QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA
Dove può condurre l’eutanasia: far morire un figlio appena nato
e di h c a n o cr
L’incredibile cinismo di quei genitori di Foggia
di Ferdinando Adornato
di Luca Volontè ello scontro tra Cartagine e Roma, c’è anche lo scontro tra i sacrifici umani al demone Baal e le tante deità imperiali. I bambini e i giovanetti romani erano tutelati, nessuno si sarebbbe azzardato a sacrificarli come un impiccio o un avanzo da gettare nel cestino. A Foggia è nato un piccino con la sindrome di Potter (senza reni e uretri), un bimbo vivo che respira da solo e vorrebbe scalare il mondo. Se tutto andrà bene, sino all’età di dieci anni Davide dovrà sottoporsi a dialisi e poi sarà trapiantato e starà benone. I genitori vogliono consegnarlo invece alla morte, interrompere le cure e lasciarlo morire... lui che vuol vivere. Con loro, oltre ai radicali, il solito suono stridulo dei compassionevoli sacerdoti della “perfezione”, del bambino pubblicitario, settebellezze e successi. Non sarebbe giusto curarlo per dieci anni per poi guarirlo, meglio accopparlo subito così si spende meno, si ha un impiccio in meno e poi si consente la vita più agiata agli “adatti”. Cartagine sacrificava i fanciulli al demone per aggraziarselo, in Italia si sacrificano i neonati al “dio” consumistico della perfezione. Strano solo che nessuno si chieda se i sacerdoti di tale criterio siano essi stessi imperfetti e,aggiungo, con molte rotelle fuori posto. Davide vivrà, lo ha deciso il tribunale e il medico se ne prenderà cura,sempreché i genitori non montino una camapagna per il funerale del proprio figlio.
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LA CONVENTION DELLA CGIL
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80530
Il più grande sindacato è a un bivio: o si isola da Cisl e Uil scegliendo le posizioni estreme o rompe con la Fiom e collabora alla modernizzazione del Paese. Per ora Epifani resta in mezzo al guado...
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L’intervento all’assemblea della Cei
Contrordini: il raid era “rosso”
Il Papa benedice il “clima nuovo” della politica
Pigneto, quel fascista di Che Guevara
di Susanna Turco
di Nicola Procaccini
di George W. Bush
di Giovanni Reale
Una apertura di credito verso la nuova fase politica, ma anche domande precise su temi di interesse per il mondo cattolico: aiuti alla scuola privata, tutela della famiglia e salvaguardia della vita.
Dario Chianelli si è consegnato ieri alla polizia. Si tratta dell’uomo che ha guidato la spedizione razzista al Pigneto di Roma: «Io fascista? Ma se ho pure il Che Guevara tatuato sul braccio!».
La nostra idea di successo per l’Iraq e l’Afghanistan è molto chiara: potremo parlare di vittoria solo quando le persone sapranno e potranno proteggersi dal terrorismo.
È libro suo libro più bello. Si tratta di un racconto di ciò che è stata la sua vita e dei pensieri che ha via via maturato. Ma si può anche dire che sia un libro di filosofia, nel senso greco del termine.
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VENERDÌ 30
MAGGIO
Il discorso del Presidente alla Air Force Academy
Bush: «Combatteremo fino alla disfatta di al Qaeda»
2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •
pagina 4 NUMERO
100 •
Lettura filosofica del suo ultimo libro
Scalfari, l’uomo che credeva di non credere
nell’inserto Carte a pagina 14 WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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il signor ni
Al mini-congresso Cgil, Epifani tiene il piede in due staffe: tranquillizza Cisl e Uil e blandisce la Fiom
I rospi di Guglielmo di Vincenzo Bacarani
ROMA. Alzare la voce per provare a nascondere l’isolamento che si sta vivendo. Quella che doveva essere un’occasione per fare il punto sulla linea strategica della Cgil e sul suo reale stato di rappresentanza, anche in previsione di un maggiore collegamento con il territorio, è stata invece trasformata dal segretario generale Guglielmo Epifani in una serie di messaggi lanciati a governo, Confindustria e Cisl e Uil. Una relazionecomizio, quella che ha dato il via ieri alla Conferenza di organizzazione del maggiore sindacato italiano, che non ha detto assolutamente nulla di nuovo, ma che ha ribadito quanto già espresso dallo stesso leader e da altri segretari confederali Cgil negli ultimi mesi e giorni.
diamo, aprire da subito un tavolo sulle parti normative di tutti i contratti del settore pubblico per unificarli il più possibile e per renderli omogenei e più chiari». Quindi l’avvertimento: «Ma c’è un ma: tutto questo deve avvenire attraverso la contrattazione e non attraverso i provvedimenti di legge che potranno intervenire soltanto dopo su qualche aspetto, laddove le parti avranno deciso di affidare alla legge l’efficacia delle soluzioni». Ed è sempre il governo l’obiettivo delle frecciate del segretario della Cgil: «Il quadro che avanza», spiega, «non ci rassicura e lo riscontriamo già dai primi provvedimenti presi, in quelli che si annunciano, in quelli che sono in preparazione. Né ci rassicura l’evidenza di contraddizioni e paradossi che si stanno esprimendo: si è federalisti da una parte e statalisti nel prelievo fiscale dall’altra; autonomisti un giorno, nazionalisti l’altro; europeisti sul bilancio e non europei a proposito del reato di immigrazione clandestina, visto con sospetto e diffidenza dagli altri Paesi».
Strali verso il ministro Brunetta: «Si farà la riforma della pubblica amministrazione se c’è un confronto»
È stata ufficializzata una netta presa di distanza dal governo Berlusconi, così com’era stato ufficializzato un paio d’anni fa con lo slogan “Patto di legislatura con Prodi” una specie di matrimonio con il precedente governo di centrosinistra. La Cgil non cambia, questa la sostanza dell’intervento di Epifani, che pone precise condizioni al nuovo esecutivo, anche se dall’altra parte è convinta che sia necessaria un’intesa consapevole e un’azione unitaria con Cisl e Uil. Perché Epifani sa che non può più chiamarsi fuori, come più volte in passato, dall’affrontare l’importante nodo dei contratti. «Costruiamo obiettivi possibili», dice il leader della Cgil nel suo lungo intervento, «perché soltanto così il Paese può uscire dai suoi problemi e recuperare il terreno perso in questi anni: questo è il suggerimento e l’invito che si può rivolgere al governo, insieme con l’augurio che, se si vorrà davvero dialogare con il sindacato, si abbia volontà e capacità di ascolto. Perché, in caso contrario, il dialogo non può funzionare e prima o poi finirà». Polemico Epifani anche nei confronti del ministro della Funzione pubblica, Renato Brunetta: «Tocca al ministro, come chie-
Perché secondo Epifani, «il reato di immigrazione clandestina, che i sondaggi dicono essere molto condiviso dai cittadini, non ci trova d’accordo. Qui si passa il confine tra libertà e arbitrio. È contrario a tutte le norme europee, alla nostra Costituzione, offende il buon senso perché rende reato una condizione qualche volta neanche scelta liberamente». Poche, piuttosto evasive, parole sull’importante questione della riforma contrattuale. Lodi moderate al nuovo presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia «interlocutore serio e rigoroso». Ma per lei la trattativa «sarà una prova». Tiepide, ma con alcune venature critiche, le reazioni di Luigi Angeletti, leader Uil, e Raffaele Bonanni, Cisl. «Le questioni che ha posto Epifani sono serie e importanti», afferma Angeletti, «Bisogna avere la consapevolezza che abbiamo bisogno del cambiamento e non averne paura». Angeletti, inoltre, nel suo
intervento non ha perso l’occasione di ribadire come «il Protocollo del 1993 è morto e prima si disdetta e meglio è per tutti». Dal canto suo Bonanni ha sì apprezzato il richiamo di Epifani (anche se blando) a una
prese. Questo è uno degli aspetti innovativi, è una sfida che il sindacato in generale deve affrontare. Ecco, se c’è stata una mancanza, una dimenticanza nella relazione di Epifani è proprio questa». Di tutt’altro avvi-
l’epoca del governo Prodi». Cioè? «La Cgil ora sarà costretta a ingoiare tanti rospi». Confindustria infine ritiene tutto sommato positiva quella che al momento sembra essere, dice il direttore generale Maurizio Be-
Dopo gli anni (prodiani) del governo amico corso d’Italia torna all’antico e non risparmia critiche a Berlusconi: «Non ci tranquillizza affatto l’evidenza di contraddizioni e paradossi che si riscontrano nei primi provvedimenti presi» azione comune sul fronte della riforma contrattuale, ma ha anche notato nella relazione del segretario della Cgil una lacuna. «È mancato», spiega, «un riferimento ai modelli partecipativi. Ormai c’è bisogno di meno antagonismo e di più partecipazione dei lavoratori anche alla gestione delle im-
so uno dei leader della minoranza della sinistra Cgil: Giorgio Cremaschi, numero uno di rete 28 aprile e segretario nazionale della Fiom (l’organizzazione dei metalmeccanici) che afferma: «A me pare che la Cgil oggi si trovi nelle stesse condizioni in cui si trovavano i partiti della Sinistra Arcobaleno al-
retta «una posizione unitaria del sindacato». L’auspicio per l’organizzazione degli imprenditori è quello di affrontare e concludere la trattativa sulla riforma contrattuale prima delle ferie estive. «Non c’è ancora una data precisa», Beretta, «e finché non sarà terminata la conferenza organizzativa della Cgil non potre-
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Le reazioni alla relazione del segretario della Cgil
«Un sindacato che rischia di diventare un partito» di Riccardo Paradisi
ROMA. Sola come adesso la Cgil non lo è stata mai.
mo fissarla. Molti auspicano di arrivare anche prima dell’estate a un accordo. Anche a noi farebbe piacere perché siamo pronti da molto tempo».
Oggi, alla nuova Fiera di Roma, dopo una commemorazione di Bruno Trentin, si svolgerà il dibattito. Domani ci saranno le conclusioni del segretario generale. La conferenza organizzativa della Cgil si avvia così alla chiusura alla stregua di un mini-congresso che non avrà nemmeno il “brivido”delle votazioni. I problemi di rappresentanza e di presenza sul territorio del più grande sindacato italiano rimangono e saranno probabilmente riversati nelle assemblee e nelle discussioni delle varie Camere del Lavoro, come avviene regolarmente da molti anni.
A sinistra, Luigi Angeletti e Raffaele Bonanni. Il leader della Cisl si aspettava dalla conferenza della Cgil «richiami ai modelli partecipativi», quello della Uil ha ricordato «che il Protocollo del ’93 è morto» Sopra il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, a quanto pare soddisfatto delle uscite concilianti dei suoi colleghi, dopo le aspre polemiche dei giorni scorsi
Nemmeno nel 2001 quando con il Patto per l’Italia Silvio Berlusconi riesce a rompere l’unità sindacale e attirare Cisl e Uil in una sfera collaborativa con il governo. L’unità sindacale non sarà più ritrovata ma il sindacato guidato da Sergio Coffferati e poi dal Guglielmo Epifani – che nel 2003 consegna al Presidente del Senato Marcello Pera oltre 5 milioni di firme raccolte dalla Cgil contro le modifiche all’articolo 18 – ha nella sinistra politica del Paese una larga sponda di sostegno. L’Epifani che si alza dal tavolo della trattativa sul pubblico impiego con il ministro Renato Brunetta quel sostegno non ce l’ha più. La pax politica inaugurata dal Cavaliere con una Grosse Koalition non dichiarata ma effettiva e il fatto che una parte del Partito democratico spinga con decisione verso soluzioni collaborative con il governo sulle riforme economiche e nel pubblico impiego rendono di fatto laterale la posizione della Cgil rispetto alla scacchiera dove si sta giocando la partita politico sindacale di queste ore. Con un governo da un lato capace con Tremonti di tener buoni i ceti dell’estabilishment della famosa agenda Giavazzi dall’altra di interloquire senza asperità con una Confindustria meno di destra ma più collaborativa rispetto a quella a guida montezemoliana. Sicchè la Cgil seppure ancora forte – è uscita rafforzata dalle ultime elezioni di fabbrica – è dunque però sola. E quel che è peggio ancora indecisa sulla rotta da seguire. Sospesa tra l’idea di tornare al tavolo delle trattative e la tentazione di farlo saltare, per candidarsi a rappresentare il dissenso. Su questa sponda ad attendere una nuova Cgil di lotta senza più compromessi di governo è quel che resta della sinistra radicale. Manuela Palermi della segreteria nazionale del Pdci, saluta l’ipotesi della rottura: «È fastidioso che di fronte alla limpidità degli argomenti, le destre abbiano subito annoverato il più grande sindacato italiano tra coloro che fanno la politica del no. Come potrebbe la Cgil dire si a una politica di salari e pensioni che sono tra i più bassi d’Europa?». Ma così parla la sirena del massimalismo di sinistra, quello che, sostiene Savino Pezzotta (Cisl), rischia di perdere la Cgil. «Epifani è in una condizione difficile: il suo sindacato si trova a dover fare i conti con il mutamento della rappresentanza politica. Del resto è nella tradizione storica della Cgil un’attenzione al quadro politico del Paese. Ma io credo – ragiona Pezzotta – sia comunque
sempre un errore abbandonare il tavolo della trattativa. Primo perché nel caso specifico il Paese ha bisogno della riforma della pubblica amministrazione, secondo perché un sindacato non può essere condizionato fino a questo punto dal pregiudizio politico». Pezzotta solleva poi lo sguardo dalla contingenza più immediata e disegna il destino dei sindacati in uno SAVINO scenario prossimo venturo: PEZZOTTA «Con la bipolarizzazione Con la progressiva del sistema pobipolarizzazione litico o i sindacati guadaprogressiva del gnano progressivamente sistema politico autonomia o saranno ano i sindacati che loro costretti a schieguadagnano rarsi e dunque a perdere autonomia forza di rappresentanza». o saranno Giorgio Cremaschi (Secostretti a greteria nazionale Fiom) schierarsi la pensa diversamente da e dunque a Pezzotta. Anche per lui la perdere forza politica ha giocato un ruolo nelle scelte della Cgil e non avrebbe dovuto. Ma nel senso che Epifani dopo aver colpito duro con Berlusconi non doveva scontare nulla nemmeno a Prodi. «Certo che la Cgil oggi è più sola e più debole. Ma per i motivi contrari a quelli che i commenti di area governativa e confindustriale dicono in queste ore. È più sola e più debole perché dopo aver tenuto alto il conflitto con il governo Berlusconi – conflitto che ha pagato in termini di risultati e di consenso – è stata troppo acquiescente con il governo di centrosinistra. Detto più chiaramente: è stato un grave errore della Cgil non aprire il conflitto subito dopo la contestazione di Mirafiori». Radicali col centrodestra e allineati al centrosinistra: ecco per Cremaschi la formula che spiega l’impasse della Cgil. Che però può recuperare terreno e forza «ritenendo prioritaria l’opposizione sociale rispetto a quella politica, tenendo fermo sulla contrattazione nazionale e rifiutando dalle fondamenta la nuova retorica padronale RENATA a cominciare da quella sui POLVERINI fannulloni da licenziare. L’idea Una volta che vedrò il diridi presentarsi gente di un ministero o di all’opposizione una Asl licenziato perché interna non ha fatto il suo dovere e alla Fiom ne riparleremo. E quel mentre si sta giorno – promette Cremaseduti al tavolo schi – farò pubblica amcol governo può menda». Renata Polverini, avere inciso sulla segretario generale Ugl, scelta di Epifani legge in chiave politica la di rompere mossa di Epifani. «Oggi con il governo (ieri per chi legge N.d.r.) comincia la Conferenza organizzativa della Cgil: l’idea di presentarsi di fronte al sindacato, all’opposizione interna e alla Fiom mentre si sta seduti al tavolo col governo può avere inciso sulla scelta di rompere. Però – avverte Polverini – far saltare ogni ponte con un governo che durerà cinque anni mi sembra un azzardo molto grosso».
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scenari
Il discorso che il presidente americano ha tenuto ieri all’Air Force Academy
Bush:la guerra continua «Fino a che non avremo distrutto al Qaeda in Afghanistan e in Iraq» di George W. Bush a nostra idea di successo per l’Iraq e l’Afghanistan è molto chiara: potremo parlare di vittoria solo quando al Qaeda non troverà più riparo in questi Paesi e le persone sapranno e potranno proteggersi dal terrorismo; quando l’Iraq e l’Afghanistan saranno economicamente autosufficienti; quando diventeranno democrazie effettivamente capaci di gestirsi e di rispondere alla volontà dei loro cittadini e quando saranno alleati forti ed efficaci nella guerra al terrorismo. Questi successi arriveranno e - quando ciò accadrà - la nostra nazione potrà dichiararsi vittoriosa e gli americani saranno più sicuri. Abbiamo scelto di fronteggiare il pericolo all’estero affinché i nostri connazionali non fossero obbligati a farlo all’interno del Paese. E voi rischiate volentieri le vostre vite e il vostro futuro affinché il nostro Paese abbia una prospettiva di pace e libertà. I nostri nemici sostengono che l’America sia debole e decadente, e che non abbia lo stomaco per reggere una lunga battaglia, ma loro non hanno mai messo piede nel campus dell’Air Force Academy degli Stati Uniti.
L
Nel Ventunesimo secolo la nostra nazione si trova nuovamente a fronteggiare un’ideologia che cerca di seminare odio, risentimento e disperazione, l’ideologia dell’estremismo islamico. Con questa guerra, ci troviamo ancora una volta di fronte a uomini malvagi che disprezzano la libertà e l’America e che ambiscono a sottomettere milioni di persone alle loro leggi violente. Ancora una volta la nostra nazione è chiamata a sconfiggere questi avversari e ad assicurare la pace a milioni di persone nel mondo, e - ancora una volta - i nostri nemici non prevarranno grazie agli
uomini e alle donne dell’aviazione militare americana, perché aiutando le giovani democrazie a crescere in libertà e prosperità getteremo le fondamenta della pace per le generazioni future. Dopo la seconda guerra mondiale, abbiamo aiutato la Germania e il Giappone a costruire società libere ed economie forti; questi Paesi,
«Aiutando Germania e Giappone a costruire società libere, questi Paesi, una volta nemici, sono diventati nostri alleati. Ecco cosa ci sprona a continuare» una volta mortali nemici, ora sono alleati degli Stati Uniti e tutti i popoli del mondo hanno tratto benefici da questa alleanza. Ecco perché oggi dobbiamo fare lo stesso in Afghanistan e in Iraq. Molti, nel corso della storia, hanno sottovalutato il potere della libertà di vincere le tirannie e trasformare intere società, ma alla fine, nonostante le sfide e gli ostacoli, essa
prevale sempre, perché il desiderio della libertà è instillato da Dio nel cuore di ogni essere umano.
La sconfitta delle ideologie dell’odio, sia nel Ventesimo secolo che oggi, richiede tutti i mezzi a disposizione di una nazione, incluso l’uso della forza. I progressi rivoluzionari della tecnologia stanno cambiando il modo di fare la guerra. Abbiamo rimosso due regimi cruenti nel giro di qualche settimana invece che nell’arco di anni. In Afghanistan, le forze della coalizione e i loro alleati locali hanno deposto i talebani in meno di due mesi, mentre in Iraq, con l’aiuto della nostra aviazione, le nostre truppe hanno percorso 350 miglia di territorio nemico per liberare Baghdad in meno di un mese, una delle avanzate più rapide della storia militare. Nel Ventesimo secolo, la potenza aerea ha aiutato a rendere possibile la vittoria della libertà nelle grandi battaglie ideologiche contro il fascismo e il comunismo; in queste recenti guerre, invece, la nostra nazione ha dovuto affrontare uomini spietati con ambizioni territoriali e mire totalitarie che hanno ucciso degli innocenti
per i loro scopi politici, ma grazie ad una combinazione tra forza militare e risolutezza nazionale - senza dimenticare la fede nel potere della libertà abbiamo sconfitto questi avversari e assicurato la pace a milioni di persone. Dato che nessun avversario è in grado di confrontarsi direttamente con noi e di sconfiggerci militarmente, i nemici del Ventunesimo secolo ricorreranno
Dal 2001 al 2006: un confronto impressionante
er puro caso, mi è capitato di venire a conoscenza del numero totale di omicidi che si consumano in dieci delle più grandi città degli Stati Uniti, da Los Angeles a New York, da Chicago a Houston. L’insieme degli abitanti di queste città è quasi uguale alla somma dei cittadini iracheni, circa 24 milioni. In queste dieci metropoli nel 2001 ci sono stati 3.644 omicidi; un controllo degli anni successivi fino al 2006, la stima più recente, indica che in questo lasso di tempo si sono verificate tra le 3.500 e le 4mila morti violente all’anno. Ho dunque approssimativamente calcolato (ma sicuramente qualche esperto ha accesso al numero preciso), che il totale di giovani americani uccisi nelle dieci maggiori città degli Stati Uniti durante i cinque anni della guerra in Iraq ammonta a circa 17mila uomini. Come ho scritto in un precedente editoriale, ho incontrato tanti, tanti opinionisti indignati per i 4mila giovani americani caduti in Iraq, mentre non una parola sui 17mila uccisi nello stesso periodo nelle più
P Quattromila
Il presidente Usa George W. Bush e, nella foto piccola, il generale David Petraeus, capo del comando americano in Medio Oriente
uccisi in Iraq. Diciassettemila in America di Michael Novak
sempre di più alla guerra asimmetrica. Lo abbiamo visto in Afghanistan e in Iraq. In questi Paesi, i nostri avversari non hanno deposto le armi una volta rimosso il regime; hanno pescato nella popolazione civile e – grazie all’aiuto delle reti terroristiche internazionali – continuano la lotta con attacchi suicidi e l’uccisione di innocenti. Per vincere questa battaglia dobbiamo continuare a svilup-
scenari
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Retroscena. Dietro le dichiarazioni del governo sulle “regole d’ingaggio”
Cosa aspetta i soldati italiani a Kabul di Stranamore n primo passo verso un vero cambiamento strategico per la partecipazione del contingente italiano alla missione Isaf a guida Nato in Agfhanistan. La decisione annunciata dai ministri della Difesa, La Russa e degli Esteri, Frattini fornisce al Generale Dan McNeill, comandante di Isaf, una maggiore flessibilità di impiegare le forze poste ai suoi ordini. Tecnicamente, la riduzione da 72 a 6 ore del termine entro il quale Roma deve autorizzare l’impiego delle truppe italiane al di fuori dell’area occidentale dove è schierato il grosso delle nostre truppe è uno sviluppo importante, in particolare per rispondere a esigenze di “emergenza” dettate dalla situazione operativa. Già oggi infatti i soldati italiani possono andare, su richiesta di Isaf, “fuori area”, comprese le zone dove più si combatte. Solo che Roma ha 72 ore per rispondere alla richiesta. Il che consente ai soldati italiani di prendere parte soltanto ad operazioni prepianificate con largo anticipo. Di fatto poi questa richiesta non viene formulata per evitare le conseguenze politiche di un eventuale diniego, perché è ovvio che si viene richiesti di partecipare alle operazioni di combattimento…anche i nostri devono combattere e non solo per autodifesa.
U
pare tecnologie che garantiscano velocità, precisione e potenza precedentemente sconosciute, e ci stiamo dando da fare in tal senso. Dal 2002 il numero di drone (aeroveicoli senza pilota, ndr) del nostro arsenale è aumentato di quasi 40 volte fino ad arrivare a più di 5mila unità, e sta crescendo ancora. Non solo. Abbiamo riformato il Comando per le
Operazioni Speciali e raddoppiato i suoi fondi, stiamo migliorando le capacità dei nostri servizi segreti, della sorveglianza e della ricognizione, e stiamo adattando le nostre forze di terra alle guerre del Ventunesimo secolo, rendendole più veloci, più agili e più efficaci.
popolose città americane. Il punto è che i giovani morti in Iraq erano tutti volontari che hanno compiuto il più amorevole di tutti i gesti umani, sacrificando e donando liberamente la propria vita per i loro amici e per portare la libertà a persone mai incontrate prima. Erano nobili eroi, non semplici vittime; erano uomini e donne meravigliosamente altruisti. Possa il Signore benedirli per sempre, possa il loro onore essere commemorato nei secoli a venire, e possa la libertà conquistata con il loro sangue prosperare, crescere e diffondersi attraverso l’Iraq, magari alle regioni confinanti. Dovremmo piangere i 17mila americani uccisi nelle nostre dieci maggiori città in questi anni, e dovremmo onorare i 4mila caduti in Iraq.
opportunità per aumentare l’impegno con la Nato l’Italia la avrà con il cambio della guardia a Kabul, quando l’Italia terminerà il suo periodo di comando della “guarnigione” e potrebbe quindi ridurre la propria presenza militare nel Paese. Il ministro La Russa ha parlato di possibile ritiro di 250-300 soldati entro settembre. Però gli Stati Maggiori avevano ipotizzato di non ritirare nessuno e spostare invece le truppe non più necessarie a Kabul ad Herat, rafforzando quindi il nostro contingente più operativo, pur rispettando il “tetto” di circa 2.400 soldati in teatro. Tra le altre cose, concentrando le forze ad Herat e dintorni si potrebbe costituire una seconda pedina di manovra operativa a livello battaglione. E questa mossa, più che la rimodoluazione dei caveat, sarebbe davvero apprezzata. Alla fine può essere che si scelga di rinforzare un poco le forze ad Herat, ma ritirando parte del contingente di Kabul. Di fatto l’Italia non è a corto di truppe, gli impegni fuori area attuali consentono senza problema di mantenere 2.400 soldati in Afghanistan a tempo indeterminato. Ma se si vuole davvero dar seguito ai proclami della campagna elettorale con fatti concreti, l’Italia potrebbe decidere di modificare il compito assegnato e le regole di ingaggio dei nostri soldati, la cui azione diventerebbe più efficace se invece di doversi limitare a reagire ad attacchi o a situazioni di pericolo potessero intervenire con le armi assumendo l’iniziativa una volta identificati elementi ostili.
Se si vuole davvero dar seguito ai proclami della campagna elettorale con fatti concreti, l’Italia dovrebbe modificare anche il compito assegnato e le regole di ingaggio dei soldati
Riducendo il termine a 6 ore (termine massimo, ma nulla vieta di fare più in fretta, prevedendo opportune procedure) i soldati italiani possono diventare una riserva effettivamente impiegabile su chiamata (on call) per far fronte alle più varie esigenze, ad esempio per aiutare colleghi in difficoltà, ma anche per bloccare i nemici che tentano di sganciarsi (cosa che avviene purtroppo frequentemente, perché raramente ci sono soldati Nato/Usa sufficienti per effettuare una efficace cinturazione e bloccare ogni via di ritirata). Va peraltro rilevato che nella realtà quotidiana di Isaf non c’è poi tutta questa urgenza di spostare i soldati italiani a sud…per il semplice fatto che il comando regionale occidentale basato a Herat ha appena 2.600 soldati, che sono insufficienti per far fronte alle esigenze, considerando anche che la situazione è tutt’altro che tranquilla. Per arrivare a spostare truppe da ovest a sud Isaf dovrebbe trovarsi in una situazione realmente difficile. Non è invece probabile che le nostre truppe siano mai chiamate a intervenire nella regione orientale, non fosse che per questione di distanze e tempi di trasferimento. E questo gli addetti ai lavori lo sanno perfettamente. Il significato del gesto italiano è quindi più politico che operativo. Ma si tratta di un primo segnale. Una seconda
Non c’è bisogno di grandi strateghi per comprendere che sia molto meglio prevenire piuttosto che subire gli attacchi nemici, impedendo anche il movimento, l’addestramento, la fuga dei talebani. Qualche soldato italiano attività simili già le svolge, con discrezione. Nulla vieta che l’intero contingente cambi ruolo.Tra l’altro in questo modo sarebbe possibile aumentare sia la sicurezza dei nostri soldati, sia quella della popolazione civile. Perché in teoria oggi i talebani possono muoversi nella nostra area di responsabilità indisturbati, purché non conducano attività ostili contro i soldati o i civili… sempre che non incappino nelle forze statunitensi che fanno parte della missione Enduring Freedom. Purtroppo però si tratta di reparti troppo smilzi, ancorché molto agguerriti. E se poi si volesse mandare qualche assetto aereo da ricognizione o attacco in teatro, la Nato certo non si lamenterebbe. Sempre ricordando che è meno pericoloso impegnare gli aerei piuttosto che i fanti. Inutile comunque immaginare un cambio radicale e repentino. Il governo ha già compiuto un atto rilevante, considerando che è appena insediato. Basta che non ci fermi al cambiamento di un caveat. Altrimenti sarebbe solo cosmesi.
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politica
All’assemblea della Cei, Benedetto XVI dice sì al dialogo tra i partiti e invoca una «nuova stagione» per il Paese
Il Papa benedice il «clima nuovo» di Susanna Turco
Eutanasia, l’incredibile cinismo di quei genitori di Foggia di Luca Volontè segue dalla prima arebbe una terribile prova del regresso civile italiano. Ma la storia di Cartagine e Roma,dovrebbere essere, nell’Europa “non più cristiana” di oggi,custodita e rammentanta al cospetto delle malvagità sovrumane che vengono perpetrate con l’eutanasia infantile. Il Belgio sta per seguire nel precipizio l’Olanda,la scelta di ampliare l’eutanasia ai minorenni per legge e l’Europa che non impedisce il partito pedofilo olandese,ben si guarda di richiamare il Belgio al rispetto della vita nata, dei bambini.
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ROMA. Una apertura di credito verso la nuova fase politica, ma anche domande precise su temi di massimo interesse per il mondo cattolico, come gli aiuti alla scuola privata, la giusta tutela della famiglia e la salvaguardia della vita. Così Benedetto XVI, davanti all’Assemble generale della Cei, ha delineato attese e richieste della Chiesa verso il governo Berlusconi, confermando la sintonia con i vertici della Conferenza episcopale. Parlando dalla cattedra dell’Aula del Sinodo in Vaticano, Papa Ratzinger ha benedetto con «particolare gioia» il nuovo clima «più fiducioso e costruttivo» creatosi tra i partiti e le istituzioni ed ha invocato una «nuova stagione» per il Paese. ILquale, ha ammonito, «ha bisogno di uscire da un periodo difficile, nel quale è sembrato affievolirsi il dinamismo economico e sociale».
Un discorso molto diretto e “politico”, che però, spiegano dalla Santa Sede, si iscrive pienamente nel solco del concetto di «sana laicità» più volte enunciato da Benedetto XVI: come la Chiesa non può indicare quale ordinamento politico e sociale sia da preferirsi, così lo Stato non può considerare la religione come un semplice sentimento individuale. Nessuna ingerenza, dunque, ma «affermazione e difesa dei grandi valori che danno senso alla vita della persona e ne salvaguardano la dignità». In Italia, ha spiegato il Pontefice, «è diminuita la fiducia nel futuro ed è cresciuto invece il senso di insicurezza per le condizioni di povertà di tante fami-
glie». Di qui la «particolare gioia» per i «segnali positivi» di una «percezione più viva delle responsabilità comuni per il futuro della Nazione» da parte delle forze politiche. «Ciò che conforta», ha spiegato Papa Ratzinger, «è che tale percezione sembra allargarsi al sentire popolare, al territorio e alle categorie sociali. È diffuso il desiderio di dare avvio a una nuova stagione di crescita economica ma anche civile e sociale».
Casini: «L’Udc lavorerà per il quoziente familiare e la piena attuazione della 194». Russo Spena: «Niente aiuti alle scuole private, lo dice la Costituzione» Questo atteggiamento “aperturista” si accompagna però a domande precise, a cominciare da una decisa richiesta di aiuti alla scuola privata: «In uno Stato democratico, che si onora di promuovere la libera iniziativa in ogni campo, non sembra giustificarsi l’esclusione di un adeguato sostegno all’impegno delle istituzioni ecclesiastiche nel campo scolastico», ha detto Benedetto XVI tra gli applausi dei vescovi. «È legittimo infatti domandarsi», ha continuato, «se non gioverebbe alla qualità dell’insegnamento lo stimolante confronto tra centri formativi diversi». «Tutto lascia pensare che un si-
mile confronto non mancherebbe di produrre effetti benefici», ha concluso, denunciando l’attuale «relativismo pervasivo e non di rado aggressivo» che caratterizza la società italiana e che indica come il Paese stia vivendo «una vera e propria emergenza educativa». Oltre al sostegno alla scuola privata, l’Italia ha proseguito il Papa - ha «grande e urgente bisogno» di una politica per la famiglia. Occorre ha detto - «chiedere alle pubbliche istituzioni una politica coerente ed organica che riconosca alla famiglia quel ruolo centrale che essa svolge nella società, in particolare per la generazione ed educazione dei figli».
Le parole del Pontefice hanno trovato larga condivisione tra i cattolici-moderati. Particolare apprezzamento è arrivato dall’Udc che, con Pier Ferdinando Casini, ha espresso «gratitudine» per «l’apprezzamento per il nuovo clima di dialogo» e promesso che il partito «opererà in Parlamento» per «una vera e significativa svolta»: «La priorità è, a partire dalla prossima finanziaria, l’introduzione del quoziente familiare e la revisione dei consultori, così da completare l’attuazione di quelle parti della 194 che sono rimaste sulla carta». Critiche invece dalla sinistra radicale, che con Giovanni Russo Spena (Prc) e Rosalba Cesini (Pdci) ha criticato con forza la richiesta di aiuti alle scuole private, citando l’articolo 33 della Costituzione secondo cui le scuole private devono essere istituite «senza oneri per lo Stato».
L’Europa sta allevando in seno gli spettri che portarono alle due guerre mondiali del secolo scorso. Certo non sarà la Germania ad intervenire,sconvolta dalla tentata vendita su Ebay del piccolo Martin per un euro. Se in Olanda si registrano negli ultimi anni centinaia di casi di neonati “aiutati a morire”, già nel 2005 nel Regno che fu di Baldovino, la metà delle morti dei neonati è dovuta ad eugenetica. Ippocrate è morto, il quinto comandamento del Sinai è sepolto quando parli di bambini, più o meno sofferenti o “fastidiosi”. Della mirabolante stravaganza della teoria evoluzionistica darwiniana che sta portando all’uomo-scimmia in Inghilterra abbiamo già scritto. Nel caso dell’eugenetica infantile, ci troviamo a registrare che i migliori combattenti a favore della pena di morte siano al tempo stesso gli sponsor della “pianificazione familiare” e dell’omicidio infantile. “La razza dominante”, gli “adatti”devono poter riprodursi tra loro senza impicci e evitando di innamorarsi e magari sposarsi con “cani rognosi”. Riuscire ad accoppare i neonati non fa altro che far avanzare la specie... verso la fornace di Cartagine. Le leggi belghe tutelano più la produzione tipica di insalata che la vita e l’infanzia. “Neonati aiutati a morire” dai medici. Nemmeno un sospetto che volessero vivere? No perché la legge “autorizza ad eliminare vite non degne di essere vissute”,esattamente come si trova scritto nel saggio di Binding e Hoche del 1920 che stava alla base dello sterminio nazista. L’eugenetica, diceva Chesterton, è come il «veleno, una cosa con cui non si può venire a patti». L’eugenetica ha aperto le porte del manicomio in quei paesi, tant’è che se scampi alla morte da neonato, devi stare molto attento da ragazzino e da giovane in quei paesi. Infatti, una volta sfuggito al boia ginecologo, da bambino ad Amsterdam non potrai andare nei parchi pubblici dopo le 16.00 perché da quell’ora solo ai maggiorenni è permesso l’accesso per kamasutra e ammucchiate in pubblico. Evitato anche questo pericolo,giunto alla giovinezza ci si deve guardare dal formare gruppi di coetanei chiassosi, si potrebbe incorrere nel “mosquito”, un micidiale dispositivo sonoro per allontanare giovani dai paraggi, con la frequenza di 17mila hertz. E poi discutiamo di “bullismo” tra i giovani europei? Dopo una vita da “braccati” c’é da attendersi solo la loro misericordia, quando in età adulta si vendicheranno con medici, scienziati, teorici e genitori del genocidio infantile. Nei Paesi Bassi gli zoccoli voleranno ad altezza d’uomo. L’Europa che consente l’omicidio dei propri cittadini, seppur in fasce, rischia di diventare un unico e immenso campo di concentramento, non meno terribile, solo più scientifico. Una fornace immensa, un culto terribile e pure una benedizione religiosa del Reverendo George Exoo, gay e protestante d’Inghilterra.Siamo proprio sicuri di aver fatto bene a vietare la caccia agli stregoni?
politica
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Contrordini. Si è consegnato l’autore del raid al Pigneto: non era nero ma rosso
Quel fascista di Che Guevara! di Nicola Procaccini ario Chianelli si è consegnato ieri alla polizia. Si tratta dell’uomo che ha guidato la spedizione razzista al Pigneto di Roma contro un negozio di alimentari indiano. Ecco le sue dichiarazioni: «Io fascista? Ma se sono antifascista da generazioni! C’ho pure il Che Guevara tatuato sul braccio! Semplicemente, hanno rubato il portafoglio a una mia amica, e ho perso la brocca perché il tizio dell’alimentari mi aveva detto che lo avrebbe fatto restituire, ma poi non l’ha fatto». Magnifico. Per una settimana tutti a gridare contro il ritorno del fascismo, cortei d’immigrati e centri sociali, editoriali e trasmissioni televisive, inchieste, dibattiti parlamentari, assemblee studentesche, cineforum, e poi si scopre che il raid anti-immigrati l’ha fatto un comunista. «Adesso sui fatti del Pigneto venga a riferire in Aula il governo ombra del Pd», ha dichiarato sarcastico un deputato del Pdl.
orribile accade in Italia oggi, dunque non hanno bisogno di conoscerla.
D
Ci sarebbe da ridere se questa storia del Pigneto non avesse rivelato un corto circuito inquietante nella psiche della sinistra italiana. Due editoriali apparsi nei giorni scorsi rendono bene l’idea. Il primo è di Adriano Sofri sulla Repubblica del 26 maggio, il secondo è di Alessandro Portelli sul manifesto dal titolo “Il fascismo del senso comune”. Appunto. Per entrambi, il Paese è vittima di un fascismo annidatosi nella te-
Gli ossessivi commentatori di sinistra finiranno per far tornare davvero di moda gli squadristi, a furia di evocarli a sproposito sta e nel cuore degli italiani. Ecco la tesi dei due: «È fascista il pestaggio di Verona, il rogo di Ponticelli, il criminale che ha ucciso due ragazzi in motorino, l’aggressione al ballerino Kledi, il Cpt in cui è morto un immigrato clandestino, è fascista la spedizione punitiva al Pigneto». Chiaro? I due editorialisti conoscono già la matrice politica di tutto ciò che di
Non importa se l’aggressione ha o non ha una matrice politica di destra, estrema destra, o se è addirittura di sinistra, perché resta comunque fascista. Un vecchio schema mentale: quando cadde il regime comunista di Ceausescu, il giornale di Portelli celebrò la caduta di un dittatore fascista in Romania. Secondo il loro modo di pensare e di scrivere, è fascista chi aggira la fila alle Poste, chi ruba il posto auto mentre uno sta parcheggiando, il calciatore che commette un fallo a gioco fermo, la polizia che carica i manifestanti a Napoli, sono i fascisti gli “antidiscarica” che accolgono la Mussolini e si oppongono alla polizia. Ma non è ancora questo il punto. L’aspetto davvero inquietante dell’atteggiamento di certa sinistra sta nell’eterogenesi dei fini. A furia di gridare al ritorno dei fascisti, c’è la possibilità che ritornino per davvero. Perché il fascino dell’eroe negativo o del perseguitato politico può essere irresistibile, soprattutto fra i più giovani. Il sospetto è che in fondo in fondo qualcuno ci spera per davvero. Sono quelli che hanno bisogno di un Frankestein fascista contro cui battersi per dimostrare a se stessi e all’Italia la loro ragione di esistere. E se non c’è, corrono in laboratorio.
d i a r i o
d e l
g i o r n o
Donna sceglie come morire in base a una legge del 2004, Pdl diviso sul caso La legge è del 2004. Consente di rifiutare le cure. Non si tratta di testamento biologico in senso proprio, ma lo spazio normativo è stato sufficiente perché a Modena la 70enne Vincenza Santoro Galani, originaria di Foggia, ottenesse il permesso di essere lasciata morire. A concederglielo è stato il giudice tutelare Guido Stanzani, che ha nominato il marito della donna ”amministratore di sostegno”. È stato quest’ultimo a indirizzare i medici affinché non praticassero la tracheotomia, unica possibilità di evitare che la sclerosi laterale amiotrofica facesse peggiorare il quadro. Vincenza Santoro è morta l’altro ieri, accompagnata solo da cure palliative. Sul caso la maggioranza di governo è divisa: per il sottosegretario Eugenia Roccella «si dimostra così che non serve una legge sul testamento biologico», secondo il presidente della commissione Sanità del Senato Antonio Tomassini c’è bisogno invece di una regolamentazione.
Passa alla Camera il decreto su tv e Anas Con 282 sì e 250 no l’Aula di Montecitorio ha approvato il decreto sull’attuazione degli obblighi Ue che contiene anche norme sulle tv e sulle concessioni autostradali, dopo che nei giorni scorsi il governo si era visto costretto a ritirare l’emendamento ”salva Rete4”. L’esame ora passa al Senato che dovrà convertire il provvedimento entro l’8 giugno.
Rifiuti, Berlusconi torna a Napoli Bertolaso: sui cdr i giudici già sapevano Osserverà da vicino l’incubo di un’emergenza che non accenna a rientrare. Oggi Silvio Berlusconi volerà a Napoli subito dopo il Consiglio dei ministri convocato a Palazzo Chigi. Insieme con il sottosegretario Guido Bertolaso incontrerà in prefettura le autorità campane e i vertici di Polizia, Vigili del fuoco e Esercito per fare il punto della situazione, quindi terrà una conferenza stampa. Ieri Bertolaso ha riferito con il ministro alle Politiche ambientali Stefania Prestigiacomo davanti alla commissione Ambiente di Montecitorio. «La situazione è peggiore rispetto a un anno fa», ha ribadito il sottosegretario, «ci sono 30mila tonnellate di immondizia sparse nella regione».A proposito delle «espressioni forti» usate nelle telefonate intercettate dalla magistratura, ha spiegato che erano dovute «all’esasperazione, all’angoscia e al senso di solitudine che può provare un servitore dello Stato in una situazione come quella». Delle anomalie nei cdr «i magistrati erano stati informati da tempo», aggiunge. La Prestigiacomo rinnova al sottosegretario la «piena fiducia del governo» e chiede alle toghe spirito di collaborazione.
Due vittime per il maltempo in Piemonte Si abbatte su Piemonte e Valle d’Aosta una pesante emergenza maltempo, che ha già provocato due vittime nel Pinerolese, con almeno altre due persone disperse. Frane e esondazioni dei fiumi, compresi Po e Dora Baltea, minacciano case e ospedali anche in provincia di Torino.
L’ex leader di Lotta continua e l’ex capo dell’Autonomia parlano di guerra dello Stato contro la popolazione civile
Viale e Scalzone: l’estrema sinistra si ritrova a Napoli di Riccardo Paradisi ufficializzazione della nomina di Guido Viale, ex leader di Lotta Continua, nel pool di esperti che dovrà collaborare con la giunta regionale di Antonio Bassolino per far fronte all’emergenza rifiuti segue di pochi giorni le esternazioni dell’ex leader di Autonomia Operaia Oreste Scalzone, successive alle sommosse di Chiaiano. «A decidere di mettere lì la discarica», dichiarava il teorico dell’Autonomia, precipitatosi in zona disordini, «sono decerebrati e crinaloidi, che rappresentano una unita nell’imporre le sue decisioni e i suoi metodi». Storie e stili diversi, quelli di Viale e di Scalzone ma ad accomunarli non c’è solo un passato di estremismo di sinsitra ma anche toni e contenuti di certe analisi del
L’
presente. Che suonano ancora così radicali, così inattenuate, così apodittiche. «Sento odore di sgherri che portano ordine e promettono pulizia quasi stessero facendo una pulizia etnica», dichiarava ancora Scalzone a proposito dei disordini di Napoli, «Le popolazioni di queste zone sono appendici di discariche esattamente come il colonialismo più feroce considera le popolazioni che domina come un nemico da schiacciare. Ora», ecco il gran finale, «o si piega la testa o si risponde con la guerra alla guerra». Delirante, ma almeno a Scalzone va riconosciuta la coerenza. Guido Viale, chiamato a collaborare con la giunta Bassolino su proposta dell’assessore all’ambiente Walter Ganapini, è una figura più istituzionale
rispetto a Scalzone. Ma se sono diversi i toni pure la sostanza di quanto Viale scriveva prima della sua nomina sul quotidiano il Manifesto non è più morbida. «Cacciare Bassolino per tornare a Rastelli o a qualche suo sostituto? Cacciare la Iervolino per avere Martusciello? O viceversa? “A che pro”, si chiede qualsiasi persona di buon senso…». E poi: «Si chiede l’intervento dell’esercito, quasi una guerra: contro i rifiuti. O contro gli abitanti della Campania?». Ecco a Viale, nemico dei termovalorizzatori, non si rinfaccia qualche feroce libello di Lotta Continua di trent’anni…si vorrebbe capire da lui come si concilia un incarico istituzionale di consulenza scientifica con questi toni e con queste posizioni.
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società
L’Italia delle comunità religiose. Viaggio nelle associazioni cattoliche/3 I Focolarini
Arde il fuoco di Chiara di Francesco Rositano erede non è stata ancora designata, ma una cosa è certa: chiunque succederà a Chiara Lubich alla guida del movimento dei Focolari avrà un compito difficile. In poco più di sessant’anni questa esile donna originaria di Trento - morta il 14 marzo 2008 nella sua abitazione di Rocca di Papa, nei Castelli Romani e paragonata già ai grandi mistici del ‘900 - è riuscita a fare del suo movimento una realtà diffusa in tutto il mondo. Oggi i suoi “focolari” sono presenti in 182 nazioni con 141.400 membri e più di due milioni d’aderenti e simpatizzanti. Ne fanno parte ebrei, buddisti, musulmani, che ne hanno potuto abbracciare la spiritualità senza aver dovuto rinunciare alla propria fede. Sono vicini a questa realtà dal sapore molto mariano anche migliaia di preti e frati, e centinaia di vescovi. Il Movimento non si è ancora riunito per scegliere il nuovo responsabile. Quello che si sa è che alla sua guida dovrà esserci una donna. È quanto prevede una precisa disposizione di Giovanni Paolo II, che conferì nel 1990 il riconoscimento pontificio ai Focolari e fu legato alla sua fondatrice da una sincera amicizia. Hanno molte cose in comune la Lubich e papa Wojtyla. Oltre ad essere nati entrambi nel 1920, tutti e due hanno lavorato strenuamente per promuovere il dialogo tra le varie fedi e culture, attraversando le varie latitudini del globo. Chiara, questo il suo nuovo nome dopo che nel 1943 decise di consacrarsi a Dio in una chiesetta della sua Trento, è stata in Thailandia, dove ha parlato a 800 monaci buddisti e al loro gran maestro Ajahn Thong. È stata la prima donna bianca a parlare ad Harlem nella moschea di Malcom X e dei Musulmani neri. Nel ’96 l’Unesco le ha conferito un premio per l’Educazione alla Pace; due anni dopo, nel 1998, il Consiglio d’Europa ha aggiunto quello per i Diritti umani.
L’
messa celebrata ad un mese dalla sua morte, ha affermato: «Chiara è sorella nello spirito di tutti i grandi mistici del ventesimo secolo: Teresa del Bambino Gesù, Gemma Galgani, Padre Pio da Pietrelcina, Madre Teresa di Calcutta. Essi vivono in se stessi, portano sulle loro spalle l’immane sofferenza dell’uomo moderno: l’aver abbandonato Dio. Cari Ringraziamo lo Spirito Santo che dona alla Chiesa sempre nuovi carismi perché sia continuamente rinnovata: non chiudiamoci nella grettezza rigida delle nostre burocratiche programmazioni pastorali». Oggi la Chiesa guarda con stima il Movimento della Lubich, ma in passato non ha nascosto una certa “prudenza” nel conferirgli il riconoscimento pontificio che in effetti è arrivato tardi: nel 1990. Ciò che le gerarchie ecclesiastiche intravedevano come rischio era l’apertura ai non cattolici. Un’apertura che, a loro avviso, nel tempo avrebbe potuto indebolire la propria identità originaria, scivolando nel sincretismo. Fuori dalla Chiesa, in particolare da parte di appartenenti al Movi-
crollare ma non Dio, inteso come Amore”. Ed è questo ideale che, da allora, ha voluto testimoniare in tutto il mondo.
Durante i bombardamenti, nei rifugi, Chiara portava con sé il Vangelo, presto coinvolgendo un gruppo di persone che costituì il primo nucleo del futuro movimento. Alcune ragazze scelsero di lasciare le proprie famiglie per vivere insieme e dedicarsi pienamente ad aiutare i poveri della città. La casa dove le ragazze vivevano, in Piazza Cappuccini a Trento, è ricordata come il primo focolare. Analogamente successe più tardi per un gruppo di ragazzi. Passata l’emergenza della guerra, nello sviluppo del movimento i compiti assistenziali sono passati in secondo piano rispetto agli aspetti legati alla spiritualità. Una serie di circostanze, quali l’incontro di Chiara col deputato democristiano Igino Giordani (che diventerà il primo focolarino sposato), e una serie di viaggi e incontri dei primi focolarini, hanno permesso una rapida diffusione del movimento prima in Europa e poi negli altri continenti. A darne la prima approva-
ne di altre religioni, con le persone di convinzioni non religiose. Chi entra a far parte del movimento, è invitato a mettere in comune il superfluo, seguendo l’indicazione evangelica “più date e più vi sarà dato”.
I «focolari», cuore del movimento, sono «piccole comunità maschili o femminili, composte da laici, vergini e coniugati – si legge nel sito www.focolare.org –, impegnati innanzitutto a mantenere viva la presenza del Risorto». Queste unità, poi sono riuniti in «zone» e convergenti tutti in un «Centro internazionale». Nel tempo il movimento ha visto nascere al suo interno numerosi rami, tutti animati dallo stesso carisma: da «Famiglie nuove» a «Umanità nuova», da «Giovani per un mondo unito» a «Ragazzi per l’unità», accanto al Movimento parrocchiale e diocesano, al Movimento sacerdotale e al Movimento dei religiosi e religiose che riunisce consacrati di diverse congregazioni. Per tutti, singoli, comunità e movimenti, vale il metodo del dialogo, applicato nel confronto tra le diverse componenti della Chiesa, ma anche tra le diverse confessioni cristiane e le fedi. Queste stesse
I focolarini sono presenti in quasi duecento nazioni con oltre 140mila membri e più di due milioni di aderenti e simpatizzanti. Ne fanno parte anche ebrei, buddisti, musulmani
Il cardinale Carlo Caffarra, arcivescovo di Bologna, ricordandola in occasione della
mento che oggi ne sono usciti, sono state mosse diverse critiche. La più pesante è che il movimento, considerando in maniera esclusiva la vita comunitaria, tolga indipendenza di giudizio al singolo e nei fatti imponga una vera e propria omologazione: dal modo di vestirsi fino al modo di pensare. Certamente, nelle intenzioni di Chiara Lubich c’era soltanto di vivere in maniera più autentica il Vangelo. Nel 1943, con l’Italia nel vivo della Seconda Guerra Mondiale e le bombe che piovevano sulla sua Trento, non avrebbe immaginato che dal suo seme sarebbe nato un grande albero, che con la sua chioma avrebbe abbracciato tutto il mondo. Certamente intuiva una cosa che ripeté più volte: “Ogni cosa materiale può
zione fu il vescovo di Trento, mons. Carlo De Ferrari, nel 1947. Successivamente il movimento è stato a lungo studiato dalle autorità ecclesiastiche che hanno più volte rivisto e corretto statuti e regolamenti fino all’approvazione degli statuti vigenti avvenuta nel 1990, sotto il pontificato di Giovanni Paolo II che ne apprezzava la vocazione al dialogo. Pasquale Foresi fu il primo focolarino ad essere ordinato sacerdote. Il carisma del movimento si pone di raggiungere l’unità fra generazioni, culture, religioni, andando così oltre la religione cattolica e riunendo persone di ogni fede. Scopo del movimento è infatti contribuire al dialogo con le altre realtà nella Chiesa cattolica con le Chiese e comunità ecclesiastiche non cattoliche, con le perso-
radici hanno spinto i focolari a dare vita a progetti nuovi in ambito politico ed economico. Come il «Movimento politico per l’unità», sorto nel 1996 e aperto a «persone impegnate a diversi livelli, delle più varie estrazioni partitiche»; alla base «la fraternità come categoria politica in vista del bene comune». E fraternità e reciprocità sono il motore principale anche dell’«economia di comunione», un progetto nato da un’idea di Chiara Lubich nel 1991 durante un viaggio in Brasile, a San Paolo, dove la donna trentina immaginò un sistema economico per cui la creazione di imprese efficienti andasse a braccetto con l’aiuto agli indigenti e con la cultura del dare e dell’amore. Una vera e propria nuova economia, che oggi guida 754 aziende nel mondo: 468 in Europa (di cui 235 in Italia), 209 in America Latina, 38 in Nord America, 33 in Asia, 4 in Africa e 2 Australia. Alcune di queste si concentrano attorno a dei veri e propri poli produttivi: Spartaco in Brasile, Lionello a Loppiano (Firenze) e Solidaridad, in Argentina.
Accanto a questi progetti che si pongono come fermento in mezzo alla società, il movimento negli anni ha dato vita a
società
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«Ho capito che cosa è la gratuità e quando grande sia il suo valore»
L’idea di un’economia al servizio della carità di Luigino Bruni iviamo in una società opulenta e in una economia dei consumi troppo distratta e eticamente addormentata per comprendere il ruolo, anche economico, dei carismi. Se oggi, per un esperimento intellettuale, dovessimo eliminare dalla vita economica la presenza e l’azione dei carismi, tutto il complesso meccanismo del mercato e delle imprese si incepperebbe nell’arco di un mattino. I carismi infatti sono sorgenti e serbatoi della risorsa più preziosa (ben più del petrolio) della nostra società: la gratuità. Al petrolio esistono alternative, e dovremmo trovarle presto; la gratuità, invece, non ha sostituti, sebbene i contratti si presentino sempre più come un suo sostituto, senza successo. Se dovessi sintetizzare in una frase che cosa è stato per me l’incontro con il carisma dell’unità di Chiara dovrei dire: ho capito che cosa è la gratuità, e quanto grande sia il suo valore, anche economico. Non c’è vita buona, nella sfera privata come in quella pubblica, senza gratuità. E non c’è gratuità senza carismi. E’questa la ragione per la quale l’indigenza di una società, come la nostra, che emargina i carismi (dalla politica, dall’economia, dai mass media …) è soprattutto indigenza di gratuità, carestia di un tocco umano che sia fine a se stesso, carestia di gente che ci incontra e ci avvicina perché gli interessiamo come persone. E basta. Ai quali interessiamo anche quando non siamo “portatori di interessi”(stakeholders), né clienti, né fornitori, né sani, né ancora nati, magari malati terminali; anche se non siamo meritevoli (che tristezza una società della meritocrazia! è persino peggiore di una dove al merito non è riconosciuto il suo giusto posto). Gente, animata da carismi, a cui interessiamo perché siamo degli esseri umani, e basta. Un “e basta” che la società della ricerca del profitto, dell’efficienza e del merito, non conosce più, e che invece è essenziale per una vita umana degna di questo aggettivo qualificativo.
V
L’incontro tra Giovanni Paolo II e Chiara Lubich il 16 ottobre 2002, in occasione dell’udienza generale nel giorno del ventiquattresimo anniversario di pontificato del Santo Padre delle «cittadelle». Oggi queste «città in miniatura», fatte di case, centri servizi, attività produttive, luoghi di culto, sono 35, ognuna delle quali caratterizzata da un particolare aspetto. Come Loppiano, sorta nel 1964 a Incisa Valdarno (Firenze), con 800 abitanti da 70 nazioni: la sua anima è l’internazionalità come per Montet in Svizzera. All’unità tra cattolici ed evangelici è dedicata Ottmaring, in Germania, a quella tra cattolici e anglicani Welwyn Garden City in Gran Bretagna; al dialogo interreligioso Tagaytay nelle Filippine; ai problemi sociali le tre brasiliane; al protagonismo dei giovani O’Higgins in Argentina; all’unità tra gruppi etnici la cittadella presso New York e Krizevci, in Croazia; all’inculturazione del Vangelo Fontem, nel Camerun; al rapporto tra uomo e ambiente Rotselaar, in Belgio. Nelle cittadelle, poi, si trovano anche i centri di formazione sociale e spirituale per gli appartenenti al movimento. A questi si affiancano i «Centri Mariapoli», 63 scuole di formazione e di preghiera presenti in 46 nazioni. Di questi otto si trovano in Italia, oltre al Centro Internazio-
nale a Castelgandolfo (Roma). Infine, sempre nel campo della formazione dal movimento è nato un centro studi interdisciplinari, la «Scuola Abbà», che, si legge nella presentazione, «raccoglie docenti impegnati ad elaborare le linee di una cultura illuminata dal carisma dell’unità». Conclude questo panorama, ma solo in maniera parziale, la vastissima attività editoriale promossa dal movimento: basti citare l’editrice Città Nuova, presente in 31 Paesi; il periodico «Città Nuova», pubblicato in 37 edizioni in altrettante nazioni, in 22 lingue; «Nuova Umanità», rivista bimestrale di cultura; «Unità e carismi» e «Gen’s», bimestrali di cultura e aggiornamento ecclesiale, in varie lingue; e infine i centri di produzione audiovisivi «Santa Chiara» e «Charisma». Un movimento davvero mondiale e senza confini, quindi, quello nato dalla donna trentina assieme a un gruppo di amici. E in ognuna delle numerosissime attività c’è il seme di Chiara Lubich, il seme dell’unità. Un seme cui la sua erede dovrà dare nuova linfa vitale.
Carisma e gratuità hanno la stessa radice nella parola greca charis, che può anche essere tradotta “ciò che dà gioia”. Infatti, dove c’è gratuità c’è gioia, e non c’è gratuità senza una forma di carisma, che io intendo in modo del tutto laico, come dono di “occhi diversi”che fanno capaci di vedere cose che altri non vedono. Dove c’è in atto un carisma si apprende, infatti, che le persone, se stesso, la natura, valgono in sé, hanno un valore intrinseco. Non credo di esagerare dicendo che Chiara ha prodotto nel mondo dell’economia uno degli eventi carismatici più rilevanti della modernità. I carismi hanno sempre avuto a che fare con l’economia (Benedetto, Francesco, Sant’Ignazio …), ma pochi carismi, come quello di Chiara, hanno avuto nel Novecento un impatto significativo non solo nella prassi (si pensi, per un esempio, all’Economia di Comunione), ma anche nella teoria economica. Se oggi nel dibattito scientifico internazionale si incontrano le espressioni “beni relazionali”, “gratuità”, “reciprocità incondizionale”, “comunione”, “agape”, ecc., questo lo dobbiamo anche a Chiara, che ha ispirato il lavoro di economisti nutriti dalla sua spiritualità di comunione. Non so se sarà il progetto dell’Economia di Comunione, o se saranno queste nuove parole a lasciare l’impronta più profonda nell’economia. Probabil-
mente entrambi, poiché le aziende e i Poli dell’EdC hanno ispirato la teoria, e la teoria rinnovata dal carisma dell’unità di Chiara ha offerto un nuovo linguaggio per poter dire con parole nuove la nuova realtà che si viveva e che si vive. Sono profondamente convinto che nella mia attività di studioso non avrei avuto alcuna idea originale senza il continuo nutrimento e la continua ispirazione di Chiara. Appena trentenne Chiara mi chiamò da Londra a Roma per aiutarla a dare“dignità scientifica”al progetto dell’Economia di comunione, e a lavorare per evidenziare il contributo della spiritualità dell’unità anche alla teoria economica. Questi dieci anni di lavoro con lei nella“Scuola Abbà”e nell’Economia di Comunione sono stati per me l’esperienza più entusiasmante, umanamente e intellettualmente, della mia vita.
Tre sono state le cose che più mi si sono impresse nell’anima e nella mente. La prima: grazie a Chiara ho capito che solo un’economia che è “più che economia” (perché irrorata dalla gratuità) è davvero un’economia. Se l’economia non è aperta ad un “oltre”se stessa si riduce solo alla gestione di bassi interessi, e non è più quel “governo della casa”cui è chiamata per vocazione. La seconda: non si può fare alcuna esperienza autenticamente intellettuale se le teorie e i pensieri che si comprendono, dicono e scrivono non sono la vita di chi elabora e scrive. Alla scuola di Chiara ho capito che se volevo contribuire ad una teoria economica di comunione, la cosa davvero importante, e anche quella più impegnativa, era diventare giorno dopo giorno una persona di comunione in tutti gli ambiti della vita. Lavorando fianco a fianco con lei ho scoperto che non è possibile scrivere e parlare di dono, di comunione, di gratuità senza essere dono, comunione, gratuità. La vita è più grande, precede e trascende ogni concetto. Infine, Chiara mi ha fatto scoprire il significato profondo della ricchezza e della povertà. Mi ha fatto capire che il bene più prezioso è sempre il rapporto, l’amore scambievole, “Gesù tra noi”: senza rapporti di reciprocità vera nessun bene diventa ben-essere, e anche quando i beni sono scarsi e minacciati, l’amore scambievole non ci lascia mai indigenti. Solo la comunione è via di felicità, una felicità che arriva solo quando ci si dimentica di se stessi e ci si dona agli altri, nella reciprocità. Mi ha fatto capire che i miei nonni contadini hanno vissuto una vita molto ricca e piena di senso pur nell’indigenza di merci e di reddito, e che invece una delle nuove gravi forme di povertà è quella che colpisce top managers milionari che intristiscono nella solitudine e nell’indigenza di vita interiore. In questi anni ho poi capito e ho cercato di dire, insieme ad altri, che queste realtà antropologiche e spirituali sono anche importanti realtà per la prassi e per la teoria economica. Ma sono soprattutto convinto che sarà il tempo, e tanti altri dopo di me, a dire che cosa ha rappresentato il carisma di Chiara per l’economia. Docente di Economia politica all’Università Bicocca di Milano
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mondo La Lega musulmana accusa il presidente Pervez Musharraf, nel momento in cui viene raggiunto l’accordo con gli alleati del Partito popolare per allontanarlo dal Pakistan, di aver infranto i principi sanciti nella Costituzione
Un governo debole vuole destituire un presidente delegittimato
Pakistan, si fa difficile la coabitazione di Vincenzo Faccioli Pintozzi ver infranto i principi sanciti nella Costituzione, essersi messo deliberatamente a capo di un’insurrezione armata ed aver violato almeno cento leggi previste dal codice civile. Sono queste le accuse che la Lega musulmana muove al presidente Pervez Musharraf, nel momento in cui viene raggiunto l’accordo con gli alleati del Partito popolare per allontanarlo dal Pakistan.
A
Lo ha dichiarato proprio il leader della Lega, Nawaz Sharif, che ha confermato di aver trovato un accordo con il reggente del Partito popolare – Asif Ali Zardari, vedovo di Benazir Bhutto – sulla questione del presidente ed ha chiesto al popolo di «tenersi pronto per il suo più grande momento di gloria». Le dichiarazioni sono state fatte durante un comizio che si è svolto a Lahore in occasione del decimo anniversario del primo test atomico condotto da Islamabad. L’ex premier, d’altra parte, è un nemico giurato di Musharraf, che lo ha prima arrestato e poi cacciato durante il colpo di Stato del 12 ottobre del 1999. Parlando della sua esperienza da carcerato, Sharif ha detto di aver perdonato le torture subite ma di non poter volgere lo sguardo davanti alla distruzione del Pakistan, «venduto a potenze straniere, assoggettato dalla violenza ed impaurito dalla giustizia». Fra gli applausi, ha concluso il suo discorso ricordando il «mandato divino» di cacciare Musharraf al più presto. Subito dopo il discorso, Sharif si è incontrato con la stampa ed ha sottolineato il suo desiderio di sposare la causa dei giudici allontanati dall’ex generale Musharraf durante il colpo di Stato di novembre. Questo desiderio ha scatenato
la crisi politica nel Paese: gli incontri fra i leader della coalizione di governo e le dichiarazioni rassicuranti sul destino dei giudici, non allontanano l’ombra della crisi per il neonato esecutivo.
La formazione dell’ex-primo ministro e quella di Zardari non trovano un accordo sui giudici, suscitando preoccupazioni sulla tenuta della coalizione che ha vinto le ultime elezioni. Mentre Sharif chiede un semplice reinserimento dei giudici, Zardari vorrebbe correlarlo a una riduzione costituzionale dei loro poteri. La battaglia per i giudici è stata uno dei cavalli di battaglia delle due formazioni, all’indomani della proclamazione dello stato di emergenza da parte di Musharraf. Il mancato accordo provoca malumori in molti strati sociali e persino negli stessi gruppi politici. Ahsan Iqbal, leader della Lega e ministro dell’Educazione,
avuto il 13 maggio, quando i ministri della Lega hanno consegnato le dimissioni. Dei 24 ministri che compongono l’attuale esecutivo, in carica da meno di sei settimane, nove si sono ritirati fra lo sconcerto della popolazione, che ha tuttavia tirato un sospiro di sollievo davanti alla spiegazione di Sharif secondo cui «le dimissioni non implicano la caduta del governo. Noi continuiamo a sostenere il governo in carica, anche se non abbiamo intenzione di farne più parte». La decisione suscita preoccupazione soprattutto nell’ambiente economico del Paese. Fra i nove dimissionari, infatti, spicca il ministro delle Finanze, Ishaq Dar, che a giorni avrebbe dovuto presentare il bilancio preventivo per il prossimo anno. Senza questo provvedimento, il Pakistan rischia di dover affrontare una dura recessione economica.
Secondo l’analista politico Shafqat Mahmood, lo strappo rappresenta «un giorno triste per il Pakistan. La popolazione cercava un governo solido in grado di restaurare la democrazia, l’indipendenza del sistema giudiziario e, forse, di cacciare Musharraf. Queste incomprensioni rischiano di minare la fiducia degli elettori nel Partito popolare». Il primo ministro pakistano ha rifiutato le dimissioni dei nove ministri della Lega musulmana ed ha invitato il governo, a compiere «un ultimo sforzo» per salvare la coalizione. Yousaf Raza Gilani, entrato in carica alla fine di marzo, ha chiesto alla Lega ad al Partito popolare (di cui è vicepresidente) di “mettere da parte le incomprensioni ed agire per il bene del Paese”. Forse, la cacciata di Musharraf potrà essere il collante di cui oggi Islamabad ha così disperatamente bisogno.
Il nuovo governo del Pakistan cerca di unificarsi dandosi una coloritura anti Musharraf. Le dimissioni di 6 ministri fanno capire che l’esecutivo è ancora alla ricerca di una sua identità dice: «Alla luce di quanto avvenuto, non abbiamo altra scelta se non quella di ritirarci dal governo federale». In realtà il mancato reinserimento nasconde una serie di preoccupazioni giudiziarie che coinvolgono entrambi gli schieramenti. I popolari temono le accuse di corruzione che pendono sul capo del reggente Zardari, mentre i musulmani non vedono di buon occhio l’ex presidente della Corte Suprema Chaudry, che ha più volte emesso giudizi contro l’islamizzazione della società. Il primo atto della crisi si è
Crociata tory contro chi non lavora
Anche Cameron se la prende con i fannulloni di Silvia Marchetti
LONDRA. I Tory promettono guerra ai «fannulloni». David Cameron, il giovane leader conservatore galvanizzato dalla recente vittoria elettorale e dalla crisi laburista, fa già prove di governo. Se diventerà premier la sua prima mossa sarà una crociata contro i giovani (e i meno giovani) che non vogliono lavorare e vivono come parassiti a danno del generoso Welfare inglese, le cui maglie sono state allentate in questi undici anni di governo Labour. I conservatori si preparano così a usare «tolleranza zero» contro tutti i «fannulloni» del Regno Unito: dai ragazzi che non lavorano e usufruiscono dei sussidi di disoccupazione ai lavoratori e pensionati che sfruttano le indennità d’infortunio, maternità e invalidità. I Tory vogliono introdurre un Welfare più severo e creare una rete capillare di boot camps, ossia centri di correzione per adolescenti difficili. Questi campi si occuperebbero della formazione e dell’inserimento professionale dei giovani tra i 18 e i 21 anni che da più di tre mesi risultano «nulla-facenti». Qualora i giovani si rifiutassero di frequentare questi corsi obbligatori verrà loro tolto il sussidio di disoccupazione e se il periodo della loro «inattività» arrivasse a 12 mesi, saranno costretti a trascorrere un anno intero in vere e proprie comunità di lavoro forzato. L ’ o b i e t t i v o u l t i m o dei Tory è togliere i giovani dalle strade ed evitare che diventano teppisti, tamponando così all’origine la spirale del crimine e delle baby-gang. I corsi di training verrebbero affidati a privati e organizzazioni di volontariato, pagate con ciò che lo Stato risparmierebbe in sussidi di disoccupazione e soltanto dopo che il ragazzo abbia trovato un impiego. Insomma, «restarsene a casa senza fare nulla sarà una cosa del passato», spiega al Guardian Chris Grayling, portavoce Tory per il Welfare. La mano dura di David Cameron prevede, inoltre, politiche più severe rispetto a quelle laburiste per riportare al lavoro i genitori single e i disabili. I conservatori intendono correggere gli errori laburisti: l’affermazione del governo Brown di aver formato 3 milioni di lavoratori si è rivelata infondata quando si scoprì che 750mila di queste persone ne avevano approfittato partecipando ai corsi più di una volta. I fannulloni sono avvertiti: “Chi faticherà e s’impegnerà verrà aiutato – promette Grayling – per gli altri non ci saranno alternative.”
mondo
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Per l’Oms nel 2010 ci saranno medicinali adulterati per 75 miliardi di dollari
Allarme farmaci contraffatti d i a r i o
di Maurizio Stefanini
d e l
g i o r n o
Walesa una spia? L’ex capo dei sindacati indipendenti della Polonia come il leader dei bolscevichi russi? Se Lenin è riuscito ad entrare nella Russia pararivoluzionaria grazie al vagone blindato del Kaiser tedesco, Walesa sarebbe stato spedito alla guida di Solidarnosc dai servizi segreti, Sb, della Polonia comunista. Questo almeno è quanto afferma un libro di prossima pubblicazione a Varsavia, scritto dagli storici, Slawomir Cenckiewicz e Piotr Gontarczyk. «Bolek», questo il nome in codice di Walesa. La destra dei gemelli Kaczynski ha sempre ritenuto l’artefice del compromesso del 1989, un «traditore». L’ex sindacalista ha replicato alle accuse affermando che «con la loro vigliaccheria i Kaczynski sono capaci di tutto»
Nessuno scontro per le risorse dell’Artico
i è detto tanto contro le multinazionali del farmaco. I loro prezzi da monopolio, i brevetti sui medicinali che impediscono ai poveri del Terzo Mondo di curarsi: un moto di opinione in favore di un largo diritto alla fabbricazione di medicinali generici nello stesso Terzo Mondo, senza rispettare le relative patenti. Ora dai Paesi in via di sviluppo arriva un’ondata di farmaci contraffatti: l’ultima frontiera della falsificazione, ormai più redditizia di griffes e dvd. A lanciare l’allarme è la stessa Fda: quell’Agenzia Usa per l’alimentazione e i farmaci da sempre in prima linea nelle denunce contro le già citate multinazionali.
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Ma anche l’Organizzazione mondiale della sanità conferma, dopo decenni passati a sostenere la pari dignità tra la medicina occidentale e le tradizione terapeutiche non convenzionali del Terzo Mondo. Ultimo caso l’eparina: un anticoagulante prodotto a partire dell’intestino dei maiali, e utilizzato per pazienti in dialisi, negli interventi chirurgici e da persone a rischio prima di viaggi in aereo. C’erano infatti 12 imprese cinesi che producevano eparina alterate da solfato di condroitina. Probabilmente per dolo: la rivista The Lancet ha rilevato come il solfato di condroitina sia strutturalmente simile all’eparina ma 100 volte più economico. Insomma un “taglio” simile a quello che i trafficanti di cocaina fanno con borotalco o calce; o che i commercianti disonesti di una volta operavano con l’acqua nel latte o
nel vino. Ma l’organizzazione omologa cinese dell’Fda si è difesa scaricando la responsabilità sugli Usa: la sostanza incriminata, “non poteva essere all’origine del problema”, ma doveva essere successo qualcosa in fase di confezionamento. Per questo, ha pure chiesto la possibilità di ispezionare gli stabilimenti Usa. Gli stock adulterati hanno provocato 81 morti nei soli Stati Uniti e gravi reazioni allergiche in Germania e Spagna. Cina e Usa sono state d’accordo nel ritirare il prodotto. Lo stesso hanno fatto Germania, Spagna, Giappone, Francia, Canada, Paesi Bassi, Dani-
Imbrogliare sulle medicine è più conveniente che farlo con griffes e dvd. Viagra, anticolesteroli e cardiopatici i più taroccati marca, Australia, Nuova Zelanda e la stessa Italia, dove da tempo si stima che almeno il 10 per cento dei farmaci è contraffatto. Oltre il 7 per cento mondiale, anche se rimaniamo lontani dal 30 del Brasile, dal 53 degli antimalarici acquistati nel Sud-Est Asiatico o dal 70per cento di quelli che circolano in Africa. Secondo la Fda, il traffico di farmaci falsificati tra 2000 e 2006 è aumentato dell’800 per cento. L’Oms parla di «problema crescente e globale di fronte al quale bisogna prendere misure adeguate». Un’altra stima viene dal centro Usa per le medicine e l’interesse pubbli-
co: un giro d’affari mondiale per i farmaci adulterati che raggiungerà 75 miliardi di dollari entro il 2010. Mentre un rapporto della Commissione europea mette il Viagra tra i medicinali più taroccati, seguito da quelli anticolesterolo e per le cardiopatie.
Dalla stessa fonte il calcolo secondo cui 1000 dollari investiti da un’organizzazione criminale ne producono 3300 se impiegati per fabbricare banconote false; 20mila nel traffico di eroina; 43mila nel contrabbando di sigarette; tra i 40mila e i 100mila nella contraffazione di software; e ben mezzo milione se impegnati a taroccare farmaci per problemi di erezione come il Viagra, il Cialis o il Levitra. Proprio quelli che imperversano nello spam su Internet, che è infatti uno dei veicoli più pericolosi per questo tipo di tariffe. Sarebbero addirittura centinaia di migliaia le aziende che dalla Cina al Cile e dal Sudafrica all’Iraq produrrebbero Viagra e Cialis contraffatti. L’Oms calcola in mezzo milione all’anno le persone che muiono per aver assunto pillole fasulle. Eppure molti Stati non considerano la falsificazione di farmaci un delitto. Nel Regno Unito si riceve una condanna più dura se si falsifica una camicetta che una medicina. In Inghilterra nel luglio del 2007 le autorità hanno ritirato dal mercato 120 mila confezioni di Lipitor, un farmaco per il colesterolo che la Pfizer non aveva mai inviato. Era partito dalla Cina. The Lancet insiste che un po’ di colpa l’hanno le stesse multinazionali, per i loro prezzi.
I Paesi rivieraschi dell’Artico si sono accordati per risolvere le rivendicazioni sulle risorse del Polo nord secondo i dettami del diritto internazionale. In una conferenza tenuta nella città di Ilulissat in Groenlandia, i cinque Stati hanno deciso di non dare il via ad una pericolosa corsa per l’accaparramento delle materia prime contenute in quei territori. Saranno invece le Nazioni Unite a risolvere caso per caso le controversie legate allo sfruttamento dei fondali dell’Artico. Questa l’incoraggiante notizia arriva dopo tre giorni di incontri. Usa, Russia, Danimarca, Norvegia e Canada rinunciano cosi ad ogni atteggiamento neocoloniale per il possesso di materie prime e la definizione delle sfere di sovranità. Mosca con l’innalzamento simbolico della bandiera in fondo al mare aveva fatto temere l’escalation.
L’Iraq chiede l’annullamento del debito Il primo ministro di Bagdad, Nuri alMaliki ha pregato i vicini di cancellare il debito che il suo Paese ha nei loro confronti. Aprendo in Svezia la conferenza dell’Onu sulla situazione irachena, al-Maliki ha dichiarato che l’Iraq dopo aver evitato l’abisso della guerra civile, ha in debito estero e riparazioni di guerra i fattori che impediscono la rinascita economica del Paese. Alla conferenza di Stoccolma prendono parte oltre 500 delegati, tra cui Ban Ki Moon, Condoleezza Rice e il ministro degli esteri di Teheran, Mottaki.
L’11 luglio inizia il dialogo Cina-Taiwan Dopo 10 anni di crisi diplomatica, Pechino e Taipei iniziano trattative dirette. Il capo delegazione di Taiwan, Chiang Pin-kun, ha detto ieri ai giornalisti di aver accettato l’invito della controparte cinese. Le trattative inizieranno l’11 luglio a Pechino. I voli diretti tra la repubblica popolare e l’isola saranno il primo oggetto delle trattative. Si prevede anche la facilitazione dei visti turistici per cinesi e cittadini di Taiwan che intendono visitare i due Paesi.
La giunta birmana accusa Aung San Suu Kyi Nel giorno in cui il Paese adotta la nuova Costituzione, la giunta militare di Rangoon attacca il leader dell’opposizione accusandola di spingere la popolazione all’insurrezione. In un virulento attacco apparso nel quotidiano, New Light of Myanmar, i militari accusano la Lega nazionale per la democrazia, Lnd della signora Suu, di voler «sfruttare politicamente la situazione».Nonostante questo nuovo segno di durezza i militari aprono lentamente agli aiuti stranieri la regione del delta dell’Irrawaddy.
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anniversari
Come il Generale riuscì a sconfiggere il Sessantotto francese
I trenta giorni che cambiarono Charles de Gaulle Michele Marchi on Dieu, mon Dieu! La vie est là, simple et tranquille». Così, citando Verlaine, il generale de Gaulle porgeva gli auguri di buon anno ai francesi il 31 dicembre 1967, per poi proseguire affermando: «non si vede come, nell’immediato futuro, si possa essere colpiti da crisi gravi quanto quelle che abbiamo sofferto in passato». Dunque nessun sentore di quel rivolgimento rivoluzionario che di lì a pochi mesi avrebbe sconvolto le fondamenta dello Stato gollista e irradiato la sua carica di contestazione in tutta Europa? In realtà da tempo il Generale aveva individuato almeno due questioni chiave a livello sociale e intendeva farne i capisaldi per il rilancio del suo settennato, dopo le elezioni legislative del marzo 1967 vinte con un risultato non esaltante. Innanzitutto la riforma universitaria, con l’introduzione di principi di selezione e orientamento all’ingresso per scongiurare l’esplosione della popolazione studentesca preconizzata da de Gaulle fin dal 1963. Il secondo grande cantiere riguardava uno dei capisaldi del gollismo sociale, la participation. In gran parte frutto di una riflessione che doveva molto alla dottrina sociale cristiana e al contributo del gollismo di sinistra (l’Union démocratique du travail) rappresentato da Louis Vallon e Réné Capitant, il tema della participation aveva già fatto capolino nel 1965, formulata come associazione capitale-lavoro. Ebbene dal 1967 e ancor di più dal 1968 la participation doveva diventare il vero e proprio strumento per adattare il sistema economico-sociale francese ai mutamenti in atto nel sistema capitalista, muovendo innanzitutto da un maggiore coinvolgimento dei salariati nei processi di gestione e di distribuzione dei profitti. Il Generale cercava un duplice risultato. Da un lato quello di sfumare l’immagine di un gollismo sempre più ripiegato sul
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conservatorismo sociale e sul liberismo economico-finanziario (non a caso la «terza via partecipativa» era fortemente criticata dal Primo Ministro Pompidou). E dall’altro cercare di fornire una risposta ad una situazione di fermento sociale diffuso, difficile da interpretare anche perché ancora scarsamente definita nei suoi contorni. Mentre sul fronte della partecipazione la situazione sembrava bloccata, su quello universitario il fedele Ministro dell’Educazione Alain Peyrefitte portò avanti il suo progetto fondato su orientamento e selezione, presentato in Consiglio dei Ministri sul finire di aprile del 1968 quando però, soprattutto a Nanterre, la protesta studentesca aveva già da un mese fatto capolino. La data chiave era stata il 22 marzo, quando un gruppuscolo di studenti anarchici guidati da un certo Daniel Cohn-Bendit, già
stanti e polizia e la chiusura del giorno successivo di Nanterre, fu il 3 maggio la prima data chiave. La Sorbona era stata occupata il giorno precedente e il rettore Jean Roche, così come il Ministro dell’Educazione Peyrefitte, optarono per il pugno duro: sgombero totale da parte delle forze di polizia. Il potere politico mostrò la sua prima indecisione, anche perché si trovava ad affrontare una situazione paradossale. Dall’Eliseo de Gaulle si manteneva in posizione defilata. L’ordinaria amministrazione, e la gestione dell’ordine pubblico lo era a tutti gli effetti, erano appannaggio, secondo la Costituzione, del Primo Ministro. Peccato che Pompidou avesse lasciato il Paese il giorno prima per una visita di oltre una settimana in Iran. A questo punto, anche se reticenti, il Ministro della Giustizia (ad
Parigi doveva prepararsi ad ospitare una conferenza potenzialmente decisiva per fermare il conflitto in Vietnam e non poteva mostrare al mondo il volto dell’anarchia e della rivolta di strada agli onori delle cronache per aver aggredito a gennaio il Ministro dello Sport reo di non aver affrontato nel suo «Libro bianco» i problemi sessuali delle giovani generazioni, aveva occupato simbolicamente gli uffici amministrativi dell’ateneo parigino. Da quel momento, l’autocostituito «Movimento del 22 marzo», per analogia al «Movimento del 26 luglio» di Castro, si mise alla testa della rivolta studentesca. Oltre agli anarchici, raggruppava i primi gruppuscoli maoisti e trockzisti. Obiettivo: l’unità di tutti gli studenti gauchiste e la riforma dell’Università borghese. Atto primo: fermezza, fermezza e ancora fermezza! Dopo un corteo del 1 maggio con i primi scontri tra manife-
interim Primo Ministro) Louis Joxe e quello degli Interni Christian Fouchet, diedero il semaforo verde per lo sgombero, al quale seguirono però anche oltre 500 arresti e relative identificazioni in questura. Le manette scattarono, tra gli altri, per Cohn-Bendit e per i vertici dell’Unef, il sindacato studenti. Le prime barricate comparvero nel quartiere latino e i primi blocchetti di porfido volarono verso i poliziotti: l’ingranaggio della sovversione si era messo in moto. Di fronte alla provocazione dei gruppuscoli gauchiste era giunta la repressione, probabilmente eccessiva, e immediata era scattata la solidarietà che si allargava a macchia d’olio tra la popolazione studentesca. Era un de Gaulle livido quello che il 5 maggio convocò Joxe, Peyrefitte
e Fouchet: Parigi doveva prepararsi ad ospitare il 10 maggio una conferenza potenzialmente decisiva per fermare il conflitto in Vietnam e non poteva mostrare al mondo intero il volto dell’anarchia e della rivolta di strada. Rivolgendosi in particolare al Ministro degli Interni de Gaulle fu categorico: «Non è possibile cedere di fronte ai manifestanti, ne uscirebbero definitivamente compromesse l’autorità dello Stato e la legalità repubblicana». La parola d’ordine era dunque non cedere. E il Generale decise di non arretrare di un passo rispetto alle pesanti pene comminate agli studenti responsabili dei primi atti di violenza. La fermezza si dovette però scontrare con la violenza di strada delle «truppe» ben organizzate della Jeunesse comuniste révoulutionnaire: una nuova manifestazione nel pomeriggio del 6 maggio e oltre 400 feriti. L’escalation, anche se eccessivamente drammatizzata dalla stampa (“Combat” arrivò a parlare di “Massacre au quartier latin”), era comunque nei fatti: dalla rivolta si era passati alla vera e propria insurrezione. E il peggio doveva ancora venire. Da un punto di vista pubblico il Generale non mutò di una virgola la sua posizione: fermezza e rapidità, poiché «un incendio deve essere domato appena esplode». In realtà, dai colloqui con i più stretti collaboratori emergeva un de Gaulle che osservava da vicino la rivolta studentesca e ne traeva due conclusioni. Da un lato i giovani sembravano rifiutare le conseguenze negative della definitiva
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esplosione della società dei consumi. Dall’altro l’accelerazione improvvisa della crisi universitaria poteva tramutarsi nell’occasione propizia per riportare il tema della participation al centro dell’attenzione: partecipazione universitaria e partecipazione degli operai non erano così lontane nell’immaginario del Presidente. Ma nell’immediato fu ancora la strada a dettare l’agenda politica. Venerdì 10 maggio Parigi aveva un appuntamento con la storia, per l’apertura della conferenza sul Vietnam e anche per questo motivo de Gaulle convocò di buon mattino Fouchet e il prefetto di Parigi Maurice Grimaud: la manifestazione che da Place Denfert-Rochereau avrebbe dovuto raggiungere il Quartiere latino non doveva avere luogo. Grimaud e Fouchet spiegarono al Generale di non possedere le forze sufficienti per un’operazione di ordine pubblico di queste proporzioni. Il Generale, pur ribadendo il suo leitmotif (fermezza e ordine) decise di fornire carta bianca alla coppia GrimaudFouchet. Il Ministero della Giustizia e quello dell’Educazione misero in piedi un doppio negoziato, ma quando attorno alle 21.55 le prime barricate vennero erette nel Quartiere latino la situazione era oramai chiara: i leader della rivolta studentesca puntavano allo scontro. In assenza del Primo Ministro e con de Gaulle coricatosi poco dopo le 23, il pesante fardello delle decisioni gravò sulle spalle di Joxe, Fouchet e Grimaud. Due gli spettri all’orizzonte: le
barricate di Algeri del 1960 e gli scontri parigini del 6 febbraio 1934. Fermezza e sangue freddo, questa fu la scelta della coppia Fouchet-Grimaud. Ascoltato il monito di uno dei più stretti collaboratori del Generale, Jacques Foccart («non è accettabile che il sole si levi e trovi le barricate a Parigi») e atteso l’ultima corsa del metro (a mezzanotte e tre quarti) nella speranza che i più giovani abbandonassero le barricate, scattò l’operazione di polizia. Alle 5 e 30, dopo quattro ore di corpo a corpo, l’ultima barricata era stata eliminata. 1500 feriti, ma nessun caduto. Il Ministro degli Interni Fouchet aveva tutte le ragioni per farsi il segno della croce! Atto secondo: Pompidou maitre du jeu Più della dura reazione del Generale nei confronti di Joxe e Fouchet, a fare notizia l’11 maggio fu il rientro dall’Iran di Pompidou che, non appena atterrato ad Orly, riunì il Consiglio dei Ministri e presentò il suo piano: ricerca di una mediazione e apertura della Sorbona dal lunedì successivo come gesto di buona volontà da parte delle istituzioni. Al di là della proposta in sé, Pompidou diede l’impressione che gli eventi erano maturi per subire una sterzata e che il centro nevralgico della crisi passava dall’Eliseo a Matignon. Concluso il Consiglio dei ministri, Pompidou fu ricevuto da de Gaulle, il quale si mostrò quasi sollevata dall’idea che la gestione dell’ordine pubblico tornasse nelle mani del Primo Ministro: «se vincerete, la Fran-
cia vincerà. Se perderete, tanto peggio voi». In linea con la concezione di una Presidenza che si occupa delle linee di fondo e un Primo ministro che sbriga la contingenza, de Gaulle decise di non rinviare la visita fissata da tempo in Romania e il 14 maggio partì per Bucarest. La situazione interna peggiorò ulteriormente e all’attesa nuova occupazione della Sorbona seguì anche quella dell’Odéon, ma soprattutto l’avvio di una sempre più massiccia ondata di scioperi
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stava subendo i disagi degli scioperi e dei continui scontri di piazza e intanto preparare un incontro tra le parti sociali. Anche il Generale in realtà aveva un ultimo asso nella manica: tornare a consultare il popolo per conoscerne l’opinione sulla grande riforma della participation e, naturalmente, farlo attraverso lo strumento principe della V Repubblica, il referendum. Nonostante il parere contrario dei principali consiglieri, il Generale decise di annunciare al Paese la sua proposta il 24 maggio con un intervento radiotelevisivo. Per la prima volta nella storia della sua lunga carriera politica de Gaulle si presentò come salvatore della Patria, ma solo a condizione che il popolo tramite il referendum gli avesse concesso un nuovo mandato, quello per il rinnovamento, una sorta di investitura per un nuovo inizio. Il discorso non ebbe grande presa sull’opinione pubblica e lungi dallo stemperare gli animi, per tutta la notte successiva Parigi fu attraversata dai peggiori disordini dall’inizio del mese. Se il Generale sembrava solo di fronte ad una situazione oramai irrecuperabile un dato positivo emergeva all’orizzonte: la strategia di Pompidou cominciava a dare i primi frutti. All’Assemblea Nazionale il Primo Ministro era riuscito ad evitare la censura, il 25 mattina si sarebbero aperti i negoziati di Rue de Grenelle tra imprenditori, sindacati e governo, ma soprattutto, come notava il prefetto Grimaud, per la prima volta la popolazione parigina cominciava a disapprovare la condotta violenta dei manifestanti.
La “maggioranza silenziosa” compiva un vero e proprio atto di ribellione collettiva di fronte ai trenta giorni di violenze e angherie della cosiddetta “minoranza organizzata” che coinvolse tutto il settore industriale e ben presto si estese anche ai trasporti e ai mezzi di comunicazione radiotelevisivi. «E’ la buffonata, l’anarchia non è più tollerabile. Bisogna che tutto ciò abbia fine». Così de Gaulle furioso aprì il Consiglio ristretto di domenica 19, al quale erano presenti Pompidou (il più attaccato dal Generale), Fouchet, Georges Gorse (Ministro dell’Informazione), Pierre Messmer (Ministro della Difesa) e il prefetto Grimaud. Sgomberare immediatamente Sorbona e Odéon, questa la linea dell’intransigenza. Ma Pompidou resse l’urto e riuscì ad imporre la sua strategia: temporeggiare affinché la protesta logorasse la sopportazione dell’opinione pubblica che, in maggioranza,
Atto terzo: il Generale, un colpo di teatro e la Francia silenziosa «Questo è un Paese che si dissolve. Come si può lottare per un Paese che si sta dissolvendo? Non si può sorreggerlo per sempre». Era un de Gaulle sconvolto quello che il 28 maggio si confidò con il fedele Foccart e che con il genero, il generale Alain de Boissieu, annunciò di essere pronto al ritiro. La Cgt aveva rotto a Rue de Grenelle, Mitterrand aveva addirittura convocato i giornalisti per dichiarare di essere pronto a far nascere un governo provvisorio guidato da Mendès France: lo spettro del colpo di stato cominciò ad aleggiare nel Paese. A questo punto il Generale decise di riportare definitivamente
l’inerzia degli eventi dalla sua parte. Dopo un breve colloquio telefonico con Pompidou, la mattina del 29 maggio abbandonò l’Eliseo, con la moglie. Un corteo di tre elicotteri, da programma diretto a Colombeyles-Deux Eglises per concedere al Generale una giornata di riposo, ben presto fece perdere le sue tracce e si diresse verso Baden-Baden. Qui era di stanza il comando francese in Germania, guidato da una gloria dell’esercito francese, quel generale Massu eroe della Seconda guerra mondiale e grande protagonista della guerra d’Algeria. Perché Baden-Baden? Prima di tutto perché il Generale non aveva ancora escluso l’ipotesi di un intervento dell’esercito per ristabilire l’ordine. In secondo luogo per il timore di un colpo di mano (magari a guida comunista) e quindi per mettere in salvo la famiglia. Ma soprattutto per il desiderio di rompere la passività degli eventi, per imprimere una drammatizzazione e rientrare a tutti gli effetti da protagonista nella confusa e drammatica congiuntura. Nelle quattro ore di black-out furono numerosi i cittadini che provarono i sentimenti del timore, dell’insicurezza e dell’abbandono. Il Paese o perlomeno una parte importante di esso, si sentì ad un tratto orfano. Il Generale che rientrò all’Eliseo la mattina del 30 maggio era un uomo nuovo, che aveva ripreso in mano la situazione. Pressato da Pompidou decise di rinunciare, almeno per il momento al referendum, di sciogliere l’Assemblea Nazionale ed indire nuove elezioni per giugno. La drammatizzazione quasi teatrale fu completata con l’intervento delle 16.30, non a caso radiofonico, per ricreare l’atmosfera dei drammatici ed eroici momenti dell’epopea resistenziale,. La Francia minacciata dalla dittatura era pronta a rialzarsi. «La Repubblica non abdicherà. Il popolo si rialzerà». Le parole del Generale erano ancora nell’aria quando una vera e propria marea umana invase Place de la Concorde e i Champs-Elysées. Il clima era molto simile a quello della Parigi della Liberazione dell’agosto ’44. Alla testa del corteo l’organizzatore Foccart, poi tutti i grandi dignitari del gollismo, da Debré a Malraux, da Michelet a Joxe, passando per Peyrefitte e Mauriac e dietro circa un milione di persone. La “maggioranza silenziosa”del 30 maggio compiva un vero e proprio atto di ribellione collettiva di fronte ai trenta giorni di violenze e angherie della cosiddetta “minoranza organizzata”. La Francia, stanca del disordine e dell’anarchia, era pronta a riconsegnare le chiavi del potere al suo Generale. Questa volta, però, soltanto per un anno.
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speciale approfondimenti
Carte A sinistra, due immagini di Scalfari nel 1980: con Andreotti; con Barbiellini Amidei e Maurizio Costanzo. Sopra, nel 1989 con, in senso antiorario, Sylos Labini, Tremonti, Ruffolo, Clericetti, Visco e Pedone. A destra, nel 2001 nella redazione dell’Unità con Furio Colombo; nel 2003 con Umberto Eco; nel 2004 al Campidoglio con Casini, Veltroni, Ezio Mauro e D'Alema
Una lettura filosofica dell’ultimo libro di Eugenio Scalfari
L’UOMO CHE CREDEVA DI NON CREDERE di Giovanni Reale el 1995 Scalfari pubblicava un libro dal titolo ”Alla ricerca della morale perduta” e io nello stesso periodo pubblicavo un’opera dal titolo ”Saggezza antica”. Terapia per i mali dell’uomo d’oggi. Nei due libri sostenevamo, partendo da punti di vista antitetici, tesi che miravano al medesimo obiettivo e percorrevamo strade diverse per giungere alla stessa meta, anche se chiamata con nomi diversi. Un felice caso volle che ci incontrassimo all’Università Cattolica per discutere, di fronte a un vasto pubblico, sui nostri libri in modo incrociato: io discutevo del suo e lui sul mio. Scafari pubblica ora un libro che costituisce come una ideale prosecuzione o un completamento in una nuova ottica di quello citato, e riflette una maturità e una saggezza che con gli anni sono giunte a pienezza. Giudico il libro molto bello, e sicuramente il più bello finora scritto dall’autore. Si tratta di un racconto di ciò che è stata la sua vita e dei pensieri che ha via via maturato insieme a ciò che via via costruiva. Ma si può anche dire che sia un libro di filosofia, nel senso greco del termine. Infatti, per i Greci, se la filosofia rimaneva solo parola era un niente. La verità di una filosofia non può essere dimostrata che con la pratica di vita. Il vero filosofo non è un astratto intellettuale, ma un saggio. E saggio è quel filosofo che dimostra la verità del suo pensiero con la sua vita. E proprio questo emerge dal libro di Scalfari. Mi concentrerò, pertanto, su alcune idee filosofiche, almeno sulle più forti che emergono dal libro, in modo sintetico, come richiede lo spazio di un articolo di giornale.
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Incominciamo da alcune riflessioni su ciò che Scalfari dice di Nietzsche, uno dei suoi maestri spirituali. Egli giudica questo filosofo come uno dei massimi pensatori moderni, e dà delle sue opere un giudizio che ritengo perfetto: «Ma il suo livello qualitativo è stato molto discontinuo, la purezza e la luce del diamante sono state spesso occultate dal ciarpame di una retorica a volte insopportabile; l’esigenza dello stile e la potenza delle immagini hanno spesso convissuto con la cartapesta del superuomo, della bestia bionda, della violenza risana-
trice, dell’idealizzazione della guerra, del disprezzo verso gli sconfitti». Si tratta quindi non solo di interpretare Nietzsche, ma di «cercare la pepita d’oro in mezzo alla sabbia».Tuttavia non condivido il giudizio ultimativo che dà del pensiero del filosofo: «Nietzsche è stato il solo pensatore che abbia chiuso veramente i conti con la metafisica. [...] Chiuse con il pensiero che che aveva dominato la filosofa da Platone in poi. Cancellò gli archetipi, che per duemila anni erano stati il punto di riferimento immutabile e trascendente dei mortali». A mio parere, infatti, Nietzsche non ha affatto chiuso i conti
Il vero filosofo non è un astratto intellettuale, ma un saggio con la metafisica, ma soltanto con la metafisica platonica e aristotelica, e ha sostituito a quella un’altra metafisica. Metafisica, infatti, è ogni teoria che tenta di dare una risposta al problema dell’«intero», ossia delle cose considerate nel loro insieme. E Nietzsche all’«eterno dell’essere» ha sostituito l’eterno del divenire, riprendendo la tesi degli Stoici dell’«eterno ritorno», assolutizzando, in questo modo, il divenire con una precisa visione dell’«intero» a tutto tondo. In effetti, l’uomo, quando vuol dare qualche risposta significativa ai suoi problemi di fondo non può fare a mano di una visione dell’«intero», e quindi di una metafisica.
A Cartesio Scalfari dà inoltre una grande importanza, non solo dal punto di vista storico, ma anche dal punto di vista della propria formazione, e scrive: «guardando all’opera di Descartes nel suo complesso e inquadrandola nel contesto del suo tempo, credo si
debba riconoscere un ruolo primario al metodo da lui seguito, alla natura della sua mente, alla continua ricerca della chiarezza, del nitore espressivo, dell’analisi e dell’eleganza. L’eleganza della matematica, l’asciuttezza delle formule e del calcolo, il fascino misterioso dei numeri, dei concetti, del pensiero astratto: queste sono state le sue modalità – direbbe Spinoza – e le cause della duratura influenza da lui esercitata sulla cultura moderna, sull’Illuminismo, soprattutto sul linguaggio filosofico per tutto il periodo della dominanza della cultura francese...». Cartesio ha esercitato il suo maggior influsso su Scalfari per la conoscenza e l’analisi del proprio io con il celebre motto: «penso, dunque sono». Ma sono convinto che la persona di Scalfari nella sua più profonda natura non si rispecchi nel «penso, dunque sono», ossia nel suo pensiero, che pure è ricco e spesso profondo, ma anche e soprattutto nella sua volontà. Tutto ciò che ha fatto, e i suoi tentativi di dimostrare di essere non solo «il più bravo a farlo», ma anche «il più aggressivo» e «il più irriducibile», non avrebbe potuto realizzarsi con il solo pensiero, per quanto forte, senza una ferrea a adamantina volontà, con tutte le implicazioni e le conseguenze che essa comporta. Parlando con un’amica, egli affermò: «La tua volontà sei tu. Se vuoi ce la puoi fare». Il motto che esprime la natura spirituale di Scalfari è, sì, il cartesiano «penso, dunque sono», ma, a mio parere, integrato con quest’altro motto (e con un peso specifico maggiore) «voglio, dunque sono».
Come già nel precedente libro ”Alla ricerca della morale perduta”, anche in questo ultimo libro emerge il problema del sentimento morale, che è poi quello che solo sa dare un vero senso alla vita, e scrive; «Questo crudele mestiere e il senso che se ne trae hanno poco da spartire con la solidarietà e compassione. Richiedono un carattere addestrato al combattimento,
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un’ambizione a vincere più che a soccorrere. – Evidentemente io avevo questa convinzione ma ne avevo anche una contraria, sicché ho vissuto contemporaneamente due esperienze diverse e spesso opposte. Tenute insieme da un’etica. – Sentivo che solo il sentimento morale riusciva a unificare il piacere acre della gara con quello tanto più dolce della solidarietà. – Sentivo tutto questo ma non capivo quale fosse il fondamento di quel duplice modo di essere. Il fondamento del sentimento morale. – Molti filosofi ne hanno scrit-
mente di mano. Ed era destino irreversibile che questo dovesse ripetersi sempre di nuovo, da capo. Quando la vita viene privata di ogni vera finalità, si riduce a vano ripetersi di fatiche, e dunque, dice Camus, un «assurdo». Pertanto, per ricuperare il senso morale nella sua consistenza e nella sua portata, bisogna ricuperare i valori, e per ricuperare i valori occorre ricuperare anche quel gancio che li sostiene, altrimenti si continuerà a brancolare nel vuoto, come il Sisifo di Camus. Scalfari ha ben compreso la necessità della cosa, e le ragioni della sua necessità, ma non ha ricuperato il fondamento ontologico della cosa stessa. Una tesi assai stimolante e per certi aspetti dirompente, che molti giudicheranno inaccettabile, ma che io condivido nel suo fondo, è che la politica non fa parte della morale: stanno una al confine dell’altra e talora sono buone vicine, ma talora sono nemiche e si fanno guerra. Scalfari scrive: «Penso che politica e morale abbiano fondamenti distinti. I loro territori confinano ma non coincidono. Spesso addirittura morale e politica confliggono e si scontrano. E spesso questo scontro avviene nell’intimo della stessa persona, divisa tra il desiderio ed anzi il bisogno di giovare al proprio prossimo anche a scapito di se stessa e l’opposto desiderio – anzi l’imperiosa necessità – di affermare se stessa e la propria volontà di potenza. – Questo infatti è il punto decisivo sul fondamento della politica. Non la visione – morale – del bene comune, ma la volontà di potenza nel senso nicciano del termine». Si potrebbe aggiungere anche il fatto che non poche volte la volontà di potenza che muove la politica viene nascosta sotto la maschera della morale, e che la morale, in tal modo, diviene non il fine ma il mezzo per raggiungere un fine di differente valore. E a maggior ragione si potrebbe dire che lo stesso vale per quanto concerne i rapporti fra politica e religione, in maniera ancor più pericolosa.
Per Scalfari, il sentimento morale non è che un istinto, come l’amor di sè to; molti grandi spiriti ne hanno parlato. Tutte le scuole e tutte le religioni hanno dato risposte, ma nessuna di esse mi sembrava soddisfacente. – Il fondamento della morale è divenuto, così, determinate nei miei pensieri». La risposta che Scalfari ha dato al problema nella precedente opera e che qui ribadisce, è la seguente: il sentimento morale non è un prodotto della razionalità né una legge divina impressa nell’uomo, ma è un istinto, allo stesso modo in cui è un istinto l’amore di sé. Si tratta, in altri termini, di un istinto necessario alla sopravvivenza della specie, così come l’amore di sé è un istinto necessario alla sopravvivenza dell’individuo. Non si tratta, pertanto, né di un sentimento di benevolenza o di simpatia per l’altro, né di un imperativo razionale, ma di un istinto di carattere biologico, necessario per la sopravvivenza della specie. Ma, come già rilevavo discutendo dell’opera ”Alla ricerca della morale perduta”, io non credo che il fondamento della morale possa ridursi all’«istinto della sopravvivenza della specie», come pensa Scalfari. Infatti, tale istinto, al più, può considerarsi come una concausa o uno strumento a servizio di un ulteriore e ben più profondo fondamento.
L’istinto di sopravivvenza è una delle manifestazioni biologiche di una «cosa in sé», ossia di un valore o di valori che hanno consistenza ontologica che travalica l’istinto stesso. Come già dicevo a proposito del libro del 1995, sono convinto che, a partire soprattutto dagli Illuministi, si sia cercato in età moderna di distaccare i valori dal gancio che li sostiene tutti quanti, ossia da un Dio. Ma come ha detto Camus (che pure considerava la questione nell’ottica di un ateo), i valori perdono la loro consistenza quando vengono staccati dal gancio che li sorregge. La vita dell’uomo – diceva Camus – diventa una condanna all’inutile: come Sisifo era stato condannato a spingere un masso fino alla cima di un monte, ma senza mai giungere alla meta, perché, a motivo della condanna, giunto ormai vicino alla meta, il masso gli sfuggiva inesorabil-
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speciale approfondimenti
Carte David Maria Turoldo è stato un poeta e religioso italiano dell’Ordine dei Servi di Maria; è stato uno dei più rappresentativi esponenti del rinnovamento del cattolicesimo della seconda metà del ’900. Fratello ateo, nobilmente pensoso / Alla ricerca di un Dio che io non so darti. / Attraversiamo insieme il deserto. / Di deserto in deserto andiamo / Oltre la foresta delle fedi / Liberi e nudi verso il nudo essere / E là dove la parola muore/ Abbia fine il nostro cammino
Del resto, Cristo diceva senza mezzi termini: «il mio regno non è di questo mondo». La morale e la religione devono svilupparsi non come programma politico, ma nell’animo dell’uomo che fa politica. Platone diceva che il vero Stato ideale non c’è su questa terra e che forse non ci sarà mai, ma che esso nasce e si sviluppa nell’anima dell’uomo. E su questo tema ci sarebbe molto da dire, che per ragioni di spazio qui non è possibile trattare. Un tema che Scalfari mette bene in evidenza in modo nuovo è quello che concerne la letteratura e la musica, che egli sembra porre addirittura al di sopra della filosofia. Scrive: «La grande poesia omerica, molto più della filosofia, ci racconta il mistero della vita e della morte, l’istinto di sopravvivere, la volontà di potenza sul doppio binario dell’amore di sé e della difesa della “polis”». Ma, questa, è una presa di posizione tutt’altro che anti-filosofica. HansGeorg Gadamer scriveva (e mi ribadiva in occasione di due interviste che gli ho fatto) che «c’è molto più da imparare dalle parole dei poeti che da Wittgenstein», e precisava: «non si fa filosofia limitandosi agli strumenti del filosofare: la consequenzialità logica e formale non è certamente tutto. Anch’io credo che Platone sia stato filosofo e poeta.Va letto nello stesso modo in cui si deve leggere, per esempio, Zarathustra di Nietzsche, che è una forma di poesia, e che, quindi, si può comprendere solo in tale senso». Ed è proprio questo il pensiero che emerge anche dalle pagine di Scalfari.
che questo sia il mio caso, non ho progetti per il futuro. Invece ho ancora cose da fare, sentimenti e affetti da esprimere nel presente, conoscenza di me e del mondo da arricchire. Insomma condurre una buona vita finché durerà. Sono circondato da molto amore e lo ricambio con pari intensità, ricambiare l’amore non costa fatica, anzi l’amore vero dà riposo e beatitudine». E poco prima precisa: «Sono nonno tardivo e perciò tanto più felice di questo dono che non speravo più di ricevere. Per mia natura sono uno spirito di solito indipendente, non mi faccio condizionare dalle lusinghe né dalle minacce, ma sono invece dipendentissimo dalle persone che amo». Leggendo queste ultime pagine del libro mi tornavano alla mente i pensieri di Agostino sull’amore: «Senza l’Amore tu non sei niente»; «Il frutto è tutto nell’Amore, senza il quale l’uomo non è niente, qualunque cosa possegga». «Se manca l’Amore, tutto il resto è inutile». «Se avrai l’Amore, avrai tutto». E il moltissimo che Scalfari ha avuto acquista il vero senso nell’amore.
L’aforisma: «Dio non è morto: c’è finché qualcuno lo guarderà. Perciò ci sarà sempre»
E v e n i a m o a l t i t o l o del libro ”L’uomo che non credeva in Dio” e alle sue implicazioni. Dico subito che il titolo più appropriato, stando ai suoi contenuti e al modo in cui sono presentati, mi sembrebbe L’uomo che credeva di non credere. Si tratta infatti del messaggio di un uomo che per certi aspetti crede, ma che non vorrebbe credere. Mi si potrebbe obiettare che questo c’è nel modo in cui io intendo ciò che è detto, ma non precisamente in ciò che è detto. Ma, come controprova, porto due documenti particolarmente eloquenti. Già nell’opera ”Alla ricerca della morale perduta” Scalfari all’amato Voltaire metteva nettamente al di sopra Pascal e scriveva: «Non stupisca dunque se l’ateo che io sono si sente più vicino per quell’ideale pellegrinaggio verso alcune grandi menti che hanno dato forma al pensiero della modernità, al solitario di PortRoyal che non al principe degli illuministi. La
La morale e la religione devono svilupparsi nell’animo dell’uomo che fa politica N e l l e u l t i m e p a g i n e d e l l i b r o Scalfari parla dell’amore: «Penso poco alla morte perché non c’è gran che da aggiungere a quel tema. Con lei credo di aver già fatto i conti, non mi fa paura. Certo l’idea del suo arrivo non mi rallegra, pensiamo tutti d’avere ancora molte cose da fare ed essere interrotti non fa piacere. Ma io non credo
morale di Voltaire è il succedaneo della felicità individuale, quella di Pascal punta diritto sul fondamento della questione. – Quella che per Kant sarà la legge come a priori della ragion pratica e per Schopenhauer la compassione verso il proprio simile, per Pascal è la grazia che rende possibile l’identificazione con Cristo, con la carità e quindi con l’umanità tutta intera superando la
peccatrice finitezza del se stesso». E poco prima aveva detto: «Nella disperazione di Pascal c’è una via di salvezza ed è la Croce, e la carità di cui il Cristo rappresenta l’incarnazione e la fonte testimoniale». E in questo nuovo libro c’è un aforisma di grande forza: «E Dio non è morto: c’è finché qualcuno lo guarderà. Perciò ci sarà sempre». Sono affermazioni, queste, che dicono molto più di quello che il titolo dell’opera vorrebbe far credere: sono verità che Scalfari ha raggiunto non mediante i ragionamenti di Nietzsche, né di astratti filosofemi, ma mediante quell’Amore di cui parla nelle ultime pagine. Già nella lettura di ”Alla ricerca della morale perduta”, al di là di tutte le differenti e opposte tesi che egli sostiene, sentivo un murmure sotterraneo che si intonava con il mio sentire. E ancora di più sento tale murmure sotterraneo nella lettura di quest’ultimo libro. E come nella presentazione del precedente libro concludo con un carme emblematico di David Maria Turoldo che esprime bene il mio “con-sentire”: Fratello ateo, nobilmente pensoso / Alla ricerca di un Dio che io non so darti. / Attraversiamo insieme il deserto. / Di deserto in deserto andiamo / Oltre la foresta delle fedi / Liberi e nudi verso il nudo essere / E là dove la parola muore/ Abbia fine il nostro cammino.
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Molti dubbi e una certezza: comunque la si pensi, è un libro assolutamente da non perdere
Un’autobiografia che non convince di Sergio Belardinelli he effetto mi avrebbe fatto questo libro, se, anziché leggerlo andando in treno da casa a Bologna, l’avessi letto da Bologna ritornando a casa? E’ una domanda un po’ bislacca, lo riconosco. Eppure, è la prima domanda che mi sono posto dopo aver letto “L’uomo che non credeva in Dio” di Eugenio Scalari. Del resto chi ci garantisce che la persona che fa il viaggio d’andata sia la stessa che fa quello di ritorno? Non è lo stesso Scalfari a dirci che «l’io non esiste. E’ una superstizione. Oppure una caricatura. Una maschera. Una bandiera. Il pennacchio di un elmo. Un computer depositario di una memoria. Una gabbia. Un capriccioso dittatore. Oppure un prigioniero?» Su questo punto mi sento invero di dissentire dall’autore. Ma proprio per questo sono convinto che la domanda bislacca da cui sono partito sia la riprova del fatto che ho preso questo libro come merita di essere
C
immagine nicciana. «Il centro è dappertutto, ovunque vi sia un individuo pensante», scrive Scalfari. E per molti versi ha ragione. Vorrei però anche sottolineare che questo è esattamente il motivo per cui, come direbbe Plessner, la natura dell’uomo è eccentrica. In fondo anche tutti gli altri animali sono “centrati” in se stessi e nel loro campo d’azione. Ma lo sono senza saperlo. Soltanto l’uomo conosce il proprio centro, sa di essere il centro, ne fa esperienza e perciò è costantemente proiettato oltre, diciamo pure, trascende costantemente le condizioni biologiche e socio-culturali della sua esistenza. Contrariamente a quanto scrive Scalfari, non credo che questa trascendenza dell’uomo rispetto a se stesso, conduca «in linea retta all’abolizione di ogni assoluto, al relativismo di ogni verità e di ogni asserzione veritativa perché se io guardo il mondo dal mio angolo visuale, ciò che vedo, intuisco, sento
Credo che si sbagli, che lui e Nietzsche sbaglino entrambi, ma nessun discorso è insensato preso, ossia molto sul serio. A tratti ne sono rimasto letteralmente affascinato. Le pagine sul piacere dell’essere nonni e quelle struggenti sulla vita di una persona cara che si spegne destano commozione e gratitudine; il capitolo sul “mestiere crudele” del giornalista è non soltanto molto bello (poteva essere diversamente?), ma, avvolto com’è dal«piacere acre della gara» e da «quello molto più dolce della solidarietà», evoca una forza spirituale, una volontà, un carattere davvero esemplari; si potrebbe poi dire dell’acutezza delle riflessioni sul senso dell’essere in Nietzsche e di tanto altro ancora. Un’autobiografia filosofica avvincente, che però ha in sé qualcosa che non mi convince.
Parafrasando Gaston Bachel ard , mi sembra proprio il caso di dire che una filosofia può essere pessima anche quando le pagine che la raccontano sono belle o addirittura bellissime. Penso in particolare al modo in cui Scalfari pone il problema dell’io, il nostro essere “stelle danzanti”, secondo la celebre
e giudico differisce da tutti gli altri possibili angoli visuali». La mia eccentricità mi apre senz’altro a questa pluralità di “angoli visuali”; mi costringe quasi a tener conto dell’“altro” e della possibilità che egli veda le cose in modo diverso dal mio. Però, e qui sta il punto, è proprio questa pluralità di opinioni che presuppone la verità, altrimenti dovremmo riconoscere che un discorso vale l’altro e, al limite, che non esistano nemmeno discorsi al plurale, visto che sarebbero tra loro incommensurabili.
T u t t o c i ò c h e e s i s t e si trova insomma immerso in uno spazio di verità, il quale consente tra le altre cose di confrontare sensatamente le nostre diverse prospettive. Io potrei essere convinto, poniamo, dell’esistenza di forme di vita pensanti negli abissi marini e Scalfari no. Nessuno, al momento, è in grado di dire chi dei due abbia ragione. Però, anche se non lo sapremo mai, resta pur vero, già adesso, che ho ragione io, se negli abissi del mare ci sono effettivamente forme di vi-
Friedrich Nietzsche, ateo, fu tra i maggiori filosofi occidentali di ogni tempo. ”In me l’ateismo non é nè una conseguenza, nè tanto meno un fatto nuovo: esso esiste in me per istinto. Sono troppo curioso, troppo incredulo, troppo insolente per accontentarmi di una risposta così grossolana”
ta pensanti; ha ragione lui se non ci sono. La verità costituisce inevitabilmente l’orizzonte dei nostri discorsi e non si pone mai come semplice verità “per me”, bensì sempre in riferimento a un dato di fatto oggettivo. Scalfari direbbe a questo punto che «la sola verità pensabile - e relativa - si colloca nello sguardo dell’uomo» (di qui la morte di Dio) e che sto semplicemente cercando di tenere in vita un “archetipo” del nostro modo di
pensare occidentale mandato irrimediabilmente in frantumi dalla furia speculativa e poetica di Nietzsche. Credo che si sbagli, che lui e Nietzsche si sbaglino entrambi. Siccome però nessun discorso è così insensato da non avere dentro di sé qualcosa di vero e siccome si impara di più da un errore detto bene e con passione che da tante verità scontate, ben vengano libri come questi che comunque costringono a pensare.
cultura
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Da sinistra a destra Oriana Fallaci (1929-2006) giornalista e scrittrice che nel 1990 raccontò i kamikaze islamici in Insciallah, il sociologo polacco Zygmunt Bauman, autore del saggio Modernità liquida (2000) e Bat Ye’ Or, pseudonimo della scrittrice ebraica Giselle Littman, che ha coniato il termine Eurabia per definire lo stato di progressiva islamizzazione dell’Europa e le sue politiche di accoglienza largamente concilianti
F
amiglia outlet: famiglia in svendita, verrebbe da dire dopo aver letto i risultati del Report on the Evolution of the Family in Europe 2008, pubblicati dall’Institute for Family Policies (IPF) di Madrid. Qualcuno di questi dati va citato perché merita un’attenta riflessione. In Europa c’è un aborto ogni ventisette secondi. Un divorzio ogni trenta secondi. Quasi un milione di nascite in meno rispetto al 1989. L’aborto è la principale causa di mortalità in Europa, insieme al cancro.
Pochi figli e troppi divorzi: l’Europa a rischio Islam
lieues francesi prefigurano questo scenario. Qual è la soluzione del problema? Non ce ne è altra diversa dal ritorno all’identità e alle radici del nostro continente. Il principale nemico che abbiamo di fronte non è l’Islam, ma il relativismo, che all’Islam prepara la strada. Il relativismo che ci minaccia, prima di essere un’ideologia, oggi è costume, mentalità, fatto pratico; è relativismo “vissuto” e “diffuso”, respirato nell’aria, assorbito dalle mode e dal linguaggio politicamente corretto. Questo relativismo non si diffonde però nell’atmosfera in maniera naturale, non scorre come un fiume che sgorga da una sorgente naturale, ha i suoi laboratori ideologici e i suoi centri di diffusione. Tra tutti il più importante è rappresentato dalle istituzioni internazionali, il centro di diffusione di un relativismo aggressivo e militante, che spesso si traduce in “Cristofobia”.
Il soft-jihad, cioé l’islamismo gramsciano
Ci sarebbe un modo per affrontare il crollo demografico: una forte politica di incoraggiamento alla natalità. Ma questo significherebbe un ritorno alla morale tradizionale. Significherebbe interrompere la politica antinatalista e maltusiana degli ultimi trent’anni. La strada scelta dall’Unione europea e dalla maggior parte degli Stati nazionali è un’altra: l’incoraggiamento dell’immigrazione, per cercare di bilanciare con l’aumento degli immigrati il declino delle nascite in Europa. L’Europa si avvia ad essere una società ibrida e multiculturale che Bat Ye’ Or ha definito “Eurabia”. Un continente in svendita, acquistato a basso prezzo dall’Islam. Un continente caratterizzato dalla perdita delle radici, che è la perdita stessa dell’identità dell’Occidente. Senza radici sono i giovani europei di oggi, immersi nella “modernità liquida” di cui parla il sociologo Zygmunt Baumann; una modernità, o postmodernità, che dissolve ogni verità e ogni certezza.Vivono all’insegna del mondo presente, in famiglie generalmente sfasciate, incapaci di trasmettere loro valori. Ma senza radici non sono solo gli europei, sono anche gli immigrati di seconda e terza generazione, di provenienza extra-europea, che vivono nelle periferie e nei ghetti urbani delle grandi città. Essi perdono il legame con le proprie radici, ma, pur diventando cittadini europei a tutti gli effetti, non si integrano nella società occidentale, verso cui accumulano anzi odio e frustrazione. I casseurs francesi sono un’espressione radicale di questa violenza e di questo nichilismo. C’è
di Roberto de Mattei
però una differenza di fondo tra gli sradicati, di origine europea, e gli sradicati, di origine extra-europea. Mentre gli sradicati europei sono del tutto insensibili al richiamo delle loro radici cristiane, gli immigrati sono ancora sensibili al richiamo della religione dei loro padri. La forza di questo richiamo religioso dell’Islam è dovuta al multiculturalismo dominante in Europa. Il multiculturalismo crea un forte nesso tra l’appartenenza etnica e quella culturale e porta a una moltitudine di “ghetti” etnoculturali, che un musulmano “illuminista” come Bassam Tibi chiama “società parallele”.
La creazione di queste società parallele e conflittuali è favorita dal fatto che nell’Islam l’identità non è personale, ma collettiva, e il richiamo dell’Umma, la comunità religiosa islami-
in Europa. Nella dottrina islamica, Jihad ed Egira sono due concetti complementari. Egira significa migrazione e racchiude in sé il dovere di diffondere l’Islam. La dottrina dell’Egira equivale a una espansione in Europa del Dar al-Islam e coincide con quello che Bat-e-Yor definisce il soft-jihad, diverso dall’hard-jihad islamico. Il soft-jihad non è meno pericoloso dell’hard-jihad. Si potrebbe anche distinguere tra un islamismo gramscista e un islamismo leninista. L’islamismo leninista è quello dei musulmani che vogliono conquistare l’Europa attraverso gli strumenti della guerra e del terrorismo. L’islamismo gramsciano è quello dei musulmani “moderati”, che vogliono giungere alla conquista dell’Europa con la prevalenza demografica, con l’islamizzazione degli spazi sociali e con l’introduzione del diritto islamico nelle
Prevalenza demografica e conquista degli spazi sociali, facendo leva sul relativismo, sono gli obiettivi, mentre quello ”leninista” punta su guerra e terrorismo ca, conserva tutta la sua presa sulla psicologia fragile degli sradicati. Secondo un’indagine condotta nel 2007 dal Pew Research Center, gli immigrati si preoccupano di lavoro e di famiglia più che di religione, ma tutti si considerano prima musulmani e poi belgi, tedeschi, o francesi. Gli immigrati della seconda o terza generazione, pur non essendo musulmani praticanti, costituiscono la massa di manovra degli interessi islamici
istituzioni occidentali. Se il leninismo islamico è quello di Osama Bin Laden, l’islamo-grasmscismo è ben rappresentato dall’azione dei Fratelli Musulmani e di personaggi come Tariq Ramadan. La dottrina religiosa dell’Egira e l’etnicizzazione dell’Islam, causata dal multiculturalismo, offrono una miscela esplosiva nelle mani degli sradicati di seconda e di terza generazione, aprendo serie prospettive di guerra civile in Europa. Le rivolte nelle ban-
La risposta, per un cattolico, è innanzitutto quella di un cristianesimo altrettanto integrale, militante e vissuto del relativismo che ci minaccia. Ma esistono linee di difesa delle nostre radici, che possono essere condivise anche da chi non professi la religione cattolica. Il primo punto è la riaffermazione, contro il relativismo multiculturalista, del valore della legge naturale, fondata sulla natura unica e comune di ogni essere umano. Se esiste una natura umana stabile e immutabile nel tempo e nello spazio esistono diritti e doveri assoluti e universali, che trascendono le differenti civiltà e culture. L’Europa ha diffuso e deve continuare a diffondere, nel tempo e nello spazio, questo patrimonio di valori. Il secondo punto è la difesa, contro la società “liquida”, del valore e del ruolo di tutte le istituzioni “solide”: famiglia, proprietà privata, Stato, religioni, Chiese, e tra queste in primis della Chiesa cattolica, proprio per la dimensione non solo spirituale, ma anche visibile e istituzionale, del suo messaggio di salvezza. Per questo, nella difesa della nostra identità e delle nostre radici è più che mai prezioso il ruolo oggi svolto da Papa Benedetto XVI.
cultura
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Da Adelphi la traduzione di “Religio Medici”, prezioso vademecum dello scienziato inglese
In viaggio con Thomas Browne di Mario Bernardi Guardi er entrare in una “dimora filosofale” – e più che mai in quella di Thomas Browne – c’è bisogno di una guida, che sappia orientare il visitatore di stazione in stazione. Perché se ti si apre l’ingresso ad una “casa”, al tempo stesso compi un “viaggio”. E importa che ci siano affinità spirituale, complicità, capacità di penetrare segni e suggestioni,simboli e significati. A Roberto Calasso va riconosciuta una rara e consolidata maestria nell’iniziare il chierico vagante/investigante. Leggiamo: «L’opera di Sir Thomas Browne è discreta, elusiva, difficilmente classificabile; fondata su di una cultura composita, stratificata e ormai remota; scritta in una prosa coperta dalla patina del tempo, in cadenza naturalmente religiosa e cerimoniale. Un’opera che si presenta come una complessa figura sul punto di disfarsi, come un mosaico le cui tessere stiano per essere separate e disperse. Alcuni degli elementi che sono delicatamente congiunti in quelle pagine, in un equilibrio ricco e precario, non si sono mai più ritrovati in così stretto contatto. In Browne la medicina e la teologia, l’erudizione antiquaria, la scienza naturale e il simbolismo ermetico si compongono in un solo discorso dalle molteplici e divergenti articolazioni». Ci accingiamo a scoprire un sapiente, dunque; a veder brillare auree miche di intuizione e riflessione; a leggere un testo che è un raffinato tessuto di dottrine dal sapore arcano. E già sospettiamo armonie velate da una felice e malinconica stravaganza, come se Browne, nel suo Seicento pieno di meraviglie, capisse quanto è difficile ritrovare il tempo perduto della conoscenza “originale”, ma ugualmente attendesse al suo compito.
P
Il titolo Religio Medici (traduzione e commento di Vittoria Sanna, Adelphi, pp. 366, euro 30) subito suggerisce il camminamento di una scienza “alta/altra”, che è filosofia, teologia, visione del mondo: e Calasso ha qui l’autorità dell’adepto, visto che il suo saggioguida, Fisiognomica di Sir Thomas Browne, come leggia-
mo nella postilla si compone dei primi due capitoli della sua tesi di laurea in letteratura inglese dal titolo I Geroglifici di Sir Thomas Browne, presentata nel 1966 all’università La Sapienza di Roma con il relatore Mario Praz, altro perlu-
minuzie e le prolissità del dogma, ma non dubitò mai dell’essenziale: l’aseità di Dio, la divinità dello spirito, l’opposizione tra vizio e virtù».
Quel che scrisse – e tra le sue carte non si trovano progetti e
che, e molti furono gli studiosi che gli chiesero consiglio sulle più disparate questioni.
La sua casa a Norwich, racconta Borges, era «celebre per il doppio regalo della biblioteca erudita e del giardino spazioso», e si trovava in prossimità di una chiesa «il cui splendore oscuro, fatto di ombra e di luce di vetrate, è archetipico dell’opera di Browne». E nell’amata «dimora filosofale» – tesoro nel tesoro – c’era un museo: «Vi si trovavano», scrive Calasso, «antichità, reperti naturali di vario genere, curiosa». La “curiosità”di Browne esplora il libro della Natura, gli uomini, i loro “monumenti” e le loro rovine, i testi sapienziali volti a illuminare il Vero. Ma non c’è in lui, per dirla con l’Adorno dei Minima Moralia,
Si incontrano ispirazioni religiose e cosmologiche, in una scoperta della natura da visionario dotto e imprevedibile
stratore di delizie crittografiche, loci ameni e absconditi, fascinose biblioteche dell’occulto. Thomas Browne dunque, scienziato e homo religiosus. Nato a Londra nel 1605, si laureò ad Oxford, andò a studiare medicina nel Sud della Francia, in Italia e nelle Fiandre. Anglicano, non nutriva pregiudizi anticattolici, tanto da suscitare irritazione nei conformisti che lo accusavano di essere un papista travestito. In realtà, come scrive uno dei suoi più illustri ammiratori, Jorge Luis Borges (Sir Thomas Browne, in Finzioni, Adelphi, p.32), «fu insofferente verso le
Religio Medici esce con un saggio introduttivo di Roberto Calasso e la traduzione commentata di Vittoria Sanna. Secondo gli studiosi, il medico e homo religiosus Thomas Browne scrisse il vademecum nel 1635 appunti per un libro «di ambizioso disegno», ma piuttosto si coglie l’utopia della glossa ininterrotta» (Calasso) – stimolò tra i contemporanei dispute filosofiche e scientifi-
quella «volontà di avere ragione, che è l’ultimo gesto avvocatesco del pensiero»: la sua è piuttosto un’avventura mentale, frutto di una cultura complessa e aperta a influenze
molteplici. Tra cui quella del “cristianesimo platonico-ermetico” di Fludd e Ficino, Paracelo e Kircher, Böhme e Giovambattista della Porta.
Ma la corrente del sapere attinge alle fonti più varie: il «chiosatore» Browne, nella sua aspirazione a una «letteratura terziaria», «costruita su una serie di commenti a commenti, in una struttura a scatole cinesi» (Calasso), lascia che la sua immaginazione sia sollecitata da opere antiquarie, mediche, scientifiche, tecnologiche, da ipotesi cosmologiche, dalla cartografia, dall’osservazione della natura, dalle relazioni provenienti da mondi ignoti. Tutto, in fondo, serviva a disegnare un eccentrico autoritratto. E più che mai questa cifra, in cui aspirazione e ispirazione si connettono, è evidente in Religio Medici, un prezioso vademecum scritto presumibilmente nel 1635. Browne, non ancora trentenne,ma già provvisto di bello stile ampio, avvolgente, circolare, si fa buon seminatore di sapienza e saggezza. Leggendo nel gran libro della Natura, si propone infatti di scavare nel visibile per decifrare l’invisibile, e di risalire dal «mondo» ai «pinnacoli e ai più alti gradi della teologia». Lettere, immagini e figure, segnano un percorso che è, riprendendo le parole di San Paolo, un avvicinamento per enigmi. E la scrittura, forgiata nel laboratorio del deve sapiente, sempre più corrispondere alla bellezza e al mistero di quel che via via si svela. Così Religio Medici, viaggio “visionario” nella Fede e nella Carità, luogo eletto di contemplazione e riflessione, e mistico inno alla creazione intesa come opus alchymicum, ci fa davvero dono, per dirla con Borges, di una «bellezza dotta e compiuta». E a questo mirava Browne, «vates, grammaticus, vir bonus dicendi peritus».
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eventi
Partita ieri a Roma la tournée di Vasco Rossi Fenomenologia di un artista che è una specie di leader: alla sua scuola sono cresciuti Zucchero, Ligabue, Jovanotti e tanti altri
Partito Vaschista Italiano di Bruno Giurato a tournée è cominciata ieri sera a Roma, allo stadio Olimpico. Torna Vasco Rossi, tornano i bagni di folla, i pischelli con la bandana, il trum trum dei gruppi elettrogeni vicino ai chioschi.Tornano l’odore delle salsicce sul grill e le t-shirt in vendita con la scritta: «Dopo aver praticato l’amore protetto ricordatevi che dovete morire». Torna Vasco, e l’atmosfera dei suoi concerti anche stavolta non avrà a che vedere con gli stereotipi da sesso droga e rock’n’roll, pure assai praticati dal Nostro. Non tragga in inganno la confezione, il packaging, tutto l’armamentario provocatorio che girà intorno al signor Rossi. Quella è roba che serve a vendere i dischi, alla fine è l’aspetto più banale, sa già di vecchio, di importato, di provinciale. Il fascino più peculiare di Vasco non è da rocker. Vasco non è un emulo periferico di Mick Jagger, di David Bowie (con quella faccia da camionista, poi). Piuttosto è un cantautore. Un cantautore tutto italiano, anzi modenese, anzi montanaro di Zocca. Non provincia ma paese, la distinzione è determinate. Don Camillo e Peppone, altro che Rolling Stones. Questo ci suggerisce il fumo delle salsicce.
L
che ne Il mondo che vorrei, molte canzoni hanno guizzi d’arte. Si trovano strofe come: «E adesso che non c’è più brava gente e tutti son più furbi, più furbi di me». Solo a Vasco è concesso avere nostalgia della brava gente, e persino di Topo Gigio, e anche questo è spleen italiano, come «e adesso che non ho più i miei sogni che cosa me ne faccio della verità?». Nella conferenza stampa d’ini-
zio tour il signor Rossi citava Spinoza: «il potere ha bisogno della tristezza», il che lo colloca non tanto nell’ideologia libertaria del rock, che ormai si è trasformata in ricco pauperismo alla Bono Vox, quanto tra gli anarchici: fa venire in mente Gassman protagonista de “La grande guerra di Monicelli”, ovvero
Non è un rocker, ma un cantautore tutto nostrano, anzi modenese, anzi montanaro. Non provincia ma paese. Don Camillo e Peppone, altro che Rolling Stones
I concerti di Vasco sono feste dell’Unità di una volta - ora il Pd vuole abolire il nome dimostrando poca intelligenza in fatto di brand adattate alle dimensioni di un successo bomba. La forza di Vasco è tutta nella zucca dura del montanaro. Al contrario delle lodi che si sentono, l’ultimo disco a noi è sembrato un lavoro un po’ standard, per non dire stanco. I lussuosi strumentisti arruolati negli Usa sono anche troppo professionali. Gli urli chitarristici di uno Slash ormai cotto e stracotto commuovono meno degli assoli d’epoca di Maurizio Solieri, così melodici (il lettore provi a immaginare il finale di Albachiara su un tempo di valzer, calza perfettamente), ma an-
l’alpino Busacca Giovanni che andava in giro a domandare «Ma tu l’hai letto il Bakunin?». Italia e arcitalia, mica Woodstock.
E soprattutto poca ideologia. Sul lato della cultura o almeno del ritratto di un popolo attraverso le ballerine che è la sociologia pop - Vasco ha rappresentato la svolta. Amava e ama Guccini, De Gregori (di cui ha interpretato “Generale“) Mogol e Battisti (ha inciso “La compagnia”, brano scritto dalla celebre coppia e interpretato anche da Marisa Sannia) e De Andrè, naturalmente, ma ha contribuito a far dimenticare la lette-
rarietà, l’allure del “poeta” con la chitarrona in mano e troppi centoni di Dylan sulle labbra. Sul lato culturale, dunque, è stato Vasco il vero autore nazional popolare e giammai borghese-intellettuale. Senza Vasco Rossi non sarebbero pensabili Zucchero, Ligabue, Jovanotti e un’infinità d’altri. Ma anche alcuni scrittori: Enrico Brizzi, per dire il primo che viene in mente. Le atmosfere di certe canzoni come “Colpa d’Alfredo” sembrano bozzetti narrativi, con il ragazzetto che arriva docciato in discoteca e l’amico che gli ruba la ragazza. O come “Alibi”, cronaca di una rapina in un negozio di alimentari dove la signora sviene «e poi le cadde addosso tutto lo scaffale / dei regali di Natale/ Ale/ Male».
A farla breve: la paesanità convinta di Vasco e il suo individualismo pratico di Schopenhauer hanno fatto svaporare anni di intellettualismo. Troppo rozzo? Secondo alcuni sì. E verrebbe da appoggiare la critica ascoltando strofe come «tra la la la la la la / Fammi godere» che è stata ripresa a cantilena in tutti i derby d’Italia. E si potrebbero aggiungere versi non felicissimi come «ammi una mano senorita / e mettila qua / e vedrai che qual-
eventi
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La sua filosofia di vita attraverso i testi delle canzoni
Alla ricerca del senso perduto di Francesco Napoli d è proprio quello che non si/ Potrebbe che vorrei / Ed è sempre quello che non si / Farebbe che farei / Ed è come quello che non si / Direbbe che direi / Quando dico che non è così / Il mondo che vorrei», questa prima strofa di “Il mondo che vorrei”, che dà il titolo all’intero ultimo album di Vasco Rossi, è ormai entrato nelle case di centinaia di migliaia di italiani. Ora, chi ha presente anche vagamente i testi dell’opera omnia di Blasco resterà colpito dall’attrito tra un titolo volitivo e un contenuto fondato sulla negatività, negatività peraltro presente anche in altri luoghi di quest’ultima prova. Un esempio ancora: «E se qualche cosa ci può unire / È che tutti e due / Dobbiam morire». Si può anche aggiungere che da una rabdomantica campionatura lessicale dell’album sono proprio i termini segnati dal meno a prevalere. Appare quasi un Vasco Rossi incerto, indeciso su quale mondo possa rappresentare quello migliore o, quantomeno, quello voluto. Sono lontani i tempi del famosissimo “Vita spericolata”dove un po’ tutti in Italia sanno che tipo di vita e di mondo prospettava Vasco, come lui stesso autocommentava «io volevo dire qualcosa di importante. Ho affrontato il tema che in quel periodo affliggeva tutti: la paura di una vita piatta, tranquilla, priva di emozioni». Così nasce l’idea di un’esistenza via via «spericolata», «come quella dei film», «esagerata», «come Steve MacQueen», «che non è mai tardi» o «piena di guai», insomma una vita espressa per accumulazione caotica si direbbe con la retorica ma per il nostro le sue affermazioni non erano certo retoriche. Notare la sgrammaticatura di «una vita che non è mai tardi» che fa il pari con quella di una dozzina d’anni dopo in “Un senso” («anche se tante cose / un senso non ce l’ha»). E siamo agli inizi degli anni Ottanta e il “provokautore”, come ama autodefinirsi, ha uno slancio in controtendenza allo yuppismo in arrivo. Sullo stesso tono e sullo stesso tema un altro suo grande successo di quegli anni, quel “Vado al massimo” entrato nel gergo comune come espressione di forza liberatrice dagli schemi sociali preordinati. Anche qui il testo è intessuto sulla positività, come in queste due strofe «Voglio vedere come... va a finire / andando al massimo... senza frenare / voglio vedere se davvero poi si va a finir male! / Meglio rischiare! / che diventare / come quel tale / quel tale / che scrive sul giornale». La predilezione di questo periodo per Vasco è cercare di procedere per immagini in grado, con esiti più o meno felici, di far venir fuori quanto più intimamente avvertito. Quindi: stretta ridu-
«E
cosa succederà». Un amico ascoltata la canzone commentò: «se a cinquant’anni divento così mi sparo prima nelle ghiandole». Ma poi a cercare nella discografia si incontrano gemme di lirismo come “Canzone”, “Anima fragile”. Ancora: troppo maschilista il Vasco? Forse sì. Ma poi ci sono canzoni come “Jenny è pazza”, o strofe come: «Sally è già stata punita / per ogni sua distrazione o debolezza / per ogni candida carezza». E allora sì, allora va bene. Vasco lo vorremmo ascoltare (sempre a volume alto) in un posto più raccolto di uno stadio, ma sappiamo già come finirà. Finirà che compreremo il panino con salsiccia e berremo la birra calda, ammireremo le t-shirt in vendita, aspetteremo buoni buoni tra la folla l’inizio dello show del rocker. Cioè di un grande cantautore. Paesano.
Nella conferenza stampa d’inizio tour, Vasco Rossi citava Spinoza: «il potere ha bisogno della tristezza», il che lo colloca non tanto nell’ideologia libertaria del rock, che ormai si è trasformata in ricco pauperismo alla Bono Vox, quanto tra gli anarchici: fa venire in mente Gassman protagonista de “La grande guerra” di Monicelli, ovvero l’alpino Busacca Giovanni che andava in giro a domandare «Ma tu l’hai letto il Bakunin?»
zione della linea logica-razionale del discorso linguistico a favore di quella emotiva. E, d’altronde, anche solo ripensando a quel volere una vita «che non è mai tardi» s’intravede molto bene che a farla da padrone nella canzone di Blasco non è certo la linea della lingua comune italiana. Un altro esempio da un successo altrettanto imperituro, “Albachiara”. L’immagine davanti ai suoi occhi e nella sua memoria è quella che lui stesso descrive così: «Dalla finestra di casa mia, durante le lunghe e noiose ore di studio, vedevo una ragazzina scendere dalla corriera e “coi libri di scuola” avviarsi verso casa». Ora: senza trascrivere per intero uno dei testi più famosi della canzone italiana dall’incipit plurigettonato e vagamente stilnovistico («Respiri piano / per non far rumore / ti addormenti di sera / e ti risvegli col sole»), può bastare evidenziare in che modo Vasco Rossi abbia trasformato l’immagine di partenza del suo ricordo in una delle strofe - «E con la faccia pulita / cammini per strada / mangiando una mela / coi libri di scuola» procedendo cioè per elencazione delle emozioni suscitate dalla memoria, non proprio un joyciano “flusso di coscienza”ma quasi. Con la citata “Vado al massimo”, 1982, inizia il periodo forse più intenso di Vasco, dove passa dal racconto delle storie al racconto della sua storia. Non ha mai avuto un gran vocabolario tra le sue armi, preferisce come detto l’immagine, eppure riesce a sintetizzare ancor di più il campo degli usi linguistici con una predilezione per il parlato comune spinto all’ossessione ripetitiva («va bene, va bene, va bene, va bene, va bene, / anche se non mi vuoi bene / telefonami» o «in questo stupido, stupido hotel»), fino alla suadente iterazione che tanto è piaciuta agli italiani di “Un senso”, del 2004, in cui per ben sette volte si ripete «voglio trovare / un senso». Alla vita cerca Rossi di dar senso, e vivere diventa per lui il verbo da utilizzare con più frequenza in testi senza alcuna allegoria o analogia con la memoria, con pochi ma sicuri concetti da esprimere. Saranno cambiate le letture: «Quando ho scritto Albachiara leggevo solo giornalini,Topolino e Alan Ford, ne andavo pazzo. Oggi che leggo cose importanti, chissà cosa scriverò». Ma le letture contano fino a un certo punto, lo si voglia o menoVasco Rossi ha un’originalità che non ha pari nel rock italiano, come non ha pari in nessuno dei giovani narratori italiani più in auge, forse perché è autoironico e perché, in fondo in fondo, afferma con schietta consapevolezza: «Quello che ti do / stasera! / è questa canzone, / onesta e sincera».
Ha un’originalità che non ha pari nel rock italiano e in nessuno dei giovani narratori italiani oggi più in auge
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LA DOMANDA DEL GIORNO
Europei, siete d’accordo con le scelte di Donadoni? DONADONI HA PRESO OTTIME DECISIONI, L’UNICO DUBBIO PUÒ ESSERE CASSANO
IL CT POTEVA FARE DI MEGLIO, MA MONTOLIVO NON SI DEVE SENTIRE IL ”CALIMERO AZZURRO”
Tutto sommato mi sembra che il nostro Ct abbia convocato i 23 migliori giocatori o comunque quelli che si conoscono meglio avendo giocato, quasi tutti, le partite di qualificazione. L’unico dubbio può essere costituito da Cassano. Il suo talento è indiscutibile, ma anche il suo carattere: in negativo! Forse sotto l’aspetto del comportamento avrebbe fornito maggiori garanzie Inzaghi. Ma se Cassano ingrana e non ”scoccia”, saranno dolori per i nostri avversari e... soddisfazioni per noi.
E’Riccardo Montolivo il giocatore tagliato del gruppo azzurro di 24 giocatori che preparano a Coverciano l’Europeo 2008. La federcalcio ha consegnato all’Uefa, come previsto, la lista ufficiale dei 23 e del gruppo che si allena agli ordini del ct Roberto Donadoni resta fuori il centrocampista della Fiorentina. Credo che la scelta del Ct, alla fin fine, sia azzeccata e condivido il suo messaggio al giocatore escluso: «Riccardo Montolivo non si deve sentire il Calimero azzurro». Bene tutti gli altri, con annessi numeri di maglia: Antonio Cassano avrà la maglia numero 18 agli Europei. Nell’assegnazione dei numeri dei 23 azzurri, il 10 resta a Daniele De Rossi, Del Piero ha il suo amato 7, Borriello prende il 12, Chiellini il 4, Aquilani il 22, Quagliarella il 12, Ambrosini il 13, mentre il 17 va al terzo portiere De Sanctis. Cordialità.
Mauro Ricciardi - Venezia
A PARTE I ”PENSIONATI” MALDINI, TOTTI E INZAGHI ABBIAMO LA SQUADRA CAMPIONE DEL MONDO Sì, ok così. In fondo non ci sono novità di rilievo. A parte i pensionati Maldini, Totti e Inzaghi, peraltro degnamente sostituiti, si tratta della squadra Campione del mondo. Quello che stupisce è il fatto che a rappresentare la squadra che si è appena laureata Campione d’Italia ci sia solo Materazzi. E per forza! L’Inter non è una squadra italiana è l’Onu del calcio. Un po’ vergognoso è.
Luciano Spallanzani - Como
LA DOMANDA DI DOMANI
Come giudicate l’informazione in Italia circa il ”pericolo neofascista”? Rispondete con una email a lettere@liberal.it
CAMERA CON VISTA
L’Elqui Domos è uno dei soli 7 hotel astronomici al mondo e l’unico situato nell’emisfero australe, nella vallata di Elqui in Cile. E’ composto da 6 tende semisferiche a due piani, con salotto e servizi al piano terra e camera da letto con telescopio e vista sul cielo al piano superiore
Amelia Giuliani - Potenza
BENE DE ROSSI CON LA MAGLIA NUMERO 10, PERÒ SENZA TOTTI LA NAZIONALE NON MI PIACE A conti fatti, mi sembra piuttosto buona la rosa di giocatori italiani convocata dal Ct Donadoni a disputare gli Europei dei calcio 2008. Sono romana e accanita tifosa romanista, accolgo quindi con estremo piacere la notizia che la maglia numero 10 sia stata affidata al grandissimo Daniele De Rossi, a Roma meglio consciuto ormai come «capitan futuro». Certo è che un certo dispiacere rimane comunque nel non vedere ormai più Francesco Totti vestire la maglia azzurra della nazionale. Certo, Donadoni c’entra poco o niente, ovviamente. E oltre tutto «capitan presente» (giallorosso) è ancora infortunato, non avrebbe dunque potuto ugualmente giocare quanto meno le prime partite di questi Europei. Ma mi auguro fortemente che tutte le polemiche che dopo gli ultimi Mondiali di calcio hanno portato Totti a rinunciare alla maglia azzurra, non si verifichino nuovamente in questi Europei. Abbiamo dei grandi campioni in Italia. Lasciamoli lavorare con serenità.
L’ETERNO INESORABILE RITARDO In liberal si è scritto sui numerosi ministri nel governo di tradizioni socialiste. L’anomalia culturale italiana è proprio la debolezza della tradizione socialista: ora poi anche nello schieramento sbagliato. Risultato: i moderati non sono moderati e la sinistra non è socialista. L’origine? Il dramma della scissione di Livorno e quindi la presenza storica di un grande movimento politico comunista internazionalista. La tradizione comunista in Italia ha saputo attrarre, ospitare e far militare nelle sue file persone ottime, cosa che per molti anni l’ala moderata non è riuscita invece a fare. Ora è convinzione prevalente anche a sinistra che il comunismo non è una soluzione. Forse una speranza di giustizia, ma non una soluzione pratica. Il metodo marxista nel suo tentativo di rendere scientifico l’analisi delle cose sociali, è figlia di un ramo illuminista eccessivamente razionalista e produce risultati attendibili, ma più che altro sul piano della identificazione della malattia, cioè della diagnosi. Da qui a farne lo strumento per la creazione della Città del
C’È DEL PATETICO NELL’UNITÀ Permettetemi di dare un consiglio ai lettori che navigano in internet. Il sito www.unita.it dà la possibilità di leggere gratis la prima pagina del quotidiano dell’indomani: basta andarvi dopo la mezzanotte. Ogni sera prima di addormentarmi faccio una capatina: credetemi, è uno spasso! Dagli editoriali di Furio Colombo e del direttore Padellaro, dalla rubrica in fondo pagina di Maria Novella Oppo all’articolo di Bruno Gravagnuolo è un susseguirsi di ”alto” giornalismo di sinistra. Spero tanto che Soru abbia le forze economiche e la volontà per ”tenere in piedi” questa gloriosa testata: per il centrodestra è una manna! Continuino pure a scrivere così, saremo al governo per altri venti
dai circoli liberal Gaia Miani - Roma
Sole perfetta, la via è il dogma che la ragione umana è unica fonte di verità assoluta. Qualsiasi ideologia è di per sé violenta. L’ideologia in quanto tale occulta con dogmi e falsità i suoi buchi neri e le cose che non quadrano e non possono funzionare. Aver avuto questa cultura egemone a sinistra ha pesato e pesa sull’evoluzione della società e non può non aver creato problemi. Così con l’idea che piccoli partiti abbiano in passato reso impossibile la governabilità del Paese si occulta ancora una volta questo elemento di arretratezza. Anche adesso, se l’ex Pci avesse voluto trattare la questione Berlusconi come sta facendo il nuovo corso di Veltroni, non avremmo perso 15 anni di mancata modernizzazione e forse Berlusconi stesso non avrebbe avuto un senso. Dal contrasto tra una classe dirigente preparata ma asservita a una tradizione politica culturale inadeguata, deriva la paura che la verità significhi il crollo di un sistema di vite individuali di migliaia di persone. Con la pax Veltroberlusconiana ora è ancor più evidente il fatto che non si sa cos’è il Pd. Siamo fermi al 1989 nel periodo in cui Oc-
anni! Ormai «c’è del patetico nell’Unità», per parafrasare William Shakespeare.
L. C. Guerrieri - Teramo
LICENZIAMENTI ALL’ESPRESSO Pare che siano un centinaio i licenziamenti del gruppo L’Espresso. E’ la castrofe dei catastrofisti. Una notizia spaesante e scardinante. Uno scandalo, oseremmo dire se la nostra sinistra non avesse cancellato in noi ogni stupore. La sinistra si svela per quello che è. Essa non si trova a suo agio, in questo mondo, solo a parole. Il denaro non esula affatto dai suoi orizzonti. Anzi, quando si tratta di costi e ricavi, essa abbandona i sommi principi e va sul concreto. Con modi spicci e da capitalisti.
Pierpaolo Vezzani
chetto tentava di salvare il Pci dalle conseguenze del crollo del muro di Berlino. Ricordate la “Cosa” quando Moretti chiedeva a D’Alema «di’ qualcosa di sinistra», invece che «da socialista»? Congresso straordinario del Pci di Roma novembre ’89: «Non si tratta di dire che abbiamo sbagliato e quindi sul Psi… è un vecchio dibattito quello che cerca di capire se questa proposta (il nuovo partito ndr) è pro o contro il Psi: è qualcosa di più. Leri Pegolo CIRCOLO LIBERAL PORDENONE
APPUNTAMENTI ROMA - VENERDÌ 6 GIUGNO 2008 Ore 11 a Palazzo Ferrajoli (piazza Colonna) Riunione nazionale dei presidenti e dei coordinatori regionali dei Circoli liberal. ATTIVAZIONE Il coordinamento regionale della Campania ha attivato il numero verde per aderire ai circoli liberal del territorio: 800.91.05.29
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog Perché devo respingere la felicità? Mi hai pregata di scrivere brevemente, ma ho molte cose da dire. Mi hai pregata di pensare che l’affetto che nutro per te è dettato da un capriccio. Non può essere, visto che nell’ultimo anno hai costituito l’oggetto su cui mi trovavo a meditare in ogni momento solitario. Non mi aspetto che tu mi ami, non merito il tuo amore. Sento che sei superiore, eppure con mia sorpresa hai lasciato trapelare passioni che credevo non vivessero più nel tuo petto. Perché dovrei sperimentare con dolore la mancanza di felicità? Perché dovrei respingerla mentre mi viene offerta? Forse ti parrò imprudente, immorale; le mie opinioni odiose, le mie idee depravate; ma almeno una cosa il tempo ti dimostrerà, che il mio amore è delicato e devoto, che sono incapace di qualsiasi sentimento si avvicini alla vendetta o alla malevolenza; i tuoi desideri futuri saranno i miei, e qualsiasi cosa tu dica o faccia, non porrò domande. Claire Clairmont a Lord Byron
RAPPORTO ISTAT, UN GRIDO DI DISPERAZIONE Ciò che emerge dal Rapporto annuale Istat è un vero e proprio grido di disperazione. Un quadro allarmante che coinvolge tutti gli italiani, sia come singoli cittadini in cerca di lavoro, sia come aggregati di nuclei familiari. In particolare desta sconforto il primato, tutto italiano, che vede i nostri giovani affidarsi prevalentemente alle “raccomandazioni” per ottenere un posto di lavoro, e a cui la politica ha la responsabilità di offrire risposte puntuali. È, infatti, necessario combattere questa mentalità della “scorciatoia” e intervenire con provvedimenti tali da offrire un’alternativa concreta soprattutto alle giovani generazioni. Occorre domandarsi, ad esempio, se non vi sia soprattutto la sfiducia negli organi preposti a operare la mediazione tra domanda e offerta di lavoro – nello specifico i centri per l’impiego – alla base della predilezione di canali alternativi, più o meno legittimi, nella ricerca di occupazione. Per questo motivo occorre un ripensamento di tali strutture, e l’applicazione di quelle parti della Legge Biagi che prevedono la possibilità di svolgere il delicato
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)
ACCADDE OGGI
30 maggio 1814 Viene firmato il primo trattato di Parigi, con il quale i confini francesi vengono riportati a quelli del 1792. Napoleone Bonaparte viene esiliato all’Isola d’Elba lo stesso giorno 1848 Battaglia di Goito: grande ma non sfruttata vittoria dell’esercito sardo sugli Austriaci del feldmaresciallo Radetzky 1879 Il Gilmores Garden di New York viene ribattezzato Madison Square Garden da William Vanderbilt ed aperto al pubblico 1911 Sul Circuito di Indianapolis, la prima 500 miglia di Indianapolis finisce con la vittoria di Ray Harroun 1958 I corpi di diversi soldati non identificati della seconda guerra mondiale e della Guerra di Corea vengono seppelliti nella Tomba del milite ignoto del Cimitero Nazionale di Arlington 1972 I membri dell’Armata Rossa giapponese compiono il Massacro dell’aeroporto di Lod 1982 La Spagna diventa il sedicesimo membro della Nato
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,
compito di intermediazione nel mercato del lavoro anche a soggetti diversi dai centri per l’impiego, primo fra tutti l’Università. A monte di tutto, però, si impone la necessità, sempre più impellente, di dare vita in Italia ad una genuina rivoluzione del merito. Solo così, si potranno liberare le energie positive delle generazioni che sognano una vita normale. Il governo dovrà occuparsi prioritariamente di questo: dare spazio e speranza alle nostre genialità non emerse.
Marco Valensise - Milano
LA FAMIGLIA SENSI STIA LONTANA DA SOROS La Roma deve stare molto attenta a Soros. La storia insegna che il magnate statunitense prima specula, poi scappa. A tutti i tifosi giallorossi come me vorrei dire questo: siamo proprio certi di volere un Soros che ci fa vincere magari tutto ciò che si può vincere per i prossimi tre, quattro anni al massimo, e poi rischiare un collasso irrefrenabile? Per favore, non dimentichiamoci cosa accadde alla Fiorentina in simili circostanze.
Susy Bonelli - Roma
PUNTURE Bondi ha detto che aiuterà Asor Rosa per la sua Monticchiello. In cambio gli chiederà di citare le sue poesie nella Storia della letteratura italiana.
Giancristiano Desiderio
“
Puoi svegliarti anche molto presto all’alba, ma il tuo destino si è svegliato mezz’ora prima di te DETTO AFRICANO
”
Giancristiano Desiderio, Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
il meglio di LAMENTELE E RICETTE Un comandante russo si lamenta che la popolazione cecena non gli dà una mano nel reprimere la guerriglia, anzi continua più o meno esplicitamente a schierarsi dalla parte dei ribelli. Ecco, come al solito. Erano dei montanari ignoranti e primitivi quando gli zar gli hanno costruito scuole ed ospedali e pozzi di petrolio, Stalin poi gli ha fatto vivere le meraviglie della collettivizzazione (e delle deportazioni), mentre ora Yeltsin e Putin gli hanno regalato la tanto agognata ”stabilità” e ”ri-costruzione”. E guarda un po’ loro come continuano ad essere ingrati... La ricetta di pace per la Cecenia presentata a Medvedev da Ivar Amundsen, Presidente del Chechnya Peace Forum: tutto giusto e sacrosanto. Ma aihmé... anche lettera morta. Lo stesso organizza una conferenza con tutte le figure di spicco della scena internazionale della resistenza cecena e annessi e connessi, con discorso di Akhmed Zakayev. Sempre lo stesso partecipa al meeting di gabinetto del deposto, semi-esiliato, ”governo ombra” ceceno a Londra. Come abbiamo sempre detto, le dittature tenderanno ad allinearsi sempre con altre dittature contro il mondo libero, indipendentemente dagli interessi economici coinvolti. Sempre più deluse le speranze di chi profetizzava una Russia che aveva solo ”qualche difficoltà nella sua marcia verso la democrazia” ma che aveva solo da guadagnarci nello schierarsi con l’occidente. ”Un nuovo asse Mosca-Pechino. Come ai bei tempi in cui Mao e Stalin filavano d’amore e d’accordo,
Russia e Cina fanno fronte comune contro l’America”. Altro che l’asse Parigi-Mosca-Berlino.... chi se lo ricorda più? Questo è un ”asse” ben più realistico e probabile. Purtroppo. Intanto una corte decide di fare chiudere anche l’ultimo sito web d’opposizione in Inguscezia. Si chiama ”normalizzazione”...
CeceniaSOS CeceniaSOS.ilcannocchiale.it
IL TALENTO SPRECATO DI MR. SORRENTINO Paolo Sorrentino qualche hanno fa ha diretto uno dei più bei film italiani degli ultimi decenni, Le conseguenze dell’amore. Ora ha fatto il Divo, che ho appena visto. Girato benissimo, pieno di idee, bello. Peccato che abbia sprecato il suo talento sulla storia di Giulio Andreotti, con una sceneggiatura che non è da film, ma da editoriale di Giuseppe D’Avanzo (e, infatti, D’Avanzo ha collaborato alla sceneggiatura). Ma come si fa a fare un film su Andreotti? Sorrentino ha provato, come sa fare lui, a caricaturizzare i personaggi, ma tranne che con Cirino Pomicino non l’ha fatto fino in fondo. E alla fine è venuto fuori un docu-film di denuncia dove Andreotti è responsabile di stragi, omicidi, suicidi, qualsiasi cosa. Sorrentino fa solo due concessioni politicamente scorrette: Giancarlo Caselli che si spruzza due volte la lacca sui capelli e Andreotti che ricorda a un moralistissimo Eugenio Scalfari che, tramite Ciarrapico, gli ha salvato Repubblica. Il resto è inconsapevolmente ridicolo.
Camillo www.camilloblog.it
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il nuovo bimestrale di geostrategia in edicola il secondo numero del 2008 140 pagine per capire il pianeta • La sfida di Hezbollah e il futuro del Libano • Perché l’Artico fa gola a molti (ma è di pochi) • Il rinascimento di Clausewitz minuto per minuto Mario Arpino, Alain Bauer, Raphael Glucksmann, Virgilio Ilari, Carlo Jean, Andrea Nativi, Michele Nones, Emanuele Ottolenghi, Daniel Pipes, Stefano Silvestri, Davide Urso