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e di h c a n o cr
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di Ferdinando Adornato
Pechino, 8 agosto 2008
NO! Oggi il supplemento
MOBY DICK SEDICI PAGINE DI ARTI E CULTURA
SABATO 29
MARZO
il caso
Boicottare le Olimpiadi sarebbe un errore. Ma disertare la cerimonia d’apertura in difesa dei diritti umani è doveroso. Sarkozy, Klaus e la Merkel non ci andranno. E l’Italia?
Creato I torti della ragione
polemiche
IL FILM DI PAOLO VIRZÌ. LA VERA BUFALA L’ITALIA DEI PRECARI È LO SCIOVINISMO TRA FICTION E REALTÀ FRANCESE Natale Forlani, Francesco Ruggeri e un’intervista al regista
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Gennaro Malgieri
2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •
NUMERO
57 •
Franco Cardini, Fabio Melelli Riccardo Paradisi, Giovanni Reale, Stefano Zecchi
WWW.LIBERAL.IT
da pagina 12 • CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
ARRIVEDERCI A MARTEDÌ Come altri quotidiani anche liberal non esce la domenica e il lunedì. L’appuntamento con i lettori è dunque per martedì 1 aprile
19.30
pagina 2 • 29 marzo 2008
pechino
no
Disertare la cerimonia inaugurale significa non avallare l’autocelebrazione del regime
Un piccolo gesto di grande valore di Renzo Foa o bene che i posti lasciati liberi nella tribuna d’onore allo stadio Nido d’uccello di Pechino saranno riempiti da altri ospiti o, se non se ne troveranno a sufficienza, da comparse. Ma sarebbe importante per il mondo se, l’8 agosto prossimo, i capi di Stato e di governo delle democrazie occidentali non sedessero accanto ai «grandi mandarini» del regime nazional-comunista cinese. Cioè se con il piccolo gesto della loro assenza inviassero un grande e forte segnale politico che consiste nel riaffermare un concetto molto semplice: svolgete pure le Olimpiadi, che tanto non sono solo vostre, ma appartengono un po’a tutti, però noi non veniamo perché rappresentiamo un mondo che si preoccupa dei diritti dell’uomo, quindi del Tibet, quindi della libertà individuale, quindi dei diritti civili; per questo non saremo lì, in quello che è il momento più importante della vostra autocelebrazione, seguito da miliardi di persone in diretta televisiva.
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So bene che George W. Bush ha già detto e ripetuto che lui ci andrà. Che non intende rimangiarsi un impegno già preso, nel contesto di un intenso e complicato rapporto tra due delle maggiori potenze globali. E che è della stessa opinione il premier britannico Gordon Brown. Si tratta – e questo è il paradosso – dei rappresentanti di due Stati che dal 2001 si sono mossi insieme, di concerto, per intervenire prima in Afghanistan e poi in Irak, rovesciando regimi tirannici e nel nome della tanto criticata «esportazione della democrazia». La loro presenza avrebbe dovuto quindi suonare come un lasciapassare per tutti. Invece, è difficile non pensare al gesto di Nicolas Sarkozy. Che ha una gran voglia di essere assente, che spera di riuscire a non andare a Pechino, anche se in quei giorni, come presidente di turno dell’Unione europea, dovrà uniformarsi all’opinione della maggioranza dei suoi partners. I quali hanno però già cominciato a dire la loro, a cominciare dal cancelliere tedesco Angela Merkel, la quale non ci sarà, pur con una giustificazione pubblica dai toni molto diplomatici. E a cominciare anche dai presidenti ceco e polacco, i quali rappresentano Paesi che hanno conosciuto fino a vent’anni fa il totalitarismo e la violazione dei diritti umani e che, per questo, sono più decisi e sicuri. Insomma, ci sono pezzi importanti d’Europa che hanno saputo già scegliere. Che sono capaci di assumere la responsabilità di un gesto. Un gesto che equivale a infrangere il tabù: non disturbare il gigante economico e finanziario del mondo globalizzato. E l’Italia? È nel pieno di una brutta campagna elettorale, da cui sono assenti il mondo e la sua complessità. Non sa neanche con certezza chi, fra cinque mesi, sarà presidente del Consiglio. Dovrebbe essere Silvio Berlusconi, stando a tutti i sondaggi e a tutte le previsioni, Berlusconi che tra il 2001 e il 2006 da presidente del Consiglio non si è tirato indietro rispetto a scelte di politica internazionale scomode e di rottura. Ma nella competizione sono impegnate altre figure,
Angela Merkel e Nicolas Sarkozy. Entrambi non vogliono esssere a Pechino l’8 agosto
Chiediamo al prossimo premier di non andare a Pechino e boicottare le Olimpiadi di Pechino suonerebbe come un non senso, cresce nel mondo la consapevolezza di dover inviare al governo cinese un forte segnale politico contro la repressione in Tibet e contro la violazione dei diritti umani. Di questa consapevolezza fanno fede le ultime considerazioni di Nicolas Sarkozy, di Angela Merkel, di Vaclav Klaus e di numerosi altri leader europei. Chiediamo che anche il prossimo presidente del Consiglio italiano non partecipi alla cerimonia inaugurale dei Giochi.
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Gianni Baget Bozzo, Aldo Forbice, Mauro Mazza, Mario Pirani, Carlo Ripa di Meana, Massimo Teodori in particolare Walter Veltroni che, in questi anni, da sindaco di Roma e prima da leader dei Ds, non ha trascurato di farsi carico di proporre il tema dei diritti dell’uomo. Sarebbe utile se questi e tutti gli altri candidati di-
Un atto di responsabilità politica significa saper scegliere tra i repressori ed i repressi cessero esplicitamente all’elettorato cosa intendono fare l’8 agosto. Cosa intendono scrivere sull’agenda. Se decideranno di andare lo stesso a Pechino o se, al contrario, preferiranno con la loro assenza dire ai cinesi che il rispetto delle Olimpiadi non equivale ad una solidarietà politica. Sarebbe utile per sapere che idea hanno concretamente del mondo e del contributo che l’Italia de-
ve dare. Perché non bastano le buone intenzioni. Ci sono scelte da fare. So anche che questa non è una scelta facile per nessuno. Maneggiare la Cina è complicatissimo, soprattutto per un Paese il cui sistema economico e sociale fatica a fare i conti con la complessità del mondo globalizzato. Maneggiare la Cina significa misurarsi con un impetuoso sviluppo economico in condizioni di mancanza di libertà. Con tutto ciò che ne consegue, a cominciare dall’inattesa smentita alle visioni e alle interpretazioni culturali dell’ultimo secolo e finendo con tutti i rischi di complicare un rapporto bilaterale a cui non si può rinunciare. Ma quel che si chiede, una volta tanto, è di compiere un gesto politico responsabile. E responsabilità non significa realismo, cioè accettare sempre e comunque lo status quo. Responsabilità significa in primo luogo scegliere tra i repressori e i repressi. Dire aper-
tamente da che parte si sta. Ieri proprie dalle pagine di liberal, Aldo Forbice ha scritto che «si può boicottare Pechino», che lo si può fare nell’unica forma possibile, appunto quella dell’assenza dalla cerimonia inaugurale, il cui significato è essenzialmente politico. È una strada percorribile anche dall’Italia, visto che è stata aperta da Sarkozy. In discussione, in questo caso, non è la partecipazione ad un intervento militare, cioè le grandi scelte su cui si sono divise la società e la politica italiana, quando si parla di Afghanistan, di Irak, di Kosovo, di Israele e dei palestinesi. Non si tratta del vecchio e semplice schema pace-guerra. Si tratta semplicemente di non partecipare ad una passerella di regime, da cui risulterebbe che si è più vicini al regime nazional-comunista di quanto non lo si sia con le sue vittime. Non vorrei vedere in televisione, il presidente del Consiglio seduto sulla sua poltroncina nella tribuna d’onore del Nido d’uccello, accanto ai «mandarini» nazionalcomunisti, applaudendo non uno spettacolo qualsiasi, ma l’inno ad un regime che con i tibetani rifiuta anche la sola idea di aprire un dialogo. Del resto proprio le cerimonie inaugurali dei Giochi olimpici sono ormai da anni solo un grande e spettacolare momento celebrativo del Paese organizzatore, della sua forza e della sua grandezza. L’8 agosto prossimo sarà appunto il momento celebrativo della «gloria» della Cina. La gloria di una fase di ricchezza e di sviluppo, che sta migliorando il mondo, ma anche di un’inaccettabile violazione dei diritti umani e di un’altrettanto inaccettabile repressione in Tibet, che sta invece mostrando il volto peggiore del mondo. A questo appuntamento bisogna mancare. Poi che è giusto che la festa continui, nei giorni delle gare, delle competizioni, delle sfide tra gli atleti dei cinque continenti. Che sono, di norma, anche i giorni di un altro grande incontro, con migliaia di giornalisti e di turisti stranieri in giro per le città. I giorni di quella che si può definire una «contaminazione» tra stili di vita e culture diverse. I giorni in cui società, governate in modo autoritario, hanno l’occasione di essere un po’ più libere.
Che ci fosse questo grande problema lo si sapeva fin dal momento dell’assegnazione alla Cina di questa edizione olimpica, la ventinovesima dell’era moderna. Lo sapeva il mondo e lo sapeva il regime di Pechino. Da cui ci aspettava almeno il rispetto della tregua olimpica, quella che scattava nell’antica Grecia. E da cui quindi ci si aspettava un atteggiamento diverso da quello seguito in queste settimane. Invece, i «grandi mandarini», con perfidia confuciana, si sono trincerati dietro i Giochi olimpici, li hanno presi in ostaggio, hanno scaricato sulle democrazie occidentali il secco dilemma tra il boicottaggio e il far finta di niente, sapendo che la prima opzione sarebbe stata impraticabile. È stato un ricatto. E l’unico modo di rispondere con efficacia è proprio quello di disertare la cerimonia inaugurale, il giorno dell’autocelebrazione non di una nazione, ma di un regime.
pechino
no
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I candidati premier sulla cerimonia di Pechino
Bertinotti: dialogo Casini: serve un segnale forte di Errico Novi
La denuncia dei “campi di lavoro” cinesi: non si può far finta di niente
In Tibet ci sono 24 Laogai Toni Brandi presidente Laogai Foundation Italia iciannove corrispondenti stranieri sono stati invitati in Tibet dalle autorità di Pechino. Le loro intenzioni erano quelle di tramutare questi giornalisti nel megafono della verità ufficiale. Davanti al tempio di Jokhang, santuario simbolo della fede tibetana, si scatena l’imprevedibile ed i corrispondenti stranieri vengono circondati da un gruppo di giovani monaci che li informano circa la vera natura di quel luogo di culto, covo temporaneo di falsi monaci ed agenti del partito. Inoltre, gli stessi denunciano le menzogne delle guide cinesi e gridano: «Il Tibet non è libero». La polizia cinese interviene, strattona i giornalisti ed arresta i monaci. La loro sorte sarà la stessa dei mille arrestati dei giorni scorsi, verranno imprigionati nelle prigioni e nei Laogai. In Tibet vi sono almeno 24 campi Laogai dove i tibetani vengono detenuti, costretti al lavoro forzato e spesso uccisi. Sono ancora fresche nelle nostre menti le foto del massacro al monastero di Kirti nella provincia tibetana di Amdo, che attualmente fa parte della provincia cinese del Sichuan. Martedì scorso un altro giovane monaco di diciotto anni, Kunga, è stato ucciso a Drango dalla polizia comunista. E la persecuzione continua; ieri, in Ngaba, la polizia comunista ha ar-
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restato cento monaci dopo aver fatto irruzione nel loro monastero.
Secondo il governo tibetano in esilio, i morti accertati ed identificati nelle rivolte in Tibet e nelle regioni limitrofe di Gansu, Sichuan e Qinghai sono ora almeno 140. È per loro che noi dobbiamo adoperarci ed agire. Non possono essere morti invano. I Giochi olimpici, simbolo di pace e solidarietà fra gli uomini, non dovrebbero avere luogo in Cina. Sono stati gli interessi finanziari delle multina-
sacrificio dei giovani e monaci martiri che se ne parla. Purtroppo, viviamo in un mondo dove gli interessi finanziari ed economici sembrano predominanti. È veramente promettente osservare che esistono ancora persone che attribuiscono priorità a valori morali ed etici. Infatti, numerose sono le personalità che si sono espresse in maniera critica verso le Olimpiadi a Pechino. Fra queste il Principe Carlo d’Inghilterra, Spielberg, Mennea, Richard Gere, Ivana Spagna, Andrea Mingardi, Paul McCartney, Uma Thurman, Mia Farrow e Bernard Henry Levy.
Solamente grazie alla rivolta dei monaci si è imposto nel mondo il dilemma stringente sulla presenza politica all’inaugurazione dei Giochi olimpici zionali e del regime comunista cinese a permettere questo paradosso. Il regime cinese non ha mantenuto nessuna delle sue promesse riguardo al miglioramento dei diritti umani nel paese asiatico. I Laogai, le migliaia di esecuzioni capitali con relative vendite degli organi umani, le centinaia di migliaia di aborti forzati e sterelizzazioni, la persecuzione di tutte le chiese e dei dissidenti sono alcune delle violazioni dei diritti umani perpretate dal regime comunista cinese e di cui i mass media parlano poco per non disturbare i commerci internazionali. È solamente grazie all’insurrezione tibetana ed al
In q u e st i gi or n i
sta anche aumentando la lista dei politici che hanno deciso di non partecipare alla cerimonia di apertura delle Olimpiadi. Allo stesso tempo molti sono gli ipocriti che cercano scuse ed alibi per far tacere la loro coscienza. Primi fra tutti il presidente Bush, che, tuttavia, ha almeno avuto il coraggio di incontrare il Dalai Lama, il Comitato olimpico internazionale, il nostro governo ed il premier Gordon Brown che, per far piacere ai grandi sponsors olimpici, si comportano come se nulla stia accadendo. Ho fede nella natura umana, che è espressione divina, e sono certo che il numero dei politici che non parteciperanno alla cerimonia di apertura delle Olimpiadi aumenterà.
ROMA. Posizioni diverse, in alcuni casi ancora da definire, tra i candidati premier italiani sul boicottaggio della cerimonia inaugurale dei Giochi. Silvio Berlusconi e Walter Veltroni restano in prudente attesa, altri leader già si esprimono: Fausto Bertinotti ribadisce la «ferma condanna per chiunque, compreso il governo cinese, adotti metodi repressivi, o violi i diritti della persona». Ma il presidente della Camera resta convinto che «con Pechino si debbano cercare tutte le possibili occasioni di dialogo» e che «ritirare fin da ora le delegazioni diplomatiche dalla cerimonia inaugurale significherebbe perdere una di queste occasioni». È di un’idea diversa il candidato premier dell’Udc Pier Ferdinando Casini, secondo il quale «non sarebbe saggio, certo, confondere con la politica la parte sportiva di questo grande evento di amicizia tra i popoli», eppure, dice l’ex presidente della Camera, «dare un segnale forte alla Cina è doveroso: ed ecco perché sarebbe sensato se i governi non inviassero alcun rappresentante alla cerimonia d’apertura». Enrico Boselli spiega di «comprendere le ragioni commerciali, economiche, strategiche che inducono a non parlare di boicottaggio. Certo la proposta che arriva dalla Francia e da altri governi di disertare la cerimonia d’inaugurazione va considerata con attenzione». Il leader del Partito socialista resta convinto di una cosa, comunque: «I vertici della politica saranno scavalcati dall’opinione pubblica, ce ne accorgeremo quando gli occidentali decideranno di disertare gli stadi dei Giochi cinesi. È un boicottaggio che Pechino teme assai più di quello ufficiale, perché un dissenso così esplicito della gente avrebbe ovvie ripercussioni sulla politica economica della Cina, sui suoi prodotti e le sue esportazioni». Non ha dubbi il candidato della Destra, Daniela Santanchè: «Il nostro è l’unico partito che è schierato in modo esplicito sulla situazione in Tibet e che ha dichiarato di voler boicottare le Olimpiadi. Sono assolutamente d’accordo con la posizione assunta da Sarkozy e da altri leader europei, che annunciano di non voler partecipare all’inaugurazione».
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il caso
Il film di Virzì sul precariato: l’abbiamo visto con Natale Forlani
«La maggioranza dei ragazzi è assunto a tempo pieno» di Francesco Pacifico
ROMA. Quando il sindacalista Giorgio Conforti (Valerio Mastrandrea) trasmette alla volitiva e precaria Marta (Isabella Aragonese) la bellezza dei raduni delle tute blu della Fiat di Cassino, l’orgoglio che fu della classe operaia, Natale Forlani sbotta: «Ma ci andasse lui in fabbrica. Questa nostalgia del passato… Io ho fatto 20 anni negli edili, ho lavorato nei cantieri, e non ci si divertiva mica». Poco prima, quando Marta finisce nella casa della sbandata Sonia (Micaela Ramazzotti) Forlani sintentizza la percezione che si ha sul mondo giovanile: «Ammazza è proprio un casino». E non si riferisce soltanto ai piatti per terra, i vestiti che si arrampicano sui muri o alla piccola Lara abbandonata in un angolo con un telefonino tra le mani. «La protagonista (Marta, ndr) vive nel quartiere più infame di Roma. La mamma sta per morire di tumore. Gli amici che fanno carriera sono tutti raccomandati e sembra che ti dicano: “che studi a fare”. Il fidanzato, per avere successo, deve andare in America. Ma invece di un call center, perché Virzì non ha fatto un film sui precari della pubblica amministrazione?». A Natale Forlani Tutta la vita davanti di Paolo Virzì è piaciuto molto. «Io amo i film d’azione, quelli movimentati. Sapesse che difficoltà mettersi d’accordo con mia moglie per andare al cinema». E non poteva perderselo lui, presidente di Italia Lavoro, tra gli autori della legge Biagi e un passato da segretario generale della Cisl e da manovale, che nel bello e veloce Giovani e precari (Denaro Libri) dimostra dati alla mano che flessibilità non è sinonimo di precarietà. Ore nove di un mattino piovoso, saletta ovattata della Medusa sull’Aurelia Antica, Forlani è divertito dal call center post moderno, dove per 400 euro al mese ti insegnano balletti sciocchi per automotivarsi e le parole giusto per rifilare alle massaie un robottino inutile. E che Virzì trasforma nell’emblema del mondo lavorativo degli under 35. «Bel film proprio, piacevole, ma quello dei call center è una realtà troppo comples-
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sa per essere compresa negli esilaranti paradossi cinematografici». Il sales frustrato Fabio 2 (Elio Germano) che si schianta in auto perché non ha confermato i picchi di vendita o la telefonista licenziata (Sonia) che si prostituisce. Ma Forlani diventa serio quando dà i numeri: «In Italia su sei milioni di lavoratori entro i 35 anni, circa 2 milioni sono assunti a tempo determinato». Gli altri, tutti precari? «No a tempo fisso». Secondo lui «il pessimismo imperante diventa fuoriviante. Le criticità non mancano per i giovani, chiariamoci, il film finisce per non dare risposte». E non mette in luce le cause vere del disagio. Cause che per il presidente di Italia Lavoro sono assenti nel film. «In Italia», spiega, «a fronte di un innalzamento della scolarizzazione, abbiamo un sistema formativo privo di alcuna capacità di orientamento, con il più basso livello di tirocinio in Europa. Per non parlare della mancanza di investimenti di ricerca. Perché Virzì non fa un bel film sulla scuola, che non funziona. Ma non lo può fare perché lui come la scuola italiana fanno parte di quel mondo di tuterlati che si difendono a vicenda». Perché all’ex sindacalista ora diventato
Perché il regista non fa un film sui danni della scuola o racconta che due terzi dei lavori li accettano gli immigrati?
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Natale Forlani, amministratore delegato di Italia Lavoro ed ex segretario confederale della Cisl; in basso la protagonista del film Isabella Aragonese e nell’altra pagina Paolo Virzì
manager, più che il vedere citata soltanto la Cgil («Quando il sindacato dice ai precari soltanto che devono farsi assumere a tempo determinato), lo fa imbufalire «gli elementi demagoci, la conclusione moralistica a cui arriva il film».Vedendo la scena finale con Marta, Sonia e la piccola che mangiano il pollo da una vecchina, svaniscono tutti
gli spunti brillanti della piccola, le angherie piccole e grandi subite sul lavoro, nelle quali ritrovarsi. «Cosa vuole dire Virzì, che è un problema di valori? Che manca la famiglia con la nonna che ti cucina e ti consola? O le grandi fabbriche? Che si stava meglio un tempo? Certo è un problema valoriale: ma perché non raccontare che il ritardo di
Apologo feroce sulla società attuale, ma anche uno straordinario campionario di tipi umani
Pane, risate e frenesia: Virzì è tornato di Francesco Ruggeri ov’eravamo rimasti? Ah sì, a Napoleone nel buen retiro dell’Isola d’Elba. E poi a un giovane di belle speranze, interpretato da Elio Germano, a ridosso di un crollo spaventoso: quello dei suoi ideali. Questo il ricordo di N (Io e Napoleone), allegra e terribile metafora di una storia stretta a doppia mandata al presente. Poi? Beh, Paolo Virzì ha deciso di tornare fra noi. Dismessi i panni del cronista ottocentesco, ha avuto la pensata di provare l’impossibile. Fotografare l’attuale stato di cose. Mission impossible? Forse no. Ma senza dubbio cosa tutt’altro che semplice. Per molti registi italiani impegnati a lanciare il pallone in tribuna, eccone uno che ha provato a sporcarsi le mani, raccontando l’Italia di oggi. Insomma, la classica
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patata bollente. No problem però. Perché anche stavolta, Virzì, e il suo fido sceneggiatore Francesco Bruni hanno fatto centro. Come e più che nelle loro gloriose altre volte (Ferie d’agosto, Ovosodo). Tutta la vita davanti è un po’di cose insieme. Un ferocissimo apologo sul precariato del mondo d’oggi, un graffio anarchico e a tratti surreale, uno sberleffo in piena regola che trova il coraggio di dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità. Ma con un gran bel sorriso sulla bocca. Perché Virzì, quando si tratta di creare occasioni comiche è portentoso. A tal proposito, il film pullula di piccole sorprese. Un film di giovani. Fatto su misura per loro e abitato in quantità massicce dalle loro speranze. Uomini e donne.Tutti uniti
da un paio di aggettivi: precario e atipico. A questo punto scatterebbe automatico un pensiero: film-denuncia. E invece no. Invece di allestire un comizio con tanto di megafono e voce sparata,Virzì parla a bassa voce. La prima ispirazione gli è venuta dal blog di una ex dipendente di un callcenter. Il resto ha assunto le forme di un work in progress scritto sulle pelle degli interpreti e sulla volontà di raccontare non una, ma dieci storie insieme. Tutta la vita davanti è prima di tutto questo: un rutilante caledoscopio di varia umanità. Si va dalla giovane di belle speranze (Isabella Aragonese) appena laureata in filosofia, allo sfigatissimo sindacalista (Valerio Mastandrea) in cerca di lavoratori da difendere, passando per una ragazza madre in pro-
il caso
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«Il mondo del lavoro ha perso la sua spinta civilizzatrice»
Call center, in linea con la solitudine colloquio con Paolo Virzì di Francesco Lo Dico
ROMA. «Ho una figlia di diciannove
accesso nel mondo lavoro è dovuto soprattutto al fatto che prima di finire l’università, non si concilia studio e occupazione? E che due terzi dei lavori li accettano gli extracomunitari». Finito il film Forlani corre alla macchina. «Devo scappare a Ferrara, si laurea mia figlia.
cinto di darsi alla prostituzione. Insomma, una gran bella commedia rinfrescata da una coralità molto ben organizzata e cementata dal centro motore di tutto. In questo caso il call-center. Ed è qui che Virzì si supera. In primis nello scavalcare in corsa ogni piatto realismo da docu-fiction, poi nel costruire un luogo di lavoro raccontato come una sorta di indemoniato reality gestito da una ritrovata Sabrina Ferilli e da un ghignante Massimo Ghini. Le donne da una parte, gli uomini dall’altra. Pause? Poche e molto brevi. E alla fine del mese scatta la graduatoria: i venditori più bravi vengono premiati, i peggiori additati al pubblico ludibrio. In mezzo fru-
Una parte degli studi li ha fatti ad Alicante: lì c’è un centro di orientamento, che trova agli studenti dei lavoretti. E mia figlia ha fatto la bibliotecaria, è stata in un’impresa di pulizia. E quello che ci vorrebbe anche qui. Dove non mancano esperienze positive per i giovani». Che però stonerebbe in una satira amara come Tutta la vita davanti.
strazioni, ritmi assillanti e orizzonti invisibili. Il requiem della nostra vecchia commedia all’italiana? Per Virzì non è ancora suonato. E lo dimostra mantenendo un occhio attento ai cambiamenti della società e ancorandosi come un disperato a piccole scintille di rinnovamento. Perché sotto le macerie lasciate dallo sfruttamento e dalla mancanza totale di scrupoli, Tutta la vita davanti ha il coraggio a-politico e orgogliosamente universale di trovare ancora ideali non inquinati, volti sorridenti, desideri selvaggi e illimitati. Pessimismo della ragione, ottimismo della volontà: un motto che Virzì fa suo e che trasforma in formidabile sintesi visiva nel meraviglioso e indimenticabile incipit del film. La Aragonese, in piedi sull’autobus mentre si reca alla sua seduta di laurea, si ritrova nel bel mezzo di un musical metropolitano abitato da impiegati, suore che attraversano la strada, automobilisti.Tutti presi nel seguire il filo di una musica invisibile e potentissima. Tutti presi a ballare in strada. Un altro mondo è possibile.
anni che proprio come Marta, la protagonista del film, studia all’università. Mi sono interrogato sul suo futuro e ho provato così tanto sgomento che ho cercato di capire più a fondo il tipo di società che si troverà ad affrontare». Paolo Virzì, erede di una commedia all’italiana dissacrante e pungente che trovò i suoi vertici in Dino Risi, spiega così la nascita di Tutta la vita davanti, suo nuovo film scritto insieme a Francesco Bruni, da ieri nelle sale. Com’è cambiato il mondo del lavoro, al tempo dei precari? Allo stato attuale, il lavoro sembra aver perso la sua spinta civilizzatrice. Attraverso un reddito certo, i nostri nonni e i nostri padri ebbero accesso a una vita dignitosa per sé e per i propri familiari. Tutele, solidarietà, pensioni, e la possibilità di offrire ai loro figli condizioni di partenza più favorevoli. Il lavoro ha costruito l’alfabetizzazione democratica di questo Paese. Nell’era della precarietà prende piede, al contrario, un’idea di solitudine, di tutti contro tutti, di mors tua vita mea che ci allontana l’un l’altro. Il call-center in cui avete ambientato il film, ne è l’esatta rappresentazione. Il film mostra tante ragazze raccolte in un unico stanzone, che però affrontano i loro turni in postazioni distaccate, chiamate isole. Una definizione molto significativa. Si può parlare quindi di un film di denuncia, oppure, come dice il tuo sceneggiatore Francesco Bruni, nella stesura della storia avete considerato anche la congiuntura economica mondiale entro cui il precariato è sorto? Durante il lavoro preparatorio, io e Francesco ci siamo accorti che sarebbe stato riduttivo suddividere i personaggi in buoni e cattivi. Per certi versi la flessibilità è inevitabile. Io la penso un po’ come la mia protagonista. Non bisogna indignarsi a priori o abbandonarsi a facili in-
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vettive. Il film, come la realtà, è una creatura complicata e contraddittoria. E ciò che conta, come diceva Zavattini, è che il film, oltre a essere bello sia anche utile. A ogni modo sarebbe ora che la politica intervenisse per moderare certi eccessi. In merito al precariato, la classe politica mi ha molto deluso. Tuttavia bisogna sperare che i nostri rappresentanti trovino il modo e il tempo di intervenire. Non possiamo permetterci di togliere fiducia alla classe politica, perché l’alternativa sarebbe una dittatura. Inevitabile parlare della legge Biagi. Non sono un giurista, ma credo che la legge Biagi non avesse fini spregevoli. Il problema è semmai che presenta degli interstizi nei quali le aziende si sono comodamente insinuate. Il contratto a progetto ha senso se è formativo, ma se diventa una maniera per approfittare di poveri ragazzi, di impadronirsi del loro portafoglio clienti fatto di familiari e genitori per poi dar loro il benservito, ecco che le assunzioni si trasformano in un grande business. Tutta la vita davanti, mostra anche un’Italia fatta di nuovi superiori e datori di lavoro. Il «padrone» di oggi non è più quello con il cappello a cilindro di Miracolo a Milano, ma assomiglia molto di più a un trainer sportivo che ha il compito di trasformare i giovani in guerrieri delle vendite. Li educa alla resistenza e alla competizione spietata, ma anche lui vive a sua volta l’angoscia di agire sotto l’occhio vigile di qualcun altro che ne monitora risultati ed efficacia. Fra l’altro, il film adombra le conseguenze di una formazione scolastico-universitaria sempre più inadeguata. Credo che la scuola e la formazione vadano ripensate e dotate di maggiori standard qualitativi. Attenzione però, perché le scuole non possono essere trasformate in centri di formazione professionale. La scuola deve essere aperta ai cambiamenti della società, ma deve formare innanzitutto persone.
No ai pamphlet, ma è ora di interrogarsi sul futuro dei giovani
”
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politica
I colonnelli di Bossi: Umberto ha ragione, se vogliamo le riforme dovremo aprire ad altri alleati
La Lega tentata dal ritorno con l’Udc d i a r i o
di Irene Trentin
d e l
g i o r n o
L’Agcom bacchetta i Tg sulla par condicio «La Commissione servizi e prodotti - si legge in una nota dell’Autorità per le comunicazioni - ha esaminato i dati del monitoraggio relativi al periodo tra il 18 marzo e il 26 marzo e ha esaminato tutti gli esposti presentati (anche nelle ultime ore). La Commissione ha preso atto che, rispetto al periodo precedentemente considerato, alcune testate hanno fatto registrare un maggiore equilibrio ma ha rilevato che in alcuni casi sussistono ancora evidenti disparità di trattamento». «Per queste ragioni - continua la nota - l’Autorità ha formalmente ordinato che: Il Tg4 e La7 correggano lo squilibrio che ancora si registra nel confronto tra PdL e Pd a favore del primo, nonché tra questi ultimi e tutte le altre forze politiche in competizione; il Tg1 attui maggiore equilibrio a favore delle liste concorrenti diverse da Pd e PdL; Il Tg5 attui maggiore equilibrio tra Pd e PdL».
Prodi rinuncia alla conferenza stampa finale
MILANO. Lo spauracchio del pareggio al Senato spiazza anche i più ottimisti nella Lega. Sembrano lontanissimi i giorni in cui il Carroccio esultava per il trattamento particolare riservato da Silvio Berlusconi con l’ok all’apparentamento. L’ombrello del Cavaliere da solo potrebbe non bastare a imporre il verbo federalista a tutto il Paese, con i sondaggi che in cinque decisive regioni indicano una distanza di soli due punti tra i Poli. Certo l’apertura di Umberto Bossi a un accordo postelettorale con l’Udc di Pier Ferdinando Casini ha creato qualche imbarazzo nel partito. Il Senatùr ha dalla sua parte l’esempio della Lombardia, dove alle amministrative in molti comuni l’Udc si presenterà con il proprio simbolo ma sostenendo candidati in comune con il Pdl, e l’asse con il partito di Casini rimane molto forte anche nel Consiglio regionale. Rischiando di riaprire i giochi e rimettere in discussione le linee strategiche. Roberto Maroni si limita a dire che «bisogna trovare un accordo il più ampio possibile con una parte del Pd per portare a casa qualcosa». D’altronde il discorso di Bossi è ben chiaro ai suoi colonnelli: le trattative con il centrosinistra si devono fare ma lasciando all’opposizione il ruolo di opposizione. Sì al dialogo per evitare fallimenti come quello della devolution bocciata dal referendum costituzionale. Ma l’ipotesi di un ”governo Veltrusconi”non piace a lui e non è popolare neanche tra i suoi. Si guarda con sospetto, in casa leghista, anche alla chiamata al voto disgiunto fatta da Berlusconi: si teme di ri-
manere schiacciati tra i due partiti maggiori, che potrebbero isolare progressivamente il Carroccio. A preoccupare è sempre lo stesso dato, l’incertezza della battaglia al Senato, dove la distanza ravvicinata tra le coalizioni in Liguria, Sardegna, Abruzzo, Calabria e Lazio è davvero esigua e mette in dubbio ormai la praticabilità di un governo con i soli Pdl, Lega e Mpa.
Meglio prepararsi subito, allora, a ritagliarsi un ruolo da protagonisti. E per questo tenersi anche aperte più strade, con i piedi ben piantati nella cabina di regia del ridisegno istituzionale. Patti chiari, però. «Quella con Casini è
Castelli: «Partiamo dai programmi e cerchiamo punti in comune». Maroni: «Serve una sponda nel Pd». Ma Cota: «Il nostro leader dice cose che si avverano» una scelta obbligata», spiega il senatore Giuseppe Leoni, cofondatore della Lega e presidente dei Cattolici padani, «deve prevalere il buon senso: certo l’importante è che Casini allontani la tentazione di fare il Mastella di turno. Noi siamo convinti di poter avere i numeri per governare, ma dovremo dialogare col centrosinistra perché questa sarà una legislatura costituente e quindi occorrono larghe intese, senza inciuci». Tra altri big della Lega non azzardare
previsioni postelettorali è un modo per esorcizzare brutte sorprese. «Meglio partire dai programmi, e cercare di volta in volta punti in comune, più che esprimere preferenze sugli alleati», questo il parere anche di Roberto Castelli, in pole position per la corsa alla successione di Roberto Formigoni in Regione Lombardia. L’ex Guardasigilli dice di non riuscire a capire «l’indignazione dell’Udc per le dichiarazioni di Berlusconi sul voto disgiunto. Al di fuori delle coalizioni un voto dato ai partiti minori rischia di diventare pericoloso. Nei nostri comizi ripetiamo di votare la Lega, qualsiasi altra prospettiva in questo momento mi sembra controproducente». Ora che il conto alla rovescia per l’election day è agli sgoccioli, la Lega punta dunque a giocare una partita quasi in solitario, sicura del proprio valore aggiunto, che i sondaggi sembrano confermare, conferendole un ruolo decisivo nella possibile vittoria del fronte berlusconiano, soprattutto nella difficile contesa al Senato. «Bossi dice sempre cose che si avverano», conferma il leader del Carroccio in Piemonte, Roberto Cota, vicecapogruppo del Carroccio alla Camera, «e ha acume politico. Certo che lo temiamo il pareggio al Senato, ma in questo caso dovremmo essere pronti ad aprire ad altri alleati, che saranno decisi dal senatùr, dato che è lui a dettare la linea politica. Ma resto fiducioso: la nostra coalizione vincerà grazie al nostro contributo decisivo: la Lega ha il vento in poppa».
Il presidente del Consiglio Romano Prodi ha scritto una lettera al presidente della Rai Claudio Petruccioli rendendo nota la sua rinuncia alla conferenza stampa finale al termine della campagna elettorale. Prodi, secondo quanto si apprende in ambienti di Palazzo Chigi, rinuncia per tener fede al principio che il capo del governo non dovrebbe chiudere una campagna elettorale dando un «indebito vantaggio» alla sua parte politica. Vantaggio che il professore contestò all’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, nel 2006 e che, affermano le fonti del governo, il professore ribadisce anche questa volta tenendo fede ad una sua forte convinzione.
Bettini: «Il 35%? Una forzatura» «Ho visto che a proposito delle mie affermazioni sul 35 per cento si parla addirittura di dimissioni, qualora non fosse raggiunto quel limite. Mi pare davvero una forzatura fuori misura». E’ quanto ha dichiarato Goffredo Bettini, rispondendo ai giornalisti che chiedevano chiarimenti sulla quota del 35 per cento come obiettivo minimo del Pd, evocata in una intervista al “Corriere della Sera”. «Ho detto solo che in questa competizione elettorale abbiamo due obiettivi possibili - ha continuato - quello di vincere le elezioni e quello di improntare una grande forza riformista che superi la somma dei partiti che hanno contribuito alla costituzione del Pd».
Casini: «PdL e Pd imploderanno dopo il voto» «Quelli che si chiamano “voto utile” e “voto disgiunto” sono due bufale che dimostrano solo il fatto che ormai si è capito che questo centro è la vera novità politica italiana. Una novità che sarà determinante nella politica del Paese e al Senato». Lo ribadisce Pier Ferdinando Casini parlando con i giornalisti a Taormina, al termine del suo intervento al Forum organizzato da Confagricoltura. Secondo Casini Pdl e Pd «imploderanno dopo il voto perché la presenza di un centro moderato farà scoppiare le contraddizioni dei due partiti. Dopo le elezioni si vedrà che sono due finzioni di partiti dove c’è tutto e il contrario di tutto».
Berlusconi: «Aboliremo la par condicio» «E’ una legge illiberale, liberticida, che abbiamo subito, è stata voluta dalla sinistra». E’ quanto dice della par condicio Silvio Berlusconi parlando alle donne al meeting del Pdl al Palazzo dei Congressi. «È una legge idiota», aveva detto poco prima Gianfranco Fini parlando dallo stesso palco. La par condicio finisce nel mirino dei leader del Pdl e il Cavaliere ribadisce ciò che più volte ha annunciato: «Ci impegniamo ad abrogare la par condicio tra i primi atti di governo che faremo».
polemiche
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Il ministero dell’Agricoltura francese ha revocato nel pomeriggio di ieri il provvedimento di ritiro delle mozzarelle di bufala provenienti dalla Campania imposto poche ore prima. Le autorità italiane hanno avviato, invece, il ritiro della mozzarella di bufala campana contaminata da diossina dagli scaffali e la Commissione Ue si è detta soddisfatta per le misure assunte dall’Italia
Lo spirito gallico vuole sempre prevalere: ieri con il vino oggi con la mozzarella
La vera bufala è lo sciovinismo francese di Gennaro Malgieri on ho incertezze. Ma non mi sembra neppure di avere un’eccessiva dose di coraggio. È soltanto normale. Afferro coltello e forchetta e, mentre leggo e rileggo la nota d’agenzia che dovrebbe scoraggiarmi, li affondo nella mozzarella di bufala che ho davanti. Golosamente l’addento. Non m’impensierisce più di tanto il minacciato “blocco” francese che via Ansa dovrebbe distogliermi dal gustoso pasto. Consumo in diretta un misfatto ai miei danni? Non credo proprio. Sono semplicemente una persona di buon senso, come tantissimi altri miei connazionali ed altrettanti europei che non si lasciano scoraggiare dalla “bufala”transalpina, secondo la quale il nostro prodotto caseario procurerebbe seri problemi di salute.
N
Certo, dal punto di vista dell’aumento del colesterolo per chi ne abusa, non c’è dubbio. Ma quanti chili di mozzarella dovremmo ingerire perché la diossina ci faccia stramazzare al suolo? Forse qualche chilo al giorno, tutti i giorni. Ed allora sarebbe l’aterosclerosi (placche alle arterie) ad ucciderci prima della nociva sostanza che si dice avrebbe contaminato qualche caseificio campano.
Mordo la mia mozzarella e chissà perché penso al camembert. Ma anche ad altri formaggi francesi di cui sono goloso e dai quali, a puro scopo dietetico, mi tengo a debita distanza dopo averne mangiato per anni ed in quantità sconsigliabile. Non mi viene in mente nulla di gastronomico, ma qualcosa mi dice che l’anatema francese ha a che fare con la polemologia. Già, l’arte della guerra con altri strumenti, parafrasando von Clau-
gras, leggendario ma peccaminoso considerando come lo si produce, ci si “scandalizza” perché qualche partita di mozzarelle non sarebbe al top della genuinità grazie a qualche delinquente che si è sottratto ai controlli? E proprio mentre le autorità di Bruxelles imprimono il loro lasciapassare sul latticino ingiustamente incriminato? No, le cose non possono stare così. Sono due secoli che i francesi cercano di primeggiare in
provvedimento del suo governo, ma semplicemente per chiedergli di ripensarci. Dopo la bella figura fatta alla Corte di San Giacomo, ne farebbe un’altra negli antichi possedimenti borbonici, dal Casertano al Salernitano, da Aversa a Battipaglia che fanno pur sempre parte di quell’Europa che proprio ieri ci ha rassicurati alquanto sull’infamata e leggermente più pallida (in questi giorni) mozzarella.
In Francia si mangiano rognoni e choucroutes, si allevano oche per il fois gras e ci si scandalizza della genuinità di qualche partita di latticini. Se ne è minacciato il blocco per poi ripensarci in linea con le decisioni di Bruxelles sewitz. Ieri il vino, oggi la mozzarella. Incorreggibili gallici. Ma davvero ci vogliono far credere che il raffinato prodotto campano sia talmente “inquinato” da togliergli il permesso di circolare in Francia liberamente? Ne rido, rischiando di strozzarmi, mentre ingoio un altro boccone di bufala. E non perché sia un incosciente. Ma come, nel Paese dove si mangiano rognoni e choucroutes che non sono il massimo della leggerezza, dove si allevano in maniera a dir poco spregiudicata oche innocenti dedite soltanto alla produzione del fois
Europa. Non potendo farlo in altro modo, da qualche decennio si sono attaccati alla gastronomia per dare pagelle a questo o a quel Paese, in particolare all’Italia, salvo poi venirsene dalle nostre parti e dimenticarsi di essere schizzinosi. Non gli è sembrato vero, probabilmente, cogliere l’occasione per inscenare l’ennesima bagattella per un massacro culinario e la mozzarella è diventata nemica del pathé. Il tutto è accaduto mentre il presidente Sarkozy era a Londra e probabilmente qualcosa gli è sfuggito. Non per assolverlo, naturalmente, da un
Ai tempi del disastro di Chernobil si diffuse un certo panico anche da noi. Tutti c’invitavano a non mangiare verdura a foglie larghe. Sarà che a me quelle a foglie piccole mi piacciono di meno, sfidai il divieto e non mi sentii un eroe, come moltissimi altri italiani. Quanti ingerirono i veleni provenienti dall’Unione Sovietica? Non lo sapremo mai. Mentre sappiamo che ogni giorno, nelle città (e non solo) d’Italia e d’Europa ci avveleniamo consapevolmente e volentieri, anche senza accostarci alla mozzarella. I motivi della lenta ingestione di poten-
ti agenti chimici, li conosciamo. Perché mettere sul banco degli imputati il nobile latticino ancorché non processato? Per me sarà innocente almeno fino al terzo grado di giudizio.
Peccato per i francesi se si fossero fermati alla fase istruttoria, anzi indiziaria. Si sarebbero privati di una leccornia, mentre noi al massimo ne avremmo sofferto economicamente poiché i cugini transalpini, tra tutti gli europei, sono i più voraci consumatori di mozzarella di bufala. Vuol dire che ce ne saremmo fatti una ragione (addebitando il tutto agli inquinatori istituzionali che hanno lordato la Campania seppellendovi immondizia tossica) privandoci di camembert e di fois gras, meno diffusi della bufala, naturalmente, ma pur sempre prodotti d’esportazione per palati raffinati. Ci fa un po’ schifo la ritorsione, ma in qualche modo avremmo pur dovuto rendere la pariglia a chi non capisce il male che ci fa. E pensare che ancora oggi qualcuno crede che la moderna libertà sia nata in Francia tagliando qualche testa. Meglio una bufala sospetta che una filosofia menzognera. E la bufala, vi assicuro, almeno una pagina di Voltaire la vale tutta.
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L’ITALIA AL VOTO lessico e nuvole
Il gruppo musicale americano Village People, autori di “YMCA”. Nella foto piccola, il leader del Pd Walter Veltroni
La comunicazione politica sotto esame
Da “I’m Pd”a “Meno male che Silvio c’è”:gli inni elettorali di Arcangelo Pezza È già la hit più hot di questa campagna elettorale, ma il nuovo inno del Pd non potrà far parte della compilation ufficiale. Stiamo parlando di “I’mPd”, naturalmente, la cover che un gruppo di simpatizzanti del buon Walter ha realizzato (con 65 euro di budget) sulle note di “YMCA”, bandiera dell’orgoglio omosessuale per oltre vent’anni e oggi cavallo di battaglia di tutte le serate revival della Penisola. Testo rivisto e facce di militanti in video, l’operazione del giovane think thank meneghino si è subito conquistata il podio dei filmati più cliccati nel mondo su Youtube, ma anche la stizzita replica del manager dei Village People che, in mancanza dei sacrosanti diritti d’autore, ha posto il proprio veto e basta, non se ne parla più, niente monetina, niente juke-box. Una vicenda simile a quella che qualche giorno fa aveva visto protagonisti Antonello Venditti e Giuseppe Drago, candidato dell’Udc alla Camera,
diffidato dal cantautore romano per aver aperto il proprio comizio di Ragusa con le note di “Che fantastica storia è la vita”. Due divagazioni dalla canzoncina ufficiale dei rispettivi partiti, perché provate voi ad andare a parlare alla gente accompagnati dalle note della lorenzocherubiniana “Mi fido di te” (inno del Pd) o, ancora più trashpopolari, da quelle di “Pace e Libertà”, cantata da Luca Sardella e dai suoi apocalittici cappellini (inno dell’Udc). Ma, si sa, c’è sempre qualcuno che sta peggio, basta saper guardare (o ascoltare) dalla parte giusta. Ed è così che a sinistra e al centro ci si consola ironicamente intonando “Meno male che Silvio c’è”, titolo e ritornello martellante del pezzo scelto dal Cavaliere per il suo PdL. E obbligatoriamente mandato a memoria da tutta la corte (e chissà se lo canta anche Fini, avendo abbandonato da tempo il glorioso “giovinezza giovinezza”).
Quel giochino interessante di Bertinotti... di Giancristiano Desiderio I casi sono due: o Silvio non vede mai la tv o ne vede troppa. Quale delle due è vera? La Rai sarà anche quel covo di comunisti e di intellettuali di sinistra, che bene si sanno riciclare anche a destra, ma è verissimo (per dirla con Silvia Toffanin e Alfonso Signorini) che è uguale uguale alle tre reti di SuperSilvio e PierSilvio. In questa campagna elettorale Fausto Bertinotti, sempre avvolto nella sua bella e morbida e calda ed elegante e scicchissima sciarpa ora marrone ora blu ora color arancio, non ne ha mai azzeccata una, ma questa volta ha messo il dito nell’occhio del Cavaliere. «Se fosse vero il proverbio che Dio acceca chi vuol fare perdere», ha detto il leader della sciarpa arcobaleno, «vorrebbe dire che Dio si è messo contro Berlusconi». Va bene, lasciamo perdere Dio che, se ha qualcosa da fare, non starà a farlo con SuperSilvio, ma è interessante quel che arriva ora: «Berlusconi dovrebbe accorgersi che la Rai assomiglia troppo a Mediaset. Si metta alla tv, cambi i canali, e poi si domandi ciascuna rete a chi appartiene. Vedrà che si confonde». L’esperimento è malizioso, ma interessante. SuperSilvio riuscirebbe a distinguere ciò che è suo da ciò che è della Rai? O farebbe confusione?
Due settimane al buio: dalla prossima settimana parte il nostro viaggio nei flop del passato
Scatta il black-out per i sondaggi di Andrea Mancia È iniziato il black-out per i sondaggi. Dalla mezzanotte di ieri, «è vietato rendere pubblici o comunque diffondere i risultati, anche parziali, di sondaggi demoscopici sull’esito delle elezioni e sugli orientamenti politici e di voto degli elettori, anche se tali sondaggi sono stati effettuati in un periodo precedente a quello del divieto». Una legge da Terzo Mondo, insomma (quella sulla cosiddetta “par condicio”) ci vieta di continuare a tenere informati i nostri lettori sull’esito - almeno aritmetico - della campagna elettorale. Niente più divertissement statistici per le prossime due settimane, insomma, ma solo compagnie di bandiera, mozzarelle e pensioni. Il massimo della vita.
Nei sondaggi diffusi ieri, di cui non possiamo parlare in dettaglio, si è registrato un aumento della media per la coalizione, diciamo così, “non mancina”. Un progresso non troppo rilevante, che conferma la sensazione che il distacco sia più o meno stabile da almeno tre settimane. È diventato ormai chiaro a tutti, del resto, che la vera partita non si gioca sulla distanza che separa le due coalizioni maggiori, ma sui risultati di Sinistra Arcobaleno e Udc al Senato. Previsioni precise su questi risultati, nessun sondaggio - nazionale o regionale - potrebbe garantirle. Meno che mai sondaggi come quelli a cui ci hanno abituato, in passato, gli istituti di ricerca. Per esempio, non esistono pa-
role sufficienti per descrivere l’incredibile débâcle dei sondaggisti durante il ciclo elettorale delle Politiche 2006.Volendo, con una buona dose di magnanimità, credere nella buona fede di Swg, Ispo, Piepoli, Ipsos, Ekma e compagnia, il minimo che si possa dire è che la continua, insistente e univoca pubblicazione di sondaggi che registravano un distacco enorme a favore del centrosinistra ha fatto perdere alla CdL almeno mezzo milione di voti. Colpa di quel bandwagon effect che gli studiosi conoscono da prima che nascesse la scienza della politica in senso stretto. Ancora più imbarazzanti degli exit poll che già circolavano nella notte di domenica 9 aprile o delle proiezioni che si autosmentivano nel giro
di qualche minuto, poi, sono stati gli astrusi tentativi dei sondaggisti di spiegare questo flop così clamoroso. In uno studio pubblicato da Swg nei giorni successivi al voto, venivano identificate tre cause principali della «sistematica sovrastima del centrosinistra»: segmenti di popolazione poco raggiungibili; aumento imprevisto dei voti validi; reticenza a rispondere alle domande dei sondaggisti. Vedremo tra pochi giorni se, almeno in questo ciclo elettorale, i sondaggisti hanno “aggiustato” i loro campioni per meglio adattarli alla conformazione reale dell’elettorato italiano. Ma ci azzardiamo ad essere piuttosto scettici in proposito. Del resto, i flop dei sondaggi non sono nati due anni
fa e non sono limitati all’Italia. È dalle elezioni presidenziali statunitensi del 1948 che i sondaggisti tradiscono le attese. Nelle prime elezioni americane del dopoguerra, Gallup predisse la vittoria certa del governatore repubblicano di New York, Thomas E. Dewey nei confronti dell’incumbent Harry Truman. E giornali come il Chicago Tribune si fidarono di quei sondaggi al punto di mandare in stampa una prima pagina con il titolo «Dewey Defeats Truman». Su Liberal, dalla prossima settimana inizieremo un viaggio a puntate nei flop storici dei sondaggisti. Partendo proprio dal 1948, da quella notte del 2 novembre in cui l’America si addormentò repubblicana e si risvegliò democratica.
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L’ITALIA AL VOTO ROMA. Monsignor Elio Sgreccia, attuale presidente della Pontificia Accademia per la vita, è autore di importanti studi sulle questioni della bioetica. Tra gli altri il Manuale di bioetica ( Vita e Pensiero edizioni) e il recente The human embryo before implantation (Libreria Editrice Vaticana). Prosegue con lui il dibattito di liberal sui temi connessi alla bioetica cui finora hanno partecipato Francesco D’Agostino, Maria Luisa Di Pietro e Claudia Mancina. Monsignore, le legislazioni del XXI secolo si troveranno sempre di più ad affrontare problemi inediti che nascono con la capacità della scienza e della medicina di investigare e intervenire in territori fino ad appena ieri inesplorati. Quali sono dal suo punto di vista i compiti della biopolitica? Vede ci sono due tipi di biopolitica. C’è la biopolitica che teorizza la possibilità del dominio della politica sulla vita, che pensa di poter stabilire quando comincia la vita, che ritiene che la ricerca possa essere portata avanti rivendicando un’autonomia della scienza rispetto all’etica: si tratta della stessa biopolitica in uso nei regimi totalitari che riconoscevano dignità di vita ad alcuni uomini e non ad altri e che praticavano la selezione eugenetica. E qual è la biopolitica che andrebbe invece promossa? Quella che mantiene come orientamento la dignità della persona. Dignità che inizia quando comincia la vita. Quella che tutela e difende i diritti di quelli che non possono farlo da soli: i nascituri, i deboli, i disabili, i malati, i morenti. I sostenitori della bioetica laica sostengono che fermare il progresso scientifico e la ricerca medica implichi anche l’impossibilità di soccorrere e curare i malati con rimedi più efficaci. Nessuno pensa di ostacolare il progresso e la ricerca scientifica. Ciò che si contesta è la logica che prevede il sacrificio della vita di alcuni per la salvezza di quella di altri. E poi ci si deve chiarire sul concetto di progresso. Chiariamo. L’abbaglio dell’illuminismo è stato quello di credere che il progresso fosse qualcosa di continuo e automatico, ma questo vale per il progresso tecnico non per il progresso umano. La bioetica nasce mettendo in crisi proprio questo concetto di progresso. Se infatti si lascia l’automatismo delle conquiste scientifiche a se stesso senza legarlo alle scienze umane si apre la porta al piano inclinato della catastrofe. Eppure lei Monsignore ammetterà che in una società plurale come la nostra di etiche ce ne sono tante. Certo, esistono di fatto diversi modi di pensare. Ma se prendiamo la questione dal punto di vista del diritto, l’etica deve essere definita per il bene vero di ogni uomo. Non si può assolutizzare il relativismo. Primo perché in via logica sarebbe una contraddizione in termini, secondo perchè esiste una verità sola sulla dignità che ogni essere umano possiede e che va rispettata sempre. Anche della libertà di chi decide di lasciare un testamento biologico? Su questo la Chiesa è contraria. Su questo tema l’argomento cui si fa ricorso è il principio di autodeterminazione. Benissimo: ma esiste nei confronti della vita? La vita è un bene ricevuto: e
La legislatura bioetica. Le previsioni degli esperti/4 Monsignor Elio Sgreccia
«Il progresso tecnico non è sempre umano» colloquio con monsignor Elio Sgreccia di Riccardo Paradisi
La manifestazione di Madrid a favore della famiglia e contro la legge di Zapatero sul matrimonio gay. A sinistra monsignor Elio Sgreccia
“
Non si può assolutizzare il relativismo.Primo perchè in via logica sarebbe una contraddizione,secondo perchè esiste una verità sola sulla dignità di ogni essere umano
non c’è bisogno di essere cristiani o cattolici per riconoscerlo, è un dato che anche ogni laico deve ammettere. Noi abbiamo la facoltà di autodeterminare i nostri atti, non la nostra vita: questa l’abbiamo ricevuta e ne abbiamo la responsabilità morale. Moralmente non si può rifiutare una terapia se essa è valida e proporzionata e conserva la vita. Il concetto stesso di autonomia suppone di aver ricevuto qualcosa. Detto questo se ci si trova in concreto di fronte a un paziente che in piena coscienza rifiuta le cure è evidente che non può usare la forza, ma il paziente non può pretendere di essere aiutato a morire da un medico. In caso di conflitto insanabile il medico declina la sua responsabilità e scioglie il suo accordo. E che cosa si dovrebbe fare in certi casi drammatici, in cui il malato desidererebbe solo concludere una vita che il dolore rende insopportabile. Usare cure per lenire il dolore, portare solidarietà e assistenza anche alle famiglie di chi sta male, dare conforto nel vivere la ma-
”
lattia verso la morte naturale. Questo si può fare. Non decidere sulla vita e sulla morte di un altro essere umano. Gli uomini non hanno questo potere. In queste settimane si è tornati parlare della legge 194 e dei modi per prevenire l’aborto. Da parte soprattutto dei radicali si è tornati a proporre un’educazione sessuale diffusa e una maggiore conoscenza dei metodi anticoncezionali. Ci sono diverse educazioni sessuali. Quella di cui lei accennava è quella che è nata e si è diffusa negli Stati Uniti e in certi Paesi del nord Europa in un contesto storico di liberalizzazione del sesso. Secondo questa idea esiste un diritto a esercitare la sessualità appena si presentino gli impulsi sessuali e l’educazione dovrebbe riguardare l’igiene e la conoscenza dei modi per evitare gravidanza. E secondo lei questo è un modo riduttivo di intendere la sessualità? Riduttivo e unilaterale. L’educazione sessuale orientata in senso positivo conosce una complessità maggiore della sessualità. È orientata all’educazione degli affetti e dei sentimenti, alla tutela della famiglia, a pro-
muovere un amore libero da tutto ciò che inteferisce e manipola la sessualità finalizzato all’unione stabile delle persone e alla procreazione. A proposito di famiglia Monsignore. Nella Spagna governata da Zapatero il concetto di famiglia ormai comprende anche unioni di fatto e composte da persone dello stesso sesso. La Chiesa ha condannato in modo molto fermo questa ”evoluzione”. Sono famiglie autentiche queste di cui lei parla? La famiglia di fatto è un precariato di famiglia, è un esperimento che non porta al bene di nessuno. Ancor meno la famiglia omosessuale. In questo caso mancano proprio i supporti antropologici. Si deve stare molto attenti a inserire nella società questi incentivi demolitori. L’accusa che viene fatta spesso alla Chiesa è quella di ingerirsi nelle questioni sociali e politiche. Malgrado queste polemiche però la Chiesa continua a offrire il suo punto di vista sulla società. La Chiesa ha un obbligo morale e costituzionale con se stessa e con i suoi fedeli che vivono nella società: rivolgere la sua educazione per il bene delle persone. Se noi riteniamo che una certa legge non vada bene perché non dobbiamo dirlo, perché dobbiamo rinunciare a orientare chi presta ascolto al magistero ecclesiastico? Tanto più che le uniche armi che la Chiesa ha a disposizione sono la parola e la persuasione.
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mondo
Viaggio nella città israeliana che vive sotto il continuo lancio di missili da Gaza: 7.645 dall’inizio dell’Intifadah
A Sderot la vita è una roulette russa di Emanuele Ottolenghi
SDEROT. L’elicottero si libra in volo poco dopo le nove e mezza. Con altri colleghi italiani, siamo diretti a Sderot, ospiti dell’organizzazione Israel Project, per meglio comprendere dall’alto le sfide alla sicurezza d’Israele. È una giornata tersa e dopo pochi minuti stiamo già sorvolando la zona centrale d’Israele. Prima del 1967 la zona compresa tra la fascia costiera poco a sud di Tel Aviv fino a Cesarea sulla costa distava solo pochi chilometri dal confine con la Giordania - nel punto più stretto, all’altezza di Qalqilya e Kfar Sabah, meno di 15 chilometri. Dall’alto, si vedono le due città, separate da poche centinaia di metri, i campi, l’autostrada e la barriera difensiva eretta da Israele dopo che sei anni fa, nel marzo 2002, furono massacrati più di 200 israeliani in un mese di continui attacchi terroristici. Senza quell’ostacolo, dalla Cisgiordania si potrebbe agilmente arrivare a piedi alle spiaggie israeliane. Ma non sempre esiste una soluzione nel caso dell’aeroporto internazionale di Tel Aviv, la sua pista d’atterraggio, come del resto l’autostrada che collega Tel Aviv a Gerusalemme, si trova a portata dei missili a corto raggio attualmente usati da Hamas a Gaza per terrorizzare gli abitanti israeliani di città, villaggi e cooperative agricole situate a ridosso del confine con la Striscia. Se la Cisgiordania cadesse in mano a Hamas, ci vorrebbe poco a bombardare l’aeroporto Ben Gurion e l’intera fascia costiera - una zona dove abita più del 50 per cento della popolazione israeliana e dove si concentra il 70 per cento dell’attività industriale del Paese. Se il centro di Israele subisse lo stesso tipo di attacco missilistico giornaliero cui Sderot è sottoposta, il Paese sarebbe messo economicamente in ginocchio in poche settimane. È una minaccia che nessuno stato e nessun governo possono accettare e per capirne la vera natura ci dirigiamo a Sderot, la cittadina che si trova in territorio israeliano appena a tre chilometri dal confine nord della Striscia di Gaza. Dall’alto, il colpo d’occhio offre subito una spiegazione dei rischi che anche i missili palestinesi creano per Israele. Non solo il lato israeliano del confine con Gaza è puntuato di piccole comunità agricole, vil-
esterno d’un asilo durante l’ora d’aria. La maestra è riuscita a evacuare i bimbi dal cortile appena in tempo - dall’allarme ci sono solo 15 secondi per trovare riparo - e non ci sono state vittime per fortuna. Ma la pioggia giornaliera, anche quando non fa vittime, impone un prezzo pesante - tre bambini su quattro soffrono di stress posttraumatico. Ed è una pioggia resasi più frequente da quando Hamas - con la quale il nostro ministro degli esteri uscente, Massimo D’Alema, vorrebbe che Israele dialogasse - ha preso il controllo di Gaza: 2.313 missili e colpi di mortaio sparati da Gaza da gennaio a dicembre dell’anno scorso.
A Sderot anche le fermate dell’autobus sono state dotate di speciali tettoie per parare i razzi, ed esistono rifugi di emergenza ovunque. Ma nulla può restituire la normalità alla gente che qui vive e che ogni giorno non sa se ritornerà a casa sana e salva
laggi e cittadine, ma poco a nord di Gaza si trovano due importanti città israeliane Ashkelon e Ashdod - che sono separate tra loro da 7 chilometri di spiaggia e riserva naturale. Ashkelon, colpita recentemente da un missile simile alle Katiuscie utilizzate da Hezbollah, dista 11 chilometri dal confine di Gaza. I suoi 120mila abi-
ta scesi a terra, l’impressione di vulnerabilità non cambia, anche perchè una breve visita a Sderot permette di toccare con mano il prezzo pagato da una comunità sotto tiro costante. Gaza è a soli tre chilometri di distanza. Sderot è una comunità devastata. La cittadina conta 24mila abitanti, molti dei quali originari del Marocco,
l’economia locale. La zona industriale ha particolarmente sofferto - priva di difese dalla caduta frequente di missili, ha visto alcune compagnie trasferirsi e chi rimane deve spesso chiudere temporanemante per evitare rischi. Il calo di produttività per altro si accompagna all’aumento delle assicurazioni, il che significa che nel lungo
Ieri mattina un Kassam ha colpito il muro di un asilo durante la ricreazione. La maestra è riuscita a evacuare i bambini appena in tempo e ad evitare il peggio: dal suono dell’allarme restano solo 15 secondi per trovare riparo tanti e la centrale elettrica sono a portata dei missili palestinesi. Ashdod, sede di un importante porto commerciale attraverso il quale passa anche tutta la mercanzia palestinese destinata all’esportazione, è fuori portata per il momento, ma potrebbe ben presto diventarlo. Una vol-
della Russia e dell’Etiopia - immigrati recenti, che spesso non parlano ancora la lingua e sono perció meno preparati ad affrontare i rischi della situazione. In più, non è una città ricca e pochi possono permettersi di andarsene. I continui attacchi hanno fortemente danneggiato
periodo questa zona non potrà sopravvivere economicamente alla pioggia di missili. Le statistiche servono a comprender meglio la situazione: 7.465 missili caduti su Sderot e altre comunità contigue dall’inizio dell’Intifadah - l’ultimo, proprio ieri mattina, ha colpito il muro
La città risponde come può, la gente si adatta come meglio viene - non ci si attarda mai per strada e si esce solo per le commissioni essenziali. Le strutture pubbliche sono state tutte rinforzate - anche le fermate degli autobus hanno delle tettoie apposite per parare i razzi in arrivo - ed esistono nuovi rifugi d’emergenza un po’ ovunque. Ma nulla può restituire la normalità a chi ogni giorno, mandando i figli a scuola, scegliendo di andare a lavorare, prendendo la macchina o l’autobus, non sa se sarà vittima o salvato dalla roulette russa dei missili palestinesi. L’ultima vittima, il 6 febbraio scorso, un padre di quattro figli, di 47 anni, è stato ucciso da un razzo che ha centrato la sua auto al parcheggio dell’istituto Sappir - un college che offre la possibilitá di studiare alle comunitá locali e che conta un robusto numero di beduini tra il corpo studenti. Dall’alto, come da vicino, la visita chiarisce come Israele sia di fronte a un difficile dilemma. I missili, pur essendo imprecisi e avendo perció fatto finora relativamente poco danno, non sono per questo meno pericolosi. Ma l’insistenza occidentale a imporre a Israele una risposta “proporzionale” impediscono a Israele di trovare una soluzione adeguata. Forse solo il giorno in cui un missile per sventura cadesse su un obbiettivo civile facendo strage, la comunità internazionale sarebbe disposta ad accettare che Israele deve fare piazza pulita di Hamas a Gaza, non intavolare il dialogo con chi, da sette anni, terrorizza civili impunemente.
economia
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A Damasco apre il summit delle defezioni
Gordon Brown coinvolto nel protagonismo globale francese
Sarkozy prepara la «sua Europa» di Michele Marchi all’Entente cordiale (1904) formidable all’Entente (Brown 27-03-2007), passando per l’Entente amicale (Sarkozy 26-03-2008). Toni altisonanti, dunque, per la visita di Stato di Sarkozy a Londra. Dallo scoppio della Guerra dei Cent’anni, fino ai ripetuti «no» di de Gaulle all’ingresso della Gran Bretagna nella Cee, il rapporto tra le due sponde della Manica è sempre stato problematico. Pur non dimenticando le trincee comuni nella prima guerra mondiale e l’alleanza contro il nazifascismo (da Londra de Gaulle ha chiamato il 18 giugno 1940 i francesi alla resistenza), Francia e Gran Bretagna appaiono come due modelli agli antipodi, differenti approcci di politica economica, differenze sostanziali a livello amministrativo, per non parlare della politica estera.
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Il presidente francese, prendendo la parola al Parlamento britannico, ha ben presente questo portato storico, ma ha scommesso sul futuro. Con la mente già proiettata all’oramai imminente avvio del semestre di presidenza dell’Ue (1 luglio 2008) Sarkozy ha puntato in alto, dichiarando definitivamente conclusa una fase della costruzione europea: quella dominata dall’asse franco-tedesco e dall’Unione europea concepita come veicolo di prosperità economica, benessere materiale, concordia tra i suoi Paesi membri e chiara collocazione nella metà occidentale del mondo diviso in due blocchi. L’Europa, entrata nei suoi secondi 50 anni di vita, ben lungi dal ritenere concluso il ruolo dell’asse franco-tedesco, deve però avviarsi verso una «seconda vita», quella del protagonismo globale. In
In vista della futura presidenza europea, Parigi vuole maggiore attenzione per i dossier globali più importanti un mondo insicuro e multipolare, la ricerca di protagonismo, sia esso economico o militare, non può prescindere dal contributo decisivo della Gran Bretagna. Sarkozy conosce Brown sin dalle frequentazioni dei consessi europei, quando entrambi guidavano i dicasteri economici dei rispettivi Paesi ed è consapevole del suo connaturato euroscetticismo. Ma si è altresì reso conto di quanto questo euroscetticismo, in parte amplificato da un’opinione pubblica a dir poco tiepida nei confronti di Bruxelles e da un partito conservatore sempre pronto a polemizzare su vere o presunte cessioni di sovranità, stia ultimamente trasformandosi in europragmatismo. Questo è il tasto battuto dal presidente francese insistendo sulla necessità di mettere da parte la teoria e dichiarare chiusa la lunga parentesi di elaborazione istituzionale (apertasi a Nizza nel 2001 e si spera conclusasi con il Trattato di Lisbona) per dedicarsi ai «fatti concreti». Da qui la consonanza tra Parigi e Londra su alcuni tra i dossier decisivi per l’Unione: la gestione dei flussi migratori, la lotta al terrorismo, la questione climatica, la necessaria moralizzazione del capitalismo finanziario, (e la riforma degli organismi internazionali che ne dovrebbero garantire trasparenza e corretto funzionamento), l’accelerazione sul
fronte del nucleare civile e quella sulla politica europea di difesa. Da qui la convinzione che se esiste un «modello europeo» nell’approccio alla globalizzazione, accanto all’apporto francese e tedesco, non possa mancare quello inglese.
Per gli osservatori più critici: parole e grande sintonia, ma al momento nulla di concreto. Posto che le visite di Stato sono essenzialmente decisive per il valore simbolico di annunci e prese di posizione pubbliche, un primo banco di prova di questa consonanza di vedute tra Londra e Parigi sarà quello della difesa comune europea. Londra è da sempre scettica, dal momento che interpreta la nascita di una politica europea di difesa in competizione con il ruolo della Nato e con la sua special relationship con Washington. La posizione di Sarkozy è di vera e propria rottura rispetto alla tradizione gollista e a quella ambigua di Chirac. Lo schema è semplice: riportare la Francia a tutti gli effetti all’interno del comando integrato Nato e scambiare questa storica decisione con la reale ripartenza del progetto di difesa europea, inaugurato nel 1998 a Saint-Malo proprio da Francia e Gran Bretagna, ma in realtà boicottato da Londra. La strada da percorrere è lunga, ma qualcosa si muove, soprattutto a Washington. L’ambasciatore Usa all’Onu ha parlato di recente della necessità che l’Ue si doti della capacità di agire militarmente in maniera indipendente. Sarkozy ha annunciato l’invio di un importante contingente militare in Afghanistan, decisione che verrà formalizzata nel corso del vertice Nato di Bucarest del 2-4 aprile prossimo.
Primi arrivi a Damasco, dove da domani avrà inizio il 20.esimo summit della Lega Araba. Un vertice segnato dall’assenza di molti importanti capi di Stato, principali alleati di Washington nella regione. Il presidente dell’Unione delle Comore, Ahmed Abdallah Mohamed Sambi, e il vicepresidente iracheno,Adel Abdel Mahdi, sono stati i primi ad atterrare all’aeroporto di Damasco nella mattina.Tutti i 22 membri della Lega Araba, ad eccezione del Libano, saranno rappresentati al vertice che si apre domani, ma i principali alleati di Washington, l’Arabia Saudita, l’Egitto e la Giordania invieranno delegazioni di basso profilo per protestare contro le presunte ingerenze siriane negli affari interni libanesi. Oltre al presidente Siriano Bashar Al Assad, padrone di casa, sono attesi a Damasco i capi di Stato di Emirati Arabi Uniti, Sudan, Tunisia, Algeria, Mauritania, Comore, Kuwait, Qatar, Libia e Autorità palestinese. Il presidente egiziano Hosni Mubarak, il re saudita Abdullah e il suo omologo giordano Abdallah II saranno invece assenti, come il re del Marocco, Mohammed VI, il sovrano del Bahrein, sceicco Hamad ben Issa alKhalifa, i presidenti iracheno Jalal Talabani e yemenita Ali-Abdallah Saleh, e il sultano dell’Oman, Qabous.
Indagini sulla Politkovskaja a una svolta? Gli investigatori russi sanno chi ha ucciso la giornalista che si occupava prevalentemente delle vittime civili della guerra cecena. Tra i sospetti ci sarebbe anche un collaboratore dei servizi segreti interni, Fsb, Pavel Rjaguzov. Contattato da liberal, il vice direttore della Novaya Gazeta, il giornale della Politkovskaja, ha però affermato che il nome dell’assassino era già noto e il sei ottobre 2007, anniversario dell’assassinio, era stato lo stesso giornale a portarlo a conoscenza delle autorità che lavorano sul caso. Per la morte della Politkovskaja la giustizia russa ha già indagato nove persone. Il procuratore generale di Mosca, Vjacheslav Smirnov, ha più volte dichiarato che verrà fatto di tutto «per trovare e arrestare gli autori dell’omicidio».
India, strega picchiata e seviziata Legata a un palo, picchiata, presa a pugni. È la durissima punizione inflitta in India a una donna accusata di praticare la magia nera. Le immagini del linciaggio, girate a Dumaria Adalchak, alla periferia di Patna (capitale dello stato orientale del Bihar), sono state trasmesse in tv, dalla New Delhi Television, e hanno scosso l’intero Paese. Il filmato mostra infatti la ”strega” presa a pugni in faccia e a calci da un uomo, poi una seconda persona le taglia i capelli. Decine di abitanti del villaggio assistono alla punizione culminata con un corteo-gogna nel villaggio. A scatenare la rabbia, riferisce la polizia locale, il tentato suicidio di una donna psicolabile che la ”strega” avrebbe dovuto curare: il primo aggressore (arrestato) è il marito della malata mentale.
Cuba, tutti possono avere il cellulare In futuro l’uso del cellulare non sarà più privilegio di alti funzionari o collaboratori di aziende straniere. Il governo del presidente Raul Castro, abolendo le precedenti limitazioni, ha deliberato che chiunque se lo possa permettere, potrà possedere un cellulare. Il decreto è uno dei tanti piccoli passi di libertà che spingono i cubani a sperare nel nuovo governo. L’azienda telefonica di Stato per l’uso del telefonino pretende però i pesos convertibili, che valgono 24 volte la valuta cubana utilizzata dal cittadino medio.
Il figlio della Thatcher ricercato L’Interpool ha ricevuto oggi la richiesta per un mandato di cattura internazionale nei confronti di Mark Thatcher. Il figlio dell’ex primo ministro britannico è implicato in un fallito tentativo di colpo di Stato in Guinea Equatoriale nel 2004. Se venisse giudicato colpevole dalle autorità di Malabo, capitale dell’ex colonia spagnola, Thatcher potrebbe scontare fino a 30 anni di reclusione nelle famigerate carceri del Paese africano.
L’Onu condanna la Birmania In una risoluzione adottata senza votazione, i 47 stati membri ”hanno condannato energicamente le violazioni sistematiche dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali della popolazione della Birmania”.
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speciale bioetica
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Dopo l’ubriacatura dell’ottimismo iperliberista e evoluzionista è matura un’inversione di tendenza: la modernità finisce sotto tiro
I TORTI DELLA RAGIONE di Fausto Cardini el 1935 Paul Hazard pubblicava un libro, La crise de conscience de la conscience européenne (tradotto nel 1946 in italiano da Einaudi), che ebbe grande successo ma che avrebbe dovuto far epoca. Lo studioso francese trattava delle trasformazioni che la coscienza europea subì nel passaggio dal Rinascimento all’Illuminismo e alla Rivoluzione francese: quando dal principio dell’obbedienza all’autorità incarnata dal Trono e dall’Altare e dal rispetto della tradizione si passò a una civiltà fondata sul diritto e sul razionalismo, sull’attenzione per il nuovo e per il mutamento. La fase acuta della crisi si situò, secondo Hazard, tra 1680 e 1715. La fiducia nella razionalità umana e nel suo carattere “naturale” (e perciò necessario), nelle illimitate possibilità del progresso, nelle inesauribili risorse del pianeta, è il carattere originale e fondante della Modernità.Tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento le forze congiunte della fede nella scienza e nel progresso determinarono una sorta di vera e propria “religione laica” liberista ed evoluzionista, della quale si fecero portatrici le logge massoniche e massima espressione simbolica della quale fu l’Esposizione Mondiale di Parigi del 1889. Smith, Stuart Mill, Spencer e Darwin furono i capiscuola di quest’ottimismo razionalista e progressista; le stazioni ferroviarie, le banche, i musei e le fabbriche ne furono le espressioni monumentali più tipiche, le sue vere cattedrali.
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tura a un’universale repressione della libido e alla formazione del “Super-Io”. In questo clima poteva divenir plausibile anche il riprendere il pensiero dei grandi Padri Fondatori della cultura controrivoluzionaria primottocentesca, dal De Maistre al de Bonald al Donoso Cortès e – in polemica con i due figli complementari della Modernità, liberismo e socialismo – dar vita a una vera e propria “cultura dell’Antimodernità” che raccoglieva istanze e spunti dalla stessa tradizione ermetica (ch’era per altri versi stata il lievito occulto del razionalismo illuministico, il suo dark side) e sfociava nel tradizionalismo al quale cercò di fornire una forma coerente il francese René Guénon. In Italia, critici radicali e nemici dichiarati del“mondo moderno”furono outsiders come Julius Evola e, sul versante cattolico, Giovanni Papini e Domenico Giuliotti. Ma l’età che va dal secondo dopoguerra alla fine del XX secolo - pur con l’accompagnamento di un endemico movimento sotterraneo di contestazione, ora affidato a
Anche a destra rispunta la critica dello sviluppo “costi quel che costi”
Questa illimitata e boriosa fiducia faustiana nell’homo faber, sostenuta dall’ideologia dei Diritti Umani ma alimentata in realtà dalle risorse dello sfruttamento coloniale giustificato dalla certezza del primato dell’Occidente e da un’incrollabile Volontà di Potenza (cui forniva argomenti lo stesso razzismo, con l’idea dell’eccellenza della “razza bianca”), cominciò tuttavia a venir messa in discussione col sopravvenire della crisi tra il secondo e il quinto decennio del secolo scorso, con la “guerra dei Trent’Anni”1914-1945 e gli stravolgimenti socioeconomici e politici che l’accompagnarono. Nacquero in questo periodo le varie“filosofie della crisi” e le forme di Kulturpessimismus che avevano già avuto dei precursori in Nietzsche e che si sarebbero manifestati sia nella linea esistenzialistica tra Kierkegaard ed Heidegger, sia nella storiografia dei “cicli di civiltà” e delle “decadenze” proposta da Spengler e da Toynbee, sia infine nelle Considerazioni di un impolitico di Thomas Mann, del 1919. In significativa coincidenza cronologica con l’anno della Grande Crisi, il 1929, Sigmund Freud riduceva ne Il disagio della civiltà la cul-
voci critiche come quelle della “Scuola di Francoforte” (si pensi alla Dialettica dell’Illuminismo di Theodor W. Adorno, ch’è del 1947), ora manifestatosi con occasionali ritorni al temi esoterici (Edgard Cayce, l’”Età dell’Acquario”e le varie “filosofie”del Flower Power, poi confluite in varie forme di neo-orientalismo e di ecologismo) - è stata quella di un progressivo riaffermarsi del razionalismo progressista, tradotto dopo il crollo dell’Unione Sovietica in una specie di escatologia liberistica e occidentalista, come si vede ne La fine della storia di Francis Fukuyama: ormai si era usciti dalla storia, si trattava solo di “gestire l’esistente”. Il migliore dei mondi possibile era raggiunto. Tra le poche voci di dissenso, quelle “marginalizzate” di un Alain De Benoist oppure, in Italia, i malumori espressi in pamphlets come La ragione aveva torto di Massimo Fini. Oggi, la critica alla Modernità sembra esser venuta meno e, al massimo, essere ripiegata verso le varie teorizzazioni del concetto di“Postmoderno”come suo superamento. Ma in realtà non è così. Il primo segnale d’allarme a proposito dell’esauribilità delle risorse e dell’ “invecchiamento del pianeta”, quindi della necessità di controllare e limitare progresso, “produzione della ric-
chezza”e consumi, fu dato nel 1968 dagli studiosi e dagli imprenditori riuniti nel Club di Roma fondato da Aurelio Peccei e Alexander King. Dal lavoro continuo di questa équipe, speso silenziato dai mass media, nacque nel 1972 il Rapporto sui limiti dello sviluppo, in cui si sosteneva che la crescita economica non può svilupparsi indefinitivamente, a causa delle ormai limitate risorse naturali. Nel 1992 il Rapporto ebbe un primo aggiornamento, Beyond the limits; nel 2004 un secondo, Limits to growth: the 30-year update, in cui si prendevano in considerazione i fattori incrociati della popolazione, della produzione, del consumo delle risorse e dell’inquinamento.
Gli autori dell’aggiornamento rifiutavano l’obiezione, ispirata al liberal-progressismo classico, secondo la quale la tecnologia e i meccanismi automatici del mercato sarebbero sufficienti a evitare il collasso. Le tesi relative alla “decrescita” e allo “sviluppo zero”, sostenuta da personaggi come Serge Latouche e Jean Ziegler, avrebbero dovuto apparire come ben gradite al pensiero della Destra ispirato al tradizionalismo e all’antimodernismo.Viceversa, le vicende politiche soprattutto dell’ultimo decennio hanno condotto le destre politiche ad arroccarsi sempre più su posizioni oltranzistiche di tipo liberistico e occidentalista, di cui appare massima espressione il movimento “neoconservatore”statunitense; e le tesi relative al contenimento dello sviluppo appaiono oggi più gradite semmai alla sinistra radicale e diffuse nei suoi ambienti. Ma evidentemente qualcosa sta cambiando anche in questo quadro: l’ultimo saggio di Giulio Tremonti – non certo sospettabile di apocalittismo o di sinistrismo -, La paura e la speranza, è molto critico nei confronti dell’ottimismo liberista configurato in quel ch’egli definisce il “mercatismo”e riprende, con alcune sottolineature per quel che riguarda la necessità per i paesi europei di tutelare la propria produzione, temi che richiamano al primato della politica sull’economia e alla necessità di regolamentare la produzione. Apocalisse e Kaliyuga appaiono lontani da analisi come questa: ma che i rischi esistano e che i fenomeni che vanno dall’effetto-serra all’iperproduzione di rifiuti vadano tenuti sotto controllo appare chiaro. La formula produrre-arricchirsi-consumare appare ormai un logoro slogan elettorale. I problemi sono altrove: ma ci sono eccome. La Modernità torna sotto tiro.
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Mai come in queso momento l’uomo teme la perdita della propria umanità
La tecnica e l’anima di Riccardo Paradisi finita l’età dell’oro. È finita la fiaba del progresso continuo e gratuito. La fiaba della globalizzazione, la cornucopia del XX secolo. Una fiaba che pure ci era stata così ben racconatata. Il tempo che sta arrivando è un tempo di ferro». È l’incipit di La paura e la speranza, il libro di Giulio Tremonti che nelle ultime settimane ha polarizzato il dibattito politico e culturale italiano. Un libro importante con una tesi forte: la modernità – con i suoi miti di progresso materiale, tecnologico, sociale ed economico – è in crisi. Mai come in questo momento gli uomini sentono su di loro la minaccia più grave: quella di perdere la loro umanità. Perchè in gioco oggi c’è proprio il mantenimento dell’ecologia sociale che rischia uno stravolgimento mai conosciuto, la conservazione della forma umana appunto come l’uomo l’ha sempre conosciuta, sollecitata da una tecnica alla quale non sembrano più nemmeno essere poste le domande di senso che la cultura della crisi degli anni Trenta aveva posto con tutta la drammaticità possibile. È la rivoluzione antropologica più profonda della storia umana quella cui siamo soggetti. Forze titaniche spingono lungo un vettore di cui è incognito l’orizzonte: ingegneria genetica, globalizzazione delle merci e della cultura, trasformazione del lavoro, sconvolgimenti climatici sono fenomeni che toccano le radici della nostra identità, che mordono la realtà e le vite di milioni di persone. Attraversate dall’atroce sospetto che «l’uomo si trovi ormai al centro di una grande macchina ideata per distruggerlo» (Ernst Junger, Il trattato del ribelle). È vero, la tecnica è vecchia quanto l’uomo, come ricordava Arnold Gehlen in polemica con le trenodie malinconiche dell’idealismo di fronte all’avvento dell’era tecnologica. Ma noi non siamo più di fronte a una dialettica tra l’uomo e la tecnica, siamo, come avvertiva Martin Hiedegger all’inizio degli anni Cinquanta, di fronte alla trasformazione tecnica del mondo senza più nemmeno disporre di un pensiero che sia alternativo a quello tecnico. È cambiato il rapporto quotidiano tra l’uomo e la tecnica: «oggi la macchina raccoglie in sè un precipitato di intelligenza umana oggettivata decisamente superiore alla razionalità che è presente nell’operatore» (Umberto Galimberti). Nei confronti della tecnica l’uomo è diventato un funzionario. «Ciò che è veramente inquietante non è che il mondo si trasformi in un dominio completo della tecnica. Più inquietante è che l’uomo non sia preparato a questo radicale mutamento. Ed ancora più inquietante è che non siamo capaci di raggiungere attraverso un pensiero meditativo un adeguato confronto con ciò che sta realmente emergendo nella nostra epoca». (Martin Hiedegger, La questione della tecnica, 1953). Cioè la
È
pura volontà di potenza – ecco l’essenza della tecnica –fine a se stessa. Il sapere tecnoscientifico costruisce un mondo unidimensionale che ha come fine solo la propria riproduzione. Ogni altro approccio – etico, filosofico, artistico, politico al mondo – è spazzato via dalla forma di razionalità che presiede alla tecnica e di cui ne è il motore propulsivo. Di fronte a questo scenario, anzi, dentro di esso, davvero l’uomo appare antiquato, superato proprio come lo vedeva Gunther Anders già negli anni ’50. Porsi la domanda sul senso del vivere (esistenzialismo), sulla salvezza della propria anima (cristianesimo), sulla conoscenza di sé (classicità), possono ormai apparire sovrastrutture rispetto ai processi oggettivi con cui va formandosi il mondo. Anche il dolore e l’angoscia come sensori per il risveglio a una vita più autentica rischiano di essere ormai inefficaci grazie agli anestetici morali e al condizionamento cui è sottoposta l’umanità occidentale. Del resto nel vortice del nichilismo della tecnica assumere atteggiamenti di ritorno, di reazione, di conservazione del pretecnico sarebbe inutile: la tecnica si incaricherebbe di consumare ogni tentativo di reazione. Heidegger stesso avverte che essendo una potenza epocale la tecnica non può essere riscattata prima che abbia completamente dispiegato la sua proiezione di potenza. «Non si può conservare la cultura accanto all’apparato delle nuove tecnologie», avverte ancora Gehlen, stavolta in accordo con Heidegger, «ma solo salvarla inserendola in esso» (Arnold Gehlen, nel tempo della tecnica). Nel deserto che cresce del nichilismo è però ancora possibile qualche linea di resistenza? Superato il meridiano zero dell’umanesimo che cosa resta oltre la linea che stiamo attraverando? Secondo Ernst Junger qualcosa resta: l’eros, l’amicizia, l’arte, la morte. Queste cose possono ancora essere oasi di libertà nel deserto che cresce, territori vergini dell’interiorirtà dove l’individuo riesce a resistere al risucchio dell’”enorme potenza del niente”. E del resto «l’inquietudine metafisica delle masse, la fuoriuscita delle singole scienze nello spazio copernicano e la comparsa di temi teologici nella letteratura mondiale» sono avvisaglie che testimoniano di una tenacia dello spirito umano. Anche se, scrive Junger,: «Sta nel proprio petto, come un tempo nella Tebaide, il centro di ogni deserto e rovina. Qui sta la caverna verso cui spingono i demoni. Qui ognuno di qualunque condizione e rango, conduce da solo e in prima persona la sua lotta decisiva, e con la sua vittoria il mondo cambia. Se egli ha la meglio, il niente si ritirerà in se stesso, abbandonando sulla riva i tesori che le sue onde avevano sommerso. Essi compenseranno i sacrifici».
La cultura travolta dall’apparato delle nuove tecnologie
In alto “Velocità astratta” di Giacomo Balla. A lato “Forme uniche della continuità dello spazio” di Umberto Boccioni
(E. Junger, Oltre la linea)
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speciale bioetica
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«L’uomo ha visto crescere smisuratamente la dimensione tecnologica mentre quella etica si è rimpicciolita»
Se la morale è piccola piccola colloquio con Giovanni Reale di Rossella Fabiani iovanni Reale è un uomo profondamente religioso. Ed è questo suo senso religioso, questo riconoscere un orizzonte di senso, a renderlo libero e sereno. Anche l’uomo pre-tecnologico agiva in vista di scopi iscritti in un orizzonte di senso. Nell’attuale età della tecnica, invece, le domande di senso restano senza risposta. Non perché la tecnica non sia ancora abbastanza perfezionata, ma perché non rientra nel suo programma trovare risposte a simili domande. La tecnica non tende a uno scopo, non promuove un senso, non svela la verità, la tecnica funziona. Rivolgiamo a questo proposito alcune domande al professor Reale. Quale configurazione l’uomo va assumendo nell’età della tecnica? Ciò che sta ora accadendo è una delle conseguenze prodotte dal nichilismo, da quel nichilismo che Nietzsche profetizzò come “la storia dei prossimi due secoli”. La tecnica di per sé non è certamente un male, però il suo valore dipende dal criterio con cui viene intesa e usata. Ed è appunto tale criterio che viene a
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ca, ma è la tecnica stessa che si serve dell’uomo. Il primo grande capovolgimento… Si. La tecnica che diventata un idolo. Gli uomini sono vittime di questo idolo, l’uomo si fa fagocitare e rischia di non avere più la capacità di dominare quello che è uno strumento e per questo, allora, se una cosa si può fare, la si deve fare. La tecnica non ha un valore negativo in se stessa. Dipende da come l’uomo la usa. Quando la tecnica diventa tecnicismo e la scienza scientismo ossia predominano, diventano valori assoluti, non c’è nulla al di sopra di loro, questo comporta inevitabilmente prima o poi delusioni, sconfitte, inadeguatezze. L’uomo deve, invece, crescere moralmente dentro e non farsi dominare da fuori. L’uomo è cresciuto molto come spessore tecnologico, ma non come spessore morale. O meglio non è cresciuto in proporzione con quello che lui e la tecnica hanno creato. Si è invece sottomesso, creando un padrone. E’necessario dare più importanza a se stesso e riconoscere il valore sacrale della vita, il valore sacrale delle cose. Intendendo la
«Alla base della nuova ideologia c’è relativismo e nichilismo» mancare all’uomo di oggi, che non crede più a fini, a valori e a ideali che trascendono l’“hic et nunc”. Per questo motivo, ciò che dovrebbe essere soltanto un mezzo viene considerato esso stesso come un fine, se non addirittura come il fine. È fatale che l’uomo stesso venga considerato non più un “fine”, ma un “mezzo”, una piccola rotella nel grande meccanismo dell’apparato della tecnica. Non è più l’uomo che si serve della tecni-
sacralità come spessore ontologico.Vale a dire che o si recupera il senso religioso, tu non sei Dio, io so risolvere tutti i miei problemi. Non ne hai nessuno. Hai la perdizione, hai una religione in negativo, ti leghi alla tecnica e alle sue capacità in maniera vincolante. Non rischiamo di non chiederci se il nostro modo di essere uomini non è troppo antico per abitare l’età della tecnica? Io penso che, se fosse “antico”
«Il Santo Padre ci ha messo in guardia dal pericolo del relativismo culturale, ricordandoci che quelle promesse si sono dimostrate vuote». A destra Giovanni reale nel giusto senso, l’uomo potrebbe abitare l’età della tecnica nel modo migliore. L’uomo “antico” aveva come motto di fondo il “nulla di troppo”, ossia la “giusta misura”. L’uomo di oggi è invece affamato di “troppo”: non gli basta mai ciò che ha, e dell’avere di più non è mai sazio. Inoltre, l’uomo, in particolare in funzione del messaggio cristiano, ha inteso se stesso come “persona”. E l’essere persona significa avere un rapporto costruttivo e
donativo con l’altro (l’Io non è io se non in rapporto strutturale con il Tu). L’uomo come “individuo”, che è diventato predominante in età moderna e soprattutto contemporanea, spezza il rapporto dell’Io con i Tu, e incentra tutto su se medesimo, con le conseguenze che vediamo (la vita del single è diventata un paradigma in maniera impressionante). Nell’età della tecnica le idee, diventano semplici
ipotesi di lavoro=ideologie, che sono superabili “per principio”. Il relativismo trova qui le sue ragioni? Alla base dell’ideologia c’è ancora di più, ossia non soltanto relativismo ma nichilismo ad alto grado. Ogni forma di “ideologia” non crede più all’esistenza della verità, e comunque non crede alla efficacia operativa della verità (posto che essa ci sia). All’ideologia non importa che una cosa sia vera o non vera, ma che essa sia creduta come vera dalla maggior parte delle persone. Credere e far credere che una cosa sia vera (non importa poi se essa lo sia davvero oppure no) è il credo di fondo dell’ideologia, con tutte le conseguenze che questo comporta. E il relativismo culturale cosa comporta? E’ una forma raffinata di nichilismo.Tutte le idee sono uguali in quanto sono considerate zero e nessuna di loro ha un valore particolare. L’ateismo è la perdita dei valori. Che si traduce nella morte di Dio (come dice Nietzsche). Ma i testimoni di questi valori non sono scomparsi, si sono solo ristretti. Uno di loro è Madre Teresa di Calcutta, un esempio mirabile di valore donativo, credendo profondamente nel valore di Cristo. Quando la religione viene bandita e si finisce di appartenere, l’uomo si lega alla tecnica e alla ragione. Ma perché l’uomo che, oggi, ha tutto è sempre più infelice? Perché quel tutto che ha, non riempie “quel” bisogno dell’uomo, quel fattivo strutturale bisogno dell’infinito. Anche il Santo Padre nella “Spes Salvi”ci ha messo in guardia dal pericolo delle ideologie, facendo una critica severa della modernità. È così. Il Santo Padre ci ha ricordato che quelle promesse si sono dimostrate vuote. Erano un inganno. Sembravano voler dire: con questo ti faccio dominare, ti do la felicità assoluta. Ma così non è stato. L’Etica come forma dell’agire in vista di fini. Ma una volta che, nel mondo della tecnica, l’“agire”è subordinato al “fare”, come si può impedire a chi può fare di non fare ciò che può? Non si può certamente. Il prassismo e il tecnicismo portano alle estreme conseguenze il vecchio detto metafisico: “verum ipsum factum”, ossia che è vero ciò che si fa o che si può fare senza limiti.Tutti i valori vengono assorbiti nel fare e nel produrre. Il senso delle cose e dell’uomo stesso viene ridotto alla loro “adoperabilità” ossia alla loro “utilità”. Eutanasia, analisi prenatale, fecondazione eterologa, clonazione… dove trovano la loro collocazione?
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Nella perdita del valore assoluto della vita. Si è confuso un senso della vita come si vorrebbe che fosse. Non si capisce la vita perché non si capisce la morte. Si parla addirittura di eliminare il funerale. E recuperare del corpo quelle parti sane che possono essere reimpiegate. La vita come uno scarto da riciclare. Quale è il senso della morte? Nessun linguaggio illuministico spiega la morte, soltanto un linguaggio superiore e religioso ha affrontato e ha cercato di dare risposta al mistero della morte. E questo dall’antichità in poi. Ma esiste anche la libertà scientifica… La libertà scientifica, appunto. Ma la morale è un altro ambito. La scienza riguarda il particolare e non sa rispondere ai fondamenti complementari. Non ha gli argomenti e gli strumenti per affrontare i superiori problemi dell’uomo, i problemi ultimativi che riguardano invece l’etica. L’individuo. Questa nozione tipicamente occidentale che ha avuto nella nozione platonica di“anima”, rivisitata dal cristianesimo, il suo atto di nascita, ha nella tecnica il suo prevedibile atto di morte? L’uomo come individuo non è affatto il meglio creato dalla cultura occidentale, ma è la corruzione peggiorativa del concetto di uomo come persona. L’uomo come individuo cade fatalmente nell’individualismo e nell’egoismo. Sartre lo aveva ben compreso. In una delle sue prime opere scriveva addirittura che “l’Inferno sono gli altri”. L’uomo come individuo, portato alle sue estreme conseguenze, come si fa oggi, non sa più comprendere gli altri, e meno che mai amarli. Per riscoprire il nostro sistema di valori, dobbiamo quindi riscoprire il senso e il valore dell’uomo come persona e dell’amore donativo, che è il vero amore. Aggiungerei che o l’uomo recupera il senso del sacro, del religioso, o non esce dal tunnel della depressione, delle cure psichiatriche, della droga, e soprattutto non capisce una serie di cose: che tu non sei l’Assoluto, che non puoi decidere da solo che cosa è il Bene e il Male e che se vivi come se Dio non fosse distruggi la tua vita. Diventi tu unità di misura, il misurante. Ma è un’unità limitata. Mentre Dio è infinito. La tecnica segna il grande congedo dell’umano dal divino. A cosa porterà questa emancipazione dell’umano dal divino? Porterà a quello che da qualche filosofo è stato ben detto: la morte di Dio, che è una uccisione che l’uomo fa di Dio. Porterà alla morte dell’uomo stesso. Uccidendo Dio, l’uomo uccide se medesimo.
«Solo l’arte può bilanciare l’egemonia del sapere tecnico e scientifico»
«E la poesia è schiacciata» colloquio con Stefano Zecchi di Alfonso Piscitelli ontattiamo Stefano Zecchi al cellulare e immaginiamo ci risponda dal ponte di un canale della Serenissima o da qualche aula universitaria a Milano.“Sono a Samarcanda”, ci dice invece col suo tono veneziano gentile. La voce, solo un poco smorzata, sale sul satellite aerospaziale e ridiscende in terra per imboccare il tracciato delle linee telefoniche italiane. Uno scenario davvero degno di una conversazione sugli orizzonti faustiani della tecnica. Il professor Zecchi passa in rassegna la tecnica magica dei “primitivi”, i romanticismi metallici di Marinetti. Ma ecco a un tratto la voce si scompone in fonemi e poi si spegne. Il satellite ha interrotto la sua mediazione astrale, o è stato quel demone maligno che pare si celi nelle comunicazioni telefoniche a insinuarsi.Appunto per dimostrare che non sono sempre dorati i regni della tecnologia. La connessione riprende dopo qualche minuto. E ricominciamo a parlare di tecnica – con qualche inquietudine in più – sino alla successiva interruzione. Professore, nel suo libro, Sillabario del nuovo millennio, lei faceva una distinzione tra una tecnica originaria (parente della magia e dell’arte) e una tecnica moderna che si impone come dominatrice della natura.Vuole illustrarci questa distinzione. È molto semplice. La tecnica della nostra epoca ha una sua logica che domina il pensiero dell’uomo. La tecnica classica era più legata al fare inventivo e artistico.Allora avevamo un mondo costruito secondo gli orientamenti dettati dal pensiero dell’uomo, oggi al contrario abbiamo un pensiero umano subordinato all’apparato tecnologico. E tuttavia quando persone di un secolo futuro guarderanno a un prodotto tecnologico del nostro tempo – poniamo un’automobile di classe – non troveranno in esse l’espressione di uno stile, di un pensiero creativo? Non vorrei radicalizzare le differenze tra i tipi di tecnica. Non ho difficoltà ad ammettere che opere di design, di artigianato d’arte contemporaneo siano capaci di recuperare il fascino del passato e lo stesso può dirsi di un’automobile, di un aeroplano. Ma il problema è che oggi la tecnica esercita un dominio sul mondo umano inimmaginabile in altre epoche. Adesso con l’ingegneria genetica, il dominio tecnico si introduce nella corporeità, nella carne dell’uomo. C’è dell’altro, si inserisce oggi nella storia l’idea di una manipolazione dell’essere umano prima ancora della sua nascita. Abbiamo sempre pensato che l’uomo aveva la possibi-
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lità di modificarsi attraverso l’educazione e le esperienze che avrebbe compiuto nel corso della vita. Adesso si mira ad intervenire prima di ogni esperienza, per “predeterminare”il cammino dell’individuo. E non ancora si intravedono i limiti di questo intervento. Altre civiltà o altre epoche avevano il concetto di una“tecnica interiore”per agire sull’uomo: si pensi al Buddhismo con le sue pratiche di meditazione, allo Stoicismo con la sua disciplina… Ma nelle grandi tradizioni spirituali ciò avveniva sempre dopo che l’uomo è nato, mentre ora si punta a una programmazione dell’individuo che è il risultato di una visione tecnologica di dominio, di dominio su tutto: anche su ciò che non è ancora nato. Per decidere se deve nascere o meno, e cosa deve diventare, con quale particolare DNA. Ma in tal modo si finisce con l’annientare la volontà personale, si arriva alla “morte del soggetto”. La sinistra sempre pronta a rivendicare la tutela dei diritti dell’individuo su questi argomenti un po’ tace. Forse è il retaggio della ideologia marxista, che riteneva possibile una radicale manipolazione/ trasformazione della personalità? Guardi non è tanto questo, è soprattutto il fatto che oggi si tende a credere che ogni sviluppo della scienza debba essere per forza di cose positivo. Più in generale le culture politiche di destra e di sinistra si mostrano oggi vecchie, incapaci di comprendere i problemi sollevati dagli ultimi sviluppi della tecnoscienza. Io credo che due sono i problemi che ci occuperanno nei prossimi anni: uno è quello della ingegneria genetica (con le conseguenze a livello bioetico) e l’altro è il problema ecologico, altro tema da sempre in mano alla sinistra, che la sinistra non è riuscita a declinare in termini positivi. Come si vede dall’esempio più banale: la spazzatura di Napoli… L’inquinamento del mondo non può essere affrontato secondo schemi ideologici, peraltro molto logori. E quale contrapposizione di idee si prospetta riguardo a questi problemi? Il panorama è ancora nebuloso. Gli schieramenti tradizionali si stanno rimescolando. Pensi ad Habermas, un autore identificato come “di sinistra”, che nel suo libro “Il futuro della natura umano” giunge a conclusioni di schietto conservatorismo culturale. Ma è indubbio: sorgeranno nuove divisioni culturali, dalle quali discenderanno contrapposizioni politiche. Al contrario i Futuristi (politicamente “reazionari” secondo la vulgata interpretativa) hanno esaltato la tecnica con un entusiasmo quasi religioso…
Furono protagonisti di una operazione grandiosa di sintesi tra l’arte e l’esperienza della nuove tecniche, del mondo delle macchine. D’altra parte non riuscirono a capire il significato nascosto della potenza della tecnica, che rischiava di distruggere la stessa invenzione artistica. Avevano anche sottovalutato l’aspetto della distruttività della tecnica. Infatti. Invece lei quale “operazione”intendeva compiere, quando lanciò il tema del “mito-modernismo”? Ho sviluppato questo tema nel mio libro “L’esteta armato”: esprimevo l’auspicio che l’arte e la poesia riuscissero a trovare una potenza intuitiva, bilanciando in tal modo l’egemonia del sapere tecnico e scientifico. C’era anche l’idea di una “sublimazione”della tecnica, in modo che essa ritrovi un orientamento superiore. Sì esattamente. Ritorniamo al punto di partenza: l’ideale di una tecnica che riscopre la sua alleanza con l’arte e si fa espressione di un autentico pensiero umano, non di una cieca volontà di manipolazione.
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speciale bioetica
Creato
libreria
La letteratura, il cinema e la disumanizzazione tecnologica
Antimodernisti di celluloide di Fabio Melelli influenza dello scrittore Philip K. Dick sul cinema contemporaneo è talmente articolata che difficilmente ci si può limitare a considerare solo gli adattamenti delle sue opere. Sono infatti diversi i film, che pur non dichiarando direttamente la derivazione dickiana, sono indubbiamente ispirati alla sua visione del mondo. Basta pensare a una pellicola come Vanilla Sky, nella quale Tom Cruise è un poliziotto che deve arrestare un omicida prima che il crimine venga commesso. In qualche modo tutti i film di fantascienza in cui la realtà non è quella che appare, nei quali il dubbio ontologico alberga nei protagonisti, sono figli della poetica del grande scrittore americano scomparso nel 1982, proprio nell’anno in cui veniva realizzato Blade Runner di Ridley Scott, il film che per primo divulgò, a livello popolare, il pensiero dickiano. Tratto dal romanzo Il cacciatore di androi-
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osizione completamente opposta, quella del giurista e studioso della civiltà Stefano Vaj, che nella ingegneria genetica intravede lo sviluppo coerente dell’impulso faustiano che anima la nostra civiltà. L’uomo ha sempre modificato sé stesso e l’ambiente circostante, dal neolitico in poi… L’ingegneria genetica “legittimamente” amplifica questa capacità. Stefano Vaj Biopolitica. Il nuovo paradigma Barbarossa, 2005, 301 pagine
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Puri simulacri, gli uomini di Blade Runner hanno perso coscienza e libero arbitrio, disancorati da tutti quei valori, nei quali identifichiamo l’umanità. Tanto che i robot, i replicanti, sembrano più umani degli uomini, capaci di sentimenti come la solidarietà: in una delle ultime inquadrature il poliziotto Deckard, Harrison Ford, viene salvato dall’androide Roy, Rutger Hauer, raro caso in cui un antagonista permette la vittoria dell’eroe. Sono passato ventisei anni dall’uscita di Blade Runner, ma il film di Scott (che non sì è più ripetuto a questi livelli di eccellenza) mantiene inalterata la capacità di colpire lo spettatore allo stomaco e alla testa, spalancandogli le porte di un futuro davvero poco rassicurante, insinuandogli il dubbio che forse l’uomo si avvia all’autodistruzione. Non c’è il sole dell’avvenire in Blade Runner, ma un clima plumbeo, un’atmosfe-
l grande antropologo tedesco, discepolo di Max Scheler, in tutta la sua opera ha studiato il nesso tra uomo e tecnica. Tra caratteristiche fisiologiche (il deficit di istinti e di armi naturali da parte dell’uomo) e la necessità di sviluppare una cultura che richieda il progresso tecnologico, ma anche valori eterni come la disciplina, la formazione del carattere, la sublimazione degli istinti, la regolazione delle passioni. Una parola equilibrata sul problema della tecnica da parte di questo anti-Rousseau, ancora poco conosciuto in Italia. Arnold Gehlen L’uomo nell’era della tecnica Armando, 2003, 159 pagine
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Da “Blade Runner” ad “Atto di forza”: i racconti di Dick diventano film di, il film s’interroga sul processo di tecnologizzazione della società umana, una società nella quale gli uomini hanno venduto la loro anima in cambio del progresso. Incapaci di leggere la realtà, gli uomini del futuro dickiano sono vittime delle costruzioni dei media, avvolti da un universo di segni che rimandano esclusivamente a sè stessi.
utti i rischi della genetica incontrollata, amplificati dal relativismo morale di un’epoca che a tentoni cerca i propri riferimenti etici. Habermas esprime il punto di vista di una cultura umanistica, che appare ormai delusa dalle “umane sorti e progressive” della tecnica ed anche alquanto preoccupata. La difesa della dignità umana dalle manipolazioni indotte dal mercato o dall’arbitrio individuale spinge il filosofo – da sempre punto di riferimento della cultura kantiana-illuminista-di sinistra – su posizioni di schietto conservatorismo. Jurgen Habermas Il futuro della natura umana Einaudi, 2002, 125 pagine
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ra pesante, una natura che non è più tale. La realtà virtuale e l’impossibilità di avere il pieno controllo su sé stessi sono al centro anche di Atto di forza (1990) di Paul Verhoeven, tratto dal racconto di Dick Total Recall, nel quale s’immagina un futuro in cui domina il turismo mentale. Il protagonista, interpretato da Arnold Schwarzenegger, è un operaio che scopre di essere stato un agente della Cia, prima di venire “resettato”. Pur nell’ambito del cinema d’azione, Atto di forza stupisce per il mondo con il quale in una veste squisitamente commerciale vengono veicolati contenuti destabilizzanti per il mondo edulcorato di Hollywood. E in effetti per alcuni anni Dick viene come bandito dal cinema americano, se si eccettua un robusto b movie come Screamers Urla dallo spazio (1995) di Christian Duguay, tratto dal racconto Modello Due, sul tema dell’umanità dei replicanti e della relativa “macchinizzazione” del mondo, e un raffinato pastiche come L’impostore (2000), basato sull’omonimo racconto, con il bravo Gary Sinise nel ruolo di un brillante scienziato che viene fatto passare per un pericoloso cyborg al fine di impedirgli di rivelare un importante scoperta che permetterebbe alla Terra di scongiurare un invasione aliena. Nel 2002 è un ispirato Steven Spielberg, cantore dell’ottimismo occidentale, a cimentarsi con l’adattamento del racconto di Dick Minority Report, con Tom Cruise
nei panni del tutore dell’ordine addetto alla previsione dei delitti, palesando un sguardo non troppo benevole verso l’ideologia della guerra preventiva. Un anno dopo anche il re del cinema di Hong Kong John Wood, artigiano buono per tutte le occasioni, con il convenzionale Paycheck, adatta l’omonimo romanzo di Dick, raccontando di un informatico al quale viene sistematicamente cancellata la memoria e dimostrando che al di là di ciò che si racconta nel linguaggio cinematografico è importante il come (la regia è piatta e la confezione anonima).
Nel 2006 Richard Linklater realizza Scanner Darkly - Un oscuro scrutare, tratto dall’omonimo racconto dickiano, utilizzando l’innovativa tecnica del digital rotoscope, che permette di trasformare gli attori in cartoni animati con una notevole dose di verismo. In questo caso la modernità del pensiero dickiano si sposa con l’evoluzione del mezzo cinematografico, in un interessante connubio visivo e contenutistico. D’altra parte, si racconta proprio di una droga, chiamata Substance D, che permette di stravolgere il proprio aspetto fisico, assumendo i connotati desiderati (un po’ quello che succedeva al Gommaflex del Gruppo Tnt!). Ma i rapporti tra Dick e il cinema non si esauriscono certo qui, e all’orizzonte già si profila l’adattamento di Una svastica nel sole, il cui progetto speriamo venga affidato a un cineasta realmente visionario che non si limiti a una pedissequa illustrazione della fonte letteraria, ma sia in grado di trasporre sul piano visivo le profonde intuizioni antimoderniste e conservatrici del grande scrittore.
a tecnica ha sostituito la natura, come “ambiente” che circonda la vita dell’uomo, ma nelle sue categorie mentali l’individuo non ancora ha metabolizzato questo grandioso cambiamento di scenario. Occorrono pertanto nuove formule per definire i concetti di individuo, identità, libertà, salvezza, verità, senso, scopo, ma anche quelli di natura, etica, politica, religione, storia. Al di là delle conclusioni a cui giunge Galimberti, la sua imponente opera conferma l’impressione che oggi parlare di “tecnica” significa necessariamente tornare a fare filosofia, nel senso profondo, non minimalista del termine. Umberto Galimberti Psiche e Techne L’uomo nell’era della tecnica Feltrinelli, 818 pagine
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a cura di Alfonso Piscitelli
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il nuovo bimestrale di geostrategia in edicola il primo numero del 2008 120 pagine per capire il pianeta
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economia
Spinetta conferma i 2120 esuberi, i sindacati bocciano il nuovo progetto ma restano al tavolo
No al piano Air France, ma si tratta di Susanna Turco
ROMA. Su e-bay un messinese lancia la proposta di una cordata rigorosamente italiana per acquistare (5 euro a testa) la compagnia. A piazza Affari, il titolo Alitalia chiude con un calo del 37 per cento. Nelle stesse ore, mentre Romano Prodi conferma che le trattative con Air france continuano», i sindacati respingono il nuovo piano di Air France ma senza abbandonare il tavolo delle trattative. Il business plan è arrivato nella notte. Ed è duro. Conferma i 2.120 esuberi: 1.620 per Alitalia Fly e 500 per Alitalia Servizi. I tagli riguardano 507 piloti, 594 assistenti di volo, 121 dipendenti all’estero e 398 del personale di terra in Italia. Prevista anche la reinternalizzazione di Az servizi e lo stop al cargo nel 2010. Tagli alla flotta per 37 aerei. «Non posso andare oltre senza minare le basi del mio progetto per l’Alitalia», scrive il numero uno del gruppo francoolandese, Jean Cyril Spinetta. Pur dando un giudizio negativo, i sindacati non chiudono alla trattativa. Del resto sono in un cul de sac, come pure Air France. Sanno che, nonostante gli annunci, una cordata alternativa per il momento non c’è e quindi non resta che sedersi al tavolo e discutere. Un confron-
to vero che miri a un’intesa generale per poi andare a discutere sui numeri. Con questo spirito le nove sigle sindacali andranno a l’incontro di lunedì prossimo con i vertici della compagnia franco-olandese. Resta però da capire quanto siano ancora ampi i margini della trattativa.
Il documento della compagnia francese, spiegano, i sindacati, «ripropone nella sostanza e nella forma quanto già illustrato al sindacato nella riunione del 25 marzo» e quindi «la posi-
segretario generale della FiltCgil, Fabrizio Solari. Soltanto l’Anpac si smarca, giudicando gravissimi i 507 esuberi individuati tra i piloti: «Per noi piloti il piano Air France è finito. È un capitolo chiuso», sostiene il presidente Fabio Berti, che non si spaventa nemmeno davanti all’ipotesi fallimento. «Non ci piace assolutamente» osserva, «ma non è che per questo si deve considerare la soluzione Air France come l’unica soluzione». Resta comunque uno spiraglio anche per l’Anpac, che non ha partecipato alla riunio-
ciò ad ogni persona in esubero verrà offerta sia l’opportunità di un pensionamento immediato o differito, sia un aiuto per riqualificarsi attraverso formazione, azioni di outplacement o incentivi finanziari per la realizzazione di un progetto personale». Per gli assistenti di volo, «le sole misure di pensionamento a breve e medio termine permettono di assorbire la totalità dei 600 esuberi». Tuttavia, Air France «proporrà a coloro che lo desiderano opportunità di impiego al proprio interno». Per i pilo-
Berlusconi: «I francesi ci offendono, quando saremo al governo niente vendita a queste condizioni». Bossi: «Forti dubbi sulla cordata italiana, meglio vendere a Lufthansa». Buttiglione: «Se si va avanti così, l’unico passo avanti sarà portare i libri in tribunale» zione di insufficienza della proposta già espressa in quella sede viene da parte nostra riconfermata». Così scrivono in una nota congiunta Filt Cgil, Fit Cisl, Uiltrasporti, Ugl Trasporti, Sdl intercategoriale, Unione piloti, Anpav, Avia. Ma il dialogo deve proseguire. «Il sindacato deve tenere i nervi saldi e fare il proprio lavoro e quindi trattare, trattare, trattare», sottolinea il
ne intersindacale in cui si è discusso il progetto Air France, ma dovrebbe prendere parte all’incontro di lunedì. Il documento di Spinetta tenta comunque di rendere meno amara la pillola.
Il gruppo Air France-Klm, si legge, «ha scelto come linea di condotta di non abbandonare nessun dipendente. Per-
ti, «i 2/3 dei 500 esuberi potranno beneficiare di misure di pensionamento a breve e medio termine». Il documento conferma che «ai più giovani tra loro Air France proporrà l’assunzione di un massimo di 60 piloti l’anno, quindi un totale di 180 posti». Per quanto riguarda il personale di terra, «circa 250 persone potranno accedere al pensionamento
nell’arco dei prossimi 7 anni. Per gli altri (circa 150) saranno attuate misure di riqualificazione».
Intanto sulla vicenda Alitalia torna a dire la sua Silvio Berlusconi: «Dopo sei mesi Air France ha presentato condizioni non soltanto irricevibili e inaccettabili, ma addirittura offensive», ha detto, confermando che «quando saremo al governo il nostro governo non vorrà concludere una trattativa alle condizioni che abbiamo conosciuto» e «lanceremo un appello a tutti gli imprenditori italiani» per «dare un apporto in nome dell’orgoglio e dell’interesse nazionale». Umberto Bossi, dal canto suo, esterna i suoi «forti dubbi» sulla cordata invocata dal Cavaliere («Perché gli imprenditori non mettono le mani dove c’è da perdere soldi. E con l’aeronautica ci perdi sempre») e ipotizza di «vendere a Lufthansa». «Arriva tardi», dice Pier Ferdinando Casini tornando a chiedere «che i politici evitino di mettere becco su tutto». Sospira Rocco Buttiglione: «Se si va avanti così, un passo avanti sull’Alitalia si potrà fare solamente dopo avere portato i libri in tribunale».
economia
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Ennesimo calo per le immatricolazioni a marzo. Che coinvolge anche Fiat
Usato, l’unico mercato sicuro per le auto di Vincenzo Bacarani
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Assegni, dal 30 aprile si cambia In arrivo una piccola rivoluzione per i cittadini italiani per gli assegni. Infatti dal 30 aprile ci sarà l’obbligo di emettere solo assegni ”non trasferibili” dai 5.000 euro in su, il pagamento di una tassa di 1,50 euro ad assegno nel caso in cui si vogliano fare ”cheque” liberi e l’impossibilità di emettere assegni ”a me medesimo” se non per l’incasso di contanti da parte della stessa persona che li ha emessi.
La Consob: più trasparenza sugli Spe La Consob, alla luce dell’attuale crisi dei mercati, vuole dalle banche maggiori trasparenza. In una lettera inviata ai maggiori istituti, chiede di far emergere a bilancio le posizioni eventualmente detenute in “Special Purpose Entities” (Spe), i cosiddetti veicoli fuori bilancio. Due tra gli istituti interessati, Unicredit e IntesaSanPaolo, hanno comunicato di aver chiarito la cosa con l’autorità guidata da Lamberto Cardia.
Enel: rete elettrica venduta entro l’anno «La vendita della rete elettrica arriverà entro l’anno». A confermarlo l’Ad di Enel, Fulvio Conti. Continuano, intanto, gli investimenti dell’azienda nell’energia alternativa. Ieri ha inaugurato un’impianto per l’energia eolica a Frosolone (Isernia). Al momento produce di 6,8 megawatt di elettricità, ma a fine arriverà a 38 megawatt per fornire energia a 26.000 famiglie, eliminando emissioni di ossidio di carbonio per circa 55.000 tonnellate all’anno. Investimento complessivo, 39 milioni di euro. «Questo impianto», ha spiegato l’Ad, °Fulvio Conti, «è un esempio virtuoso di collaborazione tra impresa, istituzioni locali e associazioni amiche dell’ambiente che ci auguriamo di replicare».
Telecom: pronta la lista di Telco per il Cda
TORINO. Marzo rischia di essere per il mercato dell’auto l’ennesimo mese nero, con il numero delle immatricolazioni ancora in forte calo. Contemporaneamente, rinasce dalle ceneri quello dell’usato. E i dati fanno riflettere: a gennaio gli acquisti di nuove vetture sono scesi del 7,3 per cento, a febbraio del 3,9, mentre a marzo le previsioni ipotizzano un’ulteriore diminuzione prossima al 10 per cento. Quasi un crollo dovuto probabilmente anche al caro-petrolio. Al contrario le vetture usate stanno conoscendo – e ben oltre il prevedibile “contraccolpo tecnico” – una nuova primavera: a febbraio si è avuto un aumentata, rispetto allo stesso periodo del 2007, del 10 per cento. E per marzo si prevede un nuovo balzo in avanti. «La causa principale di questo andamento del mercato», spiega Gian Primo Quagliano, direttore del Centro studi Promotor, «è l’attuale congiuntura economica. È fuor di dubbio che siamo in una fase recessiva ed è altrettanto ovvio che quando il mercato del nuovo si contrae, quello dell’usato cresce». Ma oltre a questa, ci sono altre concause e nemmeno di secondo piano. «È chiaro», aggiunge Quagliano, «che l’entità degli incentivi di quest’anno è stata nettamente inferiore a quella dell’anno scorso. Gli sconti effettivi sull’acquisto del nuovo si aggirano sui 700 euro con in più un anno di bollo pagato». C’è chi ipotizza che incida sul mercato anche il calo delle vendite della
Tra polizze gratis e maxi garanzie i rivenditori scommettono su modelli di qualche anno per rivitalizzare le vendite
6,57 per cento), si è accentuato in febbraio (-8). Nei primi due mesi dell’anno, l’azienda ha immatricolato in Italia 140.756 auto nuove, contro le 151.502 di dodici mesi prima, segnando un regresso del 7,09. E questo trend rischia di far svanire in pochi mesi il recupero effettuato nel 2007.
Fiat. Ma su questo punto Quagliano è cauto: «Le difficoltà dell’azienda torinese», dice, «sono state dovute allo stop di due mesi, per motivi di ristrutturazione, dello stabilimento di Pomigliano d’Arco. Un motivo contingente». Sta di fatto che l’usato ha ripreso a tirare. «La gente si fa un po’ di conti in tasca», nota il direttore del centro Promotor, «e opta per le auto non di moda ma ancora efficienti che ormai offrono anche vantaggiose garanzie».
Sergio Marchionne, che ha fatto
In effetti, i venditori di auto usate – di fronte alle promozioni del nuovo pubblicizzate a valanga su radio, tv e giornali – sono passati al contrattacco con offerte non meno aggressive: garanzie superiori a un anno, assicurazioni furto e incendio gratis, buone valutazioni sul superusato da ritirare, rateazioni lunghe e a tassi convenienti. Insomma, quasi le stesse condizioni di vendita del nuovo. A questo quadro preoccupante, di recessione imminente, si aggiungono le perplessità sull’andamento e le prospettive della Fiat. Il già consistente calo di vendite accusato dal gruppo torinese a gennaio (-
resuscitare la Fiat, è di nuovo di fronte a un bivio. Lunedì al Lingotto (nella Sala dei Cinquecento) si terrà l’assemblea degli azionisti per approvare il bilancio 2007 chiuso con un utile netto di 2,1 miliardi (+78,5 per cento sul 2006), un risultato della gestione ordinaria di 3,2 miliardi (+66) e ricavi di gruppo che sfiorano i 59 miliardi (+12,9 ). Bilanci lusinghieri. Ma è il futuro che preoccupa: l’unico nuovo modello 2008 per il gruppo è l’Alfa Romeo Mito, ricavata dal pianale della Grande Punto. Marchionne vuole sbarcare in America con l’Alfa e la 500. Probabile una partnership con Bmw per il Biscione, a partire dal 2011, così come che la superutilitaria del Lingotto venga esportata e non prodotta negli Usa, come era negli intendimenti di Marchionne. Ma nuovi modelli all’orizzonte non se ne vedono: si parla di una mini-cinquecento nel 2009. Nel frattempo si rafforza l’ipotesi di uno spin-off del settore auto, con scorporo e quotazione in Borsa delle quattro ruote. Forse lunedì si saprà se Fiat Auto vuole davvero correre da sola.
Il consiglio d’amministrazione di Telco, il patto di sindacato che racchiude i soci di controllo di Telecom, ha annunciato la sua lista per il Cda dell’ex monopolista. Tra gli altri, entranno in consiglio Gabriele Galateri di Genola, Franco Bernabè, Cesar Alierta, Tarak ben Ammar, Elio Catania, Jean-Paul Fitoussi, Aldo Minucci e Gianni Mion. Il Consiglio di Telco ha deliberato di proporre all’assemblea di Telecom Italia di determinare in 15 il numero dei componenti del Cda e di stabilire in 2,2 milioni il compenso complessivo annuo dei componenti dell’organo.
Maxi liquidazione per Riccardo Ruggiero Riccardo Ruggiero ha lasciato Telecom con una maxi liquidazione: in tutto circa 17 milioni di euro. Di questi,9,9 sono «un incentivo all’esodo», mentre altri 2 milioni sono dovuti a una transazione tombale per la rinuncia a qualsiasi rivendicazione retributiva o per danni di qualsivoglia natura. Ruggiero è vincolato da un patto biennale di non concorrenza con il suo ex datore di lavoro.
Ifi: nessun dividendo agli azionisti Luci e qualche ombra nel bilancio dell’Ifi, la finanziaria della famiglia Agnelli, nel bilancio del 2007. L’utile consolidato è pari a 444,3 milioni di euro (+222,9 milioni rispetto a l 2006): un raddoppio dovuto agli ottimi risultati della controllata IFIL (utili per 671,7 milioni) e, a cascata, a quelli del gruppo Fiat. Il patrimonio netto ha toccato i 4.160 miliardi (3, 799nel 2006). Negativa la posizione finanziaria netta per 392,7 milioni. Il Cda ha deciso di non distribuire dividendi.
Fincantieri: ordini record per 4,2 miliardi Fincantieri ha chiuso il 2007 in positivo. La controllata del Tesoro ieri ha presentato il bilancio dell’anno appena terminato: utile netto a 45 milioni di euro, valore della produzione a 2.673 milioni (+8,4 per cento rispetto al 2006); margine operativo lordo pari a 182 milioni (+15,2). Record di nuovi ordini per 4,2 miliardi che portano il portafoglio a 12,0 miliardi che garantiscono la saturazione produttiva per almeno tre anni e investimlenti sui cantieri pari a 116 milioni (+63).
Inflazione principale preoccupazione Bce Nessuno spazio per una riduzione dei tassi di interesse nell’Eurozona, a dirlo Juergen Stark, capo-economista della Bce. Per Stark, «la principale preoccupazione delle Bce resta l’attuale tasso di inflazione». Chiusura su ogni possibilità di accettare un maggiore inflazione a fronte di una maggiore crescita economica.
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cultura
Dal 1° aprile una straordinaria esposizione di disegni inediti, raccolti da padre Sebastiano Resta
Arabeschi e ornati nella storia dell’arte di Olga Melasecchi
ROMA. Torna a Roma dopo poco più di tre secoli un’importante collezione di disegni nella mostra Libro d’Arabeschi. Disegni ritrovati di un collezionista del Seicento, allestita a cura di Simonettta Prosperi Valenti Rodinò e Fabio Fiorani nelle sale di Palazzo Fontana di Trevi, prestigiosa sede dell’Istituto Nazionale della Grafica, dal 1 aprile al 15 giugno. L’eccezionalità di questo corpus grafico, ritrovato casualmente intorno al 1995 nella Biblioteca comunale di Palermo, è legata alla figura del suo «creatore», il padre oratoriano Sebastiano Resta (Milano 1635-Roma 1714), singolare e preziosa figura di esperto-conoscitore-mercante di opere d’arte, e in particolare, appunto, di disegni.Tale era la sua fama già tra i suoi contemporanei da suscitare l’ammirazione perfino di eruditi e collezionisti stranieri che lodavano la sua incredibile cultura ed esperienza nel campo della grafica d’arte. Con raffinata e rara sensibilità il Resta, nel solco della tradizione classicista secentesca, aveva intuito l’importanza del disegno per il processo creativo dell’opera d’arte, e aveva deciso, con spirito pragmatico, di «scrivere» una sua storia dell’arte, elaborata però non mediante la ricostruzione delle biografie degli artisti e delle loro opere, come dal Vasari in poi era divenuto usuale nella trattatistica d’arte, ma attraverso lo studio e l’evoluzione della produzione grafica.
lia nelle Gallerie dell’Accademia di Venezia, nel Museo di Capodimonte a Napoli e nel Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi a Firenze. Fortunatamente però non tutti questi volumi sono stati sciolti o sono andati dispersi: fino a dieci anni fa se ne conoscevano almeno sei ancora integri, di grande interesse storico e documentario per la storia del collezionismo e per la ricostruzione del pensiero di Resta. Nella Biblioteca Ambrosiana di Milano sono conservati un piccolo volume di copie di Rubens da sculture antiche e la celebre Galleria Portatile, al British Museum è un volumetto intitolato Correg-
Voglia, anch’egli oratoriano, collezionista appassionato di oggetti da wunderkammer e anch’egli dilettante di disegni. Venuto alla luce quest’ultimo volume, i 292 disegni e le 15 stampe in esso contenuti sono stati oggetto, oltre che di un indispensabile e accurato restauro presso il Laboratorio di restauro di opere d’arte su carta dell’Istituto Nazionale per la Grafica di Roma, di un approfondito studio per verificare la paternità delle opere, partendo dalle spesso non esatte indicazioni manoscritte del Resta su ciascun foglio, e rintracciare il dipinto, l’architettura o il prodotto di oreficeria per il quale questi di-
guendo questa sistemazione per tipologie, delle quali il nucleo più rappresentativo è costituito da progetti del Cinquecento per decorazioni di soffitti da realizzare «a grottesche», il caratteristico genere decorativo elaborato nella scuola di Raffaello che traeva ispirazione dalla pittura antica della Domus Aurea, progetti realizzati per le più importanti imprese papali e per i due maggiori committenti artistici del secondo Cinquecento, il cardinal Ippolito d’Este a Villa d’Este a Tivoli e il cardinal Alessandro Farnese a Caprarola e il cui studio ha permesso ora di delineare addirittura l’evoluzione del gusto della «grottesca» a Roma dal 1540 al 1600 circa.
Altrettanto significativi sono gli studi dall’antico, derivati da sculture, che costituirono la fonte primaria d’ispirazione per artisti dal Rinascimento al barocco: i più antichi sono riferibili ad allievi di Raffaello - Giulio Romano, Perin del Vaga, Luzio Romano con una splendida documentazione degli stucchi perduti del Colosseo - ma per il Seicento vi è uno splendido esempio di Pietro da Cortona tratto dall’Arco di Tito, che faceva parte di un taccuino giovanile smembrato. E ancora pochi ma significativi studi architettonici, come l’unico studio del Vignola pervenutoci per una delle tavole del suo celebre trattato Regola delli cinque ordini del 1562, e poi studi di scenografie teatrali e per apparati di feste, fogli preparatori per stampe. Il nucleo tuttavia più attraente è costituito infine dagli studi di oreficerie che ripropongono tipologie elegantissime di vasi e argenterie, preziosi documenti sia del gusto raffinatissimo del Manierismo italiano, sia di oggetti oggi per la maggior parte distrutti o fusi a causa della preziosità del materiale di cui erano costituiti, e tra questi figurano ancora studi di scuola raffaellesca di Giulio Romano e Perin del Vaga, protagonista dell’«Officina farnesiana» alla corte di Paolo III Farnese insieme a Francesco Salviati, qui presente con un elegantissimo studio per un calice d’oro progettato per il papa, insieme a Guglielmo della Porta e Luzio Luzzi con progetti per alzate, specchi e piatti da tavola ispirati all’antico.
Nella sede dell’istituto Nazionale della Grafica nel Palazzo di Fontana di Trevi sono esposti sei codici raccolti dal padre oratoriano e un settimo ritrovato nel 1995 nella Biblioteca comunale di Palermo
A tale scopo, con metodo sistematico, aveva collezionato materiale da lui attentamente studiato e incollato all’interno di ben più di trenta volumi che affrontavano le problematiche dell’opera grafica, divisa per scuole artistiche, per secoli o per tematiche. Purtroppo questi codici sono oggi per la maggior parte smembrati, secondo la pessima consuetudine perseguita dai conservatori di musei sin dall’inizio del secolo scorso di sciogliere i volumi, e i fogli in essi conservati sono confluiti nei maggiori gabinetti di disegni di tutto il mondo: in Inghilterra nel British Museum di Londra, alla Christ Church e all’Ashmolean Museum di Oxford; nel Teylers Museum a Haarlem in Olanda; al Kupferstickkabinett a Berlino; e in Ita-
gio a Roma, uno degli artisti più amati dal Resta, al Metropolitan Museum un piccolo taccuino del pittore lombardo Ambrogio Figino, alla Biblioteca Nazionale di Roma un volume di studi di scuola di Pietro da Cortona e infine nella National Gallery of Scotland di Edinburgh un album di copie da mosaici medievali nelle chiese di Roma, eseguite da Agostino Ciampelli nei primi decenni del Seicento. A questi sei volumi, con il ritrovamento palermitano si è potuto aggiungere ora un settimo, questo Libro d’arabeschi, come lo aveva intitolato lo stesso Resta, considerato disperso, ma di cui si aveva notizie dalla letteratura artistica. Secondo la poetica intitolazione, in questo caso l’oratoriano aveva riunito all’interno di un elegante codice rilegato in marocchino rosso prevalentemente disegni di arte decorativa per inviarli nell’anno 1689 a Palermo in dono al suo amico e corrispondente padre Giuseppe del
segni erano preparatori. Il contributo offerto dallo studio di questo corpus palermitano abbraccia quindi gli ambiti più vari nel campo della storia dell’arte dalla storia del collezionismo, alla storia della grafica, dell’architettura, e soprattutto delle arti decorative. Come evidenzia Simonetta Prosperi Valenti Rodinò, docente dell’Università di Roma Tor Vergata, il Resta «nel volume di Palermo vuole ripercorrere la storia e l’evoluzione del gusto decorativo nell’arte italiana dal tardo Quattrocento sino al Seicento, sottolineando in modo particolare l’incidenza dell’antico. Anticipando le categorie del disegno d’ornato sistematizzate solo nel XIX secolo, egli organizza il volume per soggetti: studi per decorazioni a grottesche, fogli dall’antico, disegni per oreficerie e per ornato architettonico, studi per incisioni e paesaggi». I 120 fogli scelti tra i più significativi per la mostra sono stati raggruppati proprio se-
A Roma la straordinaria esposizione di disegni, raccolti da Padre Sebastiano Resta, figura chiave del collezionismo e del mercato del disegno tra la fine del ’600 e l’inizio del ’700
cinema
orse è l’unico film di Martin Scorsese in cui non si ascolta Gimme Shelter», scherza Mick Jagger anticipando alla platea virtuale e universale di MySpace i contenuti di Shine A Light, il documentario musicale che il regista italo-americano ha dedicato alla più longeva rock’n’roll band di tutti i tempi e che debutterà sugli schermi italiani l’11 aprile. Errata corrige: chiamarlo documentario musicale, ci spiega in video un Mick amabile e rilassato, non è corretto. «Ti fa pensare a quelle pellicole in cui la troupe segue il gruppo ovunque e dovunque, riprendendone la vita di tutti i giorni, e in cui ti metti a improvvisare cose stupide per rendere il tutto più interessante. Un film concerto, invece, è una cosa diversa: la testimonianza di una performance speciale, o che credi possa incapsulare l’essenza di quel che fai.
«F
Nei suoi film Martin ha usato spesso la musica dei Rolling Stones, e di questo gli sono grato», aggiunge l’inossidabile vocalist ammiccando alle telecamere del social newtwork («MySpace è importante», ammette Jagger, «perché moltiplica a livello planetario l’efficacia del passaparola. Anche se con la competizione e la quantità di gruppi musicali che ci sono in giro oggi è dura emergere dalla mischia»). Sembravano predestinati al matrimonio, prima o poi, Scorsese e le Pietre Rotolanti. Lui, il cineasta newyorkese che s’era fatto le ossa come aiuto regista tra il peace & love, il fango e l’isteria collettiva di Woodstock, e che con The Last Waltz (1978) aveva sovvertito le sacre regole della filmografia rock seguendo la Band di Robbie Robertson e i suoi illustri ospiti in mezzo al palco, a suon di primi piani e soggettive che ribaltavano la tipica prospettiva del-
29 marzo 2008 • pagina 21
Mick Jagger su MySpace racconta il film che il regista ha dedicato alla band
Gli Stones illuminano Scorsese di Alfredo Marziano lo spettatore di un concerto rock. E loro, gli instancabili gladiatori del rock’n’roll circus, macinatori implacabili di concerti che con l’ultima tournée hanno racimolato, secondo la rivista Forbes, la bellezza di 88 milioni di dollari al botteghino mettendo in fila il rapper Jay-Z, Madonna e Bon Jovi. Shine A Light, 122 minuti di durata, li
che il 29 ottobre e il 1° novembre del 2006 ospitò due date del A Bigger Bang tour. Intervallati da riprese nel backstage, interviste e vecchi filmati di repertorio, scorrono sullo schermo formato iMax e a tutto volume una ventina di brani storici del repertorio, da Jumpin’ Jack Flash a Satisfaction. C’è Buddy Guy, monumento vivente del blues, a ricordare l’antico patto di sangue tra gli Stones e la musica del diavolo con un’interpreta-
la. Il tempo, insomma, è ancora e sempre dalla loro parte. Anche se, scrive Todd McCarthy su Variety,“la parabola evolutiva della loro reputazione – da ragazzi cattivi a nonni vispi e adorati del rock’n’roll – può essere tracciata guardando agli ospiti principali dei loro primi e ultimi film in concerto: gli Hell’s Angels in Gimme Shelter, Bill Clinton e famiglia in Shine A Light”.
Persino Scorsese sembra in soggezione, al cospetto di Jagger & Richards, Watts & Wood, e abbandona lo stile da reportage febbrile del classico No Direction Home dylaniano per una narrazione più piana e celebrativa. In linea con il blasone della band. «Quando abbiamo cominciato noi», ricorda Jagger davanti alle telecamere di MySpace, «il rock’n’roll aveva appena dieci anni. Nessuna storia, nessuna prospettiva critica, lontano dall’essere un genere codificato come il jazz. Allora era estremamente difficile, e dispendioso, scoprire cose nuove, se non quelle che rientravano nel mainstream e finivano in classifica». Se la Bbc era pronta per i Beatles, a quei tempi, non lo era per quei cinque ragazzacci insolenti e soprattutto per quel cantante, Mick, che aveva “una voce troppo da nero”(lo rivela un vecchio documento storico riesumato nei giorni scorsi dal quotidiano Independent). Ora che hanno per fan un ex presidente degli Stati Uniti, e che alla Casa Bianca potrebbe arrivare il primo inquilino “coloured”, tutto questo sembra fantascienza. E’ cambiato il mondo intorno ma loro no, non si scompongono. Gloriosamente immutabili nei loro riff e nelle loro monie, anche se continuano a girare il mondo come pazzi e le rughe gli segnano il volto come mappe stradali. «Ti vedi a fare ancora queste cose a sessant’anni?», chiede malizioso a Jagger Dick Cavett, re dei talk show americani, in uno dei filmati d’archivio ripescati da Shine A Light. E lui, serafico: «Certo che sì».
Shine a Light, il documentario-concerto filmato nel 2006 al Beacon Theater di New York, rappresenta un formidabile ritratto della band inglese segue in azione sul palco del Beacon Theater di Upper Broadway, Manhattan, bomboniera kitsch anni Venti in stile neo-greco e 2.800 posti a sedere
zione ruggente di un vecchio classico di Muddy Waters, Champagne & Reefer, mentre Jack White dei White Stripes e la vamp Christina Aguilera garantiscono la loro credibilità per le generazioni del Duemi-
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LA DOMANDA DEL GIORNO
Come reintrodurre il merito nelle scuole? LA SCUOLA DEVE PARTIRE DAL PRINCIPIO CHE GLI STUDENTI NON SANNO E DEVONO IMPARARE Che la nostra scuola sia disastrata non c’è dubbio. Che debba essere reintrodotto il principio del merito lo dicono tutti. Ma come reinserire questo principio nel nostro sistema scolastico nessuno lo dice. Davvero non si sa come fare? O altre sono le ragioni? Io sono un ”matusa” di quasi settanta anni e quando espongo le mie idee in proposito, se non proprio sbeffeggiato, vengo quanto meno accusato di essere all’antica e di non comprendere le esigenze dei giovani. Sarà pure vero, però quelli che hanno compreso le esigenze dei giovani hanno prodotto autentici somari; e non lo dico io,ma lo dimostra il fatto che i nostri studenti sono i più asini d’Europa (in matematica in particolar modo), lo dimostra l’esito dell’ultimo concorso in Magistratura (errori d’ogni tipo negli elaborati, persino d’ortografia!), lo dimostrano i giovani quando parlano (ah, i congiuntivi). I nostri padri avevano capito tutto. La scuola deve partire dal principio che gli studenti non sanno e che quindi devono imparare da chi sa, altro che autoapprendimento. Ricominciamo a insegnare il latino dalla prima media inferiore, ricominciamo a far studiare analisi grammaticale, ana-
LA DOMANDA DI DOMANI
lisi logica e sintassi. Ricominciamo a resuscitare gli esami di riparazione, l’uso dei trimestri e delle pagelle. Ricominciamo soprattutto a bocciare chi non merita di andare avanti. Io sono matusa e forse non comprendo appieno le esigenze dei giovani, però a quasi settanta anni so ancora tradurre dal latino, so bene analisi logica, grammaticale e sintassi, ho saputo aiutare i miei figli nello studio della matematica. Infine, rimettiamo l’obbligo del voto in condotta. Hai visto mai che riusciamo pure a insegnare il rispetto e le buone maniere.
Fabio Di Pierro - Roma
Non riesco a dimenticare che proprio gli intellettuali, dagli anni Sessanta in poi, hanno dato un enorme contributo alla distruzione della scuola. Certamente non hanno alcuna responsabilità i quindici docenti universitari che hanno dato vita al ”Gruppo di Firenze”, ai quali anzi va tutta la mia stima e riconoscenza. L’appello è rivolto a tutti i partiti. Direttore, continui a parlare di questa questione, i partiti difficilmente affronteranno il problema prima delle elezioni. E’ un argomento troppo scomodo e pericoloso... per i voti che si potrebbero perdere tra i giovani, i quali ormai sono abituati ad ottenere tutto quanto non costituisce impegno e sacrificio.
Laura Miani - Roma
VA BENE SE IL PRINCIPIO VALE ANCHE PER POLITICI E FUNZIONARI
In questi giorni state mangiando la mozzarella di bufala? Rispondete con una email a lettere@liberal.it
PESCE BOMBA
PER I POLITICI LA QUESTIONE È SCOMODA, AFFONDA LE RADICI SOPRATTUTTO NEGLI ANNI ’60
Ho letto dell’iniziativa lanciata dai professori di Firenze. Giustissima, ma non so se davvero praticabile all’interno delle scuole. Bisogna far rispettare merito e responsabilità a ragazzi che vedono calpestati ovunque questi principi. Nella politica, nella pubblica amministrazione, nella sanità, nei concorsi. A cercare di imporre il rispetto delle regole può esserci anche il professore più austero e severo, ma quel professore rappresenta pur sempre lo Stato, e se lo Stato non dà l’esempio perché i ragazzi dovrebbero sottomettersi, loro soltanto, al principio del merito?
LA CAMPANIA, LE MOZZARELLE... E L’ATTENZIONE DELLA POLITICA Dopo la politica fallimentare del centrosinistra, la Campania in questi giorni vive un’altra drammatica emergenza economica e occupazionale. La messa al bando della mozzarella di bufala da parte di Paesi che poco hanno da insegnare per quanto attiene alla educazione e all’igiene alimentare, mette in crisi un settore e una tradizione che in alcune province della Regione rappresenta il primo per volume d’affari e occupazione. La sinistra, come pure la destra di Berlusconi, non è in grado di rispondere a un attacco violento portato a una Regione e alla sua economia. Questo non solo ci deve far riflettere, ma deve far capire che l’Italia ha bisogno di un governo capace di governare. Veltroni e Berlusconi rappresentano le due facce della stessa medaglia: dicono le stesse cose, si muovono nello stesso modo e forse hanno già deciso di governare a modo loro il Paese e i problemi che manifesta. In Campania questo è forse già nelle cose, non a caso il partito di Berlusconi e di Fini si caratterizza in questa area della
L’abitazione a Oxford dell’inglese Bill Heine, che nel 1986, nel 41esimo anniversario dello scoppio della bomba atomica a Nagasaki, si fece incastonare sul tetto uno squalo in vetroresina lungo quasi 8 metri FRANCESCO D’ONOFRIO, POLITICO DI GRANDE SENSIBILITÀ Ho davvero stima e simpatia per il senatore Francesco D’Onofrio, rispettato Presidente del gruppo senatoriale dell’Udc e politico democristiano di grande sensibilità e cultura istituzionale. Mi sembra degna di nota la sua personale sfida elettorale come capolista dell’Udc in quasi tutte le Regioni per l’elezione del Senato. Una posizione non certo di comodo e dall’alto valore politico, soprattutto nelle Regioni dove l’Udc si gioca i seggi al Senato, cercando di superare l’impegnativo sbarramento dell’otto per cento. Già in diverse occasioni ho espresso il mio personale rammarico per il mancato accordo tra Casini e Berlusconi. La presenza in Parlamento di personalità come Francesco D’Onofrio sarà forse utile
dai circoli liberal Dimitri Salerno - Firenze
nazione per aver allentato e ammorbidito le posizioni rispetto ai partiti che hanno dato vita, anche in seno al Consiglio regionale, al Pd. Tant’è che l’unica forza che chiede in modo chiaro ed evidente le dimissioni di Bassolino e della sua Giunta è l’Unione di Centro. Che non è solo l’Udc, ma l’embrione di quella già Costituente di tutti i moderati italiani, nella quale la Rosa bianca di Pezzotta e De Mita, unitamente ai Circoli Liberal di Adornato, rappresentano il punto di partenza per costruire la novità dello scenario politico italiano, attrraverso la nascita di un unico e grande partito dei moderati italiani. Un elemento di novità dunque, al di là di Prodi, Veltroni, Berlusconi, Fini & Co. Novità anche nella partecipazione, che fu già elemento che fece grande la Democrazia criastiana e la democrazia delle istituzioni e del Paese Italia. Per fare tutto questo e per dare delle risposte a difesa degli interessi legittimi delle imprese, delle famiglie e delle problematiche che vive la Campania, ma come il resto del Paese, serve un contributo forte e sostanziale, che si manifesta oggi più che mai attraverso il voto dato
in futuro per ricucire un’alleanza tra i moderati e per costruire la ”sezione italiana”del Ppe.
Matteo Prandi - Milano
IL PD GIOCA CON IL VERDE Il Pd gioca con il verde. E in uno spazio verde, si sa, tutto aiuta a rilassarsi, a rompere le ultime riserve e a farsi prendere dalle distrazioni. Peccato che, nonostante il ricorso a tutte le risorse dell’artificio, alle persuasive strategie soft e ai nuovi processi astrattizzanti, la regia dello spettacolo delle contrapposizioni sia affidata alle solite facce dei rossi compagnoni che ci riservano le abituali emozioni, le vecchie sensazioni e tanti malumori. Grato dell’attenzione. Distinti saluti.
Pierpaolo Vezzani Correggio (Re)
all’Unione di Centro i prossimi 13 e 14 aprile. Liberal c’è, così come è forte e presente in Campania, e oggi vicino agli allevatori, ai produttori e a quanti vivono con ansia un problema che minaccia non solo l’economia di intere famiglie, ma la storia, la cultura, la tradizione di generazioni che con il loro impegno e il loro sacrificio hanno contribuito a far grande la Regione Campania e l’Italia. Vincenzo Inverso SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
APPUNTAMENTI NAPOLI - SABATO 5 APRILE 2008 Assemblea regionale della Campania dei Circoli Liberal, con la partecipazione di Ferdinando Adornato. ROMA - VENERDÌ 18 APRILE 2008 Ore 11, a Palazzo Ferrajoli, in piazza Colonna Riunione mensile nazionale dei Presidenti dei Circoli Liberal.
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog Ecco che ritorno in una esistenza da uomo Mi dici, angelo caro, che non ti ho iniziato alla mia vita intima, ai miei più segreti pensieri. Sai che cosa c’è di più intimo, di più nascosto in tutto il mio cuore e di più mio in me? Due o tre povere idee d’arte covate con amore; ecco tutto. I più grandi avvenimenti della mia vita sono stati alcuni pensieri, letture, certi tramonti sul mare a Trouville, e delle chiacchierate di cinque o sei ore consecutive con un amico che è ora sposato e perduto per me. La differenza che ho sempre avuto, nel modo di veder la vita, con gli altri, ha fatto sì che mi sia sempre sequestrato in una solitaria asprezza da cui nulla traspariva. Per anni sono rifuggito dalla compagnia delle donne. Non volevo ostacoli allo sviluppo del mio principio originale. Avevo finito per non desiderarle più.Vivevo senza le palpitazioni della carne e del cuore. Poi sei venuta tu, e hai tutto sconvolto. Ecco che ritorno in una esistenza da uomo. Gustave Flaubert a Louise Colet
MOZZARELLA DI BUFALA, IL SILENZIO DEL GOVERNO La Corea ci ha riempito di tutto e del contrario di tutto: giocattoli pericolosi, stoffe con tinture tossiche, elettronica a prezzi da liquidazione eccetera. E ora, per un poco di diossina derivata da quindici anni d’ingenuo e sfortunato governo di Napoli e Campania... Noi non abbiamo fatto qualcosa contro la Corea, non abbiamo provveduto con la piazza, gli scioperi, le bandiere arcobaleno per protestare contro. E ora che problema c’è, la mozzarella? Mandiamo in Corea una delegazione, apriamo un ufficio turismo, qualche canzone napoletana tira sempre bene e con successo. Su questo non problema giustamente il governo tace.
Paolino Di Licheppo Teramo
SOCIALISMO CRISTIANO, NESSUNA CONTRADDIZIONE Vorrei accennare brevemente alle numerose polemiche che si sono scatenate sul cosiddetto arruolamento di Gesù ”primo socialista” negli spot televisivi e sui manifesti elettorali del candidato premier Enrico Boselli. Giustamente, il leader socialista ha re-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)
ACCADDE OGGI
29 marzo 1807 Georg Wilhelm Friedrich Hegel pubblica la prima edizione della Fenomenologia dello spirito 1871 Apre la Royal Albert Hall 1879 Guerra anglo-zulu: Battaglia di Kambula: nello scontro con le forze britanniche muoiono ventimila zulu 1973 Guerra del Vietnam: gli ultimi soldati americani lasciano Saigon, Vietnam del Sud. In totale i morti ammontano a 930.000 nord-vietnamiti, 180.000 sud-vietnamiti e 45.000 statunitensi 1979 Con la mediazione di Jimmy Carter, il presidente egiziano Anwar al-Sadat e il primo ministro israeliano Menahem Begin firmano il trattato di pace tra Egitto ed Israele 1989 Alaska: naufragio della petroliera Exxon Valdez 1999 L’indice Dow Jones sale nuovamente oltre 10.000 punti chiudendo a 10.006,78: l’anno dopo ci sarà lo scoppio della bolla speculativa del 2000
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,
plicato che non gli sembra un fatto immorale né antireligioso che i socialisti colleghino il loro umanesimo e i loro valori a quelli cristiani. Aggiungendo che il messaggio cristiano non è esclusiva di nessuno: è un messaggio universale. Infatti, alle origini del socialismo il sentimento cristiano è presente, si intreccia con esso, si presenta come socialismo evangelico. Basta citare la figura di Camillo Prampolini, nel reggiano, e la sua famosa ”predica di Natale”. Per essere veri cristiani, predicava, bisognava essere socialisti. Amare i poveri significava lottare per il loro riscatto. E non va dimenticato il movimento socialista religioso o cristiano che nell’Ottocento si sviluppò in Europa, guidato da Fleischmann, Ragaz, Katzenstein, Humm e Brentano, e continuato da Silone e Tasca, per i quali ”il cristianesimo costituisce un perfezionamento dell’idea di società socialista, perché porta alla coincidenza, nell’assoluto della persona, dei concetti di classe e umanità. Senza l’innesto nella tradizione socialista dell’antica verità rappresentata dal cristianesimo, la liberazione dell’uomo sarà illusoria e imperfetta”.
Angelo Simonazzi Poviglio (Re)
PUNTURE A Messina, mentre Veltroni parlava una militante del Pd è svenuta sul palco. Veltroni ha smesso di parlare, la ragazza si è ripresa.
Giancristiano Desiderio
“
Ci sedemmo dalla parte del torto, visto che tutti gli altri posti erano occupati BERTOLT BRECHT
”
Giancristiano Desiderio, Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
il meglio di KOSOVO E TIBET, IL FALLIMENTO DEL SOCIALISMO Due indipendentismi, stessa matrice: sia i tibetani che i kosovari non ne potevano più di stare sotto il governo centrale, far parte a forza di uno Stato unitario. Sia i tibetani che i kosovari non potevano fisicamente più restare sotto il loro governo, perché non avrebbero subito altro che repressione, discriminazione e un vero e proprio genocidio culturale. La loro scelta di andarsene dallo Stato unitario e di combattere con la forza i cittadini fedeli ad esso non poteva essere evitata, pena la sconfitta. L’esito è stato differente nei due casi, ma solo per una questione di fortuna e sfortuna. La fortuna del Kosovo di essere nel cuore dell’Europa, di avere a che fare con un governo centrale jugoslavo già fortemente indebolito dalla crisi economica e da due guerre perse, prima in Croazia e Slovenia, poi in Bosnia. Quando i kosovari hanno scelto la via dell’indipendenza nel 1998, hanno ottenuto l’appoggio della Nato e hanno vinto. L’indipendenza è stata formalmente proclamata solo il 17 febbraio scorso, ma di fatto c’era già nel 1999, quando le truppe serbe dovettero lasciare il paese e far posto agli uomini della Nato. Sfortuna, invece, quella del Tibet che si trova ad avere a che fare con un governo centrale che dispone del più numeroso esercito del mondo, di una discreta potenza nucleare ed è protagonista di una forte crescita economica che spaventa tutti i concorrenti occidentali da quindici anni a questa parte. (...) Il problema è il socialismo, in tutte le sue forme. Il socialismo, il controllo dell’economia da parte dello Stato, è in sé una forma di sfruttamento, una for-
ma annacquata di schiavitù. Toglie risorse a una fascia di popolazione per darle a una parte più privilegiata di cittadini, costringendo gli uni a lavorare per il bene degli altri. Il socialismo tende a espandersi territorialmente per accaparrare forze produttive e risorse da “redistribuire”. Dove l’elemento nazionale è forte nella cultura di un paese, il socialismo l’amplifica: le risorse conquistate diventano patrimonio della nazione conquistatrice. I popoli conquistati si sentono ancor più motivati a identificarsi come nazione e a reclamare l’indipendenza.Non c’è alcuna eccezione in questo schema: la Spagna di Franco (nazionalista, socialista nell’economia) ha fatto nascere il separatismo basco. La Gran Bretagna socialista ha discriminato nei servizi sociali i cattolici irlandesi e ha fatto nascere il separatismo dell’Irlanda del Nord. Il socialismo nazionale dei fascisti italiani ha fatto nascere il separatismo alto-atesino, poi il socialismo democratico che è seguito alla liberazione lo ha ammansito con concessioni di autonomia e privilegi economici. Il socialismo democratico belga, che toglie ai fiamminghi per dare ai meno produttivi valloni, alimenta il separatismo fiammingo. Il socialismo nazionale della Turchia ha fatto esplodere il separatismo curdo. Dove il socialismo è coniugato con la dittatura e con un controllo totalitario della società, lo sfruttamento si fa più forte e la ribellione sfocia in guerra civile. (...) Può far paura la solitudine di un individuo in una società aperta e atomizzata. Ma è sempre meglio di una guerra civile.
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