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ISSN 1827-8817 80903

QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA

Il nuovo caso Politkovskaya e la stampa distratta

e di h c a n o cr

Perché l’Italia ha scelto di ignorare l’omicidio di Magomed?

di Ferdinando Adornato

RIFORME DIFFICILI

di Franco Insardà

Entrato in scena come “assistente“ di Berlusconi ora il Guardasigilli ha l’occasione storica di diventare protagonista di una riforma bipartisan della giustizia. L’iniziativa dell’Udc gliene offre l’opportunità. La saprà cogliere?

istratti, poco sensibili o indifferenti. A quale di queste tre categorie appartengono i giornali di casa nostra? In Italia la notizia dell’uccisione di Magomed Evloev è stata pubblicata soltanto daa liberal e accennata da Repubblica. Eppure le agenzie lunedì hanno diffuso flash sulla morte del giornalista che lottava per l’indipendenza dell’Inguscezia, proprio mentre i riflettori dei media erano puntati sul Consiglio d’Europa che ”condannava”Mosca per la vicenda georgiana, senza, però, prevedere alcuna sanzione. Dalla stampa estera, invece, arriva una una lezione di giornalismo. I due principali quotidiani statunitensi: il Washington Post e il New York Times, impegnatissimi a seguire i capricci dell’uragano Gustav e la convention repubblicana, non hanno ”bucato” la notizia dell’omicidio di Evloev. Stessa cosa in Europa: la Bbc già martedì sera ha aperto l’edizione del notiziario dal mondo e ieri sul sito era il secondo titolo delle Europe news. Sia il francese Le Monde che la tedesca Faz non sono stati da meno. Ma anche il pakistano Daily Times e il cinese South China Morning Post hanno dedicato ampio spazio sia nella versione cartacea che in quella online alla vicenda. Allora che cosa è successo nelle redazioni di casa nostra? I rapporti tra l’Italia e la Russia pesano di più della libertà di informazione?

D

Provaci, Angelino alle pagine 2 e 3 Tra inesattezze e falsità

Roma aiuta Mosca al vertice Ue

Alitalia, dove vola l’ipocrisia

E Putin ringrazia l’amico Silvio

s eg u e a pa gi n a 1 1

Gli intellettuali e la memoria

Nuove adesioni all’iniziativa di liberal e Udc

La storia? In Germania non è una colpa

Il ministro Frattini insiste con l’India

di Enrico Cisnetto

di Vincenzo Faccioli Pintozzi

di Francesco Capozza

di Renzo Foa

Per rivelarsi efficaci, le critiche devono essere fondate e ben documentate, altrimenti diventano dei boomerang che fanno male a chi le lancia e bene al loro bersaglio. È quello che sta succendo in Alitalia.

L’ambasciatore russo presso l’Unione europea, Chizhov, conosce personalmente Berlusconi e sa che l’Italia ha avuto un ruolo «attivo» nella stesura del testo del Consiglio dei 27. Che per Putin «è pieno di buon senso».

Il ministro degli Esteri Franco Frattini, parlando con l’ambasciatore indiano, ha chiesto maggiore attenzione da parte della polizia locale per fermare i massacri di questi giorni in India.

Il nuovo libro di Helga Schneider, Heike riprende a respirare, affronta il tema cruciale del conflitto con il nazismo e il comunismo, i totalismi del Novecento che hanno funestato la Germania.

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MERCOLEDÌ 3 SETTEMBRE 2008 • EURO 1,00 (10,00

CON I QUADERNI)

• ANNO XIII •

NUMERO

167 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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prima pagina La Grande Occasione

Giustizia. All’iniziativa Udc per la prima volta allo stesso tavolo magistrati, avvocati e politici

Casini: «Una riforma costituzionale frutto di un nuovo dialogo con la magistratura» Alfano: «Seguirò Napolitano, questo cambiamento deve essere condiviso» di Errico Novi

ROMA. Sarà il contesto, stimolante e impegnativo. Sarà lo sguardo severo di un maestro del diritto come Giuliano Vassalli, che introduce i lavori. Di certo al convegno organizzato al Sant Regis di Roma il ministro Angelino Alfano cambia decisamente passo, e fa intravedere sprazzi di luce sulla riforma della giustizia. Dichiara la sua fede nel dialogo, mette da parte i toni da progrom anti-toghe, indica la vera priorità nella «riduzione della durata dei processi, oggi troppo lunghi, tanto da penalizzare i cittadini e il Paese». Insomma fa un discorso da ministro responsabile, attento a non scatenare le ansie del Pd e ottimista sull’esito dell’impresa: «Ci sono tutte le condizioni». Meglio di così non potrebbe andare. Viene quasi il sospetto che l’incantesimo debba rompersi da un momento all’altro. Ma il guardasigilli coglie un dato: da ieri, dopo il confronto organizzato da Udc, Fondazione liberal, Istituto Sturzo, e Mondoperaio, non si può tornare indietro. Sarà difficile alzare di nuovo la voce, annunciare guerre senza esclusione di colpi. Anche perché Alfano ha confessato la propria am-

mento dipietrista: «Sono solo spot».

Libero dal tatticismo in cui sembrano costretti gli altri, Casini può entrare nel merito, e creare così qualche problema dialettico al Guardasigilli. «La separazione delle carriere? Bisogna lavorare innanzi-

tutto sulla selezione dei magistrati, individuare indicatori di professionalità di cui devono disporre il Csm e i consigli giudiziari». In altri termini: qualunque sia il problema, compreso lo squilibrio che a volte si crea a vantaggio del potere giudiziario, può essere affron-

tato con argomenti che non sono necessariamente punitivi nei confronti della magistratura. Separare le carriere non è l’unica opzione disponibile. L’Udc sembra dunque avere guadagnato la posizione tatticamente migliore: collaborare, contribuire e nello stesso tempo dissuadere il governo dal

muovere passi troppo bruschi. Casini già intravede «una riforma più generale delle istituzioni che includa anche la giiustizia».

Non che nella maggioranza si sia improvvisamente dismessa la corazza. Perché lo

La durata dei processi è «l’elemento centrale» della proposta del governo. Ma per il leader centrista il nodo principale resta quello di coinvolgere nella progettazione della nuova legge i rappresentanti della giustizia mirazione per Giorgio Napolitano, per «la saggezza e il buonsenso» che il presidente della Repubblica gli ha ispirato nell’incontro del giorno prima. E adesso avverte anche il pressing di Pier Ferdinando Casini, che sgombra il campo dai pregiudizi e ricorda però che stavolta «la riforma della giustizia non può essere imposta in uno scontro tra cannibali come è stato in questi ultimi anni». Forse il Pd è ancora ingessato, timido, troppo preoccupato di sbilanciarsi e perdere voti in favore dell’Italia dei valori. L’altra opposizione non ha questo problema e per voce del suo leader liquida così l’arrocca-

stesso Alfano ieri ha detto che prima o poi si dovrà decidere, anche se il dialogo è importante. Ma l’idea che la collaborazione sia di fatto indispensabile si diffonde rapidamente, innanzitutto tra chi nel Pdl lavora da anni sulla giustizia. Gaetano Pecorella, per esempio, non arretra fino al punto da

arriva molto lontano». I problemi sono più complessi di quanto si intuisca al primo sguardo: «Viviamo la contraddizione tra la svolta introdotta sulla formazione della prova con l’articolo 111 della Costituzione e norme ordinarie dall’impostazione ancora troppo inquisitoria».

«La riforma della giustizia non può essere imposta in uno scontro fra cannibali come è stato in questi anni», ha detto Pier Ferdinando Casini al seminario dell’Udc. «Ci sono tutte le condizioni per dialogare», gli ha risposto il Guardasigilli Angelino Alfano

Come si fa a discutere? Come si libera il confronto dall’ultradecennale gioco dei sospetti? Giuseppe Gargani è intanto convinto che non si può svicolare: «Abbiamo il dovere di discutere con tutte le forze politiche». Conviene sul fatto che «questa è davvero la materia costituente, giacché rimedia a squilibri che sono anche antecedenti rispetto alla stagione di Mani pulite: si pensi solo all’avanzamento della carriera dei giudici fino alla Cassazione previsto senza concorso». Si può procedere con astuzia, quanto meno secondo buonsenso, «senza mettere subito sul tavolo la separazione delle carriere ma partendo dalla disciplina dell’azione penale che non può più essere oibbligatoria e la composizione del Csm».

sovrapporre la sua posizione con quella di Luciano Violante (che sul superamento dell’azione penale si spinge persino oltre il limite di Casini), giacché a suo giudizio «la separazione delle carriere è indispensabile per sottrarre i pm al ruolo di rappresentanti della magistratura anziché dei cittadini, e arrivare così alla vera pacificazione». Nello stesso tempo però Pecorella ammette che «se non si trova un accordo tra le parti politiche non si

Sul piatto della bilancia va messo anche il disincanto della componente finiana del Pdl. Lo esprime con sano realismo il sottosegretario Pasquale Viespoli, secondo il quale «noi stessi della maggioranza a volte cadiamo nell’inganno, nel

Ma la sinistra resta in bilico tra il Colle e Di Pietro ROMA. In bilico tra il giustizialismo di Antonio Di Pietro (assolutamente contrario a qualunque cambiamento) e i continui appelli del capo dello Stato a procedere nella riforma, ma senza strappi. Ecco come ha reagito la sinistra all’invito dell’Udc a confrontarsi sul tema. Il vicesegretario del Pd, Dario Franceschini, ha affermato che il suo partito è aperto al confronto, ma a una condizione: quello di mantenere aperto il dialogo con gli operatori del

settore. Conversando con i giornalisti a margine dell’incontro, il parlamentare ha affermato: «Restano le nostre critiche all’utilizzo dello strumento legislativo per risolvere i problemi giudiziari del premier ma è evidente che c’è l’esigenza di riformare un sistema lento, che non funziona e va reso più moderno». Così, pur non nascondendo le sue perplessità, il numero due del Pd ha manifestato una sua chiara intenzione a «confrontarsi serenamente con la maggioranza in

Parlamento, dal momento che sarebbe bene che maggioranza e opposizione trovassero un punto di confronto per fare scelte che fanno bene al Paese, nella trasparenza e alla luce del sole». Una posizione quella di Franceschini anologa a quella di Anna Finocchiaro, presidente dei senatori del Pd, che ha sintetizzato la sua posizione con questo slogan: «Sì a una riforma per i cittadini, no ad altre operazioni». Il primo timore della senatrice è, infatti, che le posizioni del partito su una ma-

teria tanto delicata come la giustizia vengano strumentalizzate sia da destra che da sinistra «per lucrare e alzare polveroni». Poi ha precisato: «La posizione del Pd in materia di giustizia è molto chiara. Il Pd è disponibile a confrontarsi in funzione di un miglioramento e di tempi più snelli e certi della macchina della giustizia italiana. Non è disponibile a toccare la Carta costituzionale e l’obbligatorietà dell’azione penale e considera l’autonomia e l’indipendenza della magistratura


prima pagina

3 settembre 2008 • pagina 3

Buttiglione: «Bisogna lavorare per ristabilire le giuste priorità»

Il Pdl pensa all’immunità, noi alla durata dei processi colloquio con Rocco Buttiglione di Susanna Turco

ROMA. Se gli si prova a chiedere con qualche ma-

riflesso condizionato che fa apparire cruciale la giustizia penale, quando invece è il settore civile a necessitare degli interventi più urgenti. È dai suoi ritardi che dipende l’insoddisfazione dei cittadini». Se il riflesso c’è anche nella maggioranza, Viespoli confida nella «ritrovata forza della politica rispetto agli anni scorsi:

sarà anche per il risultato elettorale, ma oggi le condizioni ci sono davvero perché il sistema non è debole come ai primi anni Novanta, alla vigilia di Mani pulite. Parliamo di una riforma di sistema, dunque di un tema che va affrontato con la più ampia condivisione. Ora la politica è libera e può permettersi anche questo».

un principio da salvaguardare. La riforma annunciata dalla maggioranza non mi sembra finalizzata a migliorare il funzionamento della giustizia italiana». Commentando poi le varie proposte di modifica della macchina giudiziaria la Finocchiaro ha aggiunto: «Separazione delle carriere e un Csm separato per i pubblici ministeri non sono priorità che aiutano a migliorare la qualità e la velocità dei tempi per la giustizia dei cittadini. E negli ultimi anni l’ordinamento giudiziario è stato riformato anche attraverso la separazione delle funzioni: credo sia giusto aspettare di va-

lutare i risultati di questa riforma». Molto più prudente nei confronti di un cambiamento del sistema giudiziario, invece, Sinistra Democratica. Il motivo è principalmente uno: che il governo voglia creare una magistratura «allineata e obbediente», mettendo così in pericolo il principio costituzionale della separazione dei poteri. Come ha sottolineato Cesare Salvi, esponente di Sd, la scommessa è delicata. E consiste nel trovare un delicato equilibrio tra «la riforma e il rispetto del principio costituzionale dell’autonomia della magistratura».

lizia quale sia l’obiettivo politico dell’Udc che sceglie con un seminario bipartisan di mettersi al centro del dibattito sulla giustizia, Rocco Buttiglione taglia corto. E ne fa una qustione di fondo: «Noi siamo l’unico partito che può permettersi di parlare in modo serio ed equilibrato di giustizia, perché non abbiamo sposato né la campagna berlusconiana contro i giudici, né la difesa corporativa dei giudici stessi. Come democristiani abbiamo vissuto la politicizzazione della magistratura e i suoi effetti drammatici, ma abbiamo sempre cercato una via per ricostruire un corretto equilibrio in Italia tra politica e magistratura», dice. Dopo tutte le chiacchiere agostane sugli abbocchi con Berlusconi, con il seminario di Roma i centristi si trovano in questi giorni al centro del dibattito sulla giustizia. Che intenzioni hanno? Proseguire sulla strada tracciata durante il dibattito sul lodo Alfano. Là il governo ha tentato in modo rozzo e violento di affermare il suo interesse di parte e si è scontrato con chi si accaniva a difendere un altro interesse di parte. L’Udc ha trovato una via d’uscita ragionevole. Proprio allora si è affermata come perno di ciò che si può e si deve fare. E cosa si deve fare? Fare emergere un elemento di metodo: oggi i problemi della giustizia vanno affrontati prima di tutto dal punto di vista del cittadino, e non da quello dell’auto tutela della classe politica. Se non si cambia il baricentro, qualunque iniziativa finisce per ricompattare la magistratura sulle posizioni di chi non vuol toccare nulla. A partire dalla durata abnorme del processo civile: deve diventare più rapido, attendibile, capace di svolgere sua funzione, mettendo anche fine allo scandalo degli arbitrati. Bisogna poi ripristinare la tutela del cittadino nel giudizio penale, visto che da noi i delinquenti raramente vengono condannnati, ma spesso gli innocenti vanno in galera. Processi equi e giustizia più efficiente: lo dice anche il ministro Alfano. Beh, certo, gli obiettivi sono uguali per tutti, il problema è sempre nella gerarchia. Per noi la priorità è la durata del processo, ma il sospetto che per Alfano sia l’immunità della classe politica è forte. Insomma, alcuni degli obiettivi di Alfano non sono compresi nella nostra lista, e la gerarchia forse è diversa. Voi non avete l’ossessione dei giudici. Anche per noi il problema di bloccare la politicizzazione della magistratura esiste, ma non è il primo. La Costituzione dice che con una legge ordinaria si può interdire ai giudici di fare politica, su questo va fatta una riflessione. Così co-

me sulla privacy. Meglio vietare le intercettazioni? Si facciano, ma vanno regolamentate. Per esempio stabilendo che si intercetta dopo che si è ricevuto notizia di reato e non prima. E poi ha ragione Violante: perché nessuno di quelli che portano le intercettazioni dagli uffici della magistratura ai giornali è mai stato inquisito e condannato? Stabiliamo una responsabilità oggettiva in capo a chi guida l’ufficio e fissiamo, in caso di pubblicazione, una sanzione amministrativa per omesso controllo. Le è piaciuta la posizione dialogante di un ex giudice come Violante? Eh, non è male. Tutti maturano. Violante si pone un po’come noi, dal punto di vista dello Stato e non degli interessi di parte. La vedo ottimista. Non sono né ottimista né pessimista, penso che ci sia una partita da giocare. Anche la separazione delle carriere: non è un tabù. Perché, lei è favorevole? Non la ritengo un’eresia. Ma trovo più sensato sottrarre ai pubblici ministeri il controllo della polizia giudiziaria. Perché il pericolo è proprio là: nel super poliziotto che ha una carriera unificata coi giudici. Torni a fare il magistrato dell’accusa. È per l’abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale? Oggi è il magistrato a scegliere arbitrariamente, tra cento notitiae criminis, le dieci di cui occuparsi. Allora io dico: affidiamo questo compito a una autorità indipendente - può essere il Guardasigilli, il vicepresidente del Csm, il primo procuratore della Cassazione - che proponga al voto del Parlamento le priorità dell’azione penale per l’anno in corso. Le proposte della Bicamerale vanno recuperate? È una buona idea, suggerirei di rivisitare anche il pacchetto Flick. Fu un eccellente ministro della Giustizia, fece tante proposte: ebbe il solo difetto che il suo governo non aveva peso politico, per cui le sue idee rimasero in gran parte oggetto di uno studio accademico. Ritiene che la bicameralina centrista possa là dove non potè la Bicamerale? Allora mancò la volontà politica di proseguire su un percorso ragionevole. Mi auguro che oggi sia diverso e che la nostra iniziativa serva. L’Udc che fa da pifferaio per la maggioranza? Noi vogliamo stabilire anzitutto che vanno messi al centro della riforma l’interesse pubblico e il bene comune. Dobbiamo tagliare le unghie alle opposte pretese di far prevalere l’interesse di qualcuno su quello dei cittadini: se ci riusciamo, per gli altri sarà difficile non seguirci.

Dobbiamo tagliare le unghie alle opposte pretese di far prevalere l’interesse di parte su quello dei cittadini: se ci riusciremo, per gli altri sarà difficile non seguirci


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politica

Fallimenti. Tutte le inesattezze e le falsità raccontate in questi giorni sulla vicenda Alitalia

Dove vola l’ipocrisia di Enrico Cisnetto

er rivelarsi efficaci le critiche devono essere fondate e ben documentate, altrimenti diventano dei boomerang che fanno male a chi le lancia e bene al loro bersaglio. Questa regola aurea vale a maggior ragione quando il coro delle critiche è alto e ampio, e non certo per snobismo o per il puro gusto di fare dell’anticonformismo. Per questo trovo i giudizi prevalenti sulla vicenda Alitalia doppiamente sbagliati: criticano laddove ci sarebbe da assolvere e inspiegabilmente si risparmiano dove ci sarebbe da bastonare. Mi spiego. Partiamo da una indispensabile premessa: quella di Alitalia non è una privatizzazione – e non lo è mai stata fin da quando si è aperta la gara per la cessione, che infatti io (solitario) criticai aspramente perché non si trattava dello strumento giuridico giusto – bensì un salvataggio in piena regola. Sorte, questa, che è toccata a tutte le compagnie aeree di bandiera in crisi: qualcuna è stata ricapitalizzata e rilanciata, altre sono state cedute, altre ancora sono state fatte fallire, separando così gli asset dai debiti e dai surplus occupazionali. E che, a maggior ragione, non poteva non toccare la compagnia che più di ogni altra era gravata di oneri e che più di ogni altra ha atteso oltre misura il momento della catarsi. Dico questo perché se invece si considera questa operazione, come pure l’eventuale cessione a Air France o la fusione con AirOne, alla stregua di una privatizzazione, allora questo marchiano errore induce a valutazioni inevitabilmente sbagliate. Come quelle che circolano in questi giorni: “con Air France era meno oneroso”, oppure “paga pantalone”,“furbi quelli della cordata”, ecc.

P

Intanto Alitalia era pubblica – salvo una quota per lo sciagurato errore di lasciarla in Borsa in questi ultimi anni – e da sempre costa allo Stato e quindi a tutti noi. Prendersela ora perché si costituisce una bad company pubblica con dentro il debito è arrivare un po’ tardi: cosa dicevano i critici di oggi ai sindacati irresponsabili e ai governi imbelli (di centro-destra come di centro-sinistra) che non avevano il coraggio di prendere il toro per le corna, quando si era ancora in tempo a rimettere in piedi Alitalia? Chi nel 1999 bloccò Cempella quando era a un passo dall’accordo “tra pari” con Klm e chi non alzò un dito per difendere quel progetto? E del successivo piano Mengozzi qualcuno si ricorda più? E del pasticcio combinato dal ministro Padoa-Schioppa perché il mio amico Scalfari non scrisse a suo tempo? E anche questa stucchevole polemica su “quanto era bello il piano Air France”ha

rotto: ma come, i nostri liberisti adoranti il Dio mercato che si strappano le vesti perché i francesi facevano meno esuberi? Ma se si è detto, giustamente, che l’Alitalia è in stato fallimentare da anni, sarà meglio un piano con meno esuberi o uno con più?

In tutti i casi, la questione è mal posta per il semplice motivo che quelli previsti dai francesi non erano meno dei 7 mila e rotti previsti ora. Basta leggere il piano Air France e fare la somma tra i 2.500 esuberi diretti e i 5 mila addetti che venivano “girati” a Fintecna (100% Tesoro) per arrivare allo stesso numero attuale. I francesi non sono scemi, non si sarebbero mai fatti carico dell’Alitalia così com’è, né sono dei maghi che possono rilanciare in modo così significativo la compagnia da riassorbire tutto quel personale. Quanto al debito – ammesso e non concesso che in sede di trattativa Spinetta non tirasse fuori qualche clausola accessoria – era il prezzo che Air France era disposta a pagare per il cambio di nazionalità della compagnia italiana. E qui, sulla questione della nazionalità, che sta l’unico punto su cui è ragionevole avere opinioni contrastanti: io non ho mai nascosto di attribuire all’italianità un valore strategico – e in questo caso,

per un paese che dovrebbe fare del turismo il suo core business, a maggior ragione – ma posso capire la ragione opposta. Certo, per difendere la proprietà italiana di Alitalia così come è stato fatto nell’ultimo decennio, e negli ultimi tempi in particolare – avendone tutti i costi e nessuno dei potenziali vantaggi – era meglio ammainare ben prima la bandiera. Ma ora che si è fatta la scelta nazionale, non si venga a dire che il piano di Banca Intesa e la cordata che è stata messa su – soci forti, disposti a rimanere per almeno 5 anni, con uno che comanda e un altro che apporta asset importanti – va giudicato con lo stesso

metro delle ricapitalizzazioni pubbliche (tipo i 300 milioni buttati dalla finestra qualche mese fa) e dei salvataggi stile Efim. Quanto poi alla pretesa che ci potesse essere qualcuno, compagnia straniera o imprenditore italiano, che rilevasse Alitalia così com’è, francamente la trovo talmente stupida da non meritare neppure lo sforzo di essere confutata: nessuno al mondo avrebbe mai fatto una follia del genere, e dunque l’unica alternativa era portare i libri in tribunale e svendere aerei e slot. Tutto bene, dunque? Niente affatto. C’è un’altra faccia della medaglia che solleva ben poche critiche, anzi, e che invece an-

Intercettazioni impossibili. Colaninno e Spinetta al telefono sul piano salva-Alitalia

«Gli esuberì? Nessun problèm,son pur sempr italiens!» di Gianluca Ansanelli SPINETTA: Halo, c’est moi! Spinettà! COLANINNO: Oh Spinettà! Che piaceré! SPINETTA: Comment ça va? Alitalià? COLANINNO: Tutto bien….trè bien… SPINETTA: Ma io so che i sindacati sono molto arrabbiatì per colpà degli esuberì! COLANINNO: Tu devi comprì che in italì tutti si arrabbianò ma poi nessun fa nient… SPINETTA: Ma je ho saputo che ci sarà esuberò di seimila persone! COLANINNO: Embè? C’est un esuberò tricolor, di italiens. Già sistemat… je ho pensé a tuttò! SPINETTA: E che farete? COLANINNO: Donq: prima cassà integraziòn.. SPINETTA: Cioè? COLANINNO: Disoccupatì! SPINETTA: Quindi staranno senza far niente? COLANINNO: No! Attansiòn! Tu no comprì… faranno i disoccupatì. SPINETTA: Appunto, staranno senza far niente! COLANINNO: No! Perché quelli sono i disoccupati “fannulloni” e Brunettà non li vuole, quindi saranno disoccupati ma dovranno darsi da fare.Tutti i giorni dovranno scendere in piazza a mani-

festare e almeno due volte alla settimana dovranno creare disagi alla circolaziòn di treni e metropolitane, in più a turno uno di loro dovrà minacciare il suicidio in diretta durante una popolare trasmissione televisva tipo il festivàl di Sanremò... SPINETTA: Praticament, un culò così! COLANINNO: Certò! In Italì ci teniamo alla tradiziòn. Qui tutti gli anni i disoccupati si danno appuntamento a Sanremo. Pensa: l’anno scorso uno ha minacciato di suicidarsi ascoltando tre volte di seguito il brano di Totò Cutugnò! SPINETTA: Ma je ho sentito che qualcuno sarà reintegrato. COLANINNO: Oui! Alcune hostèss saranno mandate alle poste. SPINETTA: E come farete a scegliere quali? COLANINNO: Semplice! Alle poste ci mandiamo solo le raccomandate. SPINETTA: E le altre? COLANINNO: Le ricicliamo come badanti, sai l’italì è un Paese dove i vecchi aumentano a vista d’occhio e c’è grande richiesta di manodopera nel settore. SPINETTA: Ma voi della cordata siete tutti d`accordo? COLANINNO: Certò! La cordata è perfetta… Passera, in quanto volatile, di voli ne capisce e Sanpaolo, in quanto santo, ci proteggerà dalle disgrazie. SPINETTA: Dovremo riformare l’intero sistema Alitalia…


politica

Alitalia era pubblica e da sempre costa allo Stato e quindi a tutti i cittadini. Prendersela ora perché si costituisce una bad company pubblica con dentro il debito è arrivare un po’ tardi

drebbe severamente giudicata: la gestione degli esuberi preannunciata dal governo. Se la regola sarà quella del ministro Matteoli – “nessuno sarà lasciato per strada” – e si tradurrà nel piazzare qualche migliaio di persone alle Poste piuttosto che al Catasto o al Demanio, beh allora proprio non ci siamo. Ecco, qui avrei capito le critiche della sinistra (almeno quella riformista) e di tutti coloro che attendono al varco Berlusconi: ma come, prima ci raccontate che fate sul serio – Brunetta contro i fannulloni, la Gelmini contro il lassismo scolastico, Sacconi per realizzare attraverso un nuovo welfare l’economia sociale di mercato versione mondo globalizzato: li ho ascoltati personalmente tutti e tre a “Cortina InConTra” prendere solenni impegni in questo senso – e poi non uno che paghi il conto di una politica sindacale dissennata? Quelli non erano posti di lavoro penalizzati da una crisi aziendale, erano assunzioni – nella gran parte dei casi su raccomandazione politica e sindacale – in più che proprio non dovevano essere fatte: hanno più diritto ad essere tutelati loro o i disoccupati? Insomma, non facciamo polemiche inutili e strumentali, lasciamo che nasca la “nuova Alitalia” e facciamo voti perché ce la faccia a decollare.Viceversa, chiediamo con forza che il governo sia coerente – sindacati o non sindacati, che intanto faranno sciopero lo stesso – con il suo declamato progetto di “nuovo mercato del lavoro”. Altrimenti avremo fatto l’ennesimo piacere a Ber(www.enricocisnetto.it) lusconi.

molte cose cambieranno… COLANINNO: Ma scherza? Non dimentichi che io sono l’uomo che ha risollevato la Piaggio… e mi creda, ho molte idee anche per Alitalia: i boing 707 con bauletto e parabrezza, il bloccasterzo di serie su tutta la flotta e il casco obbligatorio per tutti i passeggeri. SPINETTA: Ma a cosa serve il casco? COLANINNO: A niente, ma non serve neanche il giubbottino alloggiato nelle poltrone “sotto di voi”. SPINETTA: No! Quello serve se caschi in mare... COLANINNO: Appunt! Allora mettetelo solo nei voli che vanno sul mare, scusi: se faccio Roma Copenaghen a che serve? Devo precipitare nel lagò di Gardà! E poi ho un’idea anche per il caro carburante... SPINETTA: Ah sì? Quale? COLANINNO: L’olio di colza! Lo uso sempre nella mia macchina e va benissimo. SPINETTA: Ma un aereo è diverso! COLANINNO: Ho già provato! Abbiamo fatto il pieno a un Boing con l’olio di colza e abbiamo usato il cherosene per friggere le patatine. SPINETTA: Risultato? COLANINNO: Abbiamo risparmiato il 50% sul carburante e per la prima volta, i passeggeri c`hanno fatto i complimenti per la cucina! SPINETTA: Extraordinaire... COLANINNO: Un’ultima cosa, cambiamo il nome alla rivista dell’Alitalia… si chiama Ulisse. Ora: chiamare la rivista della compagnia col nome di uno che è tornato a casa con 15 anni di ritardo non mi sembra un buon auspicio! Orvuar!!!

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Per il ministro Matteoli: «Qualche richiesta va presa in considerazione»

I sindacati: «Non bisogna rinunciare al lungo raggio» di Vincenzo Bacarani

ROMA. Il “day after” dei sindacati dopo il primo confronto con il governo e con il commissario di Alitalia, è trascorso all’insegna dell’unità, almeno per adesso. Ieri pomeriggio le nove sigle (Filt-Cgil, FitCisl, Uilt, Ugl, Sdl. Anpac, Up, Anpav, Avia e Cub) che rappresentano i circa ventimila lavoratori della compagnia di bandiera, si sono riunite per individuare una linea strategica di comportamento il più possibile univoca in vista del primo, vero confronto con la controparte previsto per domani. L’unità di intenti registra però qualche distinguo, come quello della Uil Trasporti che per voce del segretario Giuseppe Caronìa, proporrà a conclusione di un eventuale accordo con governo e commissario un referendum tra i lavoratori di Alitalia. Tutto è pronto dunque per un confronto nostop di dieci giorni che si preannuncia difficile, anche se c’è la volontà da entrambe le parti di giungere a un accordo che possa evitare il tramonto definitivo dell’Alitalia. Non a caso sull’argomento ieri è intervenuto il segretario generale della Uil, Luigi Angeletti, secondo il quale la trattativa sarà «difficile perché la situazione è quella che è. Ma il nostro obiettivo, non appena lo conosceremo nei dettagli, è quello di migliorare il piano industriale per garantire ad Alitalia un futuro più profittevole e ridurre il numero degli esuberi che, quanti siano, dovranno essere tutti ricollocati». Una dichiarazione soft che sembra fare da contrappeso alla presa di posizione del leader della Cgil, Guglielmo Epifani, che sulla questione Alitalia sembra aver scelto una linea più dura: «Non accetteremo un prendere o lasciare», continua infatti a ripetere da un paio di giorni. La solita presa di posizione “ideologica” della Cgil? Non proprio. Bisogna infatti considerare che la maggiore organizzazione sindacale italiana è forte nel settore aereo soprattutto tra il personale di terra che è quello che, almeno stando alle voci ufficiose, è chiamato a pagare il prezzo più alto sul fronte degli esuberi (circa tremila).

meri». Al di là del gioco di parole, un fatto è certo: i tagli ci saranno e non saranno leggeri (circa 5mila nella migliore delle ipotesi, cioè un quarto della forza lavoro attualmente disponibile).

Toni più calmi, dopo l’incontro di lunedì, dal fronte piloti. «Abbiamo avuto modo di vedere – dice a liberal il presidente dell’Anpac, Fabio Berti – che il governo vuole confrontarsi sul piano industriale e questo è un fatto positivo». Sulla voce che parla di 700 piloti “tagliati”, Berti non vuole pronunciarsi: «Non siamo entrati nel merito della questione – spiega – e abbiamo tuttavia sottolineato una cosa importante: che la nuova compagnia di bandiera non deve rinunciare al lungo raggio». E questo mantenimento del lungo raggio su buoni livelli, rispetto alle voci contrarie che circolano riguardo al piano industriale, rappresenta per i piloti una questione essenziale che potrebbe garantire non solo una netta diminuzione dei tagli previsti, ma anche un aggiornamento dei livelli contrattuali rispetto ai piloti dei competitori europei. Il ridimensionamento delle ambizioni, che sarebbe contenuto nel piano Fenice, preoccupa non solo i piloti, ma anche tutti gli altri lavoratori del settore. Per il segretario della Ugl Trasporti, Roberto Panella, preoccupa «il ridimensionamento della compagnia con la concentrazione del focus sul mercato nazionale. Vorremmo che la nuova compagnia partisse con un programma di più ampio respiro». Sempre sul fronte dei tagli che riguardano il personale di terra, Panella sottolinea un’incongruenza e dice: «Alcuni mesi fa Alitalia Airport, che si occupa di front-line e di arrivo dei passeggeri e dei bagagli, ha assunto 500 persone. Ora ci dicono che nello stesso settore ci sarebbero oltre tremila esuberi.Vorremmo capire da dove vengono fuori queste cifre. Ad ogni modo giovedì entreremo finalmente nel merito della questione e finalmente forse capiremo qualcosa. Per adesso restiamo in attesa. Il fronte sindacale appare sostanzialmente unito ed è disposto a una trattativa seria e approfondita soprattutto sul piano industriale».

Domani inizia il confronto con il governo. Il presidente dell’Anpac, Fabio Berti: «È positivo che si parli di piano industriale»

A proposito dei quali è intervenuto ieri anche il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi secondo il quale, «è sbagliato ipotizzare i numeri degli esuberi generando timori rispetto ad una situazione in cui sarebbe meglio ragionare in termini di posti di lavoro ricostruiti, a fronte dello zero rappresentato dall’ipotesi di fallimento». Secondo il ministro, «è doveroso ricordare a tutti che fino all’acquisizione da parte del commissario della o delle offerte, si tratta solo di numeri che danno timori o di timori che danno i nu-

Dal canto suo, il governo sta cercando in tutti i modi di gettare acqua sul fuoco. Il ministro delle Infrastrutture, Altero Matteoli infatti assicura che ora «la trattativa entrerà nel vivo». Sui tempi, il ministro sottolinea come i sindacati siano d’accordo a chiudere la questione entro dieci giorni. «Ci sarà qualche aggiustamento – aggiunge - e qualche richiesta dei sindacati dobbiamo tenerla in considerazione».


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politica

Mentre il governo va avanti per la sua strada, il Pd di Veltroni scompare nelle pieghe dell’impopolarità

Silvio c’è. L’opposizione (di Walter) no di Giancristiano Desiderio

d i a r i o

d e l

g i o r n o

Google sfida Microsoft e lancia Chrome Google, il numero uno fra i motori di ricerca Internet, ha lanciato ieri la sua sfida a Microsoft mettendo sul mercato ”GoogleChrome”, un vero e proprio browser nuovo di zecca. L’ annuncio è stato dato sul sito della stessa Google, in cui i vertici hanno precisato che la nuova versione sarà introdotta in un centinaio di Paesi. Attualmente il mercato dei browser è dominato da Microsoft, con una quota di mercato del 74%. Inizialmente il nuovo sistema di navigazione sarà messo a disposizione degli utenti di Windows, ma in seguito sarà esteso per quelli di Apple Macintosh e di Linux.

Effetto-Gustav: il petrolio scende a 105 Il prezzo del petrolio scende ai minimi da 5 mesi e poi risale sopra 109 dollari.A New York il Light crude arretra ai minimi dallo scorso 2 aprile, a 105,46 dollari ma poi risale a 109,53, comunque in calo di 5,93 dolari al barile. L’arretramento è legato all’indebolimento dell’uragano Gustav, degradato a tempesta tropicale. Il greggio scende di quasi 40 dollari dai massimi storici di 147,27 dollari del luglio scorso e anche il biglietto verde guadagna terreno, scendendo, per la proma volta da febbraio, sotto quota 1,45. Il presidente Usa, George W. Bush fa sapere che i danni di Gustav sono ancora incerti, ma sembra ormai scontato che la produzione Usa di greggio non ne risentirà.

Riforme: incontro Calderoli-Loiero ilvio Berlusconi va avanti per la sua strada, mentre il Pd si è perso per strada. Il governo appare concreto, mentre il Pd non solo non appare realistico, ma non appare neanche. E non ci si venga a dire che una cosa è “essere”e un’altra “apparire”perché, come sanno anche i bambini, un governo deve non solo “essere”ma anche “apparire”. Il Pd è talmente “inapparente” che è stato definito proprio dai suoi “il partito che non c’è”. Per il governo - fatta salva la retorica di circostanza - la scomparsa dell’opposizione del Pd - altro discorso è da farsi per Di Pietro e per Casini - può anche essere una buona notizia, ma non lo è per la democrazia. Soprattutto quando si tessono le lodi del bipolarismo-bipartitismo. Insomma, Silvio c’è. Dov’è l’altro?

S

Bisogna dire le cose come stanno. Forse, non solo tra quattro mura, ma anche in pubblico: il governo Berlusconi IV sta lavorando bene o, per essere più precisi anche con l’uso del linguaggio, non fa schifo. Occorre guardare in faccia la realtà: Napoli, la sicurezza, la Finanziaria, la scuola, l’Alitalia. Sono tutte cose sulle quali il governo è intervenuto non per parlare ma per fare. Si potrà anche discutere di questo o di quello, si potrà dire che la “nottata napoletana” non è passata e che la sicurezza è un mito, ma non si può dire che il governo non c’è. E in politica questo è tutto o quasi. Invece, il Pd cosa fa? Lancia una campagna chiamata “Salva l’Italia”. In realtà, bisogna salvare il Pd dal Pd (a Napoli sono state raccolte 140 firme e tra queste non c’è quella di Antonio Bassolino che è più vicino a Berlusconi che a Veltroni). Forse, non ha tutti i torti Arturo Parisi quando chiede la testa di Walter Veltroni. L’idea “Salva l’Italia”è sua ed è pessima perché non si basa sui fatti, bensì sull’ignoranza dei fatti. Nel senso che si ignora volutamente come stanno le cose. Le accuse più o meno dirette di fascismo mosse al governo sono non solo l’essenza della sinistra che quando non sa che fare e dire ricorre all’antifascismo, ma anche un travestimento del dipietrismo che, nonostante smentite e pre-

se di distanze, alberga nei cuori della sinistra che si dice riformista e si pensa dipietrista. Ma in questo modo non si costruisce nessuna opposizione di sinistra o da sinistra perché non si è in grado di proporre nessuna alternativa di governo. La maledizione del governo Prodi è tuttora sulle spalle graciline del Pd. Mentre sembra essere una sorta di toccasana per l’esecutivo in carica. Le cose fatte da Berlusconi sono quelle non fatte da Prodi. Valgono doppio. Almeno in questo Veltroni aveva ragione quando cercava di far dimenticare l’esperienza del governo Prodi. Tuttavia, non si può fare a meno di notare che facendo questa “operazione amnesia”Veltroni è riuscito anche a far dimenticare se stesso. E’ una stranissima operazione di magia: non solo è sparito il coniglio, ma anche il mago. Se Berlusconi gode di una grandissima popolarità,Veltroni è diventato impopolare. Nel senso che è senza popolo. E’ il rappresentante della minoranza di nome e di fatto. Non riesce a rappresentare idee e fatti che potranno diventare maggioranza. Questo è il maggior limite del Pd. Perché significa che è un partito che pur aspirando a governare non governerà mai. Il Pd, tra le minoranze, è il maggior partito, ma le sue idee sono tra le maggiormente minori. Come si esce da questo incantesimo? Come si esce da tutti gli incantesimi: rompendolo.

Da una parte i democratici si incartanto sul ”Salva l’Italia”, dall’altra il premier realizza le cose non fatte da Prodi. Che valgono doppio

Il Pd deve ritornare a vedere l’Italia. Deve togliersi dalla testa che l’Italia vada salvata da un governo di lupi. L’idea di salvezza ha a che fare con la teologia. La politica è roba umana. Si ritorni alle cose che riguardano gli uomini prendendo sul serio il principio di realtà: il governo non fa schifo. E’ un fatto. Gli italiani lo apprezzano: è un altro fatto. Il Pd non può pensare di fare opposizione rifugiandosi nella propaganda. E non perché la propaganda sia negativa, ma perché non è poggiata su dati reali. Si faccia pure propaganda, ma a partire dai fatti, non contro i fatti. Altrimenti si fa solo un piacere al governo e un altro ad Antonio Di Pietro.

E’ stato definito «positivo» l’esito dell’incontro di ieri, in materia di federalismo, tra il ministro per la semplificazione Calderoli (nella foto) e il governatore della Calabria Loiero. Lo stesso ministro ha definito «assolutamente recepibili» cinque dei sei punti di una proposta formulata da Loiero. Il punto che riguarda la condivisione dei dati economici e finanziari, «deve invece essere approfondito rispetto ai conti».«Federalismo per unire», ha invece sottolineato Loiero, «deve essere l’impegno per tutti: istituzioni, forze politiche e sociali».

Scuola: il decreto nella Gazzetta ufficiale E’ stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale ieri in edicola il decreto legge sulla scuola approvato dal Consiglio dei ministri lo scorso 28 agosto con le novità adottate.Tra queste, il blocco delle adozioni dei libri, il ritorno del voto in condotta, il ritorno del maestro unico (di cui non è specificata la data d’introduzione). «Leggiamo con raccapriccio» l’art. 5 del dl sulla scuola. Questo il durissimo commento del presidente del Gruppo Editoria scolastica dell’Associazione Italiana Editori (Aie) Enrico Greco, sulla parte riguardante i testi.

Privacy: stop del Garante ai call-spot E’ arrivato ieri lo stop del Garante della privacy, Francesco Pizzetti, al marketing selvaggio con telefonate promozionali indesiderate. L’Autorità ha infatti vietato ad alcune società specializzate l’ulteriore trattamento di dati personali di milioni di utenti. I dati, nello specifico i numeri telefonici, erano stati raccolti e utilizzati illecitamente, senza aver informato gli interessati e senza aver ottenuto uno specifico consenso alla cessione delle informazioni personali ad altre società.

Mutui, Bankitalia: aumentano i tassi Continua la crescita dei tassi di interesse sui mutui concessi alle famiglie: a luglio il Taeg per i prestiti per l’acquisto di abitazioni ha sfondato la soglia del 6% attestandosi al 6,07%, in rialzo per il quarto mese consecutivo. Lo ha fatto sapere la Banca d’Italia con il Supplemento al Bollettino Statistico ”Indicatori monetari e finanziari”. La soglia del 6% non era mai stata superata dall’inizio della serie storica della Banca, che risale al 2004 quando il Taeg per i mutui era al 3,82%.


economia l messaggio è chiaro. Come tutti i grandi banchieri, Alessandro Profumo parla raramente. Non è senza significato che abbia sentito il bisogno di farlo per due volte a distanza di pochissimo tempo l’una dall’altra (prima dal palco di «Cortina InConTra», poi in un’intervista al Corrierone raccolta dal “bazoliano” Massimo Mucchetti). E non è nemmeno senza significato che l’abbia fatto nel giorno in cui il presidente di Unicredit, Dieter Rampl, si è presentato a Piazzetta Cuccia per parlare di governance proprio con Cesare Geronzi, ovvero il destinatario principale della sua intervista. Segreti gli argomenti dell’incontro, ma è facile immaginare che dopo le parole, nella lunga estate calda di Mediobanca, è il momento di passare ai fatti.

I

Lo scontro nasce all’inizio dell’estate, quando la presidenza fa sapere in via informale che i soci stanno pensando all’abbandono della gestione duale, adottata su moral suasion della Banca d’Italia – e anche con l’auspicio di soci forti come Nanni Bazoli – appena un anno prima. Geronzi ritiene il management troppo autonomo, tanto da non permettergli di gestire le partite più calde del potere: quella di Alitalia, dove Mediobanca abdica al suo ruolo storico di «banca di sistema» in favore di Intesa, e quella di Generali. Geronzi vuole una carica nel Leone di Trieste, anche se ufficialmente smentisce (così come smentì di volere la presidenza di Piazzetta Cuccia). L’accordo sembra fatto, o almeno così scrivono i giornali. Ma una domenica di luglio il Sole 24 Ore scrive che Unicredit ci sta ripensando, mentre Nagel e Pagliaro (ieri a colloquio con Piergaeta-

Dall’amministratore di Unicredit un altolà sulla gestione di Piazzetta Cuccia

Nella battaglia di Mediobanca Geronzi perde ai punti di Alessandro D’Amato

gement. Diversamente bisognerà discutere ancora: non capisco la fretta. Se ci fosse una forzatura a Piazzetta Cuccia, Unicredit non darebbe la sua approvazione. Saggezza vor-

Come tutti i grandi banchieri, anche Alessandro Profumo parla raramente, ma questa volta lo ha fatto con chiarezza. Per dire che è disposto a tutto per difendere il suo potere no Marchetti) si mettono di traverso minacciando addirittura le dimissioni. E quella che sembrava una partita di potere già vinta, per Geronzi, improvvisamente si complica.Tanto che anche lui rilascia un’intervista al vetriolo a Ferruccio De Bortoli sempre sul quotidiano della Confindustria, nella quale magnifica le doti di Tremonti e Bazoli, e parla di «ripensamenti incomprensibili» arrivati dagli azionisti. Quella di ieri, per Profumo, è idealmente la risposta: «O si resta con il dualistico rimuovendo gli ostacoli al flusso delle informazioni tra dirigenza e soci o si torna al tradizionale chiarendo bene i ruoli dei soci e del mana-

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rebbe che non si arrivasse ai voti. Ma Piazza Cordusio intende proteggere il valore del suo investimento». Parole nette, per uno prudente come l’ex McKinsey boy. Parole che, secondo alcuni, sarebbero un modo per liberarsi da quello che somiglia sempre più ad un accerchiamento, visto che l’erede della poltrona di Cuccia, finora, sembrerebbe aver giocato bene la partita delle alleanze: è sicura-

mente vero che nell’establishment oggi al potere Geronzi conta maggiori entrature di Profumo, soprattutto dopo la vicenda Alitalia. E il filo rosso di collaborazione con Bazoli, dopo le polemiche di più di un anno fa sembra essersi saldamente riannodato, nel nome delle convergenze parallele: indebolire Unicredit fa gioco a Ca’ de’ Sass almeno quanto avere un «concorrente» per un a.d. a volte

Le parole chiave dell’intervista di Alessandro Profumo al «Corriere della sera»

«Perché tanta fretta di cambiare regole» Ecco che cosa ha detto Alessandro Profumo nell’intervista al «Corriere della Sera». • Su Mediobanca. “Sulla governance, tocca al management fare proposte spiegando a che cosa servono le innovazioni, e come incidono sul destino di Mediobanca. I soci valuteranno. O si resta con il dualistico rimuovendo gli ostacoli al flusso delle informazioni tra dirigenza e soci o si torna al tradizionale chiarendo bene i ruoli dei soci e del management”. • Sul patto di sindacato. “Serve ai soci che lo formano per esprimere un voto coeso in assemblea. Non a gestire l’azienda in dialettica

con il management. In ogni caso, ricordiamoci che scade nel 2009”. • Su Geronzi e la governance. “Non capisco la fretta di cambiarla. Se domani qualche azionista di Unicredit volesse cambiare il ruolo e i poteri dell’amministratore delegato, dovrebbe o assumersi la responsabilità di licenziarlo subito oppure coinvolgerlo seriamente”. • Su Telecom. “Unicredit non è voluta entrare. Non ne vedevamo la convenienza”. • Su Alitalia e Piazza Cordusio. “Nessuno ci ha mai fatto vedere una carta”.

strabordante come Corrado Passera. Anche lo spauracchio delle mani invisibili straniere, agitato da Paolo Madron (la tedesca Allianz è socia di Unicredit, mentre Commerzbank e i francesi sono dentro Mediobanca e le Generali), fa effetto agli occhi di un establishment impaurito e soggetto a complessi di inferiorità, anche se sembra essere più strategico che reale.

Ma se il pubblico potrebbe essere in effetti dalla parte di Geronzi, non bisogna dimenticare che è Profumo ad avere il coltello dalla parte del manico. Forte del suo peso azionario, e di un mediatore sul quale far pesare le ragioni del mercato: quel Mario Draghi che già ha influito su Piazzetta Cuccia con quanto deciso sulle incompatibilità nelle aziende controllate o partecipate. E ricordare l’avvicinarsi della scadenza del patto di sindacato di Mediobanca, da parte di Profumo, è anch’esso strategico. Da chi vincerà questa partita sapremo se in Italia dall’epoca di Cuccia il tempo si è fermato o no. E quindi se le azioni ancora si pesano oppure finalmente si contano.


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nessuno tocchi abele

«Ci aspettiamo una forte reazione della polizia federale indiana contro questi estremisti e i loro crimini»: ecco la richiesta ufficiale della Farnesina

Frattini insiste con l’India Mentre Berlusconi sta zitto, il ministro chiede un forte intervento dell’Unione Europea di Francesco Capozza i aspettiamo una forte reazione della polizia federale contro indiana questi estremisti che hanno torturato e ucciso i cristiani in India, anche se questi cristiani non sono nostri concittadini». Questa la richiesta formale presentata ieri dal ministro degli Esteri Franco Frattini all’ambasciatore indiano convocato alla Farnesina. «Ci sono alcune reazioni indiane che dicono ”che cosa vuole l’Italia? Sono indiani non italiani“. Questo non è giusto - ha sottolineato il ministro – noi sappiamo che il governo centrale indiano ha definito una orribile vergogna queste uccisioni e quindi noi apprezziamo questa reazione. È evidente che ci sono i governi delle regioni interessate che probabilmente devono fare di più. Noi contiamo che dopo questo passo italiano si possa discutere anche con il Consiglio dei ministri degli Esteri europei, perché è una questione che riguarda la libertà di religione, che è una delle grandissime libertà dei diritti umani che l’Europa deve tutelare».

«C

Una presa di posizione dura, diplomaticamente rilevante sebbene in distonia con l’orientamento generale del governo che sulla questione avrebbe voluto mantenere un profilo più basso e meno interventista. Gli attacchi contro i cristiani in India continuano e – come denuncia padre Babu Joseph, portavoce della conferenza episcopale indiana – «si tratta del peggior attacco subito dalle comunità cristiane in India negli ultimi anni. Gli estremisti hanno cercato di colpire tutti i fedeli, luoghi e simboli cristiani, quasi per cancellare le tracce di cristianesimo dalla zona». Una situazione ai limiti del dramma quindi, che il capo della diplomazia italiana ha in cuore di

fermare. Fonti vaticane fanno trapelare la preoccupazione del pontefice Benedetto XVI per questa grave violazione dei diritti umani, della libertà religiosa e dello stesso diritto alla vita e per questo in cuor suo si augurerebbe una mobilitazione internazionale. Mobilitazione che, almeno stando a quanto emerso dalle prime sessioni del Consiglio Ue, non sembrerebbe la linea diplomatica emersa dagli incontri ufficiali tra i 27 big europei. Anzi,

razzante proveniente da Bruxelles, il bilancio delle persecuzioni a danno dei cristiani aumenta di ora in ora. «Sarebbero 4.300 le case, 50 le chiese e cinque i conventi distrutti nel distretto di Kandhamal, uno dei più colpiti, e migliaia le persone che si nascondono ancora nella giungla - riferisce padre Karakombil - questi fatti non hanno precedenti. Non avevamo mai visto qualcosa del genere prima. Le case e le istituzioni sono state totalmente di-

Qualcuno dice: «Che cosa vuole l’Italia? Sono indiani non italiani». Questo non è giusto, noi sappiamo che il governo centrale indiano ha definito una orribile vergogna queste uccisioni a dire il vero quanto sta accadendo ormai da giorni in India non sembra neppure essere uno dei punti in agenda dell’incontro. Nonostante il silenzio assordante e quasi imba-

strutte. La gente ha paura di tornare. I gruppi che stanno compiendo questi attacchi sono ancora in giro» racconta padre Babu. Prima di volare in Georgia, l’altro fronte caldo di

questi ultimi giorni, ieri sera il ministro degli Esteri ha parlato al telefono con Condoleezza Rice ed è probabile che, oltre all’inevitabile questione russa, abbiano parlato della situazione in India.

Queste gravissime violazioni dei diritti civili e della libertà di professione della propria fede hanno spinto Frattini a smarcarsi dalla linea governativa e rendere noto il suo pensiero sulle persecuzioni in atto in India ed una sua personale, quanto probabilmente efficace, formula diplomatica per porvi fine. Dopo le adesioni di Giorgia Meloni, ministro delle Politiche giovanili, di Gianfranco Rotondi, ministro per l’attuazione del Programma di governo, di Andrea Ronchi, ministro delle Politiche comunitarie, lo stesso ministro degli Esteri Franco Frattini, ci incoraggia e saluta con favore la nostra iniziativa in programma per il 10 settembre in piazza Montecitorio.

Nuove adesioni alla manifestazione del 10 settembre Aderisco all’appello che Adornato ha lanciato e le ragioni sono queste: nel 2008 è uno scandalo che si possa ancora morire per professare la propria fede religiosa. E questo non può intepellare le coscienze di ognuno di noi e mobilitare tutti: chi appartiene all’esperienza cristiana, ma tutti gli uomini che hanno un grande rispetto per l’uomo, per la sua dignità e la sua libertà. Maurizio Lupi, vicepresidente della Camera dei deputati Accade sempre più spesso - e in varie parti del mondo - che si è opggetto di violenze che arrivano all’omicidio delle persone che professano una qual-

che fede religiosa. Penso che la libertà di fede sia una delle principali basi sulle quali si può poggiare il mondo futuro. Dove questo non c’è prosperano violenze e discriminazioni. E per questo è giusto che anche l’Italia si faccia carico di questo problema che è molto serio e sentito nelle parti del mondo cui si fa riferimento nel vostro manifesto. Mario Orfeo, direttore del quotidiano Il Mattino Aderisco senz’altro all’appello dell’onorevole Adornato. Penso che i diritti umani devono essere - ovunque e in qualsiasi posto del mondo - rispettati. E i diritti religiosi sono una com-

ponente essenziale dell’uomo. Perciò, in quei luoghi che sono oggetto del terrore, è giusto che la coscienza umana si ribelli. Allo stesso modo in cui ci siamo battuti per tutelare i diritti umani in Iran oppure in Tibet è necessario che ci si batta per difendere i diritti umani dei cristiani dell’India e degli altri paesi del mondo in cui essi sono disattesi. Aldo Forbice, conduttore della trasmissione radiofonica Zapping Aderisco volentieri alla manifestazione promossa dal quotidiano liberal per i cristiani uccisi e perseguitati nel mondo. È paradossale che ancora

oggi si uccida, in nome di Dio, altri esseri umani. Il fanatismo religioso, misto alla politica, è frutto di una visione totalmente errata e distorta del mondo. Mi auguro che presto si possa delineare un nuovo sentimento umanitario, una visione nuova in contrasto con il fanatismo e che possa essere strumento per elevarsi a Dio e non motivo di contrasto, in cui l’essere umano si renda conto che siamo tutti uguali, indipendentemente dal credo o dalla filosofia di vita. Spero che le differenze di razza, colore e religione non continuino ad essere un movente che spinge le persone a sopprimere ed impedire


nessuno tocchi abele

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Parla il presidente della Commissione per l’ecumenismo della Cei

«La politica cambi rotta: no al demone dell’interesse» colloquio con monsignor Vincenzo Paglia di Francesco Rositano

ROMA. Due giorni fa, in occasione della festa

le libertà altrui, ma che siano considerate valore dell’unicità di ogni singolo individuo. Per questo, dopo aver apprezzato già l’appello lanciato dal Santo Padre Benedetto XVI domenica scorsa contro le violenze ai cristiani, appoggio questa importante iniziativa, affinchè non si spengano i riflettori sull’intolleranza religiosa. Luca Barbareschi, deputato PdL Aderisco all’iniziativa di liberal per esprimere solidarietà alle vittime della violenza del fanatismo religioso in India. Otto cristiani hanno pagato con la vita la fedeltà al loro credo e molti altri soffrono una dura persecuzione che colpisce una delle libertà fondamentali dell’uomo:

quella religiosa. Fanatismo e intolleranza continuano a rappresentare fenomeni inquietanti e sempre più difficilmente contenibili in troppe parti del pianeta in una concezione disumana del sentimento religioso che in nome di Dio diventa guerra e distruzione. Fermare questa spirale sarà impossibile senza l’impegno concreto e personale di tutti gli uomini di buona volontà, credenti e non credenti: per questo è giusto dare segni concreti di solidarietà con chi soffre, rompendo la coltre di silenzio e indifferenza che troppe volte avvolge le cose che accadono lontano da noi, e che invece ci riguardano più di quanto non pensiamo. Dario Franceschini, vice segretario del Pd

di Sant’Egidio, è stato ricevuto in udienza dal Papa insieme agli altri due responsabili della Comunità: Andrea Riccardi e Marco Impagliazzo. Al centro dell’incontro temi riguardanti la libertà religiosa e il dialogo ecumenico. Problematiche quanto mai attuali alla luce del nuovo dilagare della persecuzione contro i cristiani nel mondo. Monsignor Paglia, vescovo di Narni-Terni-Amelia e presidente della Commissione Cei per l’ecumenismo e il dialogo, aderisce alla fiaccolata di liberal del 10 settembre ed esprime la posizione dei presuli su questa problematica: «Il rispetto della libertà religiosa è un tema centrale. Ma noi vescovi non siamo politici: possiamo fare appelli, denunciare una situazione allarmante, pregare, indire una giornata di digiuno come quella indetta dalla Cei per il 5 settembre, organizzare incontri culturali. Queste sono le nostre armi cristiane. Il resto spetta ai governanti. Insomma: a ciascuno il suo mestiere». Eccellenza, quindi aderisce anche lei alla fiaccolata di liberal? L’iniziativa è opportuna e l’adesione è ovvia: è assolutamente indispensabile in un tempo in cui i conflitti sembrano riaccendersi, testimoniare con chiarezza e forza l’unica via per la convivenza pacifica che è quella della libertà. E in particolare della libertà religiosa: la madre di tutte le altre libertà. Lunedì, insieme agli altri due responsabili della Comunità di sant’Egidio, è stato ricevuto dal Papa. E, in vista dell’incontro di novembre a Cipro, avete parlato anche della libertà religiosa. Cosa è emerso? È stata la riconferma della validità degli incontri tra i rappresentanti delle religioni mondiali. Attraverso di essi - e senza minimamente attutire la propria fede religiosa e quindi la propria identità - è possibile però mostrare non lo scontro, ma l’incontro; non il disprezzo ma la stima; non l’indifferenza ma addirittura la collaborazione per la costruzione di un mondo più giusto. Questi incontri iniziati ad Assisi da Giovanni Paolo II nel 1986 restano ancora validi. E dimostrano che l’ispirazione religiosa, nella misura in cui è purificata da incrostazioni etniche politiche, spinge all’incontro e non al conflitto. A suo avviso libertà religiosa e dialogo sono conciliabili?

Il problema della libertà religiosa non è un problema a sé, ma una faccia della convivenza pacifica tra i popoli di culture e fedi diverse. La questione si pone a tutto tondo. Ciò che ritengo fondamentale è la riproposizione di un umanesimo dal quale la cultura occidentale - che è questo misto di cristianesimo, ebraismo e illuminismo - deve giocare un ruolo importantissimo. Quindi in questo grande affresco per la costruzione di un nuovo futuro del pianeta, la difesa della libertà religiosa va a braccetto con una cultura del dialogo che non è intesa come cultura della debolezza ma della forza delle identità. In questo contesto, qual è il ruolo della Commissione Cei per il dialogo ecumenico? Il primo compito è quello di trovare degli spazi comuni di confronto e incontro che allontanino il demone dello scontro, che è un demone che spesso veste i panni che non sono religiosi. Il problema è che ci sono motivi di carattere politico, etnico, talora anche economico o di potere personale, che spingono dei balordi a sfruttare la grammatica religiosa per fini che religiosi non sono. E la Cei quali iniziative ha messo in campo? La prima è la testimonianza dell’amore che, a differenza di quel che si crede, è una testimonianza di forza, e non di debolezza. Una testimonianza all’interno della quale i cristiani contemplano anche il martirio. Diceva bene il mio compagno di studi e di sacerdozio, don Andrea Santoro: noi cristiani rispetto all’islam abbiamo un vantaggio, quello di credere nella forza debole dell’amore. Gesù educa agnelli non lupi. Avete un appello particolare da rivolgere alla politica? Di mettere in primo piano non solo interessi economici e di parte, ma il bene comune. Che è anche delle popolazioni dei paesi altri. Può fare un esempio? Sono molti anni che commerciamo con i paesi arabi. Eppure, abbiamo mai aperto un’università? Siamo intervenuti politicamente laddove c’erano sopraffazioni? Insomma: è necessario guardare al di là del proprio ombellico. L’impero romano quando faceva l’impero costruiva strade, scuole, università. Ma noi che abbiamo fatto con gli arabi? Abbiamo sempre e solo preso il petrolio. Perciò, laddove primeggiano solo interessi particolari, chiediamo alla politica di cambiare rotta.

Spesso motivi di carattere politico, economico o di potere personale spingono dei balordi a sfruttare la grammatica religiosa. E non possiamo tollerarlo


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usa 2008

I democratici la attaccano senza pietà, ma lei infiamma la base del partito. Mentre McCain continua a raccogliere fondi

Arriva il ciclone. Si chiama Sarah di Andrea Mancia

d i a r i o stato il giorno di Sarah Palin, alla convention repubblicana di Minneapolis-St.Paul. Dimenticato l’incubo dell’uragano Gustav, scivolato via dalla Louisiana senza fare troppi danni e ormai declassato a “ciclone tropicale”, il Gop cerca di riprendersi i riflettori dell’opinione pubblica, con il tanto atteso intervento del governatore dell’Alaska, vice di John McCain nel ticket che corre per la presidenza. La Palin (che ha parlato ieri notte, ora italiana) è riuscita – in meno di una settimana – a lasciare un segno impressionante nella campagna elettorale. La sinistra, che la considera una novella Dan Quayle

È

pubblicani. Secondo i simpatizzanti del Gop – e molti analisti “neutrali” (due nomi su tutti: David Brooks del New York Times e Peter Robinson del Wall Street Journal) – nella peggiore delle ipotesi si tratta di qualcosa non destinato ad avere alcun impatto rilevante nella dinamica della corsa. Poi c’è anche chi, come il presidente degli Americans for Tax Reform, Grover Norquist (uno dei guru della , considera l’ultima gravidanza in casa Palin come una manna dal cielo: «Nel momento della sua scelta da parte di McCain gli evangelici erano molto eccitati, soprattutto a causa della commovente storia del suo bambino down. Con le

ad agosto è quasi il doppio del suo miglior risultato (i 26 milioni di giugno) ed molto vicino ai 50 milioni di dollari rastrellati da Barack Obama a luglio (i dati relativi all’ultimo mese di fundraising del candidato democratico non sono ancora disponibili). Secondo gli strateghi repubblicani, McCain nelle prossime settimane dovrebbe avere a disposizione qualcosa tra i 225 e i 250 milioni di dollari per la sua campagna elettorale, compresi gli 85 milioni pubblici a cui invece Obama ha rinunciato per non dover sottostare ai limiti per il finanziamento privato. Con i 100 milioni che il Republican National Committe conta di raccogliere a set-

d e l

g i o r n o

Thailandia: cresce la protesta Nonostante la proclamazione dello stato d’emergenza, nella capitale tailandese le manifestazioni continuano e aumentano di intensità. Il 101 giorno di protesta dell’opposizione è visto a Bangkok e nel mondo come un momento di svolta, non solo peché per la prima volta negli scontri vi è stata una vittima. L’obiettivo dei dimostranti, mettere sotto assedio gli edifici governativi, sembra essere raggiunto. La zona dove si trovano le sedi dell’esecutivo e tutte le artiere principali della città, da ieri sono controllati dai simpatizzanti della cosiddetta alleanza popolare per la democrazia, Pad. Circondati i veri simboli del potere nazionale, le dimissioni del premier Samak sarebbero un atto dovuto. Anche perché l’esercito sta mantenendo una neutralità che è solo di faccia, dato che il capo di Stato maggiore, generale Anupong Paochinda, martedì ha dichiarato che le forze armate non sarebbero intervenute contro la popolazione.

Spagna: luce sui crimini franchisti Dopo decenni di silenzio e di tentativi di mettere in secondo piano i misfatti del regime di Franco, 1939-1975, la giustizia spagnola cerca di fare luce sui motivi politici dei crimini commessi durante la guerra civile e la dittatura franchista. Il giudice spagnolo Baltasar Garzon ha emanato una disposizione con la quale dovrebbe essere data vita ad un registro delle vittime del regime del Caudillo. Secondo il quotidiano El Mundo, questo sarebbe il primo passo fatto dalla Spagna ufficiale per dare un volto alle decine di migliaia di vittime della dittatura scomparse nelle fosse comuni e che rischiavano di finire nell’oblio.

Bolivia: no al referendum costituzionale

(soltanto più bigotta), spinge sull’acceleratore per metterne in risalto i difetti e per scovare notizie che possano danneggiarla. Prima della rivelazione sulla gravidanza della figlia diciassettenne, nei blog pro-Obama circolavano con insistenza voci a metà tra il gossip e la fantascienza. Ieri è stata la volta di un altro “scoop”: un membro dell’Alaskan Independence Party (una sorta di frangia “secessionista” della Last Frontier) afferma che la Palin ha partecipato alla convention del partito nel 1994.

A prima vista non sembrerebbe una rivelazione sconvolgente, ma arriva dopo la notizia di un arresto per guida in stato d’ubriachezza del marito (quando aveva ventidue anni) e durante un feroce – e per molti versi sgradevole - dibattito sulla gravidanza della figlia teen-ager. Secondo alcuni democratici, ognuno di questi fatti sarebbe in grado di distruggere l’effetto-Palin, o magari di renderlo controproducente per i re-

La Palin è riuscita a lasciare un segno impressionante nella campagna elettorale

tembre e ottobre, McCain dovrebbe agevolmente superare la quota di 300 milioni che gli consentirebbe di essere competitivo con Obama, almeno sotto questo profilo, fino all’election day.

ultime notizie, sono andati addirittura in estasi. Si tratta di qualcosa che rafforza enormemente l’immagine di una famiglia legata a valori pro-life». In assenza di riscontri, naturalmente, per ora si tratta soltanto di congetture. Un fatto concreto, molto concreto, è invece il record raggiunto ad agosto da McCain nel fundraising: 47 milioni di dollari, che fino ad oggi rappresentano la cifra più alta da quando il candidato repubblicano ha lanciato la sua corsa verso la Casa Bianca. Anche questo risultato, molto probabilmente, è merito di Sarah Palin, che sembra aver convinto i donatori che appartengono all’area più conservatrice del partito, finora piuttosto scettici sulla candidatura di Old Mac. L’ammontare di denaro raccolto da McCain

Ieri, intanto, oltre alla Palin è toccato anche agli ex-avversari di McCain alle primarie il compito di animare lo spirito di una convention repubblicana partita, necessariamente, in tono minore. Il posto d’onore, come keynote speaker, è spettato all’ex sindaco di New York, Rudy Giuliani, ma interventi di peso sono stati anche quelli del governatore dello Utah, Jon Huntsman, dell’ex governatore della Pennsylvania e capo della Homeland Security, Tom Ridge, dell’ex governatore dell’Arkansas, Mike Huckabee, e dell’ex senatore del Tennessee, Fred Thompson, troppo “pigro” per una corsa massacrante come quella delle presidenziali americane ma molto amato dalla numerosa ala “reaganiana”del partito.

La suprema corte elettorale ha temporaneamente bloccato il piano del presidente boliviano Evo Morales di indire un referendum costituzionale sulla possibilità di rieleggere il presidente e sul limite massimo di proprietà terriere per le persone fisiche. Il progetto puntava a dare maggiori diritti alla maggioranza della popolazione finora piuttosto marginalizzata. Secondo l’organo giudicante solo il Parlamento può decidere di sottoporre a referendum materie di questo tipo. Una decisione che rappresenta una pesante sconfitta per Morales che con un decreto, aveva già fissato al 7 dicembre la data del referendum.

Israele: per Eichmann rinunciato a Mengele Nel 1960, i servizi segreti dello Stato ebraico, per non mettere in pericolo la cattura di Eichmann hanno volontariamente lasciato in libertà Mengele. Queste le rivelazioni dell’allora agente del Mossad, Rafi Eitan. Che in una intervista al Jerusalem Post ha ricostruito le mosse fatte da Israele per portare in giudizio l’ideatore dell’Olocausto. Eichmann è stato sequestrato dai servizi ebraici a Buenos Aires, giudicato e giustiziato in Israele.

Svizzera: cadute le accuse contro il figlio di Gheddafi La coppia Hannibal e Aline Gheddafi è stata liberata dalle accuse di maltrattamenti e riduzione in schiavitù che le erano state mosse da due ex lavoratori alle loro dipendenze. L’annuncio viene dagli avvocati ginevrini della famiglia Gheddafi. Questa era la condizione posta dalla Libia per riprendere i pieni rapporti diplomatici con la Svizzera. Gli avvocati dei dipendenti del figlio del dittatore libico, hanno dichiarato che essendo stati soddisfatti gli interessi dei lavoratori, un tunisino e una marocchina, ed avendo questi ricevuto una congrua compensazione vi era più interesse a mantenere le accuse. I due hanno anche ottenuto un permesso di soggiorno in Svizzera per ragioni umanitarie.


mondo

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Un sopravvissuto all’attacco russo in Georgia guarda nell’obiettivo, con alle spalle le macerie della sua cittadina. Al momento, secondo Mosca, i soldati russi nel territorio georgiano sono 500 e non si ritireranno finchè non sarà inviata una missione Osce “obiettiva”. La loro presenza lì, infatti, è pienamente giustificata. In basso Magomed Evloev il giornalista ucciso

L’ambasciatore russo a Bruxelles si dice sicuro del ruolo attivo e costruttivo dell’Italia nel vertice Ue. Che salva Putin

E Mosca ringrazia l’amico Silvio di Vincenzo Faccioli Pintozzi l governo italiano, guidato dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, ha avuto un ruolo attivo e costruttivo nel corso del vertice straordinario che ha visto i leader Ue riuniti per decidere le misure da intraprendere in merito alla crisi in Georgia. Quindi, è anche merito italiano se la Russia non ha pagato per la sua invasione armata del territorio sovrano di un altro Stato. Ed è merito italiano se Mosca non pagherà nulla per la sua aggressione, che apre virtualmente le porte ad altre misure del genere. Ne è sicuro l’ambasciatore russo presso l’Unione europea a Bruxelles Vladimir Chizhov, che in una conferenza stampa ha sottolineato ieri la conoscenza personale con il

I

nostro premier e l’apprezzamento del suo governo per il ruolo svolto da Berlusconi. Che in un certo senso va stimato: un amico non si tradisce, mai.Tanto meno se di nome fa Vladimir.

Che da parte sua non ha ringraziato per nome l’amico Silvio, ma ha molto apprezzato l’intero Consiglio d’Europa e la sua opera. In un’intervista all’agenzia Interfax, ha infatti dichiarato: «La dichiarazione finale del vertice di ieri dell’Unione europea sul conflitto rus-

so-georgiano è basata sul buon senso. Grazie a Dio, questo ha prevalso. Non vediamo nella dichiarazione alcuna conclusione estrema». Putin ha lasciato al suo inviato a Bruxelles il compito di illustrare come la Russia abbia interpretato le decisioni del Consiglio d’Europa: il ritiro completo delle forze russe dalla Georgia avverrà soltanto quando sarà completato il rafforzamento della missione di osservatori Osce e le condizioni di sicurezza sul terreno saranno accettabili. Con

Per il ministro degli Esteri russo, è la Nato ad aver provocato il conflitto fra Mosca e Tbilisi. «Ringraziando Dio» il documento finale dell’Unione europea è pieno di buon senso. Parola di Vladimir

dei seri dubbi sulla missione – definita «parallela» - dell’Unione in territorio georgiano. Proprio quella missione che aveva gonfiato d’orgoglio il petto dei nostri inviati a Bruxelles, che l’hanno indicata come termometro della stima che si deve accordare a Mosca.

Questa stima, secondo Chizhov, è stata messa a dura prova dal documento presentato il 12 agosto scorso dal presidente di turno dell’Unione, Nicolas Sarkozy, ai due contendenti del Caucaso: per il diplomatico, infatti, esistono due versioni del piano di pace Ue tra Russia e Georgia. Il punto cruciale è rappresentato dalla convinzione russa di aver già rispettato l’obbligo di

La notizia dell’uccisione di Evloev pubblicata soltanto da liberal e da molti media stranieri

Perché l’Italia ha ignorato l’omicidio di Magomed? segue dalla prima Lo spettro di un nuovo caso Politkovskaya aleggia sul Cremlino. E vista l’aria che tira nella zona del Caucaso l’uccisione del giornalista, proprietario del sito inguscezia.ru, oppositore del presidente Mourat Ziazikov, è certamente un altro problema serio per Putin e Medveded. Durante i funerali di Magomed Evloev a Nazran, l’ex capitale dell’Inguscezia e città più importante, c’è stata una manifestazione di protesta alla quale hanno partecipato migliaia di persone, durata fino alla tarda notte di lunedì. I manifestanti hanno chiesto le dimis-

sioni del leader regionale Murat Zyazikov e un’inchiesta giusta sulla morte del blogger, il quale aveva più volte denunciato abusi e violenze nella regione caucasica. Secondo i leader della protesta la polizia li avrebbe dispersi con la forza. Il ministro degli Interni dell’Inguscezia ha, invece, negato che sia stata usata la forza e ha escluso che siano stati effettuati degli arresti. Il procuratore regionale Yuri Turygin ha continuato a sostenere che il giornalista avrebbe tentato di sottrarre l’arma a un poliziotto e il colpo sarebbe partito accidentalmente. Spiegazione inaccettabile per gli amici del cronista che hanno riferito, inve-

ce, che Evloev è stato portato via da un’auto della polizia da un aeroporto e scaricato dalla vettura con un colpo di pistola alla tesa. Ipotesi avallata anche dall’Osce che afferma che si tratta di un assassioni accuratamente orchestrato dalle autorità. Intanto il sito ingushetiya.ru che nei giorni scorsi era stato oscurato è di nuovo online con una rassegna stampa mondiale sull’omicidio Evloev. La magistratura russa ne aveva ordinato all’inizio di giugno l’oscuramento e stessa sorte gli era toccata alla fine del 2007, dopo aver diffuso un appello a manifestare contro le autorità. Franco Insardà

ritiro delle truppe. La presenza di un «piccolo contingente» in Georgia è permesso dal riferimento alle “ulteriori misure di sicurezza” contenuto nel punto 5 del piano di pace. Chizhov ha affermato che il testo firmato da Medvedev è diverso da quello sottoscritto dal presidente georgiano Mikheil Saakashvili, in quanto quest’ultimo sarebbe privo di un preambolo e del riferimento alle «discussioni internazionali sul futuro status di Ossezia del sud e Abkhazia». Inoltre nel documento “georgiano” si parlerebbe di discussioni internazionali sulla sicurezza “in” – e non “per” - Ossezia del sud e Abkhazia. Questa, ha sottolineato Chizhov, «è una differenza sostanziale». L’ambasciatore, in ogni caso, si è mostrato ottimista sul futuro dei rapporti euro-russi: «Guardo con fiducia ai negoziati tra Medvedev e Sarkozy. Credo che tutte le divergenze saranno risolte e non escludo che il prossimo round negoziale sull’accordo Ue-Russia, previsto il 16 settembre avverrà come previsto». Meno accondiscendente il suo capo, il ministro degli Esteri Sergei Lavrov, che dopo aver accusato l’Occidente di immoralità è tornato all’attacco. Nel corso di una conferenza stampa a Istanbul, il capo della diplomazia russa ha infatti accusato la Nato di aver provocato il conflitto georgiano vendendo armi al governo di Tbilisi. E questa è la giusta ricompensa per non aver punito Mosca.


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speciale esteri il 2 novembre 1987. Sulla Piazza Rossa tutto è pronto per festeggiare una data particolare: il settantesimo anniversario della rivoluzione. Sarà anche l’ultimo decennale del regime comunista, ma questo ancora nessuno lo sa. Dentro le mura del Cremlino, nel palazzo del Soviet supremo, Mikhail Gorbaciov, legge il suo rapporto. «Compagni, a questo punto possiamo dire di avere risolto il problema delle nazionalità. L’amicizia tra i popoli sovietici è una delle più importanti conquiste della rivoluzione. È un fenomeno unico nella storia mondiale e, per noi, è uno dei principali pilastri della potenza e della solidità dello Stato sovietico». La profezia del dissidente Andreij Amalrik che, alla fine degli Anni Sessanta, aveva previsto la dissoluzione dell’Urss nel 1984 per l’esplosione delle tensioni nazionali, è alle spalle e sembra scongiurata. Con i suoi 22 milioni di chilometri quadrati l’Unione sovietica è ancora il Paese più grande del mondo. Risultato della somma di due imperi: quello costruito in cent’anni dagli zar liquidato nella forma nel 1917, ma subito ricostruito anche con la forza da Lenin - e quello conquistato da Stalin con la vittoria nella seconda guerra mondiale e con gli accordi di Yalta che divisero l’Europa.

Occidente

È

Ma le parole di Gorbaciov nascondono una realtà molto diversa. Il popolo sovietico, nonostante settant’anni di terrore e di radici storiche strappate in nome di valori assoluti e totalitari, non ha mai rinunciato a inseguire le sue tante identità, a rivendicare le sue tante lingue, le sue culture, le sue religioni. E se nell’anello esterno dell’im-

Il popolo “sovietico”, nonostante settant’anni anni di terrore e repressione, non ha mai rinunciato a inseguire le sue tante identità

LE PROSSIME GEORG GEOR di Enrico Singer

Sono i russi che dimenticano alcune fondamentali lezioni della storia moderna pero, a partire dal 1953, da Berlino a Budapest, da Praga a Varsavia, le rivolte sono state domate con la forza, in quello ”interno”composto dal mosaico di nazionalità e di minoranze cinquantuno soltanto quelle riconosciute in regioni o repubbliche autonome - le rivolte sono state una costante che Mosca ha, in parte, sfruttato abilmente per mettere un popolo fratello contro l’altro e mantenere così il suo controllo in nome del principio del divide et impera. E, in parte, ha nascosto al mondo o, quando le notizie

sono filtrate, ha fatto passare come «azioni di criminali e terroristi». La pietosa bugia di Mikhail Sergheevic Gorbaciov di fronte al Soviet supremo sull’ormai raggiunta «amicizia dei popoli sovietici» dimostra meglio di qualsiasi analisi che proprio questa è la vera preoccupazione di Mosca, la bomba innescata che sta per far implodere l’impero comunista. Come aveva previsto Andreij Amalrik. Sbagliando, in fondo, appena di cinque anni. L’inizio della dissoluzione è il 1989: la caduta del Muro di Berlino, seguita

dallo strappo di Lituania, Estonia e Lettonia e dall’ultimo tentativo, fallito, di Gorbaciov di trasformare l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (questo voleva dire Urss) in una più presentabile e democratica Confederazione degli Stati Indipendenti, la Csi. Un nuovo vestito per salvare in qualche modo quello che era rimasto dell’impero dopo la perdita dell’anello esterno - dal Baltico alla Polonia, all’Ungheria - e dopo la dissoluzione della stessa Urss e la riconquistata indipendenza di tutte le ex Repubbliche sovietiche: dall’Ucraina alla Georgia, dall’Armenia all’Azerbaigian, dal Kazakhstan, all’Uzbekistan.

Da quando Putin ha mandato i carri armati russi in Georgia e ha riconosciuto l’indipendenza di Ossezia del Sud e Abkhazia,

è apparso chiaro a tutti il parallelo tra il momentaneo crollo dell’impero zarista, trasformato nel giro di pochi anni (tra il 1917 e il 1924) in impero sovietico da Lenin e Stalin, e il disegno che il Cremlino insegue oggi: ricostruire quanto più possibile l’impero comunista liquidato da Gorbaciov tra il 1989 e il 1990. La storia, del resto, è piena di metamorfosi di questo tipo: dall’impero di Alessandro Magno nacque Bisanzio e da Bisanzio nacque l’impero ottomano. Se il disegno strategico complessivo di Putin è proprio quello di restituire alla Russia, se non l’impero, almeno lo status di superpotenza, anche a costo di una nuova Guerra Fredda con gli Usa, ci sono in questa crisi delle specificità che non si possono ignorare. Anche se gli stessi russi, oggi, preferiscono di-

menticare alcune lezioni della storia in nome di interessi politici immediati. Perché gli stessi nazionalismi che Mosca ora sfrutta contro la Georgia potrebbero, domani, ritorcersi contro il nuovo impero putiniano. Se questo sarà davvero ricostruito. Ed ecco, allora, che è utile ricordare un’altra data: il 9 aprile 1989. Il Muro di Berlino non è ancora caduto quando Tbilisi, capitale della Repubblica socialista sovietica di Georgia, è teatro dei più sanguinosi moti di ribellione dell’era gorbacioviana. Una folla pacifica che chiede l’indipendenza del Paese è affontata dalle forze di quello che si chiamava «l’esercito interno» dell’Urss: in pratica le truppe incaricate di mantenere l’ordine pubblico nei confini dell’impero. È un massacro. Feroce: i militari usano come armi an-


RGIE

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che delle pale da vigili del fuoco contro uomini, donne, ragazzi in una piazza da dove è difficile fuggire. Il bilancio ufficiale è di venti morti e duecento feriti. Quello denunciato dai manifestanti è ancora più pesante. E la domenica di sangue di Tbilisi diventa un simbolo. Nella coscienza collettiva dei georgiani, il 9 aprile 1989 rinnova il ricordo del 25 febbraio del 1921 - l’annessione della Georgia da parte della Russia sovietica - e del 27 agosto del 1924: la ribellione del Paese al potere dell’Urss schiacciato nel sangue dall’Armata Rossa.

In quei giorni la Georgia è sull’orlo della guerra civile. Il capo del partito comunista goergiano, Djumbar Patiachvili, si dimette. Il 14 aprile il bastone del comando passa a Givi Goumbardize che è stato responsabile locale del Kgb: di fronte al disordine ci vuole uno specialista dell’ordine. Ma la rivolta non si placa. Da Mosca arriva anche Eduard Shevardnadze, il georgiano che ricopre la carica più alta: è ministro degli Esteri di Gorbaciov. La missione di She-

indipendentismi. Subito dopo la rivoluzione il compito di risolvere il problema delle nazionalità fu affidato da Lenin proprio al georgiano Josip Vissarionovic Dzugasvili (Stalin, acciaio, era il suo nome di battaglia) che era, tra l’altro, di madre osseta e conosceva quelle terre e quei nazionalismi meglio di chiunque altro.

Stalin sa benissimo che il popolo abkhazo, in buona parte musulmano, ha sempre combattuto contro due influenze, entrambe ortodosse: quella dei russi e quella dei georgiani. Quando la Georgia fu annessa dall’impero degli zar, nel 1801, migliaia furono gli abkhazi che fuggirono in Turchia per evitare una cristianizzazione che avevano sempre rifiutato e che non è mai avvenuta. Dopo la rivoluzione del 1917, quando Lenin concesse l’indipendenza agli ex possedimenti dell’impero zarista sperando che questi spontaneamente avrebbero aderito alla nascente Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche, Stalin sfruttò il nazionalismo abkhazo in funzio-

Il rischio Caucaso non è la Guerra Fredda: è la crisi interna delle etnie vardnadze ottiene qualche successo: torna almeno la calma dopo che il capo della diplomazia dell’Urss garantisce sulla sua parola che Mikhail Gorbaciov, che in quei giorni era a Londra in visita ufficiale, «non ha avuto alcuna parte nella decisione di inviare i soldati contro i manifestanti». Ma ormai il desiderio di chiudere con l’Unione sovietica e di imboccare la strada dell’indipendenza reale ha conquistato la maggioranza dei georgiani che dovranno soltanto attendere due anni la dissoluzione dell’Urss. E non è davvero un caso se l’indipendenza del Paese sarà proclamata il 9 aprile del 1991. Con l’indipendenza, sancita dall’Onu dove entra come Stato autonomo, la Georgia porta con sé le tre regioni autonome che, dai tempi di Stalin, sono state create nel suo territorio: l’Abkhazia, l’Ossezia del Sud e l’Adjaria. Soltanto quest’ultima, che confina con la Turchia, è integrata e calma. Le altre due sono polveriere. L’Abkhazia, in particolare, è un esempio perfetto della politica staliniana diretta a fragilizzare le spinte indipendentiste delle Repubbliche sovietiche alimentando al loro interno altri

ne anti-georgiana: per favorire, prima, la riconquista della Georgia da parte dell’Armata Rossa e per indebolire, poi, la formale autonomia della Repubblica socialista sovietica di Georgia costretta a fare parte dell’Urss. La concessione dello statuto di “repubblica autonoma”all’Abkhazia fu l’involucro costitzionale costruito da Stalin per realizzare il suo disegno: lo stesso ripetuto in ogni angolo del nuovo impero comunista. Dal Caucaso agli Urali, alla Siberia fino ai confini con la Cina. Lo statuto di “repubblica autonoma” non è soltanto un’etichetta. Attribuisce al gruppo etnico degli abkhazi un primato nelle cariche pubbliche, nell’istruzione e in genere nella società civile rispetto alle altre nazionalità presenti nel territorio dell’Abkhazia. Potrebbe sembrare ovvio, ma non lo è affatto. Sui circa novemila chilometri quadrati di questo territorio che si affaccia tutto sul Mar Nero e che, all’interno, si sviluppa su impervie montagne, vivono poco più di mezzo milione di persone che sono abkhazi appena per il 17 per cento. Il nucleo etnico più numeroso è comunque quello georgiano (il 44 per cento degli

abitanti) seguito da quello russo: il 16 per cento. Il resto della popolazione (circa il 22 per cento) è di origine adjara, turca, armena. Un mosaico di genti che spiega perché quando si parla del Caucaso il parallelo corre subito ai Balcani e alla “libanizzazione” di queste due aree del mondo che sono state rette, in orgine, da piccoli potentati locali e che sono passate poi sotto il dominio di grandi imperi – da quello ottomano a quello zarista a quello dell’Urss – senza mai conquistare lo status di nazione, ma senza mai perdere i loro nazionalismi che si sono sempre manifestati sotto la forma di separatismi dalle realtà statuali di cui hanno fatto parte.

Così gli abkhazi, sotto Stalin, chiesero addirittura di poter far rientrare i loro fratelli fuggiti in Turchia ai tempi degli zar e di concedergli le terre “indebitamente occupate dai coloni stranieri”. Che, poi, altri non erano se non i georgiani. Ma il grande amore tra il governo di Sukhumi e Mosca, resuscitato oggi da Putin di nuovo in funzione anti-georgiana, ha conosciuto anche dei momenti di crisi profonda. Dopo la seconda guerra mondiale, Stalin fu sul punto di aggiungere gli abkhazi al lungo elenco dei popoli deportati perché accusati di avere collaborato con le truppe della Germania nazista. Alla fine prevalse l’interesse di mantenere questo cuneo infisso nelle più pericolse spinte nazionaliste e indipendentiste della Georgia. Esattamente come avvenne nel caso dell’Ossezia. Anche qui Stalin seguì la logica del divide et impera al punto di creare due “regioni autonome”: l’Ossezia del Nord compresa nella Repubblica federativa di Russia e l’Ossezia del Sud inclusa nella Georgia. In nome del tanto proclamato rispetto delle nazionalità perché non creare una regione autonoma unica? La risposta sta proprio nella volontà di fragilizzare i nazionalismi più forti (e pericolosi, nell’ottica di Mosca) come quello georgiano, sostenendo i “nazionalismi minori”. Tutta questa complessa architettura, ripetuta per ognuna delle cinquantuno nazionalità dell’impero, ha retto settant’anni. Fino a Gorbaciov. Putin adesso vuole replicarla e, nel caso dell’appoggio alla secessione di Abkhazia e Ossezia del Sud, sembra anche riuscire nel suo disegno. Con un doppio rischio, però. Uno evidentemente calcolato da Mosca: la riapertura della Guerra Fredda. Un altro imprevedibile, ma inevitabile: riaccendere al suo interno la miccia del problema, mai risolto, delle nazionalità.


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speciale esteri

Occidente Una moschea di Samarcanda. Il governo russo, da semplice mediatore, potrebbe presto passare a esercitare il suo potere di veto e bloccare in sede Onu qualsiasi risoluzione che contrasti le ambizioni nucleari di Teheran. Per firmare un patto con tutte le nuove potenze del mondo, a oriente e occidente, e contrastare gli Usa

Oltre alle mire europee, la Russia guarda con interesse all’Asia Centrale, alla Cina e all’India

Mosca punta lo sguardo a Oriente di Antonio Picasso e Ilaria Ierep a crisi del Caucaso ci ha aperto gli occhi sull’ambizioso progetto di Mosca per riappropriarsi del suo status di super potenza mondiale. Confermando il vecchio complesso russo di accerchiamento, il nuovo risiko globale è cominciato sulle coste del Mar Nero.Tuttavia, il recente vertice della Shangai Cooperation Organization (Sco), a Dusanbe, mostra come contemporaneamente il Cremlino intenda consolidare le sue posizioni a oriente, vale a dire nelle ex Repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale e con partner

L

portanza è invece il “gruppo di Shangai”, sia per la sua composizione, sia per gli obiettivi di cooperazione in ambito di sicurezza prefissati. In termini concreti, lo scenario per la riaffermazione di una politica di sicurezza comune si è aperto già nel 1999, in seguito alle incursioni islamiste lungo il confine tra Uzbekistan, Tagikistan e Kirghizistan.

Da questa distribuzione delle pedine moscovite, emerge chiaramente la “dottrina Putin-Medvedev” volta a riprendere il controllo delle Repubbliche ex so-

Pur di conquistare potere a est, Mosca potrebbe iniziare a proteggere l’Iran strategici quali Cina, India e Iran. Giocando su due tavoli, la Russia confuta le convinzioni di chi tendeva a declassarla a mera potenza regionale. La Sco è una delle organizzazioni regionali che permettono a Mosca di confrontarsi con i fragili regimi autoritari centroasiatici e con una potenza globale come Pechino. I primi, in realtà, membri anche di una confederazione effimera come la Csi, rappresentano il “ventre molle” della regione. Di maggiore im-

vietiche.Tuttavia, il vertice di Dusanbe ha mostrato anche l’ambiguità della posizione russa. La nota finale, così voluta dalla Cina, da sempre contraria a ogni secessionismo, ha riconosciuto il suo intervento in Georgia come “necessario”per il ristabilimento della pace, pur sottolineando il “rispetto dell’integrità territoriale del Paese”. Il progetto imperialista del Cremlino, allora, non è di così facile attuazione. Certo, le opportunità che le Repubbliche centroasiatiche offrono a Mosca

sono evidenti. L’autoritarismo dei loro governi, costituiti ancora da ex esponenti della nomenclatura sovietica, li rende affini a quello guidato da un ex agente del Kgb come Putin. Soprattutto in considerazione della presenza nella nuova élite al potere a Mosca dei cosiddetti “siloviki”, appunto i veterani dei servizi segreti sovietici, e del ruolo del Ministero della Difesa nel mantenere attivi i vecchi contatti centro-periferia, nonché della conservazione di una struttura relazionale impostata sul controllo della vecchia frontiera esterna sovietica. Questo permette alla Russia, in qualità di fratello maggiore, di proteggerli da possibili venti democratici di origine occidentale.

Inoltre, va rilevata l’interdipendenza strutturale tra Russia e Asia Centrale in termini di sicurezza ed economia. Secondo uno schema che continua ad essere applicato, gli impegni militari rafforzano quelli economici. Su questo piano si afferma la Comunità economica eurasiatica (Ceea) volta a creare una zona di libero scambio nell’ambito della Csi. Questa connessione è evidente soprattutto nella situazione del Kazakistan, verso il quale il territorio russo è completamente aperto per quasi settemila chilometri, con la presenza di infrastrutture essenziali, per esempio la base spaziale di Bajkonur e una serie di istallazioni di rilevazione cosmica e anti-aerea.

In realtà, il settore economico è quello che dimostra le maggiori debolezze strutturali. Eccetto la Russia, che comunque sta attraversando una fase di flessione, nessuno di questi Paesi può dirsi pienamente sviluppato. Le singole economie monoproduttive incentrate sul petrolio, dipendenti al 95% dalla rete russa, e vincolate quasi esclusivamente al dollaro – oggi più moneta di scambio che di tesaurizzazione – sono sintomi della debolezza di tutta l’area. Inoltre, con la disgregazione dell’Urss, l’Asia Centrale aveva vissuto l’illusione nel potersi agganciare al treno americano. Washington inizialmente, infatti, si era dimostrata molto interessata a intervenire nell’area con investimenti finanziari e con l’installazione di proprie basi militari. È stato il caso dell’Uzbekistan, confinante con l’Afghanistan e primo alleato del Pentagono nella regione, fino alla rottura nel 2005, in seguito al mancato rinnovo della concessione della base di Karshi-Khanabad. Venuto meno il supporto di Washington, le ex Repubbliche sovietiche si sono buttate nuovamente tra le braccia di Mosca. Già con la fine dell’Impero zarista, molti di questi Paesi si proclamarono indipendenti, ma – sia per imposizione del Soviet di Mosca, sia per interessi locali – andarono a federarsi con l’Urss. Da qui si deduce che la rinnovata partnership con il Cremlino è

più dettata da ragioni opportunistiche che dall’idea di far parte della Grande Madre Russia.

Nell’ambito della Sco, quindi, era inevitabile che nessuno di questi potenziali satelliti di Mosca le voglia fare un torto. In quest’ottica, la Georgia appare come una vittima sacrificabile e sufficientemente lontana per non subire gli strascichi della crisi. Questo è vero soprattutto in riferimento a Pechino che con Mosca sta costruendo una rinnovata base di cooperazione bilaterale, partendo dall’accordo di luglio sulla restituzione alla prima delle isole di Yinlong e di Heixiazi. D’altra parte, l’amicizia tra due grandi potenze quali Cina e Russia va sempre soppesata. Pechino, volutamente distratta dalle Olimpiadi, è rimasta a guardare nella crisi del Caucaso. Nella sua spregiudicatezza imperialista e anti-Usa, la Russia dimostra di voler apparire anche come un gigante asiatico. Il suo disegno, quindi, potrebbe includere un cambiamento di rotta anche in favore dell’Iran. Mosca, da semplice mediatore, potrebbe passare a esercitare il suo potere di veto e bloccare in sede Onu qualsiasi risoluzione che contrasti le ambizioni nucleari di Teheran. Di tutto questo, una volta conclusa la crisi in Caucaso se mai si arriverà a un dunque, l’Occidente dovrà tenere conto. *Analisti Ce.S.I.


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Per il “nuovo zar”, l’Ucraina non è nemmeno uno Stato. La debolezza europea premia l’aggressore e ignora le vittime

Il prossimo obiettivo? La Crimea di Fernando Orlandi ncontrando il 26 agosto a Sochi il presidente della Moldova Vladimir Voronin, Dmitrii Medvedev l’ha messo in guardia verso ogni tentativo di riprendere il controllo della Transnistria con la forza. Era da poco terminato questo incontro che un preoccupato Bernard Kouchner, il ministro degli esteri francesi, dai microfoni di radio Europe-1 lanciava l’allarme, «perché ci possiamo aspettare altri obiettivi dalla Russia. In particolare la Crimea, l’Ucraina e la Moldova». In effetti la tensione fra Russia e Kyiv è alta e da alcuni anni si assiste ad un crescendo. I punti di frizione sono molti, ma la chiave della contesa sta nel desiderio dell’Ucraina di accedere all’Ue e alla Nato e nella questione della Crimea. Le minacce di Mosca verso Kyiv sono esplicite proprio come quelle profferite contro Tbilisi nei mesi scorsi. A margine del vertice Nato di Bucarest, all’inizio di aprile, c’era stata una eloquente conversazione fra Vladimir Putin e George W. Bush: «L’Ucraina non è neppure uno stato. Che cos’è l’Ucraina? Una parte del suo territorio è Europa orientale, e una parte, per giunta notevole, gliel’abbiamo regalata noi». La parte “regalata” è, appunto, la Crimea, trasferita in pompa magna all’Ucraina nel 1954, per celebrare il trecentesimo anniversario del trattato di Pereyaslav. Il 18 gennaio 1654 segnò in modo irrevocabile il destino di quel Paese: invece della protezione contro gli invasori chiesta alla Moscovia gli ucraini persero il loro autogoverno, la loro sovranità e l’identità culturale. Nei giorni successivi alle dichiarazioni di Putin, la dose è stata rincarata. Il capo di stato maggiore Yurii Baluevskii ha minacciato «misure militari e di altra

za politica al potere (con il profilo assolutamente riservato nei confronti del Cremlino assunto da Yuliya Timoshenko), lo è nel Paese, con l’opposizione che appoggia l’attacco alla Georgia.

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natura», mentre il il ministro degli esteri Sergei Lavrov affermava che la Russia «farà di tutto per impedire l’accoglienza nella NATO di Ucraina e Georgia». E ancora Putin: «Non voglio nemmeno prendere in considerazione questa ipotesi, saremmo costretti a puntare i nostri missili verso occidente».

A maggio la tensione in Crimea è montata. Yurii Luzhkov, il discusso sindaco di Mosca, nel corso delle celebrazioni del 225esimo anniversario della flotta russa ha sostenuto che Sebastopoli non appartiene all’Ucraina. È una posizione spalleggiata dalla Duma, così come questa in passato sosteneva abkhazi e osseti del sud. Kyiv non poteva non reagire e Luzhkov è stato dichiarato persona non grata. La Crimea occupa uno

libri e riviste

l direttore di Tai a colloquio con l’autore di The Wealth and Poverty of the Nations, un libro che già nel titolo svela tributi e influenze. La prima, è quella culturale dell’etica protestante che gli porge Max Weber. La seconda, è quella del “dispotismo orientale” elaborata da Karl A. Wittfogel. La terza, paga pegno alle condizioni geografico-climatiche e l’ultima alle teorie neoclassiche di Adam Smith. Ne nasce così un dialogo interessante sui rapporti fa sviluppo economico e sicurezza, fra modelli politici, quali il liberalismo e la democrazia i loro limiti, in termini di benessere, affinché possano veramente funzionare. Soprattutto quanto conta la cultura rispetto ai canoni di sviluppo economico. Sembra rispondergli il duo Sam Huntington e Lawrence Harrison, col libro Cul-

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ture Matters del 2001 cui Landes ha contribuito. Alla base c’è il fra paragone una visione che considera quanto la cultura sia più utile della scienza in economica, perchè considera gli uomini e l’ambiente in cui sono cresciuti. E una che tiene conto di quanto ricchezza, libertà e sviluppo possano invece essere elementi di una funzione“materialista”– come la vicinanza alle fonti energetiche o alle riserve d’acqua. Un confronto che è la chiave per capire il nuovo secolo. Francis Fukuyama Wealth&Culture Conversation with David Landes The American Interest September/October 2008

spazio importante nell’immaginario dei nazionalisti russi e Sebastopoli non evoca solo gli sfarzi del passato, la città fortezza assediata dai britannici nel 1854 e quella selvaggiamente attaccata dai tedeschi nella Seconda guerra mondiale. Nel presente vuole soprattutto dire la base della Flotta russa del Mar Nero fino al 2017. Kyiv ha già fatto sapere che alla scadenza i militari russi dovranno sloggiare e Mosca ha reagito inducendo a più di una preoccupazione. Una reazione ancora più dura la si è avuta quando il presidente Yushenko ha dovuto battere in ritirata dopo aver sostenuto che sarebbe stato proibito il rientro alle navi che erano state impegnate nell’attacco alla Georgia. Il fatto è che l’Ucraina di oggi è particolarmente vulnerabile e divisa. Lo è nella dirigen-

l fantasma di un confronto radicale ha preso le mosse dalla tragedia dell’11 settembre 2001. C’è la visione neoconservatrice - un po’gotica - della minaccia terroristica all’Occidente delle libertà e della tolleranza, portata da un radicalismo islamico, cieco di rabbia nei confronti di chi non segue la legge di Allah. E c’è il mito del martirio conseguito attraverso la strage degli infedeli. È come se una visione alimentasse l’altra, seguendo i binari di uno schematismo troppo semplicistico. L’autore ci svela invece, come dietro alla guerra al terrore ci sia sempre stata un’agenda politica complessa ed articolata, seguita anche dall’ultima amministrazione Bush. Gilles Kepel Beyond terror and martyrdome Gallimard/Harvard press 336 pagine – 27,95 dollari

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Intervenendo il 24 agosto alle celebrazioni dell’indipendenza dell’Ucraina Yushenko ha dichiarato tutta la vulnerabilità del suo Paese. Qualche giorno dopo ha affermato: «Qualsiasi nazione può essere la prossima, qualsiasi Paese». Alle dichiarate preoccupazioni di Kouchner ha risposto Putin, nel corso di una intervista alla televisione tedesca ARD: «Noi abbiamo riconosciuto le frontiere dell’Ucraina di oggi». Il fatto è che Mosca aveva anche riconosciuto l’integralità territoriale della Georgia. Kyiv si aspettava molto dal Consiglio straordinario della Ue di lunedì, ma le sue speranze sono state disattese. Un ex ambasciatore ucraino, sconsolato, ci ha detto: «È lo scenario peggiore. Ancora una volta l’Ue ha assunto una posizione attendista; ha salvaguardato solo la sua unanimità di facciata. In questa prospettiva anche il Membership Action Plan si allontana definitivamente. Soprattutto il mio Paese rimane indifeso, una situazione che peserà indubbiamente sulle prossime elezioni. Resta da vedere cosa porterà con sé il vicepresidente americano Cheney», atteso in Ucraina nei prossimi giorni, una visita ad alto profilo a testimoniare il sostegno di Washington. E ha aggiunto: «Viste le posizioni di Germania e Italia, una Ue divisa e impotente, non ci aspettavamo le sanzioni, ma neppure un esito così disastroso. Con la sua scelta, l’Ue ha premiato l’aggressore. Niente sarà più come prima».

protagonisti del libro sono nel titolo. Dimona è il sito israeliano, nel mezzo del deserto del Negev, dove da decenni si studiano e sviluppano le tecnologie nucleari anche nel campo militare. Il Foxbat è invece un modello di aereo militare sovietico, all’epoca ancora segreto. Nato come bombardiere e sviluppato anche come aereo spia, con un radar a visione laterale tipo Slar. Lo scenario è la Guerra dei Sei giorni, la Russia comunista del confronto bipolare, le capacità nucleari di Gerusalemme. In breve sono questi gli ingredienti che condiscono una lettura per gli amanti dei retroscena da guerra fredda. Isabella Ginor e Gideon Remez Foxbats over Dimona Yale University Press 304 pagine – 17 dollari

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a cura di Pierre Chiartano


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il caso

Gli intellettuali tedeschi, in Europa, sono fra gli unici a riflettere sulla memoria del nazismo e del comunismo

La storia? Non è una colpa di Renzo Foa

a qualche anno sono attratto dal problema del rapporto tra «la colpa tedesca» e «la sofferenza tedesca». Penso che questo interesse sia direttamente dovuto alle sensazioni vissute durante alcuni viaggi a Berlino, dove ci si può imbattere con grande facilità non solo nei resti del peggio del Novecento ma ormai, con altrettanta facilità, anche nel tentativo di farci i conti. Proprio con grande facilità, a cominciare dalla sequenza visiva grazie alla quale con una camminata di un’ora puoi passare prima davanti all’architettura nazionalsocialista del ministero dell’aeronautica di Goering, poi visitare proprio dove sorgeva il quartier generale della Gestapo la mostra a cielo aperto sulla Topografia del terrore e ancora attraversare il museo dell’Olocausto sotto la Porta di Brandeburgo e subito dopo dirigerti verso le reliquie del checkpoint Charlie, lungo quello che era il Muro, per finire infine nei grandi viali dell’era di Stalin, quando ad un totalitarismo se ne sostituì un altro. Per non parlare ovviamente delle tracce – qua e là, forse è l’unica città del vecchio continente a conservarle – lasciate dalla fine del secondo conflitto mondiale sulla facciata di qualche edificio, soprattutto dove passava durante la guerra fredda la frontiera quasi sempre impermeabile tra Est ed Ovest. O delle tracce della Ddr onnipresenti nelle strade di prefabbricati ridipinti in colori più vivaci di quanto non lo fossero vent’anni fa e dove ci si può anche dirigere direttamente verso un carcere che prima fu nazista, poi sovietico e poi della Stasi e che ora è soltanto un museo, che però svolge una funzione di pro-memoria.

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Solo i distratti possono non restare colpiti dalle suggestioni di una città che è riuscita a sopravvivere a se stessa, che ora non solo è stata riunificata, ma anche restaurata e ricostruita per cercare di figurare al meglio come la capitale della più importante potenza europea. E

la suggestione più forte è proprio quella del problema del rapporto tra la «colpa» e la «sofferenza» di questa parte di mondo. Problema che consiste in primo luogo in una domanda: c’è stata una proporzione tra la responsabilità di una nazione per il sostegno che ha dato al nazismo e la punizione che le è stata inflitta, con i bombardamenti a tappeto tra il 1944 e il 1945 e poi con la divisione durata fino al 1989?

È una domanda che si ripropone in continuazione. Da ultimo, me l’ha riproposta la lettura in questi giorni del nuovo libro di Helga Schneider, Heike riprende a respirare (edito da Salani), un romanzo formalmente per ragazzi, ma non troppo dissimile dagli altri lavori della scrittrice italo-tedesca destinati ad un pubblico adulto, con il merito di porre problemi non di poco conto. Pagina dopo pagina, le righe si sono sovrapposte alle immagini

Il nuovo libro di Helga Schneider, «Heike riprende a respirare», affronta il tema cruciale della conflitto con i totalitarismi del ’900 che ho memorizzato della città: allora è stato ancora più facile pensare ad Heike, la ragazzina protagonista del romanzo, nei cortili dietro le mura ancora butterate che sopravvivono alla ricostruzione di alcuni quartieri di quella che fu Berlino orientale; è stato altrettanto facile rendersi conto del fatto che lungo i viali o nei parchi sono davvero pochi gli alberi la cui vita può essere fatta risalire alla metà del secolo scorso, quando tutto bruciò; così come è stato ugualmente facile avvertire l’esistenza di un clima di inquietudine per una transizione che sembra non finire mai, dagli anni del regime nazionalsocialista ai mesi del rogo della città, all’occupazione sovietica,

alla divisione in due, al Muro che separava lo «Stato antifascista tedesco», come veniva chiamata la Ddr, dalla «vetrina dell’Occidente». In altri termini, facile è stato ricollocarsi mentalmente nella cornice del romanzo. Che è naturalmente quella della capitale, però con una particolarità: a differenza dei tempi in cui la Schneider ha ambientato i suoi ultimi scritti, questa volta la dimensione temporale non riguarda i tempi della coercizione del nazismo, ma quelli dei mesi immediatamente successivi, della città conquistata dall’Armata Rossa, dove ormai non si combatteva più e dove tutti erano costretti a fare i conti con la condizione della sconfitta, anzi si può dire più esplicitamente dell’annientamento.Va ricordato che era una città – del resto un po’ come tutta la Germania, con l’esclusione di qualche isola salvatasi dalla distruzione, come ad esempio Weimar – i cui abitanti furono costretti a sopravvivere nelle cantine o nelle case diroccate, senza acqua, con poca luce, un drastico razionamento alimentare, e dove il problema di tutti era appunto quello di «riprendere a respirare», dopo il nazismo e dopo la catastrofe. A differenza dell’Usignolo dei Linke o di Io piccola ospite del Fuhrer, la narrazione della vicenda di Heike non è direttamente autobiografica. Ma è come se lo fosse, visto che la Schneider, per quanto ormai italiana, è stata da piccola una testimone diretta del nazismo, proprio dal suo interno, e via via è diventata un’esploratrice instancabile del prezzo che i tedeschi, come popolo e come individui, hanno pagato per la tragedia in cui hanno immerso l’Europa con il consenso dato ad Hitler e con il secondo conflitto mondiale.

Ed è questo tratto-semi autobiografico a rendere tutto più interessante ed a sollevare tanti motivi di curiosità su come sia possibile affrontare un problema storico non semplice, anzi difficile da risolvere: appunto quello della colpa e nello stesso tempo della sofferenza di una

nazione. Ovviamente va subito detto che la breve stagione della vita di Heike narrata dalla Schneider è il simbolo della vita di tante altre sua coetanee, in quel 1945.Vita quasi impossibile, con la madre che non si rassegnò alle violenze subite dai soldati russi, con il padre tornato sfiancato e completamente svuotato da una lunga guerra e da una breve prigionia (fortunatamente per lui nelle mani degli americani), con la cantina di casa trasformata in abitazione permanente, con il cibo razionato e, soprattutto, con il trauma individuale con cui dovevano fare i conti in quel momento i berlinesi, i quali – nel giro di poco più di un anno – avevano visto cadere l’illusione di non perdere la guerra, per ritrovarsi sconfitti, occupati, umiliati, letteralmente rasi al suolo. La grande potenza europea, anzi mondiale, trasformata in cenere. Con una punizione collettiva che, come sappiamo, non riguardò solo i diretti responsabili, cioè i nazisti militanti, e che coinvolse direttamente o indirettamente coloro che non si opposero, in due modi particolari: i bombardamenti aerei alleati, particolarmente

intensi dal luglio del ’44 alla fine del conflitto, e l’occupazione militare sovietica, con la vendetta esplicita per la carica distruttiva con cui Hitler aveva attaccato la Russia. Da qui il tema della «sofferenza tedesca». Un tema – va subito detto – che per molti anni ha rappresentato un tabù, soprattutto in Germania dove a lungo è mancata la disponibilità a fare i conti con un passato non solo scomodo ma soprattutto urticante. Questa disponibilità sembrava equivalere ad una concessione insopportabile per gran parte dello spirito pubblico: se non era mancato dopo il 1945 il riconoscimento della sconfitta nazionale, anche come scelta obbligata per la ricostruzione e per la collocazione occidentale della Rft, era probabilmente impossibile pretendere un altro riconoscimento, quello della giustezza della punizione inflitta con i bombardamenti, con l’occupazione russa, con i dieci milioni di profughi dalle terre orientali. Quello dell’ammissione della colpa.

Tanto più che, almeno fino al 1989, abbiamo continuato a misurarci con i problemi di un


il caso

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Qui sopra due immagini della Porta di Brandeburgo, vero proprio simbolo del passato e del futuro di Berlino: a sinistra, nel dicembre del 1989, alla caduta del Muro; qui sopra, oggi, usata come un totem pubblicitario

Paese diviso in due entità statali e largamente ridotto nelle sue dimensioni, per di più con l’approvazione di tanti europei. Ricordo come fosse ieri Giulio Andreotti dire – in un dibattito con Paolo Bufalini, ad una festa dell’Unità del 1984, che ebbi la fortuna di coordinare – che due Germanie erano meglio di una e che quattro sarebbero state meglio di due. Così come ricordo non solo le risate, ma anche gli applausi scroscianti e prolungati del fitto pubblico presente in sala, composto da comunisti e da democristiani. La battuta di Andreotti, che ormai è negli annali, sarebbe stata un normale esercizio di realismo politico se una parte della Germania non avesse allora continuato a soffrire per il regime a cui era sottoposta: che era una conseguenza diretta della sconfitta nella Seconda guerra mondiale, che era l’oppressione di un secondo totalitarismo senza soluzione di continuità con il precedente e che rappresentava la caricatura dell’antinazismo e dell’antifascismo. Un regime, va aggiunto, che pur presentandosi come un’antitesi netta del passato

riusciva solo a utilizzare in termini schematici e propagandistici tutte le questioni ereditate da quel passato. Senza mai risolverle. Così, guardando all’Est e all’Ovest si può dunque capire perché per decenni storie come quelle raccontate dalla Schneider non siano state apprezzate in patria. Perché fossero un tabù.

Le stesse sensazioni mi sono state provocate da un altro li-

in Germania, anzi fu accolto da molte polemiche, perché testimoniava la profondità della sconfitta tedesca. Già, perché l’arrivo dell’Armata Rossa non rappresentò solo un incubo per le donne, ma soprattutto segnò una svolta psicologica con un vero e proprio collasso morale. E allora in questo libro, curato da Kurt W. Marek (autore di Civiltà sepolte, sotto lo pseudonimo di Ceram), c’è un minuzioso ventaglio di reazioni. Non

la morte dell’autrice, che è stata identificata in Marta Hillers, il testo ha richiamato grande attenzione ed è stato esaltato da una introduzione di Hans Magnus Enzesberger. In altri termini è stato assunto nella memoria nazionale. Segno della funzione terapeutica del tempo che passa? Non solo. Probabilmente, senza il 1989, senza la fine di una punizione che continuava senza interruzione dalla metà del Novecento, questa disponibilità non ci sarebbe stata. Si tratta di un fenomeno comunque utile. L’attitudine della cultura tedesca a riconsiderare le verità della propria storia aiuta anche gli altri a riconsiderare l’atteggiamento verso la Germania, che nonostante il capovolgimento delle condizioni storiche resta in ogni modo segnato dalle vecchie diffidenze, se non altro quando si deve affrontare il tema del rapporto tra la colpa e la sofferenza.

Un libro dimenticato di Hans Fallada subito dopo la guerra aprì un piccolo squarcio sulla resistenza a Hitler e sulla «zona grigia» che attraversava trasversalmente la Germania bro che mi è capitato in queste settimane fra le mani, nella sua traduzione francese, Eine frau in Berlin, che uscì per la prima volta negli Stati Uniti nel 1954 e che non ebbe molta fortuna quando venne pubblicato nel 1959 in Germania. Si tratta di una testimonianza autobiografica anonima di una giovane giornalista, che raccontava quel che era accaduto a lei, ma anche agli altri abitanti di Berlino, tra il 20 aprile e il 22 giugno del 1945. Non ebbe fortuna

c’è – questo provocò le polemiche di quarant’anni fa – astio verso l’occupante, anzi la narrazione dei rapporti (sesso in cambio di cibo) con gli ufficiali e i soldati sovietici ha quasi un tono oggettivo. Meno oggettivo è il racconto della meschinità dei tedeschi e del loro improvviso risentimento verso il nazismo e verso Hitler che li avevano gettati nel baratro. Ma, come detto, questa testimonianza fu rifiutata al suo apparire in patria. Nel 2003, invece, dopo

Un’ultima lettura di queste settimane, Jeder stirbt fur si-

ch allein («Seul dans Berlin» è il titolo della traduzione francese), di Hans Fallada, scrittore morto nel 1947, ha aperto comunque un piccolo squarcio su quella che fu la resistenza ad Hitler e sulla «zona grigia» che attraversava trasversalmente la Germania. Anche in questo libro – ambientato nel 1940, mentre si festeggiava la sconfitta della Francia – c’è la minuziosa descrizione di una vita segnata dalla povertà e dal terrore. C’è di conseguenza la domanda sull’effettivo carattere del consenso al nazismo e sulla sua ampiezza. Suggerisce una riserva sugli schemi con cui finora abbiamo guardato – anche per responsabilità dei tabù tedeschi – al rapporto tra la colpa della Germania e la sofferenza che le è stata inflitta. Una domanda che quanto meno aiuta a cogliere le sfumature della storia. È un discorso che riguarda soprattutto noi italiani che ci siamo assolti dalla colpa del patto di ferro con il nazismo e della seconda guerra mondiale e che abbiamo fatto finta di essere, nel 1945, nelle fila dei vincitori.


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letture

La proposta lanciata da Gian Giacomo Schiavi e Gianni Bonadonna riapre la polemica sui criteri di ammissione all’Università

«Esami di umanità» per i futuri medici di Giuseppe Bertagna o sottomano Medici umani, pazienti guerrieri (Baldini Castoldi Dalai, Milano 2008) di Gian Giacomo Schiavi e Gianni Bonadonna, uno dei grandi dell’oncologia italiana. Il libro nasce dall’esperienza compiuta dal dottor Bonadonna come paziente. Colpito da un ictus, il noto oncologo ha visto i medici e la medicina dall’altra parte. E ne ha scoperto le deficienze peggiori: medici, appunto, senza umanità e pazienti purtroppo rassegnati. Gli è venuta perciò spontanea una proposta per poter almeno cominciare a invertire lo stato delle cose: sottoporre tutti i giovani che intendono intraprendere la professione medica ad un «esame di umanità». La proposta, tuttavia, al di là dei problemi tecnici e organizzativi che può porre, è troppo saggia per essere accolta in Italia. Per comprenderlo, basta riflettere su come, oggi, si diventi studenti delle facoltà mediche.

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Dal 1997, obbedendo a una disposizione europea, l’accesso alle facoltà di medicina, odontoiatria e veterinaria è diventato a numero «programmato» (eufemismo per «chiuso»). Per questo, un decreto ministeriale ha stabilito che si possono iscrivere a queste facoltà solo i giovani che, in due ore, rispondono meglio a ottanta quesiti a scelta multipla. Quest’anno, rispettivamente, trentatre quesiti di logica e cultura generale; ventuno di biologia; tredici di chimica; sette di matematica e sei di fisica. Per legge, tuttavia, questi quesiti non hanno uno scopo orientativo. Non servono, cioè, a far comprendere all’esaminando se le facoltà mediche che ha deciso di scegliere sono in qualche modo anche corrispon-

denti alla sua vocazione e alle sue capacità. Ogni bilancio orientativo, del resto, non si fonda mai su una sola prova, per di più semplice e nozionistica come quella prevista, né dura soltanto due ore. Ha bisogno di prove multiple oggettive e soggettive che si dispiegano spesso per mesi, se vogliono pretendere gradi di affidabilità. Sempre per legge, inoltre, gli ottanta quesiti a scelta multipla che servono per l’ammissione non sono nemmeno formulati in modo tale da poter avere qualche valore predittivo. Il fatto che lo studente risponda correttamente, insomma, non significa che avrà poi successo negli studi medici. Anche in que-

so in cui non ce l’abbiano, realizzare per loro «attività formative propedeutiche» o assegnare loro «obblighi formativi aggiuntivi» da soddisfare prima dell’inizio dei corsi. Ma questo non succede in nessuna parte d’Italia. Sempre per legge, infine, le prove di ammissione non hanno la funzione di selezionare gli studenti migliori.

Con la retorica sociale del merito che si è diffusa in questi ultimi tempi, per la verità, il ministro Fioroni aveva fatto inserire nella finanziaria di quest’anno una norma che avrebbe obbligato a stilare la graduatoria finale degli ammessi,

Dal 2009 il ministro Gelmini avrà il compito di riformare l’attuale formula dei quiz (che iniziano oggi), poco propedeutica agli indirizzi che si intende seguire e del tutto priva di scopi formativi sto caso le prove con valore predittivo dovrebbero essere molto diverse da quelle previste dalle norme, oltre che essere costantemente poste in relazione con la carriera universitaria di chi le supera proprio per verificare la loro congruenza, ed eventualmente migliorarla. Sempre per legge, in terzo luogo, le prove di ammissione non hanno nemmeno valore formativo. Non servono, cioè, all’università per capire la preparazione degli studenti. Secondo l’art. 6, c.1 del D.M. 270/2004, infatti, ogni facoltà di medicina, odontoiatria e veterinaria dovrebbe sottoporre gli studenti che hanno superato l’ammissione ad appropriate indagini formative volte a verificare se essi hanno la preparazione necessaria per affrontare il corso di laurea, e nel ca-

sommando il punteggio ottenuto negli ottanta quiz con quelli che uno studente avrebbe guadagnato superando l’esame di stato con un ottimo voto (25 punti per chi avrebbe preso 100 e lode). Ma anche a prescindere dalla sua applicabilità amministrativa, la norma era paradossale due volte. La prima perché sommava pere con cipolle. Ammesso, infatti, che la votazione ottenuta agli esami di stato esprima davvero il merito degli studenti, non si può dire la stessa cosa per chi supera i quesiti di ammissione che, come detto, non hanno affatto questa intenzione. La seconda perché le votazioni degli esami di stato non sono affatto eque, ma dipendono da troppi fattori iniqui che non hanno nulla a che fare con il merito degli studenti. Non resta, allora, che do-

mandarci a che mai potranno servire prove che non hanno nessuna delle finalità prima richiamate. Semplice. Sono soltanto un artificio burocratico per stilare una graduatoria tra troppi concorrenti che sia a prova di Tar. Bisogna, però, riconoscere che lo scorso anno gli ottanta quesiti non sono serviti nemmeno a questo.Tutti si ricorderanno le polemiche scatenate su alcuni di essi, perché davano per giuste risposte sbagliate. Cosicché molti Tar hanno costretto parecchie sedi del sud e del centro a rifare le prove, con il rischio di doverle invalidare per tutte le facoltà di medicina d’Italia. La conclusione è, quindi, amara: il re è ormai nudo; questa formula è giunta al suo capolinea. Già il ministro Mussi aveva promesso che l’avrebbe cambiata. Ha finito i suoi due anni di ministero senza farlo. Quest’anno il ministro Gelmini ha la giustificazione di essere arrivata quando ormai diveniva obbligata un’altra ripetizione della vecchia formula.

L’anno prossimo, tuttavia, nemmeno lei avrà più scuse: dovrà cambiare questo sistema. E lo dovrà cambiare tutelando insieme tre principi tra loro compatibili: a) l’accesso deve restare a numero programmato; b) l’accesso deve essere deciso con attendibili criteriologie orientative, formative ed equamente meritocratiche che è compito del centro stabilire e distribuire nei loro pesi finali; c) le sedi locali non possono più essere soltanto i terminali esecutivi di decisioni assunte e gestite centralisticamente dal ministero ma devono essere per forza di cose responsabilizzate in maniera protagonistica nel dare contenuto ad alcune delle criteriologie prima richiamate.


cultura

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Da oggi fino al 7 settembre lo storico Festival di Mantova arà che è topograficamente ostile alle macchine, e percorribile senza difficoltà a piedi, con calma; di certo Mantova è una città adatta in modo particolare ai tempi lenti e alla riflessione, che trova la sua dimensione ideale nel Festivaletteratura che si terrà da oggi al 7 settembre. Nata come piccola iniziativa locale 12 anni fa, oggi la manifestazione ideata da un gruppo di librai mantovani è un evento internazionale, capace di attirare grazie al suo nome un centinaio di scrittori da ogni angolo del mondo. Quest’anno oltre ai grandi scrittori da salotto come Alessandro Baricco, Piergiorgio Odifreddi e Corrado Augias ci saranno il fresco vincitore dello Strega Paolo Giordano, Gianrico Carofiglio, Ettore Scalfari, Scott Turow, Jonathan Safran Foer, Carlo Lucarelli.

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Un successo che nessuno si azzarderebbe a sminuire, ma certo viene da domandarsi come mai una città in fondo piccola e ignorata dalle rotte commerciali delle grandi case editrici abbia potuto inventarsi una rassegna così importante. Prima di tutto bisogna riconoscere un fatto: gli inventori del Festival hanno avuto fiducia negli italiani. Ci vuole coraggio per organizzare sul suolo nazionale una manifestazione dedicata alla cultura che non sia la solita fiera del libro. Da noi si è soliti concedere spazio alla letteratura solo quando si presenta nella sua veste mercantile, quando cerca di vendersi. Al Festivaletteratura invece l’autore non è chiamato a pubblicizzare il suo ultimo libro, ma a confrontarsi con qualcuno su un tema specifico, dando vita a un dialogo, un confronto, uno spettacolo e magari anche una litigata. Ma sempre invitando lo spettatore a pensare per un paio d’ore su temi che di solito non arrivano neanche alle rubriche dei telegiornali. In questi casi si scopre che un commento sulla qabbalah ebraica può essere interessante anche per chi non si è mai interessato di storia delle religione e non ha alcun interesse per culti misterici e linguaggi cifrati. Qui si scopre che non è necessario essere professori eruditi per farsi affascinare dalla cultura; quando si soddisfa la curiosità umana non c’è spazio per la noia. Il Festivaletteratu-

La rivincita della letteratura sul sapere “mordi e fuggi” di Alfonso Francia

Quest’anno, oltre ai grandi scrittori da salotto come Alessandro Baricco, Piergiorgio Odifreddi e Corrado Augias, il Festival della letteratura di Mantova vedrà anche la partecipazione di Carlo Lucarelli (sopra), Gianrico Carofiglio (a sinistra) e il fresco vincitore del Premio Strega, Paolo Giordano (sotto)

ra è la rivincita contro tutte le teorie sul sapere “mordi e fuggi” e sul trionfo della società dell’istante. A Mantova la fretta non ha diritto di cittadinanza.

I luoghi dove si tengono gli incontri (tantissimi, 225 in soli cinque giorni) sono dislocati per tutta la città, e vanno scoperti a piedi, passeggiando. È più facile entrare nell’atmosfera di una manifestazione letteraria dopo essere passati davanti ai palazzi voluti dai Gon-

Nata come iniziativa locale 12 anni fa, oggi è un evento internazionale capace di attirare scrittori da ogni angolo del mondo zaga e ai monumenti progettati da Giulio Romano. Può capitare di incrociare un autore che un paio d’ore prima era stato ospite di un incontro, e invece di rintanarsi in albergo o correre a prendere l’aereo se ne re-

sta a ciondolare tra piazza Erbe e piazza Sordello, chiacchiera con i volontari del Festival e a volte va a bere una birra con qualche suo lettore. Qui lo scrittore si diverte perché gli si chiede di giocare, di misurarsi con cose nuove nelle quali non è necessariamente esperto. Così Carlo Lucarelli può improvvisarsi insegnante per spiegare ai ragazzi come si scrive il buon incipit di un romanzo e

valutare quelli scritti da loro, e Daniel Pennac può ritrovarsi spettatore dei suoi ricordi di scuola messi in scena da Neri Marcorè con l’aiuto della Banda Osiris. Si scopre così, quasi per caso, che la cultura diverte. Tra le mura rinascimentali della città sembra sia più facile entrare in contatto con quelle categorie dello spirito che predispongono l’uomo alla lettura. Forse accade perché, come le opere letterarie, questa è una città stratificata. Alla quasi del tutto sconosciuta Mantova romana di Virgilio si sovrappongono la Mantova medioevale del libero comune, quella rinascimentale e poi Cinquecentasca dei Gonzaga, quella austera e un po’ intristita degli austriaci e poi quella ruspante e speranzosa dell’Italia unita. Città che chiedono riletture e interpretazioni, come un testo scritto. Sarà però bene munirsi di scarpe comode per esplorarla. Un po’ come i senesi, i mantovani hanno gusti molto particolari riguardo il manto stradale. Quasi tutto il centro storico è lastricato di piccoli sassi che scoraggiano in maniera definitiva il passaggio in auto (proprio nella città natale di Tazio Nuvolari) e rendono difficoltoso il passo di chi non è separato da terra da una suola di buona qualità.

Quel che conta è che in questi giorni Mantova apra le sue pagine a tutti, come non accade nel resto dell’anno, quando la nebbia convince questa città affacciata per tre quarti sul Minicio di essere una vera isola, incapace di contatti con l’esterno. Per il Festival i mantovani, solitamente riservati, diventano euforici e aperti a tutte le esigenze del forestiero. Tutte tranne una: gli orari dei pasti. Qui è una tradizione non emendabile mettersi a tavola all’una e alle otto di sera, e mangiare con calma. Se reclamate un piatto di stracotto d’asino o tortelli di zucca in strani orari sarete accontentati, ma non offendetevi se vi guarderanno come selvaggi. Anche se vi chiamate Baricco o Pennac.


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paesaggi

Per la prima volta nella storia, la calotta Artica è circumnavigabile. Il riscaldamento del pianeta ha reso possibile il sogno inseguito per secoli da molti esploratori

La guerra del ghiaccio di Massimo Tosti

cienza, leggenda, avventura, commercio ed economia si mescolano insieme in questa storia che si può ben dire risalga all’Era glaciale, vale a dire – più o meno – alla notte dei tempi. Cristoforo Colombo aveva da poco (sia pure involontariamente) scoperto l’America, quando i grandi esploratori presero a occuparsi del mitico «Passaggio a Nord Ovest». La convinzione di quei valentuomini – dopo che la flotta di Magellano aveva circumnavigato il globo veleggiando verso Occidente (ma il capitano-armatore non completo il viaggio: fu ucciso da una freccia avvelenata nell’arcipelago delle Filippine – era che la stessa impresa poteva essere compiuta navigando verso Nord. In parole povere: se la Terra era rotonda e poteva essere percorsa viaggiando in orizzontale, lo stesso risultato poteva essere raggiunto anche in verticale. Semplice, no? Le idee – a quei tempi – erano ancora piuttosto confuse: le carte geografiche erano (a dir poco) approssimative.

S

Si ignorava l’esistenza di due continenti (America e Oceania), si avevano idee molto vaghe riguardo all’Asia, era convinzione diffusa che l’Oceano Indiano fosse un mare chiuso. Dei due Poli (l’Artico e l’Antartico) non si sapeva praticamente nulla. Mercatore do-

veva ancora disegnare le sue mappe, che erano almeno accurate sulle dimensioni delle terre conosciute. Nel 1539 Hernàn Cortés (diciassette anni dopo l’impresa di Magellano) incaricò Francisco de Ulloa di navigare lungo l’odierna Baja California alla ricerca dello Stretto di Anian, che era il nome dato allora al «Passaggio a Nord Ovest». Qualcosa di paragonabile alle Colonne d’Ercole, l’obiettivo di Ulisse «per

voce preoccupata, «I ghiacci continuavano a sciogliersi», e dopo aver inquadrato tre pinguini (in cartone animato) che saltellano su un iceberg, pone una domanda inquietante: «Chi poteva salvarli?». È volgarotto, lo spot, ma pare che il suo appeal derivi proprio da questo, più ancora che dallo slogan («A fresh air explosion»). L’idea non è neppure nuova, ricordando il futurologo Disney che ne I tre caballeros raccontava la

La conquista dei passaggi a Nord Ovest e a Nord Est provocò grandi sfide fra avventurieri. Oggi la loro apertura può rivoluzionare il trasporto marino seguir virtute e conoscenza». Oggi – sembra – quel «Passaggio» è destinato a cambiar nome, rischiando di diventare una «passeggiata» adatta anche ai diportisti della domenica. Le ultime notizie (e le ultime immagini, scattate dal satellite Envisat dell’Ente Spaziale Europeo) dicono che i ghiacci perenni della calotta polare artica si stanno sciogliendo inesorabilmente. Un aereo ha filmato nove orsi bianchi, che nuotano da giorni, disperatamente, alla ricerca di una piattaforma solida sulla quale riposarsi. C’è anche – ad alimentare l’allarme – uno spot pubblicitario che annuncia, con

storia del pinguino Pablo, tanto freddoloso da abbandonare il Polo Sud per raggiungere un paese tropicale.

Il problema attuale – lo scioglimento della banchisa – ha un riflesso negativo e uno positivo. Quello negativo è presto detto: gli scienziati sono convinti che la riduzione della superficie ghiacciata sia legata al surriscaldamento del Pianeta, foriero di catastrofi incalcolabili. Lo scorso anno si era aperto il «Passaggio a Nord Est» (sopra la Siberia), tre anni fa quello a Nord-Ovest (sopra al Canada). In questi giorni si sono aperti tutti e due contemporaneamente, rendendo possibile la circumnavigazione della calotta polare, un evento che – secondo i climatologi non si verificava «da almeno 125 mila anni». Il professor Wieslaw Maslowski (docente di un’università californiana) ritiene che fra cinque anni l’Oceano Artico sarà

completamente aperto e navigabile da metà luglio a metà settembre. Altri esperti, meno pessimisti, valutano che l’evento si verificherà entro il 2030. L’accelerazione del fenomeno è comunque indiscutibile, ricordando che (fino a poco tempo fa) le previsioni più accreditate parlavano del 2070. Il riflesso positivo è di carattere commerciale (e quindi economico). Una compagnia marittima tedesca sta già programmando l’uso frequente della rotta polare per i propri viaggi.

La traversata polare (in luogo di quelle utilizzate fino ad oggi) consente di ridurre di oltre un terzo la distanza da percorrere fra un porto del Nord Europa e un approdo in Giappone (da 11.500 a 7.500 miglia marine), con un crollo dei costi. Avremo, insomma, i low cost come nel trasporto aereo. Saranno penalizzati i porti del Mediterraneo che attualmente (attraverso il Canale di Suez) rappresentano il terminale (o una tappa obbligata) per i mercantili sulle rotte fra l’Asia e l’Europa. L’anno scorso il mito del «Passaggio a Nord Ovest» si era già pericolosamente incrinato per colpa di un ex allevatore di maiali del Minnesota, Roger Swanson, che (alla verde età di 76 anni) aveva compiuto l’impresa su un ketch a vela di 17 metri. «Non c’era praticamente ghiaccio», ha raccontato al Wall Street Journal: «È stato un viaggio bellissimo e senza problemi».

Niente a che vedere con l’avventura di Roald Amundsen, il celebre esploratore norvegese, che riuscì a individuare il Passaggio a Nord Ovest, navigando dalla Baia di Baffin allo stretto di Bering. Amundsen impiegò quasi dieci anni per realizzare l’impresa. Dopo aver studiato a lungo il magnetismo terrestre, si imbarcò nel 1897 sulla nave Belgica, comandata da Adrien de Gerlache, partecipando a una spedizione in Antartide. Nel 1901, ritenendo di aver accumulato una sufficiente esperienza, acquistò una vecchia nave attrezzata per la


paesaggi

3 settembre 2008 • pagina 21

Qui a destra, la spedizione di Robert Peary al Polo Nord nel 1909. A sinistra, la spedizione di Roald Amundsen (nella foto qui sotto) al Polo Sud nel 1911. Sotto, i Passaggi a Nord Ovest e nord Est liberi dai ghiacci, in questi giorni. Nella pagina accanto: a destra, Umberto Nobile; a sinistra, Robert Peary

caccia alle foche, la Gjoan, che equipaggiò con un motore a scoppio di 13 cavalli (una potenza riservata oggi ai tender degli yacht di dimensioni contenute). Quello stesso anno compì una crociera preparatoria sulle coste della Groenlandia. Nel 1903 la Gjoan salpò da Oslo (le leggende dicono che la partenza fu anticipata per sfuggire ai molti creditori) con a bordo viveri per cinque anni, diretta verso la Groenlandia, per raggiungere il polo magnetico boreale (di cui Amundsen per primo rilevò le esatte coordinate) e il famoso Passaggio. Superata la baia di Baffin, l’esploratore (che aveva a bordo sette collaboratori) imboccò lo

stretto di Lancaster, gettando le ancore in una insenatura della Terra di Re Guglielmo. Rimase due anni in quella zona, compiendo rilievi magnetici, astronomici e meteorologici. Sulla via dello stretto di Bering, la nave rimase prigioniera dei ghiacci per tutto il terzo inverno, verso la foce del fiume Mackenzie, riuscendo a raggiungere l’Oceano Pacifico soltanto nell’estate del 1906.

Nei progetti di Amundsen figurava anche la conquista del Polo Nord, ma quando seppe che Robert Edwin Peary vi aveva già piantato la bandiera a stelle e strisce, cambiò programma, dirigendosi verso il

Polo Sud: fu il primo a raggiungerlo (insieme con il suo aiutante Helmer Hansen) il 14 dicembre 1911, 35 giorni prima della spedizione guidata da Robert Falcon Scott. Nel 1926 Amundsen firmò un’altra impresa: la prima trasvolata del Polo Nord sul dirigibile Norge, insieme con Umberto Nobile, che l’aveva costruito e lo pilotava, e allo sponsor americano Lincoln Ellsworth. Due anni più tardi morì in un incidente aereo mentre cercava di raggiungere la Tenda rossa di Umberto Nobile dopo la catastrofe

del dirigibile Italia. Dal Norge, nel 1926 furono lanciate sul Polo le bandiere italiana, norvegese e statunitense. Di bandiere, al Polo, ce n’erano già cinque, piantate sul ghiaccio il 6 aprile 1909 da Robert Peary, dal suo aiutante Matt Henson e da quattro eschimesi. Salpato da New York nel luglio 1908 sulla nave Roosevelt che l’avrebbe portato al bordo dei ghiacci polari, aveva coperto con le slitte trainate dai cani 1.600 chilometri (fra andata e ritorno) sulla banchisa. Raggiunta la meta, Peary strinse la mano ai compagni, seppellì un documento e prese possesso della regione in

nome degli Stati Uniti d’America. Furono scattate molte fotografie. Il gruppo trascorse trenta ore al Polo. Al rientro (era il 5 settembre) Peary, dall’ufficio postale di Indian Harbor nel Labrador, mandò un telegramma a sua moglie: «Finalmente sono riuscito». Ma ebbe l’amara sorpresa di scoprire che cinque giorni prima un certo Frederick A. Cook (che aveva accompagnato Peary nella precedente spedizione) aveva annunciato al mondo di aver raggiunto il Polo Nord l’anno prima. Una vertenza giudiziaria dimostrò che Cook era un millantatore. Capitava anche questo, ai tempi delle grandi scoperte.


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LA DOMANDA DEL GIORNO

Trasferte ultrà a rischio: che cosa ne pensate? DOV’È FINITA LA TOLLERANZA ZERO? Stanchi e sopraffatti dall’ondata senza riflusso delle violenze da stadio, non possiamo fare a meno di constatare come ormai l’iter emozionale segua pari passo quello delle (in)decisioni politiche. Come al solito, fra le riverenze speranzose all’industria del pallone e all’allegra brigata delle pay per view, che spargono a piene mani buoni sentimenti e intimismi lirici tra appassionati e calciatori, riappaiono ciclicamente gli episodi barbarici che guastano l’atmosfera festaiola. E, allo scoccare dell’ora di violenza, puntuali le lancette della politica mettono in moto uno speciale giro d’orologio dalle tappe scandite con ferreo rigore. Di primo acchito, prevale lo spettacolo declamatorio, i politici che si ergono a sceriffi inscenando sulle tribune magnifiche coreografie dell’indignazione. Si promettono giri di vite, ma sono solo giri di valzer. Perchè la sempre fresca tolleranza zero, moralisti e moralizzatori, professionisti dell’esilio e boia dell’inciviltà. svaniscono in un istante. Nel successivo, pian piano digradando come un colore già ammuffito, la furia iconoclasta si stempera in nobile intento pacificatorio, in predicozzi che invitano le genti tutte all’amore vicendevole, in buffetti paterni ai vandali re-

LA DOMANDA DI DOMANI

Veltroni propone il diritto di voto per gli immigrati: favorevoli o contrari?

cidivi. Pian piano, la tolleranza zero, applicata sui barconi di chi non possiede alcun influsso elettorale, affonda insieme a loro nell’incertezza, e rimangono invece i nostri figli, vittime di una società impervia e imperdonabile, a bighellonare intorno agli stadi, a farsi la guerra divisi in tribù, a esplodere con i loro mortaretti insieme a una società ogni giorno più violenta e sempre più irrefutabile. Girano attorno al calcio milioni di euro e milioni di stupidi. E nessuno avrà mai il coraggio di fermare il meccanismo perverso.Tutto trascolora sempre dall’onda emotiva, in cui si tuffano i consensi elettorali, all’onda della pacificazione. Perchè un politico serio, che imponga lo stop al calcio, in Italia la politica sarebbe costretto a lasciarla.

Gianni Dettori Avellino

SI SALVI CHI PUÒ A Gulfport, nel Mississipi, alcuni pellicani marroni si aggrappano a un piccolo pezzo di legno usato come imbarcazione di fortuna, durante l’infuriare dell’uragano Gustav

INCREDIBILE MA VERO: LIBERI TUTTI A che cosa servivano i processi per direttissima varati nel precedente decreto sulla sicurezza negli stadi, se poi alla fine della fiera, alcuni tra i responsabili dei disordini di domenica sono già a piede libero? Leggo che saranno processati a ottobre, ma come al solito finirà a pizza e fichi. Qualche ammenda, magari una bonaria reprimenda in stile Peppino e Totò, e tutti a casa nella convinzione che chi è senza peccato scagli la prima pietra. E invece, visto che si parla tanto di sicurezza come di giustizia, è giusto che chi viene colto in fragrante paghi immediatamente e subito. Non si ripete ormai da anni che il vero problema della giustizia italiana è la lentezza dei processi?

Simone Vinciguerra Genova

IL BOOMERANG DI VELTRONI Un buon politico dovrebbe coltivare l’arte della prudenza. Incurante di ciò,Veltroni sostiene che il progetto Fenice – ideato per Alitalia – ci regalerà una “compagnia di bandierina”. Nella migliore delle ipotesi si tratta di una gaffe, visto che infaticabile regista del progetto è uno dei suoi grandi elettori alle primarie del Pd. L’amore per le battute a effetto rischia così di rivelarsi un boomerang.

Enrico Pagano Milano

OGNUNO A CASA PROPRIA Trasferte vietate, sempre e comunque. È inutile frapporre piccole pause di meditazione per poi ritrovarsi con gli stessi problemi. Che ognuno si stia a casa propria, e se proprio è frustrato, prenda a calci i mobili del suo salotto

Rispondete con una email a lettere@liberal.it

LE LACRIME AMARE DEL POPOLO SARDO «La situazione dell’economia della Sardegna che emerge dagli studi è di palese stagnazione se non di aperta recessione in molti comparti». Con queste parole, peraltro una verità difficilmente opinabile, si è aperto recentemente un seminario organizzato per la presentazione del rapporto annuale del Crenos (Centro ricerche economiche nord sud). D’altro canto, se è vero che gli studiosi di economia fanno il loro mestiere e con i loro lavori analizzano dati e certificano inequivocabilmente lo stato della difficile situazione economica della nostra isola, non ci sarebbe bisogno di leggere rapporti e frequentare seminari per accorgersi dell’emergenza che pone in ginocchio i cittadini sardi. Sono sempre di più le persone che cominciano a frequentare i centri della Caritas o di altre associazioni impegnate nel sociale e che, quasi vergognandosi, denunciano la loro situazione di indigenza e di impossibilità ad acquistare anche i

Gioacchino Messersì Domodossola

IL MARKETING TELEFONICO FINALMENTE FUORILEGGE Accolgo con viva soddisfazione la notizia che il Garante abbia dichiarato improprie le manovre di accerchiamento e di compravendita dei numeri di telefono, che

dai circoli liberal

generi di prima necessità quali il pane e la pasta. Le problematiche che determinano tale stato di cose sono le solite: incerte politiche di sviluppo, operanti peraltro in un contesto normativo in ritardo e confuso rispetto alle ingenti risorse finanziario che la Comunità europea ha messo a disposizione della Sardegna. L’industria, prevalentemente quella del settore chimico, sta attraversando una crisi ormai generalizzata con un accordo di programma sottoscritto nel 2003 da Governo centrale e Regione in gran parte inattuato. Una politica del credito penalizzante per le imprese sarde che si trovano spesso ad affrontare un costo del denaro un punto e mezzo in più rispetto alle imprese ubicate in altri territori. Tale situazione allarmante determina che sempre più famiglie sarde sono risucchiate nella spirale della povertà. Lo riscontra anche l’Istat nel suo rapporto “La povertà relativa in Italia nel 2006” presentato lo scorso ottobre 2007. La Sar-

hanno fatto la fortuna di tante aziende e sviluppato in noi italiani un’ insopprimibile collera. Non è possibile che si venga disturbati a qualsiasi ora del giorno per essere abbindolati da avvenenti voci che promettono miracoli con una semplice firmetta. Siamo stufi di raggiri e chiamate indesiderate, e bisogna che qualcuno si faccia disturbare solo se dietro suo esplicito consenso. Basta ruberie e inganni a persone spesso plagiate perchè anziane, è ora di finirla con questa continua esasperante televendita, che è diventata la nostra esistenza. Chi ci risarcirà dal danno? Chi ci pagherà, visto che i nostri numeri di telefono sono stati venduti a peso in modo illecito e contro la nostra volontà?

Alvaro Rossettino Campobasso

degna ha segnato un risultato inquietante: la percentuale di cittadini sotto la soglia di povertà sul totale dei residenti aumenta, passando infatti dal 15,9 per cento del 2005 al 16,9 del 2006: circa 340mila sardi che vivono in una situazione di quotidiana angoscia. Di questo quadro globale sembra non accorgersi la politica e in particolare il governo della Regione. È innegabile infatti, o quanto meno questa è la percezione della maggior parte dei cittadini, che il contrasto alla povertà e al disagio non sia tra le priorità dell’agenda politica sarda. Speriamo allora che si possa aprire quanto prima una nuova stagione della politica che, partendo dalla consapevolezza della situazione di frustrazione e di disagio strutturale che attanaglia la Sardegna, cominci a mettere in campo tutta una serie di iniziative caratterizzate da una chiara sensibilità per le questioni sociali. Antonio Cossu COORDINATORE CIRCOLI LIBERAL SARDEGNA


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog L’arte è gelosa persino delle malattie Caro fratello, è già tardi, ma voglio scriverti ancora una volta. Non sei qui, ma vorrei che tu lo fossi, e a volte mi sembra che non siamo molto lontani l’uno dall’altro. Oggi mi sono ripromesso una cosa, di considerare la mia malattia, o meglio gli strascichi di essa, come non esistenti. Si è già perso abbastanza tempo, il lavoro deve continuare. Così, che io stia bene o meno, riprenderò a insegnare regolarmente, dal mattino alla sera. Oggi ho fatto un disegno della culla del bambino, con qualche tocco di colore. Sto anche lavorando a un disegno come quello dei campi che ti ho mandato recentemente. Le mie mani sono diventate troppo bianche, ma forse è colpa mia? Andrò fuori a lavorare all’aria aperta, anche se questo dovesse provocare il ritorno della mia malattia. L’arte è gelosa, non vuole che le si preferiscano le malattie. Vincent Van Gogh al fratello Theo

È COLPA DI TUTTI NOI SE SI MUORE SULLE STRADE: VI SPIEGO IL PERCHÉ Rispondo volentieri, e anche con un po’ di sarcasmo, alla domanda fatta da liberal sule troppe stragi sulle strade. Le statistiche dicono che muoiono più di 7mila persone all’anno in Italia per incidenti stradali. Fatti i conti, sono una media di 20 vittime al giorno. E la gran parte sono giovani. Soprattutto il venerdì e il sabato sera. Ma, ecco la mia ironia o sarcasmo: del resto è sempre stato così. Una volta c’erano ( e ci sono ancora, purtroppo) le guerre. Adesso c’è la strada. di qualcosa si deve pur morire... E poi gli incidenti ci sono sempre stati. fin dall’antichità, basta leggere qualche trattatello di storia. oggidì però non si può continuare a dire, come spesso facciamo:«È colpa sua, andava forte, non c’è il limite di velocità? Rispettalo!». Fino a un certo punto è colpa sua, controlli o non controlli che vi siano, perchè da un certo punto in poi è colpa di tutti. Non è solo fatalità, anzi. Se non si può andare a più di 130 km all’ora in autostrada – e a 110 sulle strade normali – perchè consentiamo, anzi, perchè si consente che vengano prodotte auto e moto che sfiorano i 300 km

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)

ACCADDE OGGI

3 settembre 1914 - Giacomo della Chiesa diventa Papa col nome di Benedetto XV 1939 - Seconda guerra mondiale: Francia, Australia e Regno Unito dichiarano guerra alla Germania 1941 - Seconda guerra mondiale: nel campo di concentramento di Auschwitz i nazisti usano per la prima volta il gas tossico Zyklon B per sterminare i prigionieri 1943 - Seconda guerra mondiale: L’Italia continentale viene invasa dalle truppe alleate. Il generale Giuseppe Castellano firma a Cassibile l’armistizio corto 1944 - Olocausto: Anna Frank e la sua famiglia sono caricati sul treno che li porterà ad Auschwitz, dove arriveranno 3 giorni dopo 1965 - Vaticano: il Santo Padre Paolo VI pubblica l’Enciclica Mysterium Fidei 1982 - Muore a Palermo a seguito di un agguato mafioso il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Giancristiano Desiderio,

orari? Il limite di velocità è un alibi sociale. È il segno di croce o il bacio del santino che il killer della mafia fa dopo un’esecuzione. È una bolla di componenda, l’atto di contrizione di Totò Riina o di Bernardo Provenzano o dei loro attuali sodali. Tutta la nostra società è basata sulla velocità. L’apparato economico-industriale del Paese è fondato sulle automobili e sulle moto, e l’intero corpo sociale è quindi direttamente correlato e corresponsabile di tutto ciò che accade intorno all’automobile e alla velocità. I morti sulla strada non s’ammazzano da soli. E nemmeno li ammazza Luca Cordero di Montezemolo, presidente della Fiat. Li ammazziamo tutti quanti. Omicidi belli e buoni. Perchè sono il prezzo da pagare alla bella vita. Siamo tutti colpevoli, non solo gli Agnelli, i pubblicitari e la Formula Uno. Tutti quanti. Sono vittime sacrificate al nostro benessere. Omicidi rituali, quindi: la società per continuare a stare unita e vivere, ha bisogno di sacrificare ogni tanto qualche suo figlio. Ogni figlio che muore sulle strade lo ammazziamo tutti insieme.

Angelo Simonazzi Poviglio (Re)

PUNTURE L’allenatore del Napoli, Reja, ha detto che l’assalto ultrà c’è stato perché c’erano delinquenti tra i tifosi. In realtà, è il contrario: c’erano tifosi tra i delinquenti.

Giancristiano Desiderio

il meglio di SIAMO GIOVANI, SIAMO QUESTI? Giovani mezzo imbambolati, bottiglia alla mano, passeggiano sui lungomari di Italia, di Spagna, di tanti altrove dalla vita. Luoghi e notti di ogni colore che l’industria turistica inventa e pompa per ammassare persone e denaro. Legittimo e dispendioso esercizio di panem et circenses che trova consenso per la voglia bella distare insieme, e anche per la cupa noia che avvolge la vita di tanti. In Spagna una ragazza italiana si è persa, si è persa del tutto in una di queste notti di movida, di festa per niente. Non sono luoghi più pericolosi di altri, o forse lo sono (inutile essere ipocriti) ma non è questo il punto. Piuttosto: è questa la nostra gioventù? Quanto di lei, delle sue energie, del suo tempo, della sua bellezza si perde in serate a vanvera, imbottite di alcool e vagabondaggio? Dov’è la vita che abbiamo perduto vivendo? si chiedeva il grande poeta. Non sembra tutta questa ”vita” una strana domanda, quasi una disperata supplica, una imbambolata preghiera di qualcosa che davvero sia vita? O dobbiamo rassegnarci a pensare il divertimento come fuga, come ansiolitico a base d’erba e di alcool, di ore strappate al sonno e al risveglio?

annavercors annavercors.splinder.com

La pazienza è la più eroica delle virtù giusto perchè non ha nessuna apparenza d’eroico GIACOMO LEOPARDI

Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Rossella Fabiani, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

EPPURE QUALCUNO LA CHIAMA ANCORA POLITICA Quella che non dice agli Italiani che gli operai negli altri paesi ce la fanno, ma non comprano i cellulari e le playstation ai figli, i quali d’estate lavoricchiano per pagarsi le tasse scolastiche e, per l’appunto, il

giocattolo tecnologico del momento. E quella che non spiega ai figli degli Italiani che presso gli altri popoli è motivo di orgoglio e di speranza che i ragazzi di ogni ceto nel tempo libero si diano una mossa e cerchino una certa autosufficienza economica ed abitativa. O quell’altra che si indigna (giustamente) se vengono sospesi dei processi dopo 5 anni, ma non prova neanche un po’di meraviglia nello scoprire quanti, dopo ben 5 anni, non sono ancora conclusi. Quella che per 2 settimane s’arringa intorno ad una manifestazione ”d’importanza nazionale”, convocata a Piazza Navona dove di gente ne entra poca, per l’appunto 30mila. Quella che vuole ”rimuovere le cause” del disagio sociale, senza accorgersi che la povera gente ha i delinquenti alle porte e che uno Stato esiste innanzitutto per ”reprimere gli effetti” della devianza sociale. Quella che vorrebbe il passaporto per il Partito Socialista Europeo, alle prossimissime elezioni, tirandosi dietro deputati ed elettori che, se non son cattolici, son comunisti. Quella che ha adottato un testo sulla sicurezza sul lavoro che sembra un’enciclopedia, mentre andava via lasciandoci le solite scuole sgarrupate e le strade con le buche. Quella che, dinanzi ai drastici dati internazionali sull’ignoranza dei nostri figli, non solleva l’attenzione e l’allarme nazionale e ”si può fare” con 10 ore per materia e gli esami di riparazione una tantum. L’elenco potrebbe continuare, ma penso che basti. E voi come definireste questo genere di politica?

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30


PAGINAVENTIQUATTRO Cartolina da Venezia. Tra divi inventati e nuovi miti celebrati

C’è la passerella virtuale. E tutte diventano di Alessandro Boschi el giorno in cui l’opera grafica che ritrae la bocca e la lingua di Mick Jagger, leader storico dei Rolling Stones, diventato logo e simbolo del leggendario gruppo rock britannico, viene acquistata dal Museo londinese Victoria and Albert, il sito del più venduto quotidiano italiano celebra un evento non me-

N

proiezione a proposito della quale un’agenzia, per giustificare lo scarso entusiasmo suscitato nella platea di giornalisti (era la proiezione delle ore 9.00 riservata ai «daily», i quotidianisti), si era inventata che molti, terminato il film, si erano precipitati fuori per assistere alla proiezione del cortometraggio di Mario Monicelli che sarebbe iniziato dopo pochi minuti. Ora, noi crediamo che nella vita si possa fare

STELLINE

no sensazionale: la nascita della nuova Monica Bellucci. Con un servizio sorprendente per acume e, soprattutto, lungimiranza, viene annunciata la nascita di questa nuova stella del firmamento cinematografaro il cui nome non faremo perché è palese che non ve ne sia bisogno. Vi diremo che era nel cast del film di Pupi Avati, Il papà di Giovanna. Ma non è la deliziosa Alba Rohrwacher, né Francesca Neri, né Serena Grandi (precisazione questa forse impertinente). E non è nemmeno Valeria Bilello, o Manuela Morabito, o Chiara Sani, o Rita Carlini. In fondo, che importanza può avere un nome?

Ciò che conta davvero è che il festival produce star, almeno per qualcuno. Per qualcun altro invece certe star, e i loro film, meritano solo sonori fischi. È divertente notare come le agenzie di stampa e certi articoli hanno riportato l’accoglienza riservata a certe pellicole. Senza dare alcune spiegazioni fondamentali, come ad esempio che in alcune circostanze le major nostrane dotano le sale di claque scrupolosamente istruite. Questo è ad esempio avvenuto per una

quasi tutto, ma mantenendo sempre un minimo di stile, che qui anche osservando accuratamente non scorgiamo.

Nel corso degli anni pubblicazioni, anche prestigiose, hanno prodotto cronache distorte di avvenimenti che avevano avuto un andamento diverso da quello riferito. Verrebbe da dire diverso «oggettivamente», ma non possiamo farlo. Certo è che come al solito chi scrive

modo. Badate bene, non parliamo di critica, bensì di cronaca, dove il margine di interpretazione dovrebbe essere ridotto per definizione.

C’è anche da dire che queste interpretazioni distorte, derivano spesso da antipatie e preconcetti, anche banali, che compromettono le capacità di valutare ciò che si vede. «Ma non è questo che mi fa triste», come diceva Gianni Morandi. Ciò che invece disturba è che tutto il consesso di chi fa informazione, per un motivo o per un altro, si prenda sempre terribilmente sul serio. Anche chi come in questo caso si occupa di cinema, che è molto importante, soprattutto quando diventa veicolo di libertà, di cultura, di resistenza. Ma sempre cinema è.

Impazza una nuova moda: quella della clacque. Tutti i produttori, soprattutto gli italiani, riescono a pilotare le reazioni alle proiezioni con il pubblico. È così che spesso al Lido nascono le nuove Monica Belucci. Immaginarie (nessuno escluso, beninteso) tende sempre più ad indirizzare che ad informare. Non parliamo poi delle testate direttamente coinvolte, che considerando l’appartenenza alla stessa famiglia di alcune distribuzioni e produzioni, vedere alla voci Mediaset e Rai, non esitano ad incensare i propri prodotti e a criticare ferocemente gli altrui. Come diceva il personaggio di Gianfranco Iacovoni interpretato da Sergio Castellitto nel film di Paolo Virzì, Caterina va in città, da noi esistono le cosiddette conventicole, quelle che il dizionario etimologico descrive come «adunanze segrete tenute da persone le quali trattino o preparino cose che abbiano del sedizioso o del tristo». Sufficiente? Forse no, perché di segreto in queste nostre conventicole non c’è proprio nulla. Tutti sanno come, da chi e perché si concepiscono, di qua e di là, ma nessuno dice niente perché a nessuno fa co-


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