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QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA

Oggi lo Stato ebraico fa 60 anni

e di h c a n o cr

Auguri Israele, i tuoi nemici sono i nemici del mondo

di Ferdinando Adornato

di Daniel Pipes

UN CAVALIERE INEDITO CHIEDE LA FIDUCIA ALLA CAMERA

D

Morbido nei rapporti istituzionali ma generico sulla modernizzazione del Paese. L’esatto contrario del Berlusconi di sempre

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Silvio IV, il buono dalla pagina 2 alla 7 Il nuovo presidente di Ifil

Specializzato in salvataggi industriali

alle rovine dell’impero britannico, immediatamente dopo la seconda guerra mondiale, sono nati due Stati a connotazione religiosa: Israele, naturalmente, e il Pakistan. Due Paesi che costituiscono una coppia interessante, sebbene raramente messa a confronto. L’esperienza del Pakistan, con la sua diffusa povertà, i disordini interni pressoché costanti e le tensioni esterne culminate nell’attuale situazione che lo rendono una fonte di preoccupazione, mostra i pericoli scampati da Israele, che è oggi uno Stato liberale stabile con un’economia dinamica, un’avanzatissima industria hi-tech, grande vivacità culturale ed eccezionale coesione sociale. Ma per tutte le sue conquiste, sullo Stato ebraico pesa un anatema cui il Pakistan e la maggior parte degli altri governi dei Paesi del mondo non hanno mai dovuto fare fronte: la minaccia dell’eliminazione. I notevoli progressi compiuti nel corso del tempo non lo hanno liberato da un pericolo che ha molteplici sfaccettature, che prevede l’utilizzo di qualsiasi mezzo immaginabile per cancellarlo dalle carte geografiche: armi di distruzione di massa, attacchi militari convenzionali, terrorismo, eversione interna, blocco economico, aggressione demografica e indebolimento ideologico. Nessuno Stato contemporaneo si trova a fronteggiare una simile varietà di minacce, anzi, probabilmente nessuna nazione lo ha mai fatto nel corso della storia. co n ti nu a a p ag in a 1 2 n el l ’i n se ro Oc c id e nt e

Film comici sulla tragedia del 2001

Agnelli: incoronato John Elkann, resta la rabbia di Andrea

Alitalia, il centrodestra punta su Resca

11 settembre: ora Hollywood la butta in farsa

di Bruno Babando

di Alessandro D’Amato

di Maurizio Stefanini

Il passaggio delle consegne da Gianluigi Gabetti a John Elkann della presidenza di Ifil, la cassaforte di casa Agnelli, può essere raccontato come il passaggio dello scettro dal reggente della corona al nuovo e giovane sovrano.

«Né svendere né nazionalizzare». L’oggetto del mandato gliel’ha fornito Berlusconi. Ma per Mario Resca, probabile nuovo presidente di Alitalia, sarà difficile accontentarlo.

Visti i dati mediocri dei film seri, da “United 93” di Paul Greengrass a “World Trade Center”di Oliver Stone, una serie di titoli appena usciti dimostra che Hollywood sta provando a buttare la tragedia in burla.

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IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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silvio iv

Il giudizio dei politologi sulla svolta del premier

Berlusconi il buono di Nicola Procaccini

ROMA. Per molti anni in Italia, particolarmente negli ultimi 14, il dibattito in Parlamento sulla fiducia al nuovo governo è sempre stato una sorta di corrida con urla, grida, spintoni, svenimenti e insulti. «Buffoni, vergogna, dimissioni, libertà, fascisti, comunisti, ladri e assassini» erano solitamente le invocazioni più ricorrenti, da un estremo all’altro dell’Aula. Ma come hanno riconosciuto tutti i commentatori, il clima di ieri a Montecitorio, mentre parlava Silvio Berlusconi (paradigma del male per milioni di italiani di sinistra) sembrava piuttosto quello del tè delle 5. Una novità per la politica nazionale che piace a molti, ma non a tutti. Innanzitutto, di chi è il merito? Del Cavaliere che ha finalmente smesso i panni del falco

ALESSANDRO CAMPI Siamo talmente abituati allo scontro politico che non riusciamo ad abituarci ai toni soft. Il mio timore è che neanche ci piaccia molto.

anticomunista? Oppure dei centristi che hanno predicato la moderazione dei toni nel deserto di questi anni? O piuttosto del nuovo corso di Walter Veltroni che già nel corso della campagna elettorale aveva usato toni corretti e propositivi? Ma soprattutto servirà all’Italia? Ed inoltre, questa nuova atmosfera di dialogo e concertazione durerà a lungo o sarà stata solo un episodio stravagante nella vita parlamentare del Paese? Lo abbiamo chiesto ad alcuni politologi di diversa estrazione politica. Per Giampaolo Fabris, docente universitario, autore di libri interessanti sull’Italia che cambia: «Il merito è soprattutto di Berlusconi, con il riconoscimento del governo ombra a lui contrapposto il premier ha compiuto un gesto importante. Magari normale in altri paesi ma straordinario nel nostro». «Certamente anche l’opposizione ha dei meriti – riconosce Fabris – Veltroni non ha mai tirato

Le frasi del dialogo Gli italiani hanno preso la parola. Hanno messo a tacere con la loro voce sovrana il pessimismo rumoroso di chi non ama l’Italia e non crede nel suo futuro. Hanno respinto insidiose campagne di sfiducia astensionista o di protesta qualunquista e hanno partecipato generosamente al momento più alto di una democrazia liberale moderna. Dividetevi, hanno detto i cittadini, ma non ostacolatevi slealmente. Combattetevi anche, ma non in nome di vecchie ideologie. Prendete democraticamente le decisioni necessarie a risalire la china, rispettate il dissenso e tutelate le minoranze, che si esprimono dentro e fuori del Parlamento, ma dateci stabilità e impegno nell’azione di governo. Si respira un nuovo clima (...) La parte maggiore dell’opposizione ha creato un suo strumento di osservazione e di interlocuzione con il governo: il gabinetto ombra di tradizione anglosassone, che può essere d’aiuto nel fissare i termini della discussione, del dissenso e delle eventuali convergenze parlamentari, in particolare sulle urgenti e ben note modifiche da apportare al funzionamento del sistema politico e costituzionale. L’aspirazione generale è che un confronto di idee e di interessi anche severo, anche rigoroso, non generi nuove risse ma una consultazione alla luce del sole, un dialogo concreto e trasparente, e poi scelte e decisioni ferme che abbiano riguardo esclusivamente agli interessi del Paese. Facciamo tesoro di questa aria nuova, respiriamola a pieni polmoni. Se un governo è messo in grado di decidere, nel rispetto del mandato che gli hanno conferito gli elettori, non ha interesse a comportarsi in modo invasivo, a considerare colleghi e avversari come nemici.

fuori l’aggressività, l’astio, il discredito contro il suo avversario. Eppure ho la sensazione che fuori dal Parlamento resista un atteggiamento retrò di demonizzazione del leader del centrodestra.Viceversa, Berlusconi ha dato ultimamente segnali contrari: meno arrogante, e meno incline a quel suo atteggiamento da Re Sole. A me dispiace, visto che sono più vicino all’opposizione, ma nel centrosinistra vedo molta ambiguità e poca chiarezza». «D’altra parte – conclude Fabris – l’opposizione non si fa dicendo sempre di no a tutto, così come non si governa senza un confronto continuo con l’opposizione. Solitamente disprezziamo la concertazione con parole tipo “inciucio”, ma solo il dialogo tra le forze politiche può consentire quel colpo di reni di cui l’Italia ha disperatamente bisogno».

Alessandro Campi, docente di storia delle dottrine politiche a Perugia, individua nel modo d’essere degli italiani il curioso scetticismo che circonda l’atmosfera serena di queste ore. «Non ci crede nessuno – spiega Campi – Siamo talmente abituati allo scontro politico che non riusciamo ad abituarci ai toni soft. Il mio timore è che neanche ci piaccia molto. In Italia abbiamo una cultura diffusa in ambito giornalistico, politico ed intellettuale in virtù della quale si da per scontato che ci debba essere una contrapposizione dura e pura. Lo spirito di fazione che abbiamo nel dna ci fa sembrare strano questo clima. Irreale, ci sembra che nasconda un qualche strano inghippo. Della serie: che cosa ci sarà dietro?». Il politologo vicino al centrodestra, invece ci crede davvero in questo

nuovo clima politico «perché l’Italia è oggettivamente stanca». «Va bene la contrapposizione, va bene la democrazia conflittuale – dice Campi – ma sono 15 anni che va avanti questa storia. La democrazia è conflitto, di uomini e di idee, ma noi abbiamo esagerato. Eravamo arrivati ad un punto in cui ci si metteva reciprocamente in discussione sul piano etico e morale. Due Italie che avevano smesso di parlarsi, che non si riconoscevano alcuna legittimità». Dunque, un cambio di registro vero, destinato a durare. Per Campi questo dipende da tre fattori: «Il primo è Berlusconi. Questa è la sua ultima chance per consegnarsi alla storia di questo Paese come statista. Cosa che ha tentato di essere, ma che in realtà non è mai stato: un grande leader politico mai assurto al rango di statista. Il secondo è dato dalle condizioni disperate della nazione. Il terzo fattore è determinato dalla crisi dell’antiber-

GIANFRANCO PASQUINO Se a dettare la linea sarà Maroni o Sacconi o Frattini il vantaggio sarà per l’Italia. Ci sono diverse facce di Tremonti: una cattiva, e una competente.

lusconismo militante. Non paga politicamente, ormai la sinistra se n’è dovuta render conto». Per Campi comunque il processo non è ineluttabile: «Il richiamo della foresta a sinistra è sempre possibile. Il caso Travaglio lo dimostra in queste ore». Terzo ed ultimo politologo coinvolto in questa riflessione è Gianfranco Pasquino. Per il docente di Scienza Politica all’Università di Bologna: «Berlusconi vuole coinvolgere Veltroni nella sua luna di miele con l’Italia. D’altronde il candidato del Pd ha perso e sarà il caso che ci stia, altrimenti verrebbe schiaffeggiato da una maggioranza amplissima». Du-


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Ecumenico nei toni ma leggero nei contenuti: le reazioni in casa Udc

Finalmente moderato (ma ora ha paura dell’innovazione) colloquio con Ferdinando Adornato di Riccardo Paradisi

ROMA. Ottimista e disponibile verso l’opposizione. Sono questi i due aggettivi che qualificano il discorso di Silvio Berlusconi alla Camera per la fiducia. Dal punto di vista programmatico il Cavaliere cita solo le prime cose farà il nuovo governo: lo smaltimento dei rifiuti a Napoli, l’abolizione dell’Ici, la detassazione degli straordinari , misure per garantire la sicurezza dei cittadini. Del discorso di Berlusconi abbiamo parlato con Ferdinando Adornato. Quello che chiede la fiducia appare un Berlusconi cambiato rispetto al passato. Dialogante, morbido… Siamo di fronte a un mutamento evidente. Nel suo discorso c’è persino qualcosa di vagamente ecumenico e se il termine buonista non fosse ormai caratterizzante di Veltroni lo si potrebbe usare per definire il nuovo Berlusconi. Un discorso il suo più da Camera dei Lord che da parlamento italiano. Non è un male, anzi, va benissimo. L’interfaccia però non è positiva: il suo infatti è stato un discorso leggero di contenuti. L’ici, i rifiuti, la sicurezza: erano i temi della campagna elettorale. Si, presentati di volata, con l’artificio retorico di non voler entrare nel dettaglio. Perché di fatto non è stata data nessuna indicazione del programma di governo. Una volta Berlusconi era duro e polemico con gli avversari e forte nella parte programmatica. Oggi questo clichè si è rovesciato. Sembra quasi che la conquista della moderazione si accompagni oggi a una paura dell’innovazione. Che cosa è accaduto? È molto difficile interpretare Berlusconi. Le rispondo con una battuta: sentendo la mancanza dell’Udc il Cavaliere ha recitato la parte dell’Udc… Seriamente, si tratta di un passo avanti, che può però nascondere un’insidia. Quale? Ecco non vorrei che Berlusconi coltivi il desiderio di avere un’opposizione di sua maestà. Scegliersi insomma l’opposizione favorita. Io questo sospetto un po’ce l’ho e quando dice che gli italiani hanno scelto una maggioranza di governo e una di opposizione mi sembra denoti proprio questo desiderio di avere un’opposizione morbida. Insomma un’eccesso di dialogo può portare a un depotenziamento della dialettica democratica? Non dico questo, no. Anzi, una democrazia seria si contraddistingue per la misura nei toni. Per 15 anni c’è stata un opposizione feroce in Italia. I toni, gli argomenti usati sono stati quelli di una guerra civile verbale dannosissima per il Paese. Che sia finita questa fase è un bene. Quello che voglio dire è che l’alchimia giusta dovrebbe essere la morbidezza dei toni e il rispetto istituzionale coniugati al conflitto anche duro se necessario nei contenuti. Bene dunque il bon ton di Berlusconi meno bene la leggerezza del suo

discorso. Una leggerezza che rischia di diventare insostenibile laddove non c’è un richiamo vero alla drammaticità del Paese. A cosa si riferisce in particolare? Ma insomma tutti gli indicatori segnano una linea preoccupante: dai consumi, alla ricerca, alla scuola, siamo di fronte a una vera e propria emergenza a cui non è possibile rispondere in modo generico, nemmeno in un discorso di inizio legislatura. Da cui sono stati tagliati fuori i temi che più urgentemente chiedono di essere investiti di un’azione politica seria e profonda. Quali? L’energia, innanzi tutto. Nel discorso del presidente del Consiglio non c’è un accenno neppure vago al piano dell’energia che invece deve essere affrontato subito anche con un ritorno al nucleare. Poi la scuola. Non bastano le due frasi che gli sono state dedicate. Nell’ambito dell’istruzione occorre mettere in campo un processo di superamento del monopolio

che sottrarrebbe un settore delle comunicazioni anche al loro controllo? Perché è giusto, perché è necessario, perché questo servizio pubblico non serve a nessuno. E comunque l’Udc deve avere il coraggio di porre questo tema con forza. Tabacci lo ha fatto. Io lo faccio adesso e continuerò a farlo. Perché credo che da una Rai libera ne guadagnino tutti. A cominciare dai giornalisti che ci lavorano e che voglio dirlo, sono bravissimi. Bravi ma mortificati nella loro professionalità da una logica di lottizzazione asfissiante e umiliante. Ecco se questa legislatura riuscisse ad affrontare seriamente questo e gli altri nodi cui accennavo sarebbe una legislatura interessante. L’opposizione del centro sarà dunque

Il Paese ha emergenze drammatiche: sono energia, scuola, liberalizzazioni, famiglia. Berlusconi non le ha affrontate come meritavano

rerà? «Molto dipende dai disegni di legge che presenterà il governo perché alcuni sono pacifici, altri conflittuali. La Rai per esempio. E forse l’opposizione dovrebbe inserire nel dibattito qualcosa della sua agenda, per esempi il conflitto d’interessi. Argomento su cui la maggioranza berlusconiana farà le barricate». Cui prodest? «Se a dettare la linea di Berlusconi sarà Maroni o Sacconi o Frattini il vantaggio sarà per l’Italia – sostiene Pasquino – Ci sono diverse facce di Tremonti. Quella cattiva sarà dannosa per il Paese mentre quelle competente potrebbe far funzionare l’economia. Temo molto per la Gemini». Ma se avesse vinto Veltroni avrebbe fatto un discorso molto diverso da quello del Cavaliere? «Avrebbe detto 40 volte la parola giustizia sociale - risponde Pasquino – 2 volte uguaglianza e qualche parola sui salari, ma avrebbe anche lui parlato di pacificazione del Paese». Su chi farà saltare il gioco Pasquino ha le idee chiare: «La Lega Nord nel momento in cui avanzasse proposte dirompenti sul federalismo non solo fiscale, oppure i cattolici sui temi eticamente sensibili, come la legge 194».

statale. Ancora: le liberalizzazioni. Senza di loro il Paese finisce in ginocchio. Liberalizzare le municipalizzate nei comuni, il settore dei servizi. Senza questi provvedimenti i servizi per cui gli italiani pagano le tasse saranno sempre peggiori. Infine, il quoziente famigliare. Berlusconi non ne ha accennato. Eppure è centrale in una vera riforma del nostro sistema fiscale. Che deve partire dalle esigenze della famiglia. Non vorrei che questa rimozione abbia a che fare con la minore rappresentanza culturale del mondo cattolico nel nuovo governo. La lamentela che viene da Avvenire e da Famiglia cristiana è anche nostra. Questo Pdl le sembra troppo sbilanciato in termini di cultura politica? Il Pdl sembra segnato da due componenti, quello della destra moderna e quello dell’eredità socialista. Sembrano venire meno il peso della componente cristiana e liberale. Quando Berlusconi ha fatto appello a Dio e alla fortuna nel suo discorso mi è sembrato che l’accento più forte l’abbia posto sulla fortuna… È mancato anche un riferimento alla Rai che in questi giorni è di nuovo nell’occhio del ciclone politico. La Rai è una metafora del palazzo, della qualità dei rapporti tra maggioranza e opposizione, della vischiosità del Paese. Su liberal avete trattato bene questo tema. Io credo che il punto non stia nel cambiare padrone al cavallo di viale Mazzini, o cavalcarlo in due, maggioranza e opposizione unite. E nemmeno, io credo, il problema è se Marco Travaglio debba insultare da solo o con contraddittorio il presidente del Senato. La soluzione semmai è liberalizzare la Rai, sottrarla al dominio dei partiti. Ma perché i partiti, anche di opposizione dovrebbero impegnarsi in una battaglia

ferma ma responsabile. Il governo Berlusconi è il governo della nazione. Casini e il sottoscritto conoscono bene, per averla subita sulla propria pelle, l’opposizione concepita come demonizzazione dell’avversario. È lontanissima dalla nostra cultura e dal modello di opposizione di un Paese civile. Detto questo, sulle questioni decisive per il bene del Paese, Berlusconi sarà incalzato senza sconti. Lei conosce bene i banchi della maggioranza. Che impressione le hanno fatto ieri? C’era un’entusiasmo minore rispetto a quello che ero abituato a conoscere. Me ne sono chiesto il perché e non ho saputo rispondere. Forse il discorso di Berlusconi non era tale da suscitare grandi entusiasmi per la sua novità. Ma non basta più l’ottimismo. L’Italia a ha bisogno di entusiasmo, di un appello a una concordia di tutti, della nascita di una nuova fase di ricostruzione. Una grande coalizione? Un governo di unità nazionale. Mi adeguo a questo bipolarismo che non è ancora maturo ma che amo e che ho contribuito a costruire. Solo che oggi la grande necessità di riforme e l’immensità dello sforzo richiesto agli italiani ha in un governo di responsabilità nazionale il suo terminale migliore. Si dovrebbe lavorare per questo. Per l’intanto facciamo gli auguri a Berlusconi. Poi lo giudicheremo sui fatti.


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silvio iv

ROMA. «Avete presente la malta dei muratori? Quando l’hai spalmata fa presa, e a quel punto dividere i mattoni è impossibile». L’esponente di Forza Italia passeggia per il Transatlantico con il sorriso sornione e l’aria di chi ha capito tutto. Incontra colleghi a cui Berlusconi assicura un riconoscimento alla prossima occasione utile, magari in autunno quando alcuni sottosegretari passeranno al rango di viceministri. «Il presidente vuole mantenere le promesse, tutte. Ma tra qualche settimana farà i conti con il blocco di quelli che sono già dentro. Di chi è entrato nel governo e non ha alcuna voglia di dividere le proprie deleghe con altri. Sarà un muro difficile da scardinare». Difficoltà del genere Berlusconi ne ha avute anche due legislature fa. È passato agli annali l’abito messo da parte da Mario Giuseppe Scalera Baccini per il giuramento, rimasto a lungo in naftalina: il Cavaliere si era impegnato a nominare l’esponente centrista ministro della Funzione pubblica, ma fu costretto ad attendere un paio d’anni, fino al rimpasto di giugno 2005, perché gli equilibri interni erano troppo delicati. Figurarsi quanto è difficile adesso: pensare che si possa mettere Silvio sotto pressione è da illusi. Non è stato possibile per figure di primissimo piano come Beppe Pisanu, Roberto Formigoni e Marcello Pera, non si vede come possano riuscirci quelli che sono un gradino sotto. Eppure di ex sottosegretari che potevano ambire a incarichi di prestigio ce ne sono: da Valentina Aprea e Iole Santelli a Guido Viceconte, Massimo Baldini e Salvatore Cicu. Sarà dura per tutti. Anche per emergenti come Laura Ravetto, esclusa dopo essersi vista affidare la missione di organizzare un’università del pensiero liberale. In qualche caso arriverà provvidenziale la tornata delle commissioni: Alessandra Mussolini Donato Bruno per esempio dovrebbe guidare gli Affari costituzionali a Montecitorio. Ma le presidenze non sono molte e i capigruppo della maggioranza dovranno sfoderare gli artigli alla riunione prevista per oggi. C’è una frase pronunciata da Giuseppe Gargani, eurodeputato che avrebbe preferito rientrare nel Parlamento nazionale: «Si è vinto troppo, questo il problema». Berlusconi è uscito così for-

Mentre Pisanu contesta la linea sulla sicurezza, gli esclusi protestano

Nel Pdl monta la rabbia dei delusi di Errico Novi

tificato dal voto di aprile che non esistono margini per costringerlo a dire sì. Il discorso vale i singoli e per un alleato prossimo alla fusione come An. Nella sua aspirazione a un ruolo da sottosegretario alla Salute, il diniano Giuseppe Scalera si è fatto inutilmente sponsorizzare dall’Ordine dei medici (di cui è stato presidente), dalla Conferenza dei ret-

erano 11 e gli aspiranti 56», ha ripetuto ieri ai deputati incrociati in Transatlantico, che oggi gli voteranno la fiducia.

Con il passare dei mesi emergeranno necessità in alcuni dicasteri, e questo forse potrebbe appena bilanciare il discorso della fonte azzurra sul muro dei promossi. Ieri il premier ne ha parlato

Chi ce l’ha fatta proverà a chiudere le porte del governo. Pagano un prezzo alto ex sottosegretari come Aprea, Santelli e Baldini, sperano nel turno successivo emergenti come la Ravetto tori e dai presidi delle facoltà di Medicina. Lo stesso Pisanu conserva splendidi rapporti con molti big azzurri, e soprattutto un notevole apprezzamento anche nel centrosinistra. La sua è un’esclusione pesante, anche perché costerà a Roberto Maroni il continuo raffronto con il suo predecessore. Importa poco. Berlusconi è il primo a comprendere che di scontenti ne resteranno anche in autunno: «Ho fatto una gran fatica, i posti

a pranzo con Gianfranco Fini e le rappresentanti del gentil sesso nel governo. Il presidente della Camera si aspetta un riconoscimento in più per Adolfo Urso e Alfredo Mantovano. «Credo che l’esecutivo supererà i 60 componenti», ha detto Berlusconi, citando alcuni casi particolari: il dicastero dell’Economia «che potrebbe trovarsi a corto di unità nella sessione di bilancio» e quello ai Rapporti con il Parlamento

retto da Elio Vito, costretto a restare in ministero, privo com’è di sottosegretari. Anche il dipartimento dell’Istruzione rischia di andare in affanno: Maristella Gelmini può contare sul solo Giuseppe Pizza. D’altra parte la rediviva Dc del professore calabrese se l’è cavata meglio di altri alleati minori. Giorgio La Malfa ieri non manifestava alcuna voglia di commentare il punteggio zero del suo partito, ai socialisti di Stefano Caldoro non è andata meglio e Alessandra Mussolini ha avuto la tentazione di non votare la fiducia: «Azione sociale è senza rappresentanza e me ne sono lamentata personalmente con Berlusconi, io dico le cose in faccia. Mi verrebbe da cantare ’meno male che Pizza c’è’, altro che Silvio…».

Pizza, appunto: nel gioco delle bandierine scomparse fa eccezione insieme con gli altri ex dc. Non quelli interni a Forza Italia ma GianLaura Ravetto franco Rotondi e gli autonomisti di Raffaele Lombardo. Un presidio bianco nella maggioranza può sempre fare da concorrente all’Udc, anche se nel caso del neogovernatore pesano gli equilibri interni al centrodestra siciliano. È certo che ha avuto scarsa fortuna la corrente azzurra di derivazione cattolica, come dimostrano i casi di Pisanu e Formigoni. Nel Pdl la loro immagine sembra ormai immediatamente associabile a quella dei rompiscatole: pongono problemi, mettono a tema le questioni eticamente sensibili che finiscono fatalmente per creare divisioni. Con la loro personalità possono permettersi di contestare alcune scelte, come ha fatto l’ex ministro dell’Interno con gli annunci di Roberto Maroni sugli immigrati. Comunque Pisanu è un’eccezione: quasi tutti gli altri trattengono la rabbia, fanno buon viso a cattivo gioco nella speranza di essere presi in considerazione per altre occasioni. E questo è l’effetto ”vittoria schiacciante”: con il trionfo riportato da Berlusconi nelle urne ci si rende Guido Viceconte conto che non è il caso di entrare in conflitto con il vertice. Meglio aspettare in silenzio, al limite rassegnarsi. Anche perché sul fronte opposto c’è il blocco di chi ce l’ha fatta e non ha intenzione di allargare troppo la concorrenza.


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Il Pd risponde alle aperture di Berlusconi rilanciando lo sbarramento alle europee

«Fuori chi ha meno del 4-5 per cento» d i a r i o

d e l

g i o r n o

Sicurezza: ecco il pacchetto Maroni Passa per cinque punti fondamentali la stretta del ministro dell’Interno Roberto Maroni sulla sicurezza. Il pacchetto legislativo è stato esaminato a Palazzo Chigi con gli altri ministri coinvolti e sarà pronto per essere varato nel Consiglio dei ministri che si terrà mercoledì 21 maggio a Napoli. «Il primo punto - ha spiegato lo stesso ministro leghista - sarà il contrasto all’immigrazione clandestina; poi ci sarà la gestione dei rapporti con i paesi comunitari, Romania in testa, sulla base della direttiva Ue che prevede rimpatri dei cittadini comunitari che non hanno reddito o delinquono; il terzo punto riguarda la definizione del ruolo delle comunità locali nella prevenzione e contrasto della criminalità; ci saranno quindi le sanzioni penali, con l’individuazione di nuovi reati; infine ci saranno norme per la lotta alla criminalità organizzata».

Roccella: «Non serve cambiare la 194» colloquio con Ermete Realacci di Susanna Turco

ROMA . «Andrà a finire che il Pd vota la fiducia a Berlusconi». La battuta circolante in Parlamento nel tardo pomeriggio di ieri descrive bene lo spirito bipartisan - al limite dell’inciucio - che si è fatto strada tra le parole con le quali Berlusconi ha presentato il governo a Camera e Senato. Un discorso pacato, istituzionale, contenente un paio di aperture davvero significative al Pd in generale e a Veltroni in particolare. Già perché il consenso del premier sull’idea del governo ombra e l’apertura a «riforme che vanno fatte subito», consegnano al segretario del Pd la chiave per una rinnovata solidità, completando l’opera tattica cominciata con la scelta dei membri dello shadow cabinet. Una concordia bipartisan che, come spiega Ermete Realacci a questo giornale, ha ricadute immediate: servirà a fare una nuova legge elettorale e riformare i regolamenti parlamentari, ma anzitutto porterà all’introduzione di uno «sbarramento al 4-5 per cento» alle prossime europee. Con questo ricco cestino di prospettive, il centrosinistra piddino ieri si è dunque trovato a compiere una rottura psicologica senza precedenti: applaudire più di un passaggio del discorso berlusconiano.Tra i più convinti c’è appunto il responsabile comunicazione del Pd e ministro ombra dell’ambiente Ermete Realacci. Cosa è stato, un modo per chiarire che il collante del Pd non è l’antiberlusconismo? Berlusconi ha detto alcune cose giuste, si è presentato come farebbe un grande leader dei paesi occidentali. Soprattutto avuto un altro modo di porsi: è un cambio di toni che bisogna apprezzare. Le aperture a Veltroni contribuiscono a solidificare la sua leadership del Pd.

Quella si era già solidificata nel partito e nel Paese. Sarà, però in Aula D’Alema aveva una faccia terrea. Con la legittimazione del Cavaliere, lo spazio di manovra delle correnti si riduce. Non so quale espressione avesse D’Alema né che pensasse. Per quanto riguarda le correnti, noi rappresentiamo un italiano su tre, è naturale che ci sia un dibattito culturale e delle divergenze. Ma è ovvio che questa riflessione non può essere un parlarsi addosso, perché la nostra attenzione deve rivolgersi agli elettori. Inoltre, è importante che il confronto tra diversi punti di vista avvenga su proposte coniugate al futu-

L’obiettivo sarà questo. Non faremo nulla di diverso dagli altri Paesi europei. Ritrovarsi con mille partitini dello 0,8 per cento sarebbe un ritorno al passato

ro. Non sarebbe perdonato lavorare sulla base del passato. Non ci starei. Tuttavia a quanto pare il confronto più attuale nel Pd è proprio quello - decennale - tra Veltroni e D’Alema. Mah, io non sono convinto che le cose stiano come vengono raccontate: quello è soprattutto uno schema mentale, una grande leggenda che sta dentro una certa rappresentazione della politica. Vogliamo negarne l’esistenza? Una dialettica ci sarà, ma la passione con la quale è seguita deriva dalla storia di chi se ne occupa. Dicia-

mo così: quello scontro fa sentire giovani i direttori di giornale. Ma non è da lì che passerà il dibattito su come affrontare una situazione che per il Pd è impegnativa: si tratta di capire perché abbiamo perso e come recuperare la distanza con il centrodestra. Dobbiamo diventare più semplici e più ambiziosi. Per ora tra le ambizioni c’è quella di fare riforme «condivise». Che bolle in pentola? I regolamenti parlamentari, le riforme istituzionali, la legge elettorale, sulla quale pende la scadenza del referendum. Va anche rivista in tempi brevi il sistema di voto per le europee. Il famoso sbarramento? Al 4-5 per cento. Nulla di diverso dagli altri Paesi europei: in Francia e Germania è al 5, il più basso è in Grecia, 3. I piccoli partiti si strapperanno i capelli. Ritrovarsi con quattro partitini dello 0,8 per cento che si mettono a contrattare questo o quel posto sarebbe davvero un ritorno al passato. Le malelingue aggiungono che con un bello sbarramento diserbante, il Pd si libera del fantasma di un brutto risultato alle europee. È un problema che ha anche il centrodestra. Interessi convergenti? Interessi, nel nome di una semplificazione. Lo vada a dire alla sinistra. Ma guardi che lo sbarramento aiuta anche loro, a non ritrovarsi in una inutile babele. Non ha paura, il Pd, di ritrovarsi avviluppato tra le spire di Berlusconi e rischiare la corresponsabilità? Berlusconi non ha il phisique du rôle per ammaliarci.

«Non serve cambiare la legge 194 per ridurre il numero di aborti in Italia»: lo ha spiegato il nuovo sottosegretario alla Salute, Eugenia Roccella ai microfoni di Ecoradio. «La legge 194 non verrà cambiata - ha detto - perché questo è stato l’impegno preso all’inizio della campagna elettorale dai leader del mio schieramento, e poi perché non serve cambiarla per diminuire il numero di aborti: si devono prima di tutto fare delle politiche di prevenzione». Roccella ricorda che tempo fa era state chieste delle linee guida sulla 194, perché è una legge che ha trent’anni, e le cose sono cambiate: «Le ex linee guida della Lombardia erano un buon modello, non abbiamo una modello prefissato ma quelle erano una buona strada già tracciata».

Family Day 2008: giovedì la consegna delle firme a Napolitano La consegna al Capo dello Stato delle firme sulla petizione «Per un fisco a misura di famiglia», nell’ambito del “Family Day 2008”, avverrà in forma solenne giovedi 15 maggio con grande partecipazione di popolo in piazza del Quirinale: saranno, simbolicamente e fisicamente, le famiglie a consegnare a Napolitano le firme raccolte. Alle ore 12, informa un comunicato, si terrà una conferenza stampa nel prospicente Centro congressi di Palazzo Rospigliosi in cui verranno illustrati i risultati della raccolta e il significato che questa iniziativa riveste per l’associazionismo familiare. Nel pomeriggio, per celebrare la Giornata internazionale della famiglia, si terrà, sempre a palazzo Rospigliosi, un convegno internazionale su «L’alleanza per la famiglia in Europa: l’associazionismo protagonista» a cui prenderanno parte i responsabili delle associazioni familiari dei vari Paesi europei.

Vigilanza Rai: scendono le quotazioni di Leoluca Orlando Scendono le quotazioni di Leoluca Orlando alla presidenza della commissione di Vigilanza Rai, salgono quelle di GIovanna Melandri e, in misura minore, di Paolo Gentiloni e Marco Follini. Questo il “borsino” registrato ieri in Transatlantico tra i gruppi di opposizione e di maggioranza. Con il caso Travaglio che appare determinante anche nella vicenda della commissione di Vigilanza. È stato proprio l’appoggio di Antonio Di Pietro a Marco Travaglio nella polemica sulla partecipazione a “Che tempo che fa” a far precipitare le quotazioni del deputato dell’Italia dei Valori. Come riferisce un parlamentare di Forza Italia, il centrodestra «non voterà mai un hooligan». La maggioranza, infatti, è determinante con i propri voti nell’elezione del presidente, ed è in grado di bloccare un nome sgradito, facendo mancare in commissione il numero legale.


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Chi ha ragione sull’extragettito? Parla l’economista Luigi Paganetto

Il valzer del tesoretto colloquio con Luigi Paganetto di Francesco Pacifico ROMA. Giulio Tremonti dice che non esiste alcun tesoretto. Romano Prodi e i sindacati replicano che si troverà in dote almeno 4 miliardi di euro di extragettito. Luigi Paganetto, economista e presidente dell’Enea, trova quasi inopportuna la querelle, visto che «abbiamo nel nostro ordinamento due grandi istituzioni che fanno da autorità sui conti pubblici: Ragioneria generale dello Stato e Banca d’Italia. Hanno le informazioni necessarie per fare chiarezza. Ma poi bisognerebbe chiarire la definizione di tesoretto». Ci provi. Lo scorso anno abbiamo avuto due effetti concomitanti: una crescita del reddito maggiore delle attese, come nel 2006, eppoi un aumento della base imponibile. Così si è registrato uno scostamento tra entrate e accertamento. Se aumentano le entrate e ne nasce una disponibilità di bilancio, ci sono le trimestrali di cassa a fare chiarezza tra previsioni e incasso. Ma non può continuare all’infinito questa discrasia. Nulla di strutturale, dice lei. Ma al tesoretto è stata data valenza salvifica. Ed è un atteggiamento sbagliato, perché deve essere fatta una previsione corretta e attenta delle entrate per fare una

programmazione di spesa adeguata. Senza dimenticare che la migliore soluzione sarebbe usare questo scostamento per ridurre il deficit. Ma il tesoretto ci sarà? Ripeto, abbiamo due autorità come Ragioneria e Bankitalia che, con le loro valutazioni, possono dare al ministro dell’Economia tutti le informazioni del caso. Resta il fatto che quest’anno i redditi stanno crescendo assai meno dell’anno scorso, e il rallentamento riguarda tutta l’Europa come gli Stati Uniti, che in-

zero è difficile che ci possano essere extragettiti. Eppoi reputo impossibile che la presenza di un ministro piuttosto che di altro incida più di tanto sui comportamenti dei contribuenti. Il calo dell’Iva, confermato anche da Bankitalia, mette in primo piano il problema di domanda interna. Soprattutto c’è un problema di spesa della famiglia, che si inquadra nel lieve tasso di crescita dell’economia, inferiore alla media europea. E questo dipende dalla distribuzione del reddito: i nuclei a basso o medio reddito soffrono per il mancato aumento dei loro redditi, fanno difficoltà ad arrivare a fine mese. Per capirlo basta prendere i dati dell’inflazione – non la media – sui beni che più influenzano le famiglie: alimentazione, affitti e i servizi sono aumentati. Berlusconi promette una detassazione per chi lavora di più. Basterà per ottenere un riallineamento. Gli incentivi per la produttività come la detassazione degli straordinari, per l’indebolimento del potere d’acquisto dei salari, sono interventi molto opportuni. Da tempo vado sostenendo che c’è un proble-

Non credo che un ministro piuttosto che un altro incida più di tanto sui comportamenti dei contribuenti. L’importante sarà intervenire sulla spesa

fluenza non poco la crescita dei Paesi dell’area Ocse. Questo significa che il trend delle entrate può subire un rallentamento. Stefano Fassina, economista vicino a Vincenzo Visco, dice che il calo dell’Iva sarà compensato dall’aumento di Irpef, Ires, Irap e imposte di registro. Io credo che in un’economia con tassi di crescita vicino allo

Sotto tiro i tassi praticati sui mutui

ROMA. Ostentando una tran-

Il piano di Tremonti per “colpire” le banche

quillità quasi impudente, Cesare Geronzi ha replicato seccamente quando gli è stato chiesto conto delle intenzioni bellicose di Giulio Tremonti: «Vediamo, aspettiamo le sue iniziative». E se il ministro dell’Economia, privo del tesoretto, annuncia sacrifici per banche e petrolieri, Berlusconi chiede «uno sforzo comune». Per ora, nel mondo del credito, nessuno si straccia le vesti. Ma qualcosa, dicono, cambierà visto che al governo non c’è più quel centrosinistra vicino alla grande finanza, che spingeva i banchieri a a fare la fila per votare alle primarie. Non c’è più

di Alessandro D’Amato

Da sinistra, Giulio Tremonti e Tommaso Padoa-Schioppa, il nuovo e il vecchio ministro dell’Economia. A quanto pare i due, da sempre su posizioni opposte, sarebbero concordi a evitare trionfalismi sull’esistenza di tesoretti

ma sui redditi della famiglia e che, nel contempo, c’è la forte esigenza di valutare al meglio la produttività a livello locale. Come si profilando nella riforma dei contratti? Nel differenziare i salari va tenuto in conto il diverso potere d’acquisto tra un’area e un’altra. E la contrattazione territoriale è una questione essenziale perché consente a ciascuno di ottenere vantaggi retributivi, laddove riesce a produrre di più. Il Sud può impoverirsi? Non parlerei di un’implosione del Mezzogiorno, perché le sue imprese hanno andamenti dei conti molto più positivi di quanto non si pensi. Così si in-

quel governo che ha portato l’Ires dal 31,5 al 27,5 per le banche, favorite rispetto alle imprese grazie ai meccanismi fiscali legati all’indeducibilità. Ma per capire gli spazi di manovra di Tremonti, bisogna pesare le sue parole. Ha detto che «le banche pagheranno se non ridurranno i tassi praticati sui mutui». E in questo caso qualche margine d’azione c’è (anche se difficilissimo). Secondo alcuni esperti, si potrebbe modulare la tassazione in relazione ai tassi d’interesse: problema complesso, ma l’expertize in materia del ministro è indubbia. Tra l’altro, questa imposta-

zione è stata già praticata in Italia negli anni Settanta, con una modulazione applicata per tipo di clientela e togliendo limiti ad alcuni tipi di credito. Ma vuoi mettere le accuse di dirigismo? Altri concentrano l’attenzione su un provvedimento come la windfall profit tax, tassa aggiuntiva sui sovraprofitti delle compagnie, utilizzata in Paesi anglofoni. Anche se i risultati non sono stati esaltanti. Poi c’è l’idea di riportare l’Ires per gli istituti al 33 per cento. Ma l’Abi potrebbe replicare minacciando di ricorrere alle autorità della Ue, come fatto in passato per ottenere anche per le banche il taglio del cuneo fiscale.

nescheranno comportamenti virtuosi, si scopriranno novità interessanti da valorizzare più facilmente, il tutto concedendo alle parti un sistema che è autoregolatorio. Qualcuno, però, dimentica che c’è da fare i conti con il rigore della Ue. Al di là dei vincoli di bilancio, c’è la necessità di ridurre la spesa, partendo da quelle voci riconosciute da Tommaso Padoa-Schioppa come pubblica amministrazione, pensioni e sanità. E non tagliando tout court, ma rendendo più efficienti questi servizi, aumentando la competizione tra i fornitori. Anche nella sanità?

Ragionando invece in termini più di sistema, difficilmente Tremonti cercherà di nuovo lo scontro dopo quello che è accaduto nella passata esperienza di governo Berlusconi. La guerra persa contro le Fondazioni bancarie rinfocolerà il suo interessa a un rapporto cordiale con l’apparato – soprattutto per recuperare fondi sul versante delle infrastrutture – così come alcuni dei progetti del nuovo esecutivo, per i quali servirà l’appoggio della Cassa Depositi e Prestiti: il primo banco di prova potrebbe essere proprio Alitalia. Più in generale tra PdL e singoli banchieri i rapporti sono cortesi ma nulla di più: la sin-


silvio iv

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O il governo la risolve o diventerà un boomerang

L’emergenza rifiuti è come Tangentopoli di Giuseppe Baiocchi orse soltanto all’esplodere improvviso di Tangentopoli, nella primavera del 1992, c’è stato un simile senso di scandalo popolare e condiviso come avviene in questi mesi per la cosiddetta “emergenza rifiuti”in Campania. Allora ci fu la sgradevole meraviglia per la scoperta di una classe politica “rubacchiona” ben oltre il lecito; ma le concitate cronache televisive del rosario di indagini, arresti e presunte confessioni si muovevano sullo sfondo immobile e asettico dei Palazzi di Giustizia: oggi le immagini dei marciapiedi sommersi, dei cumuli maleodoranti delle discariche zeppe, dei fuochi improvvisi e dei blocchi stradali parlano davvero da sole. E hanno trasmesso, e continuano a trasmettere, una diffusa sensazione non tanto di rabbia e di rancore, quanto piuttosto una mortificazione collettiva e quasi una vergogna che nel proprio Paese ci sia chi si comporta così. E sarebbe magari il caso di prestare attenzione a questo sentimento comune, che nasce da una semplice da una semplice constatazione: la gestione dell’immondizia riguarda tutti i cittadini, nessuno escluso, senza problemi di classe sociale o di ”caste” più o meno privilegiate. Ognuno se ne

F

Prendiamo le prestazioni ospedaliere che in alcuni posti costano il doppio che altrove. Vuol dire che c’è qualcosa che non va nel modo di far funzionare il sistema. E allora si può dare una risposta incentivando maggiormente la competizione e dando risorse in relazione alle capacità di risparmiare. E lo stesso vale per l’istruzione come per la pubblica amministrazione. La burocrazia è un ambito più incancrenito della stessa sanità? Nel prossimo futuro sarà un elemento fondamentale nella crescita, per rendere più competitivo il nostro sistema imprese private, che ha bisogno

tonia non è mai sbocciata, e probabilmente il miracolo non accadrà nei prossimi cinque anni. Anche per quel barattolo Cirio messo da Tremonti sulla scrivania di Quintino Sella è un ricordo ancora vivo in chi gode di ottima memoria. Eppure qualche difficoltà, visti gli effetti sui bilanci della crisi dei mutui subprime, potrebbe rendere le banche più inclini a discutere con il centrodestra. Sicuramente lo sarà Corrado Passera, Ad di Intesa. Non si sarà iscritto alla causa di Arcore, ma, soprattutto dopo il caso Alitalia, ha detto a mezzo stampa che è pronto a collaborare per rilanciare l’Italia.

di strumenti a valore aggiunto. Ma non lo si fa se si continua a spendere con modalità tradizionali, quando molto servizi potrebbero essere erogati in via informatica. Eppoi c’è il vero nodo. Quale? Per mettere in competizione le amministrazioni resta il nodo delle valutazione dei servizi. Non mancano i sistemi, ma è necessario che gli utenti possano “votare con i piedi”, che possano scegliere i più efficienti senza limitazioni. Il problema è che oggi la certificazione si fa soltanto in fase posteriore. E lo stesso dovrebbe valere per la ricerca. Tema che non può non esserle caro. Si dovrebbe porre l’accento più ai risultati, soprattutto per giudicare se concedere ulteriori risorse. Ma questo si può fare se si guarda alla domanda e non soltanto all’offerta: cioè, se c’è corrispondenza tra sistema industriale e chi ha per compito quello di fare la ricerca.

alla raccolta differenziata si è imposto, assolutamente bipartisan, un senso di “civico decoro”, un umile orgoglio di pulizia e di ordine, al quale si partecipa persuasi che le proprie mani nel selezionare i rifiuti sono già un “essere Stato”. Sono di solito i bambini e i giovani i più intransigenti nel pretendere la osservanza della selezione: anche se è capitato, più di una volta, di assistere al rimprovero esplicito di anziani soli verso le loro badanti straniere, meno inclini per tradizione e costume a queste abitudini… È un patrimonio popolare di piccola e concreta cultura civile che forse merita qualche riconoscimento pubblico e mediatico. Anche perché fa emergere l’interrogativo più autentico: perché si è riusciti praticamente dappertutto, ma non lì, in Campania, dove da 14 anni si proclama e si protesta per l’”emergenza”? Oggi, nel sentire comune, c’è molta curiosità e una viva attesa sul passi del nuovo governo nell’affrontare la sfida. Si spera e si “tifa”, magari anche si teme che ci riesca… e insieme è forte il desiderio di non dover più fare i conti con una simile vergogna. Non solo, ma perfino sui treni dei pendolari e nelle code al supermercato ci si esercita volentieri nei suggerimenti e nelle soluzioni possibili, dato che, appunto, dei rifiuti domestici tutti ne sanno qualcosa.

E qui di seguito si riassume una “road-map”scaturita dal buonsenso e dall’interesse popolare: - Smettere di cercare buchi da riempire, altrimenti non resterà altro che il cratere del Vesuvio; - Dopo aver premiato i 68 Comuni campani che in solitudine da eroi sconosciuti praticano da tempo la raccolta differenziata, imporla da subito agli altri 400 sindaci inadempienti o inefficaci, pena lo scioglimento dei municipi per “infiltrazioni camorristiche”; - I rifiuti così selezionati trasferirli a quelle altre Regioni attrezzate per lo smaltimento, come prova di solidarietà, in attesa che siano finalmente pronti gli impianti sul territorio; - Tutto il pregresso accumulato, non più sommerso dai carichi del presente e del futuro, avviarlo gradualmente sui treni verso la Turingia e le altre zone tedesche disponibili a trattarlo.

Si potrebbe stilare una road map seguendo il buonsenso e l’interesse popolare, prevedendo risarcimenti da parte dei responsabili di questi quattordici anni di mala gestione occupa nella vita quotidiana. Ognuno si interroga sul perché, in un Paese che da quattordici anni ha in sostanza imparato e fatto propria la cultura della gestione dei rifiuti come concreta e umile compartecipazione al “bene comune”, resti tetragona una “isola infelice” dove questa cultura non ha fatto breccia, con le devastanti conseguenze che sono sotto gli occhi del mondo.

Non è stato né scontato, né facile: all’inizio i mugugni non sono mancati. Eppure, come in milioni di case, anche in quella di chi scrive da più un decennio sul balcone di cucina c’è un vero e proprio arcobaleno. Che non è né la bandiera della pace, né quella del Gay-Pride (che si assomigliano molto) , ma i colori dei diversi bidoncini dei rifiuti: verde per “l’umido” organico, viola per il “secco”, bianco per la carta, giallo per la plastica, blu per il vetro, grigio per l’alluminio delle lattine. Una sera la settimana si lasciano sul marciapiede e all’alba sono già ritirati. A parte c’è il rosso per le pile esaurite, il rosa per i medicinali scaduti e il nero per gli inchiostri delle stampanti che invece vanno consegnati direttamente ai punti di raccolta. Sembra paradossale, ma nella consuetudine

E soprattutto trasmettere all’opinione pubblica il messaggio e la concreta attuazione che “chi sbaglia, paga”: i quattordici anni di mala gestione prevedano risarcimenti da parte dei responsabili, anche perché l’onesto contribuente è davvero stanco e seccato di vedere parte delle sue sudate tasse finire da troppo tempo letteralmente nella spazzatura. Infine, ma la speranza è più flebile, che il Consiglio Superiore della Magistratura, nella sua piena autonomia e indipendenza, tiri almeno le orecchie ai tanti magistrati delle procure campane che, in quattordici anni, appaiono aver sentito proprio poco dalle strade ingombre di immondizia il salire, prepotente e inequivocabile, dell’odore di reato.


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arlando degli Agnelli, una famiglia che si è sempre pensata (e molto ha operato in questa direzione) come una dinastia di tradizione aristocratica, erede delle grandi famiglie di “condottieri” rinascimentali, il paragone è scontato, al limite della banalità. È così che il passaggio delle consegne da Gianluigi Gabetti a John Elkann della presidenza di Ifil, la cassaforte di casa, può essere raccontato come il passaggio dello scettro dal reggente della corona, ruolo assunto all’indomani della scomparsa di Umberto, fratello dell’Avvocato, al nuovo e giovane sovrano. Una lettura che ha il suo indubbio fascino letterario, che evoca principi, corti e vassalli, ma che rischia di distrarre l’attenzione sulla composizione e sui movimenti, all’interno e all’esterno, della sempre più vasta compagine del clan. Perché arrivata alla sesta generazione, tanto per dire quella di Leone e Oceano Elkann, rampolli del vicepresidente della Fiat, non soltanto è palese la crescente distanza parentale dal patriarca, ma è pure siderale la divaricazione di interessi e prospettive future che si registrano nelle numerose propaggini della famosa famiglia.

P

A cominciare dal ramo borghese della schiatta, quella capitanata da Andrea, classe 1975, figlio di secondo letto di Umberto, il “Dottore”, e Allegra Caracciolo. L’unico a portare il nome del casato e che non fa mistero della propria insoddisfazione. L’unico delle ultime generazioni a chiamarsi Agnelli e ad averla fatta franca della maledizione che sembra colpire con tragica serialità – il fratello Giovannino, il cugino Edoardo, soltanto per citarni alcuni – i maschi di casa su oltre 150 discendenti. Andrea odia essere trattato come l’ultimo dei panda né tantomeno vuole essere messo ai margini del blocco costituito intorno al procugino Jaki. Che considera, se non proprio un usurpatore del titolo di capofamiglia, un’autorità aleatoria ed eterodiretta. Eppoi è alla testa di uno dei patrimoni più consistenti: una quota in accomandita di quasi il 10 per cento (valore di circa 200 milioni di euro) che condivide con la sorella Anna.

economia Il giovane Elkann nominato presidente di Ifil, la cassaforte di famiglia

Agnelli:incoronato Jaki resta la rabbia di Andrea di Bruno Babando

in Ifil – holding costituita proprio dal padre per diversificare gli investimenti e per sfuggire

Ancora ampia la frattura tra gli eredi dell’Avvocato e quelli del Dottore (Umberto). Tensioni che potrebbero incidere sui futuri di Fiat Dal 2004 siede nel consiglio d’amministrazione del Lingotto e, salvo una breve parentesi

all’ostracismo di Enrico Cuccia e Cesare Romiti – non ha mai lavorato nel gruppo. Nel marzo

del 2007 ha addirittura deciso di mettersi in proprio, dando vita con l’ex amministratore delegato della Juventus allontanato dopo Calciopoli, Antonio Giraudo, cui è legato da un affetto quasi filiale, a un fondo d’investimento, Lamse. Sono rivolte a lui le ultime parole dell’intervista che Gianluigi Gabetti ha rilasciato domenica scorsa al Sole 24 Ore: un invito a far prevalere il senso d’appartenenza su ogni altra

considerazione. Lo stesso invito che però ebbe scarsi effetti quando tutta la famiglia, o quasi, rispose alla clamorosa ribellione di Margherita: la lettera promossa dalle sorelle dell’Avvocato, Clara con la famiglia Nuvoletti, Susanna con i Rattazzi, Maria Sole con i Teodorani Fabbri e Cristiana con i Brandolini, venne sottoscritta dai cugini Nasi e Ferrero di Ventimiglia. Da tutti, ma non da Andrea.

Questo è un indizio non trascurabile, una spia di tensioni interne, la conferma che le discordie private e le rivendicazioni su presunti patrimoni nascosti e sottratti dalla trattativa ereditaria si fondino su profonde divisioni sulla strategia del gruppo. Lo stesso Andrea Agnelli, in questo perfettamente in linea con la tradizione paterna, aveva auspicato alla vigilia della scadenza del prestito convertendo (e in pieno equity swap) il progressivo disimpegno della famiglia nell’industria dell’auto. Una diatriba vecchia di decenni e che è costata a suo padre un lungo esilio, lontano da corso Marconi, nonché una mole di denaro.

Divergenze che potrebbero subire una accelerazione con quello che molti osservatori considerano l’ultimo step di Elkann verso la conquista della vetta del gruppo: la presidenza di Fiat e, contemporaneamente, della Sapa Giovanni Agnelli, l’accomandita e il sancta santorum della dinastia. Ma sullo schivo erede, designato dal nonno, a guidare la dinastia sabauda, pesa la giovane età, 32 anni, e un carisma ancora troppo debole. Terminato l’apprendistato a fianco di Gabetti e dell’altro grande vecchio della famiglia, Franzo Grande Stevens, “l’avvocato dell’Avvocato”, l’Ingegnere sembra intenzionato a rafforzare la sua posizione da una parte saldando i legami con quei rami della famiglia a lui più vicini e, nello stesso tempo, proseguendo l’azione di separazione sempre più netta tra gestione industriale e azionisti. Al Lingotto non tocca boccia, si dice per consensuale decisione con Sergio Marchionne, mentre sempre più stretti sono i rapporti con Luca Cordero di Montezemolo, che progressivamente gli sta cedendo la ribalta mediatica e che rappresenta una garanzia per alcuni eredi, come il ramo che fa capo a Susanna Agnelli. Ma il nodo, sostengono gli analisti, è dietro l’angolo e si chiama futuro dell’auto. Al punto che tutti si attendono già nei prossimi mesi nuove mosse, sia sul piano industriale sia sugli assetti di comando. Mosse anticipate dai rumors di borsa che, periodicamente, danno per imminente lo scorporo di Fiat Auto, magari con lo scopo di prepararne la cessione. Le banche d’affari hanno da tempo pronti piani minuziosi sull’operazione. E già auspicano forti commissioni. Ma Marchionne nicchia – «Sarà fatto, ma non abbiamo ancora stabilito quando» – e lo potrà fare finché avrà il pieno appoggio della Famiglia.


economia

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Per Alitalia il centrodestra punta su questo manager esperto di salvataggi industriali e già numero uno di Mc Donald’s

Resca, professione risanatore d i a r i o

di Alessandro D’Amato

d e l

g i o r n o

Ricavi in crescita per Finmeccanica Primo trimestre positivo per Finmeccanica con i ricavi in progresso del 6 per cento a 2,916 miliardi di euro ed un utile netto di 126 mln di euro che, escludendo la plusvalenza relativa alla cessione di azioni Stm, diventano 72 mln di euro (+279 per cento). Il trimestre evidenzia inoltre una posizione finanziaria netta negativa per 1,9 miliardi di euro a fronte di un patrimonio netto di 5 miliardi di euro. Finmeccanica ha poi comunicato due operazioni di acquisizioni: la DRS Technologies, azienda statunitense leader nel settore dei servizi e dei prodotti elettronici integrati per la difesa e l’acquisto dell’11,1 per cento di Eurotech. Le due acquisizioni produrranno un incremento dell’indebitamento finanziario di circa 3,4 miliardi. Per evitare un eccessivo declassamento del rating da parte delle agenzie internazionali Finmeccanica procederà ad un aumento di capitale ed alla quotazione di Ansaldo Energia.

Scende la produzione industriale

Sessantatrè anni, origini ferraresi e studi alla Bocconi. Bruno Ermolli non avrebbe gradito la sua autocandidatura

ROMA. «Né svendere né nazionalizzare». L’oggetto del mandato – un po’ fumoso, a dirla tutta – gliel’ha fornito Silvio Berlusconi durante il suo discorso alla Camera sulla fiducia. Per Mario Resca, sempre più probabile nuovo presidente di Alitalia, sarà difficile accontentarlo, ma dovrà mettercela tutta. Anche perché si era candidato lui – e già a fine marzo – alla poltrona. Ma i beninformati dicono che lo abbia fatto senza consultare prima Bruno Ermolli, l’uomo a cui il Cavaliere ha affidato l’arduo compito di trovare capitali e personaggi per mettere insieme la cordata italiana. Ma un accelerata sembra averla data la decisione, da parte dello stesso Ermolli, di presentarsi da Aristide Police, presidente pro tempore, per chiedere i conti.

Questo passo ha convinto il Cavaliere e Tremonti ad accelerare sui vertici. Anche perché nel frattempo l’Unione Europea ha posticipato, su domanda del governo, la richiesta di avere le carte del maxiprestito al 30 maggio. Senza contare che l’Antitrust ha messo anche le mani avanti sull’opzione Air One. «Ci sono evidenti problemi concorrenziali, sotto gli occhi di tutti», ha dichiarato Paolo Troiano, capo di gabinetto dell’Antistrust durante il convegno Italian M&A Private Equity Forum, «ci sono sovrapposizioni di rotte». E pensare che finora Catricalà aveva sempre ricordato la legge 287/1990, che prevede la concessione del potere al governo per consentire operazioni altrimenti vietate, legge però «mai utilizzata in Italia, con limiti molto forti che richiede la verifica della compatibi-

lità con la Ue». Ma queste saranno scelte che probabilmente competeranno a Resca. Ferrarese, 63 anni, bocconiano, ha cominciato come giornalista economico alla Mondadori, per poi passare alla Chase Manhattan Bank. Nel 1974 è nominato Direttore della Biondi Finanziaria (Gruppo Fiat) e dal 1976 al 1991 fa il cacciatore di teste per Egon Zehnder, leader mondiale nella ricerca di dirigenti di alto livello, assumendo prima la responsabilità della filiale italiana e poi anche quelle di Merger & Acquisition Worldwilde. Il mestiere è quasi inedito in Italia, e lui – che all’inizio ci spera poco – rimane a farlo per 15 anni, trasformandosi da consulente aziendale a specialista in risanamenti. È stato anche consigliere di amministrazione di Rcs, Lancome e della Versace. Ma è nel 1992 che riceve la sua definitiva consacrazione: entra in scena McDonald’s. In Italia la multinazionale non va affatto bene, e si affida a lui per rilanciarsi. Prima a capo di RQ1, società per la gestione e dei ristoranti in Lombardia, tre anni dopo diventa presidente e Ad. Dichiara in un’intervista che il colosso dei panini potrebbe buttarsi

sulla pizza per entrare meglio nei gusti degli italiani. Deve combattere anche con gli esperti che sconsigliano la carne macinata, e i sindacati. «Sfruttano la popolarità del nostro marchio per fare propaganda e nuove iscrizioni», dice lui. Chiedono invece maggiori diritti per i lavoratori e il contratto unico, replicano loro. Ma la strategia di marketing e pubblicità ha la meglio: dal momento del suo arrivo, il gruppo – che stava pensando di lasciare il Belpaese – arriva ad aprire 280 ristoranti e centuplica i ricavi. Grazie anche alla strategia aziendale aggressiva, che porta McDonald’s ad acquisire Burghy dai Cremonini – dal quale si rifornisce di carne macinata – diventando di fatto sostenitore dell’agroalimentare italiano

Resca diventa anche commissario straordinario del gruppo Cirio – nominato nel 2003 sempre dal governo Berlusconi – e viene anche candidato alla presidenza della Rai senza troppa fortuna. Nel frattempo stringe i legami con gli Stati Uniti d’America, diventando assiduo frequentatore dell’Ambasciata a Roma. Oggi risponde alla chiamata del premier con un garibaldino “Obbedisco”. Che a salvare Alitalia arrivi per sua intercessione un fondo a stelle e strisce?

Produzione industriale ancora in calo a marzo. Secondo i dati diffusi dall’Istat l’indice è sceso dello 0,2% su base mensile e del 2,5% su base annua. Il dato ha superato in negativo le previsioni degli analisti che avevano indicato un calo mensile dello 0,1%. A febbraio l’indice era sceso dello 0,2% mensile e dello 0,7% su base annua. Pesante la flessione della produzione di autovetture.

Mediobanca in linea con il piano I primi nove mesi dell’esercizio segnano una crescita per Mediobanca, con un utile netto di 784,4 milioni (+10,4 per cento) e con i ricavi che salgono del 12,6 per cento. «Siamo perfettamente in linea con quello che avevamo anticipato come risultato finale al giugno 2008 nella gamma di 950 milioni-1 miliardo», ha affermato Alberto Nagel, consigliere delegato di Mediobanca nel corso della conference call con gli analisti. «Possiamo confermare che, anche se il contesto è debole, l’utile sarà quello anticipato a marzo con il piano».Mediobanca ha confermato la politica dei dividendi annunciata a marzo con il piano industriale, cioè la distribuzione del 75 per cento dell’utile netto cash.

Intesa Sanpaolo: utile netto in calo Cala del 57 per cento l’utile netto consolidato di Intesa Sanpaolo. I conti del primo trimestre 2008 evidenziano un utile di 1,7 miliardi rispetto ai 4 miliardi di euro del corrispondente periodo dello scorso anno, «ma crescerebbe del 34,2 per cento se nel confronto si escludessero il risultato dell’attività di negoziazione» (utile ricorrente).

Marchionne: «A maggio mercato difficile» «Il mercato dell’auto a maggio sarà un mercato difficile ma dai primi dati che abbiamo stiamo andando bene». È il commento dell’ad di Fiat, Sergio Marchionne, a margine dell’assemblea dell’Ifil a cui ha partecipato. Marchionne ha poi abbandonato l’assemblea alla guida del nuovo Scudo nel quale erano seduti gli altri dirigenti. E’ stato seguito da un altro Scudo guidato da Paolo Monferino, ad dell’Iveco. A proposito dell’Iveco Marchionne ha confermato che «la Russia è un mercato in crescita e si aprirà ai costruttori europei». In Russia Iveco infatti aprirà entro fine anno un proprio stabilimento.

Bene i conti di Mediaset Nel primo trimestre Mediaset ha registrato un utile netto consolidato di 121 milioni contro i 124,5 milioni di un anno prima su ricavi netti cresciuti del 13,9 per cento a 1.098,9 milioni da 964,9 milioni. Il risultato netto ha beneficiato da un lato della riduzione delle aliquote fiscali in Italia e Spagna, ma, dall’altro, ha scontato gli ammortamenti legati all’acquisizione di Endemol, senza i quali si sarebbe attestato a 126,4 milioni. I ricavi pubblicitari televisivi lordi segnano in Italia un incremento del 3% a 742,1 milioni per i primi tre mesi.


mondo

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combattimenti in Libano continuano ma si allontanano da Beirut. In linea con l’immaginario collettivo libanese, «chi controlla la montagna controlla il Paese», lo Chouf è ora il teatro della battaglia tra le milizie Hezbollah e i guerriglieri del leader druso Joumblatt. L’esercito ha dichiarato che a partire da martedì ricorrerà alla «forza» per impedire ogni presenza armata al di fuori di quella dello Stato. Ma come è successo a Beirut ovest, i militari potranno ratificare solo i rapporti di forza. E, per ora, Joumblatt è perdente.

I

Il segretario generale della Lega araba, Amr Moussa, ha annunciato per oggi il suo arrivo nella capitale libanese ma, nonostante i suoi appelli, l’organizzazione a prevalenza sunnita, non ha la forza per modificare l’esito di quelli che il Daily Star ha chiamato i «giorni che hanno cambiato il Medio Oriente». Per il quotidiano libanese la sostanza è chiara: il Libano va verso un condominio irano-americano. Il momento voluto da Teheran e temuto da molti, dentro e fuori il Libano, sembra arrivato. Nel Paese dei cedri il fronte non passa più per la “linea verde”del 1975, ma attraversando Corniche al-Mazraa divide i quartieri sciiti e sunniti nella parte meridionale e occidentale di Beirut. Un nuovo passo verso il declino della supremazia politica degli arabi sunniti nel Medio Oriente ad est di Suez. La contrapposizione tra sciiti e sunniti non appartiene ai tradizionali conflitti del mondo musulmano. Quanto avvenuto tra il 1979 e il 2004, rivoluzione khomeinista, conflitto Iran-Iraq e intervento Usa contro Saddam, ha travolto il precario equilibrio della regione. La

L’equilibrio del Medio Oriente dipende dal comportamento di Ryad

La nuova guerra fredda parte da Beirut di Francesco Cannatà fine della dittatura baathista, laica e quasi geneticamente “antipersiana”, del nazionalista arabo Saddam ha cambiato, per la prima volta nella storia dell’Islam, i rapporti di forza tra sciiti e sunniti, facendo diventare questa frattura l’elemento chiave del mondo musulmano. Con l’Iraq primo Paese sciita nella storia del mondo arabo i sunniti diventano, nella faglia compresa tra il Mediterraneo e l’Iran, politicamente minoritari. A est di Suez solo Arabia Saudita e Giordania sono risparmiati dall’ondata Scia.

Si poteva evitare quanto è avvenuto a Beirut? Dopo l’assassinio nel dicembre 2005 del figlio Gebran, Ghassan Tueni era stato profetico. L’editore del quotidiano “Al Nahar”e deputato dell’Alleanza 14 marzo, non aveva dubbi.“La prossima guerra libanese sarà tra sunniti e sciiti. I cristiani staranno a guardare, e i sunniti non sapranno difendersi. Durante la guerra civile del 1975 erano protetti dall’Olp, ora i palestinesi stanno con gli sciiti”. Difficile credere che quanto era noto al giornalista, fosse sconosciuto al governo di Beirut. Difficile pensare che dopo la conferenza stampa di Nasrallah di giovedì

scorso i leader del governo di Beirut, il sunnita Hariri, il druso Jumblatt e il maronita Geagea, non sapessero cosa facevano nel momento in cui annunciavano di voler restituire alla sovranità dello Stato l’aeroporto della capitale e denunciavano le linee telefoniche clandestine di Hezbollah. Cosa del resto già nota all’esecutivo dalla metà del 2007. Se il conflitto che avanza nel Paese dei cedri sarà caldo o freddo non lo decideranno le sue fazioni. I libanesi non sono mai riusciti a trovare un consenso accettabile nemmeno per definire la propria nazione. Iran, Siria e Arabia Saudita, sono i veri giocatori della partita di Beirut. Sin da ora si può dire che non saranno i cristiani – cittadini che continueranno a disporre di un proprio sistema giuridico – a pagare il prezzo degli scontri dei giorni scorsi, ma i sunniti. Nel caso in cui la vittoria di Hezbollah dovesse passare dalla piazza alle istituzioni, i sunniti, in quanto musulmani, dovranno allinearsi alle regole sciite. L’Arabia saudita teme la Scia. Ryad per evitare il prestigio degli eredi di Khomeini è pronta, se non ad allearsi con Israele, a mettere in secondo piano il conflitto palestinese. L’Arabia Saudita ribolle non so-

lo per i timori di un Iran potenza nucleare, guida degli sciiti e dell’intera “nazione” araba. Anche i rapporti interni al Paese wahhabita tendono, soprattutto dopo l’11/9, all’instabilità. L’idea di un Paese monolitico dedito esclusivamente a produrre petrolio ed estremismo, è lontana dalla realtà. una monarchia storicamente alleata al fondamentalismo, terroristi che vogliono islamizzare a colpi di bombe un potere già fondamentalista, un’op-

al principe ereditario Abdullah per chiedere più coraggio: vogliono Costituzione e parlamento elettivo. Il primo manifesto riformista, firmato da religiosi, è del 1991. Il 2003 è l’anno dell’appello dei 104. Un invito laico alla democrazia islamica. Il principe dopo aver ascoltato i firmatari e averli tenuti per qualche mese in prigione, lancia il “dialogo nazionale”. Iniziano regolari riunioni di “stati generali”che non danno risultati. Nel 2007, 150 intellettuali sauditi, sunniti e sciiti, in una lettera pubblicata dai media di Ryad affermano di volere una società in cui le «appartenenze confessionali siano secondarie». Ovviamente il tentativo iraniano di diventare la potenza regionale, alimentando i timori di Ryad, allontana le riforme saudite. L’Iran, può affermarsi come leader della “nazione araba” solo unificando “fronte del rifiuto” ad Israele e“asse sciita”. Per farlo ha bisogno di intrecciare tutti i conflitti mediorientali.

Quanto accaduto in questi giorni in Libano rappresenta una nuova umiliazione per i sunniti della regione. Le potenze anti sciite dovranno rivedere alleanze e strategie posizione che, sempre in nome dell’Islam, chiede più democrazia. Questo il panorama attuale del regno dei Saud.

La famiglia reale sa che solo riformando può sbarrare la strada all’estremismo religioso. Le misure prese, migliaia di imam e insegnanti religiosi congedati e la revisione dei manuali scolastici, non soddisfano però i ceti più “progressisti”. Avvocati, insegnanti, giornalisti, hanno scritto

Lo scontro tra musulmani preoccupa la Siria. Se l’Iran ha bisogno di essere percepito come il rappresentante degli interessi di tutti gli islamici del Medio Oriente, Damasco deve fare attenzione ai propri sunniti, il 74 per cento della popolazione. Con gli Usa impegnati in Iraq, la paradossale e tormentata Arabia Saudita sarà in grado di impedire che il sorgere della mezzaluna sciita serva gli interessi della nazione persiana?


mondo

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Per Pedrag Matvejevic sarà difficile tenere insieme tutte le contraddizioni dei Balcani

Serbia, la lunga marcia incompiuta colloquio con Pedrag Matvejevic di Valerio Venturi edrag Matvejevic è un intellettuale abituato a confrontarsi con la storia dei Balcani. Padre russo e madre dei territori ex-jugoslavi, Matvejevic è nato a Mostar nel 1932. Il professore de La Sapienza di Roma, già docente all’Università di Zagabria e poi alla Sorbona a Parigi, ha svolto incarichi all’Onu e per la Commissione Europea; parla della Serbia con un misto di soddisfazione e di amarezza. «i nuovi regimi instauratisi in alcuni paesi dell’est si dichiarano formalmente democratici senza che la società presenti una struttura effettivamente democratica. Sono le moderne, imperfette democrature. In Serbia è comunque andata meglio di quel che temevo, anche se lo dico con una nota di pessimismo. Il leader politico dei nazionalisti, fortunatamente sconfitto, contiene in sé tutte le caratteristiche negative dei politici dei Balcani. La sua fazione, che coniuga nazionalismo e clericalismo, ha avuto comunque l’ 11% dei voti, resta un politico di peso. La presenza dei nipoti del dio politico Milosevic, che si diceva socialista senza esserlo, purtroppo dura ed è tenace. Speriamo che Tadic rimanga in superficie insieme a chi lo sostiene; mi ha incoraggiato il fatto che il suo partito ha avuto aumento considerevole di voti.» Il nazionalismo è secondo lei il primo dei problemi mai risolti nella regione? «Sicuramente. C’è da dire, poi, che i nazionalisti serbi sono aggressivi, molto più di quelli croati, che hanno saputo arginare la destra interna. Di fatto, tutto quello che sta accadendo ci fa vedere una Serbia perduta, affondata in un qualche modo. Per me è difficile considerare questo presente considerando il ricordo di un Paese che fu anche faro di libertà. Dopo la fine della Jugoslavia, era il baricentro dell’antistalinismo: liberava la cultura, la letteratura più che la Croazia, ad esempio. Noi eravamo abituati a essere obbedienti al potere, da tradizione asburgica: la Serbia aveva una tradizione di autonomia, per me era un modello. Come è potuta giungere, allora, a certe derive nazionalista? Difficile dirlo in due parole. Uno dei segnali è che avevo visto l’intellighenzia inneggiare facilmente a Milosevic: anche colleghi, scrittori prima a me vicini. La cosa non è risolta; in questo gioco un ruolo molto brutto potrebbe averlo Kostunika, che mostra odio nei confronti di sloveni, kosovari... Non si può fare politica positiva con lui. La Serbia merita soggetti migliori. Eppure con il suo tempe-

d i a r i o

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Cina, 18mila sotto le macerie

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Scariche telluriche di assestamento continuano a colpire la Cina. Ieri la regione al centro del sisma è stata oggetto di una scossa di grado 6,1 della scala Richter. Da lunedì, giorno del sisma, altre 2mila scosse hanno sconquassato la regione. L’epicentro di questi nuovi terremoti è ancora a Wenchuan vicino alla città capoluogo di provincia di Chengdu. Nella città di Mianyang 18mila persone si trovano ancora sotto le rovine degli edifici distrutti. Il bilancio finale delle vittime del sisma sarà sicuramente superiore alle 10mila previste nei giorni scorsi dai media mondiali. In segno di lutto il Cio ha deciso di abbreviare il tragitto della fiaccola olimpionica.

Fissato il referendum su Morales

Il risultato delle elezioni serbe è incoraggiante, ma il nazionalismo rimane un problema per regimi che solo formalmente sono democratici ramento culturale non ha permesso al partito anti-nazionalista di venire alla luce. Ci sono amici di Tadic che hanno potuto avere pochi voti e non possono cambiare neanche la struttura del partito.» Il Paese è comunque ora più vicino all’Europa «Putin in Serbia non ha vinto, e questo mi sembra un segnale importante. Certo, se la Chiesa fosse stata anti-nazionalista, se avesse appoggiato Tadic lui avrebbe non vinto ma stravinto. Il fatto che il putinismo in Serbia non abbia avuto la meglio - non è applicabile, lì non si può rubare come in Russia, anche se lo si è fatto tanto per tanto rimane cosa fondamentale. Ci sono ortodossi che credono nel fatto che Putin sia un loro campione, ma è solo la finta di un ex colonnello del Kgb: è autopropaganda pura.» Questo nuovo scenario porterà a progressi riguardo la questione del Kosovo? «Il Kosovo è da sempre una regione d’asse: da qui passa lo scisma cristiano, cattolico e ortodosso, e nelle frantumazioni si è inserita la componente musulmana. La sua storia riguarda tutti. Ma ognuno

vede le sue ragioni, ed è difficile mettere insieme tante contraddizioni. Ad ogni modo non credo si possa tornare indietro. L’unico partito che ha riconosciuto l’indipendenza della regione è quello di Cedo Miriovanovic, che ha ricevuto il 5.2 per cento dei voti, avrà massimo 13 seggi: si tratta dell’unica sinistra serba, visto che il nazionalismo di destra ha riempito la scena.» Lei è da 12 anni cittadino italiano. Ha collaborato per lo sviluppo dei rapporti tra l’Italia e i Paesi del Mediterraneo in seno alla Commissione Europea: continuerà questa missione? «L’Italia dovrebbe fare qualcosa per l’Europa del Sud; ci sta provando Sarkozy, ma non riesce per il passato colonialista della Francia. Ma l’Europa continentale frena ogni tentativo in tal senso, ha prevalenza nelle istituzioni. Ma non credo che il nuovo governo voglia investire in tal senso. Poi devo dire che vedendo a Roma, vicino al Campidoglio, qualcuno in camicia nera festeggiare con il saluto romano la vittoria del nuovo sindaco mi sono preoccupato. Sono andato via dalla Serbia per questo. Per questo potrei lasciare l’Italia: è un paese verso cui nutro una grande gratitudine, che mi ha offerto tutto...Ma se il contesto diviene marchiato dal neofascismo me ne andrò. Potrei tornare a Zagabria, dove il nazionalismo abbaia ma non morde perché ha perso i denti in guerra; lì c’è da fare, potrei essere forse più utile che qua da noi. Cercherò, troverò un altro punto di osservazione.»

La consultazione popolare sull’operato del presidente della repubblica boliviana si terrà il 10 agosto. È stato lo stesso Evo Morales ad annunciarlo, dichiarando che il popolo deve avere il diritto di giudicare se «il presidente è degno di restare o meno al suo posto». Il leader indio del Paese andino cerca cosi si volgere a suo vantaggio, quella che è stata una mossa dell’opposizione cui Morales si è dovuto piegare. Il 10 agosto oltre alla consultazione sulla presidenza, si terranno 9 referendum sui governatori regionali.

Yuschenko zittito alla Rada Deputati della coalizione Julia Timoschenko, hanno impedito al presidente della repubblica ucraina di tenere il previsto discorso sullo stato della nazione. Il pulpito dove si tengono i discorsi ed altre postazioni parlamentari sono stati occupati dai seguaci del partito del primo ministro, che accusano Yushenko di non voler prendere le misure necessarie a bloccare l’inflazione e non fare altre concessioni richieste dalla maggioranza parlamentare. È la prima volta nella storia di Kiev che i lavori dell’organo legislativo sono bloccati dal gruppo di maggioranza, ha detto il presidente ai giornalisti. L’incidente di ieri non farà altro che acuire la lotta tra i due ex alleati della rivoluzione arancione.

L’Ue contro Chavez Dopo gli attacchi di Hugo Chavez ad Angela Merkel, il presidente della commissione europea, Jose Manuel Barroso, si è schierato a fianco del cancelliere tedesco. Merkel è una democratica, a differenza di Chavez, personaggio «aggressivo e populista» ha dichiarato Barroso durante una sua visita in Messico. Per Barroso le sparate del presidente venezuelano non aiutano la «collaborazione tra Europa e America Latina».

È morto Robert Rauschenberg ll pittore statunitense Robert Rauschenberg, uno dei giganti americani dell’arte del XX secolo, è morto all’età di 82 anni. Titano dell’arte astratta del Novecento, Robert Rauschenberg dopo aver studiato all’Istituto di Belle Arti di Kansas City, si è trasferito a Parigi, per frequentare l’Accademia Julian. Negli Stati Uniti si afferma a metà degli anni Cinquanta con composizioni astratte di tipo geometrico. Pur essendo considerato il padre spirituale della Pop Art, Rauschenberg non ha mai aderito mai a questo movimento. Nel 1964 ha vinto il primo premio alla Biennale di Venezia.


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speciale esteri

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Occidente

AUGURI ISRAELE IL SEGRETO DI UN PAESE ASSEDIATO

segue dalla prima

nemici di Israele si dividono in due categorie principali: la sinistra ed i musulmani, con l’estrema destra quale terzo elemento di minore rilevanza. Della sinistra fanno parte una sinistra estrema fanatica (il movimento internazionale contro la guerra e a sostegno delle organizzazioni terroristiche) ed una moderata più garbata (Assemblea generale delle Nazioni Unite, partito liberale canadese, principali media dominanti, chiese tradizionali e libri di testo). Da un’analisi definitiva emerge tuttavia come la sinistra svolga più una funzione di ausilio alla forza predominante antisionista, vale a dire la popolazione musulmana, anziché costituire una forza indipendente. I musulmani possono a loro volta essere suddivisi in tre diversi gruppi.

I

Innanzitutto, il gruppo degli Stati arabi: cinque eserciti invasero Israele nel maggio del 1948, all’atto della conquista dell’indipendenza; successivamente, gli eserciti, le forze aeronautiche e navali degli Stati vicini hanno combattuto le guerre del 1956, 1967, 1970 e 1973. Mentre la minaccia convenzionale si è in un certo qual modo affievolita, costituiscono un pericolo notevolmente maggiore l’attività di incremento dell’arsenale militare da parte dell’Egitto, finanziata dagli Stati Uniti e le armi di distruzione di massa (soprattutto in Iran, ma anche in

di Daniel Pipes

Siria e, potenzialmente, in molti altri Paesi). In secondo luogo, vi sono i palestinesi che vivono al di fuori d’Israele. Messi fuori causa dai governi palestinesi dal 1948 al 1967, Yasser Arafat e l’Organizzazione per la liberazione della palestina (Olp) ebbero la loro occasione con la sconfitta delle forze armate di tre Paesi nella guerra dei Sei Giorni. Gli sviluppi successivi, quali la guerra del Libano del 1982 e gli accordi di Oslo, hanno confermato la centralità dei

dire il 16 per cento della popolazione. Hanno sfruttato l’apertura d’Israele per trasformarsi da comunità mite ed inefficace in una minoranza assertiva, che rifiuta con forza crescente la natura ebraica dello Stato d’Israele, con conseguenze potenzialmente profonde per la futura identità della nazione.

Se da una parte questo lungo elenco di pericoli differenzia Israele da tutti gli altri Paesi occidentali, obbligandolo a

Non si può addebitare allo Stato ebraico la violenza che domina il Medio Oriente palestinesi che vivono fuori da Israele. Oggi sono loro a guidare il conflitto con la violenza (il terrorismo ed i missili lanciati da Gaza) e, soprattutto, orientando l’opinione pubblica mondiale contro Israele grazie ad un’attività di pubbliche relazioni che ha forte risonanza tra i musulmani e la sinistra. Il terzo gruppo è costituito dai musulmani cittadini israeliani: la variabile “dormiente” dell’equazione. Nel 1949 se ne contavano soltanto 111.000 e rappresentavano il 9 per cento della popolazione israeliana ma, nel 2005 , questo dato era aumentato di dieci volte, raggiungendo 1.141.000 unità, vale a

proteggersi quotidianamente dai suoi numerosi nemici, dall’altra lo rende singolarmente simile ad altri Paesi mediorientali, anch’essi posti dinanzi alla minaccia dell’eliminazione. Il Kuwait, invaso dall’Iraq, scomparve letteralmente dalla faccia della terra tra l’agosto del 1999 ed il febbraio del 1991; se non fosse stato per la coalizione guidata dagli americani, quasi certamente non sarebbe mai tornato in vita. Il Libano è sotto il completo controllo siriano dal 1976 e, ove i futuri sviluppi ne consentano l’annessione, Damasco potrebbe decidere, a proprio piacimento di annetterlo ufficialmente.

Teheran rivendica di tanto in tanto l’appartenenza del Bahrain all’Iran e, recentemente, nel mese di luglio del 2007, un esponente iraniano vicino all’ ayatollah Ali Khamenei, leader supremo del Paese, ha affermato che «il Bahrain è territorio iraniano» ponendo l’accento sul fatto che «la richiesta più pressante della popolazione del Bahrain è di restituire la provincia... alla madrepatria: l’Iran islamico». Anche l’esistenza della Giordania quale nazione indipendente ha sempre avuto un carattere precario, in parte perché viene ancora considerata un artifizio coloniale di Winston Churchill ed anche perché diverse nazioni (Siria, Iraq, Arabia Saudita), così come i palestinesi, la ritengono una preda attraente. Il fatto che Israele si ritrovi in simile compagnia ha diverse implicazioni. Ciò pone innanzitutto il dilemma esistenziale d’Israele nella giusta prospettiva: se il timore dell’eliminazione costituisce un sentimento quasi quotidiano in Medio Oriente, questo lascia prevedere che il problema della definizione dello status d’Israele non sia vicina. Tale situazione pone altresì l’accento sulla natura eccezionalmente spietata, instabile e fatale della vita politica mediorientale. Quest’area del pianeta costituisce, indubbiamente, la zona più pericolosa della terra. Ed Israele è il bambino occhialuto che cerca di ottenere buoni risultati scolastici pur vivendo in un quartiere della città infestato dalle

bande di ragazzi violenti. Il profondo e diffuso male che affligge la politica mediorientale dimostra quanto sia sbagliato ritenere il conflitto arabo-israeliano il nucleo del problema. E’ più sensato considerare la difficile situazione d’Israele quale risultato della venefica politica della regione.

Addebitare a Israele la colpa dell’autocrazia, del radicalismo e della violenza che caratterizzano il Medio Oriente equivarrebbe ad incolpare lo studente diligente anziché le bande. Al contrario, risolvere il conflitto arabo-israeliano significa soltanto sedare quel conflitto, e non trovare una soluzione alla situazione dell’intero Medio Oriente. Se è vero che tutti i componenti del quintetto di nazioni summenzionato temono l’eliminazione, la situazione d’Israele è la più complessa. Negli ultimi decenni, Israele è sopravvissuto a innumerevoli minacce alla propria esistenza e lo ha fatto mantenendo intatto il proprio onore, dando così oggi alla popolazione israeliana una ragione per festeggiare. Ma la festa non può durare molto, perché il Paese sa che deve tornare immediatamente dietro le barricate per difendersi dalla prossima minaccia.


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Dal 14 maggio del 1948 a oggi tra guerra e pace

Così nacque il sogno di Ben Gurion di Raffaele Cazzola Hofmann entiquattro ore. Tanto passò tra la nascita dello Stato di Israele e la prima guerra affrontata. L’attacco sferrato il 15 maggio 1948 da parte degli eserciti di Egitto, Iraq, Libano, Siria e Transgiordania venne respinto. Con altrettante e nette vittorie si sarebbero concluse anche le altre due guerre cui nei decenni successivi Israele avrebbe partecipato. Nel 1967 lo Stato ebraico attaccò Egitto, Siria e Giordania che stavano ammassando truppe ai suoi confini. La “guerra dei sei giorni” portò Israele a conquistare la penisola del Sinai dall’Egitto e le alture del Golan dalla Siria. Ma soprattutto diede il controllo della Striscia di Gaza, della Cisgiordania e di Gerusalemme est. Poco più di trent’anni dopo proprio il nodo di Gerusalemme est avrebbe fatto fallire, per l’ostinazione di Yasser Arafat nel porne la restituzione come conditio sine qua non, i colloqui di pace tra l’Autorità nazionale palestinese e il premier israeliano Ehud Barak. La terza grande guerra combattuta da Israele avvenne

V

In alto la festa per i 60 anni di Israele. A fianco due dei grandi protagonisti della sua storia: Golda Meir con Moshe Dayan

Oggi l’economia ha raggiunto livelli occidentali nel 1973. Scoppiata con l’attacco di Egitto e Siria, la “guerra dello Yom Kippur” si concluse a fine ottobre con l’ennesima vittoria dello Stato ebraico.

Dalla metà degli anni Settanta la storia di Israele conobbe una fase nuova. Sul piano interno il dominio del partito Mapai (gli odierni laburisti) che dal ’48 aveva espresso i grandi leader israeliani, da David Ben Gurion a Golda Meir, si incrinò. I partiti di destra conquistarono nuovi consensi. Ma nessuno era in grado di governare da solo. Inevitabile fu una lunga fase di instabili governi di coalizione. La questione dei Territori assunse invece sfaccettature nuove con il definitivo emergere di Yasser Arafat a capo dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina. Tentando di alleggerire la pressione dei Paesi arabi circostanti – frustrati dalle cocenti sconfitte militari subite nel giro di 25 anni e dalla perdita di importanti territori a favore di Israele, ma sempre fermi nel negarne l’esistenza – nel 1978 l’allora primo ministro Menehem Begin, espressione di una coalizione di destra progenitrice dell’attuale Likud, firmò negli Stati Uniti uno storico accordo di pace col presidente egiziano Anwar Sadat. La politica della distensione con l’Egitto, che per parte sua avrebbe pagato l’accordo con

l’assassinio di Sadat e con l’espulsione dalla Lega araba, si concretizzò nel 1982. In quell’anno Israele restituì la penisola del Sinai. Invece sul fronte settentrionale annesse in modo definitivo le alture del Golan strappate nel ’67 alla Siria. Ma nello stesso periodo, quasi a confermare il destino di Israele come Paese sempre in bilico tra la pace e la guerra, si aprì uno dei capitoli che rimangono tuttora tra i più discussi nei sessant’anni di vita dello Stato ebraico: l’operazione ”Pace in Galilea”. Le truppe israeliane penetrarono in Libano, nazione in piena guerra civile da cui i miliziani legati all’Olp lanciavano azioni terroristiche. L’operazione libanese, punteggiata da episodi mai chiariti come il mancato intervento delle truppe israeliane per bloccare la famigerata strage nel campo profughi di Sabra e Chatila, si concluse in modo contraddittorio sul piano sia politico che militare.

Forse non fu un caso che proprio da allora lo scenario interno dello Stato ebraico divenne sempre più instabile e frammentato.Tra governi di coalizione che si succedevano a ritmi da Prima repubblica italiana, elezioni anticipate e partiti religiosi emergenti, gli anni Ottanta furono un periodo piuttosto difficile. Un’autentica scossa venne data nel 1992 dagli accordi di pace di Oslo. L’allora primo ministro israeliano Ytzak Rabin (che poi tre anni dopo avrebbe pagato le sue aperture con la vita) e Arafat si riconobbero reciprocamente. La Cisgiordania e la Striscia di Gaza ottennero l’autonomia amministrativa sotto l’Autorità nazionale palestinese: non un vero e proprio Stato, ma una sorta di embrione. Che però è rimasto tale fino ai giorni nostri con l’intermezzo di una snervante altalena di nuovi conflitti culminati con la seconda Intifada del 2002 e di tentativi di distensione non andati a buon fine, dal mancato accordo del 1999 al fallimento della road map per la pace, fino allo smantellamento unilaterale da parte di Israele di alcune importanti colonie ebraiche nei Territori palestinesi e all’avvio della costruzione della ”barriera difensiva” per fermare lo stillicidio degli attentati terroristici. I sessant’anni di Israele sono stati caratterizzati da una condizione profondamente contraddittoria sempre in bilico su un difficile equilibrio. Da una parte lo sviluppo dell’unica democrazia mediorientale e una crescita economico-sociale a livelli occidentali. Dall’altra la condizione di nazione totalmente isolata nell’ostile mondo arabo che ancora oggi vive in perenne mobilitazione militare e che spiega perché, dal 1948 ad oggi, alcuni dei più grandi leader della storia israeliana (Rabin, Barak e Ariel Sharon su tutti) siano approdati alla politica direttamente dalle file dell’esercito.


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speciale esteri

Occidente

Come si stravolge la storia per demonizzare l’unica democrazia del Medio Oriente

Le cinque bugie su Israele di Emanuele Ottolenghi l pregiudizio antisemita si è nutrito per secoli di menzogne che nella letteratura e nella credenza popolare erano considerate verità inappellabili. La propaganda antisraeliana si nutre similmente di bugie che, stravolgendo la storia e insinuando nefandezze, mirano a delegittimare e demonizzare Israele come un tempo si demonizzavano gli ebrei. Delle tante bugie dette e ridette fino a renderle incontestabili assiomi, se ne riportano di seguito cinque, con la necessaria rettifica storica a buon uso del lettore.

I

1) Il sionismo è un movimento razzista. Il sionismo è il movimento di liberazione nazionale del popolo ebraico, e come tutti i movimenti di liberazione nazionale, è stato storicamente caratterizzato da una grande diversità di opinioni sulle modalità, i tempi e persino il luogo d’attuazione del suo programma, oltre che sulla natura e il carattere della futura società e Stato che aspirava a creare. Col tempo, la maggioranza dei sionisti sostenne il ritorno del popolo ebraico nell’antica terra d’Israele come la rivendicazione essenziale del movimento, ma fino al 1903 esistevano tra i sionisti anche coloro che sostenevano la necessità di creare uno Stato ebraico ovunque si rendesse disponibile un territorio e tra i luoghi considerati c’erano l’Africa Orientale (la cosiddetta Opzione Uganda), un’area costiera del Sinai nell’odierno Egitto, una provincia argentina e persino un territorio nel NordEst dell’Australia. La terra d’Israele prevalse per il profondo legame storico ed emotivo con il popolo ebraico. Ma in nessun caso il sionismo postulò che l’affermazione del proprio progetto nazionale dovesse avvenire a spese dei diritti degli arabi che vivevano in Palestina, proclamando invece la necessità di trovare una soluzione pacifica e forme di convivenza tra ebrei e arabi. Fino all’ultimo, la leadership sionista cercò un compromesso con la controparte araba, ma senza successo, e a ogni occasione furono i sionisti, piuttosto che gli arabi, ad accettare le soluzioni di compromesso territoriale e politico ripetutamente proposte dalla comunità internazionale: la spartizione della Palestina in due stati fu proposta dalla Commissione Peel nel 1937 e

dall’Onu nel 1947, ma fu rifiutata dagli arabi (i sionisti accettarono entrambe le proposte), mentre l’idea di uno Stato binazionale fu proposta da due movimenti sionisti negli Anni Trenta e respinta dalla leadership araba.

2) La Palestina, come suggerisce il nome, è la terra dei palestinesi, che gli ebrei hanno usurpato. In realtà il termine Palestina si riferiva, nell’antichità, solo a una stretta striscia litoranea di territorio che corrisponde circa con l’attuale Striscia di Gaza e che era così chiamata perchè abitata un tempo dai Filistei. Il nome del territorio su cui oggi sorge lo stato d’Israele e parte dei territori era la Giudea – tant’è vero che nelle monete commemorative della vittoria di Tito e Vespasiano sui rivoltosi ebrei nel 70 dC si legge “Iudaea capta est”. Il termine Palestina segue l’occupazione romana e il tentativo di estirpare ogni focolaio di rivolta ebraico dopo la distruzione del Secondo Tempio, ma non assume mai un carattere politico fino alla creazione del mandato britannico sulla Palestina nel 1922, Mandato che ha come obbiettivo l’attuazione della Dichiarazione Balfour, ovvero la promessa del governo inglese di creare un territorio autonomo per gli ebrei. I confini attuali della terra contesa sono stati tracciati tra il 1918 e il 1922 e non riflettono una precedente realtà politica. In quanto ai palestinesi, non è mai esistito uno Stato, o un regno, o una provincia, o un califfato palestinese. Dalla conquista romana il territorio è passato ai bizantini, agli arabi, ai crociati, ai mammalucchi, ai turchi e agli inglesi. I confini sono cambiati mille volte e non esisteva, all’arrivo dei primi sionisti nella seconda metà dell’Ottocento, un’identità nazionale o una rivendicazione nazionale palestinese.

3) Il controllo israeliano di Gerusalemme minaccia la libertà religiosa e l’accesso ai luoghi sacri. Pur costituendo la maggioranza dei residenti, gli ebrei – e gli israeliani dal 1948 al 1967 – non hanno avuto la sovranità dei luoghi santi fino al 1967, quando Israele conquistò la CittàVecchia di Gerusalemme, oltre che i luoghi santi cristiani e mussulmani in Cisgiordania. Solo a partire dal 1967 l’accesso pieno ai luo-

ghi santi avviene in piena libertà e con la tutela dell’autonomia religiosa delle varie comunità, mentre prima del 1967, durante tutta la dominazione musulmana, importanti restrizioni avvenivano nei confronti dei non musulmani e per quasi vent’anni gli ebrei non ebbero alcun accesso a due delle quattro città sante dell’ebraismo.

4) Se Israele ponesse fine all’occupazione dei territori palestinesi ci sarebbe la pace in Medio Oriente. Sarebbe bello fosse così semplice! Ma a parte il fatto che i problemi del Medio Oriente sono molteplici e nella maggior parte dei casi non hanno nulla a che fare con il conflitto israelo-palestinese: si pensi al genocidio in Darfur, all’oppressione di donne e omosessuali in Arabia Saudita, alla persecuzione contro i cristiani da parte del fondamentalismo islamico, al conflitto tra sciiti e sunniti, alle tensioni tra Iran e mondo arabo sunnita, alla povertà endemica della regione nonostante le ricchezze energetiche, al diniego di diritti nazionali da parte araba per curdi e berberi, e alla mancanza di libertà religiosa in tutta la regione salvo Israele. Il problema è il rifiuto dell’esistenza d’Israele da parte di una significativa parte del mondo arabo e dei palestinesi. In fondo, i territori oggetto del contendere Israele li ha conquistati

nel 1967, ma dal 1948 al 1967 erano sotto dominio arabo eppure i palestinesi non li rivendicavano per loro e i regnanti arabi non si sognavano neanche di farne uno Stato per i palestinesi. Israele ha dimostrato più volte di volere la pace e di essere pronto a rinunce, sacrifici e compromessi. Non altrettanto si può dire da parte palestinese: se Hamas oggi rappresenta veramente la maggioranza dei palestinesi, con la sua retorica antisemita, la sua alleanza con l’Iran e il suo ricorso a terrorismo contro civili dentro Israele, dimostra come non si tratta solo di una disputa territoriale ma di un conflitto esistenziale.

5) L’unica soluzione al conflitto israelo-palestinese è la creazione di uno stato binazionale dove i due popoli condividono la stessa terra. Ci sono quattro motivi per cui questo modello politico è un’utopia. Primo, perché le due nazioni difficilmente accetterebbero di vivere insieme in armonia condividendo potere e interessi. Costringere i due contendenti a una convivenza così difficile porterebbe a nuovi conflitti – si guardi alla ex-Yugoslavia – specie se si pensa al secondo motivo: le grandi differenze socioeconomiche e culturali. Gli israeliani guardano a occidente, sono integrati nell’economia occidentale e nella globalizzazione; sono

una società laica e moderna, dinamica ed economicamente avanzata; dove le donne sono emancipate e la libertà sessuale, la mobilità sociale e la meritocrazia hanno preso piede fermamente; i palestinesi per contro sono ancora una società religiosa e tradizionale che vive principalmente di agricoltura e di manifattura, dove la cultura e i valori sociali sono tradizionali e tradizionalisti, e difficilmente tollererebbero le influenze del settore ebraico; mentre le strutture familiari e tribali sono ancora dominanti rispetto al merito e alla mobilità fondata sulle risorse economiche del singolo. Insomma, difficilmente le due società andrebbero d’accordo, e queste differenze portano al terzo motivo per cui lo stato binazionale è una cattiva idea: l’orientamento politico e culturale palestinese spingerebbe un futuro Stato in comune verso alleanze con il mondo arabo, in pieno contrasto con gli interessi del settore ebraico che sarebbero orientati verso l’America, l’Europa, l’India e l’estremo oriente. Ma la ragione che più di ogni altra rende l’idea improbabile è che uno Stato binazionale sarebbe antidemocratico perché la stragrande maggioranza di israeliani e palestinesi vuole – com’era vero settant’anni fa – uno Stato nazionale. Imporre una soluzione diversa violerebbe il diritto d’autodeterminazione dei popoli.


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sraele compie sessant’anni. Decenni intensi, pieni di problemi e di occasioni di gioia. Per Alfonso Arbib, rabbino capo della comunità milanese, è una celebrazione che «ha un significato importante, è la realizzazione di un sogno durato millenni: per tre volte al giorno e per migliaia di anni gli ebrei hanno chiesto il ritorno a Gerusalemme. Finalmente il nostro popolo, sempre dominato, in diaspora, ha potuto sviluppare la propria identità, la propria autonomia senza influenze esterne. Per questo è una festa emotivamente, sentimentalmente, spiritualmente importante; importante anche per l’Europa e per il mondo interno. Tutti abbiamo un legame con Israele, che è un po’ il figlio di tante cose, di tutta una storia; è anche figlio della cultura, della storia del Vecchio Continente: è qui che si sviluppò il sionismo, e Israele è l’unico Stato nato per decisione dell’Onu». Eppure c’è, ancora oggi, chi critica questo fatto storico. A Torino alla vigilia del Salone del libro alcuni contestatori hanno bruciato le bandiere israeliane... Credo che sia veramente vergognoso parlare di boicottaggio di libri e che ci siano state bandiere bruciate; il rogo non simboleggia soltanto il fatto di non essere d’accordo col governo di Israele; la bandiera è il simbolo dell’identità nazionale, bruciarla significa negare questa identità, e ciò è molto grave. La cosa preoccupante, il problema fondamentale – come ha detto Napolitano – è che possa farsi strada la delegittimazione del diritto d’esistenza di uno Stato; non certo la semplice critica politica, che è legittima. Perché poi c’è chi cerca di applicare, di mettere in pratica certe aberrazioni. Le minacce di distruzione e di morte non ci mancano: il ministro siriano ha detto che Israele ha dieci anni di vita: non sono quindi questioni solo teoriche. Il fatto poi che si parli di boicottaggio di libri è particolarmente preoccupante. In Europa sono stati anche bruciati, i nostri libri: non solo dai nazisti, ma anche in epoche precedenti, nel ’500 ci fu il rogo del Talmud a Campo dei Fiori a Roma. Certe cose dovrebbero essere tabù per chi dice di non essere razzista, di essere intellettuale. Esiste un antisemitismo diffuso e

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Il rabbino capo di Milano sui rapporti con i palestinesi

Primo, reciproco riconoscimento colloquio con Alfonso Arbib di Valerio Venturi magari bipartisan? Sono convinto di no, almeno in Italia: la stragrande maggioranza degli italiani è istintivamente lontana dal razzismo, ma ci sono anche minoranze antisemite e violente che, anche quando si mascherano, si fanno sentire. Invece in altre parti dell’Europa l’antisemitismo certamente c’è, non è scomparso, viaggia nelle viscere delVecchio Continente ed è difficilissimo sradicarlo. Credo sia importante riconoscerlo, perché ritorna più volte sotto spoglie diverse – a destra o a sinistra – ma con coincidenze inquietanti. Ci sono espressioni che tornano quasi identiche: ad esempio il tema del boicottaggio dei libri ebraici, il tentativo di emarginazione, veri leit motif della nostra storia. Altra cosa è la demonizzazione del popolo ebraico: quando si riesce a farlo, la reazione violenta diventa giustificabile. La prima accusa di omicidio rituale e di complotto documentata è di mille anni fa; ancora oggi si continua a parlare di complotto ebraico; e si continua a farlo da parti politiche diverse . Occorre non abbassare la guardia. La politica italiana ha compiuto e sta compiendo uno sforzo credibile

libri e riviste

hi ama la filosofia della libertà vive oggi un periodo di smarrimento in America. Nella corsa alla Casa Bianca, dove si alternano le bandierine blu e rosse di democratici e repubblicani, si lasciano aperte due sole possibilità. Entrambe poco digeribili per i cuori libertari del Nuovo mondo. Devono scegliere fra il Big Government conservatore e quello liberale. Esisterebbe, secondo un recente sondaggio, una grossa fetta del Paese, circa il 59 per cento, che si definisce «fiscalmente conservatore e socialmente liberale». Un esercito di cittadini che rischiano di rimanere senza rappresentanza. L’autore spiega come la politica della libertà di scelta della scuola, della religione,

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dello stile di vita, debba rimanere una radice fondante della società americana. Oggi si è invece dispiegato, attraverso i due schieramenti politici, il ritorno dell’invasività dello Stato. Il“Leviatano”che vuole aumentare le tasse, perchè sa spendere il «tuo denaro meglio di te» e che non pensa che il cittadino sia in grado di scegliere l’educazione migliore per i propri figli. Un grido di dolore e un allarme, mentre le nubi della crisi economica si avvicinano minacciose. David Boaz The Politics of Freedom Cato Press - 329 pagine - 22.95 $

in questo senso? C’è stato un netto miglioramento della politica italiana nella gestione del rapporto con la comunità e con Israele: la stragrande maggioranza delle forze politiche esprime posizioni equilibrate e questo è fortemente positivo. D’altra parte sono cresciuti in aggressività certi gruppi violenti. Ci sono equilibrio e progresso, ma al contempo l’affermazione di estremismi che vanno isolati. Bisogna avere il coraggio di chiamare certe cose con il proprio nome, come ha fatto il presidente della

a «bolla etanolo» sta provocando non pochi guai in giro per il mondo. La produzione di questo carburante ecologico, che sta avendo una forte spinta negli Usa, ha provocato un balzo in avanti del prezzo della materia prima da cui si estrae: i cereali. Dalla crisi petrolifera del 1977 le industrie si erano mosse per sostituire con l’etanolo un antidetonante tossico come il piombo. Le quantità impiegate erano però ridotte. Ora, con il prezzo del barile di greggio sopra i 120 dollari, i sussidi e i vantaggi fiscali per la produzione di cereali per etanolo, è decollata la fase industriale. Già alla fine del 2006 erano 110 le raffinerie attive negli Usa. Ora è urgente diversificare le fonti da cui estrarlo per non lasciare il mondo senza “pane”. C. Ford Runge, Benjamin Senauer How biofuels could starve the poor Foreign Affairs – May/June 2008

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Repubblica in certi casi. Occorre parlare in modo chiaro di antisemitismo, quando c’è. Certamente non ogni dissenso è antisemita e il dissenso è legittimo. Ma quando si vedono manifestazioni inquietanti è fondamentale denunciare. L’assuefazione a certi fenomeni, più che l’appoggio, è il vero problema. Lo Stato che compie dodici lustri non ha ancora risolto i problemi con la propria minoranza palestinese. Come crede sia giusto operare? Difficile rispondere. Siamo davanti ad un contrasto di tipo territoriale, ma anche culturale e con radici religiose. Il dialogo è complicato: ci sono sedimentati rancori. Credo veramente che ci possa essere un dialogo tra i due popoli, ma devono essere riconosciute le ragioni altro, certamente con l’aiuto internazionale. Non è facile per nessuno ascoltare le rivendicazioni degli altri, ma è fondamentale il riconoscimento reciproco del diritto di esistenza. L’ebraismo, le religioni, sono strumento di pace o di guerra? Non parlo delle religioni per principio, ma direi che certamente sono strumenti di pace. Il fatto è che bisogna evitare che la fede sia strumentalizzata politicamente; è da combattere ogni uso violento di essa. Non possiamo nasconderci che ciò non viene fatto. In certi casi bisogna avere la prontezza di condannare. Come a Torino, dove la fiera del libro doveva essere la celebrazione della nascita del nostro Stato. ed è stata contestata. Ma, alla fine, la fiera è stata un successo nonostante tutto, nonostante le tensioni. E’giusto che sia così: un momento di gioia che riguarda tutti e non un momento di scontro.

a Corte costituzionale turca ha avviato un procedimento contro il partito del premier, l’Akp. L’accusa è di voler minare le basi secolari dello Stato turco. Se si trovassero prove di una cospirazione o di un progetto politico con questo scopo, il partito sarebbe bandito per cinque anni e il leader Erdogan rimosso dalla carica di primo ministro. Questo potrebbe diventare una sconfitta per la democrazia? Rispondono cinque esperti del settore, con punti di vista molto differenti. Mustafa Akyol, Okan Altiparmak, Claire Berlinski, Ariel Cohen, Michael Rubin Turkey’s uncertain future: a symposium The American – April 30, 2008

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a cura di Pierre Chiartano


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Si moltiplicano i film dissacranti sull’attentato alle Twin Towers e la War on Terror

11 settembre 2001 ora Hollywood trasforma in farsa la tragedia di Maurizio Stefanini u un aereo in volo tra candide nuvole, due uomini seduti di fronte ai comandi si congratulano a vicenda con forte accento arabo, per la loro imminente ammissione nel Paradiso dei Martiri dell’Islam. Ma la recente ondata di kamikaze suscita a un tratto presso di loro il dubbio: non è che gli stock di 99 vergini a Beato promessi dal Corano si sono ormai esauriti? I due si interrogano, si arrabbiano, si accapigliano per l’eventuale ultima giacenza da dividersi, e alla fine decidono: meglio recarsi per un po’ a svernare alle Bahamas, in attesa che le scorte si ricostituiscano. Ma proprio in quel momento i passeggeri sfondano la porta e si avventano su di loro, in modo che nel parapiglia l’aereo finisce proprio addosso alle Torri Gemelle… La storia va poi avanti tra parchi a tema nazisti, bambole giganti usate per spargere il virus dell’aviaria e guerre nucleari con la Cina. Mentre nel finale George W. Bush e Osama Bin Laden camminano mano nella mano con sullo sfondo un fungo nucleare, mentre il Presidente Usa ridendo dice: «Sammy, penso che sia l’inizio di una splendida amicizia». Umorismo macabro, come d’altronde è nero l’umorismo del videogame “Postal”da cui il film trae titolo e trama: regista il tedesco Uwe Boll; produzione canadese; uscita negli States il 23 maggio, dopo essere uscito in Germania lo scorso 12 ottobre e in Austria il giorno successivo. Oltre a Osama e Bush anche

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il creatore del videogioco Postal, Vince Desiderio, e lo stesso Ball figurano tra i personaggi di una trama che sta tra “Helzapoppin”e i Monty Python: i quali ultimi il regista dichiara di avere come propria stella polare. E dice pure di essere sicuro di stracciare sul fronte degli incassi la quarta puntata della saga di Indiana Jones, sebbene il passaggio per gli schermi tedeschi e austriaci abbia avuto un esito tutt’altro che irresistibile: 133.568 dollari di incasso in Germania e appena 5.165 in Austria, di fronte a una spesa di realizzazione di 15 milioni. Anzi, Ball ha sfidato i suoi antipatizzanti, che hanno costituito addirittura un club per chiedergli attraverso una apposita petizione di lasciare il cinema per darsi a un altro lavoro. Ha spiegato infatti su Youtube che è prontissimo al ritiro: a patto però che i suoi detrattori raccolgano almeno un milione di firme per chiederglielo. D’altronde già nel 2006 Ball aveva sfidato i suoi critici più astiosi a match di boxe in cui li aveva riempiti di cazzotti.

Dopo i flop di Stone e Greengrass, il cinema americano tenta la via comica per descrivere la guerra al terrorismo

Come che sia, il tabù sta ormai per cadere. E visti i dati pure mediocri dei film seri sull’11 settembre, da “United 93” di Paul Greengrass a “World Trade Center” di Oliver Stone, stando a

una serie di titoli appena usciti o sul punto di uscire, sembra proprio che Hollywood stia provando a buttare la tragedia in burletta, apposta per vedere se almeno con la dissacrazione riesce a cavarne fuori qualcosa. Di Guerra al Terrorismo, in particolare, parlerà il sequel di “Harold & Kumar Go to White Castle”, film demenziale conosciuto in italiano come “American Trip - Il primo viaggio non si scorda mai”. Sempre più storditi da birra e marijuana, a quattro anni dalla loro prima avventura i due eroi si ritrovano prima a Amsterdam e poi a bordo di un aereo, dove Kumar esibisce la sua ultima in-

venzione: una pipa ad acqua, bong, senza fumo. «È tutto o.k., non è che un bong», spiega mentre la accende. Ma i passeggeri invece di “bong” capiscono “bomb”, i due sono scambiati per membri di Al-Qaida, arrestati e spediti per direttissima al carcere di massima sicurezza di Guantánamo, da cui però riescono a scappare su una zattera di esuli cubani.“Harold & Kumar Escape from Guantanamo Bay” è appunto il titolo, uscito il 25 aprile. Anche se l’evasione in realtà non termina la sarabanda delle avventure, con i due protagonisti che finiscono prima in mezzo a un incontro del KuKlux-Klan, stanno quasi per venire linciati, la sfangano an-


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grassando 11 chili, rovinandosi il fegato in modo irreversibile e riportando perfino disfunzioni sessuali. Ispirandosi pure lui nella locandina a Indiana Jones e nel titolo a un popolare videogame, stavolta Spurlock dedica la sua opera al figlioletto di 16 mesi. È quando lui e la sua compagna si sono resi conto di aspettare un erede, spiega, che si è messo in testa di cercare Bin Laden, per poter «rendere più sicuro» il mondo in cui il bambino sarà destinato a vivere. Al suo stile sarcastico, il documentario testimonia il suo girovagare tra Marocco, Israele, Egitto, Arabia Saudita, Afghanistan e Pakistan, alla ricerca di qualche traccia del capo terrorista.

da e Alaska. Per risolvere il problema della crescente scarsità di soldati, i suoi scienziati inventano allora un virus che ridà vita ai caduti, trasformandoli in super-soldati affamati di carne umana. Ma l’arma segreta scappa di mano e contagia un gruppo di spogliarelliste, che si trasformano a loro volta in mostri cannibali. Jay Lee, il regista, gioca sulla commisione dei registri alto e basso, mettendo assieme Il rinoceronte di Jonesco al cinema horror di serie Z e il softcore con la satira alla Dottor Stranoamore. La Jameson tra uno spogliarello e l’altro è ripresa a leggere Nietzsche. Poi, dopo essersi trasformata in zombie, riprende il libro in mano e conclude: «è molto più chiaro ora!». Ma la risposta del pubblico è stata talmente fiacca che dopo neanche una settimana il film è stato ritirato dalle sale, per essere distribuito solo in dvd.

L’ex pornostar Jenna Jameson e Robert Englund, il Freddy Kruger della serie “Nightmare”, sono i protagonisti di “Zombie Strippers”

cora, e terminano paracadutandosi sulla tenuta texana di George W. Bush. Il bello è che la Sezione Usa di Amnesty International si è arrabbiata prima ancora che potessero farlo le autorità. «Non crediamo che il carcere di Guantánamo sia una barzelletta», ha spiegato il portavoce Njambi Good.

Finora, però, neanche lo sberleffo ha vinto la riluttanza degli americani a rivamgare la tragedia. Neanche troppo bene, infatti, è andato “Where in the World is Osama bin Laden?”: documentario di Morgan Spurlock: sì, proprio quello che nel 2004 nell’altro documentario “Super Size Me”aveva sperimentato di persona i pessimi effetti del mangiare al McDonald’s tre volte al giorno per trenta giorni di fila. E allora ne aveva ricevuto una nomination agli Oscar del 2005, pur in-

Ne film “Harold & Kumar Go to White Castle”, i due protagonisti sono scambiati per terroristi islamici, arrestati e spediti per direttissima al carcere di massima sicurezza di Guantánamo, da cui però riescono a scappare su una zattera di esuli cubani. Il portavoce della sezione Usa di Amnesty International ha dichiarato: «Non crediamo che il carcere di Guantánamo sia una barzelletta»

Qualcuno ha ipotizzato che in effetti il regista provocatore sia riuscito a ritrovare Bin Laden, o per lo meno ad arrivargli vicino. Ma il finale del film mostra semplicemente che quando sta per entrare nell’Area Tribale del Pakistan nel vedere le intimazione agli stranieri di andarsene se non vogliono ricevere una pallottola l’ex-ingozzatore di hamburger e hot dog ha un attimo di resipiscenza, pensa al suo bambino, e decide di tormarsene a casa. Spurlock ha presentato la pellicola Sundance Film Festival, per poi arrivare sugli schermi australiani il 10 aprile e su quelli americani il 18. Ma per ora ha ragappena granellato 143.299 dollari, su 102 sale in cui è stato proiettato. Pure il 18 aprile è uscito “Zombie Strippers”: con la ex-star del porno Jenna Jameson e Robert Englund, il Freddy Kruger della serie “Nightmare”. Arrivato al suo quarto mandato, George W. Bush deve affrontare ormai non solo le interminabili guerre di Iraq e Afghanistan, ma anche quelle di Siria, Cana-

In f i n e c ’ è “ Wa r , In c . ” : regia di Joshua Sefetel su soggetto, sceneggiatura e produzione di John Cusack, che è anche interprete, e che ha messo in mezzo la sorella Joan. Inoltre c’è Dan Ayrkroyd, nel ruolo di un ex-vicepresidente Usa diventato presidente di un’impresa privata che in un prossimo futuro si è impadronita dell’immaginario e desertico Paese del Turagistan, e contro cui è scoppiata una rivolta. E c’è Ben Kingsley, Amministratore Delegato di un’impresa rivale di quella di Aykroyd, che il killer Cusack è incaricato di togliere di mezzo senza troppi complimenti. Girato in Bulgaria, il film è parzialmente ispirato a un articolo di Naomi Klein sulla Guerra in Iraq, intitolato “Baghdad Year Zero”. Girato nell’ottobre del 2006, dopo vari rinvii “War, Inc.” uscirà infine negli Usa a partire dal primo luglio.


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cultura

empre più di rado avviene che, leggendo un libro con il compito di recensirlo, ci si imbatta in densità concettuale associata a linearità di scrittura. Questa volta è capitato con il libro-intervista La paglia di Van Gogh (Marietti, 74 pp., 12 euro), che compare a firma Roberto Mussapi ma che vede nel giornalista Marco Dell’Oro, estensore della lunga conversazione critica, il sapiente conduttore. La testimonianza della grande intensità di queste pagine deriva, a chi scrive questa nota, dalla constatazione che tra post-it e appunti a margine, consueti strumenti di bordo di un recensore, il volumetto risulta chiosato a tal punto che a riprendere le fila del discorso critico sul libro si fa una certa fatica a sintetizzare e a mettere in luce i tantissimi spunti rilevati.

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Si parta allora dal genere: una conversazione sui temi della poesia di Roberto Mussapi, di certo uno dei più rappresentativi poeti italiani contemporanei, offre una panoramica di certo esaustiva su un lavoro ormai trentennale. Quello dell’intervista con il poeta sui suoi temi e sulla sua personalità sta diventando in Italia, e per fortuna, un genere sempre più frequentato. Solo in questi giorni annotiamo, oltre questo di Dall’Oro, quello firmato da Victoria Surliuga con Giancarlo Majorino (Nell’epoca del gremito, Edizioni Archivi del ‘900), Colloqui sulla poesia con Milo De Angelis (La Vita felice) e quello con 25 poeti firmato da Luigi Cannillo e Gabriela Fantato (La biblioteca delle voci, Joker edizioni). Non c’è alcun dubbio che per il lettore l’incontro con quel soggetto troppe volte, e a torto, considerato come un moloch, il poeta per l’appunto, quando viene mediato da un botta e risposta risulta grandemente agevolato. Poi se, come in questo caso ha saputo fare Marco Dell’Oro, il conduttore dell’intervista si mostra in grado di accompagnare contemporaneamente il poeta nel discorso critico su se stesso senza perdere di vista l’obiettivo lettore, beh, allora il lavoro è davvero ben compiuto. La paglia di Van Gogh, articolato in quattro sezioni, si mostra innanzitutto come una lunga e acuta

Tra gli scaffali ”La paglia di Van Gogh”, libro-intervista al poeta Roberto Mussapi

Tutto quello che i versi non dicono di Francesco Napoli

Guidato dal giornalista Marco Dell’Oro, pagina dopo pagina il lettore si imbatte in acute riflessioni e stimolanti quesiti sull’importanza della poesia, qui interpretata come strumento indispensabile per comprendere la realtà

riflessione sull’ardua impresa della poesia. La memoria e la parola poetica come tramite tra chi è ancora sulla terra e chi non c’è più; l’esperienza decisiva del viaggio e dell’incontro con gli altri; la necessità della poesia come strumento indispensabile nella lettura del reale e dell’oggi; la poesia quindi non certo come realtà astratta e slegata dalla consapevolezza del concreto bensì come esperienza che produce immaginazione e rafforza l’anima e che, soprattutto, attinge a una patrimonio universale; la forza disvelatrice del poeta che non inventa nulla o, forse, se lo fa lo compie in senso etimologico (invenio, scoprire); il rapporto sempre più diradato e distante tra uomo e sacro. Sono alcuni degli interrogativi che emergono qui dalle parole di Mussapi. C’è un legame diretto tra il declino dell’Occidente e il rinchiudersi della poesia nei suoi territori di più stretta competenza ma avara di soddisfazioni? La distanza dal sacro che via via si è accentuata nel quotidiano vivere degli uomini non fa parte di questo decadere? Al sonno della morte c’è scampo in un possibile risveglio? La poesia e la preghiera sono poi così distanti tra loro? L’aspirazione all’assoluto, che pure ancora permea l’uomo, può essere colta anche per tramite della poesia? L’uomo è solo nella folla e nel caos di quest’epoca? E si potrebbe continuare in questo florilegio di quesiti posti da un libro che si rivela essere non solo un acuto saggio sul lavoro poetico di Roberto Mussapi ma uno straordinario strumento di riflessione etica e filosofica sull’uomo, campo sul quale nessuno al pari del poeta è in grado di dire la sua a patto che non si tiri più indietro, che cerchi di riguadagnare quella funzione che gli è appartenuta e che, azzarderei, ha dell’oracolare, così come la si può interpretare al meglio oggi e qui in occidente.

La bellezza di queste pagine è anche nella levità con la quale la materia è trattata. Si ricorre a Shakespeare come a Coleridge o a Luzi, si riconoscono le conoscenze a tutto campo che vanno dall’arte di un Caravaggio alla pittura magnogreca della Tomba del Tuffatore di Paestum, miti antichi e laica religiosità si mescolano, teatro e azione drammaturgica si ritrovano passo dopo passo, ma sia concesso a chi scrive di sottolineare in conclusione come siano sublimi le considerazioni sulla morte e sulla possibile sconfitta in vita della stessa che originano dalle considerazioni di Roberto Mussapi sullo scandaloso bacio disneyano nella Bella addormentata nel bosco.


musica

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Degno erede del ”fu instancabile James Brown”, Elvis Costello torna alla ribalta con l’ultima fatica Momofuku

Il linguacciuto Stachanov del rock di Alfredo Marziano ra James Brown, pace all’anima sua, a detenere il titolo di più grande sgobbone del music business. Ora che il padrino del soul non calca più i palcoscenici di questa terra, il degno candidato alla sua successione non può essere altri che Elvis Costello. Il Fregoli, lo Stachanov, l’Houdini della moderna musica popolare: cerchi di annotare diligentemente sul taccuino i suoi movimenti e l’hai già perso di vista, provi a interpretare le sue ultime mutazioni e lui intanto ha cambiato di nuovo residenza e compagnie. Negli ultimi dieci anni ha flirtato col re del pop Burt Bacharach e con la cantante jazz Diana Krall (in senso non solo metaforico: tanto che l’ha sposata), col mezzosoprano svedese Anne Sofie von Otter e con la compagnia italiana di danza classica AterBalletto, col chitarrista Bill Frisell e col maestro del New Orleans Sound Allen Toussaint, andando a incidere con lui il primo disco realizzato nella culla musicale della Louisiana dopo l’uragano Katrina. In tanto mulinar di braccia e di idee, gli punge ogni tanto nostalgia dei vecchi giorni rock&roll. Allora fa un fischio ai vecchi amici (una volta si chiamavano Attractions, oggi Imposters), imbraccia la vissuta Fender Jazzmaster di My Aim Is True e sforna un album di canzoni dritte e filanti, senza troppe pretese, a pieno ritmo e a tutto volume.

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L’ultimo di questa genìa di dischi vecchio stampo si intitola curiosamente Momofuku, in omaggio all’inventore degli spaghetti cinesi a cottura istantanea. Perché la musica che contiene, spiega l’ineffabile Elvis, è proprio così: ci aggiungi un po’ di acqua ed è bell’e pronta, cucinata in sette giorni appena di sala di registrazione, un pezzo tira via l’altro perché «con certo rock’n’roll è meglio non stare a pensarci troppo». Tempi e modi da antiquariato

Camaleonte a tutto tondo, Elvis Costello (in alto) debutterà come presentatore-intervistatore televisivo per lo show musicale Spectacle, ospitando a breve personaggi del calibro di sir Elton John, Bill Clinton, Lou Reed e Tony Bennett rock, e sarà per questo che oggi il signor Declan MacManus (il suo vero nome di battesimo) ha riscoperto il vinile. Un po’ per coerenza stilistica, un po’ perché – diciamolo – gli è sempre piaciuto spiazzare i giornalisti, rompere le scatole ai discografici e fare impazzire i poveri fan/collezionisti, ha deciso che Momofuku è nato per essere ascoltato su Lp: come se fossimo ancora a fine anni Settanta, prima del compact disc e del download. «La versione vera», ha spiegato sul suo sito Internet, «è quella pressata su due pezzi di plastica nera con un buco in mezzo. Magari voi preferite altre edizioni meno esposte ai graffi e più facili da portare in giro, ma è così che questo disco suona al meglio: con la puntina su un solco, il modo in cui l’Essere Supremo ha inteso che dovesse essere». Autoconvintosi, forse, che l’unica via di salvezza sia un ponte tra passato e futuro bypassando il presente, Costello aveva deciso di dire addio al cd, fino a prova contraria ancora il supporto più acquistato dai consumatori di dischi, fornendo agli acquiren-

ti del long playing una “chiave” segreta per scaricarsi gratuitamente la musica anche sul computer o sull’iPod.

Poi s’è rimangiato la parola: ma ha ragione quando sostiene che il suono caldo, analogico e imperfetto del vinile rende il servizio migliore a queste dodici canzoni vintage ondeggianti tra rock e country, lounge e soul bianco, col vetusto e ronzante organo Vox Continental di Steve Nieve che farà la felicità dei fan di vecchia data, la sezione ritmica in moto perpetuo, la voce della giovane cantante indie rock Jenny Lewis (dei Rilo Kiley), la lap steel di “Farmer” Dave Scher e la sapiente scrittura melodica maturata in tanti anni – più di trenta, ormai – di onorata militanza nel gotha del cantautorato. Per promuoverle, Costello ha puntato tutto sul passaparola e sul movimento dal basso: ascoltate il disco e se vi piace parlatene bene agli amici, è il suo messaggio, al diavolo i comunicati stampa, le anteprime ai media, le interviste e i singoli in radio.

Ha sempre il cervello in ebollizione, il workaholic britannico, e non sta fermo un attimo. Mentre progetta di arricchire il suo sito Internet con materiale inedito invitandoci a guardare dal buco della serratura, aspetta trepidante la prima di Nightspot, uno spettacolo coreografato dal celebre Twyla Tharp per il Miami City Ballet

Negli ultimi dieci anni ha sfornato album di canzoni dritte e filanti a pieno ritmo, più qualche ”diavoleria” per i suoi fan. L’ultima, un Lp inciso solo in formato vinile di cui ha scritto le musiche di scena. Intanto debutta anche come presentatore-intervistatore televisivo per lo show musicale Spectacle, registrato negli Stati Uniti e prossimamente in onda sul canale inglese Channel Four: tra i suoi primi ospiti sir Elton John, Lou Reed, il crooner Tony Bennett e l’ex presidente degli Stati Uniti Bill Clinton. Critico anziché no nei confronti dell’amministrazione Bush (sull’emergenza New Orleans, la guerra in Iraq ecc. ecc.), trascorre negli

Usa buona parte del suo tempo e dichiara di sentirsi ancora meno a suo agio in patria («Sono venticinque anni che non vivo più lì. Non mi piace, e io non piaccio agli inglesi»), tanto meno in un music business con cui ha spesso fatto a testate riuscendo a imporre le sue condizioni: primo e finora unico artista di estrazione pop, per esempio, a pubblicare un suo disco sulla leggendaria etichetta gialla di Deutsche Grammophon.

Aveva addirittura minacciato di smettere di registrare musica perché «oggi il patto tra artista e ascoltatore si è infranto. L’Mp3 ha smantellato la forma con cui veniva concepito un album, e quando tutto filtra attraverso Internet vuol dire che tutto viene rubato». Poi arriva un disco come Momofuku, e sembra di tornare ai tempi di This Year’s Model e di Armed Forces. Il solito Costello, acuto, arguto, energico, romantico, melodico, mordace. Che oggi canta cento volte meglio che nel 1978 e ha imparato nel frattempo una montagna di trucchi del mestiere. Lunga vita all’inglese più infaticabile, trasformista e linguacciuto del rock.


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personaggi

Ennio Morricone su se stesso, il cinema, Alemanno e il nuovo governo

Se l’Italia fosse musica... colloquio con Ennio Morricone di Cristiano Bucchi

a stanza è come me la ero sempre immaginata: un pianoforte a coda, due poltrone scure, migliaia di dischi, e poi fotografie, una libreria stracolma, due grandi quadri. È il luogo in cui da sempre Ennio Morricone compone le sue musiche. Entrare qui significa sfogliare un pezzo di storia. Ci sono tutti, non manca nessuno: Sergio Leone, Luciano Salce, Pasolini, Bertolucci, Tornatore, Comencini, senza dimenticare Brian De Palma, Terence Malick e Warren Beatty. Cinquant’anni di carriera, oltre 450 colonne sonore, un premio oscar dopo ben cinque nomination, otto nastri d’argento, sei David di Donatello, due Golden Globe, un Grammy e il Leone d’oro alla carriera nel 1995 a Venezia. Morricone mi racconta che non ama fare il riposino dopo pranzo e che se c’è da lavorare preferisce mettersi immediatamente sullo spartito. «Non mi è mai piaciuto stare con le mani in mano, e poi comporre è il passatempo che preferisco». Partiamo dalla cronaca di questi giorni. Cosa ne pensa della Festa del cinema che Alemanno vorrebbe all’insegna dei film italiani? Sono d’accordo con quello che ha detto Alemanno, ma non vedo perché bisogna far fuori il cinema straniero. Le dichiarazioni dei primi giorni fanno ancora parte della propaganda elettorale, ma vedrà che alla fine non succederà nulla. Mi sembra che la Festa di Roma funzioni bene e che abbia avuto un discreto successo anche all’estero. Vedrà che alla fine verranno portati solo piccoli aggiustamenti. Niente di più. Cosa si aspetta dal nuovo governo per la musica e per la cultura più in generale?

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Prima di tutto che governino bene e poi che si ricordino della musica cosa che non hanno fatto mai. Oggi la musica non viene comunicata come dovrebbe essere. Le istituzioni dovrebbero sostenerla e invece proprio alle piccole associazioni viene tolto o diminuito il sostegno. Eppure ci sono tanti musicisti di valore che però non riescono a lavorare perché ci sono poche occasioni. Io qualche volta ho avuto il coraggio di andare a sollecitare importanti politici ma non è successo niente. Qual è il rapporto tra cinema e musica? Credo dipenda molto dal compositore. Può essere un rapporto subalterno se chi compone è passivo. Se al contrario il compositore ha la dignità di riscattare il condizionamento allora può essere un rapporto molto forte. Ci sono certamente quelli che vanno a rimorchio del

le, ciò che esce fuori è un lavoro completo. Leone da questo punto di vista era un maestro. Lei ha detto che scrivere musica da film comporta a volte qualche compromesso. A cosa si riferiva? Nel mio lavoro non c’è nulla di più naturale del compromesso. Ogni volta che scrivo la musica per un film non compongo per me stesso, ecco perché è giusto parlare di compromesso. Ho sempre considerato il regista il padrone esclusivo in senso estetico della sua opera e l’opera principale è il film. La musica in questo senso è qualcosa di ausiliario. Per questo è giusto parlare di compromesso e non di altro. Quali sono le fonti di ispirazione? Sono inesauribili per il semplice motivo che da un esperienza si passa ad un’altra. E’ facile che un’esperienza si riversi in un’altra trasformandosi e quindi non si finisce mai, non c’è mai una fine. Credo che l’importante sia avere la certezza di voler progredire e di portare a termine le idee. Se un’idea non è finita c’è la necessità di portarla avanti fino al suo compimento. Ho sempre avvertito tutto questo come un obbligo. Cosa è cambiato con l’assegnazione dell’Oscar? Non è cambiato nulla. Capisco che la gente sia curiosa, ma la verità è che a parte questa bellissima statuetta la mia vita è uguale a prima. Cosa ricorda di quei giorni? Ciò che mi colse veramente di sorpresa fu la telefonata con cui il presidente dell’Academy mi comunicò la decisione di attribuirmi il premio. Ricordo poi la bellissima serata a Los Angeles e il mio amico Clint Estwood che mi consegna il premio. La verità però è che quando si scrive musica non si pensa mai ai premi.

Ci sono tanti musicisti di valore che non riescono a lavorare perché hanno poche occasioni. Anche un genio come Sergio Leone fu sottovalutato: i suoi film sono delle grandi opere

film ed altri che invece riescono ad esprimersi alla loro maniera, con la propria personalità. Vuol dire che ci sono registi che non amano la musica? No, semplicemente che ci sono registi che non sanno sistemare la musica nel film. Al contrario se si rispettano le note e gli si da il giusto spazio tempora-

Facciamo un salto indietro nel tempo. All’inizio degli anni cinquanta venne assunto dalla Rai ma dopo solo un giorno si dimise. Perché? Era il 1958. Fu il capo della struttura di Via Teulada il maestro Carlo Alberto Pizzini a dirmi che io non avrei fatto carriera come assistente musicale, perché c’era una circolare scritta anni prima dall’allora amministratore delegato, Filiberto Guala, che stabiliva prima di tutto che i compositori assunti alla Rai come consulenti musicali non potevano fare carriera, e che le loro musiche non potevano essere suonate dall Rai. Io ringraziai e risposi che me ne sarei andato senza perdere tempo. E così feci. E Pizzini come reagì? Mi disse che me ne sarei pentito. Ma io non ebbi nessun dubbio. D’altronde avevo studiato composizione per lavorare e non per accontentarmi di uno stipendio. Dopo quindici giorni mi chiamò il direttore amministrativo. Insistette molto per pagarmi due settimane di lavoro dicendomi che se non avessi accettato lo avrei messo nei guai. Così mi presi i soldi senza aver lavorato neppure un

ora. Fu comunque una scelta coraggiosa, soprattutto considerando che allora non guadagnavo. Nel 1964 per Sergio Leone compose con la tromba forse uno dei brani più significativi della sua carriera per il film Per un pugno di dollari. In quell’occasione usò lo pseudonimo di Dan Savio. Perché? Era stato espressamente richiesto dalla produzione perché volevano fare apparire il film americano. Ricordo anche che Leone si firmò Bob Robertson, mentre Volontè era Willis. Perché scelse proprio il nome Dan Savio? Non sapevo che nome scegliere, così ne tirai fuori uno a caso. Cosa ricorda di quell’esperienza che poi ha segnato la sua vita? Ricordo un lavoro inizialmente come tanti altri che poi nel tempo si trasformò in una profonda amicizia. Era un rapporto talmente particolare e coinvolgente che difficilmente mi sentivo stanco. Fu un esperienza meravigliosa. L’ultimo film di natura western che ha girato con Sergio Leone è Giù la testa del 1971. Cosa ricorda


personaggi

di quel film? Sergio in quel periodo si sentiva molto stanco per girare film lunghi e all’aperto. E questo si vede chiaramente. Al posto di immagini rapide c’è molta più lentezza. La musica in quell’occasione doveva raccogliere la malinconia, e il dolore per il tempo che è trascorso. Si può distinguere il binomio Morricone/Leone, dal binomio Morricone/film western? Certamente quello che ho scritto allora apparteneva allo stesso linguaggio che Leone aveva capito dal primo film e quindi ho continuato su quella strada. Per C’era una volta in America fu tutto diverso perché non si trattava di un film western. Lei ha più volte sostenuto che Sergio Leone è stato sottovalutato. Da chi? Da tutti. Non si possono rubricare le opere di Sergio Leone come spaghetti western. I suoi film non sono una minestra ma un primo piatto, e quelli che hanno messo in giro questa parola sono solo dei cialtroni. Dopo Leone qual è il regi-

sta con cui si è trovato meglio? Sicuramente Tornatore. Con Giuseppe c’è sempre stato un affiatamento molto importante. Sia lui che Leone hanno chiarissima coscienza di ciò che serve al film, anche dal punto di vista musicale. Ricordo ancora durante la lavorazione di Nuovo cinema paradiso la grande sensibilità di Tornatore. Con quale criterio sceglie i suoi progetti? Dal regista prima di tutto: mi piace lavorare con gli stessi, come nel caso di Tornatore. È vero che Stanley Kubrick le chiese di realizzare la colonna sonora del film “Arancia Meccanica?

È tutto vero. Purtroppo però stavo mixando Il buono, il brutto e il cattivo e quindi non riuscimmo a fare nulla. Mi dispiacque molto ma evidentemente doveva andare così. Comunque non ho nessun rimpianto. C’è stato qualcosa che avrebbe voluto fare e per cui non ha avuto il tempo? Ho fatto tutto quello che volevo e in piena libertà. Sono completamente soddisfatto. Qual è il segreto delle sue musiche sempre così attuali? Intanto di non abituarsi a scrivere una musica standard nel senso della moda corrente. Se uno riesce a sfuggire alla moda allora avrà fatto qualcosa che resisterà nel tempo.. Ho letto che sottopone i lavori prima di tutto al giudizio di sua moglie. Succede che mi metto al pianoforte e le faccio ascoltare quello che ho in testa. Ho sempre tenuto in grande considerazione il suo giudizio. Mi mette molta tranquillità. È vero che va a letto presto la sera? Il problema è che mi alzo molto presto la mattina. La vertà è che sono un gran dormiglione. Quali sono le ore migliori per comporre? Direi la mattina. Solitamente mi alzo, faccio colazione, leggo i giornali e poi mi metto al pianoforte. Lei è un grande tifoso della Roma, non ha mai pensato di scrivere un inno per la sua squadra? Me lo hanno chiesto tante volte ma ho sempre risposto che quello di Venditti mi sembra perfetto. Come sta vivendo questo finale di campionato? È stato probabilmente uno dei campionati più avvincenti di questi ultimi anni. Forse la Roma in questo girone di ritorno ha fatto un po’ più dell’Inter nonostante la squadra di Mancini abbia ancora un punto di vantaggio. Domenica prossima per noi non sarà facile a Catania, ma sono sicuro che anche il Parma venderà cara la pelle. Vincerà chi avrà più sangue freddo. Se la sente di fare un pronostico? Porterei sfortuna alla Roma.

14 maggio 2008 • pagina 21

Una carriera da Oscar Ennio Morricone è nato a Roma il 10 novembre del 1928. Dopo il diploma in tromba e quello in composizione sotto la guida di Goffredo Petrassi, presso il Conservatorio di Santa Cecilia di Roma, inizia la sua carriera di compositore. Nel 1955 comincia a comporre musica per film, ma è nel 1961 che firma ufficialmente la sua prima colonna sonora per Il federale di Luciano Salce. Nel 1964 inizia la collaborazione con Sergio Leone, con il quale realizzerà ben cinque film western.

Nel 1969 arriva il primo riconoscimento, il Premio Spoleto Cinema. Nella sua carriera lavora con i più elebri registi italiani e stranieri: da Pasolini a Pontecorvo, da Bellocchio a Zeffirelli, passando per Lattuada, Bertolucci, Comencini,Visconti, Brian De Palma. Nel 1986 è autore della colonna sonora di The Mission del regista Roland Joffè, e all’attivo ha già incassato tre Nastri d’Argento (per le musiche dei film Metti una sera a cena, Sacco e Vanzetti e C’era una volta in America, rispettivamente nel 1970, 1971 e 1985), una nomination all’Oscar per la colonna sonora di Days of Heaven (1979), e il Premio della critica discografica per le musiche del film Il prato. Con Giuseppe Tornatore inizia a collaborare nel 1988 per Nuovo Cinema Paradiso, film che vincerà l’Oscar come miglior film straniero e che gli frutterà nel 1989 un David di Donatello e nel1990 un Bafta, e il Prix Fondation Sacem del XLIII Festival del Cinema di Cannes. Ma è nell’88 che acciuffa Nastro d’Argento, Bafta, Grammy Award e nomination all’Oscar per la colonna sonora della pellicola Gli intoccabili, più un David di Donatello per le musiche di Gli occhiali d’oro. Ricchissimi di premi e riconoscimenti anche tutti gli anni Novanta, a cominciare dal 1991, che gli frutta un David di Donatello per le musiche del film Stanno tutti bene, e continuando nel ’92 e ’93, anni in cui conquista la nomination all’Oscar per la colonna sonora di Bugsy, il Grolla d’oro alla carriera ricevuto a Saint Vincent, più un altro David di Donatello e l’Efebo d’Argento per le musiche della famosa pellicola Jona che visse nella balena. Nel 1995 gli viene conferito il Leone d’oro alla carriera durante la 52esima Biennale del Cinema di Venezia, e nel 2000 l’ennesimo David di Donatello per la miglior musica con il film Canone inverso. Recentissima è la sua ultima collaborazione con Giuliano Montaldo per I demoni di San Pietroburgo, ed è finalmente nel 2007 che riceve il più alto riconoscimento: il Premio Oscar alla carriera.


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LA DOMANDA DEL GIORNO

Ci sono i fannulloni nella Pubblica amministrazione? I FANNULLONI ESISTONO ECCOME, MA IL LICENZIAMENTO PENSO SIA INATTUABILE La Pubblica amministrazione è strapiena di fannulloni. Basta sostare una mezzora davanti a un qualsiasi Ministero per averne conferma. Un viavai inarrestabile di persone che entrano ed escono con borse e sacchetti gonfi di acquisti. A dire il vero un freno c’è stato con l’introduzione dei tornelli di accesso, ma il buon fannullone ha ovviato all’inconveniente facendo entrare i venditori e trasformare quella che dovrebbe essere la stanza di lavoro in un minimarket. Giusto quindi il proposito di Brunetta, ma inattuabile per una serie di motivi, primo fra tutti il no dei sindacati. Secondo me il più efficace dei provvedimenti è il controllo da parte del dirigente, controllo che non deve essere da questurino, ma provenire da una attenta valutazione del lavoro prodotto dal collaboratore. Se poi tale controllo venisse accompagnato da una drastica diminuzione del personale, la necessità di ricorrere al licenziamento sarebbe limitata ai soli casi di infedeltà o corruzione. I fannulloni esistono sicuramente anche nel privato, ma il costo del lavoro ha costretto le Aziende private ad assumere lo stretto necessario e quindi il fenomeno del fannullismo è ridotto al

LA DOMANDA DI DOMANI

Cosa pensate della nuova politica di governo sulla immigrazione clandestina? Rispondete con una email a lettere@liberal.it

minimo. Per anni la Pa ha subìto l’affronto dell’assistenzialismo e dell’assunzione facile per diventare serbatoio di voti. Ben venga dunque il licenziamento se necessario, ma non facciamoci illusioni. Cordialmente ringrazio per l’ospitalità sulle pagine del vostro giornale.

Fabio Colucci - Como

BRUNETTA HA PERFETTAMENTE RAGIONE: MINACCIARE DI CACCIARLI È UNA SOLUZIONE Certo che nella Pubblica amministrazione i fannulloni esistono. Eccome se esistono. Certo, qualcuno dirà: ce ne sono anche nel privato. E allora? Iniziamo a punirli e a farli lavorare come si deve. Renato Brunetta ha perfettamente ragione e centrato uno dei problemi che paralizzano la produttività dell’Italia. Possiamo star certi che a forza di minacciar licenziamenti qualcosa finalmente nel Paese si velocizzerà e tornerà a funzionare.

IL SIGNORE DEGLI ALBERGHI

Si trova in Nuova Zelanda l’Hobbit Hotel, interamente costruito sul romanzo fantasy di J.R.R. Tolkien Il Signore degli Anelli. L’albergo racchiude piccoli appartamenti autonomi muniti di cucina, bagno e camere, e il costo si aggira intorno ai 140 $ a notte per coppia

Anita Franceschini - Pesaro

BISOGNA CONTRASTARE L’INATTIVITÀ DISTRIBUENDO PREMI A CHI LAVORA DAVVERO Quello di Brunetta dà tanto l’idea di un buon proposito che come tanti altri rimarrà nel mondo delle idee e niente più. Sì, certamente nella Pubblica amministrazione i fannulloni esistono e sono pure tanti. Chi scrive è stato nella Pa per oltre quaranta anni con ruolo di dirigente e di collaboratori furbi ne ha visti parecchi e, per quanto possibile, ha contrastato con qualche successo l’inattività distribuendo premi a chi prestava onestamente il servizio per il quale riceveva lo stipendio. Ma la piaga del ”fannullismo” si può combattere e piegare soltanto con provvedimenti drastici. Il più severo è indubbiamente il licenziamento che però, come lo stesso Brunetta ha affermato, è previsto ma mai applicato. E perché questo accade? Ma davvero pensiamo di avere la collaborazione dei sindacati per questa operazione? Non scherziamo. La tessera del sindacato è una imbattibile garanzia di impunità, così come è garanzia di carriera assicurata. Cordialità e a presto.

SUPER PRO-PARTES Dopo un “no” fermo alla riforma del 2006 dell’art.117 della Costituzione, che avrebbe implicato un elenco di potestà legislative sia concorrenti e sia esclusive delle Regioni, il Capo di Stato nel suo intervento contro la riforma, aggiunse: «In particolare, pur essendosi significativamente consolidate – attraverso il passaggio al sistema elettorale maggioritario e la prassi di una competizione politica bipolare – la posizione del Governo in Parlamento, la governabilità del Paese e la stabilità dell’azione di Governo, l’attuale opposizione ha continuato e continua a presentare proposte volte a sancire in sede costituzionale tale evoluzione e a rafforzare i poteri del Primo Ministro rispetto la formulazione della Carta del 1948… è inaccettabile il voler dilatare in modo abnorme i poteri del Primo Ministro» (Napolitano, 10-05-2006). Tra l’altro affermò anche che la riforma era dominata da una logica di estrema personalizzazione della politica e del potere e da un deteriore compromesso tra calcoli di parte. Un anno e mezzo dopo, ha ribadito l’ostilità a una riforma che

IL PARTITO DEMOCRATICO RAPPRESENTA ”IL NUOVO”

L’ESTATE ROMANA ANDREBBE RIVISTA

Spesso la prima esperienza risulta alquanto deludente. Chi però volesse avventurarsi alla scoperta del nuovo, troverà pane per i suoi denti. Dove? Il miglior indirizzo è senza dubbio quello del loft del Pd, a Roma. Qui si fa scuola di modernità e attualità con competenza e qualità e moralità. Cervelli capaci di trovare mille soluzioni, artisti del trucco e curatori, appassionati esteti e studiosi, i padroni di casa sono in grado di organizzare, con precisione, qualunque cosa. Corsi accelerati di cattolicesimo, nazionalismo, sicurezza e immigrazione, federalismo e liberismo compresi. I risultati pare siano freschi e assicurati. Grato dell’attenzione. Distinti saluti.

Prezzi salati, solo intrattenimento e poca cultura. L’estate romana ha subito negli anni uno stravolgimento totale dell’idea lanciata a suo tempo da Renato Nicolini. Le iniziative di vera cultura sono state di fatto soppiantate dal mero intrattenimento e dalla ristorazione, cosa che costituisce concorrenza sleale nei confronti dei ristoratori, nonostante i finanziamenti dovrebbero costituire un calmiere per le tariffe. A usufruire delle agevolazioni dell’Amministrazione dovrebbe essere solo chi promuove davvero cultura, magari convenzionando l’ingresso agli spettacoli con la ristorazione, a prezzi inferiori, negli esercizi che la fanno tutto l’anno.

dai circoli liberal Claudio Corradi - Verona

comporti un aumento del potere del Primo Ministro. Ma aggiunse: «Si deve essere consapevoli del fatto che la stabilità dei governi e la tempestività delle decisioni anche legislative, resteranno sempre legate in non lieve misura al livello di aggregazione e di coesione tra le forze politiche che si alternano alla guida del Paese al loro grado di rappresentatività, alla loro autorevolezza». Dando quindi articolazione al pensiero: 1) la stabilità di Governo è garantita dal sistema maggioritario e bipolare e Il Primo Ministro non ha bisogno di maggiori poteri; 2) il problema fondamentale dell’Italia è la speditezza del processo decisionale del Governo e legislativo; 3) la speditezza delle decisioni manca, a causa del livello di aggregazione e di coesione tra forze politiche; 4) più alto è il livello di aggregazione più numerosi sono i partiti, di conseguenza minore è la coesione nella coalizione; 5) quindi per avere il massimo grado di coesione ci deve essere il minimo di aggregazione e quindi di fatto dal bipolarismo si deve passare al bipartitismo. In quanto a legittimità è sufficiente che la sia pur ridotta aggregazione (che quindi è massi-

Pierpaolo Vezzani

Gaia Miani - Roma

mamente coesa), esprima rappresentatività (ovvia con il premio di maggioranza) e autorevolezza (che si ottiene con la reciprocità del riconoscimento escludendo gli altri). Penso che il Maestro possa essere veramente soddisfatto per come i due Alunni (Silvio e Walter) hanno fatto i compiti per casa: sono stati così tempestivi che ad oggi la Gazzetta Ufficiale non ha ancora pubblicato questa importante riforma costituzionale! Leri Pegolo CIRCOLO LIBERAL PORDENONE

APPUNTAMENTI ROMA - VENERDÌ 6 GIUGNO 2008 Ore 11 a Palazzo ferrajoli (piazza Colonna) Riunione nazionale dei presidenti e dei coordinatori regionali dei Circoli liberal. ATTIVAZIONE Il coordinamento regionale della Campania ha attivato il numero verde per aderire ai circoli liberal del territorio: 800.91.05.29


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog Avremo mai un piccolissimo bambino? Ciò che mi ha fatto più felice è il passo della tua lettera in cui scrivi che siamo ancora giovani e possiamo ancora decidere della nostra vita. Amore mio, quanto desidero che tu possa mantenere questa promessa! Un piccolo appartamento tutto per noi, i nostri mobili, la nostra biblioteca, un lavoro tranquillo e regolare, le nostre passeggiate insieme, ogni tanto all’opera, una cerchia ristretta di amici intimi che qualche volta possiamo invitare a cena, ogni estate un mese di vacanza in campagna, o comunque lontano dal lavoro! E forse anche un piccolo, piccolissimo bambino? Ah caro, vieni subito, ci nasconderemo da tutti in due stanzette, lavoreremo, cucineremo noi stessi. Amore caro, ti getto le braccia al collo e ti bacio mille volte. Spesso me ne viene la voglia, che mi prendessi in braccio. Ma tu mi rispondi sempre che peso troppo.Ti stringo e ti bacio, e vorrei assolutamente essere presa tra le braccia. Tua. Rosa Luxemburg a Leo Jogiches

HA DETTO BENE NAPOLITANO, NIENTE TV PER GLI EX TERRORISTI Sono (e come non potrei) pienamente d’accordo con il presidente della Repubblica, l’ex comunista di lungo corso, sempre acquiescente alla linea di Botteghe Oscure, Giorgio Napolitano, che sembra sulla via di rinsavirsi e di guardare alle cose italiane - in specie alle Brigate rosse e ai loro atti di terrorismo - con l’occhio della verità e del buon giudizio. Napolitano, il 9 maggio, a trenta anni dal delitto Moro, ha chiesto scusa ai familiari dei caduti - famiglia Moro in prima linea, per l’importanza dell’assassinato - di quel tragico periodo. E, conseguentemente, Napolitano ha detto basta alle tribune, ai posti in Parlamento, alle cattedre e alle pubbliche conferenze degli ex terroristi. «Il rammarico non basta - ha detto il presidente della Repubblica - non ci dovrebbe essere spazio per simili figuri». Ha perfettamente ragione Napolitano, come presidente di tutti gli italiani a voler impedire le tribune tivù e qualsiasi altra tribuna, per gli ex terroristi. Ex terroristi che devono stare zitti, anche in questi momenti di ricordo dei caduti, vittime delle loro esecrabili

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)

ACCADDE OGGI

14 maggio 1643 Sale al trono di Francia Luigi XIV

1862 In Svizzera Adolphe Nicole brevetta il cronografo 1955 Nasce il Patto di Varsavia, alleanza militare tra i paesi del blocco comunista 1973 Da Cape Kennedy viene lanciato il laboratorio spaziale Skylab 1976 In Friuli un nubifragio distrugge 1.200 tende di terremotati 1979 Attentato di matrice terrorista a Roma: una bomba esplode davanti all’ingresso del carcere Regina Coeli 1993 In via Fauro a Roma, a pochi metri dal teatro Parioli, esplode un’autobomba. Obiettivo dell’attentato sembra essere il giornalista Maurizio Costanzo 1995 Il Dalai Lama proclama Gedhun Choekyi Nyima, 6 anni, l’undicesima reincarnazione di Panchen Lama, il secondo leader spirituale tibetano

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,

azioni di morte, e dei loro familiari. Per le famiglie dei quali, quel dramma non è mai stato archiviato. Espiino integralmente le loro pene e, forse dopo, gli ex terroristi (e i loro mandanti, che ancora non si conoscono) potranno chiedere alla Patria e al popolo il permesso di parlare, ma molto sottovoce. E questo non è fascismo né totalitarismo, ma è il profondo senso di rispetto per una comunità - quella italiana che ha molto pagato e sofferto per le azioni criminali di un gruppo di sbandati deliranti, che volevano con la più cieca violenza cambiare non il mondo, ma sicuramente la società italiana.

Angelo Simonazzi

FAUSTO BERTINOTTI E L’AMORE CONSUNTO Ci dicono che il partito al quale decidi di dedicare tempo e impegno deve essere prima amato e poi riamato fino alla consumazione. Solo allora potrai cominciare, sicuro di finire, qualcosa d’importante. Onore a Fausto Bertinotti, allora. Ci pare che il suo l’abbia amato e consumato e qualcosa d’importante l’abbia portato: il Pci ai minimi voti.

Lettera firmata

PUNTURE Il premier è senza vice, i ministri sono senza vice. Nel Pdl è difficile trovare dei vice perché sono tutti primi della classe.

Giancristiano Desiderio

In guerra, la massima «la sicurezza innanzi tutto» porta diritto alla rovina WINSTON CHURCHILL

Giancristiano Desiderio, Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

il meglio di LA BIRMANIA MUORE La Birmania è l’ennesimo Paese che la Storia ricorderà come vittima del Comunismo. La dottrina malata di nonno Marx anche qui, sotto lo sguardo vigile del colosso cinese, ha prodotto nipotini morti: oceani di sangue e l’oppressione di un popolo. Il colmo si sta raggiungendo in questi giorni, con una catastrofe naturale che si è abbattuta su questa povera gente e ha dimostrato ancora una volta (se ce ne fosse stato bisogno) quanto sia disumano il regime della giunta militare comunista: una giunta che ha addirittura bloccato gli aiuti umanitari e si è concentrata nella protezione di un fasullo referendum (con schede già precompilate!) che dovrebbe legittimarne la tirannia. Di fronte a tale dramma politico e di fronte a questo disastro umano, l’Onu (come sempre) si dimostra debole ed inadeguata (perfetto al riguardo l’intervento di Maria Giovanna Maglie). Intanto noi possiamo solo pregare e soffrire, nel guardare le immagini terribili di questi giorni.

Un blog conservatore liberale isalodelpensiero.blogspot.com

LA MERKEL SNOBBA LE PROVOCAZIONI DI CHAVEZ Angela Merkel vola in America latina: è il primo lungo viaggio nel continente di un capo di governo tedesco da sei anni a questa parte. Nella terra della recente sterzata a sinistra la Cancelliera va ora in cerca di partner affidabili. E lascia cadere l’orribile paragone che il leader populista Hugo Chavez le ha rivolto domenica.Poco prima della partenza per il suo soggiorno settimanale in America latina il presidente venezuelano ha infatti violentemen-

te attaccato la Cancelliera Angela Merkel accostandone la figura a quella di Adolf Hitler. La Cdu della Merkel ”appartiene a quella stessa destra che ha appoggiato Hitler e il fascismo”, ha detto Chavez reagendo alle affermazioni della Cancelliera che gli aveva categoricamente negato il diritto di poter rappresentare anche gli interessi degli altri stati sudamericani.A proposito dell’assolo del presidente venezuelano all’ultimo vertice di Vienna nel 2006, la Cancelliera aveva per l’appunto dichiarato che ”un paese soltanto non può certo pregiudicare la stabilità dei rapporti tra Ue e America Latina. Il Presidente Chavez non parla per l’intero continente. Ciascun paese ha la propria voce, con la quale persegue i propri specifici interessi”. A tali dichiarazioni Chavez ha risposto nel corso della sua trasmissione radiofonica domenicale, accusando la Merkel di aver incoraggiato gli altri capi di governo dell’America Latina a non intrattenere rapporti stretti con il Venezuela. Infine, dopo averle indirizzato ulteriori attacchi, si è trattenuto: ”Signora Cancelliera, vada a....” e dopo una piccola pausa ha soggiunto: ”non finisco la frase solo perché Lei è una signora”.Chavez d’altronde non è affatto nuovo a pesanti aggressioni verbali nei confronti di politici occidentali: nel 2006, parlando all’Assemblea delle Nazioni Unite, aveva persino definito George W. Bush il ”diavolo”. La Merkel per intanto preferisce glissare. ”Non c’è altro da aggiungere”, ha chiarito il suo portavoce Thomas Steg: ”Le dichiarazioni di Chavez si commentano da sole”.

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30



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