QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA
9 771827 881004
ISSN 1827-8817 80807
La seconda parte del saggio del politologo americano
Né Obama né McCain cambieranno la linea in Iraq
di e h c a n cro di Ferdinando Adornato
di Robert Kagan
GLI OPPOSTI POPULISMI
he cosa ci dice il fatto che da decenni gli argomenti dei detrattori della politica estera americana si prestino così sorprendentemente bene a criticare anche l’attuale linea del presidente Bush? Molto semplicemente dice che, dopotutto, ciò che molti considerano un’aberrazione neoconservatrice non è affatto una grande aberrazione. Le tendenze associate oggi al neoconservatorismo sono molto più radicate nelle tradizioni americane di quanto i loro oppositori non siano disposti ad ammettere, il che significa che non saranno sradicate così facilmente, anche dalle future elezioni presidenziali. Infatti, il problema che si trovano ad affrontare coloro che hanno tentato di porre fine all’espansionismo americano, sia in passato che al giorno d’oggi, è che questa tendenza, questa convinzione nella possibilità di una trasformazione globale, questo impulso messianico, lungi dall’essere aberrante, è una tendenza dominante del carattere americano. Molti sperano che la guerra in Iraq soffochi una volta per tutte questo spirito. Ma ci riuscirà davvero? Gli americani, siano essi democratici o repubblicani, sono disposti a rinunciare al loro potere o alla loro convinzione del ruolo eccezionale svolto finora dagli Stati Uniti nel mondo?
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I primi mesi della legislatura hanno messo in luce un’inedita “convergenza parallela”: quella tra Berlusconi e Di Pietro. Entrambi si vantano di rappresentare il popolo ma in realtà lo dividono. Entrambi si appellano alla moralità della politica ma non la praticano. Entrambi predicano riforme condivise ma in realtà le bloccano in nome della guerra al nemico. Perciò, se l’opposizione segue Tonino, Silvio può dormire sonni tranquilli
Il Cavaliere di minoranza alle pagine 2 e 3
s eg u e a pa gi n a 2 0
Insieme dopo le voci del litigio
Colloquio con Lamberto Dini
La Finanziaria del duo Tremonti-Letta
«Sulle preferenze ho cambiato la mia posizione»
di Francesco Pacifico
di Francesco Capozza
«Con una congiuntura migliore spiega Tremonti - con l’attuazione di Lisbona e con il federalismo fiscale otterremo un dividendo migliore per finanziare gli impegni presi in campagna elettorale».
Il presidente della commissione Esteri del Senato Lamberto Dini respinge al mittente qualsiasi insinuazione sui presunti mal di pancia dei“diniani”. E poi annuncia: «Sulle preferenze ho cambiato idea».
Secondo Cicchitto, il vero errore è stato quello di concedere l’organizzazione della manifestazione alla Cina. Intanto, un’organizzazione di atleti chiede a Pechino il rispetto dei diritti umani e la pace in Tibet.
Cronache, reportage, persino un libro. Come l’Africa, per Alberto Moravia l’India è stata «inesauribile. Ci si va sempre la prima volta. Chiunque voglia farsi un’idea del fenomeno religioso, deve andarci».
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nell’inserto liberal estate
GIOVEDÌ 7 AGOSTO 2008 • EURO 1,00 (10,00
CON I QUADERNI)
Ancora polemiche sulla cerimonia d’apertura
Pechino 2008: Germania Italia 2-0 di Vincenzo Faccioli Pintozzi
• ANNO XIII •
NUMERO
149 •
WWW.LIBERAL.IT
I suoi viaggi con Elsa Morante
L’inesauribile India di Moravia di Filippo Maria Battaglia
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
pagina 2 • 7 agosto 2008
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Si detestano ma si sorreggono a vicenda perché Di Pietro e il Cavaliere sono due volti della stessa medaglia
Gli opposti populismi icorderete senz’altro quel libro, in formato rivista, che Silvio Berlusconi inviò a milioni di famiglie italiane. S’intitolava così: Una storia italiana. Lo stesso titolo si potrebbe adottare per raccontare la storia di Antonio Di Pietro, ma con una piccolissima variazione: Un’altra storia italiana. I due uomini, infatti, per quanto siano, come direbbe Manzoni, l’un contro l’altro armati, sono l’uno il rovescio dell’altro e stanno insieme come l’ombra e la luce, l’amore e l’odio, Cip e Ciop, il berlusconismo e il dipietrismo. L’Italia oscilla da anni tra queste due demagogiche visioni del mondo italiano. La democrazia dell’Alternanza, che dobbiamo costruire, è ancora, purtroppo, la democrazia dell’Altalena. Quando ne scenderemo?
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Il Cavaliere ha tratto forza politica ed elettorale dalla persecuzione giudiziaria e l’ex magistrato dell’ex pool di Mani Pulite ha fatto altrettanto dall’altra parte del campo. Se lo guardate bene, Antonio Di Pietro altro non è che un Cavaliere in sedicesimo, figlio egli stesso della lotta politica, giudiziaria e moralistica al capo di Forza Italia. L’Antiberlusconi è l’altro Berlusconi. Antonio Di Pietro da Montenero di Bisaccia è il Cavaliere di minoranza. Il loro stile privato e politico è figlio di un parto gemellare. Entrambi hanno tendenza e facilità a confondere i due piani del pubblico e del privato. Entrambi sono paladini di una politica spaccona che non unisce ma separa e contrappone. Proprio l’Antiberlusconi oggi è il maggior alleato di Berlusconi: dividendo, infatti, l’opposizione con il populismo tipico del dipietrismo, l’Antiberlusconi è la stampella più solida di Berlusconi. La storia personale e politica dell’Inventore dell’Italia dei Valori è entrata nei libri di storia. Ne parlava già Montanelli nella sua lunga ma antiaccademica Storia d’Italia, ma ne parlano anche storici accademici, ad esempio Aurelio Lepre nel suo ultimo volume Storia della Prima Repubblica. Questo per dire che sono ormai quindici anni che assistiamo alle avventure del signor Di Pietro. Anno più anno meno, la stessa parabola
temporale di Berlusconi. I loro destini si incrociano subito. Quando Bettino Craxi è messo in fuga dalla politica e dall’Italia dal pool di Francesco Saverio Borrelli e i suoi ragazzi terribili, ecco scendere in campo il Cavaliere. Achille Occhetto assaporava già la vittoria della sua “gioiosa macchina da guerra”e invece l’altra macchina da guerra elettorale, Forza Italia, soffiò l’Italia da sotto al naso di Ackel. Il pubblico ministero Di Pietro che tanto lavoro aveva fatto con Craxi si ritrovò a dover combattere con una sorta di nuovo Craxi che, però, non aveva paura a presentarsi come il castigamatti e il nemico di ogni corrotto regime partitocratrico. Strana eterogenesi dei fini: proprio la fine per mano giudiziaria di Craxi aprì la strada del potere politico al principale amico imprenditore di quello che Vittorio Feltri dalle pagine dell’Indipendente chiamava il Chinghialone. Su quelle stesse pagine Feltri, prima di prendere le parti del Cavaliere, aveva intervistato Antonio Di Pietro nel bel mezzo della sua attività di Mani Pulite. Si può comprendere perché, allora, il pubblico ministero più efficiente d’Italia, dopo aver an-
che ricevuto l’offerta di essere il ministro dei Lavori Pubblici del primo governo Berlusconi siamo nel 1994 - si vide un po’ smarrito e come un irato dio pagano disse: “Io quello lo sfascio”. È passato tanto tempo, ma la storia politica italiana si ripete come un film già visto. Dopo quindici anni siamo ancora a “io quello lo sfascio”. Berlusconi ha le televisioni e anche molte case e tante altre cose. Di Pietro, che da punto di vista economico è come Paperino con Gastone, comincia ad avere le sue case. Televisioni e case che sono legate alla politica. Con quali soldi il leader dell’Italia dei Valori Immobiliari ha comprato tutte quelle case, si chiede il Giornale dello sbarazzino Mario Giordano. Una vera e propria girandola di appartamenti e beni immobiliari tra Milano, Roma, Bergamo, Busto Arsizio, Curno, Montenero, Bruxelles che rimontano al signor Di Pietro e alla sua famiglia. Con quali soldi? Con i soldi del partito? L’Inventore dell’Italia dei Valori non nega le proprietà e quanto ai soldi (oltre quattro milioni di euro) dice: “C’è tutto sul blog e non ho niente da aggiungere. Il resto lo dirò al giudice nella ci-
tazione che faremo”. Lo dirà al giudice, ma quel che può dire fin da ora è come si conciliano i Valori con tanti acquisti di beni immobiliari. Antonio Di Pietro, il Grande Accusatore e il Grande Moralizzatore, è sempre più somigliante al Grande Comunicatore: il Cavaliere.
Lo accusa, lo critica, lo disprezza e contemporaneamente lo copia. Il Caimano e l’Anticaimano si danno la mano. L’Anticavaliere copia il Cavaliere nello stile, nel populismo, negli affari, pare persino come latin lover. Sono talmente speculari che entrambi hanno creato un partito con la parola Italia: Forza Italia e Italia dei Valori. Entrambi si sentono paladini di una nuova morale: il Cavaliere del rispetto dei patti elettorali e il Cavaliere dimezzato dell’onestà. Ma entrambi sono Tartufo e non Molière. La morale è una cosa, il moralismo un’altra. “Prima la trippa, dopo la virtù” è il loro motto non detto. Entrambi sono dominati - e credono di far credere di esserlo - dall’idea di rappresentare nelle loro singole persone l’intera nazione. Tutti e due accusano in modo visibile la sindrome di Napoleone: non solo ritengono di essere lo Stato, ma anche la Nazione. Ma - fatto paradossale ma anche comprensibile non uniscono il Paese, bensì lo dividono. Come ogni rivoluzionario sa bene, devono continuamente alimentare la rivoluzione o finiscono. Devono dividere il Paese per partito preso. Così i due partiti - Forza Italia e Italia dei Valori prendono il posto dell’Italia e i due grandi nemici della partitocrazia sono i due grandi restauratori di un regime partitocratrico senza partito. Il Cavaliere di minoranza adotta una strategia classica e vecchia come il cucco: divide e impera. Il suo populismo moralistico è pensato e fatto per allontanare dall’area di governo l’altra opposizione possibile. La politica della cultura di governo non è un valore dell’Italia dei Valori. I suoi effetti sono negativi per l’affermazione della cultura di governo: sia nell’opposizione sia nel governo. Se prevale il dipietrismo si allon-
Entrambi hanno tendenza e facilità a confondere i due piani del pubblico e del privato. Entrambi sono paladini di una politica spaccona che non unisce ma separa e contrappone
tana la possibilità di portare il capo del governo a un confronto sulle cose serie e su quelle riforme richiamate dal presidente Napolitano sulle quali a parole Berlusconi si dichiara disponibile. Il dipietrismo è il miglior alleato del berlusconismo: entrambi lavorano per mobilitare lo spirito italiano in una guerra civile mentale permanente. Si tratta di un pendolo micidiale dal quale l’Italia, stretta tra la Forza berlusconiana e i Valori dipietristi, deve uscire.
Diciamolo: l’opposizione dipietrista è perdente. Chi la adotta si caccia in un vicolo cieco o, ancora peggio, finisce dritto dritto nella bocca del leone. Il dipietrismo conduce al berlusconismo, come il berlusconismo conduce al dipietrismo. Ciò che serve è un cambio
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Savino Pezzotta critica Tonino: «Il suo antagonismo è sterile. Serve una cultura di governo»
«Così finisce in un vicolo cieco» colloquio con Savino Pezzotta di Riccardo Paradisi ROMA. Antonio Di Pietro e Silvio Berlusconi: gli antipodi della geografia politica italiana si direbbe. Eppure c’è chi nella contrapposizione frontale e violenta tra questi due attori vede una simmetria psicologica e “ideologica”: entrambi, si dice, sono tentati dalla scorciatoia populista. Di questa convergenza parallela parliamo con Savino Pezzotta, esponente di un partito, l’Udc, che si ritrova all’opposizione insieme, malgré lui, all’Italia dei Valori di Di Pietro. Quanto è alto il rischio che Di Pietro polarizzi l’opposizione sul tono dello scontro frontale? Più che di rischio parlerei di un dato oggettivo. Del resto fa più rumore un albero che cade rispetto a una foresta che cresce. Il problema che bisogna porsi è però un altro: serve al Paese un opposizione di questo genere o no?
“
Al Paese non serve l’appello agli umori. I tempi che si annunciano hanno necessità di culture politiche dialoganti anche rispetto a un esecutivo che spesso non vuole il confronto
”
Credo che la risposta sia no. Tanto più che andremo verso un periodo in cui servirà un opposizione diversa. Ma vede questa è una discussione che dovrebbe coinvolgere anche Di Pietro perché la sua opposizione, calibrata oggi non ha sbocchi se non quello, sterile, dell’opposizione per l’opposizione. Un opposizione vera invece che cosa dovrebbe fare? Dovrebbe darsi l’obiettivo di sostituire l’attuale maggioranza o stimolarla a fare le riforme in un determinato modo invece di un atro. Il Pd ha preso le distanze da Di Pietro dopo la manifestazione di Piazza Navona. Ma Di Pietro era noto anche prima dell’apparentamento alle politiche. Una bella contraddizione vero? La realtà è che il Pd ha ripercorso negandola la dimensione di questo strano bipolarismo italiano che predica l’alleanza tra omologhi e poi ag-
grega di tutto. Tanto più che oggi l’Idv occupa il posto dell’estrema sinistra mettendo in campo una cultura antagonista naturalmente ostile a una cultura di governo. Nell’alleanza Di PietroPd ha giocato l’antico riflesso giustizialista della sinistra italiana? Temo di si: esiste un rimosso e un inconscio anche nei partiti oltre che nelle persone. Resta il fatto che finchè tutte le culture politiche non affrontano e risolvono con se stesse il tema della giustizia saremo sempre nel guado. Che significa fare un’opposizione responsabile Pezzotta? Entrare nel merito dei problemi, essere dialoganti anche rispetto a una maggioranza che spesso non ha intenzione di dialogare, evitare l’autoreferenzialità. Mantenere una cultura di governo anche stando all’opposizione. Non è una via facile ma è l’unica via che porta da qualche parte.
Morando si smarca dal leader dell’Idv. «L’ostruzionismo è il nostro passato, dialoghiamo piuttosto con l’Udc»
«Avete ragione, è l’alibi di Berlusconi» colloquio con Enrico Morando di Francesco Rositano
ROMA. «Il Pd non può ricavare la sua op-
di paradigma. Oggi sappiamo come Walter Veltroni si sia pentito di aver stretto alleanza con i Valori dipietristi. Un’alleanza che, dal punto di vista parlamentare, si è sciolta come la neve marzolina. Ma ciò che ancor di più conta è la mentalità. Anche qui usiamo la nettezza: è l’educazione al dipietrismo che va negato e superato in tanta parte della sinistra riformista. L’Udc è immune dal dipietrismo. Il Pd deve maturare la consapevolezza che il Valore del dipietrismo è un Disvalore. Un’illusione ottica della politica che indica una scorciatoia, ma difficilmente in politica le scorciatoie conducono in luoghi sicuri. Il più delle volte ci si trova a Piazza Cafona a inveire contro Napolitano e Ratzinger. L’Italia dei Valori che diventa l’Italia dei Disvalori. Il più classico contrappasso.
posizione al contrario: né rispetto al comportamento di Berlusconi, né rispetto a quello di Di Pietro. Penso che un partito che ha perso le elezioni e quindi sta all’opposizione, ma è stato protagonista del cambiamento politico italiano, deve avere una sua linea che si ispiri al programma di governo che ha presentato al paese. Una linea che cerchi di aggiungere sempre più innovazione alla sua piattaforma politicaprogrammatica». Enrico Morando, coordinatore del governo ombra e senatore del Pd, non ha dubbi: se il Pd, un domani, vuole governare deve cambiare il modo di fare opposizione. Senatore, come giudica l’opposizione del leader dell’Idv? Di Pietro sta facendo un’opposizione di tipo tradizionale, quella che abbiamo fatto tutti insieme tra il 2001 e il 2006. Insomma se il governo dice ”bianco” l’opposizione deve dire per forza ”nero”. Punto. Noi abbiamo fatto per cinque anni opposizione di quel tipo: richiesta continua di verifica del numero legale, pregiudiziale di incostituzionalità su ogni legge che arrivava in Parlamento. Ma questa linea, nel 2006, di fronte ad elezioni vinte già prima di farle,
“
Ci siamo resi conto che una opposizione di tipo meramente ostativo non è efficace: fa troppi favori a chi governa. E questo è l’ultimo dei nostri pensieri
”
ci stava portando alla sconfitta. Prova evidente che bisogna cambiare strada. Quindi cosa farete? Ci siamo resi conto che una opposizione di tipo meramente ostruzionistico e ostativo non è efficace. E non perché non faccia favo-
ri a chi governa ma perché al contrario gliene fa troppi. Noi non abbiamo nessuna intenzione di fare favori a Berlusconi. È evidente però che in questo momento con Di Pietro non vi state affatto intendendo Quando il gruppo dell’Italia dei Valori converge con noi su un tipo di opposizione che ha il profilo di cui ho parlato finora possiamo collaborare. Quando invece sviluppa un’opposizione su una linea 20012006 noi proseguiamo sulla nostra strada. Naturalmente senza polemizzare. A suo avviso ci potrebbero essere punti di convergenza con il partito di Casini? Sulla politica economica e sociale, ad esempio, ho visto delle posizioni interessanti sia nell’Udc che nell’Idv; sui temi delle riforme istituzionali la distanza con l’Udc è enorme. In particolare mi riferisco alla proposta di istituire un sistema elettorale simile a quello tedesco. So che ad alcuni esponenti del Pd questa proposta piace, ma a me non convince affatto: opterei volentieri per il sistema francese o in seconda battuta per quello spagnolo. Quanto al modo di fare opposizione apprezziamo di più il partito di Casini: anche noi diciamo no ad un atteggiamento meramente ostruzionistico.
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il caso
Continuano le polemiche sulla partecipazione degli atleti azzurri alla cerimonia che apre Pechino 2008 Cicchitto: il vero errore è stato quello di concedere la manifestazione al dragone asiatico
Germania Italia 2-0 La Merkel chiede segnali politici mentre il nostro governo scarica il compito sugli atleti di Vincenzo Faccioli Pintozzi ubani, croati, statunitensi. E soprattutto tedeschi. Tutti sportivi di fama mondiale e membri di Sports for Peace, organizzazione internazionale che unisce lo sport all’impegno civile, che ieri hanno agitato la politica italiana entrando in scivolata sulle pole-
C
tao di rispettare i diritti umani, difendere la libertà d’espressione e quella religiosa, consentire una soluzione pacifica della questione tibetana.
Nel testo, firmato tra gli altri dal primatista mondiale dei 110 metri ostacoli e dalla campiones-
L’organizzazione internazionale SfP chiede alla Cina il rispetto dei diritti umani e la pace in Tibet. Come insegnano i tedeschi miche riguardo la partecipazione degli atleti azzurri alla cerimonia inaugurale di Pechino 2008. Con un appello apparso sull’International Herald Tribune e sostenuto da Amnesty International, infatti, il gruppo ha chiesto al presidente cinese Hu Jin-
sa del mondo del salto in alto, si legge: «Tutti noi speriamo che le Olimpiadi estive in Cina saranno un grande successo, ed è per questo che le chiediamo di difendere la libertà d’espressione, la libertà di religione e la libertà di opinione nel suo Paese, compreso il Ti-
bet. Di garantire che i difensori dei diritti umani non vengano più intimiditi o arrestati e di fermare la pena di morte». L’appello rientra i diritto nella polemica italiana scatenata dalle dichiarazioni di alcuni rappresentanti del Popolo delle Libertà, che hanno chiesto agli atleti azzurri di non sfilare durante la cerimonia di inaugurazione dei Giochi.
Alla richiesta, il Coni e diversi singoli membri della squadra olimpica hanno risposto picche, definendo Pechino 2008 “l’occasione della vita, in cui la politica non deve rientrare”. La risposta è stata affidata a Fabrizio Cicchitto, presidente dei deputati del Pdl, che ieri ha sottolineato: «L’errore politico e ideale è stato commesso a suo tempo, scegliendo di far svolgere le Olim-
piadi a Pechino e quindi dando a quel regime copertura gratuita. Una volta indetta la manifestazione, i margini di manifestazione del dissenso sono strettissimi. È possibile qualche libero atto singolo di fantasia». Rimane comunque il dubbio sulla partecipazione politica alla cerimonia di apertura, fissata per venerdì sera nella capitale cinese. Fra i grandi assenti spicca l’Unione europea, che non invierà alcun rappresentante. Martin Selmayr, uno dei portavoce dell’esecutivo Ue, ha ricordato che «fin dall’inizio la Commissione non ha mai programmato di esser presente alla cerimonia di inaugurazione. L’Unione sarà rappresentata dal suo Presidente di turno, il capo dello Stato francese Nicolas Sarkozy». Che, ricoperto da questo ulteriore incarico istituziona-
Censura, arresti e torture: nell’indifferenza delle istituzioni, sono questi i veri protagonisti di Pechino 2008
Al via le Olimpiadi della repressione di Aldo Forbice l cielo è azzurro a Pechino, ma una nube nera – e non proprio il fantasma del comunismo - si avvicina alla capitale cinese per effetto dell’inquinamento atmosferico. Un brutto presagio il giorno prima dall’apertura dei Giochi olimpici. E, purtroppo, con un perchè: tutte le previsioni pessimistiche delle organizzazioni umanitarie internazionali si stanno infatti rivelando esatte. I primi giornalisti stranieri arrivati nella sala stampa del gioiello dell’architettura “Nido d’uccello”, il grande stadio di Pechino, si sono trovati di fronte a Internet censurata e ai motori lenti. Nonostante le autorità cinesi avessero accolto i rappresentanti dei media di tutto il mondo col sorriso sulle labbra e l’impegno alla “libertà assoluta”nei siti Internet. Il giorno
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dopo, date le proteste internazionali, alcuni siti sono stati riaperti: ma di sorprese amare, i 30mila operatori dell’informazione ne troveranno parecchie. L’assaggio è stato già indigesto: chiusi i siti di tutte le organizzazioni di difesa dei diritti umani, chiusi gli accessi ai siti della Bbc e di altri media. Ovviamente la prima regola delle autorità cinesi è stata quella di smentire.
Lo ha fatto il responsabile della comunicazione del Bocog, Sun Wenjia, ricordando che alcuni siti web “potrebbero essere inaccessibili per proprie difficoltà tecniche”. Evidentemente i cyberpoliziotti (alcune centinaia di migliaia in tutta la Cina) stanno facendo un buon lavoro. La protesta di Reporter sans frontieres contro la censura cinese è rimasta inascoltata. È
stato possibile però vederla: non in Cina, ovviamente, ma durante l’ultima tappa del Tour de France a Parigi, dove è stata sventolata una bandiera che mostrava i cinque anelli olimpici sotto forma di manette. La bandiera nera è stata srotolata all’uscita del tunnel tra il Louvre e gli Champs Elysèes. Una iniziativa, ha spiegato Robert Mènard, segretario generale di Rsf, per “ricordare a Nicolas Sarkozy (che parteciperà alla cerimonia inaugurale) che in Cina è in vigore la censura sulla stampa e la repressione dei diritti umani”.Anche le denunce quotidiane di Amnesty International cadono nella totale indifferenza. L’ultimo rapporto, diffuso a Hong Kong, conferma che le autorità cinesi “hanno perso di vista”le promesse fatte sette anni fa, al momento dell’assegnazione dei Giochi. «Chiediamo – ha di-
chiarato Roseanne Rife, responsabile del Programma Asia di Ai - la liberazione di tutti gli attivisti in carcere, piena libertà d’informazione per la stampa estera e nazionale e ulteriori progressi verso l’eliminazione della pena di morte». Parole forti, ma destinate purtroppo al vento. Infatti, in questi ultimi anni la situazione dei diritti umani in Cina è peggiorata per quanto concerne gli attivisti per i diritti umani in carcere, la detenzione senza processo, la persecuzione dei cibernauti e la censura sulla stampa, la pena di morte. In particolare, un primato cinese nel mondo riguarda proprio gli internauti, che sono arrivati a 253 milioni, superando anche la cifra degli Stati Uniti (223,1 milioni). Ormai Internet è ampiamente utilizzata nel campo del commercio, per acquisti, per istruzione e soprattutto per
le, si cava dall’impaccio di rispondere a chi chiede la sua assenza dalla Città Proibita.
Ancora in bilico la partecipazione di Angela Merkel, che più volte ha chiesto alla Cina di rispettare i diritti umani e la libertà religiosa. La Cancellieaccedere a informazioni non filtrate dal regime comunista. Ed è proprio per questa ragione che la censura sulle informazioni “sgradite”si è particolarmente intensificata proprio in vista delle Olimpiadi. Infatti, l’81,5 % degli internauti cinese, ovvero 206 milioni di persone, legge su Internet le notizie di attualità, rispetto al 71% degli Usa.
L’accanimento nei confronti dei navigatori del web è quindi spiegabile. Il regime si è reso conto che se la popolazione avrà la possibilità di avere informazioni alternative sarà difficile continuare a giustificare tante scelte impopolari nel campo dell’economia, delle politiche sociali e delle libertà. È proprio per queste ragioni che uno dei più noti internauti e difensore dei diritti umani, Hu Jia, viene tenuto segregato in carcere, dopo una condanna a tre anni e mezzo. Attualmente si trova nella prigione di Tianjian (a 200 chilometri da Pechino). E sua moglie, Zeng Jinyan, sua sorella e sua madre non hanno ottenuto l’autorizzazione per poterlo vedere neppure il giorno del suo compleanno. Hu è molto
il caso
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A Pechino gli sponsor si contendono il mercato cinese
Il primo oro? A Nike e Adidas di Francesco Daverio d un giorno dall’inizio dei Giochi, il primo oro di Pechino 2008 è stato già assegnato. Ma sul gradino più alto del podio sale non un atleta, ma gli sponsor della manifestazione. Quella in terra cinese è l’edizione più ricca di sempre: i marchi sono pronti a contendersi oltre 250 milioni di consumatori. Ma la sfida più avvincente è quella tra i due colossi mondiali dell’abbigliamento sportivo: Nike (leader negli Stati Uniti) e Adidas, che comanda invece in Europa. Dunque il mercato asiatico diventa il campo di sfida decisivo per le sorti e le strategie future delle due multinazionali. Gli statunitensi di Nike vestiranno 22 su 28 delle federazioni cinesi che parteciperanno all’Olimpiade. I tedeschi di Adidas puntano sulla stella locale Yao Ming, il gigante del basket statunitense. Il mercato dell’abbigliamento sportivo ha un valore di circa 145 miliardi di dollari. Adidas ne controlla il 20 percento, mentre la marca del baffo ne ha una fetta pari a più del 30 percento. Si tratta di cifre da capogiro, grazie alle quali è facile fare la stima di quale sia il volume di affari di queste aziende. L’Adidas ha segnato un grande colpo con la sponsorizzazione delle Olimpiadi di Pechino 2008. Ma ad aprire i giochi è stata Nike: due blocchi di strada per fare un negozio inaugurato l’anno scorso e oggi coperto dalle gigantografie di LeBron James, altra stella Nba dei Cleveland Cavaliers. La risposta non si è fatta attendere, e due settimane fa è arrivato il megastore di Adidas: 10 mila metri quadri e tutte le linee presenti insieme per la prima volta. E se in Cina - per ora - il mercato è dominato dagli americani di Nike, Adidas è in agguato: «Vogliamo diventare noi il numero uno in Cina», dice il portavoce del gruppo tedesco Anne Putz.
A
ra ha comunque legato la sua presenza ad una serie di garanzie politiche che Pechino potrebbe concedere. Il suo esempio mette in imbarazzo il resto dei leader mondiali. Il Dalai Lama ha invece porto i suoi «migliori auguri ai Giochi cinesi, che dovrebbero contri-
buire alla promozione dello spirito olimpico di amicizia, apertura e pace». Il leader tibetano ha ricordato il grande orgoglio della popolazione cinese, ed ha annunciato una preghiera speciale per venerdì sera «affinché tutto vada nel migliore dei modi». Per tutti.
malato e la polizia rifiuta ogni contatto con i familiari, mentre la moglie e la figlia di poche settimane sono rimasti da maggio agli arresti domiciliari, senza poter comunicare con nessuno. La coppia ha vinto il premio Reporters sans frontieres Fondation de France nel dicembre 2007. E Zeng Jinyan è stata considerata nel 2006 dalla rivista Time “una delle 100 persone più influenti del mondo”. Lo scorso 26 novembre, Hu Jia aveva dichiarato al parlamento europeo (grazie a una webcam): “È buffo che uno dei responsabili dell’organizzazione delle Olimpiadi sia il capo della sicurezza pubblica, ovvero il responsabile di gran parte delle violazioni dei diritti umani. Ed è gravissimo che le promesse fatte al governo cinese prima dei Giochi non siano state mantenute”. Anche per questa ragione è stato incarcerato, insieme ad altri 50 internauti. Giustamente Amnesty ha definito la Cina“la più grande prigione al mondo per i cyberdissidenti”. Anche i dissidenti tibetani hanno pubblicato un nuovo dossier di denuncie, ricordando che dalle manifestazioni del 10
marzo 6.500 tibetani sono stati arrestati. Di questi, un migliaio sono stati liberati, ma gli altri rimangono in prigione. Fra questi, almeno un migliaio di monaci. Il direttore del Centro tibetano per i diritti umani e la democrazia, Urgen Tenzin, si è appellato ai capi di Stato perché «non mettano la testa sotto la sabbia».
La Cina ha imbrogliato il mondo, il negoziato con la delegazione inviata dal Dalai Lama è sospeso e forse il dialogo non riprenderà più. In questa situazione appaiono perlomeno “irresponsabili” (sono parole di Tenzin) le dichiarazioni del presidente del Cio, Jacques Rogge, secondo cui il Cio non è autorizzato e non ha i mezzi per influenzare questioni di sovranità interna). «Il governo cinese – aggiunge - si era impegnato proprio col Cio a migliorare la situazione dei diritti umani in Cina e nel Tibet, ma Pechino non ha fatto nulla. E il Cio non ha mai replicato nulla, perché?». Già, perché?
più ci sono i 550 negozi di Reebok, marchio che Adidas ha acquisito nel 2006 per 3 miliardi di euro. Con Reebok i tedeschi si sono assicurati un asso nella manica. Si tratta diYao Ming, il gigante cinese del basket Nba, la stella degli Houston Rockets, uno dei cinesi più famosi in Patria e all’estero. Il giocatore in Cina è una locomotiva incredibile, dicono all’Adidas. Insomma, pur puntando sul recordman mondiale dei 110 metri ad ostacoli Lui Xiang, per Nike sarà dura combattere l’impatto mediatico degli avversari.
Nel frattempo, entrambi i marchi restano abbottonati sulla consistenza del loro mercato cinese. Nike avrebbe realizzato un giro d’affari da 600 milioni di dollari nel 2005, mentre Adidas si sarebbe fermata a 385. Quest’ultima però accelera decisa e s’è posta l’obiettivo di raggiungere 1,26 miliardi entro il 2010, complici i giochi. Adidas è già leader in Giappone e in India. Il suo giro d’affari in Asia, nel 2006, rappresentava un quinto delle vendite in tutto il mondo, circa due miliardi di euro, grazie ad un catalogo più completo che comprende basket, football e golf, gli sport preferiti in Estremo Oriente. Gli ordini crescono del 20 percento l’anno nella regione e di questo passo Adidas dovrebbe superare Nike proprio dal 2008. Sul fronte opposto, la strategia degli americani sembra esitare di fronte all’offensiva tedesca. Dopo le dimissioni del fondatore Phil Knight, nel 2004, il successore William Perez ha resistito appena 13 mesi. Da gennaio 2006 la guida è passata a due veterani del gruppo, Mark Parker e Charlie Denson: insomma, l’impressione è che Nike sia rimasta invischiata nei suoi problemi di management e abbia capito tardi che stava per arrivare l’attacco di Adidas. Anche se è presto per parlare di sconfitta: Charlie Denson ha assicurato: “In vista dei giochi di Pechino metteremo al sicuro la nostra leadership sul mercato cinese. Presto raggiungeremo un miliardo di dollari di vendite in questo paese, che sta per diventare il nostro secondo mercato dopo gli Stati Uniti”. Nonostante ’Olimpiade debba ancora incominciare, un fatto è certo: conta vincere, non partecipare.
I giganti dell’abbigliamento sportivo lottano per un mercato che vale 145 miliardi di dollari
Adidas infatti ha sborsato più di cento milioni di dollari (72,5 milioni di euro) per diventare fornitore ufficiale dei Giochi.Vestirà tutto lo staff degli organizzatori: 100mila persone che, sommate agli atleti, le consentiranno una visibilità maggiore di quella che avrà Nike. Ad oggi Adidas può contare su tremila punti vendita in Cina, ma conta di arrivare a cinquemila entro il 2010. E in
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politica
Erano corse voci di un litigio, invece il ministro e il braccio destro di Berlusconi annunciano insieme la manovra
La Finanziaria del duo Tremonti-Letta di Francesco Pacifico
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Insulti all’inno, archiviazione per Bossi Non costituirebbero reato ministeriale le espressioni e il gesto sull’Inno di Mameli usati dal ministro delle Riforme e leader leghista Umberto Bossi a Padova, per i quali risultava indagato come «atto dovuto». La conclusione è contenuta nella richiesta di archiviazione che accompagna l’invio del fascicolo per l’ipotesi di reato di vilipendio trasmesso al tribunale dei ministri dal procuratore aggiunto della Repubblica di Venezia Carlo Mastelloni. La procura ha chiesto l’archiviazione per il dito medio alzato dal ministro delle Riforme.
Cazzola contro il clientelismo delle Poste È guerra tra i vertici delle Poste italiane e due deputati del Pdl. Dopo aver spinto il governo a modificare la famigerata norma sui precari, i parlamentari del Pdl Giuliano Cazzola e Aldo Di Biagio hanno presentato un’interrogazione parlamentare al ministro Tremonti per accertare le resposabilità dei vertici di Poste italiane nella vicenda. «Non può più essere consentito, infatti, a manager retribuiti profumatamente», precisano i due parlamentari, «di commettere errori tanto evidenti e ripetuti nel tempo, in nome di logiche e prassi spesso clientelari, nella gestione dei rapporti a termine».
ROMA. «Con una congiuntura migliore, con l’attuazione dell’Agenda di Lisbona e con il federalismo fiscale otterremo un dividendo migliore fra entrate e uscite per finanziare tutti gli impegni presi in campagna elettorale». Giulio Tremonti conferma che non ci sono spazi per tagliare le tasse. E che non sono previste sorprese nella Finanziaria per il 2009, le cui linee sono state annunciate l’altro ieri in Consiglio dei ministri e ieri alla stampa. L’approccio resta quello del rigore della manovra triennale, che porta con sé tagli lordi per 36 miliardi e che Tito Boeri ha bollato come «depressiva», perché «prevede un ulteriore incremento della pressione fiscale». Non che ieri qualcuno si aspettasse un cambio di rotta. Eppure il ministro ha approfittato della conferenza stampa per mandare chiari messaggi e rivendicare il suo ruolo più che centrale nel governo. Emblematica di conseguenza la presenza, ieri in conferenza stampa, del solitamente taciturno Gianni Letta. A dispetto delle scaramucce delle ultime settimane, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio ha voluto chiarire: «Anche di fronte a qualche malignità scritta, io desidero dare atto a Tremonti e al governo di questo risultato molto importante». E sulla stessa linea sono stati gli altri ministri presenti come Brunetta o Sacconi. Rispetto alla manovra grandi novità, in quello che non a caso Tremonti definisce «un involucro», non ce ne sono, ad eccezion dello stanziamento per il rinnovo per i contratti degli statali: 2,8 miliardi, dei quali un miliardo e 560 milioni ai dipendenti pubblici, mentre i rimanenti 680 milioni saranno in gran parte destinati a Forze armate e pubblica sicurezza. Il ministro della Funzione pubblica, Renato Brunetta, è riuscito a inserire altri 200 milioni per la contrattazione integrativa: soldi da destinare ai più meritevoli e da recuperare dai tagli al comparto. Comunque insufficienti per il sindacato. Per il resto, la definizione di 20mila alloggi popolari per il 2009 e alcune proroghe fiscali per categorie come l’agricoltura e l’autotrasporto. Così Tremonti ha potuto rivendicare l’obiettivo di portare a pareggio i conti dello Stato entro il 2011. Oppure ha la bontà di misure molto criticate come la social card – «Non è un’invenzione italiana, la stanno speri-
mentando in Inghilterra, Olanda e altri Paesi europei» – o il prelievo su banche, assicurazioni e società energetiche fatto attraverso la Robin Hood tax – «Non chiederemo il copyright a Obama» –. Ma soprattutto ha chiarito ai suoi colleghi di governo e ai partiti della maggioranza che non ci sarà il solito assalto alla vigilanza. E che di fronte alla crisi internazionale – il Tesoro ha confermato una stima di crescita per il 2008 dello 0,5 per cento – non si possono fare passi falsi. In molti, all’interno dell’esecutivo, sono convinti che ogni centesimo in più sarà destinato all’introduzione del federalismo fiscale, partita sulla quale Tremonti gioca il suo futuro politico.
Tutto bene per il ministro? Non proprio se si pensa che l’obiettivo iniziale del ministro era di concludere la partita del bilancio prima dell’estate, per poi dedicarsi totalmente al federalismo fiscale. Intanto le proteste dei colleghi lo hanno spinto a non decidere dove tagliare, ma soltanto la loro entità. Non a caso, nella Finanziaria che sarà approvata in Consiglio dei ministri, a settembre, non sono ancora stati messi nero su bianco i saldi di bilancio. E c’è il timore che qualcuno dei ministri che si è molto lamentato in questi giorni – la Gelmini, La Russa, Brunetta o Bondi – possa tentare piccoli colpi di mani. Glielo potrebbe permette l’aut aut dei funzionari del Quirinale che hanno imposto a Tremonti di presentare nella sezione autunnale il bilancio di previsione. Che deve essere messo a punto proprio in base alle proposte che i ministeri presenteranno a via XX settembre. Così già si parla di un altro decreto per aggiornare e aggiustare il tiro – non per forza in negativo – sui conti. E la cosa potrebbe però diventare problematica se a fine agosto i dati sulle entrate fiscali smentiranno il pessimismo di Tremonti. Dal Tesoro hanno fatto sapere che ci sarà un calo di un punto nel gettito dell’Iva, il Pd, come ha ricordato il ministro ombra Pier Luigi Bersani, è convinto che si materializzerà un tesoretto da 19 miliardi di euro. E qualsiasi centesimo in più rispetto alle previsioni potrebbe accendere pericolosi appetiti. Nel centrodestra, da parte degli enti locali o da quelle lobby che secondo Berlusconi sono rimaste con un palmo di naso.
Il ministro: «Abbiamo iniziato la rivoluzione».A settembre ci potrebbe essere un decreto di assestamento sul bilancio
Gravissimo l’ex ministro Antonio Gava Antonio Gava non è più all’ospedale San Raffaele di Milano, dove è in cura da tempo. L’ex ministro, a quanto risulta, è stato nell’ospedale milanese fino a un paio di giorni fa per poi essere trasferito: non si sa se a casa oppure in una clinica, in modo da essere più vicino alla famiglia. Un portavoce del San Raffaele proprio ieri non aveva voluto confermare né smentire la notizia secondo cui Gava era ricoverato nell’ospedale in gravissime condizioni, al punto da ricevere l’estrema unzione. Gava 78 anni, campano, uno degli esponenti più in vista della Dc, a più riprese ministro, parlamentare per cinque legislature, poi accusato di collegamenti con la camorra in un procedimento conclusosi con l’assoluzione - avrebbe ricevuto, l’estrema unzione nell’ospedale dove è in cura da tempo.
Editori: la File contro i tagli della manovra I tagli all’editoria, o meglio i tagli ai contributi ai giornali no profit, recentemente approvati con decreto legge, avranno effetti ben più ampi di quelli finora paventati. Questa la posizione del presidente della File (Federazione italiana liberi editori) Enzo Ghionni. Negli ultimi giorni, si parla dell’ipotesi di chiusura di qualche decina di quotidiani e del licenziamento di diversi giornalisti. Non è così. Le conseguenze dell’applicazione dell’art. 44 del decreto legge sono molto più gravi. Ipotizzando una ventina di giornalisti per quotidiano, i giornalisti a rischio sono qualche migliaio.
Rifondazione, in Calabria è rottura In Calabria, dopo il rientro in giunta di Rifondazione comunista, si è scatenata una vera guerra di secessione tra i filo-ferreriani e i vendoliani. La rottura del partito è vicina. «Qualche settimana fa - sostiene Omar Minniti, consigliere provinciale di Reggio Calabria e componente del Comitato politico nazionale del Prc - durante la convulsa fase congressuale, alcuni dirigenti calabresi del Prc accusarono Paolo Ferrero ed altri firmatari del documento n.1 di ’para-leghismo’. Non accettavano che nessuno potesse immischiarsi negli ’affari’ del partito regionale. Oggi quegli stessi dirigenti, spingendo all’estremo il loro ragionamento, si rendono protagonisti di un atto ancor più grave: la secessione del Prc della Calabria, o meglio di una parte consistente di esso, dal resto del corpo del partito».
politica
7 agosto 2008 • pagina 7
Dini: «Non è vero che ”ho mal di pancia”, resto nel Pdl»
«Sulle preferenze ho cambiato idea» colloquio con Lamberto Dini di Francesco Capozza
ROMA. I palazzi della politica roma-
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Un conto è dialogare e confrontarsi, un altro è cercare di far passare una linea, quella del Pd e dell’Idv, opposta a quella indicata alle urne dagli italiani
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na, dove ancora rimbomba l’eco dell’ennesima “chiama” a dar fiducia al governo, hanno chiuso per ferie. Sotto la canicola preferragostana in pochi si aggirano ancora per gli uffici di Camera e Senato, in molti hanno invece già fatto le valigie, diretti verso il meritato (?) riposo. Tra questi, il presidente della commissione Esteri del Senato Lamberto Dini che, con decisione, respinge al mittente qualsiasi insinuazione riguardo ad un presunto mal di pancia dei “diniani”, che (insieme ai fedelissimi di Gianfranco Rotondi e di Raffaele Lombardo) le cronache parlamentari definiscono piuttosto risentiti per “non contare nulla” nel Pdl e in procinto, addirittura, di formare un gruppo parlamentare autonomo alla Camera, magari con qualche aiutino da parte di un paio di compagni d’avventura, altrettanto scontenti, in quota Forza Italia. «Io non ho nessun mal di pancia - ci dice il senatore Dini quasi risentito - se nemmeno io posso definirmi diniano, non capisco a cosa e a chi si riferiscano certi giornali». Presidente Dini, la scorsa legislatura, quando sedeva tra i banchi dell’allora maggioranza come autorevole esponente della Margherita, Lei fu molto critico riguardo alla legge elettorale senza preferenze e con le liste bloccate, oggi che il tema torna prepotentemente all’ordine del giorno è sempre dello stesso avviso? Se si parla della “bozza Calderoli”e, quindi, del sistema di voto per le elezioni europee, io sono assolutamente contrario alle preferenze. Esse portano ad un immancabile fenomeno: la compravendita dei voti. Ne sono stato testimone io stesso nella scorsa tornata elettorale europea e questo, ovviamente, non assicura che siano eletti i candidati migliori. Anzi, spesso e volentieri è accaduto il contrario. Per me la legge elettorale europea dovrebbe avere liste bloccate, circoscrizioni più piccole e una soglia di sbarramento alta. Il 4 per cento previsto da Calderoli? Sarebbe meglio il 5 per cento ipotizzato dal Presidente Berlusconi. L’Udc ha iniziato la raccolta di firme per una legge d’iniziativa popolare a favore della reintroduzione delle preferenze nel sistema elettorale di Camera e Senato, se arrivasse in Parlamento quale sarebbe la sua posizione? È troppo presto per dirlo.Vediamo, intanto, se riuscirà
ad arrivare in Parlamento. Guardi, lo dico francamente, io nella XIV legislatura fui contrario alla legge che prevedeva le liste bloccate. Furono i Ds, ed in particolar modo D’Alema, a spingere perché le preferenze fossero abolite. Me lo ricordo perché io ero candidato nel collegio senatoriale di Firenze e il presidente della Regione Toscana, diessino, mi spiegò la volontà del partito e spinse anch’egli verso quella direzione. Sulla giustizia, il governo sta facendo bene? Il governo sta progettando un’ottima riforma della giustizia. Io stesso, assieme ad Emma Bonino, sono primo firmatario di un ddl per una riforma, la più importante a memoria repubblicana, della giustizia. È prevista la responsabilità civile dei giudici, la riforma del Consiglio superiore della magistratura - che oggi è ridotto ad un mero sindacato dei giudici - la separazione delle carriere e tante altre novità davvero importantissime. Auspico un’approvazione del Parlamento in tempi ragionevolmente brevi. Che ne pensa dell’opposizione che sta facendo l’Unione di centro? L’Unione di centro sta facendo un’opposizione comprensibile, ma inefficace e, per certi versi, inutile. Il governo ha il vento in poppa e gli atti di questi ultimi giorni ne hanno ulteriormente aumentato la fiducia da parte degli italiani. Basti pensare che i mercati finanziari europei e mondiali plaudono alla manovra triennale varata questa settimana. Per la prima volta si è ridotta la spesa corrente, cosa che il governo Prodi non era riuscito a fare perché vittima della sinistra radicale che l’aveva portato a intraprendere la politica del “tassa e spendi”. Il governo Berlusconi le tasse le sta, invece, abbassando. E di quella dell’Idv? È un’opposizione negativa e controproducente per lo stesso centrosinistra. Credo che lo stesso Walter Veltroni si sia pentito di aver stretto un’alleanza del genere. Dialogo chiuso definitivamente con il Pd? Questo andrebbe chiesto a loro. Il governo e il Pdl nello specifico, si sono sempre dimostrati disponibili al dialogo. Certo, un conto è dialogare e confrontarsi, un altro è cercare di far passare una linea, quella del Pd e dell’Idv, che troppo spesso è totalmente opposta a quella della maggioranza che gli italiani hanno indicato per governare. Sulla questione legata alla Vigilanza Rai, pensa che sia meglio cambiare candidato o alla fine passerà Orlando? Io credo che la candidatura di Leoluca Orlando sia già morta e che a settembre le opposizioni dovranno necessariamente cambiare candidato. Perché, se da un lato è pur vero che il presidente di questa commissione bicamerale spetta all’opposizione, dall’altro servono i voti della maggioranza per eleggerlo. Dunque, se Orlando continuasse ad essere il candidato che ci viene proposto, la situazione a settembre sarebbe la stessa che ha portato a numerose fumate nere. Ci sono vari esponenti del centrosinistra che avrebbero le capacità e le competenze per dirigere autorevolmente la Vigilanza, ma tocca a loro proporre uno o più candidati su cui trovare la convergenza di tutti. Non vorrei, però, che la questione sia legata all’elezione di un giudice della Corte Costituzionale che il Parlamento sarà chiamato a nominare alla ripresa dei lavori. Se così fosse, allora sarebbe tutto un altro paio di maniche.
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mondo
Un commando delle Forze Armate arresta il presidente Ould Cheikh Abdallah, il primo ministro e il ministro dell’Interno
Mauritania, è golpe bianco di Ilaria Ierep
d i a r i o a situazione in Mauritania è ancora troppo fluida per fare previsioni. D’altra parte, Nouakchott, la capitale di questo Paese prevalentemente desertico, non è nuova ai colpi di Stato. Quello che è accaduto ieri e che ha portato all’arresto del presidente, Sidi Ould Cheikh Abdallah (nella foto), e del primo ministro,Yahya Ould Ahmed Waghf, è il decimo caso di “detronizzazione”, o tentativi di questa, che si verifica nel Paese dalla sua indipendenza, nel 1960 dalla Francia, a oggi. Stando alle notizie che, con il contagocce, arrivano dall’Africa, le Forze Armate, guidate dal comandante della Guardia Presidenziale (Basep, Battaglione per la sicurezza del presidente), si sono opposte alla nuova politica riformista che il governo stava adottando. Una serie di nuove nomine, dalle quale erano stati esclusi appunto gli artefici del golpe, ha innescato la reazione di alcune unità dell’esercito, le quali – peraltro senza sparare un colpo – hanno circondato i principali edifici pubblici della capitale. La prova di forza giunge in seguito alle dimissioni di 48 parlamentari del partito di maggioranza di tendenza islamista-moderata, il Patto Nazionale per la Democrazia e lo Sviluppo (Pndd, la cui sede è stata ieri chiusa dai golpisti). L’accusa che questi rivolgevano al Presidente e a tutto il governo era di aver disatteso le aspettative dei cittadini e di appropriazione indebita di fondi pubblici.
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Tuttavia, i timori di un’escalation erano nell’aria. Democraticamente eletto nel marzo del 2007, il presidente Abdallah aveva deciso di traghettare il Paese verso un periodo di normalizzazione politica e di sviluppo economico. La speranza era di porre fine alle ripetute crisi governative a cui era soggetto – il precedente colpo di Stato risale solo al 2005 – ma soprattutto di avviare la crescita industriale. Il primo passo per la realizzazione di queste ambizioni sarebbe dovuto essere l’allontanamento della “vecchia guardia” burocratica in uniforme. Era ormai cosa fatta il licenziamento, decretato dal Presidente nella stessa mattinata di ieri, del Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate, il generale Abdullah Ghazawan, e dello stesso Comandante delle Basep, il generale Muhammad Ould Abdelaziz. Coincidenza vuole, però, che entrambi gli alti ufficiali avessero legami diretti con il precedente regime, quello di Mouaia Walid al-Taya, deposto appunto nel 2005. Una classe politica inadatta, quindi, per il futuro che Abdallah avrebbe voluto regalare alla Mauritania. Dall’allontanamento si sarebbe dovuti passare alla fase delle riforme vere e proprie. La Mauritania è uno dei Paesi più poveri del mondo. Nel 2001, la scoperta di giacimenti off-shore di petrolio e gas naturale, nelle acque dell’Atlantico, aveva animato le speranze di sviluppo per il Paese. Le stime confermano ancora oggi che dalle aree di Chinquetti e Tiof potrebbero essere estratti circa 120 milioni di barili, ma l’estrazione richiederebbe uno sforzo finanziario di mezzo miliardo di dollari. Sulla base di questo, il deposto governo, che aveva iniziato un parziale sfruttamento dei giacimenti nel 2006, auspicava la conversione economica dal monopolio produttivo dell’agricoltura – peraltro ridotta, visti i problemi di siccità – all’industria. Il Presidente Abdallah aveva promesso di intervenire anche nei settori dell’educazione, del
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Guantanamo: verdetto contro Hamdan Un tribunale militare statunitense ha dichiarato colpevole Salim Hamdan, lo yemenita ex autista di Osama bin Laden, in quello che è il primo dei processi per crimini di guerra alla base militare cubana di Guantanamo. Il verdetto dei sei ufficiali membri della corte non riguarda tutti e 10 i capi di accusa, ma solo 4: per gli altri è stato giudicato innocente, ma quelli per cui è stato giudicato colpevole potrebbero costargli l’ergastolo. La giuria è rimasta riunita circa otto ore nell’arco di tre giorni prima di raggiungere un accordo. Hamdan, che si era dichiarato «non colpevole» era accusato di «complotto» e «sostegno materiale al terrorismo», ma secondo i suoi avvocati, pur avendo lavorato per Bin Laden dal 1998 al 2001, non sarebbe stato coinvolto nella rete di Al Qaeda e avrebbe ignorato il ruolo del suo datore di lavoro. Hamdan è diventato il protagonista del caso-simbolo per Guantanamo. Il suo processo ha rappresentato un test decisivo per il Pentagono per dimostrare che i controversi tribunali speciali creati dall’amministrazione Bush dopo l’attacco all’America dell’11 settembre 2001 sono in grado di funzionare in modo efficace. Il Pentagono conta di dar vita in tempi rapidi, sulla scia del caso Hamdan, ai processi ai presunti capi di Al Qaeda ritenuti responsabili dell’attacco dell’11 settembre, detenuti a Guantanamo.
Austria, Haider si ricandida
I militari sono entrati in azione dopo la decisione del governo di sostituire il capo delle guardie presidenziali
lavoro e della sanità. Inoltre, si era speso per debellare la schiavitù, tradizione difficile da sradicare in un Paese abitato da una forte comunità berbera. Effettivamente, il fenomeno era stato bandito formalmente nel 1980, ma poco si era fatto per il rispetto del divieto. Abdallah, al contrario, si era impegnato in prima persona per questa causa. Tutto ciò, ma in particolare il fatto che Abdallah fosse stato eletto democraticamente, aveva garantito al Paese l’appoggio dei governi occidentali, soprattutto degli Stati Uniti.
Un’agenda politica, questa, che è improvvisamente decaduta. La cronaca degli eventi rispetta il più classico dei canovacci di un colpo di Stato. Il “Consiglio di Stato”, né più né meno che una giunta militare, creato dopo il golpe ha annullato tutte le nomine effettuate dal Presidente e revocato i licenziamenti. Resta di chiedersi, a questo punto, cosa potrà accadere. Il fatto che si tratti del decimo sconvolgimento del teatro politico interno lascia supporre che una situazione di stabilità sia ben lontana dall’essere raggiunta. La stessa Ue, per voce di Luois Michel, commissario per lo sviluppo egli aiuti umanitari, ha detto: «Questa situazione rischia di rimettere in discussione la nostra politica di cooperazione con la Mauritania, nel quadro della quale abbiamo appena finalizzato con il governo un programma di sostegno da 156 milioni di euro per il periodo 2008-2013 come complemento dell’assistenza già in corso». Nel contesto africano, quindi, già percosso da situazioni di crisi, si aggiunge l’ulteriore incognita della Mauritania. Analista Ce.S.I.
Dopo otto anni di “esilio” in Carinzia, Joerg Haider, il leader populista la cui politica xenofoba indusse nel 2000 l’Ue a imporre sanzioni contro l’Austria, ci riprova e tenta un ritorno sull’arena federale alle elezioni anticipate in programma nel Paese il 28 settembre. A 58 anni, il governatore della Carinzia ed ex “enfant terrible” della politica austriaca, scende in campo come capolista della Bzoe (Lega per il futuro dell’Austria) alle prossime legislative convocate con due anni di anticipo sulla fine della legislatura a causa della crisi di governo nella grande coalizione Spoe-Oevp fra i socialdemocratici del cancelliere Alfred Gusenbauer e i popolari del vice cancelliere Wilhelm Molterer.
Iran, 5+1 verso nuove sanzioni Il Gruppo dei 5+1 discuterà a settembre, a margine dell’Assemblea Generale dell’Onu, la possibilità di varare nuove sanzioni contro l’Iran per il suo programma nucleare. Lo ha indicato l’ambasciatore della Russia alle Nazioni Unite, Vitaly Ciurkin, dopo la conferenza telefonica tra i direttori politici di Usa, Gran Bretagna, Francia, Cina, Russia e Germania avvenuta ieri pomeriggio. L’ambasciatore ha aggiunto che Mosca non ha mai fissato una data di scadenza delle proposte fatte a Teheran, mentre Washington aveva lanciato un ultimatum martedì scorso.
Medvedev, sì a borsa di studio Solgenitsyn Il presidente russo Dmitry Medvedev ha istituito una borsa di studio in onore del letterato russo Alexander Solzhenitsyn, deceduto domenica notte. Medvedev, presente al funerale che si è svolto ieri a Mosca presso il monastero Donskoi, ha riconosciuto «il grande e perenne contributo alla cultura nazionale russa” dell’autore di ”Arcipelago Gulag» e ha auspicato che le autorità moscovite gli dedichino una strada.
Musharraf andrà a Pechino «Il presidente pachistano Pervez Musharraf si recherà a Pechino per la cerimonia inaugurale delle Olimpiadi e il suo partito sarà sempre al suo fianco per difenderlo da ogni tentativo di impeachment». Lo ha detto in un’intervista alla televisione Geo Tv, Chaudhry Pervaiz Elahi, leader dell’opposizione in Parlamento ed esponente del partito del presidente pachistano.
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otto pagine per cambiare il tempo d’agosto
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agosto 1947
L’avventura fallita del nor vegese Thor Heyerdahl
Le onde del Pacifico inghiottono il Kon-tiki di Pier Mario Fasanotti
ra biologo e studioso di geografia, ma la sua passione dominante era l’antropologia.Thor Heyerdahl, nato nella cittadina norvegese di Larvik nel 1914, figlio della direttrice del museo locale, studiò all’università di Oslo. E cominciò a incuriosirsi dinanzi alle notizie ma soprattutto alle leggende che circolavano attorno alle isole polinesiane. Fu il padre, nel 1936, a offrirgli il viaggio, che Thor compì assieme alla giovane moglie Liv, all’isola di Fatu-Hiva, all’interno di quelle piccole terre in mezzo al mare meglio conosciute come Isole Marchesi. Studiò fauna e flora, ma Thor e Liv parlarono molto con gli indigeni e in un certo senso furono adottati dal capo polinesiano Teriieroo. Fu questi a pronunciare la frase che avrebbe condizionato la vita del norvegese: «Tiki era un dio e un capo. Fu Tiki a portare i miei avi su queste isole su cui ora noi viviamo. Prima vivevamo in una grande terra, lontana, al di là del mare». Nacque così l’avventura del Kon-Tiki, che letteralmente significa “Figlio del sole”.Thor trovò la conferma dei suoi sospetti di studioso: gli abitanti di quelle isole sperdute del Pacifico non erano probabilmente giunte dall’Asia, ma dal continente americano grazie ai venti e alle correnti. Nel 1939 partì per la Columbia britannica
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SCRITTORI E LUOGHI
allo scopo di studiare i costumi degli indiani della costa nord-occidentale. Come sua abitudine visse e parlò con loro, ascoltando pazientemente i loro racconti. Tre anni più tardi cominciò a pubblicare su alcune riviste scientifiche e storiche la sua teoria sull’emigrazione. Il più antico spostamento di tribù sarebbe avvenuto a partire dalle coste del Perù, su zattere di legno e balsa. Migliaia di persone avrebbero raggiunto la Polinesia dopo aver fatto sosta all’isola di Pa-
I VIGLIACCHI DELLA STORIA
squa. Altra possibile ondata migratoria: dalla Columbia britannica fino alle Hawaii, a bordo di canoe. Il conflitto mondiale interruppe le sue ricerche. Si arruolò in aeronautica, nelle unità paracadutistiche norvegesi sul fronte del Finmark. continua a PAGINA II
I SENTIMENTI DELL’ARTE
L’India di Moravia
L’eroismo secondo David
di Filippo Maria Battaglia
di Olga Melasecchi
Massinissa di Massimo Tosti
a pagina IV
a pagina VI
a pagina VII p a g i n a I - liberal estate - 7 agosto 2008
In alto: la zattera usata dall’esploratore esposta al museo di Kon-Tiki di Oslo Accanto: la copertina del libro scritta dallo scienzato-navigatore, Thor Heyerdahl Nella pagina accanto: due ricostruzioni dell’imbarcazioni per la traversata oceanica
segue da PAGINA I Finita la guerra propose un suo testo alle autorità accademiche degli Stati Uniti, che però lo snobbarono rifiutando di leggerlo. La teoria, sostenevano gli scienziati delle università, non poteva stare in piedi: nel giro di due settimane il legno delle navi si sarebbe imbevuto come una spugna, distruggendosi. Un professore rise e gli disse: «È semplicemente assurdo. Provi un po’ lei ad andare dal Perù fino alle isole del Pacifico su una zattera di balsa…». Thor ci provò sul serio. Si procurò il legname nella foresta equatoriale dell’Equador, dove trovò alberi di balsa. Dovette scalare montagne. Scriverà poi nel suo libro di memorie: «Ci sembrava di navigare verso il basso, mentre lasciavamo gli altipiani riarsi dietro di noi per entrare in un altro mondo dove i tronchi, la pietra e ogni lembo di terra erano morbidi, lussureggianti di muschio e di torba. Le foglie crepitavano nell’aria e divennero presto enormi, simili a grandi ombrelli che gocciolavano dalla montagna. Poi si videro i primi fragili avamposti de-
gli alberi della foresta, che colavano acqua, coperti di pesanti festoni di muschio e barbe rampicanti». Fu una gran fatica mettere insieme il legno necessario per costruire la zattera Kon-Tiki. Si mise in viaggio assieme a cinque compagni (quattro norvegesi e uno svedese) e un pappagallo. Era il 27 aprile del 1947. “Il figlio del sole” salpò dal porto di Callao. Era una copia perfetta delle zattere peruviane, alla volta degli ottomila chilometri
ginava avesse iniziato la folle impresa marina. Le prime settimane la zattera scivolò tranquillamente sulla corrente di Humboldt. L’ottimismo aveva temporaneamente accantonato le previsioni catastrofiche per quanto riguardava le condizioni climatiche. Osservarono un mare sconosciuto, gli squali, pescarono, fecero misurazioni e annotarono osservazioni scientifiche. Impegnarono il tempo anche negli inevitabili lavori di manutenzione. Uno degli esploratori si era portato una sessantina di libri di sociologia ed etnologia. Ma il grande oceano non tardò a mostrare il suo
Il biologo e antropologo norvegese intuì che gli abitanti delle isole polinesiane non erano giunti dall’Asia, ma dal continente americano
di oceano. Thor non si valse di alcun accorgimento moderno per modificare la struttura originale dell’imbarcazione.Voleva che il Kon-Tiki fosse del tutto uguale al modello che imma-
p a g i n a I I - liberal estate - 7 agosto 2008
volto terrificante.Tempeste, una dietro l’altra, finchè il 30 luglio avvistarono l’isola di Puka Puka, nell’arcipelago della Tuamotu. Le onde erano fortissime e impedivano qualsiasi manovra. Per oltre una settimana il Kon-Tiki si trovò in balia del mare. Il 7 agosto si schiantò sulla barriera corallina, nell’atollo di Raroia. Dopo più di cento giorni di viaggio e 4300 miglia marine percorse. n successo, anche se le autorità accademiche continuarono a disconoscere il significato dell’impresa, rigettando ancora una volta la teoria sull’immigrazione di Thor Heyerdahl. Lo scienziato-navigatore non si perse d’animo e tenne varie conferenze all’università di Cambridge, nel 1952. E nello stesso anno organizzò la prima spedizione archeologica alle iso-
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le Galapagos, assieme agli archeologi E.K. Reed e A. Skjosvold. Concentrarono gli scavi sulle zone del possibile approdo degli antichi emigranti.Vennero alla luce quattro abitazioni precolombiane e in esse trovarono i resti di centinaia di vasi in ceramica.Tutti reperti pre-incaici, manufatti degli aborigeni dell’Equador e del Perù settentrionale. Un’altra conferma, se ce n’era bisogno. Nel 1955 venne esplorata l’isola di Pasqua che, per la presenza di grandi riserve d’acqua, era considerata come la prima terra abitabile dalle genti americane. C’erano le colossali statue di pietra, un mistero per tutti gli scienziati. Grazie agli scavi si scoprì che la popolazione Mohai seppelliva i cadaveri dentro la collina. Gli archeologi si accorsero che tempo addietro quelle genti potevano essere in grado, dal punto di vista meccanico, di trasportare quelle enor-
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o stesso giorno... nel 1876
A Leeuwarde, nei Paesi Bassi nasce Mata Hari di Filippo Maria Battaglia
mi sculture e di erigerle sul terreno. Ulteriori analisi stratigrafiche spiegarono che la presenza dell’uomo sull’isola di Pasqua poteva essere fatta risalire al 380 dopo Cristo. Thor, al congresso scientifico di Honolulu dichiarò: «L’Asia Sud Orientale e le isole adiacenti costituiscono il primo importante luogo di origine per le popolazioni e la cultura delle isole del Pacifico e il Sud America ne rappresenta l’altro”. ra il 1986 e il 1988 Thor Heyerdahl organizzò un’altra ondata di scavi nell’isola di Pasqua, concentrandosi soprattutto sul golfo di Anakena.Thor arrivò alla conclusione che nell’isola di Pasqua c’erano state tre distinte epoche culturali, la seconda delle quali aveva creato le famose statue di pietra. Furono portate alla luce statue ancora più antiche, molto simili a quel-
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le trovate in Bolivia. Ma Thor affrontò l’oceano anche nel 1969, guidando la prima spedizione del “Ra”, un’imbarcazione fatta di canne di papiro che prende il nome del dio egiziano del sole. Salpò da Safi, sulla costa marocchina, diretta in Atlantico. Si voleva dimostrare che le navi di papiro degli antichi egizi erano state in grado di raggiungere il nuovo continente. Millenni prima di Cristoforo Colombo. Dopo cinquemila chilometri il Ra
Un’insegnante mancata, una danzatrice perfetta, una spia imprudente. La vita di Margaretha Geertruida Zelle, alle cronache e alla storia nota come Mata Hari, sembra scaturire dal puro caso e sempre dal puro caso alimentarsi. Nasce il 7 agosto più di un secolo fa (corre l’anno 1876) a Leeuwarde, capoluogo della provincia di Frisia nel nord dei Paesi Bassi. E - complice gli occhi e i capelli bruni- è da subito diversa rispetto alle sue connazionali. Il caso le gioca il primo tiro decisivo quando le fa conoscere il marito, il capitano Rudolph Mac Leod, che in quel di Amsterdam trascorre la sua convalescenza per diabete e reumatismi. La vita coniugale non trascorre di certo serenamente, anche a causa dell’alcolismo e della focosità della giovane coppia. E il caso si abbatte di nuovo su Margaretha una manciata d’anni dopo, quando il figlio primogenito muore avvelenato, molto probabilmente per un incidente. Così, abbandonata dal marito, gironzola raminga tra Francia e Olanda fino a quando, a inizio secolo, prima si propone come amazzone, poi, col nome d’arte di Lady Mac Leod, spopola con la danza. Il successo dilaga e diventa Mata Hari, nome d’origine malese che sta per «Occhio dell’Alba». Alle danze private seguono i più impor-
iniziò a sfaldarsi, per difetti di costruzione. La traversata venne interrotta. Fu la volta poi del “Ra II”: dopo un viaggio di due mesi e dopo aver percorso 6100 chilometri, raggiunse le Barbados. Gli egizi potevano dunque aver compiuto la traversata, sfruttando la corrente delle Canarie. Scrive Thor nel suo libro: «Quando navigammo lungo la costa del Marocco sulle imbarcazioni di giunco Ra I e Ra II per seguire l’aliseo e la corren-
tanti teatri (l’Olympia di Parigi, l’Opera di Monaco, la Scala di Milano) e i primi entusiastici spettatori (tra cui c’è anche un estasiato Giacomo Puccini). Ma presto scoppia la guerra e qui la storiografia si divide: c’è chi la immagina sensuale e ingenua, c’è chi la dice acuta e calcolatrice. Certo è che diventa prima l’amante del colonnello degli ussari Eduard Willem Van der Capellen, poi del maggiore belga Fernand Beaufort, infine del capitano russo Vadim Masslov. La storia del caso fortuito diventa così storia di uomini: grazie a vanità, soldi e potere, Mata Hari è prima invitata e poi sollecitata a fare il gioco di spionaggio e controspionaggio.Viaggia, va in Germania, fa rotta in Spagna. Solo che a questo punto quel gioco iniziale si complica, diviene intrigo e la sensuale olandese non lo riesce più a controllare. Fare la spia sia per la Russia che per la Germania è infatti un’esperienza unica, ma può costare cara. Anche perché non c’è vanità che tenga nella guerra di trincea più cruenta della storia occidentale. Parigi, poi, non è disposta a certe libertà, neppure se vengono dalla tanto celebrata «danzatrice unica e sublime». Il 2 giugno 1917, all’hotel Elyseé
te delle Canarie verso l’America vedemmo la catena vulcanica di Teide su Tenerife stagliarsi alta al di sopra delle nuvole, come doveva averla vista Colombo quando era partito dalla vicina isola di Gomena per tutti i suoi viaggi. Lui si diresse dritto a sud verso le Canarie prima di puntare verso occidente per dimostrare che la terra era tonda. Conosceva a menadito sia la costa del Marocco sia le Canarie, luoghi in cui si erano stabiliti gli europei, già prima di partire di nuovo in direzione dell’America. Perché? I portoghesi avevano avuto delle indicazioni dagli arabi prima di mettersi in rotta verso l’Oceano indiano. Gli spagnoli le avevano avute dalle popolazioni primitive della foresta del Perù prima di partire a cercare le isole del Pacifico. C’era qualcuno che conosceva l’aliseo e la corrente delle Canarie prima che Colombo scegliesse di partire da quelle isole? Forse coloro che avevano vissuto per centinaia di anni in mezzo a quella corrente?». ostinazione di Thor andò oltre.Voleva dimostrare come fosse sbagliata la convinzio-
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Il suo nome significa “occhio dell’alba”. Accusata di fare il doppio gioco, il 2 giugno 1917 viene arrestata a Parigi. Condannata a morte, l’esecuzione arriva puntale alle 6 e 30 del 15 ottobre
Palace scatta l’arresto. Subito dopo, il carcere a Saint Lazare. Inizialmente l’eroina regge le accuse. Poi, è una slavina di prove, trascrizioni, somme di denaro ingiustificate, testimonianze schiaccianti. L’inchiesta è approssimativa, ma un Paese in guerra - si sa – non perde tempo in astrazioni e questioni diritto, neppure quando in gioco è la vita dell’«occhio dell’Alba». Il processo si svolge a porte chiuse. La Corte dei sei giudici militari presieduta dal tenente colonnello Albert Ernest Semprou non si fa commuovere dalla difesa del vecchio combattente Clounet: è condanna a morte. Alle 6 e 30 del 15 ottobre 1917 arriva puntuale l’esecuzione. Legata al palo, Mata Hari rifiuta la benda. Anche grazie a quella morte, la sua vicenda resterà immortale e diventerà mito, impresso com’è nelle decine di film e fiction a lei dedicate.
ne che i Sumeri non avessero mai potuto spingersi più a sud dei fiumi Tigri ed Eufrate. I Sumeri avevano grandi navi, co-
l’Oceano Indiano e nella valle dell’Indo in Pakistan. Tornammo indietro via mare dall’Asia in Africa. Là concludemmo il viaggio, dopo cinque mesi all’imboccatura del Mar Rosso, nelle antiche acque dei Faraoni». Impresa non semplice anche per le guerre che coinvolgevano Gibuti. Il viaggio del Tigris spostò la curiosità di Thor verso le isole Maldive che dal 1982 furono terreno di scavi archeologici. In quel periodo furono riportati alla luce templi riccamente decorati di epoca pre-Islam e di civiltà più antiche come quelle dell’isola Nilandu. Era la prova che prima dell’epoca musulmana si era sviluppato un centro economico di notevole importanza. Thor Heyerdahl morì il 18 aprile del 2002 all’età di 87 anni. La sua straordinaria avventura umana e scientifica si concluse sulle alture sopra Laigueglia, in Liguria.
Lo spostamento delle popolazioni sarebbe avvenuto dalle coste del Perù su zattere di legno e balsa struite con un giunco detto “berdi”. Questo materiale aveva il difetto di assorbire l’acqua e quindi non poteva consentire navigazioni nemmeno all’interno del Golfo Persico. Heyerdahl fece costruire, nel 1978, il Tigris, un’imbarcazione di 18 metri. Era fatta con giunchi intrecciati. A compiere questa operazione furono chiamati i pescatori del lago Titicaca, abili nel maneggiare la canna palustre. Scrisse Thor: «Ci mettemmo in viaggio partendo dall’interno dell’Iraq, la Mesopotamia dell’antichità. Navigammo scendendo lungo i fiumi fino a uscire nel Golfo Persico, infine nel-
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SCRITTORI E LUOGHI
L’inesaurubile
INDIA di Moravia “Chiunque voglia farsi un’idea del fenomeno religioso deve andare in Oriente” di Filippo Maria Battaglia
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ronache, reportage, persino un libro. Come l’Africa, l’India per Alberto Moravia è stata «inesauribile. Ci si va sempre la prima volta. O per l’ultima. E, in tutti i casi, chiunque voglia farsi un’idea di ciò che è “veramente” il fenomeno religioso, deve andarci». Tre viaggi dunque, dedicati all’“imperiale Bombay”, i cui riferimenti sono disseminati in ordine sparso in tutta le sue opere. Datato 1937 è il primo tour. È un anno spartiacque per la vita privata dello scrittore romano, che in quei mesi conosce Elsa Morante. Come ha scritto Tonino Tornitore, «il primo viaggio in India significò dunque la scoperta dell’Oriente, il trionfo della giovinezza, un misto di esotismo e di voglia di vivere, ed essenzialmente di lasciar quanto più spazio possibile fra sé e l’italietta dei salotti e saluti romani». Un’interpretazione forse un po’ agiografica ma nella sostanza
veritiera, e confermata dallo stesso scrittore nel libro-intervista di Alain Elkann: «la mia vera iniziazione all’Asia e all’Oriente l’avevo avuta… proprio il giorno dell’arrivo a Bombay, vedendo la folla indiana tutta vestita di bianco e avvertendo per aria l’odore nuovo per me di polvere, di spezie e di decomposizione… Mi diede quella sensazione di giovinezza avventurosa, che Conrad ha così ben descritto in Youth; quando dice che il protagonista, venuto fuori sul ponte, capì che era in Oriente dalle mani brune dei portatori indiani che afferravano i parapetti delle navi per salire a bordo». a lì, Moravia invia la prima cronaca di viaggio, che appare sulla Gazzetta del popolo a fine marzo. Con tutta evidenza, non trascorre però tutto il tempo a leggere e a scrivere: «C’erano delle gabbie di legno,
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Va con Elsa Morante e Pasolini. È il trionfo della giovinezza, la scoperta dell’esotismo e, soprattutto, la lontananza dall’Italietta dei salotti romani con sbarre di legno, e dentro delle donne racchiuse come le bestie negli zoo. Prostitute. Il cliente entrava nella gabbia, in fondo c’era un velo, e si faceva l’amore dentro il velo. Centinaia di gabbie. Quella volta, a Bombay, lo svizzero e io prendemmo una macchina, uscimmo dalla città e andammo tra le piantagioni. Arrivammo davanti a un bungalow, molto bello. Siamo entrati, c’era una grande sala specchiante ma deserta, senza nessuno. Poi, guardando meglio, vedevi che c’erano tanti fagotti per terra. A un certo punto su una scala a V
apparve una donna europea, bionda, con un mantello di seta rossa, coi baveri di scimmia bianchi e i tacchi alti, alla Luigi XV: una vera apparizione fantastica in quel luogo! Batté le mani e i fagotti s’alzarono in piedi: erano le prostitute e la donna bionda era la tenutaria, parigina. Il mio svizzero scelse una bella prostituta e se ne andò con lei. Io cercai quella che mi piaceva meno, per cui ero sicuro di non avere nessuna tentazione: trovai una goanese che sarà stata più alta di me di trenta centimetri, con un seno enorme, duro come bronzo
e al sesso un pelo irto come limatura di ferro: era tutta metallica, nera, luccicante. Un viso come una maschera primitiva, con gli occhi enormi dal bianco roteante e una bocca tumida. La seguii. C’era un giardino stento e arso, poi una specie di esedra circolare con tante camere, ogni camera apparteneva a una prostituta. Convenni subito con la goanese che non avrei fatto l’amore ma l’avrei pagata lo stesso e mi limitai ad aspettare lo svizzero in quel malinconico giardino indiano». Questa la cronaca, privata e raccontata postuma, del primo viaggio. uanto a quella ufficiale e lecita, Moravia racconta invece di una Bombay avvolta «in una nebbia grigia e grassa di città nordica e industriale», dove «l’edificio delle dogane sul molo al quale attracca il vapore con le sue pietre scure e le sue
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Visitano Calcutta dove conoscono “Suor Teresa”, si fermano a Madras dove sostano al tempio di Madurai. A Cochin l’incontro con un ragazzo di nome Revi “…di una lietezza cristiana”
Accanto: particolare di una cerimonia di nozze Sotto: Alberto Moravia, Elsa Morante e Pierpaolo Pasolini Nella pagina accanto: una giovane sposa che indossa i gioielli e l’abito tradizionale
buie e vaste arcate ricorda Liverpool. Ma dietro le inferriate dei magazzini non vediamo casse, botti, balle, bensì vestiti rossi, verdi, azzurri frangiati d’oro di donne indiane che guardano al vapore premendo il viso contro le sbarre; strane a vedersi nel buio di quegli antri, dietro quelle grate, simili a prigioniere». Al 1961 risale il secondo viaggio, in occasione di un invito a partecipare a un convegno per il centenario della nascita di Tagore. Anche questo tour chiude una parte essenziale della biografia dello scrittore. Sua moglie, Elsa Morante, che lo accompagna, ha una relazione con un giovane pittore americano. Di ritorno da quel viaggio, Moravia lascerà l’appartamento di via dell’Oca per andare ad abitare sul Lungotevere romano con Dacia Maraini. Della brigata di viaggio fa parte pure Pier Paolo Pasolini. Come
scrive Tornitore, «Pasolini è l’occhio discreto, Moravia è l’occhio sintetico sul continuo: il primo è catturato dal particolare, da cui egli deriva non solo le sue reazioni umane, viscerali, ma lo assurge a emblema». Significativo, in tal senso, è ciò che scrive, con una sottile vena snobistica, l’autore dei Ragazzi di vita: «io non so bene cosa sia la religione indiana: leggete gli articoli del mio meraviglioso compagno di viaggio, di Moravia, che si è documentato alla perfezione, e, dotato di una maggiore capacità di sintesi di me, ha sull’argomento idee molto chiare e fondate. So che in sostanza il Bramanesimo parla di una forza originaria vitale, un “soffio”, che poi si manifesta e concreta nella infinita plasticità delle cose: un po’ insomma la teoria della scienza atomica come, appunto, rileva Moravia. Io ho cercato di parlare di questo con molti indù: ma nes-
suno ha neanche la più pallida idea di quanto sopra. Ognuno ha un suo culto… Però posso dire una cosa: che gli indù sono il popolo più caro, più dolce, più mite che sia possibile conoscere… Basta guardare come dicono di sì. Anziché annuire come noi alzando e abbassando la testa, la scuotono circa come quando noi diciamo di no: ma la differenza del gesto è tuttavia enorme.Viste a distanza le masse indiane si fissano a memoria, con quel gesto di assentimento, e il sorrise infantile e radioso negli occhi che l’accompagna. La loro religione è in quel gesto». tre visitano Calcutta e conoscono «Suor Teresa», fanno sosta a Madras che, come Bombay, è «una città di tipo occidentale nella quale l’antico male della povertà indiana assume un aspetto moderno», fino ad arrivare al grande tempio di Madu-
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rai. Per Moravia è una folgorazione: è il più «formidabile, se non il più bello.Visto dall’aeroplano, all’arrivo sulla città, con le sue mura chiuse le une dentro le altre, pare una scatola cinese scoperchiata, ma si notano subito, ai quattro lati dell’immenso recinto, quattro ombre coniche proiettate da ciò che sembrano quattro torri. Sono i cosiddetti gopuram, o torri d’ingresso, che si alzano ai quattro punti cardinali». Arrivarci da una «delle viuzze basse e tortuose della città è un po’come arrivare a una cattedrale gotica per le straducce di un borgo francese: si prova, a tutta prima, lo stesso sentimento quasi più di stupore che di ammirazione. Alziamo gli occhi e vediamo il gopuram salire salire verso il cielo azzurro come un’enorme scala a pioli che abbia tutti i pioli gremiti di una brulicante tribù di scimmie, come spesso avviene qui di vederne sugli alberi, lungo le strade maestre. Scimmie immobili, fulve, dorate dal sole che batte sulla torre, ma che, a un grido o a un gesto brusco, potrebbero scappare, lasciando scoperte le strutture sulle quali si accalcano. Questa immagine delle scimmie non è forse la più adatta a dare un’idea delle sculture magnifiche che ricoprono fittamente il gopuram. Ma essa vuole suggerire il carattere principale dell’arte indiana: l’odio del vuoto, la proliferazione delirante degli ornamenti, l’affollamento tumultuoso delle figure. Un carattere che sembra direttamente suggerito dalla natura tropicale, anch’essa brulicante e gremita». iù traumatica, ma per ragioni per così dire coniugali, è la visita al tempio di Silva e Tanjore. Ricorda Moravia nella biografia di Elkann: «andammo a visitare un tempio. Pasolini ed Elsa si allontanarono e io rimasi solo nel taxi. Subito un gran numero di mendicanti si assembrò a chiedere l’elemosina, tra i quali uno che devo chiamare per forza mostro, cioè un uomo con la faccia come di lucertola, probabilmente cieco, che aveva introdotto la testa dentro il taxi proprio come farebbe un rettile dotato di un lungo collo. Allora mi spazientii e gridai in inglese che se ne andassero. In quel momento, arrivò Elsa e anche in quell’occasione se la prese con me, colpevole di
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non aver avuto pazienza con i mendicanti. Andò furente in albergo e cominciò subito a fare la valigia. Poi a forza di preghiere da parte mia e da parte di Pasolini si placò e continuò il viaggio». Passata la bufera, tra le ultime tappe c’è Cochin. È pomeriggio e un malinconico Pasolini ha «voglia di stare solo, perché soltanto solo, sperduto, muto, a piedi, riesco a riconoscere le cose. Lasciai perciò Moravia ed Elsa Morante e io uscii a piedi dall’albergo». Incontra così «un mite ragazzo di nome Revi». Passano diverse ore insieme, poi «la sera – continua l’autore di Una vita violenta - a cena, tormentai Moravia ed Elsa coi miei scrupoli: eravamo ormai verso la fine del nostro viaggio in India ed eravamo mezzo dissanguati dalla pena e dalla pietà… Revi mi faceva più pietà degli altri: perché era l’unico lieto, di una lietezza cristiana». on l’aiuto della Morante, i due riescono così a far ricoverare Revi nella “St. Francis Boys’Home” gestita da un sacerdote olandese. E proprio a Cochin, Moravia scrive una delle ultime pagine del suo viaggio: «il lido sabbioso che cinge la laguna, proprio di fronte a me, si apre a uno strettissimo passaggio oltre il quale si intravedono i voli dei gabbiani e le vele bianche del mare aperto. Una grande nave da carico, nera e fasciata di rosso, con un solo alto e smilzo fumaiolo spostato a poppa, imbocca in quel momento il passaggio penetrando la laguna che è il porto naturale di Cochin… Dapprima penso a certe rive di Venezia, là dove sono meno monumentali e più mercantili e dimesse; poi il ricordo si precisa: quella città l’ho già vista in un quadro, e precisamente in un quadro di Vermeer». Cronache asciutte, reportage minuziosi e informative dettagliate: eppure, di fronte alla «naturalistica India», alla fine persino il piglio razionalista del Moravia viaggiatore capitola. Restandone fatalmente sedotto.
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Bibliografia Alberto Moravia, Un’idea dell’India, Bompiani, pp. 138, euro 7,50 Alberto Moravia, Alain Elkann, Vita di Moravia, Bompiani, pp. 289, euro 15 Pier Paolo Pasolini, L’odore dell’India, Guanda, pp. 128, euro 6
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I VIGLIACCHI DELLA STORIA Nel ‘300 Petrarca raccontò questa storia nel poema epico “Africa”, scritto in latino, e rimasto incompiuto. Ritornò sull’argomento nel “Trionfo d’amore”. Nel ‘700 fu Vittorio Alfieri a essere suggestionato dalla trama romantica di un amore contrastato dalla ragion di Stato uò un uomo di valore, capace di magnifici atti di coraggio, macchiarsi – in un momento topico della sua vita – con il marchio infame della codardia? Può accadere, ed è accaduto molte volte nella storia, così come accade spesso nella vita comune. Il coraggio e la codardia fluttuano nell’universo dell’istinto, non della ragione, e sono spesso casuali. Ci sono, tuttavia, alcuni casi esemplari che finiscono per affascinare poeti, scrittori, tragedi. Come la vicenda di Massinissa, che vide protagonisti sul palcoscenico tre uomini e una donna: Massinissa (appunto), Scipione l’Africano, Siface, e la bellissima Sofonisba, figlia di Asdrubale di Giscone, notabile cartaginese. Petrarca – nel Trecento – raccontò questa storia nel poema epico “Africa”, scritto in latino, e rimasto incompiuto. E ritornò sull’argomento nel “Trionfo d’amore”, dove il condottiero ricorda in modo struggente il suo amore per quella donna di bellezza abbagliante: “Né mai più dolce fiamma in duo cori arse, / né farà, credo”. Nel Cinquecento ne ricavò una tragedia (“Sofonisba”) Gian Giorgio Trissino: la prima rappresentazione di cui si abbia notizia ebbe luogo a Blois, per desiderio di Caterina de’Medici, regina di Francia, che convinse le sue figlie a salire sul pal-
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Massinissa
Lo sceicco numida che fece bere il veleno alla moglie, divenuta bottino di guerra di Massimo Tosti
La vicenda coinvolse tre uomini e una donna: Massinissa (appunto), Scipione l’Africano, Siface, e la bellissima Sofonisba, figlia di Asdrubale di Giscone, notabile cartaginese
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coscenico per interpretare i ruoli principali. Nel Settecento fu Vittorio Alfieri a essere suggestionato dalla trama romantica di un amore contrastato dalla ragion di Stato. Massinissa – in questa versione – si rende conto della propria codardia, e la confessa alla donna amata: “Mi credi dunque sì vil, ch’io a te sorviver osi?”. Ma poi se ne fa una ragione, ascoltando la replica, fiera e consolatoria, di Sofonisba: “Maggior di me ti voglio: esserlo quindi / tu dei, col sopravvivermi: ed in nome / della tua fama, a te il comando in prima”. E, qualora non bastasse, lei aggiunge (con qualche capriola dialettica, ma con una nobiltà d’animo invidiabile): “Vergogna or fora a te il morir; che solo / vi ti trarrebbe amore: a me vergogna / il viver fora, a cui potria sforzarne / il solo amore”.
Proviamo a raccontarla, questa vicenda, ricavandola dai racconti degli storici antichi. Quando Scipione l’Africano giunse in Africa, per regolare i conti con Annibale (il condottiero cartaginese che aveva mortificato i romani sulle rive del fiume Trebbia, sulle sponde del Trasimeno e a Canne), cercò di allearsi con il re di Numidia Siface. Strinse l’alleanza, Ma Annibale e Asdrubale di Giscone convinsero Siface a cambiare di nuovo bandiera: a quei tempi era del tutto normale che i condottieri passassero da una parte all’altra (come sarebbe accaduto ancora per molti secoli, fino al Settecento). Sofonisba fu il compenso pattuito. A Citra, capitale della Numidia furono celebrate le nozze e la bellissima cartaginese divenne regina. Scipione, che nel frattempo s’era assicurato l’allean-
za con Massinissa (sceicco numida), tentò invano di convincere Siface a rispettare i patti precedenti. Fallita la missione diplomatica, organizzò un assalto all’accampamento del re, che venne fatto prigioniero. La spedizione era guidata da Massinissa, che si prese così la propria rivincita sul rivale. A completare il trionfo provvide Sofonisba, che si gettò in ginocchio di fronte al vincitore, scongiurandolo di non consegnarla ai romani. Gli storici riferiscono che “le sue parole erano più simili a carezze che a preghiere”. Per farla breve, lo sedusse. Non si sa bene se solo per interesse o anche per passione: Massinissa era più giovane di Siface e – pare – più attraente. Il giorno stesso fu celebrato il matrimonio, che Massinissa riteneva potesse salvare la vita di Sofonisba. Andò infatti da Scipione per chiedergli di risparmiare la propria moglie, ma il romano fu irremovibile: Sofonisba era prigioniera di guerra, e come tale doveva essere trattata; Massinissa doveva decidere da che parte schierarsi. Animato da un sano (e deplorevole) realismo, lo sceicco tornò a Citra con una coppa di veleno, lasciando alla sua donna la libertà di scegliere fra la prigionia e la morte. Allo schiavo che le porse il veleno Sofonisba disse: “Accolgo il dono nuziale che non mi dispiace se nulla di meglio un marito può offrire alla moglie. Dì al tuo signore che sarei morta meglio se non mi fossi sposata il giorno del mio funerale”. Come in tutte le grandi tragedie fu la donna la causa prima di sofferenze e dolori, ma fu l’uomo a uscirne peggio. All’epoca della battaglia di Zama (nella quale la sua cavalleria fu determinante nella vittoria di Scipione) Massinissa aveva una quarantina d’anni, ma sarebbe vissuto oltre i novanta. Era una roccia. A ottantasei ebbe il suo ultimo figlio. Continuò a cavalcare alla testa delle sue truppe fin quasi alla fine, coprendosi di gloria. Come altri condottieri rimasti nella storia per la loro audacia e la loro longevità. Come Enrico Dandolo, che conquistò Costantinopoli, con la spada in pugno, quando aveva novantasette anni; come Bartolomeo Colleoni che continuò a combattere fino agli ottant’anni; come Andrea Doria, che visse fino a novantaquattro anni, temuto e rispettato come quando ne aveva trenta o quaranta. Massinissa era della stessa razza. Robusto nel fisico, indomito nel coraggio. Eccetto in quell’occasione, nella quale non si comportò da gentiluomo, ma da autentico vigliacco.
I SENTIMENTI DELL’ ARTE evero e tragico come un requiem il dipinto La morte di Marat di Jacques-Louis David (1748-1825) si è imposto da subito come l’immagine dell’eroe moderno, morto per i suoi ideali. Sull’onda del dolore per la morte dell’amico, David dipinge quest’opera che più di ogni altra riflette la tragicità della Rivoluzione Francese, con le sue virtù, i grandi sogni di rinnovamento e la scia di sangue che, soprattutto negli anni del Terrore tra il 1792 e il 1793, venne versato in nome di questi sogni. La storia è nota: la sera del 13 luglio 1793 Charlotte Corday, legata alla fazione repubblicana dei Girondini entra quasi a forza nella casa del medico, giornalista e attivista della fazione avversa dei Giacobini, Jean-Paul Marat costretto a trascorrere gran parte del suo tempo dentro la vasca da bagno a causa di una grave infezione cutanea contratta nascondendosi in ambienti malsani perché perseguitato dai nemici della Rivoluzione. La Corday si era
L’EROISMO
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Il quadro: la morte di Marat di Jacques-Louis David
Il primo “film” contro il Terrore di Olga Melasecchi
La pugnalata al cuore è inflitta dalla Corday, subito arrestata e condannata a morte. Il dramma è compiuto, solo un fascio di luce dall’alto a sinistra scende a illuminare il corpo senza vita fatta annunciare con due lettere in cui pregava di essere ricevuta in nome dei comuni ideali rivoluzionari per comunicare a Marat segrete e importanti notizie. Senza aspettare risposta, seppure ostacolata da Albertine, l’amante di Marat, la giovane Charlotte viene tuttavia ricevuta dall’uomo che aveva riconosciuto l’autrice delle lettere ricevute. David ha scelto di raffigurare l’assassinio nel momento meno cruento, appena successivo alla pugnalata al cuore inflitta dalla Corday, subito arrestata e condannata a morte. Marat, cinquantenne, è ancora riverso nella vasca da bagno, i capelli raccolti in un asciugamano, il capo riverso all’indietro, con la mano sinistra regge la lettera della Corday, appoggiata sull’asse di legno che
funge da scrittoio ricoperto di un panno verde. Il braccio destro pende fuori dalla vasca e la mano ancora stringe la penna d’oca che forse si accingeva a usare per rispondere alla lettera. Accanto alla mano per terra è il pugnale sporco di sangue e, particolare più realisticamente vibrante di tutta la composizione, in primo piano a destra è una cassa di legno povero su cui è il calamaio, la lettera di una donna in difficoltà finanziarie che gli chiedeva aiuto e l’assegno preparato per lei
gio e un inno ai valori essenziali di uguaglianza, fraternità e libertà per i quali l’amico era morto e al quale il pittore, proprio sulla cassa, incide la sua dedica che è anche un sobrio ma eloquente epitaffio: “A Marat. David”. Il pittore inserisce espliciti riferimenti alla nobiltà d’animo del defunto, che però oltre a essere un “Amico del popolo” era anche un inflessibile giudice contro i nemici della Rivoluzione: l’assegno dichiara la sua generosità e la penna che stringe nella mano è l’arma del giusto che lotta per le sue idee e che proprio nel tempo della civiltà delle lettere è consapevole del fatto che la libertà vera è nella libera circolazione del pensiero. La funzione della luce risulta fondamentale in questo processo di eroicizzazione del personaggio, luce presa in prestito dai capolavori di Caravaggio, e dunque luce sovrannaturale che illumina l’innocente sacrificato come nella consueta iconografia del Cristo. Il riferimento alla vittima della più grande ingiustizia umana è anche nella posizione del corpo di Marat che è una sorta di “Deposizione” laica dove il lenzuolo macchiato di sangue è quasi un
Affranto per la morte dell’amico, il pittore dipinge un’opera che più di ogni altra riflette la tragicità della Rivoluzione Francese e la scia di sangue versato negli anni tra il 1792 e il 1793
da Marat. Seppure dipinto quasi di getto per commemorare ed esaltare il sacrificio dell’amico, dopo che proprio a lui era stato affidato il compito di celebrare l’orazione funebre all’imponente funerale pubblico, ogni particolare di questo quadro ha un forte significato. La scena è immersa in un ambiente privo di definizione spaziale, ogni rumore è escluso, è tutto fermo, immobile, il dramma è compiuto, solo un fascio di luce dall’alto a sinistra scende a illuminare il
corpo senza vita.Anche il disegno compositivo, costruito su cadenzate linee verticali e orizzontali tra loro ortogonali, blocca l’immagine su uno sfondo nero che occupa tutta la metà superiore della tela, come un drappo funebre. La meticolosità con cui sono raffigurate le venature del legno, i chiodi e le piccole fratture della cassa in primo piano appena animata dall’ombra che la lettera della povera donna getta sul bordo, conferiscono all’oggetto la valenza più forte di tutto il dipinto: un omag-
sudario e la ferita mortale ricorda la ferita al costato del Cristo. La tipologia stessa è erede della consueta tipologia dell’iconografia del Cristo deposto, da Michelangelo a Raffaello fino ancora a Caravaggio, regista delle più drammatiche scene della pittura barocca, e che il neoclassico David amava molto. L’eroe è solo, circondato dai suoi simboli, la luce che è divina, ma che è anche luce della ragione, rischiara il volto mettendo in risalto la sua reale fisionomia e l’espressione di serena accettazione del destino. Questo dipinto, che è una sorta di manifesto della Rivoluzione Francese, con la fine della Rivoluzione stessa cadde in disgrazia e non potè più rientrare in Francia, e come il suo artefice, è rimasto in Belgio, conservato ai Musées Royaux des Beaux-Arts de Belgique di Bruxelles.
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Cruciverba d’agosto
“Pazienza, dissero i conigli”
di Pier Francesco Paolini ORIZZONTALI 1) Memories, film di Woody Allen • 9) “Ode su un’urna .........” di John Keats • 14) Loys, scrittore francese nato nell’is. Maurizio (La stella e la chiave, 1945) • 20) Esecuzione successiva, anziché simultanea, delle note di un accordo • 21) Magazzini • 22) Creatori, perpetratori • 23) Gianni, poeta del dolce stil novo • 24) Né sa quando una simile / ......... di piè mortale... (Manzoni, 5 Maggio) • 26) Rustico equivalente degli aedi classici • 28) “Pazienza,” dissero i conigli. “Per questa volta abbiamo fatto il viaggio a ........” (Pinocchio) • 29) “Ninfa ........” di Domenico Rea • 31) Parte di un atto • 32 “........ della Tortilla” romanzo di John Steinbeck • 33) Capol. del Piemonte • 34) Una delle Tre Sorelle di Cekhov • 35) Articolo • 37) Guai se si strozza • 39) Formica inglese • 40) Or convien ch’....... per me versi... (Purgatorio XVIII) • 42) Dagli Urali al Pacifico • 44) “Rio ......” di Palazzeschi • 46) Id Est • 47) Una delle Sporadi • 48) ........... va cercando ch’è sì cara (Purgatorio) • 49) Prendere l’........, la rincorsa • 51) Iniz. del poeta milanese Porta • 53) Ossigeno e iodio • 54) Mario, autore del romanzo Il quinto Evangelio • 55) Guanciale • 58) Oggetti preziosi • 60) Mantello equino • 62) Ecuador • 63) “L’uomo ........” dramma di Ernst Toller (1921) • 64) McBain, scrittore americano (Veleno, 1987) • 65) Dinastia cinese (1368-1644) • 67) In provincia di Torino • 69) Modelli • 71) Profondi • 72) Il senatore..., personaggio del Candido di Voltaire (cap. XXV) • 75) Montagne • 76) Miscredente • 77) Il monte su cui approda l’arca di Noè • 78) Baciò la sua petrosa ....... Ulisse (Foscolo) • 80) Capitale europea • 82) Pianta erbacea popolarmente detta “amorino” • 83) Città della Lorena • 84) Commedia di Plauto
VERTICALI
1) Di quell’umile Italia fia .......... (Inferno, I) • 2) Valle dell’Alto Adige • 3) E la lucciola errava .......... le siepi (Leopardi, Le ricordanze) • 4) Colpevole • 5) Iniz. del Ghirlandaio • 6) Il Conte della Gherardesca • 7) Il suo canto ammalia ma il suo urlo allarma • 8) Avello • 9) Iniz. di Scerbanenco, giallista • 10) ....... e Gian, coppia di comici televisivi • 11) Organizzazione militare della Resistenza greca, il cui scioglimento (1946) innescò la guerra civile • 12) Composizione musicale per solista e orchestra • 13) Stella di mare • 14) Etnia africana (Kenia) • 15) O latino • 16) Alt • 17) Città della Spagna • 18) Scrisse La rivolta ideale • 19) ......... di nuovo sul Fronte Occidentale di E. M. Remarque • 25) Pseudonimo di George William Rssell, scr. irlandese (1867-1935) • 27) Xxxx Karenina • 29) Carlo, architetto torinese • 30) Il non averlo può essere fatale a un indiziato • 34) Dal 1934 detta le norme dell’aviazione civile • 36) Fratello di Caino • 38) Baratri • 41) Iniz. di Silone • 42) ...dove l’acque confondono ........... e Scamandro (Iliade, V-774) • 43) In provincia di Trapani • 45) “Orcynus” romanzo di S. D’Arrigo • 48) Pittore francese del Seicento • 49) Presagi • 50) Xx fu... • 51) Alfio nella Cavalleria • 52) Capo di un’abbazia • 54) Fanciullo latino • 55) Ambiente universitario americano • 56) Dea della vendetta • 57) Detestata • 59) ...e coll’unirsi / all’ultimo degli ........ la corona / cingere confidò (La forza del destino) • 61) Penetrante • 63) Nellie ........, soprano australiana (1861-1931) il cui nome è legato a una pesca • 66) Vidal, scr. americano • 68) Laurel, il grande comico in coppia con Oliver Hardy • 70) Provincia campana • 71) Trafila, per es. di un disegno di legge • 73) Ciascuno (abbr.) • 74) E compagnia bella • 76) Pacis • 79) Iniz. di Ypsilanti • 81) Capol. delle Marche
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L’Almanacco Hanno detto di… progresso
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C’è vero progresso solo quando i vantaggi di una nuova tecnologia diventano per tutti. Henry Ford
Perché le scale nei castelli salgono sempre in senso orario? I castelli sono sempre stati costruiti con lo scopo di difendere gli occupanti da possibili attacchi nemici. Anche le scale rispondono a questo requisito. Poiché la maggior parte delle persone utilizza principalmente la mano destra, gli attaccanti salendo le scale in senso orario si trovavano il pilone centrale dalla parte del braccio che brandiva la spada; quindi in condizioni di disagio. Viceversa i difensori, che attendevano in cima alle scale, avevano un angolo di visuale e di manovra più ampio. Non a caso, negli attacchi gli spadaccini
LA POESIA LE MANI
Queste tue mani a difesa di te mi fanno sera sul viso
mancini erano molto apprezzati e ricercati. L’origine di… decorare le suole delle scarpe Era abbastanza comune nell’antichità scrivere sotto la suola delle scarpe. Gli Egizi tracciavano il nome o un sommario ritratto dei propri nemici, manifestando così il proprio disprezzo. I Greci, invece, sotto le suole scrivevano il nome dell’oggetto dei propri desideri. Per ultime le prostitute greche, sapendo che la pubblicità è l’anima del commercio, incidevano la suola delle loro scarpe a mò di timbro, in modo che rimanesse impressa sulla strada da loro percorsa la seguente frase: “SEGUI I MIEI PASSI”. a cura di Maria Pia Franco
Quando lente le schiudi, LA SOLUZIONE DI IERI
là davanti
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la città è quell’arco di fuoco.
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Sul sonno futuro saranno persiane rigate di sole
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quel sapore di terra e di vento quando le riprenderai.
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“a me sì cara vieni, oh sera”
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Il XXI secolo sarà ancora americano? articoli di
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letture
”Silvana”, l’ultimo struggente romanzo (che romanzo non è) di Turi Vasile
Un cocktail di tempo shakerato nella memoria di Massimo Tosti on voglio che altri, e io stesso, pensino che vada inventandomi fantasie per il gusto di scriverne come usa oggi che ciascun scrittore si presume immaginifico di suo. Niente è forse più fantastico della realtà, invenzione divina e menzogna dell’uomo». Questa frase svela un vezzo di copertina. Silvana, l’ultimo libro di Turi Vasile, viene presentato come un romanzo (Avagliano editore, 142 pagine, 13 euro), ma romanzo non è, nel senso tradizionale del termine. È un groviglio di ricordi, di sogni, di emozioni, di salti indietro nel tempo: un grumo di nostalgie legate ai momenti felici nella vita di un uomo (lui,Turi Vasile), ma anche agli strappi del dolore, che sono inevitabili (e spesso confortati dalla tenerezza) nell’esistenza di ciascuno di noi. Figuriamoci di una quercia come Vasile, che ha 86 anni, e li ha vissuti tutti intensamente.
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cordi simili (che variano, naturalmente, da regione a regione), prima che le tradizioni culinarie s’imbastardissero, prima che le donne di casa fossero distratte da altre occupazioni e preoccupazioni (dal lavoro e dalla carriera, innanzitutto, ma anche dalla mancanza di tempo di una società nevrotizzata dalla fretta), prima che i menù fossero dettati dai surgelati e dalle offerte dei supermercati.
Qualche giorno fa sui giornali è uscita la notizia della scoperta di una proteina (la neuropeptide S), in grado di cancellare i brutti ricordi. L’ennesima tappa dell’eugenetica che ci vorrebbe tutti alti, biondi, magri, belli e felici: tutti uguali e omologati in un mondo di cloni perfetti e disumani. Silvana è il libro da leggere per capire quanto la memoria sia essenziale per vivere. «La de-
L’opera è un groviglio di ricordi, di sogni, di emozioni, di salti indietro: un grumo di nostalgie ancorate ai momenti felici nella vita di un uomo profondamente legato al destino della moglie malata dica è nel titolo» premette Vasile. Silvana è sua moglie, colpita da molti anni da una malattia degenerativa che l’ha resa passiva e assente. Lei ha perso la memoria; lui, viceversa, si sostiene con i ricordi che finiscono talvolta per mischiarsi (e confondersi) con il presente. Un intero capitolo del “romanzo” è dedicato a un appuntamento con Silvana «alla gelateria di piazza Quadrata, come ogni sera». Lui l’aspetta invano, si preoccupa,
cordi di Vasile, sovrastati dalle figure familiari, dalla terra di Sicilia dove è nato, dalla dignitosa povertà dell’infanzia, dalle piccole gioie quotidiane, persino dal menù fisso settimanale che regolava l’alimentazione familiare: pastasciutta con il ragù la domenica, minestrone senza pasta il lunedì; ’u maccu (minestra di fave secche bollite e passate) il martedì; cicoria di campo (o altri vegetali) con l’acqua in cui era stata cotta per inzupparvi il pane il mercoledì; pastasciutta con il «sugo finto» il giovedì; pesce il venerdì; brodo il sabato. Tutti quelli che hanno superato una certa età hanno ri-
prova a chiamarla al telefono, mentre la cassata siciliana si scioglie nel piatto. Alla fine si fa condurre a casa da un taxi: «Lei è al solito immobile, rigida sul lettino cromato; gli occhi sbarrati fissi chissà a che e chissà dove. La chiamo più volte perché rivolga lo sguardo su di me. ‘Perché non sei venuta?’dico a bassa voce, forse per non farmi sentire. ‘Ti ho aspettato, sai? Non ho perso, neppure per un istante, la fede che saresti venuta a prendere il ge-
lato come tante altre volte’. Sembra aver capito perché i suoi occhi si velano di pianto». Un racconto struggente, velato di malinconia, ma totalmente avvolto nel guscio dell’amore. «Vedi, Silvana, certe volte mi consolo che non sempre necessariamente sono allineati prima il prima e dopo il dopo. Il tempo è come un cocktail, lo puoi mescolare come vuoi nello shaker della memoria».
Chi conosce Turi Vasile sa che è un uomo forte, un uomo colto, un intellettuale eclettico, che ha dato tanto al cinema italiano, e non solo. È stato produttore di grande successo (realizzando film di Fellini, Antonioni, Pietrangeli, Brusati, Enrico Ma-
ria Salerno). Ha firmato un grande numero di sceneggiature. È stato regista di alcuni film (qualche sera fa, in televisione hanno mandato in onda un suo film di oltre cinquanta anni fa, I colpevoli, con Vittorio De Sica, Annibale Ninchi e Isa Miranda, che anticipava i drammi familiari delle famiglie benpensanti sconvolte dai crimini di figli sbandati). Ha scritto molte commedie e – soprattutto negli ultimi anni – si è dedicato alla narrativa, attraversata sempre da riferimenti autobiografici (Paura del vento, Un villano a Cinecittà, L’ultima sigaretta, La valigia di fibra). Potrebbe stupire che una vita avventurosa e carica di successi professionali lasci una traccia minima nei ri-
Ecco: quando si parla di memoria condivisa, si discute di storia e di politica, mentre esiste davvero una condivisione nei ricordi quotidiani, nell’Italia d’anteguerra per i più anziani, dell’immediato dopoguerra per i sessantenni. Poi tutto questo si è sciolto nella globalizzazione, nelle nuove abitudini dettate dalla tv, nelle contaminazioni dettate dalla diffusione delle automobili. C’è un filo di amarezza nei bilanci di Vasile. «La vita è un inganno al quale ci piace abbandonarci». Lui sente che sta per avvicinarsi alla Verità, «quella della grande Luce priva di inganni». Sperando di incontrare di nuovo le persone che hanno maggiormente contato nella sua vita: il padre, la madre, una figlia che se n’è andata troppo presto, gli amici del cuore. Per riannodare con loro i legami che non si sono mai sciolti, nel gomitolo del prima e del dopo.
mostre
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In mostra a Milano, fino al 14 settembre, le più belle opere Pop, minimaliste e hard-edge di Robert Indiana
L’Amor che... nell’arte mi ragiona di Stefano Bianchi ensate a qualche canzone pacifista.Tipo Give Peace A Chance (John Lennon), Blowin’ In The Wind (Bob Dylan), All You Need Is Love (Beatles), We Shall Overcome (Joan Baez). Il Flower Power, ben lo sappiamo, negli anni Sessanta si identificò nel succo di quella musica. Provate ad accostare quei pezzi d’utopia hippy a una sola parola. È probabile che vi vengano in mente quattro lettere. LOVE. Maiuscole, disposte in un quadrato con la O inclinata. Ecco, quindi, che una parola dal significato universale diviene immagine Pop. Universale quanto le Marilyn di Andy Warhol o le bandiere a stelle e strisce di Jasper Johns.
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Mai avrebbe immaginato, Robert Clark (in arte Robert Indiana, dallo stato americano di nascita), che bastasse una parola. Che quella scritta tridimensionale creata nel 1966 alludendo al movimento pacifista si sarebbe globalizzata in un“logo”da moltiplicare su grafiche, poster, francobolli da 8 centesimi, tappeti, orecchini e t-shirt. Utilizzata, addirittura, dai ballerini del musical teatrale Hair per coprire le loro nudità. E poi “rubata” per formare la scritta a tutte maiuscole Love story sulla copertina del romanzo di Erich Segal. Love all’ennesima potenza. Il merchandising dell’Amore. «Penso ai dipinti Love come a poesie di una sola parola», di-
Tra le opere di Robert Indiana esposte a Milano fino al 14 settembre, in senso orario: ”Bar” (bronzo dipinto); ”Love” (alluminio policromo); ”Red Yellow with Giraffe (olio su tela); ”Amor” (alluminio policromo) e al centro ”The 6th American dream” (olio su tela) chiarò Indiana. «La O deriva da un’impostazione tipografica, e nei testi composti a mano è inclinata. Non l’ho inventata io, ma ho solo proseguito una tradizione». Che purtroppo, però, ha relegato in sottofondo tutto il resto di un’arte indubbiamente più varia, come dimostra l’antologica al PAC Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano realizzata in collaborazione con la Galleria Gmurzynska di Zurigo puntando su dipinti kolossal e assemblaggi lignei che svelano l’Indiana al di là dell’ingombrante icona. Esposta, con tutti gli onori, in triplice versione: olio su tela, scolpita in marmo di Pietrasanta, piena di lampadine intermittenti. E inoltre collocata all’aria aperta in due punti strategici del centro storico (piazza della Scala e piazzetta Reale) a mo’di Amor rossofuoco e giallo in alluminio policromo e Love in bronzo, trasformato in un vero e proprio “muro” consacrato al sentimento universale. Robert Indiana, che con l’opera The Slips del ’59 gettò un ponte fra immaginario Pop e minima-
lismo, fondendo lo stile geometrico e hard-edge con riferimenti alla cultura urbana, è quel che si dice un grande comunicatore pittorico: capace di esprimersi con squillanti e persuasivi cromatismi; e, tipograficamente, con lettere, ideogrammi e numeri che non solo “raccontano” la cultura americana (letteraria, sociale, antropologica) ma gli offrono l’opportunità di raccontarsi e di raccontare le persone che più ha amato. Il quadro intitolato Usa 666, The 6th American Dream, riassume ad esempio il ciclo dell’esistenza nelle scritte Eat (mangia), Hug (abbraccia), Err (erra) e Die (muori). E sintetizza in quel 666 l’aver completato l’opera nel ’66 dopo la morte del padre (che lavorava alla Phillips Petroleum 66) avvenuta in giugno. Decade Autoportrait, invece, si concentra autobiograficamente sulle scritte Eat (titolo del cortometraggio girato da Andy Warhol: inquadratura fissa su Robert Indiana che mangia un fungo), 64 (l’anno in cui la pellicola viene girata) e Coenties (da Coenties Slip, il distretto di New York dove l’artista dal ’56 definì con James Rosenquist, Ellsworth Kelly,Agnes Martin e JackYoungerman le coordinate della Pop Art e del Minimalismo). Se l’impatto visivo di certe opere ricorda le insegne dei drugstore e i segnali stradali che popolano il paesaggio delle metropoli statunitensi, il simbolo ricorrente della stella non fa che alludere alla fama e al patriottismo, mentre l’unico lavo-
ro figurativo in mostra è una Marilyn Monroe schiettamente votata al “pop”. Ma sono i numeri, in fin dei conti, a vincere. Sottoforma di grandi cifre metalliche da 1 (associato a se stesso: oneself) fino a 0. Oppure di schegge autobiografiche, impresse sulle tele, che si riferiscono agli indirizzi abitati negli anni giovanili. O ancora, l’8: cioè la madre, nata e morta nel mese di agosto. Numeri e ancora numeri. Che rincorrono fulminee parole (Hole, Ash, Bay, Bar) nei sorprendenti “totem” di legno tarlato e ferro, sostenuti da ruote arrugginite, che ricordano le sculture New Dada di Robert Rauschenberg. «Ci sono più segni che alberi, in America», puntualizzò Robert Indiana nel 2002 al New York Times. «Più segni che foglie. Per questo, penso a me stesso come a un pittore del paesaggio americano».
Eppure, a un soffio dagli ottant’anni (li compirà il 13 settembre), questo geniale stratificatore di significati riesce ancora una volta a depistarci con gli ultimi quadri in esposizione, i Chinese Paintings realizzati nel 2002. Che riprendono due termini/simbolo della sua poetica (Love e Peace) traducendoli negli ideogrammi ai e ping. E vicino a ogni tela, c’è una giraffa di peluche. Oggetto amato (love) e abbracciato (hug) dai bambini di tutto il mondo.
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il saggio
Jefferson a Baghdad/2. La seconda parte del testo del più famoso politologo contemporaneo. La guerra a Saddam fu una scelta bipartisan: è un errore attribuirla a una congiura dei neoconservatori
Iraq,il grande imbroglio di Robert Kagan segue dalla prima Oggi ci struggiamo in un grande dibattito sulla politica estera americana. Ma di che tipo di dibattito si tratta in realtà? A livello politico, gli schieramenti non sono poi così distanti come si vorrebbe far credere. Anche fra i cosiddetti neo-conservatori e gli internazionalisti liberali, fra i consulenti del candidato repubblicano e di quello democratico alla Casa Bianca, le differenze - come fa notare giustamente David Rieff - «sono più tipiche di una lite familiare». La disputa attuale ha luogo in seno ai ristretti parametri di un comune paradigma. Entrambi gli schieramenti condividono la convinzione della supremazia americana, ivi compresa quella militare. Entrambi gli schieramenti non hanno difficoltà a concordare con la dichiarazione rilasciata da John Kerry nel corso dell’ultima campagna presidenziale per cui «l’America
suo scopo principale nel mondo è quello di promuovere «la diffusione della libertà». Insiste – con frasi che dovrebbero atterrire ogni vero realista – che la «sicurezza del popolo americano è indissolubilmente legata alla sicurezza di tutti i popoli». Vuole incrementare il bilancio per la Difesa, accrescere l’entità delle forze americane di terra aumentando di 65mila unità l’esercito e di 27mila il corpo dei marines per far sì che gli Stati Unito abbiano «le forze militari più forti e meglio equipaggiate del mondo». Parla di «Stati canaglia, dittatori ostili, alleanze muscolari» e di mantenimento di «un forte deterrente nucleare». Parla di quello che definisce il «momento americano» e di come sia necessario coglierlo. Dice che dobbiamo «rifondare il mondo su nuove basi», riecheggiando – come fece Ronald Reagan – l’appello messianico di Thomas Paine. I conservatori, i realisti ed i rappresentanti della sinistra possono cavillare, ma è difficile opporsi alla forza irresistibile di questa tradizione in quanto riflette profonde convinzioni ed ambizioni di lunga data. Questo ci riporta alla questione se i “neoconservatori” abbiano trascinato o meno gli Stati Uniti in guerra nel 2003. Da un punto di vista puramente pratico, questa ipotesi ha sempre sollevato qualche perplessità. Come ci erano riusciti? Poche persone consideravano George Bush un neoconservatore prima del 2003, e lo stesso dicasi per Dick Cheney, Donald Rumsfeld o Condoleezza Rice, che si era definita una «realpolitiker» nella campagna elettorale del 2000, e vi era
ANCHE HILLARY VOTÒ PER L’INTERVENTO La guerra ha cominciato a perdere sostegno popolare soltanto quando gli americani hanno temuto che i soldati fossero imprigionati in uno sforzo infinto
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deve sempre essere la principale potenza militare a livello mondiale, ma possiamo ampliare e amplificare il nostro potere tramite alleanze». Quando Barack Obama parla di politica estera, evoca non Chomsky bensì Kennedy e insiste sul fatto che l’America deve essere «leader del mondo libero». Deve fungere da guida «nella lotta contro i mali più immediati e nella promozione del bene ultimo». Il
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inoltre il problema dell’opinione pubblica. Come tutte le guerre americane, anche l’attacco all’Iraq fu immensamente popolare sia subito prima che immediatamente dopo il suo inizio, più popolare delle guerre in Kosovo e Bosnia, dell’invasione di Panama e Grenada. Fu popolare quanto la guerra del Golfo del 1991 e continuò ad esserlo anche dopo che gli ispettori non ebbero trovato tracce di armi biologiche, chimiche o nucleari, o dei rispettivi programmi che i servizi segreti di due amministrazioni americane e di molti Paesi europei sostenevano ci fossero. Un sondaggio del Washington Post/Abc dell’aprile 2003 rivelò che più del 70 percento degli americani sosteneva la guerra, e un sondaggio della Cbs stimò che il 60 percento degli americani riteneva che i sacrifici imposti dal conflitto erano giustificati anche se non erano state trovate armi di distruzione di massa. Un mese dopo, un sondaggio della Gallup affermò che il 79 percento degli americani considerava la guerra giustificata indipendentemente dall’esistenza di prove che Saddam Hussein possedesse armi di distruzione di massa, e solo il 19 percento riteneva che la scoperta di tali armi fosse necessaria per giustificare il conflitto. In realtà la guerra cominciò a perdere il sostegno popolare solo quando si iniziò a temere che l’esercito americano fosse imprigionato in uno sforzo infinito e potenzialmente perdente, e i leaders politici erano in sintonia con il comune sentire. Il voto decisivo del Senato nell’autunno del 2002 passò con il risultato di 77 a 23, con 29 voti su 50 di democratici favorevoli. Molti hanno affermato, giustamente, che i membri del Senato erano sotto pressione, che è sempre difficile votare contro la richiesta del Presidente di
avallare una guerra, ma non è impossibile, come ha dimostrato una maggioranza di democratici quando si oppose ad una risoluzione favorevole alla prima guerra del Golfo del 1991; se i democratici si sono convinti ad appoggiare il conflitto nell’ottobre del 2002 è stato solo per paura di provocare una reazione popolare negativa nei loro confronti. Certamente
L’ex segretario alla Difesa Donald Rumsfeld; lo sbarco dei marines Usa a Grenada nel 1983 per l’operazione “Urgent Fury”; il vicepresidente Dick Cheney
il saggio
7 agosto 2008 • pagina 21
L’ex presidente Bill Clinton; militari americani pattugliano le strade di Pristina durante la guerra in Kosovo; il segretario di Stato Condoleezza Rice
alcuni membri del Congresso che approvarono la risoluzione di guerra nel 1917 ebbero le stesse preoccupazioni, ma il margine di favore fu notevole. Nel 2002, coloro che votarono per la guerra includevano chiunque avesse un vago progetto di presentarsi come candidato presidenziale sia nel 2004 che nel 2008; non solo John Kerry, Hillary Clinton, John Edwards e Joseph Biden, ma anche Thomas Daschle, Tom Harkin e Chris Dodd, come pure alcuni democratici che non avevano tali mire, quali Harry Reid, Byron Dorgan, Jay Rockfeller e Charles Schumer, insieme a repubblicani moderati come Chuck Hagel, Olympia Snowe e Arlen Specter. Per quanto riguarda Barack Obama, si possono solo fare supposizioni sull’ipotesi che avrebbe votato contro la guerra se fosse stato al Senato nell’autunno del 2002. Se Dodd e Harkin votarono a favore, sia in base a convinzioni personali che tenendo conto dei loro futuri piani presidenziali, avrebbe fatto una calcolo diverso l’attuale candidato alla Casa Bianca? Erano dunque tutti neoconservatori Cheney e Rumsfeld, Kerry e Clinton, Harkin e Hagel? In un certo senso sì.
Essi appartenevano tutti, in un modo o nell’altro, alla stessa tradizione americana di politica estera; credevano nella potenza dell’America e nella capacità degli Stati Uniti di usare tale forza per scopi positivi per il mondo, e la maggior parte, nel recente passato, aveva sostenuto l’uso della forza sia in Iraq che a Panama, in Bosnia e in Kosovo, con o senza alleati, con o senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, sostenendo anche, talvolta, quegli interessi americani che erano più di natura ideologica che pratica. Forse non tutti erano d’accordo che fosse giusto mandare delle truppe sul territorio iracheno nella primavera del 2003, anche se votarono a favore, ma avrebbero sostenuto una politica estera che per principio si fosse opposta a tale azione? L’amministrazione Bush non aveva ideato una nuova dottrina per sostenere la visione della questione irachena; la motivazione per la guerra era stata ereditata dall’amministrazione Clinton. Il timore del programma militare di Saddam, la paura che le sue armi potessero finire nelle mani di terroristi, il convincimento che il contenimento stava fallendo, che Sad-
dam era un tiranno e un aggressore seriale, tutti questi argomenti erano stati enunciati in pubblico in modo dettagliato negli anni in cui l’amministrazione Clinton si confrontò con il problema Iraq. Queste infatti furono le ragioni usate per giustificare l’uso della forza quando il Presidente Clinton ordinò quattro giorni di bombardamenti e di attacchi missilistici contro i siti iracheni sospettati di produrre armi. Né George Bush, né i suoi uomini, sono mai riusciti ad indicare una ragione per rimuovere Saddam che non fosse stata già enunciata dal Presidente Clinton e dai suoi principali consiglieri negli anni Novanta. Anche l’appello di Bush per la democrazia non fu originale. In un discorso all’American Enterprise Institute del 2003, il Presidente dichiarò che «un nuovo regime in Iraq avrebbe rappresentato un esempio di ispirazione alla libertà per altre nazioni nella regione», e che «il successo in Iraq potrebbe rappresentate una nuova fase per la pace in Medioriente e dar vita ad un vero progresso per la creazione di uno stato palestinese e democratico». Questa dichiarazione fu criticata come prova di neoconservatorismo idealistico, ma - se così fosse - essa ha solo reiterato i sentimenti espressi dal consigliere nazionale di Clinton, Sandy Berger, il quale affermò nel 2000 che «il modo migliore per rispondere alla sfida posta dall’Iraq è un governo a Baghdad - un nuovo governo - impegnato a rappresentare e rispettare la popolazione, non a reprimerla, e che sia impegnato per la pace nella regione... Il futuro dell’Iraq avrà un effetto sul modo in cui il Medioriente e il mondo arabo in particolare si evolveranno nei prossimi dieci anni e oltre». Se l’amministrazione Bush ereditò le ragioni della guerra dall’amministrazione Clinton, la visione più ampia del mondo in cui tali ragioni prendono senso fu ereditata dalla percezione della storia americana. Il tentativo di spiegare la guerra come il prodotto della manipolazione di un gruppo di neoconservatori è un modo di sfuggire a quella che per molti è una realtà più molesta, cioè la presenza nel carattere americano di qualcosa che spinge in quella determinata direzione. Gli americani hanno l’immagine di sé di persone amanti della pace che generalmente si occupano dei propri affari, a meno di non essere violentemente provocati, ma
questa immagine è in profondo disaccordo con la realtà, per questo molti americani cercano un modo per giustificare un comportamento che appare contraddittorio. La ricerca di una spiegazione fantasiosa è un’antica tradizione. La guerra ispano-americana fu probabilmente quella più popolare della storia statunitense; unì destra e sinistra, nordisti e sudisti, Theodore Roosevelt e William Jennings Bryan, ma, quando i postumi del conflitto lasciarono l’amaro in bocca a molti, si fece strada una nuova visione della guerra secondo la quale un piccolo gruppo di uomini era riuscito a manipolare i vertici del potere e le emozioni di milioni di persone al fine di perseguire intenti imperialisti. Questa versione dei fatti divenne quella accettata, al punto che - leggendo alcuni odierni libri di storia - si ha l’impressione che la guerra sia stata imposta ad una nazione ignara da un gruppo di “imperialisti” (Roosevelt, William Randolph Hearst, Henry Cabot Lodge e Alfred Thayer Mahan), piuttosto che essere stata promossa entusiasticamente da una maggioranza bipartisan del Congresso. Quando gli americani cominciarono a
L’ESPORTAZIONE DELLA DEMOCRAZIA Se Bush ha ereditato le ragioni dell’attacco a Saddam dall’amministrazione Clinton, la visione del mondo che lo hanno motivato è eredità di tutta la storia Usa
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rimpiangere la loro egualmente entusiastica adesione alla prima guerra mondiale, molti scelsero di biasimare le nefaste manipolazioni dei banchieri e dei produttori di armi, e gli oppositori all’entrata dell’America nella seconda guerra mondiale - da Charles Beard a Robert A. Taft - insistettero sui “trucchi” e sulle “menzogne” di Roosevelt per indurre la nazione al conflitto. Oggi è la guerra in Iraq, inizialmente approvata da un ampio voto bipartisan al Senato e da una grande maggioranza di americani, ad essere attribuita a una cospirazione neoconservatrice. Vi si ritrova un’eco di quello che Richard Hofstadter ha definito «lo stile paranoico della politica americana», a parte il fatto che in questo caso non sono gli ignoranti populisti a cercare cospirazioni ma gli stessi sostenitori di Hofstadter. Segue. La terza e ultima parte del saggio di Robert Kagan sarà pubblicata domani
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog IMMAGINI DAL MONDO
LA DOMANDA DEL GIORNO
Vi sentite più sicuri con l’esercito in città? A DIRE IL VERO NO, NON SONO PIÙ SICURA E AL CONTRARIO HO MOLTI DUBBI E PERPLESSITÀ
FINALMENTE I CITTADINI ITALIANI POTRANNO TIRARE UN MERITATO SOSPIRO DI SOLLIEVO
Francamente no. Non mi sento più sicura rispetto a prima e anzi, al contrario ho parecchie perplessità. Nessuno di noi dovrebbe infatti perdere di vista la situazione, già alquanto desolante, delle nostre forze dell’ordine. Sono sottopagate, mai realmente controllate e piuttosto inclini ad agire brutalmente. Abbiamo già dimenticato quello che ad esempio è successo lo scorso 11 novembre all’autogrill di Badia al Pino ad Arezzo? La famiglia Sandri non si riprenderà mai dalla tragedia di aver perso Gabriele per mano di uno sceriffo che non ha saputo mantenere la calma. Può darsi che qualcuno stia pensando: ma cosa c’entra tutto questo? Beh, c’entra eccome. Fin quando i governi italiani non si renderanno conto che prima di mettere soldati e poliziotti a pattugliare i quartieri più a rischio sicurezza, bisogna prima riformare per intero il sistema delle forze dell’ordine, qualunque esse siano, allora i pericoli non scompariranno. Anzi, semmai si aggiungono. Iniziamo a fare dei test psicologici più approfonditi, test psicoattitudinali prima di dare a chicchessia la licenza di possedere e usare un’arma.
Senza il minimo dubbio sì: adesso che i militari presidieranno le zone calde delle città, finalmente ci sentiremo tutti più sicuri. E’ inutile dire, come è stato detto recentemente da tutta l’opposizione nessuno escluso, che è uno spreco di denaro pubblico o che è un oltraggio all’Italia stessa piazzare l’esercito a pattugliare. E’proprio questo che i cittadino volevano: sentirsi più sicuri e protetti da tutta quella delinquenza (nostrana o extracomunitaria a me non importa di certo) che dilaga nel Paese. Il governo faccia pure ciò che vuole con la Giustizia, la riformi, si faccia anche leggi ad hoc e addirittura ad personam. Ma quello della sicurezza è un problema che andava affrontato e Berlusconi lo ha fatto. Finalmente da adesso in poi potremo davvero sperare che più nessuno si trovi in pericolo scippo, in pericolo stupro o addirittura in pericolo omicidio. Sono sicuro che questo, alle prossime elezioni politiche e amministrative, gli elettori lo ricorderanno. E più che positivamente.
Gaia Miani - Roma
LA DOMANDA DI DOMANI
Secondo voi gli atleti azzurri dovrebbero disertare la cerimonia inaugurale delle Olimpiadi?
Rispondete con una email a lettere@liberal.it
Fulvio Di Gennaro - Napoli
I MILITARI DOVREBBERO SOSTITUIRE I POLIZIOTTI, COSÌ AVREMMO PIÙ AGENTI SUL TERRITORIO Bene così. Era ora. E dirò di più: i militari impegnati nel presidio delle diverse città italiane potrebbero addirittura sostituire poliziotti e carabinieri nei presidi e nelle postazioni fisse, sì da consentire di avere più agenti sul territorio. La militarizzazione, al contrario di quanto s’è detto e scritto sui giornali, non avverrà mai, perché di certo, ad esempio, non gireranno per via del Corso a Roma, ma certamente nei luoghi sensibili, come ad esempio presso la stazione di Tor di Quinto, dove fu uccisa Giovanna Reggiani. E la loro presenza rassicurerebbe le persone. Certamente non sarebbe un danno vederne di più, anzi, soprattutto al quartiere Esquilino, dove regna l’illegalità e l’italiano è sempre più uno straniero in patria. Cordialmente ringrazio per l’ospitalità sulle pagine del vostro giornale. Buon lavoro e distinti saluti.
L’ABRUZZO DEVE VOLTARE PAGINA CON LA NUOVA COSTITUENTE DI CENTRO Discontinuità. Questa deve essere la parola d’ordine, in Abruzzo dopo l’arresto del Presidente della Regione Ottaviano Del Turco e l’ormai prossimo commissariamento della sanità regionale. Ritengo che come Udc e come Fondazione liberal possiamo realmente essere i motori di una nuova stagione politica in Abruzzo. Nel recente seminario di Todi dedicato al bipartitismo imprefetto nel quale si trova attualmente il nostro paese abbiamo ribadito che occorre ripartire dalla fiducia che, in aprile, due milioni di italiani hanno già accordato all’Unione di Centro, puntando sulla forza storica dell’Udc e sull’apporto nuovo di movimenti come il nostro, la Rosa Bianca, i Popolari, per dar vita ad un nuovo partito: popolare e liberale. Un partito che metta insieme le idee migliori della storia nazionale ed europea: il progetto di solidarietà e di sussidiarietà del popolarismo, l’affermazione delle virtù civiche repubblicane dell’umanesimo laico, l’ispirazione cristiana e libera-
IL RIPOSO DEL TIGROTTO Splendido scatto effettuato lo scorso 5 agosto allo zoo di Pittsburgh, dove da tre mesi vive il cucciolo di tigre siberiana Amur. Questa specie, purtroppo, è stata dichiarata in pericolo d’estinzione a causa del commercio illegale di pelliccia
FERRERO DOPPIOGIOCHISTA?
ENRICO LETTA E IL PD BAUDISTA
Al caro Ferrero, neo eletto segretario di Rifondazione, una domanda semplice, posta da molti come me: egli dice, con Veltroni no, nelle amministrazioni locali invece si, secondo i programmi. Ora chiedo quale sia la differenza: Veltroni non è segretario degli esponenti Pd a livello locale? La politica Pd in periferia è diversa da quella a Roma? I programmi di Veltroni sono diversi a Roma ed a Genova o Ancona? Ho il sospetto che i motivi siano altri, mi auguro non di bassa bottega, non sarebbe nello stile di rifondazione! Ama tenere i piedi in due staffe? Non ci posso credere! Ed allora che c’è di diverso tra essere a fianco di Veltroni a Roma o di Cacciari a Venezia?
non è mai contento Enrico Letta, deputato del Pd. Invece dovrebbe esserlo. E’ in forma, sorridente e con tanta voglia di vivere. Così almeno appare il Nostro in una serie di scatti. Eppoi i giornalisti e gli intellettuali pendono dalle sue labbra. Non si è reso conto che la sua idea di trasformare il Pd, il partito dei migliori e dei superiori, nel partito baudista, da Pippo Baudo, vale a dire in un partito nazional-popolare è geniale? Invece di attendere la domenica per immergerci nelle mollezze domestiche e divertirci con Domenica in, avremmo un nuovo programma, Italia in, tutti i giorni. Allora sì che passeremmo momenti piacevoli e incantevoli. Grato dell’attenzione.
Paolino Di Licheppo Roseto degli Abruzzi (Te)
dai circoli liberal Daniele Corradi - Roma
le fondata sul primato della persona. Ci rivolgiamo a chi non crede nella tenuta del contenitore bipartitico che certamente non rappresenta la realtà complessa della società nella quale viviamo e quindi in primo luogo all’associazionismo civile e sociale. Il successo dell’intera operazione potrebbe conoscere una significativa accelerazione se si arrivasse a creare una lista per l’unione di centro già a partire dalle prossime elezioni regionali per la Regione Abruzzo e ciò dipende solo ed esclusivamente da noi. Il laboratorio Abruzzo potrebbe essere uno dei primi banchi di prova del nuovo soggetto politico. E per noi abruzzesi della Fondazione Liberal si rivela prioritario un ripensamento complessivo delle strategie sanitarie regionali per operare un netto taglio con il passato fallimentare delle Giunte Del Turco e Pace. Pensiamo ad una rimodulazione dell’offerta sanitaria che tenga conto dell’irreversibile processo di invecchiamento della popolazione e dei relativi bisogni di assitenza e che preveda un potenziamento dei servizi sanitari territoriali, un incremento dei servizi
Pierpaolo Vezzani Correggio (Re)
di assistenza domiciliare integrata in modo da scoraggiare quei ricoveri ospedalieri impropri che hanno contribuito in maniera rilevante a far aumentare il deficit sanitario regionale. Come imprenditore che si trova ad operare nella provincia aquilana ritengo poi assolutamente necessario che l’Amministrazione Regionale arrivi a creare un vero e prioprio “sistema Abruzzo” per promuovere le piccole e medie imprese che rappresentano il tessuto economico regionale. Per questo occorre promuovere adeguate politiche di attrazione degli investimenti esteri sul nostro territorio che offre una serie di opportunità incredibili e poco sfruttate e parallelamente si rivela necessario far conoscere all’estero le eccellenze del nostro territorio attraverso una adeguata strategia di internazionalizzazione. Si tratta di punti rilevanti che riteniamo dovrebbero essere inseriti all’interno di un dibattito programmatico da avviare quanto prima. L’Abruzzo e gli abruzzesi non possono più aspettare. Enzo La Civita COORDINATORE CIRCOLI LIBERAL ABRUZZO
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog C’È UNA BELLA DIFFERENZA TRA CITTADINI ROMENI E ROM
Distruggi i tuoi libri, ti darà riposo Caro Theo, eccoti di nuovo qualche riga, per rallegrare me stesso oltre che te. Ti ho consigliato di distruggere i tuoi libri e te lo consiglio ancora: vedrai, ti darà riposo. Tuttavia, bada a non diventare di mente ristretta fino a temere di leggere libri ben scritti; al contrario, la buona lettura è un conforto nella vita. «Vi sono cose vere, oneste, giuste, belle e meritorie; pensate a queste cose per lodarle e per essere virtuosi». Una volta, papà mi scrisse: «Non dimenticare la storia di Icaro, che volle volare fino al sole e, dopo essere arrivato a una certa altezza, perse le ali e precipitò in mare». Anche tu sentirai spesso che noi due non siamo ancora quello che speriamo di diventare un giorno, che siamo ancora molto al di sotto di papà e di altri. Non si può diventare semplici e veri in un solo giorno. Scrivimi presto, raccontandomi anche della tua vita di ogni giorno. Fatti coraggio e salutami chiunque chieda di me. Una forte stretta di mano. Tuo affezionato fratello Vincent Van Gogh al fratello Theo
COME MAI LA SINISTRA NON CONDANNA LA CINA? Egregio direttore, non avrei voluto disturbarLa oggi, ma proprio non sono riuscito a darmi da solo una spiegazione alla seguente domanda: come mai la sinistra italiana, in passato, ha sempre protestato attaccando diversi regimi e dittature, come ad esempio la Grecia (regime dei Colonnelli), il Cile (dittatura di Pinochet), l’Argentina (militari al potere), e via discorrendo, e invece non ha mai mosso un dito contro Cuba (dittatura di Castro) ed ora contro la Cina (dove, dittatura a parte, avvengono circa 2.000 esecuzioni capitali)? Cuba e la Cina hanno la democrazia come in Occidente, o è quella ”la democrazia” che intendono certi politici nostrani? Su questi argomenti potranno mai essere, una volta per sempre, chiari e convincenti? Mi dicono che parlo di roba ormai vecchia e superata. Sì, ma allora mi chiedo anche un’altra cosa: il fascismo, del quale ormai si parla da sessant’anni, è una cosa davvero così seria ed attuale? Grazie per l’attenzione e buon lavoro.
L. C. Guerrieri - Teramo
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)
ACCADDE OGGI
7 agosto 1816 Simón Bolívar trionfa contro gli spagnoli nella Battaglia di Boyacá 1944 L’Ibm inaugura il primo calcolatore controllato da un programma, l’Automatic Sequence Controlled Calculator 1947 La zattera in legno di balsa Kon-Tiki, di Thor Heyerdahl si schianta contro la barriera corallina a Raroia nelle Isole Tuamotu dopo un viaggio di 7.000 km 1964 Guerra del Vietnam: Il Congresso degli Stati Uniti passa la Risoluzione del Golfo del Tonchino, dando al presidente statunitense Lyndon B. Johnson ampi poteri di guerra per rispondere agli attacchi nordvietnamiti alle forze americane 1990 Un’impiegata di Roma, Simonetta Cesaroni, viene assassinata nell’ufficio dove lavora: il giallo di via Poma, uno dei delitti ancora senza colpevole 1998 Gli attentati alle ambasciate statunitensi di Dar es Salaam (Tanzania), e Nairobi (Kenya), uccidono 224 persone e ne feriscono oltre 4.500
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Giancristiano Desiderio,
Una precisazione. E’ giusta fare una grande differenza tra romeni e Rom e sappiamo che questi ultimi sono un problema anche lì nel loro paese: siccome però sono cittadini romeni, vorrei invitare il presidente Basescu a fare di tutto per riportarseli a casa. Qui, a Roma, la gente non li vuole perché di fatto rubano, delinquono, maltrattano donne e bambini e non rispettano le nostre leggi. La comunità romena, la più numerosa in Italia, costituita da persone oneste, spesso badanti e operai edili, non ha nulla da temere, perché deve essere chiara per tutti la differenza con i Rom. Invito dunque il sindaco Alemanno a ripensare alla cosiddetta scolarizzazione dei bambini Rom: così com’è non funziona e risulta solo uno sperpero di denaro pubblico. Si passi alla ‘presa in carico’ dei bambini affinché frequentino per davvero gli istituti scolastici e a togliere la patria potestà a quei genitori che li schiavizzano, così come accadrebbe in qualsiasi famiglia italiana.
Federico Piazza - Roma
PUNTURE Tremonti boccia l’Expo di Milano e vuol tagliare l’amministratore unico Glisenti. Il ministro mani di forbice colpisce ancora.
Giancristiano Desiderio
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L’uomo che non coltiva l’abitudine di pensare perde il più grande piacere della vita THOMAS EDISON
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Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Rossella Fabiani, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
il meglio di QUALE SARÀ IL SIGNIFICATO DI LODO? Il lodo Alfano è legge. Bene, o forse no! Se si tratta di legge ad personam o di un provvedimento che salvaguardia la serenità di operato delle quattro più alte cariche dello Stato, al momento, non è dato sapere. Lo stesso dicasi per attribuire il fregio della ragione alla maggioranza o all’opposizione. Bisogna attendere la stesura definitiva ed andare a studiare, da vicino, alcuni aspetti che legulei dalla incipiente canizie non mancheranno di sottolineare. Per giorni abbiamo assistito agli scambi di battute condite dal solito astio parlamentare sfociato nelle dichiarazioni di voto in ambo le camere. Da un lato si è gridato allo scandalo, dall’altro, la maggioranza, si è dimostrata compatta nel mantenere la sua linea di pensiero. Da un lato si è detto che quello che si andava a varare con il rango di legge era l’ennesimo tentativo di costruire un fortino dalle alte mura in difesa delle marachelle, presunte, del Capo dell’Esecutivo, dall’altro si è gridato per sottolineare che la sinistra stava ricorrendo al consueto minuetto di strumentalità e demagogia per gettare fango sulla figura di Berlusconi, rincarando la dose sulla amoralità della destra tutta, sua sodale. La maggioranza ha fatto quadrato nel far notare come, in questi anni, dei novantaquattro procedimenti aperti nei confronti di Berlusconi nemmeno uno si sia concluso con condanna, sottolineando come tutto il castelletto accusatorio, nei sui confronti, abbia basi strettamente politiche. Da qui non sono mancate forti critiche alla magistratura, vista come falange armata dei politici di sinistra e alle sue continue ingerenze, in questo mondo, che minano seriamente la sua indipendenza e terzietà. Mi piacerebbe sotto-
lineare, come ha fatto Maurizio Gasparri nella sua dichiarazione di voto in Senato, che in tempi non molto lontani politici del calibro di D’Alema e Cesare Salvi, dinanzi a procedimenti che vedevano implicati esponenti dell’allora Pds, si lamentavano della esagerata ingerenza dei magistrati nel mondo politico ed eravamo solo all’inizio degli anni novanta. Di quelle parole, oggi, non v’è traccia. Oggi prestano tutti le orecchie al tintinnio delle manette che Di Pietro sfoggia in ogni occasione possibile. Tuttavia, come accennato in precedenza, è ancora presto per formulare un giudizio compiuto. La linea di demarcazione tra le due possibilità prospettate in apertura è invero molto fragile. Si gioca tutta su di un termine, a parere di chi scrive. Si è udito infatti che il lodo Alfano sospende i processi in atto e non permette a quelli nuovi di poter partire. Bisogna, a questo punto, che le idee si chiariscano sul fronte della sospensione. Tutto ruota intorno alla prescrizione del reato, ovvero al periodo di tempo che l’ordimanento giuridico concede al Pm o a chi ne abbia interesse, dipende dal tipo di reato che il soggetto commette, per dar vita all’azione penale. Se il lodo Alfano sospende o interrompe i termini di prescrizione dei reati, permettendo la prosecuzione e l’inizio dei processi allorquando il mandato politico si sia concluso, saremmo costretti a riconoscere che la sinistra ha davvero esagerato nella strumentalizzazione dell’intera vicenda, se invece il periodo di prescrizione decorre normalmente, permettendo al reato di estinguersi, e di conseguenza all’azione penale di non poter essere svolta, il termine lodo acquisterebbe lo stesso significato che ha nell’attuale lingua spagnola.
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PAGINAVENTIQUATTRO Il 9 agosto di cent’anni fa nasceva Tommaso Landolfi
Il dandy che giocava con la di Francesco Napoli noto che per tutta la sua vita egli desiderò scrivere un romanzo e che si sentì menomato per non esserci riuscito; ma uno ne andava scrivendo, sebbene a minuzzoli, tra i maggiori di tutte le letterature, aperto sul mondo come i mille occhi di un insetto, i quali ne formano poi uno solo. Ed è tra le pagine di questo sparso romanzo che bisognerà, con amore, con pazienza persino, cercare il suo vero volto». Così scrisse Tommaso Landolfi di Cechov ma è fin troppo facile, scorrendo la sua bibliografia, associare questo medesimo pensiero a lui stesso. Carattere difficile, incline a un certo nobile distacco,Tommaso Landolfi appare tutt’ora, giusto a cento anni dalla sua nascita, una delle figure più difficili da inquadrare della nostra storia letteraria. E ci ha messo del suo perché questa parabola così si compisse. Infatti, pochi sono i narratori contemporanei che con tale pervicace metodo hanno indotto a deviare dalla propria biografia, lasciando circolare di sé una sorta di “leggenda”che sovrapponeva il personaggio alla visione dell’uomo. Un dandy, forse l’ultimo veramente tale, eccentrico e misterioso, accanito giocatore, eppure dotato di una cultura non comune: traduttore straordinario, dal russo in particolare, brillante laureato con una tesi su Anna Achmatova (1932) e fine conoscitore di lingue poco aduse ai tempi (polacco, ungherese o arabo), frequenta il gotha letterario italiano dei tempi, grande amico di Carlo Bo, e collabora a tutte le riviste più importanti degli anni Trenta (Corrente, Letteratura, Campo di Marte) fino al Mondo di Pannunzio. Soltanto che non voleva essere «il primo, di una famiglia di antica tradizione, a conoscere l’onta del lavoro», come rispose a chi gli proponeva una cattedra universitaria. Eppure, con tutta questa attività di depistaggio dalla propria vita e dalla propria esistenza, pochi come lui hanno adottato con tanta insistenza l’io nelle prove narrative.
«È
Nato a Pico, allora in provincia di Caserta, «ultimo forse rappresentante genuino della gloriosa nobiltà meridionale», Tommaso Landolfi trascorre tra Pico, Roma e la Toscana gli anni dell’infanzia, segnata dalla morte della madre quando lui aveva meno di due anni, e dell’adolescenza. Spirito libero e aristocratico, nell’arco dell’intera vita compie sporadici viaggi all’estero, mentre predilige trascorrere lunghi soggiorni a Sanremo o a Venezia, le «città del gioco”, dov’è attirato dalla sua grande passione, parallela a quella per la scrittu-
SCRITTURA ra». Al giardino della sua nobile villa famigliare Eugenio Montale dedica una poesia delle Occasioni (Elegia di Pico Farnese), la vuol far leggere a Tommaso, Tom come scrive nelle lettere al comune amico Bobi Bazlen, ma non vorrebbe in alcun modo, conoscendo il soggetto, che la stessa, per mano di Landolfi, «circolasse alla solita trattoria».
tratti con la sua marca narrativa fantastica e grottesca e che nel 1982 ne curerà un’antologia, affascinato dal Racconto d’autunno (1947). Arriverà Landolfi al massimo del salottiero nel 1975 vincendo con A caso il premio Strega. Ma è proprio il massimo. Ben presto, all’indomani della sua scomparsa nel 1979, arriverà l’oblio del fuori catalogo per i suoi titoli fino a quando la figlia Idolina, avuta a cinquant’anni, ne cura carte e opere ridandogli illustri editori (Adelphi e Rizzoli). Resta arduo mettersi d’accordo sul suo valore, ma Giacomo Debenedetti, che per primo ha saputo coglierne l’altezza e ha illuminarne la figura, è convinto che Landolfi rimane «un mistero in piena luce». Landolfi sapeva addomesticare il linguaggio ai richiami della sua fantasia, antesignano senza volerlo di certe inclinazioni neoavanguardiste. Si accusò di «insufficienza» e a quanti lo attaccavano era solito difendersi con certa nonchalance da sangue blu affermando: «Devo aver fatto confusione e lasciato il meglio nella penna». E forse, sempre per questa senso di insufficienza e di incompiutezza che permeò la sua esistenza che lo scrittore di Pico scrisse l’epigrafe per la propria tomba: «In molte pagine tacque».
Personaggio eccentrico, giocatore accanito, dotato di una cultura non comune, fine conoscitore di lingue ha frequentato il gotha letterario italiano e ha collaborato alle più importanti riviste degli anni Trenta Poco noto al grande pubblico, complice una lingua assai ricercata e barocca, si mostra incline a un certo gusto nel giocarci, come quando nel 1953 sceglie per una sua opera diaristica il titolo equivoco di La biere du pecheur dove, a seconda dell’accento, biere può essere birra o bara e pecheur peccatore o pescatore. A suo sfavore, gioca anche una orgogliosa distanza dalle tendenze letterarie italiane sia degli anni Venti-Trenta che di quelle del secondo dopoguerra. Fa il suo esordio nel 1937, con una raccolta di racconti, tra il fantastico e il grottesco, Dialogo dei massimi sistemi, e su questa misura e questa impronta narrativa si assesta. Il fulcro speculativo da subito dominante è quello della vanità dell’agire umano, trattato con una apparente e spesso divertita leggerezza. Resta lontano dai circuiti letterari, ma gli sono vicini i grandi coevi come Montale che ne riconosce il valore e i suoi immediati successori, se così li vogliamo definire, come Italo Calvino, consonante in larghi In alto un ritratto di Tommaso Landolfi; a sinistra lo scrittore con Vitaliano Brancati
E oggi, da pochi mesi che anche la sua amata Idolina a soli cinquant’anni è scomparsa e non potrà più curarne le carte e l’immagine, resterà ancora di lui qualcosa che la cittadella letteraria italiana vorrà ricordare? È auspicabile o, almeno, si dia credito a queste affettuose ma centrate parole della figlia: «Ma l’avventura di Landolfi nella pagina e nella vita, è proprio storia di una forzatura; nel senso d’un’immane, eroica applicazione ad innalzare la parola al traguardo altissimo che le si è dato, e farne il sostitutivo dell’esistenza».