QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA
Il sentimento religioso è un dato “obiettivo” della natura umana
e di h c a n o cr
La svolta strategica dei Nuovi Atei
di Ferdinando Adornato
9 771827 881004
ISSN 1827-8817 80701
L’OPPOSIZIONE DI SUA MAESTÀ Le norme le scrive Berlusconi. Ma il clima giusto per imporle glielo crea lui, Antonio Di Pietro: perché l’antiberlusconismo radicale è da sempre il più formidabile alibi in mano al Cavaliere. Tanto che la sua vera sfida è al Pd…
di Michael Novak er quello che posso constatare, i Nuovi Atei hanno lentamente effettuato una ritirata strategica. Molti sembrano ammettere che non c’è, e non ci potrà mai essere, una prova inconfutabile a sostegno dell’ateismo, ed anche che, a prescindere da ciò che i loro amici scettici scrivono, credere in Dio non è solo una questione inerente i credenti, perché il sentimento religioso sembra essere radicato nella stessa natura umana, ed ha un ruolo positivo nel processo evolutivo. Per questo, la sempre più frequente ritrattazione dell’antica linea di difesa degli atei appare una modesta apertura mentale; quando gli si chiede se esista un Dio, la loro nuova risposta è perfetta per un adesivo da paraurti: «Io non lo so, e neanche tu», ma questo è un errore che si fonda sull’idea che Dio si trovi o meno in qualche luogo «là fuori», in qualche esistenza oggettivamente comprensibile. I Nuovi Agnostici sostengono che l’onere della prova spetti a coloro che ritengono ci sia una presenza divina oggettiva, ma la prova dell’esistenza di Dio non va cercata «al di fuori», non sta in mezzo agli altri oggetti dell’universo classificabili e sensibili. La questione riguardante Dio è essenzialmente una questione inerente la nostra personale identità.
P
Il salvapremier alle pagine 2 e 3
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Il declino del calcio italiano
Alitalia: i costi per lo Stato
Le priorità del semestre francese
E si comincia a rimpiangere Air France
Immigrazione e Mediterraneo: l’Europa di Sarkozy
di Francesco Pacifico
di Enrico Singer
di Francesco Rositano
di Italo Cucci
Al Tesoro parlano di «valorizzazione di alcuni asset, che potrebbero anche non entrare nel perimetro della nuova Alitalia». A IntesaSanpaolo dicono che è un’ipotesi come tante.
Al via il semestre francese di presidenza europea. E Nicolas Sarkozy punta su due delle priorità che illustrerà stasera: il Patto europeo sull’immigrazione e l’Unione dei Paesi del Mediterraneo.
È sbagliato spostare i malati da un inferno per trasferirli in un altro inferno. Così Ferdinando Adornato ha presentato il Convegno dal titolo “Legge 180: prospettive di riforma”.
Quando il calcio conosce una sconfitta, le diagnosi sono mille ma il male resta oscuro. Il nostro è stato travolto da una serie di scandali. I ricavi si sono ridotti e gli spettatori sono calati vistosamente.
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nell’inserto NordSud a pagina 12
Un convegno di liberal per la riforma della 180
È ora di cambiare la Legge Basaglia
MARTEDÌ 1 LUGLIO 2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •
NUMERO
122 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
Il campionato più povero del mondo
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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prima pagina L’antiberlusconismo radicale è un alibi per il Cavaliere ma una grana per Veltroni
La vera posta in gioco è la guida dell’opposizione di Riccardo Paradisi in piazza del Pantheon a Roma, quella organizzata ”contro le leggi canaglia” del governo in materia di giustizia dal direttore di Micromega Paolo Flores D’Arcais, dal senatore dell’Idv Pancho Pardi e da Furio Colombo, ex direttore dell’Unità oggi deputato del Pd.
Nervosismo e imbarazzo
ROMA. Valeva la pena consumare una rottura storica con la sinistra radicale, in nome di una nuova politica fondata sulla proposta e non sulla contrapposizione, sul dialogo e non sull’odio per poi farsi crescere in seno il giustizialismo populista di Antonio Di Pietro? A interrogarsi su questo dilemma è in queste ore gran parte della classe dirigente del partito democratico, ostaggio involontario dell’abile estremismo di Antonio Di pietro. Che guascone nè si pente nè si scusa di quel “magnaccia”rivolto a Berlusconi per la vicenda delle segnalazioni di attrici e soubrette ai vertici Rai. Né ci pensa due volte o si fa scrupoli di buon vicinato Di Pietro a egemonizzare la manifestazione del’8 luglio
dunque nel partito di Veltroni anche perchè da quando la metrica del discorso politico è tornata ad essere scandita dall’ossessione antiberlusconiana il cavaliere ha cominciato a salire nei sondaggi e il Pd a flettere. Paurosamente. E quel che è peggio, per il Pd, è che a guadagnare dalla sua emorragia è proprio Antonio Di Pietro. I numeri del sondaggio, raccolto il 25 giugno, day after dell’approvazione in Senato della norma ”salva premier”, spiegano chiaramente come stanno le cose: in pochi mesi il Pd ha perso 5 punti percentuali (dal 33,1 del 13 aprile è calato al 28 per cento di oggi; l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro ne ha guadagnati 3 (dal 4,4 per cento al 7,4), la Sinistra recupera almeno 1 punto, e intanto il Pdl avanza di oltre 7 punti: dal 37,4 per cento al 44,6. E però che fare? Come non appiattirsi sul versante dipietrista, mantenere
un linguaggio consono, restare opposizione costruttiva e responsabile senza farsi scavalcare dal populismo dell’ex magistrato molisano? Il leader dell’Udc Pierferdinando Casini ieri sul Corriere della Sera consigliava al Pd di svincolarsi dall’abbraccio vampirico con Di Pietro ponendola come condizione per una possibile intesa tattica tra centro e centrosinistra. La tentazione di tagliare i ponti con Di Pietro d’altra parte nel Pd serpeggia da settimane. La dirigenza del partito è esasperata dalla condotta dell’ex magistrato. Soprattutto Veltroni, dicono fonti vicine alla sua cerchia più prossima, non ha mai dimenticato che l’Idv ha peccato di lealtà con il Pd, non mantenendo l’impegno preso prima delle elezioni di far confluire l’Italia dei Valori in un gruppo unico parlamentare col Pd. Invece Di Pietro non solo ha mantenuto i gruppi autonomi e separati ma non ha fatto tarscorrere un solo giorno senza incalzare il Pd e attirare su di sé l’occhio di bue mediatico con esternazioni
durissime da antiberlusconismo underground e soprattutto infliggendo stilettate continue a Veltroni, accusato d’essere troppo morbido e accondiscendente verso il Caimano.
Se dunque il divorzio tra Pd e Di Pietro non è all’ordine del giorno è però quella del chiarimento di conti un’opzione possibile e probabile del prossimo autunno come rivelano indiscrezioni interne al Pd di queste ore, il cui confine con lo sfogo è certamente labile vista la
tensione in corso. Certo però il livello di esasperazione è tale che la ruggine con Di Pietro potrebbe tradursi anche in una decisione politica da parte del Pd. D’altra parte «questo moto pendolare tra il ”confronto costruttivo” col governo e la rincorsa delle fughe in avanti di Di Pietro, dice a liberal Paola Binetti senatrice Pd, costituisce per noi un rischio di stabilità e di credibilità politica molto alto. Anche se la tenuta del Pd la qualità del suo dibattito interno, impediranno ogni deriva
Quando Fini e Alemanno volevano allearsi con l’ex Pm L’estate del 2007 stava lasciando il passo all’autunno. Ancora riecheggiava tra le cronache dei giornali l’eco dei fatti di Assisi, (la contestazione del popolo di An dei confronti di Fabrizio Cicchitto), quando il “pensiero stupendo” sbocciò tra Gianni Alemanno e Antonio Di Pietro. «Ma perché Tonino non è un peronista di destra secondo voi?», spiegava il futuro sindaco di Roma ai suoi. «Ma perché Gianni non ha il cuore sociale a sinistra?», si giustificava il leader dell’Italia dei Valori con i suoi compagni di partito. In quei giorni Gianfranco Fini, in funzione anti-cavaliere, avrebbe fondato un partito pure con Marco Travaglio, se ci fosse stata la possibilità. L’annuncio berlusconiano dal predellino in piazza San Babila, lo aveva spiazzato completamente. Dunque, si riteneva scontata la benedizione del capo di An all’intesa con Di Pietro e l’ipotesi andava verificata con attenzione. Dopo aver celebra-
to in pompa magna una conferenza stampa di presentazione della proposta di legge congiunta contro la casta, si aprì in gran segreto il tavolo per valutare la prospettiva di un accordo politico tra An e Idv. Non solo Alemanno e Di Pietro si confrontarono su questa ipotesi suggestiva, ma anche altri esponenti dei due partiti iniziarono a parlottarsi. C’è da dire che l’interesse era particolarmente forte nel partito dipietrista allora sempre più distante dai propri compagni di coalizione. D’altra parte, anche per An sarebbe stato un ritorno alle origini, al tifo sfrenato per Mani Pulite, per quel giudice che parlava come uno del popolo e metteva alla berlina “il sistema”, come un eroe d’altri tempi. Finì come tutti sappiamo, il precipitare del governo Prodi travolse tutto e tutti. E così, per l’ennesima volta, Di Pietro e la destra italiana si guardarono con gli occhi velati di malinconia e si dissero: «Arrivederci».
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Per l’ex segretario del Prc, Di Pietro sta cavalcando gli sbagli del Pd
«Ma è colpa di Walter se comanda Tonino» colloquio con Franco Giordano di Francesco Rositano insufficiente, e per certi versi persino falsificante, organizzare tutta l’opposizione sul cosiddetto ritorno del Caimano. Io credo che al Pd manca una bussola strategica, manca un’alternativa di società al governo Berlusconi; manca un impianto di politica sociale in grado di avanzare i soggetti sociali in una battaglia di vere proposte». Così Franco Giordano, ex segretario di Rifondazione comunista, giudica la strategia di Antonio Di Pietro. E lancia l’allarme: «se si continua in questo modo le destre avranno il via libera». Onorevole, non è che alla fine Di Pitero si sta sostituendo alla sinistra radicale? Qui purtroppo facciamo i conti con la drammaticità del voto, che ha tolto rappresentanza in Aula al conflitto sociale: è stata espunta dal Parlamento italiano questa istanza di rappresentanza ai conflitti che ci sono nella società. Naturalmente l’opposizione che fa Di Pietro è – ad essere generosi – parziale. Perché è un’opposizione radicata esclusivamente contro i privilegi di Berlusconi. Ma non è giocata contro le politiche di Berlusconi. E in particolare contro le politiche sul terreno democratico e sul terreno sociale. Cosa intende? Mi riferisco alle politiche contro i migranti e contro i rom, che stanno facendo balzare agli onori della cronaca questo paese per un ritorno al razzismo. In particolare contro i rom si stanno mettendo in moto veri e propri pogrom. Il popolo europeo, invece, dovrebbe essere debitrice ai rom perché questo popolo è stato trucidati, insieme agli ebrei, dai nazisti. E questo è francamente inaccettabile. Quindi, per lei, Di Pietro sta cavalcano l’antiberlusconismo senza fare una vera e propria alternativa di governo? Esattamente. Di Pietro non ha presentato nessuna alternativa sul terreno politico sociale e su quello democratico. Le destre stanno facendo un’operazione netta: stanno costruendo una politica sociale restrittiva. Mettere all’1,7% l’inflazione, mentre oggi i dati dicono che siamo al 3,6% significa decurtare salari e pensioni in maniera impressionante fino a 2.000 euro l’anno. Contemporaneamente de-
«È
Per Binetti la manifestazione di D’Arcais punta a scalzare Veltroni per lanciare l’ex Pm. Furio Colombo: «Il Pd vada in piazza» antipolitica, mantenendo il partito in una rotta che se da un lato non farà sconti a Berlusconi dall’altro non cederà al populismo di Di Pietro». Al netto dell’alta qualità politica del dibattito interno non si capisce però ancora che cosa voglia fare da grande il Partito democratico. Riaprire il dialogo con la sinistra radicale che dall’assemblea programmatica dello scorso week end è tornata a proporsi come unico interlocutore possibile del Pd? Oppure consolidare l’alleanza tattica con Di Pietro, cercando magari di non lasciare vuoti gli spazi che l’Idv tende ad occupare? Oppure e infine trovare un’intesa con il centro e l’Udc? Un opzione naturalmente esclude l’altra e di fronte a una strada che si divide in tre direzioni parallele e non convergenti il ”non solo ma anche “veltroniano non funzionerebbe. Dipendesse da Paola Binetti l’opzione da escludere subito sarebbe quella dell’intesa con Di pietro: «La manifestazione di sabato prossimo, dice ancora la senatrice, prima di essere contro Berlu-
sconi è contro Veltroni: è una sfida aperta alla sua leadership, una candidatura di Di Pietro alla guida dell’opposizione». Uno scatto da centometrista quello di Di Pietro che poco sembra curarsi del fatto che «Quella del Pd deve strutturarsi come un’opposizione di lungo periodo se, come dice il veltroniano Stefano Ceccanti (senatore Pd), vuole essere un’opposizione che morda invece di abbaiare. A noi - spiega Ceccanti - non serve galvanizzare i nostri o fare manutenzione del consenso ce abbiamo scendendo in piazza con Di Pietro. Dobbiamo convincere quegli elettori che nel nordest che hanno votato centrodestra che li rappresentiamo meglio noi di Berlusconi». Furio Colombo, deputato Pd e organizzatore della manifestazione di sabato prossimo, dice che invece è un errore non esserci in piazza: «Lo sbaglio più grave è quello di non rispondere a Berlusconi. Tacere mentre lui smonta la democrazia. Io spero che del Pd vengano in tanti. Sono ottimista».
tassare gli straordinari significa modificare, di fatto, gli orari di impegno professionale: si lavora di più e si guadagna di meno. Ecco il gioco pericoloso delle destre: costruiscono un consenso in chiave securitaria, in chiave razzistica, per poter seguire con determinazione (e senza opposizione drammaticamente) sul terreno della politica economica-sociale in senso Confindustriale. Il Pd, purtroppo, non è capace di contrastarli sul piano delle politiche della paura ed antirazzistiche in maniera seria e determinata. E non ha adeguate proposte alternative su quello economico-sociale. E Di Pietro? Lui non ne parla proprio della politica economico-sociale. E al contrario sembra essere indifferente sul piano delle politiche securitarie. L’unica cosa che fa scattare Di Pietro è un problema che pure esiste, ma va contestualizzato: quello dei privilegi di Berlusconi. È troppo semplice demonizzare e cavalcare ancora una volta Berlusconi senza dire nulla sulle sue politiche. È il deficit strategico del Pd che sta facendo ingigantire il ruolo di Di Pitero. E un tempo stavo con lui, tra l’altro. Però autocriticamente bisogna gettare la sveglia anche a sinistra. Ma cosa vuole ottenere quindi l’ex pm? Di Pietro è come chi ha trovato una vena aurifera. La vena aurifera è data dalle difficoltà della sinistra a cui io penso bisogna dare rapidamente una sveglia e dal deficit strategico del Pd, che è diviso in tante culture senza mettere a tema il vero problema dei democratici: una analisi serrata sulle ragioni della sconfitta e l’idea di un’ipotesi alternativa a Berlusconi. Culture che esplodono perché non c’è un collante, non c’è un disegno strategico di prospettiva politica e di alternativa di società. Come pensate di reagire a sinistra? La mozione di Vendola all’ultimo Congresso non propone un’idea di ritorno al passato. Ma la ricostruzione di un’area. Dobbiamo costruire la saldezza dei Rifondazione, costruendo una saldezza di tutta la sinistra. E andare oltre gli stereotipi, oltre gli steccati ideologici, oltre i perimetri. C’è tanta gente che si sente orfana di una sinistra che sia in grado di disegnare un modello alternativo di società.
Di Pietro ha concentrato tutta la sua opposizione sul cosiddetto ritorno del Caimano. Ma non ha detto una parola in materia di politica sociale ed economica
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Al convegno promosso dalla Fondazione Liberal e da Psichiatria Libera, nasce un comitato politico trasversale per la modifica della Basaglia
«Ora rivediamo la 180» di Francesco Rositano
sbagliato spostare i malati da un inferno per trasferirli in un altro inferno. Così Ferdinando Adornato, presidente della Fondazione Liberal, ha presentato il Convegno dal titolo “Legge 180: prospettive di riforma. È La salute mentale al tempo della società liquida». E ha proposto la costituzione di un comitato interpartitico che lavori in sintonia con le associazioni per porre fine, ha affermato il deputato Udc, al dramma di molte famiglie, «che abbiamo il dovere di proteggere». Che quella della modifica della cosiddetta legge Basaglia sia una priorità l’ha sostenuto anche Carlo Ciccioli, deputato Pdl e vice-presidente della Commissione Affari costituzionali di Montecitorio, che ha affermato: «Se ci fosse bisogno potremmo procedere anche attraverso un decreto legge». Tradotto: modificare questa normativa che, a suo avviso «deturpa la dignità del paziente e della famiglia per proteggere eccessivamente la malattia» è così urgente che si potrebbe anche scegliere di intraprendere una via più rapida di quella ordinaria del confronto parlamentare. Insomma possiede i requisiti di «necessità e urgenza» richiesti per i decreti legge. E la 180, secondo il presidente della Fondazione Liberal, è ultimamente il frutto di un cinismo «che ha appiattito l’irripetibilità degli esseri umani, attraverso una normativa che non fa altro che appiattire le differenze e le diversità che ci sono tra le persone in una grande omologazione».
Ma, come ha sostenuto anche il professor Tonino Cantelmi, medico specialista e presidente di Psichiartria Libera, «non si tratta di ritornare ai manicomi». E ha continuato: «Abbiamo bisogno di dotarci di una struttura organizzativa che permetta di far emergere le eccellenze che l’Italia possiede in campo psichiatrico: sia dal punto di vista del personale specializzato che dal punto di vista dell’avanzamento della ricerca farmacologia». E il primo modo per andare in questa direzione, secondo Cantelmi, è uscire dalla logica della prevenzione territoriale. A questo proposito ha raccontato la storia drammatica di un suo paziente. «Aveva manie di persecuzione. I suoi familiari avevano denunciato la gravità della sua situazione e chiesto il ricovero. Ma niente. Nelle strutture deputate al ricovero non c’era posto. E il ragazzo è ricorso al gesto estremo dell’impiccagione. È entrato in coma, poi si è ripreso. Ed anche allora ho dovuto insistere per farlo ricoverare. È possibile una cosa del genere? Insomma, secondo Cantelmi, fino a quando non si porrà fine a questo deficit di strutture, le eccellenze italiane saranno sacrificate. A suo avviso bisogna agire in fretta: «Co-
«È
Da questa situaz ione però secondo Adornato si può uscire attraverso due strade: la prima è squarciare la cortina di silenzio che «ha tolto la voce ai malati e alle loro famiglie»; la seconda è invece creare una collaborazione reale tra stato e società civile, dando più spazio alle comunità. «La comunità – ha affermato – avverte il bisogno di sentirsi Stato. E lo Stato deve avvertire la necessità di farsi parte della comunità. Per troppo tempo le famiglie hanno visto scaricare su di essi questi problemi. E le strutture, che comunque avevano il dovere di farvi fronte, si sono trasformate in baronie. Ci vuole coraggio per far fronte a questa ‘strage nascosta’ che miete più vittime di altre situazioni che sono sotto gli occhi di tutti e vengono raccontate sui giornali». Per ora la strada di un rigido statalismo, secondo il deputato Udc, non funziona.
Parla la presidente dell’Arap
«Non si tratta di riaprire i manicomi. Ma lo Stato deve cambiare strada» colloquio con Luisa Zardini di Guglielmo Malagodi
me sosteneva Zygmut Bauman, in una società liquida, caratterizzata dal ghiaccio sottile bisogna correre veloce». D’altra parte questi disturbi non vanno sottovalutati. «L’8% degli uomini e il 15% delle donne in Italia soffrono di queste patologie. Eppure non ci sono i centri adeguati a curarle». Per Paola Binetti,deputata del Pd e membro della Commissione Affari So-
ROMA. «Ecco cosa non avevano capito i sostenitori della legge Basaglia: le malattie mentali non sono malattie sociali. Anche il cervello si può ammalare. La soluzione non è certo quella di tornare ai manicomi, ma trovare delle strutture adatte per sostenere i familiari di questi pazienti che, altrimenti, sono costretti a fronteggiare un vero inferno. La prima soluzione sarebbe aumentare i fondi da destinare a queste patologie. Perché l’Inghilterra destina l’11% dei fondi destinati alla Sanità alle malattie psichiatriche e l’Italia no? E poi c’è un problema culturale: bisogna accettare che anche il cervello può ammalarsi, indipendentemente dallo strato sociale d’appartenenza». Con queste parole la dottoressa Maria Luisa Zardini, presidente dell’Arap (Associazione per la Riforma dell’assistenza psichiatrica) si rivolge alla politica, chiedendo la modifica della legge 180. Dottoressa, perché c’è bisogno di rivedere l’attuale normativa? La 180 ha chiuso i manicomi, man-
dando i malati a casa con le famiglie. Senza istituire dei centri adatti alle persone affetti da questi disturbi. In realtà, esistono i centri di salute mentale, ma sono delle strutture dove si somministrano trattamenti che durano pochi giorni, e poi si rimanda il malato a casa. Ed è sbagliatissimo: pensiamo ad esempio ad un paziente affetto da schizofrenia bipolare. Come si può pensare che la famiglia possa assistere una persona così gravemente malata? Può forse sostituirsi all’assistente sociale, alla famiglia, allo psicologo, allo psichiatra? No, evidentemente. Noi dell’associazione non facciamo che altro che ricevere telefonate, pianti al telefono. Un po’ di tempo fa ci ha chiamato una donna. Non sapeva più cosa fare. Anche perché spesso non capiscono di essere malati. Ed è questa la differenza dalle altre patologie. Non capisce di essere schizofrenico e quindi non chiede aiuto. Pertanto ci pare assurdo che a molte famiglie che si sono rivolte ad un centro di salute mentale è stato risposto che «se il paziente
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Integrare le offerte pubbliche con le proposte dei privati
Un Patto per la salute mentale di Tonino Cantelmi ul dramma della malattia mentale i riflettori si accendono periodicamente, quando l’opinione pubblica è scossa da episodi di cronaca che evidenziano in modo impietoso le crepe dell’assistenza psichiatrica. Ma dopo l’indignazione e la protesta si spengono inesorabilmente, lasciando ancora più soli pazienti e familiari. Tuttavia se, a riflettori spenti, proviamo a dare un’occhiata alla realtà di una grande città come Roma, per esempio, scopriamo aspetti altrettanto inquietanti e dolorosi. Alcuni psichiatri hanno segnalato che per intervenire e procedere ad un ricovero psichiatrico in trattamento sanitario obbligatorio (cioè in situazioni di grave urgenza) nella città di Roma, a volte, si impiegano anche 10 ore, durante le quali il paziente è spesso in balia di se stesso. E segnalano anche che durante la notte e nei giorni festivi il pronto intervento psichiatrico è sospeso: in caso di crisi urgente non interviene uno specialista, ma la semplice guardia medica. Come è possibile che nella capitale d’Italia l’urgenza psichiatrica non trovi risposte adeguate? Ma questo sembra essere il segnale di una grave deficienza di tutta la rete dell’assistenza psichiatrica. Dati recenti indicano che la maggior parte dei cittadini, oltre il 70%, percepisce i servizi per la salute mentale offerti dalle ASL come lontani, inaccessibili e inefficienti, nonostante la sicura professionalità degli operatori. Meno del 10% di quanti avrebbero bisogno di cure psichiatriche ricevono un trattamento adeguato nel servizio pubblico. I dati assumono rilievi più inquietanti se dovessimo valutare i servizi per la tutela della salute mentale in età evolutiva. Inoltre alcuni operatori denunciano la mancata integrazione tra servizi psichiatrici e servizi per le tossicodipendenze. Le associazioni dei familiari, infine, hanno anche recentemente protestato perché i servizi pubblici non assicurerebbero una tempestiva assistenza domiciliare.
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ciali, l’unico modo per affrontare questa emergenza «che toglie dignità alla persona e alla famiglia», bisogna agire a più livelli: «Innanzitutto bisogna aiutare i pazienti a prendere i farmaci, che fortunatamente non hanno più soltanto un ruolo contenitivo, ma anche terapeutico e sono in grado di aiutare il paziente a riprendere delle abitudini normali. Perché una persona affetta dal diabete può convivere tutta la vita
non decide di essere aiutato allora non si può far nulla». Le pare una risposta plausibile? Anzi, a questo punto mi domando: che cosa stanno a farci lì, cosa le paghiamo a fare le tasse? Cosa si dovrebbe fare, dunque? Gli specialisti dovrebbero andare a vedere qual è il loro problema, per poi decidere qual è la terapia adeguata al disturbo specifico del paziente. E toccare con mano realmente come si può vivere notte e giorno, Natale e Pasqua con una persona di questo genere, che ogni istante peggiora, fino a diventare cronico. E alla fine commette qualcosa di orribile: può finire nelle prigione (e ce ne sono tanti), all’ospedale psichiatrico giudiziario oppure si suicida. Non per colpa del malato, ma per colpa nostra. Ecco perché questa legge è sbagliata: in trent’anni ha prescritto solo divieti (ad esempio quello di istituire divisioni psichiatriche in ospedali generali), ma non ha mai proposto delle soluzioni adeguate per assistere le famiglie. Non è un caso che non sia stata seguita da nessun
con dei farmaci e una persona che ha patologie mentali no? La seconda cosa da fare è supportare la terapia farmacologia con un’adeguata psicoterapia. Infine è necessario aiutare le famiglie. E considerare il tessuto familiare come una risorsa preziosa in questa battaglia. I modi sarebbero diversi: dalla concessione di ore di permesso per assentarsi dal luogo di lavoro a degli incentivi per andare prima in pensione».
paese del mondo. dalla famiglia. Invece di essere lasciati soli. Quali sono, secondo lei le responsabilità della politica? È grave che i politici non abbiano trovato il modo di modificare la legge prima che avvenissero queste sciagure. Avere un malato così grave in casa è una sciagura: isola le famiglie, le emargina perché nessuno, sapendo di queste situazioni, li va più a trovare. A questo bisogna aggiungere anche il senso della vergogna, il senso dello stigma. Sono cose che dovrebbero essere cose che andrebbero cancellate. Anche perché il malato oggi lo si potrebbe curare. In che modo? La maggior parte dei malati, in realtà, reagisce bene ai farmaci. Certo, per trovare i farmaci giusti è necessario stare con i pazienti, conoscerne realmente le problematiche. Non ci si può limitare a mandarlo a casa con una ricetta. È tutto da rifare: bisogna rifare la struttura e i servizi. Ma per far questo bisogna stanziare dei fondi adeguati per fronteggiare le malattie
I farmaci per curare la malattia mentale non sono più un tabù. A sinistra il parlamentare democratico Paola Binetti; in basso Carlo Ciccioli, deputato Pdl e vice-presidente della Commissione Affari Sociali della Camera
mentali. Perché negli altri paesi c’è ma in Italia no? L’Inghilterra destinal’11,5% del budget a questi disturbi. Basta chiacchiere e convegni, se poi il malato resta lì e non viene aiutato. Non si tratta di metterlo al manicomio, ma di seguirlo con attenzione, fosse anche per un mese. Può bastare anche questo per salvare la vita a lui e alla sua famiglia. Vorrei tornare a sottolineare l’importanza del cervello: è sì o non il cervello l’organo più importante del nostro corpo? È quello che veramente ci fa vivere e fa vivere altre persone. Per questo bisogna non sottovalutare questi disturbi. Quindi vorrei ribadire che non si tratta di una malattia sociale come sostenevano i “Basigliani”: è una malattia diffusa in qualsiasi strato, in qualunque società, in qualunque paese del mondo. Ci sono i malati di mente. Dappertutto. Insomma non è la società che si ammala; bisogna accettare che si può ammalare anche il cervello. E che ha bisogno molta attenzione, molta di più di quanta se ne dà ora.
Forse l’Italia ha bisogno di un Patto per la salute mentale, organico e completo, che possa da un lato rilanciare i servizi psichiatrici e dall’altro costruire una autentica rete territoriale, grazie alla quale si possa giungere ad una vera integrazione tra le offerte pubbliche e le proposte del cosiddetto privato sociale. In modo più specifico vorrei proporre per le grandi città, come Roma, i Centri di Prossimità per la tutela della salute mentale: si tratterebbe di vere e proprie“antenne”territoriali, gestite dalle associazioni dei familiari dei pazienti psichiatrici, con la funzione di favorire il raccordo con le strutture pubbliche e di intercettare le problematiche proprio sul territorio, là dove esplode il dramma della malattia mentale. Si tratta di promuovere e valorizzare le infinite proposte informali di aiuto già presenti sul territorio e di costituire una rete specifica, capace di integrare ogni realtà che opera per la salute mentale e di raccordarle tra loro e con le risorse sociali e sanitarie disponibili. Il compito dei Centri di Prossimità sarebbe quello di non lasciare il cittadino solo con il proprio dramma, ma di mostrare il volto accogliente e solidale di una città spesso indifferente. Vorrei ricordare che lo stigma e l’isolamento sono le vere barriere, a volte fatali, che impediscono ai malati psichici di accedere ad un aiuto fattivo. Ancora oggi la maggior parte delle famiglie di pazienti affetti da gravi psicopatologie sperimentano una agghiacciante solitudine. Questa attenzione per i problemi di quanti soffrono il dramma della malattia mentale è a mio parere necessaria perché, se pensiamo a Roma, una città grande sia anche una grande città.
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politica
Alitalia. Il piano di Intesa, i dubbi di Tremonti e i costi impropri per lo Stato per un’operazione poco conveniente
E si comincia a rimpiangere Air France di Francesco Pacifico
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Berlusconi: Andiamo avanti! «È certo però profonderemo ogni sforzo - ha sottolineato ieri Berlusconi in una nota ufficiale - perché l’interesse di pochi non prevalga su quello di quasi tutti, continuando nella direzione che era indicata nei nostri programmi e si incarna nella nostra azione». Il presidente del Consiglio ha quindi spiegato che «il governo ha scelto di mettere la sicurezza e l’ordine pubblico fra le priorità della propria azione, compresa la volontà di ridare efficienza e forza credibile a una giustizia che, troppo spesso, delude le aspettative in essa legittimamente riposte».
Veltroni: il premier pensi a governare «Il governo si occupi di un Paese sempre più sull’orlo del baratro, piuttosto che dei problemi del presidente del Consiglio» ha dichiarato ieri il segretario del Partito Democratico, in risposta alla nota del premier.
Famiglia cristiana: «Razzista la schedatura dei rom»
ROMA. Al Tesoro preferiscono parlare di «valorizzazione di alcuni asset, che potrebbero anche non entrare nel perimetro della nuova Alitalia». Dalle parti dell’advisor IntesaSanpaolo si chiarisce che l’idea di una bad company – lasciare debiti e dipendenti alla vecchia Alitalia in modo da poter far volare la nuova con più facilità – è un’ipotesi come tante per un piano non ancora definito in toto e che, come ha annunciato il ministro Matteoli, dovrebbe essere presentato a breve. Così il sospetto da parte di molti analisti è che certe voci – bad company o esuberi per 4mila o 5 mila dipendenti – possano essere lanciati scientemente per vedere l’effetto sortito. Per capire come si muoveranno di fronte a questi scenari i sindacati o i potenziali futuri soci di Alitalia. Più passano le settimane e al Tesoro sembra svanita l’euforia dei giorni in cui Silvio Berlusconi, non ancora a Palazzo Chigi, metteva alla porta i francesi di Air France – «I colonizzatori», li chiamava – e prospettava cordate e futuro tricolore per la compagnia. Giulio Tremonti, da sempre convinto che la migliore wayout avesse il volto di Jean-Cyrill Spinetta, deve fronteggiare le stesse criticità che il suo predecessore, PadoaSchioppa, aveva rigettato blindando il deal con i francesi: il conto che banche e imprese avrebbero presentato per salvare Alitalia. Guardando all’offerta di Air France, non tornano i conti sull’investimento da fare: Intesa, anche calco-
lando le fiches degli imprenditori contattati da Ermolli, ha già fatto sapere di non poter recuperare più di due miliardi, forse anche attivando la leva finanziaria. I francesi, al completamento del turnaround, ne avrebbero investito circa 9 tra risorse proprie e ritorno di cassa. Il timore che questa differenza possa essere pagata sotto varie forme dallo Stato, che in quanto azionista pubblico non può mettere risorse dirette per i vincoli imposti dalla Ue. Ma che invece può (magari spostando asset verso le controllate liquide come Fintecna) assorbire
La fusione con Air One porterebbe nuovi debiti. Dalla cordata italiana pochi fondi. Altissimo l’esborso per gli ammortizzatori sociali dipendenti e debiti. Alitalia ha circa 8mila dipendenti difficilmente riconvertibili tra gli addetti di terra e perde 2,5 milioni di euro al giorno. Il salasso, quindi, può essere incommensurabile non fosse altro per gli ammortizzatori sociali. Guardando più alle ipotesi strategiche, non mancano dubbi sulla fusione tra Alitalia e Air One (e forse di Meridiana), utile soltanto a blindare l’unica tratta remunerativa interna, quella da Linate e Fiumicino. Intanto si fa notare che il prezzo sarebbe incamerare nella nuova realtà le
perdite delle compagnie più piccole, che assieme hanno ricavi inferiori ai 2 milioni di euro. Eppoi con l’alta velocità tra Milano e Roma che entro tre anni sarà una realtà, chi veramente può giurare sull’esistenza di questo monopolio? Senza dimenticare che il governo – per far decollare la compagnia e lo scalo di Malpensa tanto caro ai leghisti – non potrà che limitare pesantemente l’attività nel city airport milanese, cresciuto a dismisura proprio a scapito dell’hub lombardo e a favore di Lufhtansa.
Così, se Carlo Toto e la sua Air One potrebbe vedersi sistemati debiti e prospettive (e magari trovare le risorse per 43 aerei di medio raggio opzionati e non ancora aquistati da Airbus) Alitalia non troverebbe quel partner industriale di cui ha un necessario bisogno e può essere individuato soltanto in una compagnia estera. Come il costruttore abruzzese, potrebbero non offrire le garanzie necessarie neanche gli altri attori in questa partita: le banche, si sa, non sono investitori di lungo termine, ma a differenza di struttura come Tpg o Macquarie, Intesa non ha il know how per un’operazione infrastrutturale come questa. I soci italiani chiamati in causa dal premier e da Ermolli (i Benetton, i Ligresti o i Gavio) sono spesso concessionari di licenze statali o guardano ad appalti pubblici. E avrebbero un’arma in più per ottenere condizioni migliori. Almeno con Air France nessuno avrebbe osato parlare di conflitti d’interesse.
Famiglia cristiana scende in campo contro le misure previste da Maroni contro i rom. «Alla prima prova d’esame - scrive nell’editoriale del prossimo numero il settimanale dei paolini - i ministri ”cattolici” del governo del Cavaliere escono bocciati, senza appello. Per loro la dignità dell’uomo vale zero. Il principio della responsabilità di proteggere (cioè, il riconoscimento dell’unità della famiglia umana e l’attenzione per la dignità di ogni uomo e donna), ampiamente illustrato da papa Benedetto XVI all’Onu, è carta straccia. Nessuno che abbia alzato il dito a contrastare Maroni e l’indecente proposta razzista di prendere le impronte digitali ai bambini rom. Avremmo dato credito al ministro se, assieme alla schedatura, avesse detto come portare i bimbi rom a scuola, togliendoli dagli spazi condivisi coi topi. Che aiuti ha previsto? Nulla. Il prefetto di Roma, Carlo Mosca, s’è rifiutato di schedare, il presidente del Veneto, Galan, ha parlato di ”antapolitica”, ma il ministro non arretra d’un millimetro. Non stupisce, invece, il silenzio della nuova presidente della commissione per l’Infanzia, Alessandra Mussolini (non era più adatta Luisa Santolini, ex presidente del Forum delle famiglie?), perché le schedature etniche e religiose fanno parte del Dna familiare e, finalmente, tornano a essere patrimonio di governo».
Sgarbi sindaco grazie all’Udc Vittorio Sgarbi è il nuovo sindaco di Salemi, centro agricolo in provincia di Trapani. È stato eletto al ballottaggio con il 60,69% dei consensi (3.791 voti) contro il 39,31% del suo avversario Alberto Scuderi, sostenuto dal Pd e dalla lista Primavera Siciliana. L’ex assessore alla Cultura del Comune di Milano era appoggiato da Dc, Udc e da una lista civica. Sgarbi partiva con un largo vantaggio, avendo ottenuto al primo turno il 39,18% contro il 17,88% di Scuderi, che nel ballottaggio ha avuto un migliaio di voti in meno del vincitore.
Il governo all’apertura delle Olimpiadi Dopo le polemiche di qualche settimana fa, il governo italiano sembra avere raggiunto una mediazione sulla presenza alla cerimonia di apertura delle olimpiadi a Pechino. La delegazione italiana ci sarà, ma senza la presenza del presidente del Consiglio. Lo ha dichiarato il sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega allo sport Rocco Crimi: «L’Italia sarà formalmente presente. Sono stato delegato dal presidente Berlusconi. Nei prossimi giorni prenderemo contatti con il presidente del Coni».
il caso
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Come richiesto dalla Commissione Europea, le coop saranno inserite tra i colossi dell’alta finanza e della grande distribuzione e verranno considerate al pari di banche, assicurazioni e compagnie petrolifere
I supermercati delle cooperative sono tra i più costosi d’Italia hi l’ha detto che i genovesi sono taccagni? Tutte menzogne se - come è vero - sono in tanti quelli che ogni giorno fanno la spesa alla Coop Negro di Genova, supermercato ligure modello. Dove martedì scorso gli spinaci “Findus 4 santi in padella” costavano ben 3,69 euro contro i 2,15 della vicina Esselunga di La Spezia. Dove gli “Sfogliavelo Rana” costano 3,09 contro 2,19. E per 400 grammi di” Leederammer” ci vogliono 4,25 euro anziché 2,95. Persino la CocaCola è costosa alla Coop genovese: 1,24 euro per 150 cl contro 0,84. Sarà pur vero che “La Coop sei tu”, ma è altrettanto vero che se fai la spesa alla Coop paghi di più. I supermercati della catena cooperativa sono in assoluto tra i più costosi d’Italia. In Liguria poi, ancor più che in Emilia Romagna e in Toscana, il marchio Coop la fa da padrone. E, senza concorrenti diretti, ha definitivamente instaurato la “dittatura della spesa”. Se sei genovese e vuoi i tortellini Rana o gli spinaci Findus non hai scampo: devi passare da quei banchi. E devi pagare quei prezzi. Inchinandoti al monopolio di fatto della grande distribuzione cooperativa.
C
Secondo uno studio dell’istituto di ricerche di mercato “Panel International”, i prezzi Coop in Liguria sono superiori di un 15% in media. D’altra parte - spiegano gli analisti non è solo colpa della Coop. L’azienda si comporta esattamente secondo le regole di mercato di un operatore economico in posizione dominante: tende fare più profitto possibile. Il vero scandalo è quello denunciato dal patron di Esselunga Bernardo Caprotti nel suo li-
La Coop sei tu, allora paga di più di Cristina Missiroli bro “Falce e Carrello”. Che racconta dell’ostruzionismo che il Comune di Genova e molti altri comuni delle “regioni rosse” hanno applicato con puntiglio e costanza per anni impedendo ai concorrenti delle Coop di entrare nel mercato. Negando licenze e permessi che poi venivano regolarmente concessi al gruppo Coop, che libero da concorrenti, ormai tiene in pugno il mercato. «Si tratta di un problema legato alla grande distribuzione e alla sua scarsa liberalizzazione» sostiene il se-
cerche di mercato hanno convinto un gruppo di liberali liguri ad affrontare di petto la questione.
L’associazione “We The People”ha girato così un bel numero di supermercati, ha controllato i prezzi direttamente e convocato una conferenza che si è tenuta sabato 28 giugno a Genova, presso lo storico Palazzo Tursi di via Garibaldi, con il titolo: “Carrelli d’Italia - Passeggiata conoscitiva nella grande distribuzione”. Nel corso del
sui supermercati scrive: «Genova, con la presenza di un unico ipermercato, e quindi con l’assenza di catene competitive tra loro, è una delle città con il livello di prezzi più elevato. Nel punto vendita più economico si spende il 27% in più rispetto a quello di Pisa». E ancora di seguito: «Dall’inchiesta di Altroconsumo risulta che nel mercato spezzino, dopo il subentro di Esselunga come competitor, il livello dei prezzi si è notevolmente abbassato: l’anno scorso nel punto vendita meno caro
L’azienda si comporta esattamente secondo le regole di mercato di un operatore economico in posizione dominante: tende fare più profitto possibile. Il vero scandalo è quello denunciato nel libro “Falce e Carrello” natore del PdL Enrico Musso. «Vi sono prezzi al consumo che viaggiano di quasi il 20% al di sopra della media, come dimostrato da dati incontrovertibili, dai quali emerge la tesi che in Liguria vi è ritrosia ad aprire al mercato. E questo non è un discorso legato esclusivamente alla Coop, ma piuttosto un discorso che riguarda concorrenza e non concorrenza. Ci troviamo in una situazione di sostanziale monopolio territoriale, con enorme danno sui consumatori». Proprio le ultime ri-
convegno sono stati divulgati i dati più recenti delle rilevazioni dei prezzi nei supermercati. Per chi avesse la tentazione di relegare la questione nello scaffale delle solite sceneggiate italiane alla Don Camillo e Peppone vale la pena di ricordare che le indagini di ogni ente che si sia mai dato la pena di studiare il fenomeno dei supermercati liguri vanno tutte nella stessa direzione. Persino “Altroconsumo”, associazione di consumatori che non può certo dirsi di destra, nella sua inchiesta
(Ipercoop) si spendeva l’8% in meno rispetto alla media nazionale. Quest’anno nel punto vendita Esselunga i cittadini di La Spezia possono risparmiare quasi il 20% rispetto alla media nazionale, mentre ora presso Ipercoop i prezzi sono più bassi di quasi il 14%». Il che tradotto significa semplicemente che è stata l’azienda privata e non sono state le cooperative a calmierare i prezzi. Insomma, se il fine delle cooperative è quello di offrire ai loro soci beni e prezzi migliori, lo
smacco c’è tutto. Per quella funzione sociale che dovrebbero svolgere, le Coop sono favorite dal fisco. A parità di utile lordo l’incidenza dell’Ires risulta del 17% per le cooperative mentre ammonta al 43% quella delle società commerciali. E questo senza considerare i giochi sui sostituti d’imposta. Però se poi i prezzi al consumo delle Coop sono più alti di quelli delle altre grandi catene di distribuzione, allora crolla tutto. Ci ritroviamo in una situazione di rendita, quasi sovietica. Si sussidiano le imprese che fanno prezzi più alti coi soldi di chi li fa più bassi. Se davvero “La Coop sei tu” comincia a festeggiare perché di certo stai diventando ricco: hai margini da capogiro e, come cooperativa, pure un bel po’ di agevolazioni fiscali. Festeggia in fretta, però, perché sono in arrivo le nuove misure del governo che prevedono la tassazione degli utili delle coop e il rialzo dell’aliquota sul cosiddetto prestito sociale, dal 12,50 al 20%. Mentre il 5% dei profitti finirà nel fondo degli indigenti per finanziare parte della social card.
Le coop saranno perciò inserite tra i colossi dell’alta finanza e della grande distribuzione, i privilegi decadranno, verranno considerate al pari di banche, assicurazioni e compagnie petrolifere. Solo le cooperative sociali non verranno toccate. D’altronde è stata la stessa Commissione Europea a chiedere all’Italia di cancellare questa anomalia e parificare il mondo cooperativo a quello dell’impresa privata. In modo che anche le cooperative debbano confrontarsi, come tutti, con le regole della concorrenza e del libero mercato.
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pensieri
Il nodo non può essere sciolto facendo finta di ignorarlo
Chi risolverà la questione socialista? di Francesco D’Onofrio
sempre più evidente che in gran parte dell’Europa occidentale esiste ormai una questione politica che concerne la possibilità stessa che l’alternativa di governo al centro destra si possa costruire utilizzando le diverse esperienze dei socialismi occidentali. L’Italia non fa eccezione a questa complessiva vicenda europea, ma ha vissuto una fondamentale esperienza di socialismo italiano filo-sovietico che aveva trovato soprattutto nel partito comunista italiano il suo punto di forza prima del fascismo e durante la formazione della costituzione italiana vigente. Senza neppure tentare di descrivere compiutamente le diverse espressioni che la tradizione socialista ha avuto in Italia, soprattutto nei lunghi anni del secondo dopo guerra, è necessario aver presente che almeno tre sono state le traduzioni politiche italiane di questa tradizione: quella social democratica dapprima; quella auto-
È
nomista nazionale in seguito; quella comunista filo sovietica infine. Ed è di comune conoscenza il fatto che tutti i governi imperniati sulla Democrazia Cristiana dal 1947 al 1992 si sono confrontati successivamente proprio con queste tre grandi esperienze di socia-
sperienza social-democratica propria delle democrazie nord-europee - sia delle singole formazioni politiche che avevano fatto proprio della divisione del mondo nei due blocchi il proprio fondamento ideale e propositivo. Ne è conseguita la progressiva acquisizione del socialismo democratico e di quello autonomista all’esperienza di governo con la democrazia cristiana e con gli altri piccoli partiti di tradizione laica, lasciando l’esperienza socialista di ispirazione comunista filo sovietica, al di fuori dell’area di governo italiana: una sorta di bipolarismo internazionale aveva finito con il caratterizzare la stessa struttura politica interna italiana che si era per altro differenziata dalle altre esperienze dell’Europa occidentale per la rilevante iniziativa culturale e politica di parte cattolica e per la chiusura a qualsiasi ipotesi di ritorno dell’e-
Tre le vie italiane di questa tradizione politica: comunista, autonomista e socialdemocratica lismo, finendo con il caratterizzare il caso italiano come un caso anomalo di democrazia sostanzialmente social democratica anche se formalmente a dominazione democratico cristiana. La sconfitta storica dell’esperimento sovietico, ha introdotto di conseguenza la necessità di un adeguamento sia dell’intero campo politico filo occidentale - che aveva al proprio interno tutta l’e-
sperienza fascista. Con la fine della cosiddetta Prima Repubblica, le cose sono sostanzialmente cambiate anche in Italia perché è emersa una situazione politica complessiva nella quale non vi era più nessun partito politico che si richiamasse alle esperienze della Prima Repubblica e facesse contemporaneamente parte delle alleanze di governo sperimentate dal 1994 ad oggi. Ciò non significa che non esista più una questione socialista in Italia, com’è dimostrato dalla grande difficoltà che ancora oggi concerne la collocazione europea dell’alleanza elettorale chiamata partito democratico e come è del pari dimostrato dalla complessa vicenda della collocazione del partito socialista autonomista o di suoi significativi esponenti negli schieramenti politici in atto nel centro destra, nel centro sinistra, e nella stessa Lega Nord. Allorché si ragiona sull’organizzazione politica italiana attuale in
termini di bipartitismo eventuale, occorre pertanto aver presente che il nodo dei diversi socialismi italiani non può essere sciolto facendo finta di ignorarlo o, al contrario, illudendosi di risolverlo in termini esclusivamente personali. Il passaggio dalla teoria e dalla prassi dell’“arco costituzionale” che ha tradotto la specificità italiana in termini complessivamente capaci di tener insieme quel che univa i protagonisti della nascente repubblica italiana alla teoria - che manca - e alla prassi - che sembra sempre più scadere in un indistinto pragmatismo - di un bipolarismo che si vuole ad un tempo maturo e normale anche per l’Italia, non è per tanto ancora avvenuto. Le questioni politiche che in Italia si sono dovute affrontare dopo la fine della cosiddetta Prima Repubblica non hanno infatti trovato ancora una risposta soddisfacente proprio anche perché non è stato sciolto il nodo dei “socialismi italiani”.
La dialettica tra maggioranza e opposizione si è trasformata in una successione ischemica di lune di miele e di batti becco
Un ottimismo senza speranza di Michele Gerace uando agli inizi di una legislatura gli sconfitti si dichiarano vincitori e i vincitori finiscono per governare da sconfitti, l’idea stessa di un possibile dialogo è destinata al fallimento. Se poi a ciò si aggiunge l’inesistenza di una qualsiasi chiarezza di rapporto tra maggioranza e opposizione non ci si può meravigliare della evidente impossibilità nel raggiungere, senza trasformismi, un accordo su questioni emergenti e urgenti da risolvere in nome del buon senso. Prima del voto, a fronte dall’ultima logorante esperienza di governo, qualche ottimista poteva pensare che fosse probabile trarre una qualche lezione preziosa per il futuro, e che chiunque fosse andato a Palazzo Chigi avrebbe dovuto tenere bene a mente che l’Italia ha bisogno da subito di nuove regole in grado di garantire una progressiva ripresa. Ma si sbagliava.
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Prima del voto il nostro ingenuo amico ottimista si aspettava che la futura maggioranza potesse trovare la forza di ascoltare le ragioni dell’opposizione, valutarle con onestà intellettuale ed accettarle qualora le avesse ritenute preziose per tutti. Sperava che migliorare un provvedimento grazie all’inter-
sentimenti di disprezzo verso ogni richiamo all’Ancien Regime, per prima la Corona inglese acconsentì a crescenti limitazioni dei propri poteri. Semplificando senza banalizzare, a partire dal 1215 con la Magna Charta Libertatum e passando per l’Act of Settlement risalente al 1701, si consolidò il principio della democrazia rappresentativa. Da quel giorno nessun Re in gran parte dell’Europa continentale avrebbe più potuto sospendere l’esecuzione di leggi o dispensare dalla loro osservanza, senza che il Parlamento fosse d’accordo. Sin da allora in Parlamento si svilupparono due aree distinte e divise tra maggioranza ed opposizione. L’una nata con lo scopo di supportare l’azione di governo; l’altra con lo scopo di proporre soluzioni politico-organizzative per controllare, emendare e migliorare l’opera-
È ancora possibile ricomporre la frattura che si è creata tra politica e società? vento dell’opposizione più che una prova di debolezza, fosse un indice di sensibilità politica. La stessa sensibilità che dal canto suo deve sempre mostrare l’opposizione portando avanti una seria attività parlamentare, di controllo e verifica dell’attività legislativa nella sede più opportuna: il Parlamento. Quando nel corso del XVII e del XVIII secolo maturarono
to del governo. Maggioranza e opposizione presto divennero la vera e propria opportunità che veniva data ad uno Stato per raggiungere quella stabilità in grado di garantire i cittadini e con essi tutte le libertà faticosamente ottenute in secoli di lotte e dolorose conquiste. Di certo a trecento anni dall’affermazione del costituzionalismo, nessuno mai avrebbe immaginato che, nel corso della XVI legislatura in Italia, la dialettica tra maggioranza e opposizione si trasformasse in una successione ischemica di lune di miele e di batti becco che hanno riportato ciascuno sulle proprie posizioni, radicalizzando peraltro un insostenibile stato di sordità verso i problemi del Paese. Solo dandoci un nuovo slancio possiamo dire che il nostro buon amico ottimista non si era sbagliato. E che anzi aveva ragione a credere che ricomporre una profonda frattura tra politica e società sia ancora una cosa possibile.
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parole
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Nessuno più nega il valore della tensione verso Dio: ora l’agnosticismo cerca strade più sofisticate
La svolta dei Nuovi Atei di Michael Novak realtà si manifesta anche all’interno della nostra vita intellettuale al di fuori del campo della scienza; si manifesta nella consuetudine della fede nella ragione, anche in aree dove la scienza non può arrivare. Dovrei sposare quella particolare persona? Dovrei accettare questo lavoro, fare di questa professione lo scopo principale della mia vita? È questo l’ambiente giusto per me, la comunità che più mi porta a pormi domande e a crescere moralmente più forte? Qualcuno fa queste scelte in modo intelligente, per buoni motivi, mentre qualcun altro, dopo, scopre di non aver avuto abbastanza senso della realtà. Con il senno di poi ci si può biasimare per essere stati più ciechi di quanto si sarebbe dovuto, e si possono rimpiangere amaramente le scelte del passato.
segue dalla prima aro agnostico, sei in grado di guardare all’interno della tua vita e di provare - in modo tangibile agli altri - che la tua essenza sia del tutto compresa finché non ammetti che la vita di cui fai parte non riguarda solo la tua, che è anzi più ampia della tua, e che ti accompagna in un percorso di crescita e completezza più grande di te? Il dubbio riguarda te. Quelli che acquisiscono tale consapevolezza possono asserire che Dio esiste, non solo “crederlo”, e sostengono che lo stesso processo sia rintracciabile nella vita interiore di ciascuno. Arrivarci è la norma, non l’eccezione, per questo in ogni generazione ci si aspetta l’insorgere dell’impulso religioso, e questo è il motivo per cui un legame personale con Dio continua ad essere riscoperto in ogni era della storia umana, e praticamente in ogni cultura. Ci sono due esperienze interiori fondamentali che portano gli uomini a capire che, per conoscere adeguatamente la loro natura umana, devono arrivare lentamente a comprendere di essere già parte di una natura divina; la prima è di tipo storico, è la “prigione letteraria” del ventesimo secolo.
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Nelle carceri di regimi ufficialmente atei come fascismo e comunismo, molti di coloro che venivano condotti in cella erano persone che in quel periodo si sarebbero definite atee. Solo con il tempo alcuni scoprirono che dentro di loro c’era un’esigenza interiore che si rifiutava ostinatamente di lasciarli diventare complici di menzogne che il regime insisteva sottoscrivessero; in questo imperativo di rimanere onesti nell’anima risiedeva la loro totale integrità, che, se fosse stata compromessa, li avrebbe resi parte della depravazione universale perseguita dal regime secondo cui «Non esiste la verità, ma solo la verità del partito». Sarebbero diventati come i loro carcerieri. Come sono arrivati a capire che questo impulso interiore all’onestà assoluta fosse essenziale alla loro identità umana? I loro cinque sensi (tatto, udito, vista, odorato e gusto) avrebbero potuto essere sottoposti a violenze dolorose sen-
za poter contare sull’appoggio e sull’assistenza di nessuno, né umano né divino, ed anche la loro capacità di spiegare le ragioni di ciò che stavano facendo sarebbe crollata, perché il dolore e il terrore della morte sarebbero stati troppo grandi, troppo acuti, e le ragioni delle torture che rischiavano di subire troppo evidenti; eppure una profonda luce interiore li a portati a rifiutare di mentire.
vano identificare, perché questa luce in qualche modo era parte integrante della loro percezione di se stessi.
Questa è la prova che ha portato Sharansky, Valladares, Mihailov e tanti altri sconosciuti a capire, per la prima volta, che vivevano in una comunità spirituale più grande del loro piccolo mondo, una comunità in cui altri esseri umani com-
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interiormente il bisogno di essere onesti. Se non fossero stati fedeli a se stessi, il loro fallimento morale avrebbe interessato questo Altro in un modo completamente diverso dai loro carcerieri, perché l’arrendevolezza morale sarebbe stata da questi ultimi interpretata come la prova che tutti, come loro, hanno un prezzo. La seconda esperienza è di tipo personale, interiore. È la prova che
Gli agnostici sostengono che l’onere della prova spetti a coloro che ritengono ci sia una presenza divina oggettiva, ma la prova dell’esistenza divina non va cercata “al di fuori”, perché riguarda la nostra personale identità Qual è la fonte di questa luce, che ha impedito a tanti uomini di lasciarli arrendere, anche quando i loro corpi non erano più in grado di sorreggerli? Loro hanno vissuto questa esperienza come qualcosa di più grande di ogni parte del corpo o della mente che pote-
battono per preservare la propria integrità da ogni forma di corruzione, ed hanno anche percepito come qualcosa di innato, interiore, un misterioso Altro - apparentemente irragionevole e insistente - più importante dei loro corpi e della loro vita temporale. Hanno sentito
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partecipo ad una diversa, straordinaria Sorgente di luce, è la fame insaziabile di sapere. Il finito non mi soddisfa, ci sono sempre più quesiti cui dare risposta, nessun concetto esistente sembra definitivo, e questo dato di fatto è alla base della ricerca scientifica, ma questa
Qualche buon filosofo sostiene che le persone ragionevoli vivano in un universo interno, in presenza di un Osservatore oggettivo; questo Osservatore non può essere ingannato dalle illusioni che ci si crea, perché ci spinge ad essere più onesti con noi stessi, e non è “fuori” di noi, ma dentro. Anche questa è la prova che la nostra vita in Dio, e Lui in noi, sono l’essenza autentica della nostra identità; in questo risiedono la Luce, il Giudizio, la Misericordia, la Fratellanza, l’Ispirazione, lo Stimolo e il Motore del cuore della nostra esistenza. Senza diventare consapevoli di questa dimensione della nostra onestà, e della tensione sconfinata al sapere, non possiamo comprendere veramente noi stessi, perché ci riteniamo più limitati di quanto in realtà siamo. Ha scritto Sant’Agostino negli anni in cui andava maturando la conversione: «Ti ho cercato ovunque, Signore, e quando ti ho trovato Tu eri dentro di me.Tu mi eri più vicino di quanto lo fossi io a me stesso». I Nuovi Agnostici potrebbero non capirlo, non ancora, mentre tanti, tanti di noi sanno che i nostri migliori stimoli interiori non provengono dai nostri egoismi sensoriali, finiti, ma sono vissuti con la stessa consapevolezza che proviene da un regalo non richiesto, talvolta perfino come un tormento, perché queste spinte interiori sono molto più grandi di noi; ci protendono verso l’infinito.
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alla mezzanotte sulla Tour Eiffel brillano le dodici stelle dorate della bandiera dell’Unione europea e mattina di questa buon’ora sono sbarcati da un Thalys - il treno ad alta velocità che unisce Bruxelles a Parigi in meno di 80 minuti - i commissari della Ue con il loro presidente, Manuel Barroso, in testa. A mezzogiorno festa sotto l’Arco di trionfo, poi stasera, cena di gala all’Eliseo con Nicolas Sarkozy. Tutto come previsto da un cerimoniale condito di grandeur e di paillettes immaginato quando il ”no” irlandese al Trattato di Lisbona era ancora lontano e il semestre di presidenza francese dell’Europa era atteso come un momento di svolta. Il calendario aveva regalato a Sarkozy l’occasione di accompagnare la Ue dalle vecchie alle nuove regole e di essere arbitro della scelta degli uomini da piazzare al vertice dei futuri equilibri di potere. Il destino lo ha fatto precipitare nell’ennesima crisi europea, tanto che adesso ci si chiede che cosa si salverà dell’ambizioso programma che il presidente francese aveva preparato. «Dobbiamo essere modesti e determinati», ha detto ieri il ministro degli Esteri, Bernard Kouchner, lasciando intendere che per ottenere dei risultati bisognerà ridimensionare gli obiettivi.
mondo
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Di sicuro Sarkozy non vuole rinunciare a due delle priorità del lungo elenco che illustrerà stasera: il Patto europeo sull’immigrazione e l’Unione dei Paesi del Mediterraneo. Nella strategia del presidente francese questi due punti dovrebbero servire a ricostruire la credibilità della Ue su temi che toccano direttamente gli interessi della gente: dalla gestione comune del complesso problema dei clandestini, al rilancio dell’azione internazionale dell’Europa dei Ventisette. Su questi due capitoli ci sono già degli appuntamenti fissati: il 7 luglio i ministri dell’Interno europei s’incontreranno a Cannes per cominciare ad armonizzare le legislazioni nazionali in tema d’immigrazione e il 13 luglio, alla vigilia della festa nazionale francese, si terrà a Parigi un maxi-vertice con i capi di Stato dei Paesi della costa Sud del Mediterraneo che sarà l’atto costitutivo del nuovo organi-
Immigrazione e Mediterraneo le priorità del semestre francese
Riparte da due l’Europa di Sarkozy di Enrico Singer
Ventisei donne europee
Una scalata rosa al Monte Bianco Ventisei donne, in rappresentanza di 25 Paesi membri dell’Unione europea, scaleranno il Monte Bianco, 4.810 metri, per celebrare all’insegna dell’ambiente l’inizio nel semestre di presidenza francese della Ue. L’iniziativa - battezzata ”Una cordata di europee sul tetto dell’Unione” - è stata promossa da Nicolas Sarkozy. L’Italia sarà rappresentata da Manuela Di Centa - campionessa olimpica e prima donna del nostro Paese a scalare L’ascensione l’Everest. avverrà dalla via normale sul versante francese. Le scalatrici hanno trascorso la notte al rifugio Gouter e questa mattina tenteranno l’attacco alla vetta.
smo bilaterale. Ma anche sulla strada di questi due traguardi ci sono degli ostacoli. Il Patto europeo per l’immigrazione incontra l’opposizione della Spagna e una certa freddezza da parte della Gran Bretagna. Per ragioni opposte: il
Il ”no” irlandese al Trattato di Lisbona costringe il presidente a ridimensionare gli obiettivi per evitare nuove divisioni nella Ue governo di Zapatero non intende rinunciare alla sua politica di legalizzazioni di massa degli immigrati clandestini - che il progetto francese di regole comuni espressamente vieta - e quello di Londra non è disposto a rinunciare alla sua tradizionale autonomia legislativa in una materia così sensibile. Lo stesso Bernard Kouchner, ieri,
Il presidente Nicolas Sarkozy e, sotto, il ministro degli Esteri francese, Bernard Kouchner
ha ammesso che «esistono delle divergenze», soprattutto con la Spagna, ma Sarkozy rimane fiducioso: tra i Ventisette c’è una forte maggioranza a favore di una linea comune sull’immigrazione, anche perché ormai, con le frontiere interne in gran parte aperte, l’ingresso di un immigrato in un Paese europeo significa automaticamente la sua libera circolazione in tutta la Ue. Il Patto proposto da Sarkozy prevede l’armonizzazione delle norme sulla concessione dell’asilo politico, accordi europei con i Paesi di origine per l’espulsione dei clandestini e ricalca la legge approvata in Francia nel maggio scorso che, tra l’altro, ha introdotto il reato di immigrazione clandestina punito con un anno di prigione (tre in caso di rientro dopo una espulsione) e un’ammenda fino a 3700 euro.
L’Unione mediterranea, invece trova scettica la Germania che, pure, è in questo momento il migliore alleato di Sarkozy. Angela Merkel teme uno slittamento del centro di gravità della Ue verso Sud e considera molto più utile e realizzabile oltreché strategica per Berlino un’espansione dell’Unione verso il resto dell’Europa continentale ex sovietica, a partire dall’Ucraina. Il 13 luglio, comunque, a Parigi il vertice con i leader della sponda meridionale del Mediterraneo ci sarà. E se, come spera, Sarkozy riuscirà anche a far incontrare a tu per tu il premier israeliano, Ehud Olmert, e il presidente siriano, Bashir el Assad, la Ue potrebbe mettere a segno, attraverso l’attivismo della Francia, un successo internazionale importante. Almeno d’immagine. Proprio quello che serve dopo la batosta del referendum irlandese. Molto più difficile sarà per Sarkozy centrare le altre priorità del programma che illustrerà stasera e che restano, comunque, all’ordine del giorno della presidenza di turno francese. Dal rilancio della politica di difesa comune, alla riforma della politica agricola, dall’emergenza energetica a quella ambientale. Fino al problema dei problemi: come sciogliere il nodo irlandese. Nell’ultimo vertice si è deciso di riparlarne a ottobre. Ma l’estate passerà presto e la soluzione toccherà ancora a Sarkozy.
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Il vertice di Sharm el-Scheikh punta sulla divisione del potere con Tsvangirai
I leader africani con Mugabe di Francesco Cannatà Nel summit che si è tenuto nella località turistica egiziana, i capi di Stato del continente nero, nella foto Mugabe con Mubarak, non sono riusciti a dare una soluzione definitiva alla questione delle elezioni in Zimbabwe. Tra i colleghi di Mugabe sono in molti ad avere nell’armadio gli stessi scheletri per i quali dovrebbero accusare il presidente di Harare l dilemma dei leader africani è capire se è giunto il momento di prendere commiato dal periodo eroico della lotta per l’indipendenza e iniziare a fare politica per risolvere i problemi che il XXI secolo metterà di fronte al Continente nero. Ieri a Sharm el-Scheik, un summit originariamente convocato per discutere dei problemi idrici e di istruzione dell’Africa, questo snodo era visibile quasi fisicamente. Tra i capi di Stato presenti al vertice convocato dall’Unione africana nella cittadina turistica sulle rive del mar Rosso, erano in molti a condividere le impostazioni che portano Robert Mugabe a manipolare i risultati delle elezioni ogni volta che queste non lo vedono vincente.
nale, e che devono a scrutini controversi le loro cariche. Solo modifiche successive delle Costitituzioni, hanno permesso di legittimare i rispettivi mandati. Rimasti però deboli e di fronte ai quali nemmeno la comunità internazionale riesce a trovare una posizione unitaria. L’elezione di Mugabe non ha costituito un’eccezione a questo schema. Definita una «impostura e un simulacro» da Unione europea e Stati Uniti, è stata ugualmente condannata dal Parlamento panafricano, una istituzione dell’Unione africana. I suoi osservatori hanno qualificato gli scrutini dello Zimbabwe «né liberi, né equi» e hanno invocato nuove elezioni. La stessa constatazione è stata fatta dalla Comunità per lo sviluppo dell’A-
Gli ex comandanti guerriglieri che si trovano alla testa dell’Unione nazionale africana dello Zimbawbe, Zanu, basano sulla storia la loro pretesa al potere assoluto. Già prima dell’andata alle urne di aprile, i generali dei servizi di sicurezza di Harare avevano fatto capire che avrebbero potuto accettare un presidente scelto solo tra coloro che avevano il crisma di essere stati“eroi guerriglieri”. Secondo i fautori di questa teoria i sacrifici fatti nella lotta contro la minoranza bianca, giustificano tale concezione dandole quasi un’aura mistica. Di tale merito storico Morgan Tsvangirai, politico proveniente dalle lotte sindacali e leader del movimento di opposizione per il cambiamento democratico, Mdc, è naturalmente escluso. La sua ambizione, sostituire il presidente Mugabe a «padre della nazione», era ritenuta un’offesa non solo dagli ex capi guerriglieri dello Zanu. Sono diversi i leader africani che condividono questa visione della politica nazio-
L’incontro previsto per risolvere i problemi idrici e quelli dell’istruzione, ha dedicato il suo tempo alle vicende delle elezioni-farsa in Zimbabwe
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frica australe, secondo cui il voto non riflette «la volontà popolare». La commissione dell’Unione africana, evocando una «soluzione credibile alla crisi», è sembrata essere invece più possibilista. Domenica scorsa, sono stati i colleghi di Mugabe a fare un altro passo avanti sulla strada giustificazionista, rifiutandosi di sconfessare il comportamento del presidente dello Zimbabwe e scaricando la patata bollente al summit di ieri dell’Unione africana a Charm elScheik. Al vertice egiziano il dittatore di Harare ha potuto prendere par-
te senza nessuna grande contestazioni. L’incontro, aperto dal presidente Mubarak, è stato però costretto a tenere sullo sfondo il dibattito sul riconoscimento o meno della vittoria elettorale di Mugabe. Per ora ci si può solo attendere che i partecipanti al summit spingano il presidente dello Zimbabwe a consultazioni di governo.
Il prossimo esecutivo di Harare dovrebbe vedere il coinvolgimento del leader dell’opposizione Morgan Tsvangirai. I ministri degli esteri dell’Unione africana, nel progetto di documento conclusivo non avevano certamente criticato apertamente Mugabe, ma avevano ammonito dal tenere consultazioni segnate dalla violenza. L’Africa del sud, il grande vicino di Harare, aveva già fatto deragliare una risoluzione presentata al Consiglio di sicurezza dalla Gran Bretagna che puntava a dichiarare illeggittime le elezioni di domenica. Nella serata di ieri sembrava avere qualche chance di successo la soluzione “keniana”. Una via d’uscita realistica secondo il suo sponsor, il presidente del Senegal. Ad aprile questo escamotage aveva permesso a Nairobi di uscire dall’impasse dell’ennesime elezioni contestate. Abdoulaye Wade, ha evocato un tandem Mugabe-Tsvangirai, nel quale il capo dell’opposizione dovrebbe svolgere il ruolo di primo ministro dotato di vasti poteri. Un tentativo che non dovrebbe vedere l’opposizione aprioristica di Tsvangirai. Se l’attuale capo dello Stato desse il consenso, potrebbe essere premiato con un ruolo puramente onorifico. Senza l’unità della Ue, sarebbe però Mugabe ad avere di nuovo il coltello dalla parte del manico. Esattamente quello che occorre evitare.
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Scisma nella chiesa anglicana Nella Chiesa anglicana è scisma: l’ala tradizionalista, contraria alla consacrazione vescovile di donne e preti gay, ha deciso di organizzarsi in una struttura indipendente (vedi liberal del 28 giugno). Avrà il proprio clero e i propri seminari e non riconoscerà più come indiscutibile autorità suprema l’arcivescovo di Canterbury. Il clamoroso strappo è stato consumato nel corso del vertice “alternativo” di Gerusalemme, guidato dall’arcivescovo di Rochester Michael Nazir-Ali, in contrapposizione al summit del 16 luglio di Canterbury presieduto dall’arcivescovo Rowan Williams. La nuova struttura ecclesiale si chiamerà Fellowship of Confessing Anglicans (Foca) e chiede di essere una specie di “chiesa dentro la chiesa” per evitare un sicuro scisma. Ma di fatto, lo strappo evoca proprio questo scenario. La maggior parte dei vescovi tradizionalisti riuniti a Gerusalemme opera in Africa e in Asia e accusa la gerarchia anglicana occidentale (in particolare quella americana) di diffondere «un falso vangelo», di aver rinunciato ai «principi morali biblici» e avallato il «declino spirituale».
Attentato, tensioni Georgia-Abkhazia Le autorità della regione separatista georgiana dell’Abkhazia hanno deciso di chiudere, da stamattina, le frontiere con la Georgia, dopo la doppia esplosione registrata ieri nella piazza del mercato a Sukhumi. Secondo gli abkhazi, dietro all’attentato ci sarebbe la mano dei servizi segreti di Tbilisi. La decisione - secondo quanto riporta l’agenzia Ria Novosti - è stata presa direttamente dal presidente dell’Abkhazia, Sergei Bagapsh. La Georgia ha già dichiarato di non aver nessuna responsabilità con l’attentato.
Cina, dopo sisma a picco settore agricolo Il terremoto che ha devastato nel maggio scorso la provincia del Sichuan, nel sudovest della Cina, ha causato danni all’agricoltura che si aggirano «intorno ai sei miliardi di dollari». Lo ha annunciato la Fao. «Più di 30 milioni di contadini hanno perso tutto. Migliaia di ettari di terre coltivate sono state devastate, sono morti milioni di animali, silos da granaglie sono stati distrutti e macchinari agricoli danneggiati», ha scritto in un rapporto la Fao dopo l’invio di una missione di valutazione nella provincia. Per stabilizzare la situazione occorreranno dai 3 ai 5 anni.
California, emergenza incendi La California è devastata dagli incendi ormai da una settimana. Le fiamme minacciano da vicino il Big Sur, regione della costa centrale ed una delle principali attrazioni turistiche dello Stato. I vigili del fuoco sono riusciti a contenere solo il 3% delle fiamme che ieri hanno colpito la Los Padres National Forest, mentre alcune parti delle celeberrima Highway 1, che percorre la costa unendo San Francisco a Los Angeles, restano chiuse. Le previsioni del tempo non prevedono miglioramenti nei prossimi giorni e la stagione dove si registra il picco degli incendi, da luglio ad agosto, deve ancora arrivare. Il presidente George W. Bush, ha dichiarato lo stato d’emergenza per l’intera California ed ha autorizzato aiuti federali per sostenere la battaglie delle autorità locali contro gli oltre 1.400 incendi fuori controllo. L’anno scorso, ad ottobre, gli incendi in California distrussero 2mila case, costringendo all’evacuazione 640mila persone e causando un miliardo di dollari di danni.
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economia
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L'uscita prematura dagli Europei accelera il declino del nostro calcio: poca gente sugli spalti e ricavi soltanto dalle tv
IL CAMPIONATO PIÙ POVERO DEL MONDO di Italo Cucci
uando il calcio nazionale conosce una sconfitta – com’è successo all’Europeo – le diagnosi sono mille ma il male resta oscuro. Ogni improvvisato medico ha un’idea preconcetta e quanto alla cura, mammamia, è degna di un quadro sanitario contemporaneo: il gioco non è più gioco, soffre di depressione, e allora via a medici improvvisati, apprendisti stregoni, spacciatori di farmaci miracolosi e – perché no? – rari professionisti come Arrigo Sacchi.
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L’ex ayatollah del pallone ha esposto sulla Gazzetta una serie di punti di vista chiari e condivisibili che cercherò di riassumere: 1) Il calcio italiano è stato travolto da una serie di scandali che ne hanno minato la credibilità. Il bilancio è in rosso: i ricavi si sono ridotti, gli spettatori sono calati vistosamente. 2) L’immagine di decadenza e arretratezza è ben fotografata dagli stadi fatiscenti e anacronistici. 3) Molti nostri club vivono una realtà artigianale in un contesto internazionale industrializzato. 4) I dirigenti in molti casi si dimostrano impreparati, con insufficienti conoscenze e senza la pazienza necessaria per la pianificazione. 5) Le nostre squadre sono figlie della paura e dell’improvvisazione e poco dell’armonia. Soltanto degli
(unico grande inventore di giornalismo degli ultimi vent’anni) ed ebbi da Silvio Berlusconi una risposta cortese, piccata e geniale: «Non di berlusconismo si tratta», mi scrisse, «ma di berlusconesimo». Non ho bisogno di spiegare la differenza. Ma qual era la colpa del Cavaliere? Paradossalmente, quella di avere creato una società organizzata in ogni settore, tecnico, medico, economico, mentre il resto del calcio era ancora regolamentato in termini artigianali. Non a caso, da allora, è ancora accompagnato da Galliani, Braida e Ramaccioni, i tre dirigenti designati il primo giorno; non a caso con essi tutti abbiano vinto: dall’imaginifico Sacchi al pragmatico Capello, dallo scientifico Zaccheroni al tradizionalista Ancelotti. L’impianto societario ha consentito ogni tipo di avventura tecnico/tattica, mentre l’Inter sperperava in più gestioni senza arrivare a capo di nulla; mentre la Fiorentina abbandonava il cammino disegnato da Mario Cecchi Gori e s’avviava al fallimento per l’avventurismo di suo figlio Vittorio; mentre la Lazio si avvaleva delle alchimie finanziarie di Cragnotti con vittorie e bancarotta in parallelo a ciò che succedeva al Parma (soltanto con il crack di Tanzi si capì perché); mentre la Roma s’illudeva di poter raggiungere i livelli finanziari degli inglesi sfruttando, come la Lazio, la delittuosa riforma Veltroni/Melandri sulle SpA con fine di lucro, vero massacro per il sistema. Una società, una sola, la Juventus, era riuscita a ricavarne beneficio grazie – paradossalmente – all’abbandono del mecenatismo da parte degli Agnelli, Umberto in particolare, andati oltre Berlusconi: la società non soltanto doveva essere saldamente in pugno a una dirigenza stabile (Giraudo e Moggi come Galliani e Braida), ma anche presentare bilanci non solo in pari ma addirittura in attivo. Cosa sconosciuta al Milan, dove Berlusconi era sempre costretto a rimpinguare la cassa. Nel momento in cui diventava ancora più netto il divario fra Grandi e Piccole, un’altra decisione governativa (sempre Veltroni il “riformatore”) consentiva la trattazione soggettiva dei diritti televisivi con la paytivù: tutti i soldoni ai ricchi, quattro soldi ai poveri. Fine dei giochi. Calciopoli non sarebbe nata solo per interesse “moggesco”della Juve, ma perché i club meno potenti avevano identificato in Moggi il loro singolarissimo Robin Hood.
La crisi diventa inarrestabile con la trasformazione dei club in società a scopo di lucro uomini appassionati e illuminati possono invertire la situazione. E sempre Sacchi arriva al dunque, ripetendo un antico ritornello. Sentite: «Il risorgimento del calcio italiano cominciò negli anni ’88/’96 con l’avvento di Berlusconi che chiedeva vittoria e spettacolo. Non portò soltanto denaro, ma intuizioni, genialità, spessore manageriale». E qui lo voglio, l’Arrigo. In quegli anni aprii – ero direttore del Corriere dello Sport – un fronte di costruttiva critica, di moderata contestazione all’opera di Berlusconi, identificando appunto nel “berlusconismo”il motivo scatenante l’incipiente crisi del calcio. Fui fra i primi a usare il termine coniato da Pansa
La crisi d’oggi deriva proprio dall’aver individuato in Sky (dopo la “distruzione” di Telepiù e Stream) la mucca da mungere: com’era stato il Totocalcio dai primi anni Sessanta, sedotto e abbandonato; com’era stata la Rai per decenni, sfruttata eppoi tradita. E guai a cercare soluzioni efficaci e durevoli: i dirigenti/saltimbanchi si sono trovati con le casse vuotate dalla spericolata politica degli ingaggi ai giocatori e gli stadi svuotati dalla violenza e dal “comodismo”: così ho definito la improvvisa e crescente richiesta di comodità negli impianti della tradizione, gloriosi ma obsoleti, soprattutto inadattabili alle norme di sicurezza sempre più severe. Senza che la Nazionale c’entri qualcosa, visto ch’è stata punita per sole ragioni tecniche (la più importante, la mancata sostituzione del bomber-senza-gol Luca Toni da parte del lentissimo Donadoni) il calcio s’avvicina alla stagione decisiva: o riforme serie sul fronte dell’impiantistica, della limitazione all’ingaggio di pedatori extracomunitari, della contrattualità televisiva e della stessa giustizia sportiva, oppure sarà la bancarotta. Alla quale non è possibile sfuggire con un altro passo “berlusconista” : il più geniale dei presidenti ha detto «facciamo un campionato per sole grandi», e potrebbe anche andargli bene associandosi con Montezemolo (Juve), Moratti (Inter), Della Valle (Fiorentina). E poi? Andranno, i magnifici quattro, alla ricerca di partner europei? Forse non sanno che sono in crisi anche Inghilterra e Francia, la Spagna vive di due/tre club. E soltanto la Germania ha un calcio migliore perché reduce da una forte recessione.
Mi sembra impossibile riprendere una stagione felice senza prima imporsi un periodo di forte austerità. L’Italia della povertà non può tollerare lo scandalo del calcio dissipatore. Un bel campionato, equlibrato, nel quale l’Inter non sia rappresentata soltanto dai soldi di Moratti ma dalla genialità di Mourinho; un bel campionato con opportunità di successo offerte anche a un Napoli e a un Bologna tornati, in tempi diversi, dall’inferno della bancarotta; un bel campionato in cui – questa è la mia antica formula – Davide possa ancora sfidare Golia sperando di batterlo. Un bel campionato da vivere non solo in poltrona e con la moviola un whisky e le noccioline, ma negli stadi della passione. Poi, se proprio vogliamo partecipare insieme con la Francia all’organizzazione dei prossimi Europei soffiandola a Polonia e Ucraina, rinnoviamoli rapidamente, i templi del pallone. Ma non per fare speculazioni a Valmontone o a Romilia.
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Palestre, ristoranti e alberghi. Le grandi e le piccole pronte a rinnovare gli impianti obsoleti
La Juve apre la stagione degli stadi a misura di tifoso di Francesco Daverio pettatori in calo, stadi obsoleti e scomodi, club con i conti spesso in rosso. Questa è la fotografia del nostro calcio sempre più distante in termini di risultati sia sportivi sia economici dai nostri maggiori rivali come la Spagna e l’Inghilterra. In questi Paesi, invece, i tifosi negli stadi aumentano. Così come sono in crescita i ricavi. E, se non bastasse, in bacheca arrivano numerosi trofei vinti, come dimostra l’ultima Champions League tutta inglese vinta dal Manchester all’ultimo rigore contro il Chelsea. Stadi italiani dunque in crisi, specchio di una strategia di business dei maggiori club ormai sorpassata. Basti pensare che l’ultimo restyling dei nostri impianti sportivi risale ai mondiali di Italia 90. Soltanto la televisione sembra tenere ancora il passo, anzi quello che potremmo definire lo stadio virtuale è un fenomeno in crescita: tra videofonini, internet, televisione in chiaro, canali satellitari e digitale terrestre, l’offerta di questo calcio virtuale è sempre maggiore.
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In Europa, dove tutti gli stadi reali sono migliori dei nostri, nessuno può competere con il nostro stadio virtuale e non tutte le partite si possono vedere sulle diverse piattaforme. Il raffronto con le grandi di Inghilterra e Spagna è esemplificativo. Gli introiti di diritti tv, biglietti e sponsorizzazioni per società come Manchester United (36 per cento, 36, 28), Chelsea (29, 37, 24), Real Madrid (38, 26, 36) o Barcellona (39, 34, 27) sono più o meno equamente tripartiti. Le società italiane come Juventus, Inter e Milan invece sono in netta controtendenza e incassano ben il 60 per cento dei loro introiti solo dalle tv. Con gli sponsor va un po’ meglio (tra il 20 e 30 per cento degli incassi) mentre i conti fatti al botteghino sono disastrati rispetto a quelli delle altre big europee, con la Juve che non raggiunge il 10 per cento dei propri ricavi e l’Inter che si avvicina faticosamente al 20 per cento. Dunque bisogna cambiare rotta. Ad aprire la strada sarà la Juventus che ha presentato il progetto per il nuovo Delle Alpi. Ma oggi sono venti le società professionistiche pronte a costruirsi l’impianto di proprietà. Entro quattro anni, prima del 2012, dovrebbero fare in tempo a completare l’opera in due: la Juventus di Cobolli Gigli e il Comune di Siena per conto della locale società. Subito dopo arriveranno i nuovi stadi di Udinese, Sampdoria e Palermo. La nuova Juventus ha ridimensionato l’idea faraonica dell’ex amministratore Antonio Giraudo, ma è stata la più rapida tra le big ad abbracciare il progetto ”nuovo stadio”. Con una spesa di 130 milioni – 75 investiti dal colosso sportivo Sportfive, 30 chiesti in mutuo al Credito sportivo e 25 spesi per l’acquisto dal Comune dei diritti di superficie – al posto del “Delle Alpi”si costruirà uno stadio senza pista di atletica da 40.700 posti, 120 dei quali dedicati a palchi vip. L’esterno, con il colore delle lamine bianche e nere, sarà il primo biglietto da visita. All’interno non mancheranno palestre e ristoranti. I lavori saranno al via tra un anno, partita inaugurale già segnata per giugno 2011. La Sportfive gestirà il ”naming right”, ovvero i diritti ricavati dallo sponsor che darà il no-
me al nuovo Delle Alpi per i successivi 12 anni. Il nuovo stadio non sarà solo un impianto sportivo ma «un più articolato progetto urbanistico che va nella direzione concordata con la città», queste le intenzioni dell’amministratore delegato della Juventus, Jean-Claude Blanc. «La Juventus», ha spiegato l’ex organizzatore del Tour, «intende realizzare un impianto all’avanguardia, che potrà arricchire la città e dare una nuova centralità al calcio, come fenomeno sociale di intrattenimento. Il progetto, ancora in fase preliminare, prevede la massima integrazione dell’area commerciale con l’impianto sportivo, per offrire nuove opportunità alle famiglie di trascorrere il tempo libero insieme». Oggi in Italia l’unica struttura di proprietà privata è il Giglio di Reggio Emilia, che, nonostante la Reggiana navighi in C1 dopo fallimenti e promozioni, può mostrare intorno a sé settanta negozi, un albergo e un centro di aggregazione giovanile. E lì che si andrà a parare con i top club: attività extracalcistiche e commerciali da affiancare alle nuove opere, necessarie per rafforzare i bilanci. Oggi il ricavo da stadio dell’Inter, prima società in Italia, è di 30 milioni di euro contro i 138 del Manchester United. Il Milan arriva a 25 milioni. Le milanesi spingono per impianti nuovi da gestire, visto che la trattativa con il comune di Milano per ottenere la concessione di San Siro per un secolo non trova sbocchi. Fu Adriano Galliani, fulminato dall’Allianz Arena di Monaco, a parlare per primo di «stadi obsoleti». I rossoneri individuarono un’area a Rogoredo per costruire un impianto da 60mila posti con 150 box privati. Poi il progetto si raffreddò. L’Inter, invece, ha segnalato al Credito sportivo la sua volontà di trasloco dal Meazza e ha individuato diverse soluzioni: un lotto da un milione di metri quadrati a Rozzano, e di proprietà della famiglia Cabassi, o un’area vicina al futuro Expo 2015. Ne ha parlato il presidente Massimo Moratti durante il workshop nerazzurro a Portofino di fronte a una platea ricca di sponsor che in prima persona verranno chiamati a condividere il progetto. «Il nuovo stadio potrà portare il nome di uno dei nostri partner, così come è successo in Inghilterra per l’impianto dell’Arsenal, l’Emirates», ha dichiarato il numero uno interista. Non sarà di dimensioni troppo grandi, con tutti i posti già assegnati, facilmente accessibile. Inoltre nel progetto saranno previsti interventi urbanistici per migliorare la vivibilità dell’area intorno lo stadio, negozi e supermercati. Per i tempi, non prima di cinque anni: ancora aperta la trattativa sul terreno e mancano i relativi permessi. Ma c’è una data, stadio pronto per il 2016, e una cifra ipotizzata per il costo dell’operazione: 160 milioni di euro. «È un progetto che si ripaga da solo», ci dice Ernesto Paolillo, amministratore delegato dell’Inter, «e anche più velocemente di quanto si pensi. Ancora una volta possiamo guardare all’Arsenal, ma anche alla Juve, che ha già incassato il 75 per cento dagli sponsor».
Quella della costruzione di nuovi stadi è una partita che le nostre società di calcio non possono rinunciare a giocare. I numeri parlano chiaro. Dalla media di 34mila spettatori a partita nel campionato 1991-92 si è scesi ai 18mila del 2006-2007 con Juventus, Napoli e Genoa in serie B. Ma nell’ultima stagione il dato se pur risalito sopra la soglia dei 20 mila evidenzia l’emorragia del pubblico italiano dagli stadi. Guardando i numeri dei nostri competitor l’allarme appare ancor più chiaro: la media spettatori nella Premier League inglese è pari a 34mila unità, quasi 30mila per la Liga spagnola e oltre i 40mila nella Bundesliga tedesca. Il punto più basso dell’ultimo campionato in Italia lo si è toccato alla 15ma giornata con Empoli-Cagliari e suoi 786 spettatori paganti. In effetti così il posto fisso è garantito e l’impianto è davvero a misura d’uomo. Forse troppo.
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Premier League, Bundesliga e Liga: come i campionati stranieri hanno superato il calcio del Belpaese
All’estero manager e business, da noi conti in rosso e sconfitte di Dario Righetti ricavi delle cinque maggiori Federazioni di calcio europee hanno superato, per la prima volta nella loro storia, i 7 miliardi di euro. Questa la stima rilevata nell’ultimo Annual Review of Football Finance di Deloitte. Complessivamente il mercato calcistico europeo ha raggiunto i 13,6 miliardi di euro nella stagione 2006/2007, ovvero un miliardo in più rispetto a quanto registrato in quella precedente. Il ricavo delle cinque maggiori Federazioni europee è cresciuto di oltre 400 milioni di euro (pari al 6 per cento) superando i 7 miliardi di euro – per la prima volta è avvenuto due stagioni fa – corrispondenti a più della metà (52 per cento) del totale del mercato europeo. Tra le prime cinque Federazioni europee, le squadre della Premier League inglese hanno prodotto per la prima volta dal 2001/2002 il ricavo totale più alto rispetto a tutte e tre le categorie analizzate (partite, trasmissioni e pubblicità) per la prima volta dal 2001/2002, registrando ricavi totali pari a 2,3 miliardi nel 2006/2007.
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Il divario tra i ricavi della Premier League e la Bundesliga tedesca, la quale ha totalizzato ricavi pari a 1,4 miliardi di euro, si è ampliato fino a raggiungere i 900 milioni di euro nel 2006/2007. Sia la Bundesliga sia La Liga spagnola sono cresciute, in termini di ricavi, del 15 per cento annuo, superando così la Serie A italiana. Peraltro, con il ritorno della Juventus nella massima divisione nella stagione 2007/2008 dopo i fatti di Calciopoli, la lotta per il secondo posto vedrà protagoniste tutte e tre le Federazioni.
AGRATE BRIANZA Martedì 1 luglio 2008 Villa Trivulzio Confindustria Monza e Brianza – nel convegno “Eccellenza imprenditoriale: il valore dell’internazionalizzazione per le imprese italiane” – fa il punto sulla nostra penetrazione all’estero con Maurizio Romiti, Ad di Pentar, Giulia Ligresti, presidente e Ad di Premafin Finanziaria, e Federica Guidi, presidente nazionale dei Giovani imprenditori Confindustria. ROMA Martedì 1 luglio 2008 Villa Madama Workshop su nuovi equilibri geopolitici alla conferenza internazionale “Italy, Europe and the U.S. the transatlantic link and its future”, organizzata dall’Aspen istitute e dal Council for the United States and Italy. Partecipano il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, i ministri Franco Frattini e Giulio Tremonti, Emma Marcegaglia, John Elkann, l’ambasciatore Ronald Spogli, Sergio Marchionne, Mario Draghi, Lorenzo Bini Smaghi e Robert. E. Rubin.
di 20mila. Questi numeri portano di conseguenza il nostro sistema calcio a registrare la media più bassa fra le cinque maggiori Federazioni europee. Come è noto, uno dei principali indicatori delle “performance” finanziarie delle squadre è costituito dal rapporto tra l’ammontare degli stipendi e il giro d’affari generato (ricavi). Un rapporto che varia tra il 62 e il 64 per cento per 4 delle 5 grandi Federazioni europee, con l’eccezione della Bundesliga. Il calcio tedesco riporta un dato molto più basso, pari al 45 per cento. Con un rapporto stipendi/ricavi molto più basso rispetto alle Big 4, la Bundesliga ha strappato alla Premier League il primo posto in termini di redditività operativa nel 2006/07, per la prima volta da quando è stata realizzata la prima edizione della nostra analisi. Comunque, la straordinaria performance finanziaria delle squadre tedesche non è stata eguagliata dal successo sul campo, in contrasto con quanto successo alle squadre inglesi. Nonostante non sia un facile obiettivo, raggiungere un adeguato equilibrio tra la gestione finanziaria e il successo sportivo è cruciale per una Federazione se vuole attrarre tifosi, media, sponsor e investitori. Analizzando soprattutto i bilanci dei club
I club inglesi guadagnano quasi 2,4 miliardi di euro, il doppio di quelli italiani Nonostante questo, il divario fra la Premier League e la seconda Federazione, sarà comunque di circa un miliardo di euro. Con particolare riferimento all’Italia si rileva che nella stagione 1995/1996 le squadre della Serie A e quelle della Premier League inglese erano simili per redditività (circa 450-500 milioni) e presenze medie (circa 30mila per partita). Nella stagione 2006/2007, i redditi delle squadre della massima Serie italiana sono stati pari a 1,2 miliardi di euro, praticamente la metà della Premier League e, per la prima volta dalle analisi di Deloitte sull’argomento, dietro a Bundesliga e Liga. Nella passata stagione Le presenze medie in Serie A sono infatti precipitate a meno
i convegni
inglesi, emerge che l’elemento fondamentale che ha inciso notevolmente è stata una ristrutturazione organizzativa in grado di favorire un approccio più manageriale alla gestione delle squadre. Questo ha permesso di incrementare le leve di sviluppo del business sportivo e diversificare le fonti dei ricavi quali, per esempio, naming degli stadi, musei dedicati ai club o incremento della sicurezza garantita all’interno delle strutture.
La strutturazione di un management di alto livello diventa quindi elemento strategico per la competitività dei club non soltanto a livello finanziario, ma ha importanti riflessi anche sul campo di gioco. Avere un’adeguata presenza manageriale con competenze ad hoc per la gestione del giro d’affari è caratteristica indispensabile per la crescita dei club nei prossimi anni. Le società, oltre alla performance sportiva, devono curare sempre di più la gestione economica come vere e proprie aziende, poiché il controllo dei costi è la principale chiave per trasformare il calcio in un “entertainment” di successo. Va tenuto infatti presente che performance correlate a strutture di costi variabili consentono di motivare e di remunerare i giocatori e il management in caso di successo. Così come proteggono le società in caso di performance sportive non eccezionali. Partner di Deloitte e responsabile dei servizi rivolto al mondo sportivo
ROMA Mercoledì 2 luglio 2008 Università La Sapienza Viene presentato il Rapporto sullo stato sociale anno 2008. Lo commentano Maurizio Sacconi, ministro del Lavoro, Luigi Angeletti, segretario generale della Uil, Maurizio Beretta, direttore generale di Confindustria, Raffaele Bonanni, segretario generale della Cisl, Morena Piccinini, segretaria confederale della Cgil. ROMA Venerdì 4 luglio 2008 Residenza di Ripetta Salvatore Zecchini, presidente del Gestore del mercato elettrico, presenta la relazione annuale 2007-2008. Con lui, discutono del futuro della Borsa elettrica Alessandro Ortis, presidente dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas, Antonio Costato, vicepresidente di Confindustria con delega per l’Energia e Carlo Macchiaroli, head of commodities trading di Imi.
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La Lega punta a un miliardo ma i diritti tv sono sempre meno appetibili
Da Rai e Mediaset solo spiccioli per i gol di Francesco Daverio
MERCATO GLOBALE
Un po’ analisti e un po’ indovini di Gianfranco Polillo
l decreto sulla ripartizione dei diritti televisivi del calcio approvato la fine dello scorso anno, e voluta dall’allora ministro Giovanna Melandri, ha aperto nuovi scenari nel mondo del pallone. Ma ancora tutti da risolvere. Gettate le basi per la vendita dei diritti collettivi dal 2010, ora la domanda che regna sovrana è stabilire quanto vale realmente il campionato di calcio italiano. Mancano ancora due anni è vero, ma c’è fretta di decidere. Se fino a oggi le tre principali squadre italiane, Juventus, Inter e Milan, si spartivano l’80 per cento degli introiti, ora con la nuova legge si stabilisce una più giusta ripartizione dei diritti tv: un 40 per cento equamente diviso tra tutte le società, un 30 sulla base dei risultati sportivi e il rimanente 30 in base al bacino d’utenza delle squadre.
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Da qui il difficile impegno in questi primi sei mesi del presidente della Lega Calcio Antonio Matarrese nel trovare la giusta soluzione, tra litigi, minacce di scioperi della serie cadetta e presidenti spaccati su diversi fronti. Uno su tutti
quello della mutualità: infatti la serie B rimane “scoperta” nel biennio 2008-2010, nel vuoto legislativo esistente, in attesa dell’entrata in vigore della legge Melandri tra due stagioni. Ma va anche sottolineata l’ingordigia dei presidenti che nella scorsa stagione sottoscrissero un più remunerativo contratto per un solo anno, allettati dalla Juve in serie B per intenderci, rifiutando un triennale con qualche milione di euro in meno ma che avrebbe garantito la sopravvivenza della categoria cadetta. La Lega intanto si affiderà ad un advisor, quattro le società candidate (Dla Piper, Img, Rothschild e Octagon), che valuterà la migliore strategia da attuare. L’obiettivo minimo sarà quello di incassare 850 milioni di euro l’anno per un triennio. Ma quello che l’intero movimento si aspetta è un assegno da un miliardo, cercando di avvicinarsi al modello della Premier League inglese. Che si porta a casa 1.400 milioni di euro ogni stagione. L’analisi delle ultime stagioni mostra una cresci-
ta costante del totale incassato dalla vendita dei diritti individuali e collettivi. Nel 1999-2000, primo anno in cui ogni club trattò singolarmente la cessione delle proprie partite, le società guadagnarono complessivamente la somma dell’equivalente di 400,6 milioni di euro, cui si aggiungevano i 104,9 delle cessioni collettive. L’anno seguente i diritti individuali, sommati tutti insieme, aumentarono a 436,5 milioni di euro. Dopo una breve flessione delle stagioni successive (culminate nei 422,9 del 2002/2003), dal 2004/2005 (500,6 milioni) la crescita, complice anche l’avvento del digitale terrestre e dello sviluppo delle nuove piattaforme multimediali, i cosiddetti “new media”, è stata essenziale. In questa strada ancora tutta da percorrere come non citare il caso di ContoTv: canale satellitare per adulti, ha trasmesso le partite della Fiorentina in Coppa Uefa e trasmetterà il ritorno del Napoli in Europa nella gara d’andata di Intertoto. Invece non è ancora stabilito dove potremo vedere i cosiddetti highlights delle partite della prossima stagione. Dai 105,5 milioni del 2005/2006 pagati da Mediaset, strappando per la prima volta i diritti in chiaro alla Rai, si è scivolati agli 87,7 dell’attuale campionato con rischio di ulteriore decremento. Il Biscione non appare intenzionata a confermare i 61 milioni per gli highlights. Ma per cercare di colmare il gap con il calcio inglese è l’unica strada da percorrere.
Molto dipenderà dai pacchetti di offerta. Sky, che oggi garantisce l’80 per cento degli introiti, vorrebbe una ancor maggior spalmatura delle gare. Tesi caldeggiata anche dalle grandi con in testa l’amministratore delegato del Milan Adriano Galliani. Per intenderci, il famoso “spezzatino”, termine non gradito all’Ad rossonero, ma che rende bene l’idea. Ma questa proposta rende meno appetibile e svaluta di conseguenza il pacchetto dell’offerta in chiaro. La Rai intenzionata a riprendersi i diritti non ha però alcuna intenzione di fare follie. Il direttore di Raisport, Massimo De Luca, forte degli ottimi risultati d’ascolto per gli Europei, sull’argomento non ha dubbi: «Il calcio in chiaro oggi vale più o meno 20 milioni di Euro». Ma il problema di un’overdose calcistica sulle nostre televisioni esiste e il calcio inglese – ormai nostro paradigma – un rimedio l’ha posto: vengono trasmesse solo 138 gare su 380 proprio per non svalutare il prodotto. Al momento sussistono forti perplessità sul da farsi. La Lega Calcio non ha ancora indetto il bando di concorso, cosa che avverrà a luglio, ma il rischio di non vedere in chiaro i goal della domenica è alto. Già, ma quale domenica? A sentire certi presidenti dovremmo dire i goal della settimana. Forse è meglio cambiare canale.
i vorrebbe un indovino più che un analista per capire l’evoluzione della crisi internazione con il suo impasto di problemi finanziari e produttivi. Una di quelle figure che nell’antichità erano in grado di predire, o far finta di farlo, le sorti future delle grandi avventure. Il grande sviluppo tecnico e scientifico degli ultimi anni si è dimostrato inadeguato per penetrare le difficoltà del presente. Non sono bastati i sofisticati esercizi matematici, lo sviluppo dell’econometria, l’uso di computer con una potenza di calcolo quasi infinita. Il loro limite comune è quello di un orizzonte piatto, che annulla la memoria storica e con essa la possibilità di proiettarsi nell’immediato futuro.
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Si spiegano anche così le difficoltà previsionali. Se si insegue la congiuntura, minuto dopo minuto, ogni variazione improvvisa, viene vissuta come l’inizio o la fine di un evento catastrofico. Così, all’improvviso, la crisi si risolve o precipita. È capitato a uomini particolarmente attrezzati, come Mario Draghi. Dieci giorni fa, al vertice dei G8, aveva diagnosticato non proprio il superamento della crisi, ma almeno il ritorno verso una situazione meno inquietante. Previsione che ha retto solo pochi giorni. Sabato scorso, di fronte ai rappresentanti della Bce e della Banca centrale cinese, ha dovuto rettificare il tiro. Quella crisi finanziaria che sembrava esorcizzata è invece viva e vegeta. E i suoi esiti sono tuttora imprevedibili. Nel frattempo tutte le borse mondiali subivano forti perdite. E il contagio dai gruppi bancari si diffondeva, come una peste, per tutto il listino. Ancora peggio è andata per Alain Greenspan, ex presidente della Fed, la banca centrale americana, ma so-
prattutto, per un decennio, guru indiscusso dell’economia globalizzata. Il suo tono, a volte oscuro, quasi sempre profetico, aveva dominato i mercati. Una voce che incantava i serpenti, fornendo le chiavi di lettura più giuste per governare i complicati geroglifici che ne caratterizzavano i segnali. Osannato per anni, oggi quella stessa personalità ha perso gran parte del suo smalto originario. Gli si rimprovera, seppure sommessamente, la crisi attuale. Se non vi fosse stato l’eccesso di liquidità, creato dalla sua politica, forse quelle bolle speculative, che tanti problemi creano, non sarebbero mai nate. Tesi discutibile, ma sintomatica dell’incertezza che caratterizza il mercato ed i suoi cantori. Che fare quindi? Innanzitutto non lasciarsi incantare dalle analisi estreme. Le antitesi eroiche (età dell’oro o età del piombo) servano a poco. La crisi non è il crollo, ma un processo più o meno lungo che alla fine ristabilirà alcuni equilibri. L’importante è non trascurare il fattore tempo e non lasciarsi trascinare dalle spire della congiuntura impazzita.
Non convince per esempio l’ultima previsione del centro studi di Confindustria sugli andamenti dell’economia italiana. Quell’ipotesi di crescita dello 0,1 per cento, contro un valore dello 0,5, come indicato dalla Ue, risente del pessimismo di questi ultimissimi giorni. Certo una caduta prospettica, anche drammatica, non si può escludere, in linea di principio. Tuttavia, il “maturato”, ossia il Pil già realizzato, stando ai risultati del primo trimestre, è dello 0,3 per cento. Da allora a oggi non si è verificata alcuna catastrofe. La produzione aumenta seppure lentamente. Gli ordini e il fatturato anche. E allora perché mai cedere in questo modo alla paura?
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economia In basso, il ministro per lo Sviluppo economico, Claudio Scajola. Il titolare del dicastero di via Veneto ha promesso che i lavori per le nuovi centrali nucleari inizieranno già prima della fine della legislatura in corso
I deboli programmi di investimento nel Vecchio continente sono insufficienti a risolvere il gap di domanda
Europa: la lenta corsa all’atomo di Carlo Stagnaro l nucleare fa paura agli sceicchi? Probabilmente no, ma non per questo è meno importante. Affrontare correttamente la questione energetica richiede la capacità di sviluppare una certa sensibilità per gli ordini di grandezza, e per i limiti e le opportunità tecniche delle varie fonti. Oggi l’atomo copre circa il 14,2 per cento dei consumi primari di energia in Europa, una quota destinata a ridursi al 10,3 per cento nel 2030, a causa dell’aumento dei consumi – che salirà a un tasso dello 0,41 per cento, da poco più di 1500 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio (tep) a circa 2000. In termini di capacità elettrica installata, poi, il nucleare rappresenta il 18,2 per cento del totale, con una prospettiva di moderata contrazione, ancora una volta frutto della combinazione tra espansione della base di generazione elettrica e leggera riduzione del parco atomico europeo. Queste previsioni della Ue non tengono conto della promessa del governo italiano a riprendere l’esperienza nucleare, ma in ogni caso l’impatto sul sistema energetico comunitario sarebbe marginale (anche ammesso che alle parole seguiranno i fatti). Se l’atomo ha di fronte prospettive di sostanziale tenuta ma non di crescita, continuerà a salire la richiesta di gas e petrolio, e aumenteranno più che proporzionalmente le importazioni (poiché la produzione domestica è avviata a un
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declino apparentemente inesorabile). L’esame di questi dati mostra chiaramente come il nucleare europeo non costituisca o possa costituire un deterrente rispetto a ulteriori tensioni speculative sui mercati petroliferi.
Dal punto di vista strutturale, il nucleare non è competitivo col petrolio, in quanto il greggio viene utilizzato principalmente nel settore dei trasporti, mentre l’atomo può essere impiegato soltanto nella generazione elettrica. Elettricità
re il carico di base, mentre il gas è ottimo per fronteggiare i picchi. Sovrapporre questi due combustibili – come hanno fatto il nostro Paese a favore del gas e la Francia a favore del nucleare – produce soltanto un’inefficienza di fondo. C’è poi un problema politico: nonostante le sue tante virtù e la sua indubbia utilità, la popolarità dell’atomo è, a dir poco, molto bassa. Tanto che, a parte il caso italiano, anche altri grandi Paesi nucleari – come la Germania, la Svezia
Senza interventi più decisi, lo sviluppo del nucleare non riuscirà a frenare gli alti consumi di petrolio e gas. Si pagano ancora l’assenza di soluzioni per l’autotrasporto e i tabù politici e carburanti per autotrazione non sono, al momento, sostituibili su larga scala. Il nucleare potrebbe contendere una quota di generazione elettrica al gas, ma soltanto nei Paesi che hanno spinto l’utilizzo del metano oltre i limiti consigliati dalle sue caratteristiche: e, oltre l’Italia, ne vengono in mente pochi. A causa del diverso rapporto tra costi fissi e costi variabili – sbilanciato verso i primi nel caso del nucleare, verso gli altri per il gas – e della diversa reattività dei costi di generazione ai prezzi del combustibile – con una maggiore stabilità del nucleare – oltre che delle specifiche tecniche di funzionamento degli impianti, l’atomo si presta bene a copri-
e il Belgio – sono alle prese con ingestibili programmi di phase out. Ingestibili perché non c’è visibile via d’uscita, vista la loro struttura energetica, ma che comunque riflettono un impegno politico preso nel passato e con il quale occorre fare i conti. È ovvio che il nucleare non soltanto non sparirà, ma man mano che le attuali centrali arriveranno a fine vita, saranno sostituite. Le proiezioni della stessa Commissione europea non danno – guarda caso – alcun peso all’impegno di uscire dal nucleare. Ciò nonostante, il fatto che la battaglia riguardi soprattutto il mantenimento dell’attuale parco nucleare e non la sua
espansione è una delle ragioni (non l’unica e forse neppure la principale) per cui l’atomo europeo non crescerà. E questo è il dato ineludibile. Dal punto di vista dei Paesi produttori di petrolio – e, più in generale, dei mercato – l’atomo europeo non costituisce una minaccia. Perché la domanda di greggio e di gas potrà crescere più o meno rapidamente, ma certo non subirà le insidie del nucleare. Questo significa forse che il nucleare sia una pista sterile, e che non valga la pena di seguirla? Certamente no, per due ragioni. In primo luogo, l’atomo è una componente minoritaria ma molto importante del mix energetico europeo, e non è immaginabile una sua sostituzione nel breve termine. Una significativa riduzione dell’apporto atomico all’offerta comunitaria di energia lascerebbe un buco difficile da colmare, particolarmente in una fase in cui i mercati degli idrocarburi sono tesi.
Secondariamente, il nucleare svolge anche una duplice funzione economica e finanziaria sui mercati energetici europei: aiuta a stabilizzare i prezzi contro la volatilità di metano e greggio, e rappresenta una sorta di strumento di hedging, il quale consente una più efficace distribuzione dei rischi (anche fisici, poiché gli impianti atomici hanno un’elevata efficienza e continuità di generazione). L’atomo non ci salverà, ma neppure possiamo farne a meno.
economia
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Oggi arrivano i dati sulle immatricolazioni e il Lingotto potrebbe registrare una nuova batosta
Fiat, poco appeal in Borsa e sul mercato di Vincenzo Bacarani
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L’inflazione sale al 3,8% L’Istat ha comunicato ieri che nella stima preliminare l’inflazione è salita al 3,8% dal 3,6% di maggio portandosi così ai massimi da luglio 1996. Su base mensile i prezzi sono aumentati dello 0,4%. Sono ancora alimentari e carburanti le voci che fanno accelerare l’inflazione a giugno. I prodotti alimentari e le bevande analcoliche sono cresciuti del 6,1%, con un forte incremento soprattutto per la pasta i cui prezzi salgono in un anno del 22,4% (dal 20,7% di maggio). Gli incrementi tendenziali più elevati si sono registrati nei capitoli abitazione, acqua, elettricità e combustibili (+7,2%), trasporti (+6,9%) e prodotti alimentari e bevande analcoliche (+6,1%). E il commissario Ue agli Affari Economici e Monetari, Joaquin Almunia, ha dichiarato: «L’inflazione al 4% nel mese di giugno nella zona euro ci preoccupa profondamente» e ha ribadito l’appello a «evitare gli effetti di secondo round», come l’innescarsi di una spirale prezzi-salari.
Da gennaio pensioni dal tabaccaio
TORINO. La Fiat resta con il fiato sospeso per i dati sul mercato dell’auto previsti per oggi e non ha tutti i torti. Dopo un 2007 di soddisfazioni, il 2008 è cominciato sotto brutti auspici. Che potrebbe essere contraddistinto dall’ennesima crisi strutturale del settore auto.
Dal Lingotto nessuno parla in attesa dei dati ufficiali. E ieri il titolo in Borsa ha avuto un calo dello 0,8 per cento. Lontani sembrano i tempi in cui il gruppo sembrava lanciato nella corsa verso la quotazione dei 30 euro. Oggi deve accontentarsi di navigare intorno ai 10, centesimo più o in meno. L’amministratore delegato, Sergio Marchionne, getta acqua sul fuoco. Non si dice preoccupato dall’uscita del fondo Amber dalla galassia di Torino e aggiunge: «La nostra quota di mercato è oltre il 30 per cento in Italia: quindi teniamo bene, ma il mercato è debole. Confermiamo tutti i target, compresa la quota dell’8 per cento in Europa. Quest’anno registreremo circa 64 miliardi di euro di fatturato». Sta di fatto che per il mercato dell’auto si profila una nuova, profonda crisi dovuta a inflazione galoppante, a un’abnorme crescita del prezzo del petrolio dovuta alle bolle speculative e alla fine degli incentivi alla rottamazione. La Fiat, nonostante le rassicurazioni di Marchionne, è comunque una di quelle industrie automobilistiche che non gode proprio di buona salute. Dominante su un mercato, quello italiano, che però appare sempre più in evidente stato di for-
te contrazione, con una minimale presenza sui mercato europei ed extraeuropei (se si eccettuano Brasile e Turchia), la casa del Lingotto deve fare i conti con una crisi cicliche che, a dal ’90 in poi, si ripetono ormai ogni due-tre anni. Dopo la Cinquecento lanciata l’anno scorso, il 2008 sembra essere l’anno del restyling, cioè l’anno delle vacche magre come la tradizione insegna. La nuova Delta e la MiTo, quest’ultima una riedizione elegante di un’Alfa Romeo per gli alfisti della prima ora, sono i soli atout che la casa torinese propone
Marchionne si dice tranquillo, ma pesano la debolezza del titolo e l’assenza di nuovi modelli. I sindacati temono il ritorno della cassa integrazione in questa fase. L’idea di produrre modelli del Biscione in Usa o in Centro America resta comunque una soluzione di ripiego, destinata a una clientela di nicchia e comunque non ancora definita nei suoi contorni. Troppo poco nei confronti di un mercato sempre più aggressivo sul fronte della concorrenza europea e giapponese e sempre più debole sul fronte della domanda. E per il futuro non ci sono grandi progetti. «È naturale», spiega Gian Primo Quagliano, direttore del Centro
studi Promotor, «che ci sia un periodo di stop nel mercato. Veniamo da undici anni di crescita. Fiat? Mi risulta che tenga abbastanza bene le posizioni e che stia crescendo sul mercato brasiliano». Non della stessa idea i sindacati. Spiega Giorgio Airaudo, segretario della Fiom-Cgil Piemonte: «C’è senz’altro una contrazione. Basti pensare che dal 7 luglio qui a Mirafiori e a Termini Imerese verranno svolti dei corsi di formazione». Corsi di formazione certamente ben accettati dai sindacati, ma che significano una diminuzione della produzione. Un’anticamera di una prossima cassa integrazione? «La contrazione del lavoro», prosegue Airaudo, «c’è ormai da tre mesi. Resta da capire se la Fiat sarà in grado di affrontare questo periodo. Noi, ovviamente, lo speriamo».
La preoccupazione si moltiplica se si pensa che ormai il futuro dell’auto è legato alla ricerca e agli investimenti sulle energie rinnovabili. «E a questo punto», conclude il sindacalista, «tornerebbe d’attualità il tema delle alleanze perché non sappiamo se la Fiat ha le risorse per affrontare da sola questo grande problema». Il tema delle alleanze dovrà prima o poi finire sul tavolo di Marchionne. L’artefice della resurrezione del Lingotto non potrà fare a meno di affrontare due sostanziali problemi di fondo: una crisi di mercato che sta assumendo sempre di più i caratteri di una crisi strutturale, e non contingente, e una mancanza di creatività e progetti al Lingotto.
A partire da gennaio sarà possibile ritirare la pensione anche dal tabaccaio sotto casa. Lo ha annunciato il ministro per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione, Renato Brunetta, intervendo al convegno della Fit (Federazione Italiana Tabaccai) ’’Tabaccai: una rete amica’’, dove ha illustrato modi e tempi del progetto ’’Reti Amiche’’. «Da gennaio ha detto Brunetta - i pensionati a basso reddito potranno ritirare la pensione in tabaccheria. In virtù dell’accordo tra l’Inps e i tabaccai si può attrezzare un servizio personalizzato tipo bancomat in modo che in qualsiasi posto si trovino sarà possibile recarsi presso un punto della Rete e chiedere di prelevare cifre anche modeste, fino a 10 euro, annullando il rischio di scippi».
Tav, polemiche sull’accordo Il presidente della comunità montana della bassa Val Susa,Antonio Ferrentino interviene sulla vicenda Tav: «L’accordo c’è, ma sul modus operandi, non sul tracciato. L’accordo è sulle regole, è un buon impianto, perché mette al centro il territorio e coniuga le politiche dei trasporti e quelle legate alle infrastrutture. Il governo continua nella politica degli annunci, soccorso da una stampa accondiscendente e ciò è bastato a far scattare il trappolone mediatico». Anche per il commissario europeo ai Trasporti, Antonio Tajani: «bisogna adesso aspettare il percorso definitivo e la valutazione di impatto ambientale. Ma sono sicuro che come mi ha assicurato il ministro Matteoli l’Italia si impegnerà per la realizzazione di quest’opera».
Il petrolio fa segnare un altro record Nuovo record dei prezzi del petrolio. I timori degli investitori relativi a possibili problemi dell’offerta dall’Iran hanno spinto i corsi dell’oro nero su nuovi massimi oltre i 143 dollari al barile. A spingere i prezzi al rialzo anche la debolezza del dollaro.
Marcegaglia: «Liberalizziamo autotrasporti» Emma Marcegaglia, presidente degli industriali, è intervenuta sulla sospensione dello sciopero dell’autotrasporto e replicando al ministro delle Attività produttive, Claudio Scajola, ha detto: «Aver scongiurato lo sciopero dei tir è un bene, ma non va nella direzione che serviva, è necessario che il settore, che è vitale per il nostro apparato industriale vada incontro ad una vera modernizzazione e liberalizzazione. Noi abbiamo ancora un sistema di autotrasporto molto frammentato e molto inefficiente. È evidente che è stato salvato da un momento di emergenza, ma non si può andare avanti così, accettare di indicizzare il prezzo dei trasporti al prezzo del petrolio. Ci vuole una vera liberalizzazione altrimenti tra due-tre mesi ci ritroveremo di nuovo con la minaccia e il ricatto di uno sciopero».
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cultura I suoi libri ispirarono Gandhi, M. L. King ma anche i pacifisti di oggi
i racconta che all’amico e maestro Ralph Waldo Emerson, che era andato a trovarlo in prigione e gli aveva chiesto: «David, ma cosa ci fai lì dentro?», David Henry Thoreau abbia risposto: «Waldo, la vera domanda è cosa ci fai tu là fuori». L’aneddoto è sicuramente gustoso, ma per comprenderne appieno il significato è necessario chiarire chi erano i due personaggi in questione e perché uno di loro si trovava in carcere. Emerson (18031882) è stato un importante protagonista della cultura statunitense del XIX secolo nella quale ha lasciato una traccia profonda: filosofo, narratore e poeta, sul piano del pensiero egli si ricollega all’idealismo di Hegel e subisce l’influsso dell’immaterialismo di Berkeley.
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Uomo dallo spirito inquieto, egli ama fare appello all’entusiasmo morale del lettore e, come ricorda Nynfa Bosco, «al rigore del ragionamento preferisce il calore della predicazione o addirittura della profezia». E il suo animo profetico emerge soprattutto quando egli immagina il futuro dell’umanità caratterizzato dal progresso tecnologico e dal benessere, che avrebbero aumentato la libertà delle persone ed elevato la loro spiritualità. Non facilmente comprensibile risulta però la contemporanea dura critica a cui Emerson, per altro completamente estraneo all’entusiasmo per il sapere scientifico, sottopone la società americana del suo tempo, da lui considerata malata di tecnicismo e di volontà di potenza. Facendo riferimento a queste idee emersoniane, è più facile comprendere la figura e l’opera di David Henry Thoreau, prosatore e saggista nato a Concord, una piccola cittadina del Massachussets, nel 1817, e lì scomparso, non ancora quarantacinquenne, consumato dalla tisi. Laureatosi ad Harvard, ove fa la conoscenza di Emerson rimanendone fortemente affascinato, Thoreau si dedica all’insegnamento, distinguendosi per l’adozione di metodi originali e anticonformisti. Intanto matura una concezione dell’uomo e del mondo alla cui base stanno una radicale esaltazione dell’individuo e della sua emotività, nonché una netta preminenza dello spirito sulla materia e una grande ammirazione per la natura. Forte di queste convinzioni, Thoreau effettua vari viaggi alla scoperta delle bellezze naturali e poi, quando
Quel no global di David Thoreau di Maurizio Schoepflin
ha appena ventisette anni, decide di andare a vivere sulle rive del Lago di Walden, non lontano da Concord, in una casa costruita con le proprie mani: frutto di questa esperienza, che oggi definiremmo estrema, furono diciotto saggi, pubblicati nel 1854, nei quali egli descrive il significato e il valore di una vita
Fu ad Harvard che il filosofo Thoreau (in alto a destra) conobbe l’amico Emerson (sopra in una statua-ritratto). I due si distaccarono presto per divergenze sociopolitiche
Insegnante dai metodi non conformi, prese a non pagare le tasse in segno di protesta contro il governo Usa, allora impegnato nella «aggressiva» guerra al Messico
condotta secondo i principi dell’autosussistenza e dell’autoisolamento. In questo contesto esistenziale e ideologico si colloca la scelta di Thoreau di non pagare le tasse, in segno di protesta contro il governo statunitense allora nella impegnato guerra contro il Messico, da lui ritenuta frutto di una
politica aggressiva ed espansionistica. Per questo verrà imprigionato – si dice per una sola notte, in quanto il rapido pagamento di una cauzione, assai probabilmente da parte di una zia, ne permise l’immediato rilascio – e fu nel carcere di Concord che avvenne l’incontro con Emerson, dal quale, tuttavia, in seguito,Thoreau si distaccò, per approdare a posizioni che privilegiavano un deciso impegno sociale e politico, soprattutto sul versante dell’azione antischiavista ispirata alla figura di John Brown, il noto leader abolizionista giustiziato nello stato della Virginia. Sul piano più squisitamente culturale, la testimonianza maggiormente significativa della protesta e della disobbedienza praticate da Thoreau è il famoso saggio Resistance to Civil Government, originato da una conferenza tenuta il 26 gennaio 1848 nella piccola Sala delle Assemblee di Concord e pubblicato l’anno seguente, di recente riproposto in italiano con il titolo Disobbedienza civile (Piano B edizioni, pp. 64, euro 9). Si tratta di un testo accolto con estremo favore da uomini come Tolstoj e Gandhi, capace di influenzare il movimento antirazzista di Martin Luther King, ma anche alcune frange del pacifismo hippie e della cultura beat di trenta, quaranta anni fa, e pure l’odierna area ecologista e no global.
In Thoreau, morale e politica si fondono e si può dire che egli abbia inventato la figura del dissidente moderno, che, in un certo senso, si presenta come la sublimazione del rivoluzionario liberale sette-ottocentesco e fa della resistenza passiva, fondata sulla coscienza individuale e la responsabilità personale, l’arma prediletta della lotta politica. Ha sostenuto ancora Nynfa Bosco che il disobbediente di Thoreau agisce «in base al principio per cui l’unico dovere da assumere è quello di fare in ogni momento ciò che si ritiene giusto, in forza di una percezione intuitiva immediata». Si legge in Disobbedienza civile: «Ma allora perché ogni uomo ha una coscienza? Dovremmo essere prima di tutto uomini e poi sudditi. Non c’è da augurarsi che l’uomo nutra rispetto per la legge, ma che sia devoto a ciò che è giusto. Il solo obbligo che ho il diritto di arrogarmi è quello di fare sempre e comunque ciò che ritengo giusto».
cinema
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Dalla Dreamworks un film per ragazzi con tutti gli ingredienti della migliore formula pedagogica
Un Panda tra Oriente e Occidente di Roberto Genovesi e volete farvi un’idea delle migliori tradizioni orientali e di come si possa costruire un film per ragazzi che abbia nel dna tutti gli ingredienti della migliore formula didattico pedagogica raccontata con un linguaggio visuale e registico accattivante non perdetevi “Kung Fu Panda”. Lo ammetto, il titolo non attira di primo acchito perché richiama alla memoria i B movie che qualche decennio fa sbarcavano a pacchi in Europa ma sono tante e assai piacevoli le sorprese che questo nuovo film in animazione digitale della Dreamworks può riservare a molte tipologie di pubblico. Scritto su più livelli di target per piacere a genitori e figli, “Kung Fu Panda” è un esempio paradigmatico di come si possa costruire un meccanismo narrativo per immagini in cui i connotati di valori condivisi di cultura orientale e occidentale convivano, non solo senza fare a gomitate, ma addirittura completandosi vicendevolmente.
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L’intreccio è classico e riporta alle antiche formule dell’archetipo dell’eroe. Po, il protagonista, un grasso e grosso panda che aiuta il padre in una tipica spaghetteria cinese, vorrebbe diventare un maestro di kung fu. Per questo passa le sue giornate a fantasticare di traguardi impossibili ed imprese eroiche. Naturalmente una antica profezia lo ha già individuato come il protagonista di un’impresa impossibile: salvare la vallata e tutta la sua gente dal ritorno di un malvagio criminale fuggito dalla prigione più sicura del mondo. Po, con tutti i suoi chili di troppo, i suoi movimenti maldestri e la sua fame atavica per frittelle e dolciumi, compie durante il film tutto il percorso necessario all’individuo comune scelto dal fato per diventare l’eroe di una comunità. Sacrificio, dedizione, fiducia nei propri mezzi e l’amicizia di una compagnia di maestri di kung fu prima suoi denigratori e poi suoi compagni d’avventura so-
no gli ingredienti che lo porteranno alla vittoria finale. La storia è davvero classica ma la sceneggiatura, scritta con equilibrio ed intelligenza da Ethan Reiff e Cyrus Voris, riesce ad essere un piccolo compendio didattico (per chi scrive cinema) su come debba essere impostato un film dedicato ai teenager che voglia raccontare con levità i difficili problemi di una vita in crescita. Con un occhio al mondo reale ed un altro ai sogni della preadolescenza che spiccano il volo verso l’età adulta, “Kung Fu Panda” riesce a divertire e a portare lo spettatore in procinto di affrontare l’età della maturità a riflettere su quanto possa essere e debba essere faticoso superare gli ultimi gradini del cammino evolutivo
nisti del proprio mondo. Un film che esalta i valori della tradizione ma non manca di dimostrare come il progresso possa portare nuovi tasselli migliorativi ad un contesto di valori non negoziabili.
Si apprezzano alcune sfumature non marcate ad arte ma palesi che richiamano al concetto di comunità di pari senza distinzione di estrazione sociale o di pensiero. Comunità, o compagnia se volete, in cui ognuno è in grado di portare un contributo determinante solo se visto nell’ottica della collaborazione. Simbolicamente esemplari i profili delle cinque furie che affiancano Po nella sua avventura. Tigre, che nella versione originale ha la voce di Angelina Jolie, è il prototipo della ragazza emancipata e di carattere in grado di porsi sullo stesso piano degli uomini in una società in cui il contributo della
Nella foto in alto, Jack Black, voce del protagonista animato di “Kung Fu Panda” della personalità. “Kung Fu Panda” non è un film politically correct ma, più semplicemente, un film realizzato da persone intelligenti che hanno saputo dosare con cura l’accesso a quei meccanismi che si accendono nella mente di ogni ragazzo equilibrato nel momento in cui
“Kung Fu Panda” esalta la tradizione ma cerca anche di dimostrare che il progresso può migliorare il contesto dei valori il tempo decide che è arrivato il momento di lasciare alle spalle i giochi per diventare protago-
componente femminile diventa un prezioso e irrinunciabile valore.Vipera è una guerriera affascinante e deduttiva, immagine di una donna iconoclastica ma consapevole della necessità di usare fascino e forza al servizio di un disegno collettivo. Mantide raccoglie nelle sue ridotte dimensioni il concetto di rapporto tra volontà ed effetto. Scimmia è il macho del gruppo nella cui personalità si fondono in equilibrio l’imprevedibilità della gioventù con la serenità della fedeltà al gruppo. Ma francamente il personaggio che più colpisce ed ispira simpatia, anche proprio per il
modo con il quale gli autori riescono a presentarlo al giovane pubblico è Gru, dai tratti grafici e dalla personalità vagamente omosessuale, che rifuggendo da eccessi e luoghi comuni, diventa il simbolo dell’equilibrio tra le diverse personalità del gruppo. Per non parlare di mister Ping, il padre di Po, che è un pennuto ma che il nostro panda riconosce come genitore senza alcuna titubanza. Le sue fattezze evidentemente diverse da quelle del figlio non portano ad un rapporto conflittuale poiché il valore dell’affetto genitoriale diventa immensamente più forte della apparente diversità. Ecco, forse è proprio la diversità il concetto chiave di “Kung Fu Panda”. La difformità in tutte le sue variabili che diventa valore aggiunto. Una difformità che non vuole porsi come alternativa all’uguaglianza di tratti esteriori ma come sinonimo di omogeneità di intenti se sorretti da ideali mitici.
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storia
Riletture. Attaccarono la Chiesa e portarono Pio IX all’esilio, ma i gli eroi della Repubblica Romana di Garibaldi e Mazzini scrissero una pagina importante nella storia d’Italia
La Repubblica dei due Giuseppe di Massimo Tosti n un’intervista di qualche anno fa, Giulio Andreotti mi confessò di aver votato per la monarchia, nel referendum istituzionale del 1946. E spiegò la ragione di quella scelta con la sua proverbiale ironia: «Avevo una zia molto anziana, nata a metà del secolo precedente, papalina e affezionatissima alla memoria di Pio IX, che continuava ad essere il ”suo” papa. Quando si parlava di repubblica a lei tornava in mente la Repubblica Romana del 1849, quella di Mazzini e Garibaldi, con il papa esule a Gaeta, ospite di Ferdinando II di Borbone. “Una Repubblica che i romani più legati al papa giudicavano in modo profondamente negativo. Quel giudizio si tramandò nel tempo. Quando ero ragazzo, dire ”Questa è una repubblica” equivaleva a dire che c’era un gran disordine e una grande confusione». Ricordi che non riguardano soltanto Andreotti. «Questa è una repubblica» era un modo di dire piuttosto diffuso. Oggi si dice «questo è un casino», e forse la scelta dipende dal fatto che le “case” sono state chiuse ormai cinquant’anni fa. Gioca la memoria, anche in questo parallelo.
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Il pregiudizio non è ancora tramontato, dopo quasi centosessant’anni. La Chiesa subì la scelta repubblicana come un affronto alle proprie prerogative. Pio IX giocò d’anticipo: il 1° gennaio 1849 scomunicò tutti i cittadini che avevano partecipato alla rivoluzione dei mesi precedenti e tutti coloro che avessero deciso di partecipare alle elezioni per l’Assemblea costituente, convocate per il successivo 21 gennaio. Il monitorio papale stigmatizzava «gli autori e fautori della demagogica anarchia» che «tentano di-
struggere l’autorità temporale del Romano Pontefice sui dominj di Santa Chiesa, quantunque irrefragabilmente stabilita sui più antichi e solidi diritti, venerata, riconosciuta e difesa da tutte le nazioni, col supporre e far credere che il di Lui Sovrano potere vada soggetto a controversia, o dipenda dal capriccio dei faziosi».
Dalla prosa contorta affiorano due elementi decisivi: che il sacrilegio che si stava consumando riguardava il potere temporale, e che – per difenderlo – il papa era pronto a invoca-
Roncalli in data 5 febbraio 1849 (il giorno in cui si aprirono i lavori dell’Assemblea costituente): «Alle 10 i deputati ascoltarono la Messa all’Aracoeli, che la disse un cappellano militare, essendosi quei frati ricusati di celebrarla, per ordine del vicegerente. Quindi, democraticamente, scesero a piedi per il Corso col numeroso corteggio e truppa, e, per la Fontanella di Borghese e San Luigi dei Francesi, si recarono alla Cancelleria». Ed ecco il resoconto della seduta: «Vi erano 140 deputati presenti. Armellini aprì l’Assemblea con un discorso col quale annunziava esser compiuta l’opera della redenzione romana, e che Roma, fatta bastantemente forte, si sarebbe messa forse alla testa di tutte le altre nazioni; conchiuse che questo popolo non era più la dote di un Sacerdozio
La Repubblica Romana del 1849 fu uno stato sorto a seguito di una rivolta liberale che nei territori dello Stato pontificio estromise Papa Pio IX (a sinistra) dai suoi poteri temporali. Fu governata da un triumvirato composto da Carlo Armellini (in basso), Giuseppe Mazzini ed Aurelio Saffi (nella pagina a fianco). Ebbe vita breve, ma fu un’esperienza significativa nella storia dell’unificazione italiana, che vide l’incontro e il confronto di molte figure di primo piano del Risorgimento, fra cui Giuseppe Garibaldi (a destra)
Racconta Luigi Carlo Farini la partecipazione autentica dell’epoca: «Memorie, queste, che sopravvivono nel cuore degli uomini, confortano i vinti, consolano i vecchi, accendono l’entusiasmo dei giovani»
re l’aiuto di tutte le nazioni. La Repubblica francese di Luigi Napoleone avrebbe risposto all’appello, inviando l’esercito che poi sconfisse la resistenza dei romani. Non era in discussione il potere spirituale del papa. La maggior parte dei Costituenti erano timorati di Dio, e non condividevano i giudizi di Garibaldi (grande combattente e stratega eccezionale, ma assolutamente infelice nelle sue esternazioni verbali) che non riuscì mai a nascondere il suo disprezzo per la Chiesa e per Pio IV, che definì – con scarsa diplomazia – «il prete nemico del genere umano». Ma gli altri non erano mangiapreti, come testimonia il diario di Nicola
(Applausi prolungati)». Era stato lo stesso Pio IX a legittimare indirettamente i costituenti fuggendo da Roma (di notte, travestito da prete) nove giorni dopo l’assassinio di Pellegrino Rossi, per rifugiarsi nel regno delle Due Sicilie. Qualche dubbio riguardo all’opportunità della fuga era affiorato anche nella Curia, come riconosce Giulio Andreotti (in un prezioso libretto: Sotto il segno di Pio IX) riferendo una battuta di un «giovane monsignorino», gridata al cospetto del papa: «La storia ci condannerà» («Pio IX avrebbe voluto rispondergli per le rime, ma non era il momento»).
Le paure del “monsignorino” ebbero una puntuale conferma in un proclama ai romani di Giuseppe Mazzini, che invitò la popolazione a trarre le debite conseguenze dalla scelta del
pontefice: «La fuga è un’abdicazione: principe elettivo, egli non lascia dietro di sé una dinastia.Voi siete dunque di fatto repubblica, perché non esiste per voi, dal popolo in fuori, sorgente d’autorità». La fine del potere temporale aprì un contenzioso che si sarebbe trascinato fino al 1929, quando la firma dei Patti Lateranensi normalizzò le relazioni fra la Chiesa e lo Stato italiano che – dopo la breccia di Porta Pia – subì la stessa damnatio memoriae (con relativa scomunica erga omnes) che era toccata alla Repubblica Romana. E molti cattolici non fecero mistero, neanche allora, delle perplessità suscitate dall’atteggiamento del papa. Un esempio per tutti: Alessandro Manzoni, che era un uomo di profonda
fede, come senatore (nominato nel 1860 da Vittorio Emanuele II), fu uno dei più convinti fautori della scelta di Roma come capitale d’Italia, avendo maturato l’idea che la perdita del potere temporale non avrebbe potuto risolversi altro che in un vantaggio per la Chiesa. Nel dicembre 1864, quando il parlamento fu chiamato a votare il trasferimento della capitale a Firenze (come viatico per la scelta successiva di Roma), i leader del partito cattolico-moderato (primo fra tutti Massimo D’Azeglio) tentarono in tutti i modi di dissuadere Manzoni dal partecipare al voto. Il vecchio scrittore, caparbio nel difendere le proprie idee, non dette ascolto a nessuno, e si recò a Torino. La Chiesa non lo perdonò: quando morì, nel
storia
1 luglio 2008 • pagina 21
rica a parte, Farini – che era uomo di grande onestà intellettuale – capì quanto importante per la causa nazionale fosse stata l’esperienza della Repubblica Romana. C’erano state pagine oscure, come è naturale in tutte le rivoluzioni di popolo (furono fuse le campane di molte chiese, per farne cannoni; altri luoghi di culto furono saccheggiati e devastati), ma Roma scrisse una pagina gloriosa, a prescindere perfino dal valore dei soldati che difesero la città (guidati da Carlo Pisacane che era – per così dire – il ministro della guerra, e da Giuseppe Garibaldi, il condottiero).
Ci fu una partecipazione
1873, la Civiltà Cattolica gli dedicò soltanto poche righe. La Costituzione della Repubblica Romana – riguardo alla religione (e ai rapporti con il Vaticano) anticipò le scelte unilaterali che avrebbe compiuto due decenni più tardi lo Stato italiano. L’articolo VII stabiliva che «dalla credenza religiosa non dipende l’esercizio dei diritti civili e politici», e l’articolo VIII recitava: «Il Capo della Chiesa cattolica avrà dalla Repubblica tutte le guarentigie necessarie per l’esercizio indipendente del potere spirituale».
L’assemblea che approvò quel testo era quanto di più democratico si fosse visto in Italia negli ultimi secoli. Per l’elezione della Costituente fu adottato il suffragio universale (le donne erano escluse dal voto, ma sarebbe passato ancora un secolo perché fossero parificate agli uomini nei diritti civili: soltanto nel 1946 – per il referendum monarchia-repubblica – il diritto di voto fu este-
so all’«altra metà del cielo»). In tutto lo Stato Pontificio furono 250mila gli elettori che si presentarono alle urne: un numero enorme se si pensa che l’anno prima in Piemonte avevano votato poco più di 50mila uomini. L’avventura della Repubblica fu esaltante per chi vi prese parte attiva. A Roma erano arrivati molti patrioti che si fecero le ossa in quello che fu un laboratorio militare e politico. Luigi Carlo Farini – che fu presidente del Consiglio fra il 1862 e il 1863, e che non nutriva alcuna per simpatia Mazzini – riconobbe (nella Storia dello Stato Romano dall’anno 1815 al 1850) il contributo dato dalla Repubblica del 1849: «Chi ricerca le cagioni dei casi di Roma, chi le studia con animo pacato e diligente, quei non può riferirle soltanto ai delitti di pochi sicarii, alla malizia ed audacia di pochi cospiratori, all’ebbrezza di poco popolo, ma, fatta ragione di siffatti accidenti e dei
tempi insoliti e della indifferenza delle moltitudini, egli deve fare giudizio che ai chierici ed ai Francesi Italia va debitrice
assai di una storia della Repubblica mazziniana. Nella quale si leggono, è vero, vuote declamazioni, servili imitazioni, puerili trastulli, vendette atroci e malvagie opere; ma leggonsi eziandio combattimenti, vittorie, pericoli, temerità; e si vedono generosi giovinetti che cadono colle armi in pugno, e focosi condottieri che disfidano il Dio delle battaglie; e si contano le ferite e le si mostrano con giusta superbia; e si additano le traccie del ferro e del piombo straniero sui monumenti sacri alla religione ed all’arte: memorie queste, che molto più degli accidenti e degli sconci di governo, sopravvivono nel cuore degli uomini, confortano i vinti, turbano le gioie dei vincitori, consolano i vecchi, raffermano i propositi degli adulti, accendono l’entusiasmo dei giovani, innamorano le fanciulle, inorgogliscono le madri, danno pascolo alle speranze, cemento alle congiure, simbolo alle riscosse». Reto-
autentica della gente comune (forse la partecipazione più consistente, come qualità e quantità, dell’intero Risorgimento che fu l’opera di un’élite). E ci fu il coraggio di guardare avanti anche nel giorno della sconfitta. È significativo che l’Assemblea Costituente ratificò la Costituzione il 3 luglio, il giorno in cui i francesi entrarono a Roma da vincitori. E – altrettanto significativa – fu l’orgoglio di Garibaldi, che si dichiarò contrario alla resa e, al momento di lasciare Roma, radunò i suoi in piazza San Pietro. Aveva accanto Anita, incinta e già sofferente. «Io esco da Roma», disse: «Chi vuol continuare la guerra contro lo straniero, venga con me. Non offro né paga, né quartiere, né provvigioni. Offro fame, sete, marce forzate, battaglie e morte». Lacrime e sangue, come avrebbe promesso Winston Churchill agli inglesi quasi cent’anni dopo. voQuattromila lontari seguirono Garibaldi. La sconfitta morale toccò a Pio IX. Un giorno – quando era già prigioniero in Vaticano, dopo il 1870 – disse: «Tutto è cambiato intorno a me, il mio sistema e la mia politica hanno fatto il loro tempo, ma io sono troppo vecchio per mutare indirizzo: sarà l’opera del mio successore». L’opera fu portata a compimento da Pio XI nel 1929. Ma l’anatema contro «quella Repubblica» stenta ancora ad essere rimosso.
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LA DOMANDA DEL GIORNO
Alte cariche dello Stato, è giusta l’immunità? È GIUSTO QUANDO TUTELA DAVVERO LA CARICA, NO SE VA A SALVAGUARDARE SOLO LA PERSONA
CHI GUIDA LA NAZIONE ELETTO DAL POPOLO DEVE GOVERNARE SENZA DIFENDERSI DAI GIUDICI
Non vorrei entrare troppo nel merito del cosiddetto ”Lodo Schifani bis” o ”Lodo Alfano” approvato la scorsa settimana dal Consiglio dei Ministri italiani perché non ne conosco bene i dettagli. Tuttavia, vorrei soffermarmi su una valutazione generale: come punto di principio vale la pena di discuterlo, ma non se è un rimedio. Va bene, quindi, se tutela la carica, ma non se diventa un rimedio ad personam. Il principio è che si devono tutelare le alte cariche dello Stato come garanzia per le istituzioni. Occorre tutelare, salvaguardare la carica, non la persona. E questo è un punto si cui si può discutere e che in ogni caso dovrebbe valere a partire dalla prossima legislatura, certamente non proprio da questa. Mi trovo dunque pienamente d’accordo con quanto specificato dell’ex ministro degli Esteri Massimo D’Alema, che recentemente ha dichiarato in proposito: «La persona, qualora debba rispondere di accuse deve necessariamente farlo, ma solamente una volta che la carica si è esaurita del tutto». Cordialità.
Personalmente sono pienamente d’accordo che debbano andare avanti solo i processi che riguardano i reati più gravi - vista l’inefficienza del sistema giudiziario. Devono esser radiati quei giudici che permettono ai rei di gravi atti di uscire per decadenza dei termini. Sono pienamente d’accordo che chi guida la nazione, eletto dal popolo sovrano, debba avere il tempo per governare e non quello di difendersi dai giudici comunisti (o da giudici fascisti quando gli eletti sono di sinistra). Sono pienamente d’accordo con chi sostiene che la magistratura è un organo dello stato, al servizio dello stato e del governo eletto che è sovrano. I giudici devono essere discreti, non politicizzati, devono operare al servizio del popolo, non devono fare esternazioni, massimamente quelle politiche. I giudici non devono commentare via via le leggi, ma piuttosto devono applicarle.
Giampiero Barbagalli Sulmona (Aq)
LA DOMANDA DI DOMANI
Ha fatto bene la Rai a reintegrare Saccà? Rispondete con una email a lettere@liberal.it
Vittorio Baccelli - Lucca
SIA UN DISEGNO DI LEGGE COSTITUZIONALE, MA A PARTIRE DALLA PROSSIMA LEGISLATURA La questione posta dal cosiddetto Lodo Alfano per l’immunità delle più alte cariche dello Stato penso debba essere affrontata con un disegno di legge costituzionale e il suo contenuto sia posposto alla prossima legislatura. Il mio pensiero sposa quello di Veltroni, che l’altro giorno, rispondendo alle domande dei giornalisti al suo arrivo all’assemblea di Sinistra Democratica a Chianciano Terme, ha detto: «Questo iter darebbe il senso di un provvedimento non fatto per questioni aperte in questo momento e che riguardano cariche istituzionali in corso». A proposito dell’iniziativa del governo, faccio anche notare che in un paese che sta andando a rotoli, in cui i dati che riguardano i consumi delle famiglie stanno scendendo, in cui gli stipendi sono fermi e il governo aumenta le tasse, che ogni giorno l’esecutivo si occupi delle questioni della magistratura in particolare di aspetti specifici, dà la dimostrazione di una distanza dal Paese stesso.
MAI SUCCESSO Il “nobile” fine di far finire anticipatamente la legislatura attraverso favori a parlamentari della maggioranza di Prodi, condisce la vicenda di un sentimento di ulteriore conferma di un contrasto sempre più forte tra la sostanza della nostra democrazia e come si vuole invece appaia al Popolo. Da una parte il bipartitismo forzato e del dialogo tra maggioranza e opposizione per un lavoro di squadra teso a risolvere i problemi del Paese e dall’altra il terribile sospetto che in realtà tutto questo sia il frutto di un accordo sotterraneo tra i due gruppi di potere: il sistema ex Pci e il sistema Berlusconiano con l’obbiettivo di salvarsi di fronte alla grave situazione del Paese attraverso le leggi ad hoc, finte opposizioni e l’uso concertato mediatico di Rai e Mediaset. Avevo ipotizzato che una delle ragioni fosse il problema delle intercettazioni. L’avevo definito un “cemento telefonico”: per Berlusconi ciò che sta uscendo ora e per il Pds la vicenda Unipol Bnl. Le intercettazioni non sono prova, ma di fatto lo diventano nel nostro sistema giudiziario, che ama le scor-
VENTO IN POPPA
Una “ghirlanda” di reggiseni lunga 20 chilometri addobbata al porto di Montreal per promuovere l’iniziativa di una radio locale, che ha invitato le ascoltatrici a contribuire alla ricerca sul cancro al seno donandone uno. Una nota etichetta ha promesso 1 $ per ogni capo
SACROSANTO RILEVARE LE IMPRONTE AI BIMBI ROM
EUGENIO SCALFARI E I RAGIONAMENTI SPAZIALI
Bambini scomparsi, venduti, portati da uno stato all’altro come fossero valigie. Mutilati, per renderli ancor più allettanti per l’accattonaggio. Tenuti legati come cani. Affittati da una famiglia all’altra, senza alcun controllo. Bambine che sfilano nude in pieno centro a Milano per essere vendute al miglior offerente. Bambini picchiati se non raggiungono il budget previsto nelle elemosine. Soggetti ad essere venduti nell’ambito della pedofilia e del traffico d’organi. Spero che il ministro Maroni continui nel voler censire e tutelare questi bambini, e che le leggi italiane le faccia l’Italia, senza continue interferenze di una Comunità europea che non ha fatto nulla.
Chi suona un strumento sviluppa capacità di ragionamenti spaziali più elevate. L’universo del suonatore ha inizio dove quello dei non suonatori finisce, ci spiegano i ricercatori. Deve essere questo il caso di Eugenio Scalfari, fondatore di Repubblica. Ecco spiegato perchè quando leggiamo ciò che Egli scrive pensiamo spesso che appartenga al regno dell’impossibile. Che non sia vero nè autentico, che la realtà sia l’esatto contrario, che sia fantascienza pura. In breve, che sia di frangia lunatica. Il Nostro deve per forza suonare o averne suonato uno di strumenti. Che sia la grancassa della sinistra? Grato dell’attenzione. Distinti saluti.
dai circoli liberal Susy Ragno - Napoli
Pierpaolo Vezzani Correggio (Re)
Arianna Colasanti - Milano
ciatoie per arrivare a risultati di indagine che invece richiederebbe più lavoro. Diventano una forma di prova impropria che già parte da un giudizio precostituito. La loro pubblicazione finisce per essere non solo una condanna prima del giudizio formale, ma anche l’espiazione della pena con la gogna pubblica. Tuttavia il problema di diritti viene ora confuso con aspetti che evidenziano il gravissimo stato di salute della nostra democrazia. Lo condizione sempre più grave di milioni di dipendenti e piccoli imprenditori basterebbe da sé a giustificare “La presa della Bastiglia”. Visto che gli attori massimi della politica di questi ultimi 15 anni hanno concorso a dilapidare 70 miliardi di euro di interessi risparmiati con l’adozione dell’euro. Ecco che allora le intercettazioni di Berlusconi saranno riequilibrate dal previsto inizio del processo alla Forleo, rea di aver dimostrato scarso equilibrio in un’ordinanza per aver definito «consapevoli complici di un disegno criminoso» D’Alema e il senatore Nicola La Torre. Li aveva descritti come «pronti e disponibili a fornire i loro apporti istituzionali in totale spregio del-
lo stato di diritto». Mai successo, non scherziamo. Se poi il tutto fosse stato coperto dal fremito dall’attesa della vigilia e poi dalla successiva euforia per la vittoria della Nazionale agli Europei, sarebbe stato il massimo. Nessuno è stato rimosso cosi velocemente come Donadoni, neppure Bassolino e la Jervolino. Ma bisognava dare il senso della svolta nel Paese. E’ così grottesco quello che scrivo che potrebbe anche essere vero. Viva l’Italia! Leri Pegolo CIRCOLO LIBERAL PORDENONE
APPUNTAMENTI Il coordinamento regionale della Campania ha attivato un numero verde per aderire ai circoli liberal del territorio 800.91.05.29
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog Cosa sarete per me: un sostegno o un padrone? Il clima mite e nuvoloso dal quale provengo mi ha lasciato impressioni gentili e malinconiche; quali passioni ha infuso in voi il sole generoso che ha abbronzato la vostra fonte? Io so come amare e soffrire, e voi, cosa conoscete dell’amore? L’ardore dei vostri sguardi, la violenta stretta delle vostre braccia, il fervore del vostro desiderio, mi tentano e mi spaventano. Non so se combattere la vostra passione o se condividerla. Non si ama così nel mio paese. Accanto a voi io non sono niente altro che una pallida statua che vi guarda con desiderio, preoccupazione e stupore. La mia natura debole e il vostro temperamento ardente devono produrre pensieri molto diversi. Voi dovete ignorare, o disprezzare, le migliaia di sofferenze insignificanti che mi turbano; dovete ridere di ciò che mi fa piangere. Che cosa sareste per me: un sostegno o un padrone? Mi consolereste dei mali che ho patito prima di incontrarvi? George Sand a Pietro Pagello
TROPPI I MEDICINALI CON OBBLIGO DI RICETTA Perché l’Agenzia per il farmaco permette che alcuni medicinali con uguale dosaggio e composizione siano a seconda del nome o della ditta inseriti in alcuni casi tra quelli acquistabili con obbligo di ricetta e in altri senza la presentazione d’alcuna ricetta medica? Il caso più eclatante è quello dell’Efferalgan 500 compresse effervescenti a base di paracetamolo e sottoposto ad obbligo di ricetta medica, mentre la Tachipirina 500 buste effervescenti con lo stesso contenuto di 500 mg di paracetamolo è venduta senza obbligo di ricetta. Casi come questo sono numerosi e tutti privi di qualsiasi giustificazione scientifica, medicinali che non sono sottoposti ad alcun vincolo nella maggior parte dei Paesi europei. Il motivo di tali contraddizioni risiedono nel meccanismo con cui i singoli medicinali sono inseriti tra quelli con o senza obbligo di ricetta: la scelta non parte da un’attenta analisi degli organismi di controllo, ma dalla proposta delle singole aziende produttrici. Se, al contrario, fosse l’Aifa a decidere preventivamente l’inserimento, tali differenze macro-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)
ACCADDE OGGI
1 luglio 1861 A Roma inizia le pubblicazioni ”L’Osservatore Romano” 1863 Guerra di secessione americana: inizia la Battaglia di Gettysburg 1921 Fondazione del partito comunista cinese a Shanghai 1942 Seconda guerra mondiale: inizia la Prima battaglia di El Alamein nella quale si fronteggiarono le forze dell’Asse comandate da Erwin Rommel e gli Alleati 1968 Il trattato di non-proliferazione nucleare vene siglato a Ginevra da circa sessanta nazioni 1991 Viene disciolto ufficialmente il Patto di Varsavia 2003 500.000 persone prendono parte ad una marcia ad Hong Kong per protestare, tra le altre cose, sulla gestione governativa dei piani per implementare una nuova legge anti-sovversione richiesta dall’articolo 23 delle Leggi fondamentali di Hong Kong 2005 L’Italia dice addio al servizio di leva: la carriera militare resta aperta solo a volontari.
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Giancristiano Desiderio,
scopiche non si verificherebbero. Inoltre al fine di non creare disagi ai cittadini europei che si spostano nel continente come in questo periodo di vacanza, la Federazione esercizi farmaceutici ritiene opportuno che vi sia un’omogeneizzazione delle regole in tutto il territorio europeo, per cui un farmaco approvato senza la presentazione della ricetta medica nella maggioranza dei Paesi Ue dovrebbe essere automaticamente inserito con le stesse modalità anche in Italia. Lo spostamento di alcuni farmaci etici a farmaci d’automedicazione oltre ad aumentare l’offerta, avrebbe il pregio di allargare il numero di patologie ”minori” che potrebbero essere risolte con i farmaci d’automedicazione evitando, in molti casi, il ricorso al medico di base. Inoltre, nel 2005 il Censis valutò un risparmio di 30 miliardi di euro pari al 2,2% del Pil in giornate lavorative non perse grazie all’uso dei farmaci d’automedicazione. Cordialmente ringrazio per l’ospitalità sulle pagine del vostro quotidiano (che leggo sempre con grande interesse). Buon lavoro, distinti saluti.
Cinzia Tomassi - Ancona
PUNTURE Chi ha visto Antonio Di Pietro alla guida del trattore nel suo Molise ha ricordato la sceneggiata di Mario Merola: “ ‘O zappatore”.
Giancristiano Desiderio
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L’unica cultura che riconosco è quella delle idee che diventano azione EZRA POUND
”
Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Rossella Fabiani, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
il meglio di NELLO ZIMBABWE È ORA DI UN ”REGIME CHANGE” Non capita tutti i giorni che si svolga un ballottaggio con un unico candidato. È successo in Zimbabwe il 27 giugno, dopo la rinuncia a parteciparvi di Morgan Tsvangirai, il leader dell’opposizione uscito vittorioso, ma con una maggioranza relativa, al primo turno delle elezioni presidenziali del 29 marzo. Con la sua decisione Tsvangirai è riuscito infatti ad attirare l’attenzione internazionale sul clima di violenza e di intimidazione che rendeva impossibile ai suoi connazionali andare alle urne in libertà, ma non a impedire al suo avversario, il presidente in carica Robert Mugabe, di aprire ugualmente i seggi la mattina del 27 giugno, costringere la popolazione a votare, farsi proclamare vincitore dalla Commissione elettorale dopo un rapido spoglio delle schede, vantando un trionfale 85% di preferenze, e infine prestare giuramento per un nuovo mandato il 29 giugno, in tempo per partire da presidente “democraticamente eletto” alla volta di Sharm el Sheikh, la località egiziana sul Mar Rosso dove è in corso il vertice annuale dell’Unione Africana. È proprio all’Unione Africana che dovrebbero toccare adesso le prossime mosse. L’organismo, almeno sulla carta, ha facoltà e mezzi per gestire situazioni del genere ed è sicuramente il primo e principale organismo deputato a farlo. Il suo statuto prevedere che non siano ammessi a farne parte gli stati governati da leader che hanno violato le regole democratiche e che possa intervenire con i suoi “caschi verdi” là dove lo ritenga utile a risolvere crisi interne che minaccino democrazia e diritti umani. Lo ha fatto a marzo alle Isole Comore, inviando un contingente militare che ha messo in fuga Mohamed Bacar, il presidente dell’isola di
Anjouan giudicato illegittimo dal governo federale dell’arcipelago per aver ottenuto il rinnovo del proprio mandato presidenziale lo scorso anno violando le procedure elettorali. (...) Ma l’Unione Africana sembra piuttosto disposta a favorire l’avvio di un negoziato e in realtà non è neanche detto che si impegni a fondo in tal senso. Il punto dolente è che i colleghi di Mugabe per la maggior parte non brillano certo per dedizione alla causa democratica. Il presidente dell’Uganda Yoweri Museveni, ad esempio, e con lui Idriss Déby, in Ciad, e Paul Biya, in Camerun, hanno preteso e ottenuto modifiche costituzionali grazie alla quali ora possono ricandidarsi a oltranza alla massima carica senza il limite dei due mandati precedentemente previsto proprio per evitare che ciò accadesse. Altri leader, non ostacolati dalla costituzione, sono al potere da decenni: il più longevo al momento è Omar Bongo, presidente del Gabon ormai da 41 anni, seguito da Muhammar Gheddafi, Libia, al potere dal 1969. Poi ci sono le dittature neanche dissimulate, come quella di Isaias Afewerki in Eritrea, e le “dinastie”, come in Togo e nella Repubblica Democratica del Congo, i cui leader, rispettivamente Faure Eyadema e Joseph Kabila, hanno ereditato la carica dai padri che a loro volta l’avevano conquistata con la forza. Ma neanche i leader africani più credibili e accreditati sul piano internazionale garantiscono sempre una posizione intransigente quando i loro colleghi sono in difficoltà, come ha dimostrato il presidente del Sud Africa, Thabo Mbeki, ostinato nel minimizzare per mesi l’entità della crisi in corso in Zimbabwe: come si ricorderà, l’aveva definita “un normale processo post elettorale”.
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PAGINAVENTIQUATTRO Da Porto Rotondo il premier ha lanciato la moda
Bandana addio, ora tocca al di Franco Insardà a re bandana a imperatore del panama. Ma non è soltanto questione di look. Arrivi a Porto Rotondo e la presenza di Silvio Berlusconi si avverte in ogni angolo di strada, in ogni caletta. Ogni pezzo di granito della Gallura rimanda al Cavaliere. Chi sbarca qui per la prima volta chiede subito: lui c’è? Dov’è villa Certosa? Il giro turistico nei luoghi berlusconiani è ormai d’obbligo. Senti dire: «Questo complesso lo ha costruito lui. Più in là c’è Porto Rotondo 2 e poi Porto Rotondo 3». E parte la prima telefonata a parenti e amici: «Indovina dove sono? Vicino alla casa di Silvio. Lui ancora non si è visto, ma è da stamattina che girano elicotteri. Forse arriverà in giornata. Speriamo». E il tour continua: si parte, ovviamente, dall’ex villa di Berlusconi che ora è di Paolo, si passa a quella dell’amico Ennio Doris, il presidente di Banca Mediolanum, poi a quella di Krizia, all’altra dei Barilla e del magnate americano del turismo Tom Barrack. E se si chiede: «Ma non c’era anche la villa di Marta Marzotto affrescata da Renato Guttuso?» arriva la risposta lapidaria: «Non più. L’ha venduta ai russi. La stanno ristrutturando». Il discorso ritorna, però, inevitabilmente su villa Certosa. Quanto sarà grande? Avvicinarsi è quasi impossibile. C’è chi favoleggia su quanti ettari è il parco (dopo gli ultimi acquisti saranno 60 o 70?), sull’anfiteatro nel quale il Cavaliere si esibisce con Mariano Apicella, sul viale in pietra che sarebbe costato oltre 100mila euro, sulle piante grasse rarissime provenienti da tutto il mondo che un giorno saranno patrimonio di Porto Rotondo. Invece dei conti veneziani Luigino e Niccolò Donà delle Rose, ideatori e ancora alla guida del Consorzio, nessuno sa niente.
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Ma è in spiaggia che la ”berluscomania” si amplifica. Oramai gli emuli di Briatore sono in fuga. È rimasto soltanto qualche nostalgico che staziona a bordo di qualche yacht vicino alla riva per farsi vedere abbronzato, con i capelli argento, un filo di pancetta e bellone al seguito. Il modello Cavaliere non conosce rivali. Lo slang di rigore è il lombardo strascicato, possibilmen-
Silvio Berlusconi ha scelto la ”sua” Porto Rotondo per sfoggiare un panama a larghe tese. Quattro estati fa, sempre in Costa Smeralda, il Cavaliere lanciò la moda della bandana che ancora oggi ha molti seguaci e imitatori
PANAMA te urlato. Il cellulare è sempre a portata di mano. Molti non sono riusciti ad aggiornarsi. Hanno ritirato fuori dagli armadi la bandana dell’estate 2005 un po’sgualcita e un po’scolorita e la sfoggiano con orgoglio. Altri, più informati, si sono affrettati a comprare un panama “similberlusca”per essere in sintonia con lui che il 21 giugno, in occasione dell’inaugurazione del campanile della chiesa di Porto Rotondo dise-
gnato da Mario Ceroli, in una piazza affollatissima ha lanciato la moda 2008.
Il premier ha oscurato gli altri vip presenti e foto, sguardi e strette di mano erano tutte per lui. Per i berluscones è stata una giornata particolare. Una di quelle da “io c’ero” e da raccon-
Sulle spiagge della Costa Smeralda c’è ancora chi sfoggia bandane d’annata, ma il cappello del Cavaliere è l’oggetto cool dell’estate. E chi arriva per la prima volta in Gallura non può evitare di fare il tour dei luoghi berlusconiani tare. Da quel giorno il panama è diventato l’oggetto del desiderio. A Porto Rotondo non se ne trovano e sono partite le richieste agli amici in continente per l’acquisto di uno uguale a quello di Silvio («mi raccomando») da mostrare alla prima occasione.
E quando Giorgio Napolitano ha esibito nella mondana Capri un cappello simile si sono formati due partiti. Per gli aficionados di Silvio il Presidente della Repubblica ha voluto imitare il premier, per i detrattori, invece, il Capo dello Stato lo indossa con un’eleganza da gentiluomo napoletano, mentre Berlusconi ha il piglio sudamericano. Ora tutti aspettano curiosi il G8 del prossimo anno alla Maddalena per la nuova moda che lancerà il Cavaliere, ispirato dal mare di Sardegna.