buon musulmano deve diventare un sostenitore della causa islamica. La vera sfida di al Qaeda è questa: scuotere l’inerzia dei musulmani e indicare loro i tre fronti sui quali com-

battere, cioé quello degli americani, degli ebrei e dei cristiani. È questo che dicono tutti i documenti scritti e le dichiarazioni video dell’organizzazione di Osama bin Laden e che ripetono anche molti degli imam nelle moschee.

Di questa ideologia ognuno da una sua interpretazione pratica: la jihad è combattimento, lotta, conquista che può essere realizzata con la propria impronta. Che sia quella personale o quella della cellula alla quale si appartiene senza, necessariamente, l’esistenza di un’unica cabina di regia. Sapendo, tuttavia, di essere parte di una rete jihadista mondiale. Ecco perché c’è una grande varietà di forme, ma alla fine il concetto della jihad, in tutte le sue traduzioni concrete è sempre lo stesso. E l’Africa non fa eccezione. Lo aveva già sottolineato Abdullah Saleh al-Farsy (1904-1982), pensatore e traduttore del Corano in lingua swahili negli anni Settanta: «la

Il militarismo islamico si organizza e lancia la sua sfida al Continente Nero jihad si fa con la parola, con gli scritti e con la guerra». È in questa visione di un rilancio dell’espansione musulmana e della jihad che deve essere letto quello che sta accadendo nell’Africa contemporanea. Con un punto di svolta ben preciso: gli attentati di al Qaeda a Nairobi (Kenya) e Dar es Salam (Tanzania) nel 1998 contro le ambasciate degli Stati Uniti. Da allora sono ormai passati dieci anni che hanno rafforzato ulteriormente l’integralismo islamico che si era già schierato contro l’Occidente ed anche contro la presenza della Chiesa cristiana nel continente. È interessante notare che già durante gli eventi tragici del 1994 in Rwanda, nessuna moschea o istituzione islamica fu mai attaccata mentre furono torturati e uccisi missionari cattolici e saccheggiate chiese cristiane. E negli ultimi mesi gli attentati contro le missioni e i missionari si sono intensificati. Scontro di religioni? Non è la formula giusta, ma è un’altra prova che

l’islamismo militante avanza dietro i conflitti e le guerre in corso in Africa. C’è ancora un concetto classico dell’Islam, nato ai primi tempi del Profeta, che torna di grande attualità per capire quello che sta accadendo: sono gli ansar – che possiamo tradurre come i “sostenitori, i vincitori” – a impostare tutto il discorso sulla jihad, l’espansione musulmana e il radicamento dell’Islam. Il summit dell’Organizzazione della conferenza islamica (Oic) di quest’anno, per la seconda volta nella sua storia, si terrà a Dakar (la capitale del Senegal) tra un mese esatto: nei giorni 13 e 14 marzo. Questo non sembra davvero un caso: i moderni ansar si riuniranno proprio in Africa e 21 degli Stati membri dell’Oic, su 56, sono già africani. Ci sarebbe da augurarsi che da loro vengano almeno parole di moderazione. Ma non è detto che sarà così. Rettore emerito del Pontificio Istituto di Studi arabi e di Islamistica


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Mappa del nuovo fronte terrorista di Rossella Fabiani offensiva islamica in Africa apre continuamente nuovi fronti. Ma ha tre punti cardinali: una specie di “triangolo strategico” dove si preparano gli attacchi, si formano i combattenti e dove trovano, anche, rifugio i più pericolosi capi dei gruppi terroristici. Un triangolo che parte dal Sudan, ormai storica Repubblica islamica africana, passa per la Somalia, dove le Corti islamiche non sono affatto fuori gioco, e arriva fino al Mali di cui poco si parla ancora, ma che sta diventando il vero santuario di al Qaeda nel continente africano. È proprio in mezzo al deserto del Mali, in un’area compresa tra le città di Gao, Taoudenni, Kidal e Timbuctu, che è stato individuato un campo di addestramento appena quattro mesi fa. Era in una regione che confina con tre Paesi, ma che è lontana da tutto: 1376 chilometri dall’Algeria, 2337 chilometri dalla Mauritania e 821 chilometri dal Niger, nel deserto abitato dai nomadi tuareg dove è difficile distinguere le frontiere tra le dune. A impiantare questa base sono stati i registi di Osama bin Laden che hanno stretto un’alleanza con il “Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento” (Gspc), un movimento terrorista nato nel 2004 come emanazione del “Gruppo islamico armato” (Gia). Da questo patto strate-

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quella scoperta in Mali, ma anche in Mauritania e Niger. E non solo. Perché l’influenza di “al Qaeda nel Maghreb” si sta estendendo negli altri Paesi del Sahel. I combattenti vengono arruolati tra popolazioni che da decenni sono vittime di conflitti e miseria estrema. Nel “manifesto di lealtà” a Osama bin Laden lanciato da Abu Musab Abd I Wadud, emiro algerino del Gspc, è scritto testualmente: «Vi ordino di fare cinque cose. Raggrupparvi, ascoltare, ubbidire, emigrare e combattere per la jihad. Promettiamo fedeltà allo sceicco Abu Abdallah Osama bin Laden. Sigilliamo questo patto con una stretta di mano». L’accordo dei “cinque comandamenti” segna una nuova tappa nella strategia di al-Qaeda: il reclutamento per la guerra santa anche di emigranti arabi e africani diretti in Italia, Francia, Gran Bretagna e Spagna che facevano tappa nel campo segreto di addestramento in Mali prima di arrivare sulle coste del Mediterraneo da dove, poi, partivano per l’ultimo balzo del loro viaggio verso l’Europa.

Se in Mali ci sono le “nuove leve” del jihadismo, in Somalia sono le Corti islamiche che si preparano ad attaccare di nuovo. Ad Asmara, capitale dell’Eritrea, si è tenuto un congresso al quale hanno partecipato oltre 400 delegati tra isla-

Sudan, Somalia e Mali sono il cuneo islamista nel cuore del continente gico ha preso vita la nuova formazione che si chiama “al Qaeda in Maghreb” con soldi, esplosivi, armi e basi come

misti, oppositori del governo somalo e capi tribù, accanto ai rappresentanti delle Corti islamiche e, alla fine, tutti si sono

uniti in un nuovo fronte: l’Alleanza per la liberazione della Somalia (Als). Con l’obiettivo di rovesciare il governo di transizione appoggiato dagli Usa, dall’Europa e dall’Etiopia.

Il congresso ha anche approvato una Costituzione e ha eletto 191 membri del comitato centrale del nuovo movimento. Anche il generale Mohammed Farrah Aideed, signore della guerra che è stato presidente della Somalia dal 1995 al 1996, e lo sceicco Hassan Aweys, capo indiscusso delle Corti islamiche, hanno preso parte alla riunione di Asmara che è stata organizzata con l’attiva collaborazione delle autorità eritree che sono nemiche dichiarate del governo somalo ad interim di Abdullahi Yusuf, considerato “illegittimo” perché imposto dagli Usa, dall’Etiopia e dal Kenya. Il leader islamico, Hassan Aweys, ha ottenuto per sé una posizione di rilievo nel nuovo movimento politico e già si muove per raccogliere i fondi necessari per alimentare la lotta armata. È dai tempi della fine del regime di Siad Barre che la Somalia è precipitata nel caos e, negli ultimi anni, il Paese è conteso da gruppi armati e saccheggiato da bande criminali e da miliziani organizzati sotto il marchio di alQaeda. In questo disordine si è fatto strada l’islamismo radicale, con le Corti islamiche e l’applicazione della sharia. L’influenza dell’estremismo islamico in Somalia ha messo in allarme soprattutto l’Etiopia. Tanto che il governo del premier Meles Zenawi ha deciso, nel gennaio 2007, di inviare le sue truppe in Somalia per sradicare le Corti e soste-

La culla di al Qaeda è a Khartoum, dove per anni ha vissuto Osama bin Laden nere il governo di Abdullahi Yusuf che è alla guida della Transitional federal assembly (Tfa) con un mandato provvisorio di cinque anni. Ma gli islamisti, le milizie e i signori della guerra sono di nuovo pronti al contrattacco. E hanno trovato un alleato naturale nell’Eritrea tradizionale avversaria dell’Etiopia. Ma la culla di al Qaeda è in Sudan. Il Paese dove, per anni, Osama bin Laden ha vissuto, ha fatto i suoi affari, e ha ancora parte dei suoi conti bancari. Protetto da un governo che già allora era retto da una maggioranza sunnita, ma che poi è diventato istituzionalmente islamico. “Zawra” in arabo vuol dire rivoluzione. E la rivoluzione islamica è qualcosa che trascina con sé assolutamente tutto a livello politico, religioso, istituzionale, economico.

Trasformare uno Stato in “Repubblica islamica” significa rovesciare il governo di un Paese e mettere al potere dei dirigenti musulmani che costruiscono la politica intorno ai capisaldi della religione islamica cancellando, in pratica, tutta la tradizione civile, secolare. Hasan al Turabi, massimo dirigente del “Fronte nazionale islamico”, è stato uno dei protagonisti del golpe, nel 1989, che ha trasformato il governo sunnita sudanese in governo islamico. «Una volta

il nazionalismo era la sola alternativa all’Islam, ma l’unico nazionalismo possibile oggi, se vogliamo affermare i nostri valori, la nostra originalità e la nostra indipendenza dall’Occidente è l’Islam», ha detto al Turabi. Ma Hasan al Turabi sapeva perfettamente che nel contesto politico del Sudan c’era una Costituzione e che la sharia non poteva essere imposta come legge fondamentale di una nazione indipendente, dove non vivono soltanto musulmani, ma varie etnie appartenenti a religioni diverse. Ecco, allora, la legittimazione della “Zawra”, la rivoluzione islamica che rovescia i termini affermando che «la società è l’istituzione primaria dell’Islam e non lo Stato». Oggi la Repubblica islamica del Sudan è impegnata nella difficile partita del Darfur, il territorio abitato da popolazioni non ancora islamizzate (animiste, per lo più, ma anche in parte cattoliche) dove è stata, finalmente, raggiunta almeno una tregua, dopo anni di massacri, ma dove non è stato ancora possibile l’intervento di una forza di pace internazionale. Anzi, l’invio del corpo d’interposizione è stato bloccato proprio dall’esplosione della guerra civile nel Ciad (che confina con il Darfur) e non è certo un caso che sia il Sudan ad appoggiare i ribelli filoislamici che sono entrati a N’Djamena.


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l Sud Africa, la Nigeria e il Kenya sono considerati degli ”Stati àncora”, svolgendo, ognuno a suo modo, un ruolo di hub a livello subregionale in settori chiave come l’economia, i trasporti e le comunicazioni. Le centrali sudafricane forniscono elettricità a buona parte dell’Africa australe. Gli Stati centro-africani attingono il loro carburante dai porti kenioti. Lagos, la capitale commerciale della Nigeria, è un fiorente centro commerciale. A livello internazionale, Usa in testa, questi Paesi sono sostenuti proprio per il ruolo di stabilizzazione dell’area (e in parte dell’intero continente) che possono svolgere. Un compito fondamentale che negli ultimi anni è andato sgretolandosi. Ma facciamo un passo indietro: Sudafrica e Nigeria sono stati (anche) strumentali nel promuovere le iniziative diplomatiche in tutto il continente.

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Il Presidente sudafricano Thabo Mbeki, ha spinto per la creazione del Nepad, vale a dire il Nuovo partenariato per lo sviluppo africano, un’iniziativa che mira a tessere un link con gli altri Paesi sviluppati al fine di sradicare la povertà e promuovere l’integrazione del continente africano nell’economia mondiale. L’ex presidente nigeriano, Olusegun Obasanjo, ha svolto un ruolo attivo per il mantenimento della pace nel continente, nonché nella creazione dell’Unione africana. Il Kenya ha contribuito agli sforzi di pace a livello regionale, ma principalmente negli Stati confinanti quali Sudan e Somalia. Ma tutti e tre sono ora concentrati su questioni interne. In Sudafrica il Presidente Mbeki lascerà il suo incarico nel 2009 e la lotta per la suc-

Il fallimento della strategia sudafricana cessione in seno al suo African national congress (Anc) è aspra. Il presidente nigeriano, Umaru Yar’Adua, deve affrontare gruppi armati che seminano instabilità nel delta del Niger. Il Kenya, che la mag-

Vuoto di potere ed equilibri politici

Cercasi nuova leadership di Stephanie Hanson

gior parte degli esperti avverte come il meno forte dei tre hub, si sta dibattendo in una crisi politica dalle contestate elezioni presidenziali tenutesi nel dicembre del 2007. «Questa instabilità apre un vacuum di leadership dalle conseguenze imprevedibili - afferma Princeton N. Lyman del Council of foreign relation. E la crisi kenyota che il capo dell’Unione Africana, il presidente ugandese Museveni, ed un gruppo di saggi guidati dall’ex segretario generale dell’Onu, Kofi Annan, hanno cercato di risolvere, ne è la testimonianza. Raymond W. Copson docente di Affari africani alla George Washington University, cita il conflitto in Darfur e l’impossibilità di attuare l’accordo di pace, il cosiddetto Comprehensive peace agreement (Cpa) nel Sudan meridionale come ulteriori esempi di mancata leadership. «L’Unione africana ha guidato le operazioni di pace sia in Darfur che in Somalia, ma non credo che possa svolgere un ruolo forte nel mantenimento e nello sviluppo della sicurezza nel continente. È un’istituzione relativamente giovane e i suoi impegni sono già andati ben oltre le sue capacità amministrative e finanziarie. Inoltre, come ogni altro gruppo regionale, è forte tanto quanto i suoi stati membri». Come dire: non troppo, visto anche che molti non pagano le quote. Ma allora dove sono i nuovi leader africani? Paesi di medie dimensioni, come il Ghana e la Tanzania promettono bene, ma il loro peso impallidisce in confronto a quello degli ”Stati àncora”. «La leadership segue una sorta di gerarchia sociale - afferma Ro-

bert I. Rotberg della Harvard University e Nigeria e Sudafrica sono i Paesi più grandi e più ricchi di quel continente». Gli esperti concordano: indipendentemente dalle capacità e dalle competenze del suo leader, un Paese piccolo non sarà certo in grado di svolgere lo stesso ruolo degli hub regionali. Inoltre non possono dispiegare contingenti di pace significativi e contano su risorse finanziarie limitate. Possono insomma svolgere un ruolo positivo in seno alle loro sub-regioni, ma non emergere a livello continentale. Ghana, Tanzania e Uganda sono fra questi. Il Ghana conta su uno dei migliori governi d’Africa ed ha appena concluso il suo anno di presidenza dell’Unione africana. Secondo la Banca Mondiale, è sulla buona strada per conseguire ed andare ben oltre l’Obiettivo del millennio in tema di sviluppo, vale a dire dimezzare la povertà entro il 2015.

La Tanzania è al quattordicesimo posto su quasi cinquanta Paesi in termini di Indice Ibrahim per la governance in Africa e gli esperti parlano favorevolmente del suo presidente, Jakaya Kikwete. Il Presidente dell’Uganda, Museveni, ha adottato una politica lungimirante in tema di aids, ha sostenuto le attività di pace in Sudan ed è l’unico ad aver inviato truppe per le operazioni di pace dell’Ua in Somalia.Tuttavia, sul fronte interno, non ha ancora raggiunto una mediazione con la Lord’s resistance army nel nord del Paese. Anche l’Etiopia potrebbe svolgere un ruolo più significativo, ma dato che buona parte della sua forza militare è impegnata in

Somalia ed al confine con l’Eritrea, non potrà affrontare le questioni di sicurezza al di là del Corno d’Africa. Non solo:deve anche contrastare l’insurrezione dell’Ogaden.Vi sono poi Paesi piccoli, ma di successo economico, quali il Botswana e il Malawi che potrebbero fungere da modello, peccato che non godano dell’interesse degli altri ”colleghi”più grandi e che quindi non possano esportare la propria esperienza. Peccato, perché questa disattenzione/rivalità interna impedisce la nascita di un circolo virtuso. Anche a livello economico. Senza cooperazione regionale, infatti, questi Paesi non saranno mai in grado di creare mercati competitivi con il resto del mondo. La Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas) mostra segni di coesione e la Comunità di sviluppo dell’Africa australe (Sadc) progetta di creare un mercato comune nell’Africa australe, ma la sua repu-

Il Ghana è uno dei migliori governi d’Africa tazione è stata macchiata dalla mancata mediazione in Zimbabwe. L’economista della Banca Mondiale Harry Broadman, afferma che per rendere competitive le imprese africane a livello internazionale, servono soluzioni regionali. Progetti che richiedono una collaborazione politica negata dalle rivalità. Broadman paragona la situazione a quella dei Balcani in seguito al conflitto. Ad esempio, in Africa australe, il Botswana e lo Zambia vorrebbero lo stesso successo economico del Sudafrica. Sebbene le imprese di questi Paesi collaborino fra loro, il risentimento del potere politico e del governo sudafricano impedisce quei cambiamenti. Un esempio: in Angola la Cina sta costruendo una ferrovia, ma il governo non ha ancora idea di quali merci - semmai ve ne saranno - essa trasporterà in quanto non si è consultata con i Paesi vicini. Responsabile Media del Council of Foreign Relations


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Occidente

L’arco di crisi va dall’Oceano Indiano all’Atlantico, ma le tensioni non sono solo tra Islam e cristiani

Puzzle etnico e antichi conflitti di Maurizio Stefanini e montagne dell’Etiopia e il Sahara. Fu appollaiati sulle prime che i guerrieri dell’Abissinia cristiana fermarono l’espansione dell’Islam dalla Penisola Araba verso l’Africa Orientale: nel XVI secolo: anche grazie al decisivo aiuto dei portoghesi, proprio nel momento del più grave pericolo per l’invasione di Ahmed Gran il Mancino. Per questo l’Africa Centro-Meridionale oggi è cristiana, salvo qualche avamposto musulmano lungo le coste dell’Oceano Indiano. Fu invece il Sahara che smorzò la spinta dei conquistatori del Maghreb, costringendoli a portare il Corano verso Sud col più lento e graduale metodo delle carovane dei mercanti. Per questo l’Africa Occidentale oggi è sì islamica: salvo avamposti di cristiani sulle coste e isole animiste nelle aree più interne. Ma di un Islam sincretico, tollerante, diverso da quello più esclusivo del Nord del Continente, e dove le donne altro che coprirsi il volto, lasciavano scoperto perfino il seno. Ancora adesso, dalla montagne d’Etiopia all’imbocco del Sahara c’è la soluzione di continuità del Continente Nero, che non a caso descrive l’arco di crisi che va dall’Oceano Indiano a quello Atlantico. Passando attraverso la guerra civile in Somalia, la crisi del Kenya, la guerriglia dell’Esercito del Signore in

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Uganda, i drammi del Sud del Sudan e del Darfur, l’ultima esplosione del Ciad, la rivolta tuareg in Mali e Niger, le ricorrenti tensioni in Mauritania e Nigeria. Problemi non sempre riconducibili alla schematica rivalità tra musulmani e cristiani che ha insanguinato per decenni il Sudan e la Nigeria. Meglio sarebbe uno schema che individuasse una contrapposizione tra Nord e Sud. A volte coincidenti con Islam e Cristianità, come in Nigeria; e a volte con Islam contro Cristianità e Animismo, come in Sudan. Ma più spesso interna alla fede islamica: rivolta dei “bianchi” tuareg contro quei governi di Niger e Mali, espressione delle etnie nere in passato vittime delle loro razzie; residui di schiavismo ai danni degli islamici “neri” nel governo della maggioranza arabizzante haratin in Mauritania; faida tra musulmani arabofoni e musulmani neri nel Darfur. E altre volte interna invece alla cristianità: il regolamento di conti tra bantu kikuyu e nilotici luo in Kenya; la rivolta dei nilotici acholi contro il bantu Museveni in Uganda.

L’avvertenza è che però i nordici di un contesto possono diventare i meridionali di un altro, è vicevesa. Così, i dinka e nuer del Sudan meridionale sono stretti parenti di luo e acholi: il che non ha impedito peraltro

libri e riviste

homeini è una svolta per l’Islam e la sua rivoluzione sta con quella francese e bolscevica. L’autore che è uno dei massimi esperti di Medio Oriente, ci fornisce alcuni strumenti per capire la genesi delle differenze culturali fra Occidente e mondo musulmano. Il “tutto” islamico non vede un limes tra Stato e Chiesa, Cesare e Dio sono la stessa persona nella Umma musulmana. Esistono i delegati i khalifa di Dio sulla terra , come fu David che per la cultura islamica fu re e profeta. Anche l’attenzione al buongoverno fa parte della sintassi politica musulmana. «C’è una differenza fondamentale fra gli scritti medievali islamici e quelli cattolici sulla storia e sulla politica. La civiltà cristiana nacque in mezzo al caos delle invasioni barbariche e tra due eventi: la caduta dell’impero romano e l’ascesa

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agli stessi acholi di ricevere gli aiuti del governo del Sudan, in rappresaglia agli altri aiuti che l’Uganda mandava invece alla rivolta dinka e nuer. Così il governo del Ciad aiuta i ribelli del Darfur e il governo del Sudan aiuta il ribelli del Ciad. E l’Etiopia aiuta le milizie anti-Corti Islamiche in Somalia, mentre le Corti Islamiche si collegano ai ribelli etiopici. In Ciad la rivolta del Nord islamico tolse sì di mezzo Tombalbaye, uomo del Sud cristiano-animista. Da allora sono i vari clan musulmani del Nord che hanno continuato con le violenze. In Nigeria il Sud-est petrolifero, dai tempi della secessione biafrana, è in rivolta permanente contro il governo centrale, senza distinzione fra leadership cristiane o musulmane. E che

della Chiesa». Per Sant’Agostino, primo teorico politico cristiano, il corpo politico è stato creato dall’uomo e dal male, e il governo è una punizione o un rimedio al peccato Originale. Era stato Caino a fondare la prima città. Solo con Tommaso d’Acquino ci sarà il riconoscimento di un sistema politico cristiano. I musulmani si sono mossi su di una via diversa. L’inizio è stato il trionfo, per loro l’autorità politica è un bene. Il potere sovrano è voluto da Dio per promuovere la fede e i detentori del potere sono al centro della storia. Un analisi che introduce un nuovo linguaggio per capire la Mezzaluna e la Croce. Bernard Lewis Il Linguaggio Politico dell’Islam Laterza – pagine 170 - Euro 7

dire della mattanza tous azimuts somala? Tra clan non solo della stessa fede, ma anche della stessa lingua… Ma erano tutti cattolici e monolingui anche tutsi e hutu in Ruanda, se è per questo. A volte è l’eredità della colonizzazione, con le sue frontiere artificiali a mettere assieme popoli diversissimi. Ma a volte i problemi sono storici o recenti. Altre sono una miscela di entrambi.

In Kenya, ad esempio, i kikuyu erano contadini di una zona particolarmente fertile: dunque furono espropriati in massa dal colonialismo inglese. I luo, pescatori sul lago Vittoria, non solo ebbero meno grane, ma con i colonizzatori fecero anche affari. Di conseguenza, la lotta anticolonialista fu condotta soprattutto dai kikuyu, tra cui venne reclutata la società segreta dei Mau Mau, e cui pure appartenne il padre della patria Jomo Kenyatta. Così, dopo l’indipendenza furono i kikuyu a egemonizzare tutto il potere. Ma per questo, a quasi mezzo secolo di distanza ormai è contro di loro

risultati elettorali in Turchia hanno riaperto un dibattito sull’attualità e la tenuta di una vecchia alleanza, quella con gli Usa. Il cemento che per sessanta anni l’ha tenuta insieme, il nemico comune, l’Urss non c’è più. La guerra fredda non aiuta più a dimenticare certe differenze come nella politica verso l’Iraq e che gettano un’ombra sulle relazioni turco-statunitensi, comprese le trattative per l’ingresso in Europa di Ankara. La nascita e l’avvento al potere del partito della Giustizia e sviluppo (Akp) opra al governo, ha coinciso con il costante degrado dei rapporti fra i due Paesi. Nonostante anche nel passato non siano mancati i motivi di disaccordo di fondo ci sono stati sempre obiettivi strategici comuni. Sarà così anche per il futuro? L’analisi di Walker ci spiega ombre e luci di un’alleanza basilare per il futuro dei rapporti fra Occidente e mondo islamico. Jeshua W. Walker Reexamining the U.S.-Turkish Alliance The Wahington Quarterly - Winter 2007-08

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che si scatena la rivolta. Il quadro è complicato perché sono straordinariamente delicate le ferite storiche. Un quadro che è difficile da rimettere a posto, ma in cui diventa facile infilarsi, per mescolare nel torbido. In Kenya, ripetiamo, la rissa kikuyu-luo non c’entra niente con l’Islam. Ma il presidente kikuyu contestato aveva estradato un po’ di sospetti qaidisti, e allora l’integralismo islamico ha fatto sponda ai suoi avversari. Ancora, nel Darfur il problema è invece tra islamici. Ma la propaganda qaidista si attacca all’intervento occidentale, presentandolo come un’ennesima cospirazione ai danni dell’Islam. Neanche i tuareg sono musulmani particolarmente osservanti, con la loro tradizione matriarcale che costringe gli uomini a mettere il velo. Tant’è che il loro nome in arabo significa “coloro che si sono allontanati da Dio”. Ma già in passato Gheddafi cercò di inserirsi nelle loro rivendicazione spingendoli verso il panarabismo, e adesso anche i jihadisti li istigano. Quanto alla rivolta del Delta del Niger, comunque gli attacchi alle piattaforme petrolifere fanno impazzire i mercato del greggio, in conserva con la guerriglia in Iraq e le mattane verbali di Chávez. E tutto contribuisce a quel continuo aumento dei prezzi del barile, che lo stesso Bin Laden si è posto come obiettivo strategico.

n Occidente in cerca di una nuova identità è quello che emerge dalle pagine scritte dal filosofo francese che «ha avuto spesso il torto di aver ragione troppo presto». Straussiano della prima ora l’autore smaschera luoghi comuni e conformismi che hanno portato l’Occidente all’autoflagellazione perenne. Un’analisi non priva di ottimismo, ma con un grande disincanto verso l’idealismo di maniera che inganna e rende comodo il lavaggio della coscienza, e porta l’ex allievo di Raymond Aron a definire come “ingerenza positiva”l’intervento militare in Iraq. Scrittore senza bandiere, maverick della cultura liberale ha un solo obiettivo: difendere la libertà della persona, oggi in pericolo. André Glucksmann Occidente contro Occidente Lindau - pagine 214 - Euro 19,50

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a cura di Pierre Chiartano


Un’idea, una buona idea, è davvero rara. Albert Einstein

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DELLE IDEE


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economia

Il ministro dell’Economia ha precisato: «Nessun buco nei conti 2008»

Il tesoretto di Tps tra errori e smentite di Gianfranco Polillo ssediato da più parti, alla fine è dovuto scendere in campo lo stesso Tommaso PadoaSchioppa. Con un comunicato ufficiale dal titolo: “nessun buco nei conti 2008” ha voluto smentire chi – e noi siamo stati tra questi – avevano avanzato più di un dubbio sulle prospettive immediate della finanza pubblica italiana. E questo mentre autorevoli esponenti della sua maggioranza promettevano sgravi fiscali per dare respiro ai lavoratori dipendenti tartassati da quasi due anni di oppressione. Lavoratori dipendenti, si badi bene. Ossia quella parte degli italiani che si presume costituire la spina dorsale del popolo della sinistra, in vista delle prossime elezioni. Per gli autonomi, invece, nulla. Nonostante Bankitalia avesse dimostrato, nella sua ultima indagine sui bilanci familiari, il maggior carico di lavoro cui sono sottoposti. Un orario settimanale, in media di 43,9 ore contro le 37,9 dei lavoratori dipendenti. Senza contare il peso dell’assenteismo, che consente ai pubblici di lavorare in media solo nove mesi all’anno.

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Anche se i conti pubblici sono a posto, non c’è tuttavia lo spazio – dice sempre TPS - per accontentare, con sgravi fiscali, almeno nell’immediato, sindacati e postulanti. Non c’è spazio per Alfiero Grandi che paventa imboscamenti. Né per Gennaro Migliore che reclama “risarcimenti sociali”. Ma non si potevano rivendicare prima? O per Rosy Bindi, anche lei alla caccia del tesoro misterioso. E che dire dell’Unità che invoca addirittura la complicità del Fondo monetario internazionale o di Walter Veltroni, ormai passato nel campo di Agramante, a chiedere meno tasse per il popolo dei contribuenti? Di fronte al diluvio di richieste, al povero TPS non è rimasto altro che raccomandarsi alla memoria di Ugo La Malfa e rivendicare la legittimità del suo operato. L’ultima Finanziaria – ha messo nero su bianco – non contiene “buchi”. Semmai qualche innocente omissione, come quella relativa agli oneri “derivanti dal rinnovo dei contratti pubblici per il periodo che inizia nel 2008”. Scelta voluta – aggiunge il ministro - peccato solo che la legge dica esattamente il contrario. L’articolo 11

della 468 del 1978 prescrive infatti che la Finanziaria debba obbligatoriamente indicare “l’importo complessivo massimo destinato, in ciascuno degli anni compresi nel bilancio pluriennale, al rinnovo dei contratti del pubblico impiego”. Norma, per la verità, controversa e criticabile. Ma finché vigente, difficilmente derogabile da un qualsiasi Ministro della Repubblica.

Questo è stato l’errore iniziale di TPS che, oggi, gli si ritorce contro. Generando ulteriore confusione nella gestione dei conti pubblici. Che del resto non hanno mai brillato, nel corso della

Polemica anche con Il Sole 24 ore che ha sostenuto che nel 2008 si rischiava un’ulteriore perdita di 7 miliardi, ripetendo così l’errore del 2001 legislatura, di eccessiva trasparenza. Come non ricordare, ad esempio, i risultati della prima due diligence, voluta all’atto dell’insediamento del governo Prodi? Il deficit previsto era del 4,1 per cento. Sarebbe stato invece del 2,4 per cento, al netto degli oneri straordinari. Errori? Tentativi di accreditare l’immagine di un dissesto lasciato dal precedente Governo? Ci si può sbizzarrire. Ecco perché quando Vincenzo Visco, in polemica con la Confindustria, parla di analisi “tecnicamente sbagliate” non è convincente.

Che cosa aveva sostenuto il Sole 24 ore, che ieri ha risposto piccato ai rilievi degli esponenti governativi? Che nel 2008 si rischiava un buco di 7 miliardi, ripetendo, in tal modo, l’errore del 2001. Quando lo stesso Visco, allora ministro del Tesoro, giurava che il deficit sarebbe stato pari allo 0,8 per cento,

contro il 3,1 successivamente certificato dall’Istat. La previsione del quotidiano non era campata per aria, ma aveva il conforto dei numeri forniti dallo stesso ministero. Il 2007 si era chiuso con un fabbisogno dello Stato pari a circa 27 miliardi, del tutto in linea con le previsioni governative. Il fatto curioso era che mentre, a novembre, il miglioramento registrato, rispetto all’anno precedente, era di circa 15 miliardi. A dicembre si riduceva della metà, per poi migliorare sensibilmente (1,5 miliardi) il mese successivo. Da qui il sospetto che alcune poste fossero state addomesticate.

Che alcune spese fossero state anticipate nell’ultimo mese dell’anno, visto che il deficit comunicato a Bruxelles era più alto di quello che si sarebbe conseguito. Una piccola riserva, quindi: necessaria per far fronte alle maggiori spese nel corso dell’anno. Nell’articolo incriminato era indicata con precisione la tipologia: dal contratto per i pubblici dipendenti, allle spese maggiori delle Regioni, dalle richieste dei ministeri, ai fondi per i rifiuti di Napoli. Per finire infine ai costi non previsti dell’imminente campagna elettorale. Tirate le somme, il totale giungeva a circa 7 miliardi, senza contare il rallentamento congiunturale che, da solo peserà, per circa altrettanto, sotto forma di minori entrate. Da qui le inquietudini manifestate. Che hanno spinto TPS a replicare con fermezza. Come se fosse sufficiente e con un semplice comunicato si potesse modificare la realtà dei fatti.

Il ministro dell’Economia, Tommaso Padoa-Schioppa ha dichiarato di non poter accontentare, con sgravi fiscali, sindacati e postulanti vari


economia

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d i a r i o

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Milleproroghe, incontro bipartisan È’ stato ”interlocutorio” il primo incontro bipartisan sugli emendamennti al decreto milleproroghe che sarà alla Camera dal 19 febbraio. I presidenti delle commissioni Affari Costituzionali, Luciano Violante, e Bilancio, Lino Duilio, insieme al relatore per la Bilancio Francesco Piro, tutti e tre del Pd, hanno incontrato il capogruppo di Forza Italia Elio Vito. «C’è un orientamento a trovare un percorso condiviso, non pletorico, sui contenuti - ha detto Duilio dopo la riunione - per chiudere il provvedimento senza intralci».

Valentino Rossi fa pace col fisco Valentino Rossi è soddisfatto per come si è conclusa la sua vicenda con il fisco italiano. Verserà all’erario circa 19 milioni di euro per gli anni 2001-2004. A questi si aggiungeranno 16 milioni per il biennio 2005-’06: l’importo complessivo da versare all’erario sarà di circa 35 milioni.

Problemi per il caudillo dopo la nazionalizzazione della Pdvsa

La bolla petrolifera e l’ira di Chavez di Maurizio Stefanini na bolla petrolifera che sta per scoppiare. Più ancora che la sconfitta al referendum che avrebbe permesso la sua rielezione, l’umiliazione sofferta da re Juan Carlos all’ultimo vertice ibero-americano, la crescente scarsità di generi di prima necessità ormai arrivata perfino alle bombole del gas, la risposta dei cinque milioni di colombiani che sono scesi in piazza per protestare dopo la sua decisione di dare alla guerriglia delle Farc un riconoscimento politico, sarebbero i problemi della società petrolifera di Stato Pdvsa all’origine dell’ultimissima sfuriata di Chavez. Le minacce cioè non solo di nazionalizzare Parmalat e Nestlè, ma soprattutto di tagliare i rifornimenti di petrolio agli Stati Uniti. Pretesto, l’azione con cui la ExxonMobil ha ottenuto da tribunali americani, inglesi e olandesi il sequestro di attivi e fondi della Pdvsa per 12 miliardi, come misura cautelativa in attesa di ottenere l’idennizzo per le nazionalizzazioni che la società ha sofferto in Venezuela l’anno passato. E il risultato è stato che i bond sono precipitati. ”Se ci fanno danno, noi faremo loro danno”, ha promesso il caudillo venezuelano.

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Ma la sua minaccia di ”portare il prezzo del dollaro a 200 dollari” ha senso se si pensa alla sua crescente difficoltà di manovra, che dipende appunto dalla crisi della Pdvsa. Grazie all’aumento del petrolio la Pdvsa ha incassato nel 2006 101 miliardi di dollari nel

La produzione di greggio in Venezuela è diminuita del 28 per cento mentre l’inflazione continua a galoppare 2006, facendo crescere l’economia del 20 per cento in due anni, e facendo dichiarare al governo una riduzione del 25 per cento del tasso di povertà. Sempre grazie alla Pdvsa Chavez ha regalato 8 miliardi ad amici e alleati nel solo 2007. Ma col tipo di vincoli che ha poi messo all’imprenditoria nazionale e all’import in questo momento tutto ciò si stra traducendo nel Venezuela solo in inflazione. E poi, dal 1999 la produzione di greggio in Venezuela è in realtà diminuita del 28 per cento: 3,5 milioni di barili al giorno prima che Chavez arrivasse al potere; 3,27 la cifra ufficiale di oggi; 2,4 la stima dell’estrazione effettiva da parte di Opec, Dipartimento dell’Energia Usa e Agenzia Internazionale dell’Energia di Parigi. Le stesse fonti stimano tra i 2 e i 5 miliardi l’anno gli investimenti di Pdvsa per mantenere la propria efficienza, contro gli almeno 12 necessari secondo la stessa Pdvsa e i 10 effettivi ufficialmente dichiarati. È ancora la Pdvsa a dichiarare che il Venezuela avrebbe bisogno di 191 torri perforatrici per raggiungere gli obiettivi strategici di produzione. Il mese scorso ne erano attive

Cia, nessuna speculazione su pane e pasta La Confederazione italiana agricoltori ha lanciato l’allarme sugli aumenti dei prezzi del grano. «La corsa al rialzo dei listini dei cereali registrata - hanno dichiarato i vertici della Cia - alla Borsa di Chicago può provocare nuovi aumenti per i prezzi di pasta e pane. È però necessario evitare ogni manovra speculativa e rincari artificiosi. È necessario attivare verifiche attente e controlli rigorosi, proprio per contrastare azioni che innestino incrementi anomali dei prezzi al consumo».

Autogrill apre alla Triennale di Milano Dopo il Louvre di Parigi, l’Empire State Building a New York, il museo del Prado a Madrid, l’ateneo Ca Foscari di Venezia, anche la Triennale di Milano avrà uno spazio di ristorazione targato Autogrill, che ha avuto la concessione di un servizio interno ed esterno.

Il 2007 anno record per la Ferrari 71. E il numero dei pozzi è sceso dai 19.583 del 2001 ai 13.500 del 2005. C’è pure il prezzo politico della benzina che fa costare un pieno come una bottiglia di acqua minerale. Tant’è che dai 2 milioni e mezzo di barili quotidiani di export del 2000 il Venezuela si è ridotto a un milione e mezzo.

Gli alleati più stretti di Chavez non stanno d’altronde troppo meglio, tra la rissa in cui l’ecuadoriano Rafael Correa si sta impelagando con le multinazioni e la rivolta delle regioni produttrici di idrocarburi che si è riaccesa contro Evo Morales in Bolivia. Ma il vero punto di svolta può essere rappresentato dai nuovi giacimenti off-shore che si stanno scoprendoi in Brasile. Quelli di Tupi, secondo la società di Stato brasiliana Petrobras, potrebbero addirittura arrivare, tra il 2015 e il 2020, a un milione di barili al giorno. Ma è boom pure in Perù, con un aumento della produzione dell’8,6 per cento nell’ultimo anno. E va bene pure per la Colombia, dove si sono recate molte società scappate dal Venezuela, al punto che malgrado gli screzi tra i due governi la Pdvsa si è messa a comprare gas colombiano, per venire incontro alle difficoltà di approvigionamento. Invece di rifornire tutto il Sudamerica con il tanto strombazzato Gasdotto del Sud in questo momento è Chavez che si vede costretto a comprare. Mentre precipita la centralità stragegica su cui aveva costruito la sua rendita di posizione politica.

Una crescita nel 2007 del 45,4 per cento rispetto all’esercizio precedente per il ”Cavallino rampante”. In aumento il fatturato che passa dai 1.447 milioni di euro del 2006 ai 1.668 milioni di euro del 2007, con una variazione positiva pari al 15,3 per cento, grazie soprattutto ai risultati dei modelli F430 e 599 GTB Fiorano. I dati sono stati esaminati ieri dal Cda presieduto da Luca di Montezemolo.

I 175 anni della Toro assicurazioni La Toro assicurazioni compie 175 anni. Risale, infatti, al 5 gennaio 1833 la nascita, a Torino, della Compagnia Anonima di Assicurazioni contro i danni sugli incendi. È la prima Società Assicurativa per Azioni del Regno di Sardegna. A volerla sono autorevoli personaggi di Casa Sabauda, come Felice Nigra e Giovan Battista Barbaroux, primi presidenti e Michele Benso di Cavour, padre di Camillo. L’evento è stato festeggiato al Palavela di Torino con le stelle del pattinaggio su ghiaccio: Carolina Kostner, vincitrice della medaglia d’oro ai Campionati Europei di Zagabria solo pochi giorni fa, Evgeni Plushenko, Barbara Fusar Poli e Maurizio Margaglio.

Finmeccanica ottimista su Airbus «Su Airbus possiamo scegliere - ha detto il direttore generale di Finmeccanica, Giorgio Zappa - il negoziato su Airbus dovrebbe chiudersi in un mesetto». Quanto alla possibilità che Finmeccanica possa rilevare una quota di circa il 4 per cento nella società controllata da Eads, «sono cauto - ha precisato Zappa - perché loro stanno rivedendo parte del progetto. Il discorso è in relazione alle scelte che loro faranno e ai nostri interessi».

Scarso rispetto del denaro pubblico Il procuratore regionale della Corte dei Conti sezione giurisdizionale per la Regione Lazio, Luigi Mario Ribaudo, nella sua relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2008 è stato molto duro nei confronti della Pubblica amministrazione. «Lo scarso rispetto del pubblico denaro - ha detto Ribaudo - è il vero e proprio spreco, che spesso ottiene ampia eco negli organi di stampa».


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cultura

L’Heidegger illeggibile e quello da leggere. A proposito dell’ultima pubblicazione di Adelphi

Il primo degli “atei devoti” di Giancristiano Desiderio veva ragione a secchiate Lucio Colletti quando criticava Heidegger per la sua mania di atteggiarsi a gran sacerdote dell’essere che, con la scusa di non disporre di un linguaggio adeguato per dire ciò che voleva dire e meritava di esser detto, creò tutta una lingua particolare che ben presto sfociò nel mistero, nell’enigma, nell’esoterico. E aveva ancor più ragione quel finto burbero di Colletti nel prendersela con gli heideggeriani che, come tanti pappagalli, ripetevano (e c’è chi lo fa tuttora) fino alla noia il verbo del filosofo di Essere e tempo. Le cose più crude e schiette Colletti le disse in un volumetto che recava un titolo addirittura heiedeggeriano: Fine della filosofia (salvo poi che per “fine” Colletti intendesse un qualcosa di molto diverso da Heidegger).

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Ma chissà cosa avrebbe detto Colletti se avesse potuto leggere di Heidegger questi Contributi alla filosofia che ora Adelphi ha mandato in libreria. Se è enigmatico il “primo” Heidegger - quello che da Essere e tempo giunge alla Kehre,“svolta” - cosa dire non solo del “secondo” Heidegger, ma del “terzo” Heidegger, ossia questo finora non noto, non tradotto e,

tuttavia, già leggendario proprio per questa sua opacità, quasi fosse una sorta di Mina della filosofia?

U na v ol ta N or be rt o B obbi o liquidò così Giovanni Gentile: “Illeggibile”. Ecco: quest’ultimo “contributo” heideggeriano è semplicemente illeggibile. Cinquecento pagine in cui si legge e rilegge e non si sa cosa si stia realmente leggendo. Scritta tra il 1936 e il 1938 quest’opera dovette servire soprattutto ad Hei-

all’infinito cose già dette solo qualche pagina addietro) hanno un senso didascalico.

Quasi come se il libro fosse stato nell’intenzione di Heidegger quello di essere una sorta di dizionario o guida al suo pensiero. Insomma, è Heidegger che ragiona con se stesso e cerca di capire “ciò che è vivo e ciò che è morto”di Essere e tempo, ciò che va fatto cadere e ciò che va proseguito. Ma da qui a vedere in quest’opera un “vero

magnus opus” (O. Poggeler) o una “seconda opera capitale”(F. W. Von Herrmann) o, come disse tempo fa Massimo Cacciari, credere di capire il vero Heidegger “solo quando si tradurranno i Contributi alla filosofia” è un’esagerazione più che un giudizio meditato. E per un motivo abbastanza semplice: perché non si rende un buon servigio alla stesso Heidegger. Lo ha detto proprio Heidegger in una frase che suona più o meno così: “Ogni filosofo pensa

In Contributi alla filosofia, finora non tradotto, il pensiero del filosofo diventa ancora più enigmatico rispetto alle precedenti opere degger per fare “chiarezza”in se stesso (nel 1933 ci fu la sua adesione al nazionalsocialismo e subito dopo la sua “uscita di sicurezza” dal regime hitleriano). Non c’è dubbio: Heidegger aveva bisogno di luce. Le pagine che scrive, che butta giù una dopo l’altra passando in rassegna con un tratto di penna secoli e secoli di “storia del pensiero” e di “storia dell’essere”, gli dovettero servire soprattutto per avere una sua “guida universitaria”: insomma, appunti per le lezioni. E non c’è dubbio che se lette in quest’ottica le cinquecento pagine dei Contributi (molte delle quali ripetono

Nella foto grande, la copertina del libro di Lucia Floris: Lo specchio magico. Il tema della parola nel pensiero di Martin Heidegger

un solo pensiero e un giorno quel pensiero si fermerà in cielo come una stella”(più o meno è così, vado a memoria). Vale anche e soprattutto per Martin pensatore: su per giù dal 1927 in poi ha pensato sempre la stessa cosa, sia pure in forme e modi diversi. Così la vera grande opera di Heidegger, quella da leggere, quella che ha inciso nella stessa storia della filosofia del Novecento, è Essere e tempo. Il fatto stesso che sia un’opera “non finita”, e non finita per sopraggiunti limiti di linguaggio e pensiero, la rende grande: il “secondo” e “terzo” Heidegger lavoreranno proprio

in quel non-detto di Essere e tempo. Cercheranno di dire ciò che il “primo” Heidegger non disse. A conti fatti sembra quasi un’ “astuzia della ragione” heideggeriana: in quel modo Heidegger è riuscito a campare di rendita. Il titolo scelto da Heidegger (Contributi alla filosofia) è il titolo per il pubblico. Il titolo “essenziale”, invece, è Dall’evento. In questo senso non è vero che Heidegger cerca di dire ciò che non ha detto: che cerca di dire l’essere. È vero il contrario: ciò che dice lo ha sempre detto: l’essere è evento, ossia tempo, accadimento, storia. È ciò che la filosofia dice da Hegel in poi e che Heidegger ha cercato di approfondire in tutti modi, ma coltivando l’illusione di uscire dal tempo. In fondo, Heidegger è il primo degli “atei devoti”: la sua differenza tra “padrone dell’ente” e pastore dell’essere” esprime la consapevolezza che la razionalità ci illude di essere autonomi, proprio quando avremmo bisogno di un po’ di naturalezza. La celebre intervista uscita postuma, quella in cui si dice che “solo un dio ormai ci può salvare”, è la coscienza di un filosofo che ha conosciuto il male totalitario e sa che quel male è anche frutto di un pensiero che inseguendo la razionalità ha perso di vista la spontaneità.


spettacoli

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A sinistra Scarlett Johansson; in basso Tom Waits

La Johansson per il suo disco sceglie il meglio del cantautore culto americano

Scarlett canta Tom Waits e tradisce Woody di Alfredo Marziano ssere una star da tappeto rosso evidentemente non le basta. Ora Scarlett Johansson si scopre anche cantante: a maggio pubblica il suo primo disco, una raccolta di canzoni di Tom Waits (più un inedito) intitolata Anywhere I Lay My Head. Di primo acchito, viene da chiedersi chi glielo faccia fare. Lo straordinario cantautoreorco di Pomona, California, è un intoccabile ed è facile immaginare critici e fan pronti a far polpette della biondissima diva prediletta da Woody Allen. La musica di Waits, si sa, ha una succosissima polpa melodica, ben nascosta però sotto una scorza dura e rugosa, spinosa e bitorzoluta. Ci vuole un interprete scafato e con le spalle larghe, insomma, e Scarlett, con la sua pelle diafana e il faccino sexy-adolescenziale, non sembrerebbe proprio avere il phisique du rôle. Le prime scarne notizie in arrivo dalla Louisiana, dove la giovane star del cinema ha registrato il suo album, solleticano tuttavia curiosità, ed è meglio non fermarsi alle apparenze. Tanto per cominciare, Scarlett non è una neofita assoluta: la si è vista sui set di video come What Goes Around…/…Comes Around… di Justin Timberlake e When The Deal Goes Down, al servizio addirittura di sua maestà Bob Dylan, ma anche a fianco di will.i.am dei Black Eyed Peas per un clip musicale, Yes We Can, girato a sostegno di Barack Obama; e l’aprile scorso è salita sul palco con i Jesus And Mary Chain, gruppo culto della new wave anni Ottanta che si ascolta sui titoli di coda di uno dei suoi film più apprezzati, Lost In Translation.

E

piace troppo» ha confessato, quasi giustificandosi), si è presa tutto il tempo necessario tra una ripresa e l’altra, circondandosi di giovani di belle speranze ben sintonizzati con i tempi che corrono, Dave Sitek della indie band newyorkese Tv On The Radio nel ruolo di produttore, Nick Zinner degli Yeah Yeah Yeahs come chitarrista. Chissà allora che il suo non sia un rischio ben calcolato: finora, a ben pensarci, di mosse ne ha sbagliate poche (forse solo il film d’azione The Island).

Originale e avventurosa, nel suo caso, è la scelta del repertorio, non l’idea di mettere il piede a mollo nel mare della musica che prima di lei ha stuzzicato colleghi e colleghe. Marlene Dietrich in cilindro e reggicalze sul palco dell’Angelo azzurro, Marilyn che sussurra Diamonds Are A Girl’s Best Friends, Brigitte Bardot a cavalcioni della sua Harley Davidson creatagli su misura da Serge Gainsbourg, le irriverenti canzonette dei comici inglesi Monty Python… Nel 1987 Bruce Willis ottenne un discreto successo con un album di rhythm & blues intitolato The Return Of Bruno, e oggi il mondo del pop sembra intrecciarsi con Hollywood come mai era accaduto in passato. Prima Keanu Reeves con i Dogstar e Johnny Depp con i P, poi Russell Crowe con i 30 Odd Foot Of Grunts si sono scaldati i muscoli a suon di chitarre elettriche e rock’n’roll, mentre Vincent Gallo di Arizona Dream e Buffalo ‘66 s’è inventato anni fa un disco intrigante intessuto di elettronica e minimalismo, e il poliedrico Billy Bob Thornton è un cantautore credibile quanto e più di altri.

Dopo Bruce Willis, Keanu Reeves, Johnny Depp, Russel Crowe e Nicole Kidman si allunga l’elenco delle star di Hollywood prestate al rock

Soprattutto, ha già mostrato di cavarsela bene quando, due anni fa per una compilation a scopo benefico, ha inciso una versione del superclassico Summertime sfoggiando una voce morbida, sensuale e ben impostata, molto anni Quaranta come la femme fatale da lei interpretata nel Black Dahlia di Brian De Palma. Per confezionare il suo personale omaggio a Tom Waits («mi

Ma anche le ragazze non sono da meno, quanto ad ambizioni musicali: nei rock club italiani abbiamo visto di-

menarsi qualche anno fa la ninfetta maudit Juliette Lewis, che qualcuno ricorderà invasata sul palco in una memorabile sequenza dello Strange Days di Kathryn Bigelow. Ci ha provato anche la brunetta e riccioluta Minnie Driver, con un paio di album «cantautorali» ignorati dal grande pubblico ma piuttosto apprezzati dalla critica, mentre per Lindsay Lohan, l’irrequieta scoperta del boss discografico Tommy Mottola (l’ex beau di Mariah Carey), il passo dal grande schermo allo studio di registrazione è stato naturale (e viceversa: fa una discreta figura in Radio America,

canto del cigno di Robert Altman dedicato alla vera storia di un leggendario programma radiofonico country americano). A nessuno è andata bene come a Nicole Kidman che in coppia ben assortita con Robbie Williams ha riportato in testa alle classifiche inglesi la leggerezza spiritosa della sinatriana Something Stupid. E così Scarlett non è certo la prima a convincersi di poter tenere il piede in due scarpe. In fondo glielo ricorda sempre lo zio Woody che ogni lunedì sera, cascasse il mondo, si presenta al Carlyle Hotel di Mahattan per soffiare nel suo amato clarinetto.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog LA DOMANDA DEL GIORNO

Primarie Usa, più facile battere Hillary o Obama? Non c’è dubbio, l’impresa sarà più ardua contro l’astro nascente Barack Obama Ammesso e non concesso che nelle prossime elezioni presidenziali Usa i repubblicani siano davvero competitivi, per essi sarà più facile battere l’astro nascente Barack Obama o la stagionata Hillary Clinton? A mio parere non c’è dubbio che l’impresa sarà molto più ardua contro Obama. Intanto perché molto più giovane, e pertanto può a buon diritto presentarsi come il nuovo che avanza, e poi perché l’afro-americano può contare sull’apporto della numerosa e compatta colonia nera. Infine diciamola tutta, è pure molto più simpatico del vecchio reduce dal Vietnam, sia dell’algida Hillary.

Carlo Sanna – Cagliari

Spero vinca Mc Cain, ma il confronto con Hillary sarebbe senz’altro durissimo A fine anno avremo il nuovo Presidente Usa, è un fatto di importanza mondiale e lo sappiamo tutti. Ricordiamo che gli Usa sono impegnati in una guerra che, volenti o nolenti, riguarda il mondo intero e il suo futuro assetto. Ma chi sarà il nuovo Presidente? Sono convinto che il candidato repubblicano - ormai certamente John McCain - sarebbe quello più giusto per proseguire la politica estera di Bush, tanto vituperata, ma che la storia giudicherà positivamente. Però per Mc Cain sarà dura vincere. Soprattutto se sarà, come io credo, la Clinton l’avversaria da battere. Le forti lobbies americane sono per lo più dalla parte di Hillary e questa può inoltre contare sulle donne che, lo sappiamo, costituiscono una lobby particolarmente compatta, quella della ”rivalsa”femminile. Che sia una donna a guidare gli Usa sarebbe una novità grande, ma certamente non deplorevole.

Giulio de Angelis - Roma

La vittoria dell’afroamericano metterebbe in grande difficoltà McCain e mister Bush La vittoria di Obama deve far molta paura ai repubblicani. La signora Clinton ha un appeal molto meno rivoluzionario del nero che vorrebbe scardinare il razzismo strisciante degli Stati Uniti del terzo millennio. C’è solo da sperare che Obama vinca le primarie e poi metta veramente in difficoltà McCain e mister Bush. Gli Usa, per iniziare veramente un nuovo corso, comincino dall’ammissione dei propri errori per poi tornare ad essere un punto di riferimento per l’occidente.

Tommaso Renzi - Firenze

I repubblicani devono ricostruirsi una credibilità dopo la politica di Bush Se la Clinton riuscirà a battere Obama saranno problemi veri per I repubblicani. Gli Stati Uniti hanno gravi problemi interni e gli americani non ne possono più di vedere morire I loro caduti in Iraq. I repubblicani devono ricostruirsi una credibilità dopo la politica dissennata di George W. Bush. Non sarà semplice, soprattutto con una donna così forte in competizione.

Amedeo Amedei - Ancona

McCain deve portare a una nuova rivoluzione liberale Il mondo, e ancor più gli americani, non sono ancora pronti né per avere come presidente e ”uomo”più potente del pianeta una donna, Hillary Clinton, né tanto meno uno che porta nel nome le origini musulmane, Barack Obama. John McCain deve parlare sempre più degli ideali che portarono Reagan alla Casa Bianca: una nuova, vera e autentica rivoluzione liberale.

Alberto Moioli - Milano

LA DOMANDA DI DOMANI

Chi dovrà essere il prossimo ministro dell’Economia?

Veltroni non sarebbe troppo diverso da Prodi Veltroni loda i successi di Prodi. Ammesso che lui debba necessariamente non smentirlo per appartenenza alla stessa scuderia, che cosa ha fatto davvero Prodi? Oltre ai danni per quello che ha fatto lui stesso, ci sono i danni per aver distrutto cose fatte dal precedente governo Berlusconi: scalone cancellato, riforma della giustizia cancellata, stretto di Messina ed altre opere bloccate, legge Bossi-Fini stravolta. Non credo che Veltroni sarebbe in grado di fare cose diverse!

zione la condanna a 2 anni e 2 mesi di reclusione, più le pene accessorie e il risarcimento dei danni morali a una sua tirocinante, per averle “accarezzato i capelli, messo le mani sotto la maglietta, toccato la schiena e l’incavo delle ascelle”. La pena – e altre analoghe per casi simili – possono sembrare eccessive, data l’assenza di lesioni. La sessuofobia sembra diffusa fra la popolazione e può vedere sesso anche dove non c’è. Le pene devono essere esemplari, severe e massime per i reati gravi (stupri, ferimenti, assassini).

L’alto e difficile compito del magistrato La nostra vita è regolata dal diritto e non dalla barbarie, soprattutto per l’indipendenza e l’autonomia della Magistratura, alla quale va il pieno rispetto e l’assoluta gratitudine del cittadino onesto. A differenza degli altri cittadini, il giudice risponde solo a un organo del suo stesso ordine: il Consiglio Superiore della Magistratura. Nell’ambito dell’obbligatorietà dell’azione penale, corrispondono al pubblico ministero una relativa discrezionalità e la scelta sulla priorità delle inchieste, dati i troppi casi esistenti d’ipotesi di reato. I giudici sono soggetti soltanto alla legge, che talvolta è poco chiara e combinata con un eccesso d’altre norme giuridiche, per cui spetta al giudice interpretarla, a sua discrezione. Decisioni di magistrati influiscono indirettamente sulla politica: anche per effetto di “Mani pulite”, è scomparso il pentapartito; pure a causa dell’indagine su Mastella e dell’arresto della moglie, è caduto il governo Prodi. Alcune sentenze possono sorprendere il profano. Un giovane, violando il codice stradale, ha investito e ucciso quattro ragazzi: è stato condannato a circa 5 anni complessivi. Tale pena può apparire troppo mite. Al contrario, un ragioniere ha avuto confermata dalla Cassa-

La differenza tra Pd e Pdl è la L di libertà Non ci dimentichiamo che sensazione di ”dittatura stalinista”ci ha dato il governo Prodi impossesandosi dei posti di potere ovunque: banche, coperative, Rai, Guardia di finanza, magistratura. Il Partito democratico (Pd) si differenzia dal Popolo della libertà (Pdl) solo da una L, ma gli italiani devono capire che quella L vuol dire libertà!

Stefania Boni - Parma

Gianfranco Nìbale

Antonio Lo Monaco - Lecce

Spero che liberal sia una fucina di idee riformiste E’finalmente comparso nelle edicole ciò che ho sempre sognato: un giornale liberale e riformista che può far rivivere quella fucina di idee del socialismo democratico, liberale e riformista di craxiana memoria. Sono convinto che tanti, tanti lo aspettavano. Complimenti per l’idea. Buon lavoro e auguri per mille numeri.

Amedeo Ceniccola ex sindaco di Guardia Sanframondi

dai circoli liberal

Rispondete con una email a lettere@liberal.it

TAV IN VAL DI SUSA, PER UN NUOVO APPROCCIO In questi giorni nella Valle di Susa è finalmente emersa la consapevolezza (oppure è scaturito il coraggio di dichiararlo pubblicamente, superando le prevaricazioni) che la TAV risponde non solo all’interesse nazionale, ma anche all’interesse locale. Da parte di molti si percepisce infatti che la nuova linea ferroviaria significa lavoro e sviluppo per il futuro. Così come – forse un po’ amaramente – si avverte di essere stati pressoché strumentalizzati sino ad oggi. A ben vedere, nella popolazione il rifiuto per la TAV trae soprattutto origine dalla ben diversa paura (più o meno inconscia, ma ragionevole) di essere “tagliati fuori” da un treno che salterebbe in sostanza la Valle, utilizzandone il territorio solo per il transito in galleria. Atavica paura, la stessa che in passato ritardò per vari anni la costruzione dell’autostrada di

collegamento al traforo del Frejus. Se tutto ciò è vero, è allora forse il momento per definire il progetto finale della linea TAV ragionando sì in termini di tracciato, ma ideando nel contempo una concreta risposta (sino ad ora mai prospettata) per detta reale esigenza della popolazione. Perché, quale doverosa compensazione, nella Valle non potrebbe essere realizzata una stazione (ad esempio dove pare la linea nuova dovrebbe affiancarsi a quella vecchia, tra Avigliana e Borgone), cui lo Stato si impegni a garantire: obbligo di fermata per i treni passeggeri ad alta velocità che transitano nonché collegamenti giornalieri – frequenti e diretti – anche con Milano e gli aeroporti di Caselle e Malpensa? Ancora, perché non pensare anche a raccordare la nuova ipotetica stazione con la linea storica, quest’ultima trasformata però in un servizio a carattere metropolitano, sull’esempio della RER francese?

E’ difficile negare che la realizzazione di una simile infrastruttura non porterebbe ricchezza ed opportunità per l’intera Valle nonché un forte incremento di tutti i valori immobiliari (e non solo dei capannoni che sempre più affollano proprio la bassa Valle con poco pregio ambientale). Ermenegildo Mario Appiano

CLUB LIBERAL TORINO

APPUNTAMENTI ROMA - VENERDÌ 22 FEBBRAIO 2008 Ore 11, presso l’Università Gregoriana, in piazza della Pilotta 4 Riunione mensile nazionale di tutti i Presidenti dei Circoli Liberal.


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog grande con le spalle coperte: troppo comodo! Appena è stato toccato, si è mobilitata la grande armata: quanti giornalisti hanno perso il posto e si sono trovati un altro lavoro? Certo si dirà, non valgono Santoro! E’vero, sono diversi! Votare la sinistra vuol dire avallare il comportamento e le protezioni di cui gode Santoro. Un altro motivo per essere decisamente contro.

”La favella è compagna di nostra vita” Trasportare da una ad altra favella le opere eccellenti dell’umano ingegno è il maggior benefizio che far si possa alle lettere; perché sono sì poche le opere perfette, che se ciascuna delle nazioni moderne volesse appagarsi delle ricchezze sue proprie, sarebbe ognor povera. I dotti e anche i poeti, in quella età che gli studi risorsero, pensarono a scriver tutti in una medesima lingua, cioè latino, perché non volevano che ad essere intesi lor bisognasse di venire tradotti. I poeti non uscivano dalle parole né dalle dizioni de’ classici: e l’Italia, udendo tuttavia sulle rive del Tevere e dell’Arno la favella de’Romani, ebbe scrittori che furono stimati vicini allo stile di Virgilio e di Orazio, come il Poliziano, il Sannazaro. E questi poeti di rinnovata latinità furono rifatti italiani dai lor concittadini: perocché è opera di natura che la favella, compagna e parte continua di nostra vita, sia anteposta a quella che da’libri s’impara, e si trova solamente ne’libri. Madame de Staël articolo apparso su Biblioteca Italiana (1816)

Se a noi giovani non è concesso lavorare Sono una giornalista di trent’anni. Come molti in Italia, anche io ho patito il dramma, tutto giovanile, del precariato e del co.co.co. Con altri giovani colleghi ho provato qualche mese fa a mettere in piedi un’impresa editoriale che potesse svilupparsi più o meno rapidamente, e rappresentare in qualche modo uno strumento per crescere e imparare il giornalismo. Nonostante il tempo, gli sforzi e l’impegno impiegati, ancora oggi non è stato possibile per noi affermarci come avremmo voluto. Purtroppo, in Italia, metter su un’impresa è davvero difficile (nel campo saturo e bloccato dell’editoria poi non ne parliamo proprio). La burocrazia è ancora molto lontana dall’esser snella e accessibile, e le normative che dovrebbero regolamentare (e facilitare) lo sviluppo delle attività spesso non sono così chiare come invece dovrebbero. Pare proprio che noi giovani dovremo aspettare davvero molto prima di riuscire a ritagliarci una nicchia accettabile. Non abbiamo soldi per andare a vivere da soli? Il ministro Padoa-Schioppa dovrebbe fermarsi e farsi un giro

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)

Lettera firmata

nella ”generazione giovani d’oggi” prima di tacciarci come dei bamboccioni. Cordialità.

Lidia Negri - Milano

Santoro, un giornalista con le spalle sempre coperte Continuo ad ascoltare la trasmissione di Santoro e continuo a domandarmi perché i politici di centrodestra accettano di parteciparvi. E’ obbligatorio? Certo, si riceve l’invito, ma due sono le cose: una, si mette in piedi una trasmissione simile aprendo polemiche e contestazioni ai passaggi di Santoro, ma in onda in giorno dopo e ribattendo punto su punto, condita con idee che attirino gli spettatori; due, non si va da Santoro, tanto tutti sanno la sua faziosità. Questo giornalista si fa

Il centrodestra si presenti compatto o saranno guai Credo che se Casini non si deciderà ad appoggiare Berlusconi nella sua nuova impresa, potrebbero esserci dei seri problemi. L’Italia ha bisogno del centrodestra e ne ha bisogno come mai prima d’ora. Il governo Prodi ha lasciato tutti a terra, non possiamo rischiare che torni al potere e permettere che finisca di distruggere l’economia e la credibilità del nostro Paese. Spero che tutto il centrodestra si presenti compatto: Popolo della libertà, Udc e tutti gli altri federati della scorsa Cdl.

Alessandra Manzini Pescara

PUNTURE Evoluzione del bipolarismo in bipartitismo all’italiana. Pannella: “Vengo anch’io”; Veltroni: “No, tu no”. Pannella: “Ma perché?”. Veltroni: “Perché no”. Casini: “Vengo anch’io”. Berlusconi: “No, tu no”. Casini: “Ma perché?”. Berlusconi: “Perché no”.

Giancristiano Desiderio

Era una ragazza del giorno d’oggi, cioè, pressappoco, un giovanotto del giorno d’ieri PAUL MORAND

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,

Giancristiano Desiderio, Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

il meglio di IL 10 FEBBRAIO DI WALTER 10 Febbraio 2008, Spello, Umbria, Italia, Europa, Mondo. Dal particolare all’universale. Un occhio al borgo italico medioevale e l’altro a Obama e al grande sogno americano. Commistione di sensazioni, viaggio nel tempo, divagazione tra spazio e emozione. Il ”discorso per l’Italia” di Walter Veltroni ha toccato anche le nostre corde, quelle più logorate dalle urla della politica che divide e non unisce; e le ha fatte vibrare dicendo poco o nulla ma dicendolo talmente bene da farlo sembrare tanto o tutto. Una domenica bella, solare con lo sfondo scenografico di un paesino arroccato su una verde collina, teso verso il cielo come il futuro. Eppoi quel vento che soffiava e scapigliava e scompigliava e dava un’idea di aria nuova, fresca, pulita. Una domenica importante, ”una domenica italiana” da ricordare. Una domenica serenamente e pacatamente patriottica, ma anche mistica. Vittorio Taviani lo ha paragonato a San Francesco, santo e guerriero, fede e determinazione; e di fronte ad un paragone del genere le provocazioni di Oliviero Toscani non ci toccano: “…mi metto il colletto su o giù? Mi metto a parlare sull’erba o vado nell’eremo? Neanche fosse Gesù Cristo”. Gesù Cristo ancora no. Ma non è detta l’ultima parola: perché ”uno che vuole passare per nuovo ma dice le stesse cose con la stessa faccia da 30 anni”, non va disprezzato con il solito qualunquismo, perché vuol dire che porta con sé un messaggio universale. La location di Spello era az-

Società Editrice Edizione de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Lagrotta Amministratore delegato: Gennaro Moccia Consiglio di aministrazione: Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Angelo Maria Sanza Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: Gaia Marcorelli Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento) Poligrafico Europa s.r.l. Paderno Dugnano (Milano) Editorial s.r.l. Medicina (Bologna) E.TI.S. 2000 VIII strada Zona industriale • Catania

zeccatissima, se solo avessero indovinato le inquadrature. Forse qualche cipresso di troppo ma anche questo è un segno della storia perché se ”dobbiamo capire bene dove il mare della storia ci sta portando”, il passaggio dalla quercia al cipresso ce lo indica molto bene: la sinistra trapassa e la svolta arborea è ancora più netta di quella politica. (…) 10 febbraio, era anche la giornata del ricordo. Veltroni non se ne è ricordato. Ci saremmo aspettati almeno un passaggio, una breve citazione, anche solo una piccola emozione buttata tra una riga e l’altra di un discorso fumoso; magari là dove ha parlato del “silenzio dei deportati” e “dei tanti giusti che seppero aprire la porta a chi cercava aiuto”. Ricordando quella parte d’Italia che la porta non l’aprì ai nostri fratelli perseguitati e cacciati dalle terre di Istria e di Dalmazia, relegandoli anche fuori dalla propria coscienza. Ed anche la città che lui governa e che ospita una delle più grandi comunità di esuli giuliano-dalamti, ha negato anche un piccolo gesto istituzionale di riconciliazione. Il 10 febbraio di Veltroni è stata un’occasione perduta, una distrazione colpevole. Ed ora, ripensandoci, a vederlo lì, tra un tricolore ammainato e un cipresso, il leader di questa nuova sinistra che non ha ”paura del nuovo perché il futuro è l’unico tempo in cui possiamo andare”, non da’ neanche una grande idea di novità, di coraggio, di speranza. Ma molta, troppa mestizia...

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