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ISSN 1827-8817 80910

QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA

Reggerà il patto di ferro tra il senatur e Berlusconi?

e di h c a n o cr

Il caso Lega: perché Bossi comincia ad avere fretta (e paura)

di Ferdinando Adornato

STASERA LA FIACCOLATA PER I CRISTIANI ASSASSINATI IN INDIA

di Giuseppe Baiocchi

27 morti, 400 feriti gravi, 4300 case distrutte, 50 chiese demolite: questo è finora il bilancio delle violenze contro i cattolici in Orissa. Eppure nel mondo, dall’Ue all’Onu (e nei media), prevale l’indifferenza

è un antico e “oscuro oggetto del desiderio”nella genetica politica della Lega che riemerge periodicamente e cioè la guida (preferibilmente in solitaria) delle Regioni del Nord. E non tanto nell’utopia immaginata dal professor Miglio, quella delle tre macroregioni (Padania, Centronia e Sudonia), quanto piuttosto di quelle concretissime scaturite dalla Costituzione ed operanti dal 1970. Tranne un effimero episodio nel Friuli Venezia Giulia, i governatorati del Nord sono rimasti da più di quindici anni per la Lega il “frutto proibito”. D’altronde, proprio nello stato maggiore del Carroccio ci si è spesso interrogati sulle vicende convulse dell’autunno del 1994. Quando cioè l’accelerazione del processo di rottura del primo governo Berlusconi (sotto la pressione della magistratura, le seduzioni del Colle dove regnava Scalfaro, la spregiudicatezza tattica di un D’Alema in gran forma) amputò la conquista delle roccaforti regionali. Bastavano pochi mesi nel reggere in qualche modo l’alleanza con Forza Italia e An e alle elezioni della primavera del 1995 sarebbero potuti salire alla testa di Piemonte, Lombardia e Veneto uomini verde-padano, con tanti saluti ai vari Ghigo, Formigoni e Galan, che invece da allora inaugurarono il loro lungo principato.

C’

Il silenzio uccide

pagine 2, 3, 4 e 5

se g u e a pa g i n a 1 0

Air France entrerà nella Cai

Il ruolo della famiglia

Dopo Alitalia toccherà a Telecom?

Le unioni gay e la filosofia del matrimonio

Nel cenenario della nascita

Il vicepresidente Usa in visita in Italia

Basi russe in Georgia Cheney: Tblisi nella Nato

Polemiche su Pavese, da dimenticare o da rileggere?

di Alessandro D’Amato

di Michael Novak

di Enrico Singer

di Leone Piccioni

Cesar Alierta, il numero uno di Telefonica, è venuto a Roma per incontrare discutere l’acquisto di Telecom. E intanto l’ad di Air France, Spinetta, conferma che la compagnia francese entrerà nella nuova Alitalia.

Uno dei più famosi presentatori d’America, Bill O’Reilly, ha posto una domanda che mi tormenta da un paio di settimane: che cosa c’è di sbagliato nei matrimoni gay? Ecco che cosa ho pensato di rispondergli.

La Russia militarizza l’Abkhazia e l’Ossezia del Sud: il ritorno dalla Georgia promesso all’Ue non è altro che un ridispiegamento di truppe. E intanto il vicepresidente Usa a Roma incontra Berlusconi.

Cento anni fa nasceva Cesare Pavese, scrittore e intellettuale simbolo del Novecento: uno scrittore scomodo, mitizzato negli anni Settanta ma oggi dimenticato. Eppure, è tempo di rileggerlo.

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MERCOLEDÌ 10 SETTEMBRE 2008 • EURO 1,00 (10,00

CON I QUADERNI)

• ANNO XIII •

NUMERO

172 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


nessuno tocchi abele

pagina 2 • 10 settembre 2008

Il massacro dei cristiani in India e il silenzio della stampa italiana: la parola all’editorialista Angeo Panebianco

Il mondo è troppo grande per noi italiani? colloquio con Angelo Panebianco di Francesco Capozza

ROMA. Venerdì scorso, 5 settembre, la Conferenza episcopale ha indetto una giornata di solidarietà nei confronti dei cristiani perseguitati dai fondamentalisti indù nello Stato indiano di Orissaa. Riscontro da parte dei media? Praticamente nullo. Nessun quotidiano tranne quelli cattolici, ovviamente - ha dato il dovuto risalto alla questione. Solo domenica (due giorni dopo, quindi) una delle più autorevoli penne italiane ha deciso di rompere questo velo di omertà e, con un editoriale sul Corriere della sera intitolato «Il silenzio sui cristiani», ha puntato in un certo senso il dito sui mezzi di comunicazione colpevoli, a suo dire, di rubricare a semplice «faccenda interna alla Chiesa» quanto sta accadendo da ormai troppi giorni in India. In occasione della fiaccolata di solidarietà ai cristiani perseguitati nello Stato indiano dell’Orissa indetta da liberal per questo pomeriggio (in piazza Montecitorio alle ore 18.30), abbiamo voluto chiedere proprio ad Angelo Panebianco un parere sulla situazione ed una sua analisi, anche politica, sui silenzi mediatici che caratterizzano ormai troppo spesso eccidi e persecuzioni di stampo vagamente (e talvolta marcatamente) semita. Professor Panebianco, che ne pensa della fiaccolata di liberal? Non posso che pensare tutto il bene possibile di un’iniziativa del genere. C’è un problema di sensibilità dell’opinione pubblica che va evidenziato. Le persecuzioni messe in atto ogni

giorno ai danni dei cristiani, spesso per mano di fondamentalisti - stavolta indù, ma spesso islamici - nelle Filippine, in Nigeria ed in India appunto, troppo sovente non “arrivano” al semplice cittadino. Lei ritiene che ci sia un disinteresse per la sorte dei cristiani perseguitati o uccisi? In un certo senso sì. Sicuramente c’è in atto quell’atteggiamento che io stesso ho definito “farisaico”secondo il quale non conviene parlare troppo di queste cose per non alimentare lo

“scontro tra civiltà”. C’è poi un’idea di fondo piuttosto bizzarra, ancorché inquietante, secondo la quale se uno è cristiano in Pakistan, in Iraq, in India o in Nigeria, e gli succede qualcosa, in fondo se l’è cercata. Se fossero stati dei musulmani o dei buddisti ad essere perseguitati, quindi, le reazioni sarebbero state diverse, più eclatanti? No, questo non lo credo. C’è un disinteresse storicamente radicato nell’opinione pubblica secondo il quale tutto ciò che accade fuori dall’Europa, specie

Sì, ma solo se è politicamente rilevante. Basta rammentare le reazioni europee al discorso di Ratisbona di Benedetto XVI. Venne biasimato il Papa, non i fanatici che usarono quel discorso per tentare di incendiare il mondo islamico. Mentre dei cristiani in India non importa a nessuno? Diciamo che, secondo me, sembrerebbe politicamente scorretto condannare questi fatti. Sembra quasi che il “risveglio” cristiano, per certi versi in atto anche grazie a questo Papa, sia

C’è un disinteresse storicamente radicato nell’opinione pubblica secondo il quale tutto ciò che accade fuori dall’Europa, specie in Oriente, non è da ritenersi degno di visibilità. Per questo aderisco all’iniziativa di ”liberal” in Oriente, non è da ritenersi degno di visibilità e nota. Fa parte di quel provincialismo italiano che, purtroppo, è talmente profondo che non riesce ad essere sradicato. Diciamo che i mezzi di comunicazione, come d’altronde l’italiano medio, preferiscono mettere la testa sotto la sabbia piuttosto che evidenziare e gridare quello che accade lontano dalla propria patria. E la “guerra di religione” non fa notizia?

da temere. Mi spieghi meglio cosa intende per “politicamente rilevante”. Ricorda quando, nel 2006, venne ucciso in Turchia don Andrea Santoro, un missionario italiano? La notizia fece eccezionalmente scalpore ma la causa è da attribuire, oltre che alla nazionalità del sacerdote, al fatto che la Turchia aveva chiesto, proprio in quel periodo, di entrare nell’Unione Europea. È solo un esempio di quel-

In alto, l’editorialista del “Corriere della Sera” Angelo Panebianco. Qui sotto e nella pagina a lato, diverse immagini sulla situazione dei cristiani nel mondo

lo che io ritengo “politicamente rilevante”per l’opinione pubblica. Allora c’era una buona fetta del mondo politico, italiano ma anche europeo, che riteneva pericoloso e quindi da esorcizzare l’ingresso di un Paese come la Turchia in Europa. E come mai il Corriere della sera le ha dato così ampio spazio, in prima pagina per giunta, su un argomento di questo tipo? Io ho sempre scritto quello che mi è parso utile scrivere, senza il benché minimo indirizzo da parte di altri, né, tanto meno, per esigenze giornalistiche della testata. Crede che queste persecuzioni continueranno? Mi auguro di no, ovviamente, ma credo che sia difficile che cessino da un momento all’altro. I fatti parlano chiaro. Sembrerebbe strano, ma in un’epoca di risveglio religioso generalizzato sono ricominciate in molti luoghi le guerre di religione ma con una particolarità: in queste guerre i cristiani sono solo vittime, mai carnefici. Crede che il fatto che alla fiaccolata di liberal abbiano aderito personalità di entrambi gli schieramenti politici sia un buon segnale anche per il dialogo interno al nostro Paese? Più che per questioni di dialogo, ritengo che sia un ottimo segnale del fatto che quando si parla di schierarsi contro persecuzioni di tipo razziale o di fede, la nostra classe dirigente è in grado di mettere da parte i dissidi e le controversie politiche interne e di vestire un’unica maglia. Aderisce anche Lei all’appello di liberal? Certamente!

Alle 18.30 davanti al palazzo di Montecitorio: adesioni da parte di tutte le aree politiche e culturali

Stasera la fiaccolata, c’è anche la comunità ebraica Aderisco all’iniziativa di liberal per manifestare solidarietà ai cristiani perseguitati nel mondo. Il diritto di tutti gli uomini di esprimere e praticare liberamente la propria opinione e il proprio credo religioso è un diritto fondamentale dell’uomo. Deve essere rispettato sempre e ovunque, e l’opinione pubblica e le forze politiche non possono rimanere indifferenti di fronte alla negazione o alla violazione di questo diritto.

Renzo Gattegna, presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Poter manifestare liberamente il proprio credo religioso, così come la propria ideologia politica, senza per questo essere perseguitati, è un diritto inviolabile di ogni essere umano, un principio fondamentale per ogni democrazia. Ritengo che l’intolleranza religiosa, in ogni sua espressione, vada fermamente condannata e combattu-

ta. Ciò che è accaduto in questi giorni nello Stato indiano di Orissa pone al centro dell’attenzione di tutti, laici e cattolici, l’importanza di non abbassare mai la guardia e di far sentire la propria voce quando si tratta di difendere le libertà fondamentali dell’uomo. Aderisco dunque con convinzione al meeting di solidarietà per le vittime del fanatismo religioso promosso da liberal nella speranza che questa iniziativa veda la partecipazione di molti

cittadini e contribuisca a favorire lo sviluppo di quel dialogo interreligioso indispensabile per combattere l’intolleranza e la violenza. Eugenia Maria Roccella, sottosegretario al Welfare Anche noi aderiamo alla fiaccolata di liberal. E chiediamo inoltre che vengano presi provvedimenti per tutelare le minoranze cristiane fuori dall’Europa, specialmente quelle più soggette a discriminazioni co-

me quelle di India, Iraq e Cina. Movimento Res (Roma Europa Sociale) Da cattolico credo che paradossalmente quanto accaduto nei giorni scorsi in India sia espressione della grande vitalità della Chiesa, che con la sua presenza nelle zone di frontiera riesce a soffocare il male in una pioggia di bene. Da cittadino e da politico ritengo che il Parlamento debba lavorare per accrescere nella società civile


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Asia, Africa, paesi dell’ex Urss. Il crimine non è solo indiano

La mappa mondiale delle persecuzioni ROMA. La persecuzione non è solo in India.

Pregare perché torni presto la pace: ecco il vero compito dei cristiani

L’appello delle suore di Madre Teresa ari fratelli e sorelle dell’Orissa e di tutta l’India, non dimentichiamo la nostra vera identità, quali amati figli di Dio, nostro Padre. Siamo fratelli e sorelle uno dell’altro, qualunque sia la nostra religione, razza, cultura o linguaggio, ricchi o poveri. Nulla ci dovrebbe separare. Soprattutto, non usiamo la religione per dividerci. L’essenza di tutte le religioni è l’amore, l’amore per Dio e l’amore l’uno per l’altro. La violenza in nome della religione è un abuso della religione. «La religione è un’opera di amore. Non è fatta per distruggere la pace e l’unità. Le opere dell’amore sono opere di pace. Utilizziamo la religione per divenire un solo cuore pieno di amore nel cuore di Dio» (Beata Teresa di Calcutta). Cari fratelli e sorelle, in nome di Dio e della nostra umanità creata per cose più grandi – amare ed essere amati eternamente – in nome della nostra nazione e della nostra nobile eredità, in nome dei poveri, dei bambini, e di tutti i nostri fratelli e sorelle che soffrono come vittime di queste insensate violenza e distruzione, faccio questo appello: preghiamo, apriamo le nostre menti e i cuori alla luce alla luce e all’amore di Dio. Gettiamo via le armi dell’odio e della violenza e indossiamo l’armatura dell’amore. Perdoniamoci gli uni gli altri e domandiamo perdono gli uni agli altri per il male che abbiamo fatto gli uni agli altri e giungiamo ad amarci reciprocamente. Preghiamo per il riposo delle anime di Swami Laxamananda Saraswati e dei suoi collaboratori e di tutti i nostri fratelli e sorelle che hanno perso la loro vita durante queste violenze. Preghiamo gli uni per gli altri e domandiamo alla nostra Madre, la Beata Teresa di Calcutta, di pregare per noi così che possiamo divenire strumenti di Dio, della sua stessa pace, amore e gioia gli uni per gli altri e costruttori della civiltà dell’amore! Suor Nirmala Joshi Superiora delle Missionarie della Carità

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la capacità di accoglienza verso le altre culture, continuando a difendere strenuamente la nostra identità. Ed è per questo che ho deciso di aderire all’iniziativa di liberal contro il martirio dei cristiani, perché come direbbe Madre Teresa di Calcutta: «Quello che facciamo è soltanto una goccia nell’oceano, ma se non ci fosse quella goccia all oceano mancherebbe». Raffaele Calabrò, senatore PdL La libertà della Chiesa riguarda tutti proprio perché la Chiesa è un fattore universale. E pertanto la libertà dei cristiani è una

libertà per l’intera umanità. Per questa ragione aderisco all’iniziativa di liberal: l Marco Ferrini, direttore generale della fondazione internazionale Giovanni Paolo II Il mio auspicio è che questo evento al quale aderisco veda la partecipazione massiccia non solo dei rappresentanti delle istituzioni, ma anche di tanta gente comune che ha a cuore il pluralismo politico e religioso, non solo del proprio paese ma tutta l’umanità. Beatrice Lorenzin, deputato PdL

Molto frequente in Asia e in diversi paesi dell’ex Urss. Senza tralasciare l’Africa. Sono questi i dati che emergono da un rapporto approfondito sul tema della libertà religiosa e sulla violazione dei diritti umani. Aberranti, infatti, diversi episodi di vera e propria persecuzione per motivi di fede. Ogni paese, comunque, ha la sua storia. In cima alla lista dei persecutori, insieme a Myanmar, al Laos, al Vietnam e alla Corea del Nord, rimane la Cina, dove le direttive del partito comunista impongono la carcerazione per cattolici e protestanti non sottomessi allo Stato, mentre continuano a funzionare a pieno ritmo i campi di concentramento e di tortura per i Falun Gong e i buddisti tibetani. Per quanto riguarda l’Africa, invece, non può non saltare agli occhi la situazione dell’Algeria che dopo l’approvazione di una legge che punisce le conversioni dall’islam ha fatto un triplo salto all’indietro. Invariata - e sempre di enorme difficoltà - infine la situazione della in America Latina.

Le situazioni più critiche si registrano senz’altro in Colombia, Venezuela e a Cuba. Iniziamo dall’Europa. Nei territori reduci da decenni di totalitarismo socialcomunista fatica ancora a farsi strada l’idea dell’autonomia della religione dallo Stato, anche se in Georgia e in Russia si registrano alcuni passi avanti sulla strada della denazionalizzazione delle Chiese. Sono ancora difficili da rimarginare, inoltre, le ferite della guerra civile nell’ex Jugoslavia, dove permangono situazioni di ostilità fra le diverse comunità religiose, cristiane e islamiche, spesso identificate con le etnie. Nel suo complesso, l’Europa compie tentativi per gestire con equilibrio l’ingresso di immigrati musulmani e la loro convivenza con le popolazioni locali, ma non si può affermare che finora sia stato raggiunto un modello integrativo efficace. Negli Stati Uniti d’America, invece, la partita si gioca su una diversità di concezione tra religione e istituzioni pubbliche. Non fa eccezione la contrapposizione tra la società nordamericana e le comunità islamiche, che lamentano attacchi contro luoghi d’incontro e di preghiera, ma intraprendono in prevalenza strade legali nel tentativo di introdurre elementi della legge coranica nell’ordinamento, come accade in Canada. Proseguono, nonostante gli sforzi di pacificazione, gli omicidi e le violenze dei terroristi contro esponenti religiosi in Colombia, men-

tre in Venezuela si nota un acuirsi della tensione tra lo Stato e la Chiesa cattolica. A Cuba la situazione generale della Chiesa cattolica rimane di grande difficoltà. È molto forte, infatti, la cultura abortista. Durissima, come dimostrano anche le cronache degli ultimi giorni, la situazione dei cristiani dell’Asia. Colpiti dalla minaccia del terrorismo, molti cristiani hanno spesso scelto la via dell’esilio in Occidente. È il caso dell’Iraq e della Palestina, in cui è alto il rischio di estinzione delle comunità cattoliche di rito orientale. Le gravi violazioni della libertà religiosa che si consumano in alcuni Paesi a maggioranza islamica a danno delle minoranze religiose, dall’Arabia Saudita all’Iran, non devono far dimenticare che le norme che puniscono l’apostasia costituiscono una pesante limitazione anche per gli stessi musulmani. Si confermano di ostacolo anche le sempre più numerose leggi e disposizioni liberticide attuate in vari Stati indiani. In cima alla lista dei persecutori, insieme a Myanmar, al Laos, al Vietnam e alla Corea del Nord, rimane la Cina, dove le direttive del partito comunista impongono la carcerazione per cattolici e protestanti non sottomessi allo Stato, mentre continuano a funzionare a pieno ritmo i campi di concentramento e di tortura per i Falun Gong e i buddisti tibetani.

La ”maglia nera” spetta alla Cina, dove le direttive del partito comunista impongono la carcerazione per i cattolici e i protestanti non sottomessi allo Stato

Infine l’Africa. Pur essendo cessate, dopo la conclusione di alcune guerre civili, le ondate di violenza più intense che avevano caratterizzato l’Angola, la Costa d’Avorio e il Sudan, non è affatto terminato il conflitto all’interno dell’Uganda. Agli sforzi di alcuni Stati, come il Marocco e la Tunisia, di promuovere il dialogo e la tolleranza, si oppone la retromarcia dell’Algeria, che nel 2006 ha approvato una legge che punisce le conversioni dall’islam. Nonostante alcune aperture del Governo, in Egitto sembra radicalizzarsi lo scontro fra fondamentalisti islamici e copti ortodossi, spesso vittime di minacce, tentativi di conversioni forzate e aggressioni di massa. L’avanzata dell’islam radicale si avverte anche in Kenya e soprattutto in Nigeria, dove l’applicazione della legge coranica tende a includere anche i non musulmani ed è stata causa di continue tensioni, sfociate spesso in attacchi contro le comunità cristiane, che hanno causato decine di vittime da ambo le parti.


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Per il governo indiano, la situazione è sotto controllo. Mentre i cristiani dell’Orissa continuano a morire

Diario di un massacro di Vincenzo Faccioli Pintozzi l pogrom anti-cristiano che attraversa in questi giorni l’Orissa sembra non avere termine. Secondo la Chiesa locale, sono 27 le vittime cristiane accertate; oltre 400 i feriti in condizioni gravi; decine di migliaia gli sfollati che scappano da nuove violenze. Un’escalation che è quasi impossibile tenere sotto controllo, con dati e notizie che si rincorrono. Ecco il diario, purtroppo ancora senza una fine, del massacro.

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Sabato 23 agosto: intorno alle 22 viene ucciso il leader fondamentalista indù Swami Laxanananda Saraswati e cin-

(fuori casta). Violenza sessuale ai danni di una suora della diocesi di Cuttack Bhubaneswar che lavorava per i servizi sociali di Nuagaon, a Kandhamal: i fondamentalisti bruciano l’edificio.

Lunedì 25 agosto: alle 7 del mattino alcuni seguaci di Saraswati prendono d’assalto la chiesa di Phulbani, causando gravi danni all’edificio. Sempre la mattina del 25 agosto attaccano la casa vescovile e la curia di Bhubaneswar. Nel pomeriggio vengono uccisi la missionaria laica Rafani Majhi (21 anni), bruciata viva e un uomo, an-

Ventisette vittime accertate, 400 feriti gravi e decine di migliaia di cristiani in fuga. I dati di un pogrom che non accenna a finire que suoi adepti. Un’ora dopo, si registra il primo attacco contro i cristiani dello Stato orientale dell’Orissa: due suore della congregazione del Preziosissimo Sangue di Gesù Cristo a Kothaguda vengono fermate da un gruppo di assalitori, che le fanno scendere da un’auto e le picchiano insieme al conducente. Quasi in contemporanea, un’altra vettura che trasporta delle religiose vicino a Ainthapally, nel Sambalpur, è fermata e data alle fiamme.

Domenica 24 agosto: cominciano gli assalti alle chiese di alcuni distretti dell’Orissa. È il preludio ad un’escalation di violenza che si registrerà lungo tutta la giornata: verso le 17.30 viene assaltato il Centro sociale dell’arcidiocesi di Cuttack Bhubaneswar; la folla incendia auto, moto e tutti i documenti. Alle 18.00 la folla incendia il Centro di Divya e poi attacca il presbiterio di Baliguda, nel cuore del distretto di Kandhamal. Gli assalitori danneggiano il convento e il centro d’accoglienza adiacente. Attacchi simili si registrano verso le 18.30 dello stesso pomeriggio alla chiesa cattolica di Kanjamedi, seguita da altre tre chiese, sempre nella zona. Nella notte vengono dati alle fiamme anche 12 negozi appartenenti a cristiani dalit

ch’egli bruciato vivo a Kandhamal. Nell’attacco viene ferito in modo grave anche un prete. Padre Thomas Challan, direttore del Centro per la pastorale diocesana a Kanjimendi, e suor Meena vengono feriti gravemente durante l’assalto al Centro pastorale. In serata viene saccheggiata e distrutta anche la parrocchia di Sankrakhol. Il

parroco, padre Alexandar Chandi, cerca di fermare gli assalitori. Padre Bernard Digal, si trova dinanzi la folla inferocita e scappa.Viene nuovamente aggredito a fine agosto ed ora è in gravissime condizioni in ospedale. Attaccato anche il convento di S. Giuseppe. Nel distretto di Bargarh, una folla composta da duemila fanatici assalta e distrugge molte chiese, prendendo di mira preti e suore. A Padampur, padre Edward Sequira viene picchiato in maniera barbara: non ha ancora ripreso conoscenza. Da Tiangia arriva la conferma della morte di Vikram Nayak, letteralmente fatto a pezzi da una folla inferocita.

Martedì 26 agosto: tre persone muoiono asfissiate a causa degli incendi appiccati alle loro abitazioni a Tiangia. Verso le 11.30 una folla distrugge la chiesa di Badimunda e cinque case sono date alle fiamme.Verso le 21.30 si registrano scontri a fuoco fra fondamentalisti indù e forze dell’ordine, nei pressi del villaggio di Barakhama: sotto i colpi muoiono altre quattro persone. A Kandhmal vengono distrutti centinaia di edifici e proprietà appartenenti ai cristiani, oltre al danneggia-

mento di numerose chiese. Dalla zona giunge anche notizia di una emergenza umanitaria che si fa sempre più grave.

Lunedì 1 settembre: vengono bruciate la chiesa battista a Durgaprasad; la chiesa cattolica di Chadiapally; le chiese cattolica e battista di Balligada. Lo stesso giorno, alle 4 del pomeriggio, anche la chiesa cattolica di Mondasore, una costruzione artistica di oltre un secolo, è stata attaccata, razziata e poi data alle fiamme. Venerdì 5 settembre (anniversario della morte di Madre Teresa di Calcutta): quattro

Missionarie della carità (l’ordine fondato dalla Beata di Calcutta) vengono aggredite da una ventina di attivisti del Bajrang Dal alla stazione ferroviaria di Durgh (Chhattisghar). I radicali indù le fanno scendere con la forza dal treno, consegnandole agli agenti di polizia mentre inneggiavano slogan anti-cristiani. I fondamentalisti indù accusano le suore di “sequestro e conversione forzata” di quattro bambini, di età compresa fra uno e due anni, che le religiose stavano portando dalla loro casa di Raipur al centro Charity Shishu Bhava, a Bhopal. Le suore hanno i documenti che attestano la loro respon-

La terra di Gandhi non è un monolite:tante fedi oltre quella indù di Federico Zamboni e statistiche sull’India sembrerebbero mostrare una realtà omogenea, attribuendo all’induismo oltre l’80 per cento della popolazione e fissando la cospicua, crescente presenza musulmana non lontano dal 15 per cento.

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Ma l’induismo, in realtà, è un’intera galassia di credenze e di riti, in cui le divergenze possono essere tanto marcate da segnare distanze incolmabili e da alimentare accesi contrasti, o veri e propri conflitti. E l’Islam, a sua volta, è esposto ai rischi di dogmatismo di ogni religione che ritenga di basarsi direttamente sulla “parola di Dio”. In questa situazione, che almeno in particolari circostanze può sfociare nell’intolleranza, merita di essere sottolineata la specificità di una terza religione, che

coi suoi quasi 20 milioni di fedeli è ancora lontanissima sia dall’induismo che dall’Islam. Ma che per la forza di ciò che afferma, e per come lo mette in pratica, potrebbe conquistare molti nuovi adepti sia in India che nel resto del mondo. Fondato nel XVI secolo da Guru Nanak, primo di una linea di dieci guru che si protrasse ininterrottamente fino alla morte di Guru Gobind Singh nel 1708, il sikhismo è radicato principalmente nel Punjab, un piccolo Stato nord-occidentale ai confini col Pakistan. Pur essendo molto saldo nei suoi convincimenti, e rivendicando una sapienza di matrice ultraterrena che si riflette nell’ampio uso dei mantra, il sikhismo, altrimenti conosciuto come “Sikh Dharma”, è assolutamente aperto nei confronti di ogni altro credo. Fin dalle origini, e dalle sue stesse premesse, il “Sikh Dharma” ravvisa nelle altre religioni dei tenta-

tivi, ora più riusciti, ora meno, di avvicinare l’Uomo a Dio, attenuando, in vista del superamento definitivo e della liberazione finale, i pressoché infiniti condizionamenti di carattere fisico e mentale che avviluppano gli esseri umani e impediscono loro di raggiungere una vera e piena consapevolezza di sé e del proprio posto nel cosmo. Nei confronti dei seguaci di altre dottrine, quindi, i sikh non solo non nutrono la benché minima avversione, ma coltivano e manifestano la massima benevolenza. Come conferma anche l’iniziativa con cui Yogi Bhajan, il grande benché controverso maestro sikh che negli anni Sessanta si trasferì in America allo scopo di far conoscere agli occidentali il Kundalini Yoga, promosse nel 1985 l’istituzione della Giornata internazionale di preghiera per la pace. Lo stesso atteggiamento di rispetto e di fraterna attenzione, d’altra par-


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Dove nasce la contrapposizione degli indiani con cristiani e islamici

L’indu-fascismo che sfida Dio e Allah di Francesco Cannatà e basi dell’attuale induismo politico sono nello scritto del 1923 di V.D. Savarkar, Hindutva, Chi è un indù? Punto di partenza è l’equiparazione del concetto di patria a quello di “terra santa” culla della religione nazionale. Ne discende che solo gli indù sono veri patrioti, a differenza di musulmani o i cristiani che hanno le rispettive “terre sante”, in Arabia e Palestina. Ciò che colpisce di più in queste parole, è la contrapposizione all’espressione, sarva dharma sambandham, tutte le religioni sono uguali, l’invito alla tolleranza della tradizione filosofica e religiosa indiana.

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In alto: giovani indiani cercano di rimettere a posto una chiesa nella provincia settentrionale dell’Orissa, devastata nei giorni scorsi dagli estremisti indù. A lato: una manifestazione a favore della comunità cristiana

sabilità verso i piccoli bisognosi di cure.

7 – 8 - 9 settembre: vengono attaccate, distrutte e incendiate 6 chiese; centinaia di case di cristiani venogno devastate e poi bruciate, mentre aumentano i fuggitivi e gli scomparsi. Secondo notizie giunte dalla diocesi di Bhubaneshwar, i cristiani morti sono 27, almeno 400 i feriti gravi e decine di migliaia gli sfollati. La maggior parte dei cristiani fugge nella foresta o nei rifugi di fortuna approntati dal governo; altri subiscono ritorsioni e minacce. Un consigliere del governo afferma che la situazione attuale è “sotto controllo”.

te, si ritrova in un ambito forse ancora più rilevante, in quanto legato non ad una situazione episodica ma a un’attività che si rinnova ogni giorno.

All’interno delle gurdwara, i templi sikh affiancati da ostelli interni o esterni (niwas) e da refettori (langar), i visitatori sono ammessi – o per meglio dire “accolti” – in qualsiasi momento: non solo per assistere alle funzioni religiose ma anche, se lo desiderano, per consumare i pasti e addirittura per alloggiare. Alla base di questa assoluta disponibilità – che si ritrova tanto nelle strutture più grandi e ammirate, come lo splendido Golden Temple di Amritsar, quanto in quelle più piccole e periferiche – c’è il sewa, il servizio gratuito che i sikh sono ben lieti di prestare ogni volta che possono. Con una dedizione, allo stesso tempo sorridente e misurata, che può essere verificata da chiunque in qualunque momento, e che testimonia della bellezza e della profondità di questa fede più di ogni discorso teorico.

La potenza britannica cosciente della complessità politico-sociale della sfera religiosa indiana ha tenuto, fino al 1870, nei confronti di questa una rispettosa distanza. A partire da quella data pratiche politicoamministrative come i censimenti, hanno invece canalizzato lo sviluppo delle identità. Gli individui, registrati secondo appartenenze religiose e di casta, erano trattati di conseguenza. Nello stesso tempo indù e musulmani “nazionalizzando” le rispettive elite costruivano un quadro dell’altro definito dalla religione più che dall’appartenenza nazionale che finiva per porli in contrasto. Questa rappresentazione artificiale delle comunità è giunta sino ai giorni nostri grazie all’istituzionalizzazione delle “diversità comunitarie”, ai diversi significati politici assunti da queste e all’introduzione di forme giuridiche che prevedevano trattamenti diversi per ogni gruppo. È questo lo sfondo in cui in India nasce il “comunitarismo”, corrente politica contrapposta a quella “antimperialista”, maggioritaria nello stato nazionale secolarizzato. Le autorità coloniali sfruttavano le rivalità delle comunità religiose più importanti al punto da utilizzarle, nel 1947, come criterio per la suddivisione del subcontinente indiano. Tendenze separatiste accentuate dalla globalizzazione che oltre ad innovazioni positive, per una parte della popolazione indiana significa alienazione culturale. La reazione – politicizzazione della lealtà religiosa e sfruttamento a fini politici, etnicizzazione e culturalizzazione della nazione - non è caratteristica solo dell’India.

no i suoi sostenitori accademici, è un universalismo. In virtù di queste differenze, i militanti indù non ritengono possibile rivolgere al loro nazionalismo le critiche portate alle sue versioni occidentali e rifiutano di vederlo interpretato in termini di comunitarismo delimitato. Il nazionalismo indiano è idealmente visto come una combinazione di patriottismo e fraternità universale che non esclude. L’induismo è inclusivo, avrebbe assimilato cristianesimo e islam se questi avessero tollerato tale processo: la volontà di separazione non è però accettabile. Per i suoi militanti l’India è una nazione ma anche qualcosa di più. È una civiltà. Così l’induismo è una religione ma non nel senso occidentale. La missione dell’India, una volta che avrà riconquistato pienamente la propria identità, sarà quella di divenire il guru dell’umanità e spiritualizzare il mondo. Durante il XX secolo questa ideologia simpatizzava apertamente con il fascismo. Alla fine degli anni ’30 è soprattutto, M.S. Gowakar, leader dell’organizzazione militante indù Rss, Rashtriya Swayam Seva Sangh, Associazione dei volontari nazionali, - nata per contrapporsi al partito del Congresso subalterno ai musulmani - a richiamarsi ai totalitarismi di destra. Messo fuorilegge nel 1948, un suo membro uccide Ghandi “colpevole” della perdita del Pakistan, l’Rss ritorna alla legalità affiancato da un partito politico, il Jana Sang. Nel 1977 il Jana Sang è parte del Janata Party, formazione che alle elezioni politiche batte il Congresso. La disintegrazione della coalizione nel 1980 spinge il partito a rinascere come Bharatiya Janata Party. Sfruttando le conseguenze dell’affare di Ayodha, il Bjp nel 1996 diventa il primo partito al parlamento e, nel 1998, leader della coalizione di governo. Ayodha per la mitologia indù è la città di Ram, un avatar di Visnhu. Nel 1528 nel luogo rivendicato dai nazionalisti in quanto sede della nascita di Ram, l’imperatore Moghul costruisce la moschea Babri Masjid. Tra gli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, la controversia tornerà a dominare la politica indiana, contribuendo alla crescita nazionalista. Nel 1992 i militanti indù del Bjp distruggono la moschea. L’attacco al luogo di culto islamico scatena ondate di pogrom senza precedenti dalla separazione tra India e Pakistan. Nel 2008 la violenza settaria prende di mira i cristiani non tanto per questioni ideologiche quanto per quelle economiche. I cristiani sono responsabili dell’assistenza a Dalit, ’fuori casta’ - base schiavistica del sistema piramidale sul quale è organizzata la società hindù - e musulmani e buddisti. L’India sforna ingegneri a migliaia. Vive però ancora nel mito dell’economia di villaggio, struttura ossificata che sottrae ogni speranza e alimenta il sistema castale e la sua violenza. Ritenuti responsabili di offrire speranza agli ultimi, i cristiani hanno accettato di farsi carico di questa responsabilità fino al martirio. Come in Orissa.

La mentalità hindutva nasce nel 1870 e si sviluppa come una reazione all’ideologia dello Stato nazionale secolarizzato. Che non tollera l’altro

Per la logica locale di Savarkar l’autenticità dell’India, la sua storia e cultura, possono continuare ad avere senso solo se legate alla religione indù e impregnate del comunitarismo induista. Il nazionalismo indiano, afferma-


pagina 6 • 10 settembre 2008

politica

Cesar Alierta, numero uno di Telefonica, in viaggio a Roma per riprendere le fila dell’affare-telecomunicazioni

Anche in Telecom vincerà l’italianità? di Alessandro D’Amato

d i a r i o ROMA. «Se dopo Alitalia il gover-

g i o r n o

Federalismo, D’Alema: valutare garanzie

no italiano decide per l’ingerenza anche in Telecom siamo davvero allo Stato Imperialista delle Multinazionali». La battuta circola da qualche giorno tra gli operatori finanziari e grazie a internet ha fatto il giro del web, anche se si basa, per ora, soltanto su illazioni. Di certo Cesar Alierta torna dal giro delle sette chiese di ieri senza troppo in mano. Il numero uno di Telefonica, accompagnato, oltre che da Gabriele Galateri di Genola, presidente di Telecom, come era previsto, anche dall’amministratore delegato, Franco Bernabé (con il quale c’è stata ieri una lunga cena d’affari, passata a discutere delle strategie del gruppo) ha incontrato Gianni Letta, il ministro dello Sviluppo economico Claudio Scajola e il sottosegretario alle telecomunicazioni Paolo Romani, oltre a Corrado Calabrò e Antonio Catricalà, responsabili dell’Antitrust e dell’Authority delle Tlc. «Visite di cortesia», secondo lo spagnolo, mentre il presidente di Telecom ha detto che è andato «tutto bene».

Massimo riserbo sui contenuti, tranne che per una nota uscita dal dicastero di Scajola, dalla quale si evince che Alierta ha sostenuto che la rete di nuova generazione è l’infrastruttura fondamentale per la competitività e l’innovazione, di cui l’Europa deve tornare ad essere leader nel mondo, mentre il ministro ha ricordato le iniziative già assunte dal governo per favorire la diffusione della banda larga. Eppure, sotto le ceneri, il fuoco cova nell’azienda ex monopolista dei telefoni. Non è un mistero che Alierta sia scontento per come vanno le cose sul fronte italiano. Da una parte, l’eccessivo deprezzamento del titolo, che la scorsa settimana ha toccato i suoi minimi da dieci anni: visto il prezzo d’acquisto delle azioni da parte di Telco da Tronchetti, Telefonica dovrebbe mettere in conto in bilancio ad oggi una minusvalenza di oltre 2 miliardi di euro. Troppo, anche per il gigante spagnolo (che probabilmente avrà attuato una ricopertura, comprando in Borsa). Dall’altra, una gestione da parte del management che non può che destare perplessità nell’ottica di Alierta: problemi in Sudamerica, causati dagli scarsi ricavi brasiliani e dai problemi proprietari in Argentina. In mezzo, l’Italia. Dove Telefonica ha fatto capire di essere assolutamente contraria a qualsiasi scorporo della rete, anche per non creare un pericoloso precedente europeo, dopo quello che è accaduto in Gran Bretagna. Ma la soluzione Open

d e l

«La parola federalismo è molto bella ma bisogna vedere i conti e capire dove sono le garanzie. Noi vogliamo discutere nel merito e il governo deve prresentare i conti e deve capire come si finanzia il godimento di diritti essenziali». Lo ha detto ieri Massimo D’Alema intervenendo alla presentazione del Festival della salute (a Viareggio dal 26 al 28 settembre). «Non so se il federalismo segnerà la fine dello Stato assistenziale - ha detto D’Alema - ma serve una discussione non ideologica, bisogna entrare nel merito. Bisogna fare un po’ di conti anche perché ho qualche dubbio che si possa fare un federalismo che dia più soldi alle Regioni più ricche e non tolga alle Regioni del Mezzogiorno. A meno che ci sia un aumento della pressione fiscale o ci sia mago Zurlì... In un paese civile, il cittadino che nasce a Lecce o Catanzaro deve avere gli stessi diritti di chi nasce a Varese o Vigevano. Siccome già oggi non è così, dobbiamo fare in modo che il federalismo ci aiuti a risolvere i problemi avendo a cuore la tenuta nazionale».

Prostituzione, procede il ddl Carfagna

A sinistra, il numero uno di Telefonica Cesar Alierta

Approderà domani in Consiglio dei ministri il ddl «misure contro la prostituzione» a firma del ministro per le Pari opportunità, Mara Carfagna. Il provvedimento ha ricevuto il via libera nella riunione del preconsiglio, a quanto si è appreso senza modifiche. Secondo il ddl, prostituirsi continuerà a non essere un reato ma sarà vietato farlo per strada. Per i trasgressori, sia le lavoratrici sia i clienti, sono previste in egual misura sanzioni, che possono arrivare anche all’arresto.

Csm: la Forleo va a Cremona

Il governo avverte la compagnia spagnola: «Non vogliamo svendere una risorsa strategica» Access, presentata in pompa magna da Bernabé, non sembra convincere appieno la Commissione europea (più “morbida” l’Authority italiana). Il governo italiano è sulla stessa linea: «Se un principio regolatore è reso cogente al punto da non rendere l’investimento remunerativo, è buon servizio per la regolazione ma pessimo per il Paese», ha dichiarato ieri Romani, insistendo poi anche sul Next Generation Network, l’ammodernamento dell’infrastruttura che sta andando avanti in Europa ma non in Italia, dove la percentuale di penetrazione della banda larga è tra le peggiori nel Vecchio Continente.

Musica per le orecchie di Alierta, dunque. Ma non ci sono tutte buone notizie: perché attraverso le vie informali il governo ha anche fatto sapere agli spagnoli che di fare un

passo più grande di quello di mantenere la maggioranza in Telco non se ne parla. Né Berlusconi né Tremonti hanno intenzione di «svendere» una «risorsa strategica» come Telecom. Ma l’azienda e gli azionisti non vivono momenti tranquilli: i Fossati hanno chiesto un nuovo piano industriale, accodandosi a Telefonica così come ai Benetton. I quali stanno considerando di vendere le 300 torri di comunicazione wireless proprietà di Atlantia a Dmt in cambio di una consistente partecipazione nella società.

La Terza Commissione del Csm ha dato ieri mattina il suo via libera, all’unanimità, per il trasferimento di Clementina Forleo al Tribunale di Cremona. La delibera, dunque, dovrà per diventare esecutiva avere l’ok definitivo del plenum di Palazzo dei Marescialli, cosa che avverrà nei prossimi giorni. Il trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale di Clementina Forleo, che finora ha svolto le funzioni di giudice per le indagini preliminari a Milano, era stato approvato dall’organo di autogoverno della magistratura nello scorso luglio, a seguito di una lunga istruttoria della Prima Commissione, inerente le dichiarazioni rilasciate dal giudice in pubblico e in trasmissioni televisive su presunte pressioni ricevute da ambienti istituzionali. La scelta della sede di Cremona era stata indicata al Csm dalla stessa Forleo.

Una mossa che farebbe da apripista all’acquisto di quelle di Telecom, visto che da più parti si è convinti che soltanto una vendita di qualche “gioiello” potrebbe aiutare gli azionisti a trovare i soldi per ridurre drasticamente l’indebitamento e fare investimenti. Anche se gli esperti come Stefano Quintarelli dicono che una mossa del genere andrebbe a cozzare con tutti i problemi della rete, quali l’erodersi dei margini di guadagno e l’”accetta” regolatoria europea. Intanto, qualcosa si potrebbe muovere anche a livello di proprietà, visto che Telecom fa parte della grande partita del capitalismo italiano che si gioca attorno a Mediobanca e Generali. E se succedesse davvero, forse a quel punto per il governo italiano fare la faccia dura nei confronti degli spagnoli potrebbe non essere così facile.

Ocse: in Italia meno laureati del Cile In fatto di laureati e specializzati, l’Italia si colloca al di sotto della media di Cile e Messico, in una classifica impietosa che lo vede fanalino di coda insieme a Brasile, Turchia, Repubblica Ceca e Slovacchia. E’ quanto emerge dall’ultimo «Education at a glance», presentato ieri dall’Ocse a Parigi, che conferma uno spaccato piuttosto triste del sistema-educazione nazionale: pochi investimenti pubblici e privati, limitato accesso all’istruzione superiore, poca specializzazione, bassi stipendi degli insegnanti. Cifre alla mano in Italia solo il 17% della popolazione tra i 24 e i 34 anni ha conseguito una laurea, percentuale che scende al 9% se si prende in considerazione la fascia di eta’ tra i 55 e i 64 anni. Nell’Ocse invece l’educazione terziaria riguarda il 33% dei giovani tra i 25 e i 34 anni e il 19% dei piu’ anziani.

Carceri, Veltroni: braccialetto è indulto «Diciamo le cose come stanno, il braccialetto elettronico è un indulto mascherato». Così ieri il segretario del Pd, Walter Veltroni, nel corso di una conferenza stampa sulla scuola, ha giudicato la proposta del Guardasigilli di utilizzare il braccialetto elettronico come misura per far fronte al problema del sovraffollamento delle carceri.


economia

10 settembre 2008 • pagina 7

Parla il leader dei piloti: poche linee, pochi soldi, niente cargo ROMA. Irricevibile. Una parola secca, ma esaustiva che dice tutto sullo stato d’animo dei piloti Alitalia di fronte alla proposta di rinnovo contrattuale avanzata dall’amministratore delegato della nuova compagnia (la Cai), Rocco Sabelli, ai sindacati non solo dei piloti, ma anche degli assistenti di volo e del personale di terra. Contratto unico di categoria, senza alcuna distinzione tra pilota e steward, tra hostess e manutentori, ha affermato la Cai. Una proposta che è stata subito rispedita al mittente. È un po’ come se nel settore ospedaliero i medici avessero lo stesso contratto, dal punto di vista normativo, del personale paramedico e ausiliario. Giusto? Sbagliato? Sta di fatto che la posizione di netta chiusura dei piloti, soprattutto del sindacato storico l’Anpac - nasce da più lontano e non è stata certamente una mossa a sorpresa.“«Il nostro no – spiega infatti il presidente del sindacato piloti, Fabio Berti – riguarda anche alcuni aspetti del piano industriale, non solo l’aspetto contrattuale». Non è un mistero, infatti, che a mettere sul piede di guerra Anpac e Unione piloti siano state le voci circolate, nei giorni precedenti alla prima tornata di trattativa, sulla cifra di esuberi (700). Una cifra giudicata “inaccettabile” da entrambe le organizzazioni di categoria. Ora è tutto fermo, in attesa del nuovo incontro ufficiale previsto per oggi.

«Ecco perché diciamo no a questa Alitalia» colloquio con Flavio Berti di Vincenzzo Bacarani

stati chiariti alcuni aspetti fondamentali del piano industriale e il secondo è che non si può

La nuova compagnia va indietro. Non siamo d’accordo a cancellare le rotte per Los Angeles e l’India. E poi, come si fa a fare lo stesso contratto a noi, agli assistenti di volo e a chi fa manutenzione? Comandante Berti, non siete stati un po’ troppo rigidi nel confronto con l’azienda? Direi di no e per due ordini di motivi. Il primo è che non sono

stravolgere il contratto. Il piano industriale non vi convince? Noi aspettiamo ancora risposte su alcuni punti fondamentali che riguardano la flotta di

medio raggio. Cioè? Vorremmo ottimizzare il piano predisposto per il recupero degli aeromobili. Siamo pronti a dare il nostro contributo per scegliere gli aerei giusti da tenere perché per quanto riguarda gli investimenti futuri sull’Airbus 320 non possiamo che essere d’accordo: è il migliore di cui si può disporre al momento. E per quanto riguarda il lungo raggio? Qui ci sono dei problemi. Ci sembra che ci sia una prospet-

tiva di arretramento. Non siamo d’accordo infatti nell’annullare la linea per Los Angeles, così come non siamo d’accordo nella mancanza totale di un presidio in India, una nazione che ha grandi prospettive di sviluppo. Eppure su quest’ultimo aspetto è d’accordo con noi anche Colaninno. Ma c’è ancora un altro problema sul piano industriale. Quale? Il cargo. La nuova società lo vuole abbandonare, eppure le più grandi compagnie straniere stanno investendo più nel car-

Intanto il ministro Sacconi annuncia: «Chiuderemo la trattativa entro giovedì»

Air France conferma: noi solo soci di minoranza ROMA. Air France è pronta ad acquisire una quota di minoranza in Alitalia, a condizione che sia redditizia. Lo ha detto l’amministratore delegato della compagnia aerea francese, Jean-Cyril Spinetta, secondo quanto riferisce l’agenzia Bloomberg. Spinetta ha invece negato l’esistenza di un patto per assumere il controllo di Alitalia, come prefigurato nei giorni scorsi da indiscrezioni di stampa. Intanto il governo è pronto a mediare con i piloti Alitalia e annuncia che la trattativa si chiuderà entro due giorni. La previsione

è del ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, dopo l’abbandono del tavolo a Palazzo Chigi da parte di nove sigle sindacali. «L’azienda è consapevole che i piloti sono una parte importante e presteranno attenzione alle loro ragioni. Ci vuole, però, capacità d’ascolto reciproco». Da Bruxelles intanto, il commissario Ue ai Trasporti, Antonio Tajani, intervenendo ad un’audizione della commissione Trasporti del Parlamento dell’Unione, ha chiesto «a tutti i soggetti di rispettare le normative comunitarie sul testo, sulla sua attuazione

e sul piano industriale». Tajani ha annunciato che oggi i responsabili dei ministeri interessati al piano Alitalia si incontreranno con i tecnici della Commissione per valutare gli aspetti tecnici del decreto di modifica della legge Marzano. Ha poi invitato il governo a rispettare le normative Ue, in particolare nell’attuazione dello stesso decreto. «Non voglio far fallire né l’Alitalia né l’Olimpic Airways» ha detto Tajani, assicurando che «la sua posizione è la stessa, che esaminerà entrambi i casi con lo stesso spirito».

go che nel settore passeggeri. Non solo, ci risulta che proprio BancaIntesa (l’advisor nell’elaborazione del piano, ndr) ha già comprato il 33 per cento della quota dell’Alis, che sarà la nuova compagnia di bandiera del settore merci. Non comprendiamo perché noi dobbiamo abbandonare il cargo per farlo rinascere in un’altra società nella quale entra peraltro proprio BancaIntesa. Torniamo al contratto: è proprio tutto da bocciare? Mah, le posizioni al momento sono molto lontane. È inconcepibile che si possa proporre un contratto unico di categoria. Noi siamo piloti e apparteniamo alla federazione internazionale dei piloti. Non si possono mettere tre categorie ben distinte per compiti, responsabilità e impegni sotto uno stesso cappello. Riteniamo che questa dell’azienda sia una presa di posizione ideologica che non possiamo accettare. I problemi dei piloti sono diversi da quelli di altre categorie di lavoratori. Altri problemi? Certamente, ma forse affrontabili e risolvibili. La nuova società vuole tornare su un vecchio modello di retribuzione che si basa sul computo delle ore volate. Invece noi proponiamo di mantenere lo stato attuale che prevede i pagamenti di indennità di volo giornaliere indipendentemente dalle quantità di tratte (collegamenti, ndr) effettuate in giornata dal pilota. Ma, ripeto, questi due aspetti si possono affrontare, discutere e risolvere. Noi siamo disponibili. C’è però anche una questione di soldi, o no? Anche sull’aspetto economico noi dell’Anpac siamo disposti a un confronto. Teniamo però presente una cosa molto importante: il nostro stipendio è attualmente inferiore del 32,1 per cento rispetto alla media dei piloti europei. Non chiediamo la luna, ma certamente riteniamo giusto un riallineamento delle retribuzioni. Nell’ambito degli esuberi ufficiali, che sono oltre tremila, sono davvero settecento i piloti da tagliare? Su questo argomento non ci è stato detto nulla nel corso degli incontri ufficiali. Riteniamo però che la quantificazione della cifra di esuberi dei piloti potrà essere determinata soltanto dopo la definizione completa del piano industriale e verificata anche alla luce della trattativa sul rinnovo contrattuale. Quindi, noi dell’Anpac attendiamo, pronti a fare la nostra parte. Ma, sia ben chiaro, al contratto unico diciamo no.


pagina 8 • 10 settembre 2008

politica

Il partito va alla fusione privo, di fatto, del suo leader. Sarà complicato anche negoziare i candidati alle amministrative e i futuri dirigenti locali

Gli orfani di Fini Perché An, ormai azzerata nel Pdl, trova identità solo nella nostalgia del Msi di Errico Novi

ROMA. «Siamo rimasti piacevolmente sorpresi dalle dichiarazioni di La Russa e Alemanno. Pensiamo di invitarli al sacrario di guerra dei caduti della Rsi alla prossima cerimonia». L’annuncio di Raffaella Duelli, presidente dell’associazione che ha fatto aprire il “Campo della memoria” di Nettuno per i caduti della Repubblica sociale, può suonare come una minaccia. Se davvero il ministro della Difesa e il sindaco di Roma si presentassero alla commemorazione si scatenerebbe il putiferio. Il che dimostra come i massimi dirigenti di An non abbiano particolare dimestichezza con l’elaborazione del passato. Non si metterebbero altrimenti nella condizione di finire incastrati. Non è una questione di buonafede. Semplicemente in questi anni, da Fiuggi in poi, non ci sono state grandi occasioni pubbliche per definire il rapporto della destra di oggi con il fascismo. Se ne doveva parlare il meno possibile, per non inciampare nel rischio dell’equivoco e della strumentalizzazione. Adesso forse il superamento del tabù non implica particolari penalizzazioni. Ma solo perché si confluisce ormai tutti nel Popolo della libertà, e la coscienza storica di An subirà uno strano effetto candeggina. Il rischio in realtà è un altro: perdere ogni identità, anche quella faticosamente costruita in questi anni. È possibile che prima di diluirsi in un’altra vicenda politica, La Russa e Alemanno abbiano sentito un bisogno comune ad altri, nel loro partito: rendere omaggio a un passato che non può essere disperso nella polvere. Fosse così, sarebbe cosa commendevole. Non c’è dubbio però che sarebbe stato meglio non arrivare al matrimonio con Forza Italia carichi di tante contraddizioni. «Non capisco perché il ministro e il sindaco abbiano fatto quel tipo di intervento», racconta un parlamentare di An, sono meravigliato e credo che di argomenti del genere debbano occuparsi gli storici, non i politici. Che ne parlino Fisichella, Veneziani: la classe dirigente di un partito dovrebbe essere concentrata su altro. In questi ultimi tempi tra di noi non avevamo mai discusso del rapporto con il fascismo». E forse è questo il punto. L’autocensura non ha funzionato. Lo stesso interlocutore riconosce che «forse non abbiamo dedicato lo spazio e il tempo che sarebbero stati necessari alla

riflessione sul passato. Ma ripeto: credo che tutti noi in questo momento dovremmo essere attenti all’oggi, e non a questioni relative alla storia di 70 anni fa».

Sarà impossibile sapere cosa pensa di questo strano corto circuito Gianfranco Fini. Di certo non può parlarne in pubblico. Ed è questo in realtà l’altro drammatico problema di Alleanza nazionale.

Alla manifestazione al Colosseo dell’ottobre dell’anno scorso An tentò di rivendicare la propria identità e autonomia politica. Adesso rischia di vedersi annientata nella fusione con Forza Italia, insidiata anche dal potere contrattuale della Lega, enormemente cresciuto negli ultimi mesi anche a scapito del partito di Fini

Tra i parlamentari finiani c’è chi mugugna per le dichiarazioni di La Russa e Alemanno: «Lascino agli storici il loro lavoro». Il presidente della Camera non può permettersi neanche questo lusso Nel pieno della fusione con Forza Italia il leader deve restare in silenzio. Mantenere un contegno al di sopra delle parti. Non dedicarsi alla complicata ricerca degli equilibri con i berlusconiani. Almeno, non può farlo pubblicamente. «Lo farà al momento opportuno, perché il fatto che il leader sia ancora Fini non è in discussione», assicurano i parlamentari a lui più vicini. Ma avere la possibilità di intervenire pubblicamente sarebbe tutt’altra cosa. «Gianfranco ha fatto una scelta importante, che gli assicura un prestigio istituzionale straordinario», è la rassicurante interpretazione dei finiani. Intanto però, con le imbarazzanti sconfessioni sul voto agli extracomunitari, si è visto quanto sia complica-

to per il presidente della Camera essere presente nel dibattito. Non gli risulterà certo più agevole far sentire il proprio peso quando si dovranno scegliere i coordinatori locali del futuro Pdl.

Figurarsi se la terza carica dello Stato potrà partecipare ai tavoli per le candidature alle Amministrative. In un’intervista pubblicata ieri da Libero, Ignazio La Russa ha ricordato alla Lega che fino a poche settimane fa si parlava di una federazione nel centrodestra. E che senza impiccarsi alle definizioni, «delle regole minime all’interno dell’alleanza ci vogliono, anche sui candidati e le alleanze per le elezioni di primavera». Non è un caso che An si mostri così re-


politica

10 settembre 2008 • pagina 9

Rumors nel Pd: il capro espiatorio è l’ex ministro della Difesa

«Ma ’ndo va Parisi, pe’ prati...» di Marco Palombi

ROMA. «Parisi se ne va dal Pd per dar vita a un nuovo Ulivo per le europee? Ma non farà nemmeno un bonsai…». A giudicare dal tono della battuta Beppe Fioroni non prende molto sul serio i rumors che vogliono l’ex ministro della Difesa e gli altri ulivisti intenzionati ad abbandonare il Partito democratico. L’ex democristiano si lascia scappare pure un commentaccio quando, ricordando gli elogi a Berlusconi e la passione per il bipolarismo, sibila: «Del resto lui è una personalità bipolare… ma non nel senso del disturbo psichiatrico». Stessi toni circolano nel resto del partito, che oramai vive Parisi come una sorta di fastidio neanche troppo necessario. In camera caritatis anche i dirigenti veltroniani, che non vogliono riattizzare pubblicamente la polemica, liquidano la faccenda con qualche asprezza. Uno dei fedelissimi romani si limita a un «ma ‘ndo va Parisi… pe’ prati…» (a chi vive fuori dal raccordo anulare basti sapere che è un’espressione di vivo scetticismo sulle capacità del leader ulivista). C’è poi un’area senza corrente ma di derivazione prodiana che ieri, nelle persone di Magda Negri e Sandra Zampa, ha invitato i vertici del partito a tentare una ricucitura con l’ideatore dell’Ulivo.

partito liquido e plebiscitario, cioè Veltroni, ha da tempo cambiato bandiera pur di garantirsi un successo senza ombre alle primarie. Ma cosa c’è di vero nella voce che Parisi è pronto alla creazione di un nuovo Ulivo? A quanto si dice dalle parti del professore assolutamente nulla. La proposta avanzata dall’ex ministro a Firenze non è affatto questa, spiegano i suoi: la lista “Uniti per l’Europa”- che dovrebbe riunire tutte le componenti del vecchio Ulivo - avrebbe senso solo se vi partecipassero anche i democratici. Altrimenti sì, sarebbe solo un bonsai. C’è da dire che una parte di quelli che si riconoscono in Parisi è profondamente arrabbiata con Veltroni, giudica il Pd irriformabile e preme per una nuova diaspora che metta insieme prodiani, Di Pietro e chiunque ci stia. I segnali in questo senso non mancano: la presenza di Parisi a piazza Navona, l’adesione di tutti gli ulivisti al referendum contro il lodo Alfano, il sospetto con cui viene guardato il dialogo con Berlusconi. Senza contare che il professore sarà l’unico leader nazionale del Pd invitato alla festa di Idv che si apre venerdì a Vasto. L’ex pm, però, sarebbe felice di accogliere i prodiani nel suo partito, ma coi sondaggi che lo danno all’8% non ci pensa nemmeno ad annullarsi nel calderone del nuovo Ulivo.

Dopo le critiche mosse al partito, oggi è visto e additato come una sorta di fastidio neanche troppo necessario

frattaria a un’approvazione lampo del federalismo fiscale, invocata da Umberto Bossi in vista della manifestazione di sabato a Venezia. In questo momento il potere del Carroccio è enormemente superiore rispetto a quello di Via della Scrofa e la circostanza rischia di riflettersi pesantemente sulla scelta degli uomini da schierare alle amministrative. Tanto più che in quella occasione saranno inevitabili accordi con l’Udc, a sua volta più libera di negoziare rispetto al passato. Riguadagnare terreno, per i finiani, non sarà facile.

ganizzato come nelle precedenti edizioni al Parco del Celio di Roma. Sarà forse doloroso per i dirigenti di via della Scrofa incrociare gli esponenti di un mondo variegato che rischiano a loro volta di confondersi irrimediabilmente dentro il calderone del partito unico. Ci sarà la consegna di un premio a Clemente Russo, medaglia d’argento alle Olimpiadi nel pugilato, e se ne occuperà tra gli altri Claudio Barbaro, il presidente di Alleanza sportiva, associazione che riunisce centinaia di circoli vicini, come gli stessi giovani del partito di Fini, Barbato rappresenta una rete che Da oggi se ne parlerà anche alla rischia di scomparire all’improvviso meeting dei giovani di An, Atreju, or- nel nulla.

La cosa, però, non è all’ordine del giorno e per un motivo opposto alla logica. Le critiche di Parisi non sono affatto campate in aria: l’ex ministro ha un’idea chiara su politica delle alleanze e missione del partito che all’attuale leadership (intendendo tutta la burocratja ex Ds ed ex Dl) manca del tutto. Franco Marini l’ha detto chiaramente, anche se solo per sottolineare l’inconsistenza dell’agitarsi di Massimo D’Alema: «A Parisi riconosco la coerenza. La sua è una posizione politica, altre non ne vedo…». Il Partito democratico insomma, come ammettono a bassa voce anche i suoi rappresentanti più avvertiti, non ha la forza e la voglia di sottoporsi allo psicodramma di una riflessione collettiva sulla sconfitta e sul futuro invocato dagli ulivisti (con, sovrappiù, il fantasma di Prodi ad aleggiare sulla discussione), anche perché gli umori della base e dell’elettorato non virano esattamente al bel tempo. I dirigenti del Pd la faccenda se la vogliono risolvere da soli, contando tessere e delegati alla vecchia maniera. D’altronde l’unico fautore del

Parisi, comunque,

per ora vuole condurre la battaglia dentro il partito. Anche perché nella sua faretra è rimasta almeno una freccia: il ricorso contro le decisioni assunte all’Assemblea nazionale del Pd del 20 giugno presentato da Mario Lettieri alla Commissione di garanzia del partito. Fu in quell’occasione che l’Assemblea eletta con le primarie rinunciò ai poteri assegnatile dallo Statuto a favore della Direzione, nuovo organo esecutivo del partito in cui vennero cooptati tutti i leader secondo una rigida spartizione correntizia. Il fatto è che quella decisione venne presa, come sa chiunque fosse presente, in aperta violazione dello regole, che prevedono per le modifiche statutarie la presenza della maggioranza assoluta dei componenti dell’Assemblea (la presidenza rifiutò persino di verificare il quorum). Se i Garanti dessero ragione a Parisi, le decisioni dell’Assemblea verrebbero annullate e l’attuale assetto del partito stravolto. E gli stracci volerebbero davvero.


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politica Un momento della tradizionale manifestazione leghista sul Po. È un appuntamento ormai ricorrente, ogni settembre, e segna il punto più alto delle rivendicazioni federaliste del movimento

segue dalla prima La politica, ma anche la storia, non si fanno con i “se”: e tuttavia nella Lega rimane sottotraccia, pur se lungamente inespressa, la sensazione di una perdita ingiusta, un sacro diritto vulnerato, un naturale obiettivo che solo «l’iniquità dei tempi e degli uomini» ha impedito di venire raggiunto. E se c’è un tempo nel quale questa dimensione riaffiora prepotente è durante la vendemmia di settembre. Sempre in questa stagione la Lega alza i toni, minaccia sfracelli, ed esaspera l’identità: la fibrillazione è funzionale all’appuntamento di Venezia, dove, tra ampolle e gondole, si consuma la necessaria liturgia di massa autoreferenziale e politicamente sterile (a differenza dei più propositivi appuntamenti sul pratone di Pontida).

Comunque, fatta la tara alle esigenze contingenti, è evidente che gli attacchi ripetuti al ministro Gelmini e gli altri numerosi elementi di frizione con il resto dell’alleanza, manifestino un malessere più profondo. Il ministro delle Riforme Umberto Bossi, totus politicus, sente l’urgere dei tempi e avverte il franare delle sponde (a cominciare dall’ondivaghezza solipsistica dell’arcipelago veltroniano) sulle quali aveva fatto conto per forzare la mano e portarsi a casa almeno il federalismo fiscale. Bandiera da sventolare, ma meccanismo comunque di difficile costruzione, nel complesso di una giungla di tasse e di diverse competenze e vocazioni degli enti locali. Rinunciando all’unica autentica rivoluzione di contenuto (ovvero la

La debolezza di Veltroni impone il pressing su Berlusconi

Il caso Lega: perché Bossi ha paura di Giuseppe Baiocchi

Federalismo: ancora un rinvio del governo ROMA. Slitta ancora il via libera preliminare al disegno di legge collegato alla Finanziaria sul federalismo fiscale. L’esame del ddl non è stato inserito all’ordine del giorno della seduta del Consiglio dei ministri di domani, ma il ministro per la Semplificazione Normativa, Roberto Calderoli, dovrebbe illustrare ai colleghi di governo le ultime novità della bozza. Successivamente, sempre nella mattinata di domani il ministro ha già in agenda un incontro con l’ufficio di presidenza della Conferenza delle Regioni, guidata da Vasco Errani. Si tratta di un incontro che segue quelli già svolti con le Province e i Comuni la scorsa settimana, e che sarà propedeutico poi alla Conferenza Unificata del prossimo 18 settembre che dovrà esprimere un parere sul ddl. È probabile quindi che fra una settimana, giovedì 18 o al massimo venerdì 19 settembre, possa arrivare il primo disco verde del Consiglio dei ministri al fedralismo fiscale. Intanto, le Regioni e gli enti locali stanno mettendo a punto un pacchetto di emendamenti al testo che domani sarà consegnato a Calderoli. Ad ogni modo, la riforma è stata al centro della cena di lavoro, ieri, tra il presidente Silvio Berlusconi e Umberto Bossi. «Il presidente del Consiglio sa bene – ha detto il leader del Carroccio – che l’unica alternativa al federalismo sarebbe la secessione. Il Nord ha milioni di uomini, non ha paura di niente, certamente non di battersi. Meglio non farlo incazzare». Bossi ricorda come il Nord sia in grado di «fare la secessione, ma certo sarebbe meglio poter scegliere una via democratica alla libertà».

piuttosto la feroce concorrenza nel presidio delle aree elettorali più o meno sensibili (e il caso della sicurezza ne è l’esempio più esplicito). In realtà il patto di ferro tra Bossi e Berlusconi (con la propaggine caudataria di Fini) si reggeva e si regge su un assunto di vera politica: e cioè il sequestro nel proprio recinto dei voti moderati e la costruzione di una “terra bruciata” per impedire in ogni caso l’affermazione di presenze di centro, magari cristianamente ispirate, com’è nella natura profonda e ineliminabile del Paese. L’insistenza sulle leggi elettorali con la “nomina” dei parlamentari dall’alto e il rifiuto assoluto delle preferenze (e avverrà anche per le prossime elezioni europee) ne è l’artificio più chiaro e inequivocabile.

Settembre è il mese in cui tradizionalmente i leghisti alzano la voce. Ma questa volta il vero obiettivo è riuscire a ottenere un risultato ancora mai raggiunto: la presidenza delle regioni Lombadia, Piemonte e Veneto “imposta di famiglia” sulla base di prossimità territoriale) riemergono anche in questo progetto le contraddizioni della stessa Lega: non riuscendo a conquistare le Regioni, salva e rivalorizza con la leva fiscale le Province, forse al solo fine di accontentare il ceto corposo dei suoi amministratori: ma tant’è, saremo l’unico Paese al mondo che farà il federalismo, mantenendosi persino i prefetti, con buona pace dei conti e delle relative imposizioni sui cittadini…

E il conflitto di interessi tra le diverse forze della maggioranza (con la corsa in parallelo tra federalismo e giustizia, tra manovra economica e cambiamenti nell’istruzione) trasmette il senso non tanto di una competizione virtuosa, quanto

Bossi, che dei due è il più strategico, ha capito che il tempo incalza e, come un leone in gabbia, manifesta la sua fretta: a differenza della Corte di Arcore, immersa nella sua beatitudine autocontemplativa, ha intuito che qualcuno ha già messo sull’etichetta del prodotto di governo la data di scadenza («da consumare preferibilmente entro il …»). Saranno forse le parole del Papa a Cagliari, quando ha chiesto alle diocesi e ai movimenti di formare presto una nuova generazione di evangelizzatori dell’economia e della politica? Chissà, ma dalle prossime mosse del Senatur si capirà se comincia ad avere davvero paura…


politica

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Riforme/3. Il presidente dell’Unione delle Camere penali per la separazione delle carriere ROMA. «Sulla giustizia gli schieramenti politici si stanno studiando. Al momento non si registrano proposte concrete, ma questa fase va sottolineata positivamente». Oreste Dominioni, presidente dell’Unione delle Camere penali, guarda con interesse a questa nuova fase della politica. Presidente, è la volta buona? Sarei cauto, sicuramente c’è fermento, ma siamo ancora ai preliminari. Quanto più forte e serrato sarà il confronto, tanto più si potranno ottenere risultati positivi. Sto seguendo con interesse anche l’iniziativa della delegazione parlamentare radicale che ha presentato un documento programmatico sottoscritto sia da esponenti del centrodestra che del centrosinistra. Come bisogna procedere? Credo sia necessario che la proposta del governo venga sviluppata confrontandosi con tutte le componenti in modo paritetico. Che cosa intende dire? Bisogna chiudere con il passato, quando i politici avevano un rapporto privilegiato con la magistratura associata. Occorre, invece, lavorare perché si possa arrivare a posizioni ampiamente condivise. Anche il seminario dell’Udc ha evidenziato alcune sensibili divergenze. Sarà poi compito dei politici sintetizzare nella maniera migliore tutte le istanze. Domani il Consiglio dei ministri esamina il decreto legge in materia di funzionalità del sistema giudiziario. Alfano, qualche giorno fa, ha annunciato di voler procedere, al momento, alla riforma con leggi ordinarie. Le sembra il metodo giusto? Vi sono delle misure che possono essere adottate a Costituzione invariata, altre, invece, che incidono sui principi della Carta costituzionale. La linea dell’Unione delle Camere penali è quella di considerare la riforma nel suo complesso. Così, però, diventa più complicato procedere. È l’unico modo se si vuole affrontare seriamente la riforma della giustizia. Altrimenti il risultato sarà sempre parziale. Si potrebbe iniziare dal processo civile? Certo. Quella modifica ha minori implicazioni di ordine costituzionale. Si tratta fondamentalmente di una buona riorganizzazione. E per quello penale? Non si può immaginare una riforma del processo penale senza pensare alle modifiche costituzionali. La separazione delle carriere e la modifica del

«Togliere ai magistrati il potere di autogoverno» colloquio con Oreste Dominioni di Franco Insardà

Secondo il presidente dell’Unione delle Camere penali, Oreste Dominioni, bisogna evitare che il braccialetto elettronico diventi una sorta di gogna mediatica Csm sono indispensabili. Anche l’obbligatorietà dell’azione penale? No. Perché una nuova disciplinata dell’obbligatorietà dell’azione penale che attui il principio costituzionale può essere fatta con legge ordinaria. In altri termini la legge ordinaria deve stabilire i criteri per l’esercizio concreto dell’azione penale tenendo conto che le risorse giudiziarie anche implementate non sono mai in grado di coprire l’intera domanda di giustizia. Ma come si affronta il problema denunciato della discrezionalità del pubblico ministero. Lo si affronta proprio in quanto i criteri dell’azione penale sono stabiliti dalla legge e non

sono scelti discrezionalmente dalle procure. La domanda di giustizia è legata anche alla popolazione carceraria? Non si può ”carcerizzare” l’Ita-

È pretestuoso. Chi ritiene che vada limitata non tiene conto dei dati: c’è la quasi totale assenza di recidiva per i soggetti che hanno beneficiato della Gozzini e della sua efficacia rieducativa. Cosa che non è avvenuta, ad esempio, con l’indulto e per chi sconta l’intera pena in carcere. In questo modo non viene meno la certezza della pena? Questo è vero in presenza di cumulo di più benefici, ma con la Gozzini la certezza della pena è soddisfatta in quanto la sanzione viene scontata interamente fuori dal carcere. In questi giorni il ministro Alfano ha proposto l’introduzione del braccialetto elettronico per ridurre la popolazione carceraria. Può essere un sistema efficace? Tutto dipende da come viene disciplinata la materia. Deve garantire sicurezza dal punto di vista tecnico e bisogna evitare che sia una sorta di gogna mediatica. Al centro del dibattito rimangono comunque i

Non si può immaginare di cambiare il processo penale senza pensare alle modifiche costituzionali. La separazione delle carriere e un nuovo Csm sono indispensabili lia. Con un simile sistema le carceri non sarebbero mai sufficienti. Il problema va affrontato tenendo presente due aspetti: il primo è che per alcuni reati la carcerazione non è necessaria, l’altro riguarda l’incentivazione delle sanzioni extracarcerarie sulla linea della legge Gozzini. Un beneficio al centro di polemiche.

pubblici ministeri. Si ritiene che la separazione delle carriere finirebbe per trasformarli in una sorta di super poliziotti. È d’accordo? Mi sembra un’obiezione infondata. Quella dell’accusa e quella giudicante sono due funzioni completamente antitetiche. Prevedendo la separazione si otterrebbe la parità dei ruoli e i medesimi poteri. Garantendo la terzietà e la imparzialità di tutti i magistrati. L’indipendenza della magistratura è un interesse primario degli avvocati. A questo punto sarebbe conseguenza logica quella di prevedere due Csm? Esatto. Ma non basterebbe soltanto pensare a due sezioni del Consiglio superiore della magistratura, bisognerebbe anche rivedere la loro composizione. Come? In questi anni il Csm ha assunto funzioni di politica della giustizia attraverso i rappresentanti delle correnti della magistratura che lo hanno governato imponendo le loro quote di potere. Bisogna intervenire proprio per modificare questo stato di cose. Luciano Violante lo vedrebbe composto da un terzo da togati, un terzo da laici eletti dal Parlamento e un terzo scelti dal Presidente della Repubblica, e lei? La proposta dell’Unione delle Camere penali è simile. Prevedendo una quota di laici uguale o meglio superiore ai togati, nominati dal Parlamento nel rispetto di determinati requisiti, e in più una quota di componenti scelti dal Capo dello Stato. Quindi che cosa cambierebbe? In questo modo il Csm perderebbe la natura di autogoverno che non coincide con quella che avevano pensato i Costituenti nel 1948. Il Csm deve, cioè, ritornare a governare in modo autonomo la magistratura. Quale categoria è più restia al cambiamento? Senza dubbio i magistrati. La riforma del Csm e la separazione delle carriere ridimensionerebbe l’Anm, che punta alla conservazione del potere nella politica della giustizia.


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no dei più famosi presentatori d’America, Bill O’Reilly, ha posto una domanda che mi tormenta da un paio di settimane: cosa c’è di sbagliato nei matrimoni gay? Le persone che O’Reilly ha ospitato nel suo programma non sono state capaci di persuadere né lui, né molti alti. Non hanno dato spiegazioni. Intanto, in America, i tribunali stanno “definendo il matrimonio”. La battaglia deve essere affrontata nei tribunali perché davvero pochi tra gli apparati legislativi del Paese potrebbero ottenere i voti popolari necessari per sostenere “matrimoni tra persone dello stesso sesso”. Un vocabolario americano definisce il “matrimonio” come «un’istituzione sociale sotto la quale un uomo e una donna stabiliscono le proprie decisioni, per vivere come marito e moglie in base ad impegni legali, cerimonie religiose, etc». Ma, nel 2003, l’Alta Corte del Massachusset ha imposto un significato più flessibile: «unione volontaria, impegno tra due individui». In altre parole, i tribunali stanno chiarendo il significato di matrimonio. Stanno spazzando via la sua definizione vecchia ormai di secoli e la stanno riducendo ad un mero contratto d’amicizia e di relazioni sessuali tra due persone che lo desiderano. Perché alcune persone omosessuali (non tutte, non la maggior parte), desiderano questa cerimonia? Una cerimonia pubblica dà pubblica rivendicazione e comune riconoscimento. Eleva la relazione ad una realtà pubblica (non solo privata). È vero che ci sono anche delle motivazioni pratiche: la garanzia legale di assistenza sanitaria, pensione e altri benefici che appartengono per il momento soltanto al matrimonio tradizionale. In realtà, questi due obiettivi potrebbero essere tenuti separati uno dall’altro, ma il vero sforzo emotivo in ballo è chiedere il riconoscimento e l’approvazione della società.

U

Ma, attenuando il concetto legale di “matrimonio”, per includere un semplice contratto tra due individui di qualsiasi sesso, non fermeremo in realtà le unioni tra individui dello stesso sesso. In base allo stesso principio, due sorelle zitelle potrebbero avere i requisiti per ottenere gli stessi benefici. Forse lo stesso potrebbe valere per due vecchi vicini di casa. O qualsiasi minor nucleo di persone bisognose (non limitato a due) che vogliano fare un contratto gli uni con gli altri. Ma se il principale obiettivo del matrimonio è ridotto alla “condivisione di benefici”, perché fermarsi ai mariti e alle mogli, o

società Perché le unioni omosessuali non possono essere assimilate alle famiglie

FILOSOFIA DEL MATR MAT di Michael Novak alle coppie dello stesso sesso. Esistono o no vari modi di stare insieme tra persone che sono anche più bisognose? Quello che il nostro diritto comune ha finora sostenuto è stato uno scambio di voti che dura per tutta la vita (non un semplice contratto, ma qualcosa di più: un accordo solenne) tra due persone. Non tra due persone qualsiasi: dovevano essere necessariamente un uomo e una donna. Dovevano essere in

avuto la benedizione di avere sia un padre che una madre, con tutti i benefici connessi. C’è da dire che questi genitori fanno bene il loro dovere, ed è certamente un punto a loro favore. Tuttavia, lo Stato ha i suoi motivi per trattare i matrimoni gay e i matrimoni eterosessuali in disegual modo.

Tutti i bambini (a parte quelli in provetta) nascono praticamente dall’unione di un uomo con una donna. È nel pieno interesse dello stato regolare questa unione attentamente e dotarla di speciali privilegi. Dal punto di vista dello Stato, non tutti gli atti sessuali hanno lo stesso impatto pubblico. Nei Paesi in cui c’è un forte calo delle nascite, sono compromessi anche molti aspetti della vita nazionale, come la prosperità, la difesa e la tutela del futuro. Per questo, gli Stati hanno a lungo sviluppato politiche che incoraggiano il matrimonio tra uomo e donna, che possono potenzialmente allevare un bambino in un ambiente sicuro e pieno d’affetto. Lo fanno con la storica garantita aspettativa che da un ambiente fa-

Solo i matrimoni etero sono capaci di procreare, arricchire e dare un esempio alle future generazioni grado, in linea di principio, di avere figli attraverso la loro unione materiale, anche se non è affare dello Stato controllare se lo facciano effettivamente. Vista l’importanza centrale di questa “legge matrimoniale” che richiede di avere figli, tradizionalmente il solenne patto coniugale non è nemmeno ufficiale finché non si hanno bambini. Non è solo un semplice problema di vocaboli. Nei fatti, naturalmente, alcune coppie gay o lesbiche allevano figli, anche se non sono figli concepiti all’interno della ”legge matrimoniale”, e che non hanno

migliare del genere verranno molto più spesso fuori persone ben educate e buoni cittadini. L’estensione di vantaggi esclusivi (anche se ineguali) a questa unica relazione umana, definita non solo da atti sessuali ma dalla probabilità di fecondità e buona educazione dei figli, è un investimento dello Stato sul suo futuro. Lo Stato non ha un interesse simile nelle amicizie o nelle relazioni sessuali dei propri cittadini, sebbene siano buoni e onorevoli. Per ovvie ragioni ha investito fortemente cerimonie, riconoscimenti formali, e benefici legali in quella singola forma matrimoniale atta alla trasmissione di valori, attraverso rapporti sessuali tra uomo e donna dediti ad allevare giustamente per tutta la vita i propri figli, che diventeranno cittadini liberi e responsabili, adatti a mantenere una repubblica libe-

ra per il futuro. Un’attività particolarmente redditizia dello Stato è rinforzare e supportare il riconoscimento pubblico della speciale bellezza e utilità dell’amore permanente di una madre e di un padre. Un tipo d’amore del genere attraverso il suo lavorio quotidiano genera nei genitori un senso di fiducia incondizionato. Dà ai loro figli la sicurezza di essere amati senza riserve, la capacità di dare amore ai loro concittadini, e un potente esempio da emulare nel loro personale impegno per una generazione futura. Lontani da un’esperienza di tale incrollabile, manifesto amore, la capacità dei bambini di arrivare a nutrire sentimenti di fratellanza e uguaglianza verso i loro concittadini è profondamente compromessa.

Come possono dare ciò che non hanno ricevuto? Di solito, più in là, chi non ha vissuto una situazione simile, rivela certi tipi di dipendenza emozionale, che potrebbe anche compromettere la sua capacità di agire liberamente e indipendentemente come i cittadini devono invece fare. Come ha osservato Alexis de Tocqueville, gli americani erano pronti a mettere le proprie vite nelle mani dei concittadini delle loro libere repubbliche,


società

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Gianfranco Rotondi e il suo disegno di legge sulle convivenze

«Ma io, cattolico, difendo i gay» colloquio con Gianfranco Rotondi di Susanna Turco

ROMA. «Sono un politico di ispirazione cristiana

Tre scene da un Gay Pride: da destra, Roma, Amsterdam e New York

TRIMONIO anche per la grande fedeltà coniugale incontrata nella maggior parte delle loro famiglie. Viceversa, notò i cattivi effetti delle diffusissima pratica della “mistress” (un uomo mantiene una donna, mistress, a livello economico, ma condivide la vita domestica e sessuale con un’altra). In Europa quasi tutti i disordini sociali sono nati intorno al focolare domestico e non lontano dal letto nuziale. È lì che gli uomini cominciarono a disprezzare i legami naturali e il piacere legittimato e a sviluppare un gusto particolare per il disordine, l’inquietudine dello spirito e l’instabilità del desiderio. Scossi da tumultuose passioni che hanno spesso procurato problemi nelle loro stesse case, gli europei trovano difficile sottomettersi all’autorità dei legislatori statali. Alcuni delle corti di giustizia più radicali d’America (come la Corte Suprema della California e del Massachusset) stanno sminuendo il valore della parola “matrimonio”. La causa di questa svalutazione sta nei cambiamenti culturali avvenuti al di fuori delle attività statali. La Rivoluzione Sessuale ha portato “l’amore libero”, la separazione del sesso dal fine di procreare, e il desiderio di facili divorzi. Queste evoluzioni, nelle ultime tre generazioni, hanno indebolito molto il matrimonio monogamo tra marito e moglie. Di conseguenza, l’odierna svalutazione del matrimonio, ha

sgretolato la fiducia degli uomini e delle donne l’uno nell’altra, e dei figli nei confronti dei loro genitori. Questa mancanza di fiducia nei legami coniugali si è sparsa in tutta la società, sta facendo crollare l’entusiamo dei giovani verso il matrimonio e rende i single meno propensi a impegnarsi in un legame tanto incerto.

Nonostante tutto, oggi, in America, due coppie su tre, di quelle che giurano di amarsi “finchè morte non ci separi”, rimangono in effetti sposati fino alla morte. Sostenere la stima e la fede totale in questo legame che dà vita alle famiglie di una nazione è, per il governo di un Paese, una responsabilità più grande che sostenere la propria moneta. Una moneta forte è un enorme beneficio per le nazioni. Ma famiglie solide e fedeli, orientate all’educazione di bambini capaci, virtuosi, creativi e responsabili, sono qualcosa di necessario. Uno dei modi in cui lo Stato incoraggia azioni essenziali al proprio benessere è onorando le persone sposate e fedeli al matrimonio e premiandole con dei vantaggi esclusivi. Sembra difficile affermare che i “matrimoni” gay, pieni d’amore e soddisfacenti che siano, danno un valore aggiunto al futuro di una nazione in egual misura che i matrimoni capaci di procreare, nutrire, arricchire e dare un esempio alle future generazioni.

che non prende ordini e non si fa spaventare dagli anatemi». Non perde l’abituale ironia e dice che alla fine avrà gli applausi «sia della Cei che dell’Arcigay», ma ci va giù duro, Gianfranco Rotondi. Nel giorno in cui Avvenire lo chiama in causa con un corsivo, accusandolo di incorenza per l’annunciato progetto di legge sulle unioni civili, il segretario della Nuova democrazia cristiana dedica l’ora di pranzo a ribaltare l’argomentazione contro il quotidiano dei vescovi. Di più: arriva anche a toccare le ragioni personali per le quali non ritiene incoerente il suo agire, anche in difesa dei diritti dei gay: «Mi sono sposato in chiesa, ma tutto ciò che è al di fuori di questo patto eterno davanti a Dio, per me che sono cristiano, è interessante solo su questa terra», spiega. E aggiunge: «Per me occuparmi dei diritti dei gay è come parlare dei diritti dei divorziati e dei loro figli. Non tutti i peccati sono reati». Non avverte su di sé l’incoerenza di cui l’accusa il quotidiano della Cei? Avverto l’incoerenza giornalistica di Avvenire. Nei giornali le fonti si verificano sempre. Loro no: lanciano un anatema preventivo senza sapere cosa voglio fare. La mia sfida sarà preparare un testo nel quale anche il quotidiano della Cei si troverà d’accordo. Ma i valori? Gli appelli di Benedetto XVI? La famiglia come nucleo portante della società? Senta, io sono un indegnissimo erede di De Gasperi, Moro e Sullo, contro cui pii corsivi furono indirizzati per fermare l’alleanza coi partiti laici, il centrosinistra, la riforma urbanistica. E mi dispiace che siamo tutti caduti in miseria, ma il metodo rimane lo stesso: aderire ai principi, non obbedire ai corsivi. Così potrà crescere quella nuova classe dirigente auspicata da Benedetto XVI. Ma si ricorda il putiferio che è venuto giù tra Pacs, Dico e Cus? Il politico cristiano deve risolvere i problemi di tutti. Non mi invento io i figli delle coppie di fatto e i conviventi senza diritti. All’epoca, il centrosinistra ha adottato una soluzione ideologica, dal presupposto inaccettabile: equiparare le convivenze alla famiglia. Non è certo il nostro obiettivo. Intendete tutelare anche le unioni gay? Ma perché mai i gay non dovrebbero aver diritto ad assistersi reciprocamente nella malattia o a succedere nel contratto di affitto? Fare una legge che, agendo sui diritti soggettivi, garantisca questo significa risolvere questioni pratiche. Questioni che la saggia Dc avrebbe chiuso con un compromesso e una leggina, magari a Ferragosto. Due anni fa Prodi ha fatto un buco nell’acqua. Perché ricominciare?

Dirò una cosa molto dura, ma è ora di farlo. Sono un cristiano, mi sono sposato prima in municipio e poi chiesa. La sera prima delle nozze a mia moglie ho detto pensaci bene, siamo cristiani, per noi è per sempre.Tutto quello che è fuori da questo patto eterno davanti a Dio, per me che sono cristiano, è interessante solo su questa terra; ed io, come legislatore, i diritti dei mortali li amministro solo su questa terra: quindi per me occuparmi dei diritti dei gay è come parlare dei diritti dei divorziati e dei loro figli. È un affare terreno, doveroso per chi, pur da cristiano, deve legiferare per tutti e tenendo unita la società. Come disse Rocco Buttiglione - incompreso - a Strasburgo non tutti i peccati sono reati e viceversa. È una distinzione che fonda la cultura liberale e spiega perché uno come me, che in quarant’anni non ha mai perso una messa, si affatichi tanto per le vedovanze fuori sacramento. È ottimista sui risultati? Brunetta ha un geniaccio tale che alla fine applaudiranno sia la Cei che l’Arcigay. La proposta di legge a che punto è? Nero su bianco non c’è ancora nulla. L’importante è che sarà a costo zero per lo Stato. Non ci sarà la reversibilità della pensione? Esatto: così abbiamo chiuso la polemica sull’ipotesi che si tratti di una famiglia alternativa. Vogliamo invece introdurre diritti nelle cure, nella successione nel contratto di affitto e nella proprietà della casa. Proponiamo una sorta di contratto unico valido davanti allo Stato, limitatamente alle questioni accennate e restando nell’ambito del diritto privato. Chi sarà della partita? Ci sono altri colleghi attenti al tema: questo corsivo di Avvenire è stato cosi rapido perché si sa che cattolici eminenti e anche eminenze hanno approvato le mie dichiarazioni. Come rassicurerà i cattolici? Il testo nascerà da un dibattito culturale che partirà dal mondo cattolico. Sentirò anzitutto colleghi come Pezzotta, Binetti,Volontè ed altri. Ed è chiaro che l’iniziativa avrà successo solo se ci sarà più o meno l’unanimità. Altrimenti non partiamo neanche. E perché un Parlamento di centrodestra dovrebbe venirvi dietro? I veri conservatori sono quelli che al momento giusto sanno salvare il minimo indispensabile: altrimenti la rivoluzione li travolge. Il Pdl travolto da masse di coppie di fatto? Voglio dire che se lasciamo il problema irrisolto e, per un malaugurato accidente, il governo dovessa cadere... La Chiesa lo sa come risolverebbe il problema la sinistra tornata al potere? Lo dica lei. Alla Zapatero. Perciò, qua giù nelle retrovie c’è un manovale cristiano al lavoro.

Gli anatemi di Avvenire non mi spaventano. I politici cristiani devono risolvere i problemi di tutti, senza obbedire ai corsivi


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società

Paradossi italiani. Tra destra e sinistra si consumano polemiche feroci, ma inutili: perché non tengono conto della realtà

Le bugie sul maestro Cinque contestazioni a un dibattito un po’ “ignorante” di Giuseppe Bertagna l posto di tanti asini, meglio uno che faccia il tuttitola tologo», polemicamente un giornale a proposito di recupero del maestro unico. «Ritorno al passato», titola un altro, con disprezzo. E via di questo tenore. Come si può capire, questi e altri sono slogan che servono quando manca il pensiero. Sugli slogan è anche facile condurre referendum: favorevoli e contrari. Sugli argomenti, un gerundio non serve. Vediamo, dunque, alcuni «fatti» su cui costruire un ragionamento.

«A

1. Chi critica da sinistra e osanna da destra il maestro unico ha, paradossalmente, la stessa idea organizzativa di riferimento. Tutte e due le parti, infatti, ragionano come

famiglie, sarà poi la scuola, nella sua autonomia, a decidere come impiegarli, sebbene tenendo conto, in questa sua competenza, che fino alla terza classe, secondo il decreto n. 59/04, il maestro-tutor è tenuto a svolgere almeno 18 ore con lo stesso gruppo classe e che con il decreto legge Gelmini dovrà svolgere 22 ore su 24 nello stesso gruppo classe e, solo se vuole, altre 2 ore di «straordinario» per giungere alle 24 che coprono l’orario degli allievi. Se si rifiuta di fare lo straordinario, le scuole dovranno provvedere con docenti aggiuntivi, per esempio di inglese o di religione o di altro.

2. Proprio le vicende di questi anni sulla scuola primaria hanno dimostrato che discutere di formule organiz-

Continuare ad affrontare il problema dell’insegnamento in termini di docente «unico» o «plurimo», senza discutere di funzionalità della scuola, significa non voler cambiare nulla si trattasse di tornare al maestro degli anni Settanta. Nessuno dei due contendenti, invece, tiene conto del fatto che l’autonomia è stata riconosciuta in Costituzione alle scuole. Il ministero, quindi, deve soltanto dare un tot di docenti per ogni tot di allievi, facendo riferimento alle formule orarie prescelte dalle famiglie rispettivamente in base al decreto legislativo n. 59/03, mai abrogato, (27 ore più altre tre opzionali facoltative, più l’orario del servizio mensa ai fini del tempo pieno) e, adesso, dopo il decreto del governo, anche in base all’opzione organizzativa delle 24 ore. Stabilito il numero dei docenti che competono ad ogni istituzione scolastica per soddisfare le richieste delle

zative considerate in sé taumaturgiche o iettatorie è stucchevole o ideologico. E lo è perché questa discussione riguarda le procedure. Ciò che conta, invece, è la chiarezza sui risultati (fini) da raggiungere e, soprattutto, la garanzia che ci sia un organismo indipendente e terzo rispetto a scuola e ministero, capace di controllarne con affidabilità e prestigio il raggiungimento, e di rendere pubbliche le proprie valutazioni. Entrambe le condizioni, purtroppo, non esistono e le decisioni assunte nella precedente legislatura (emanazione di Indicazioni per il curricolo generiche e predicatorie, per un verso, e riconduzione dell’Invalsi ad un ufficio alle dipendenze del mi-

nistero della P.I., dall’altro verso) hanno ulteriormente contribuito ad allontanare dall’orizzonte della fattibilità. Continuare a discutere, quindi, sul maestro unico o sui maestri plurimi senza avere la possibilità di dire quale delle due formule in quali circostanze di contesto risulta più funzionale alla promozione delle competenze attese per gli allievi è soltanto un modo per continuare ad essere evasivi e per trovare alibi all’indisponibilità al cambiamento.

3. L’operazione di semplificazione dei problemi condotta sotto l’etichetta del maestro unico è stata accompagnata da largo consenso di opinione soprattutto fuori dal personale della scuola. Lo dicono le statistiche. La circostanza, al posto di essere snobisticamente deprecata, dovrebbe far riflettere i cosiddetti sé dicenti «tecnici» su due questioni. Anzitutto che la stessa parola «maestro» non ha perduto la sua antica forza evocativa. Quasi la si reclami, soprattutto da parte delle famiglie, proprio nel periodo in cui è sempre più raro vederla in azione. In secondo luogo, che il modulo, ormai attivo da quasi vent’anni, non è riuscito nell’impresa di non far rimpiangere la figura del maestro che aveva pensionato.

La scuola è al centro del dibattito politico anche a causa dell’attivismo del ministro Mariastella Gelmini (in foto nell’altra pagina)

4. Tutti, favorevoli e contrari alternativamente al modulo o al maestro unico, concordano sul principio pedagogico di ritenere l’unità di

indirizzo educativo e culturale dei docenti un valore decisivo per i bambini. Se manca, il loro disorientamento è assicurato. E pure il loro non apprendimento. Per questo, quando l’orario della scuola primaria passò da 24 ore prima a 27 e poi a 30 ore e si introdusse il modulo delle tre docenti su due classi si decise che ogni maestro avrebbe insegnato per 22 ore in due classi, ma che avrebbe dedicato due ore settimanali a coordinare i propri interventi educativi e didattici con i colleghi nella speranza che ciò avesse potuto assicurare l’unità degli indirizzi educativi e culturali del team. Purtroppo, queste speranze si sono in più occasioni rivelate vane.


società l ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini l’autunno non s’annuncia en rose: le scuole devono ancora aprire ma già sindacati, opposizione, rappresentanze degli studenti, preparano la grande contestazione di ottobre. Sul giovane ministro piove di tutto: viene accusata, soprattutto dal Partito democratico, di scaricare sulla scuola la spesa pubblica italiana, di penalizzare le famiglie contraendo il tempo pieno, di rendere inevitabile la chiusura di molti istituti, di togliere ogni speranza di futuro ai precari, di riportare l’orologio ai tempi di Cuore di Edmondo De Amicis: il grembiule, il voto in condotta, la disciplina. «Una riforma reazionaria» la chiama la sinistra radicale che rispolvera per l’occasione un linguaggio d’antan. Questo nel merito. Nel metodo la critica non è più morbida: il decreto Gelmini, incalza ancora l’opposizione, viene fatto solo per compiacere la fame di tagli alla spesa pubblica del ministro del Tesoro Giulio Tremonti, per questo non è stato preceduto da nessun dibattito parlamentare, come dimostrerebbe anche il malumore di Umberto Bossi ufficialmente sedatosi dopo il richiamo di Silvio Berlusconi.

A

L’attacco più duro alla Gelmini è venuto però dalla Uil scuola, il sindacato con cui il ministro ieri ha avuto un incontro che avrebbe dovuto essere costruttivo. «Per difendere disperatamente scelte di sostanziale destrutturazione e smantellamento del sistema statale di istruzione – dice la segreteria nazionale della Uil scuola – il ministro si scaglia indiscriminatamente contro gli insegnanti, i sindacati, i passati governi e i precedenti ministri. Non si può considerare la scuola uno stipendificio e un ammortizzatore sociale». La Uil diffonde anche un’indagine da cui risulta che lo stipendio de-

5. Va ribadito, infine, che non è vero che l’unica scuola italiana «eccellente» sarebbe la primaria. In realtà, se guardiamo alle ricerche disponibili abbiamo elementi per un giudizio diverso. I nostri bambini riescono bene, in tutto, dalla lettura-scrittura alla matematica, fino all’inizio della quarta classe. Dalla quarta alla fine della prima media, però, si registra un vero e proprio tracollo. I ragazzi sembrano spegnersi in maniera direttamente proporzionale alla loro permanenza a scuola. Il compianto professor Mauro Laeng che fu il primo a registrare “scientificamente” questi dati tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso ritenne che si potesse arginare il fenomeno introducendo il modulo: aumentare le competenze disciplinari dei maestri e, insieme, dare loro l’occasione per lavorare in maniera unitaria e collegiale. Sindacati e politica presero quella strada. Ma il dato

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Il Pd promette agitazioni e l’Ocse denuncia il collasso della scuola

«Per la Gelmini l’autunno sarà caldo» di Riccardo Paradisi gli insegnanti dal 1995 ha perso il 21 per cento del potere di acquisto mentre la busta paga si farebbe più leggera man mano che gli insegnanti accumulano anzianità. Devastante il confronto con i colleghi europei: i docenti tedeschi guadagnerebbero infatti il doppio degli italiani, gli spagnoli una volta e mezzo di più. Per capirci, dopo quindici anni di lavoro, da noi un docente prende 29mila dollari contro una media Ocse di 38 mila e una media Ue di 38.217. I nostri docenti, dopo 15 anni, prendono quasi la metà dei colleghi tedeschi (50.119 dollari) e di quelli coreani (52.666) per esempio. Ma se è vero che i professori italiani sono il fanalino di coda europeo in termini di retribuzione è vero anche, come dice l’annuale rapporto Ocse sull’istruzione, che la spesa per alunno è

del tracollo non solo non si è corretto: è peggiorato. Nel 2003, la riforma Moratti propose allora di procedere alla manutenzione del modulo, introducendo un perno: il docente coordinatore tutor che, fino alla terza classe, faceva anche con lo stesso gruppo classe, almeno 18 ore di insegnamento, al fine di contenere la frammentazione disciplinare e delle figure educative di riferimento, particolarmente negativa nei primi anni della fanciullezza. La proposta, tuttavia, fu respinta. Ora dai «fatti» alle proposte per trasformare la scelta del maestro unico in un’altra opportunità educativa per la scuola e la società. È ragionevole prevedere che potrà avere effetti positivi solo se accompagnato da tre condizioni.

a) Incrementare la possibilità di scelta educativa responsabile della scuola da parte delle famiglie. Ogni for-

tra le più alte d’Europa, a petto di risultati didattici e pedagogici tra i peggiori. Dalle tabelle dello studio Ocse emerge, infatti, che il nostro Paese spende ogni anno in media, 7.540 dol-

mula organizzativa dell’équipe docente, ma a maggior ragione quella del maestro unico, non regge senza la fiducia, la stima e l’attiva cooperazione delle famiglie. Quando si registra diffidenza, poco apprezzamento o distanziamento passivo della famiglia nei confronti della scuola si finisce per danneggiare tutti, ma in particolare l’apprendimento degli allievi. Non è pedagogico protrarre questa condizione nel tempo. Meglio cambiare. Per ora, basterebbe poter assicurare ai genitori la possibilità di scegliere tra scuole statali e scuole non statali senza dover subire i pesanti handicap economici oggi vigenti nel caso in cui si volesse accedere alla seconda opzione. Sarebbe al contempo indispensabile offrire alle famiglie, precisati i risultati che tutti i ragazzi sono tenuti ad acquisire alla fine del corso di studi, cosa che finora purtroppo non è affatto definita, la pos-

lari per studente contro i 7.527 della media Ocse. La spesa maggiore si registra alla scuola secondaria, 7.648 dollari contro una media Ocse di 7.804. Le classi elementari italiane infine hanno in media un numero di alunni inferiore a quelle degli altri paesi Ocse e come anche inferiore alla media è il “tempo netto” di insegnamenti della scuola primaria. Dati che riguardano l’Italia e in particolare le elementari, sotto particolare osservazione dopo l’annuncio del ministro Gelmini di voler tornare al maestro unico. L’Italia rimane tra i Paesi con in media meno alunni per classe, superata soltanto da Danimarca, Islanda, Lussemburgo e Svizzera.

Sarebbe la dimostrazione, secondo la maggioranza e il sindacato Ugl, che una riforma che asciugasse gli sprechi della scuola era necessaria. Tanto più, garantisce il ministro Gelmini, che il 30 per cento degli oltre 7 miliardi risparmiati in tre anni con la Finanziaria saranno investiti in premi ai docenti più bravi, accorpamento delle classi, ammodernamento delle strutture, tempo pieno potenziato del 50 per cento. «Il risanamento italiano va fatto – dice il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini – ma che si faccia solo a partire dalla scuola non va bene. Sulla scuola abbiamo sentito molti effetti annuncio: vogliamo verificarli bene, non accettiamo e non respingiamo nulla a scatola chiusa». L’autunno di Mariastella Gemini non avrà colori pastello.

sibilità di scegliere tra opzioni organizzative diverse, con maestro prevalente, moduli o doppio docente sul tempo pieno.

b) Rinnovare la formazione dei maestri. Da oltre vent’anni, essi sono stati rincorsi da una formazione tutta improntata al paradigma della specializzazione. Per cui, adesso, chi sa bene italiano sa poco o nulla di matematica, e chi sa di matematica e scienze sa meno di storia e studi sociali. Questi stessi maestri chiamati ora ad insegnare tutto e bene, ne saranno capaci? Naturale ritenere che non si possono affidare 22 ore su 24 o addirittura 24 ore su 24 ad un docente che dichiari di non avere le competenze necessarie per insegnare tutto e bene. Serve, quindi, quanto prima che il parlamento provveda a disporre una nuova formazione iniziale e in servizio dei docenti o reintroducendo le linee approvate

nel 2004 e abrogate dal ministro Fioroni, o, comunque, dettando quelle che riterrà più opportune.

c) Dare più autonomia alle scuole. Autonomia vera, non quella a cui siamo abituati, con dirigenti e docenti che continuano a guardare a Roma per avere «istruzioni». Ritorno del maestro unico, del resto, anche nel caso delle 24 ore di scuola, non può significare ritorno al maestro isolato nella sua classe, moderna «celletta» fordista in cui i ragazzi vivono reclusi per cinque anni. Senza un coordinamento e una rete collegiale di istituto che costruisca un ambiente relazionale ricco e cooperativo, con momenti in cui non si lavora più soltanto in classe, ma anche in gruppi di livello, di compito ed elettivi interclasse, il suo sforzo educativo unitario e l’efficacia cognitiva del suo insegnamento sono destinati al fallimento.


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mondo

Riunite a Brighton, le “trade unions” pongono le loro condizioni per non tagliare i finanziamenti e disertare le urne

Sindacati uniti contro Gordon Brown di Silvia Marchetti

LONDRA. Il premier Gordon Brown è avvertito: se nei prossimi mesi non cambierà la rotta della politica economica inglese i sindacati lo abbandoneranno. Basta appoggio, voti, ma soprattutto finanziamenti elettorali. È questo l’ultimatum che giunge al primo ministro dal palco del Tuc, la convention annuale che riunisce tutte le sigle sindacali da tempo ormai sul piede di guerra contro le politiche fiscali del governo. I delegati, riuniti nella cittadina costiera di Brighton, chiedono un forte segnale di cambiamento incentrato sul rilancio del potere d’acquisto dei cittadini e sull’aumento dei salari del pubblico impiego. Il clima è teso: il Paese sta vivendo una crisi economica e a pagarne il prezzo sono soprattutto le famiglie e i lavoratori.

Le richieste dei sindacati al governo sono numerose e comprendono tagli alle tasse a favore dei nuclei familiari più disagiati, aumenti salariali per gli impiegati pubblici e una maggiore tassazione sulle rendite dei “paperoni” inglesi che guadagnano più di 100mila sterline l’anno nonché sui profitti delle compagnie petrolifere. Insomma, le trade unions si aspettano dal governo laburista un’inversione di rotta, altrimenti sono pronti a tradirlo spianando così la strada ai conservatori. I sindacati hanno sempre rappresentato lo zoccolo duro dell’elettorato del Labour che nasce

proprio come il partito dei lavoratori, ma oggi chiedono una politica fiscale più “sociale”, incentrata sui redditi e sulla lotta all’inflazione. Ci sono sempre state tensioni tra Labour e sindacati anche durante l’era di Tony Blair, tuttavia con la congiuntura economica attuale più negativa che mai e l’impopolarità del governo Brown (che perde consenso giorno dopo giorno) i contrasti rischiano di portare al divorzio. Senza il voto dei sindacati – ma soprattutto senza il loro sostegno economico – i laburisti difficilmente

potranno vincere le prossime elezioni.

Ieri mattina i sindacati unitari hanno approvato un documento che dà il via libera a una serie di scioperi autunnali che culminerà in una grande manifestazione nazionale contro la politica economica del governo. Tuttavia, non è stata ancora decisa una linea ufficiale e alle sigle che compongono il Tuc è stata data la massima libertà di organizzare i giorni di protesta. Le parole del ministro dell’economica Alistair Darling, invitato a confrontarsi, non sono state gradite dal palco, che gli ha riservato un freddo benvenuto. Rispondendo alle richieste dei delegati di aumentare la spesa pubblica a favore di tutti coloro che sono strozzati dal caro-vita e non arrivano a fine mese, Darling ha affermato che la «stabilità economica raggiunta in questi anni non può essere messa in pericolo». In serata, nel corso di una cena privata, è stato poi la volta di Gordon Brown che ha dovuto affrontare i malumori dei segretari generali. Ma ormai è un discorso tra sordi e il rischio,

dopo mesi di tensioni culminati in alcuni scioperi generali, è quello di arrivare alla rottura tra mondo sindacale e laburisti. I sindacati accusano il loro partito di riferimento di aver smarrito la crociata a favore dei più “deboli”, tratto che ha sempre contraddistinto il Labour. «Non è giusto che le famiglie con redditi bassi vivano nel terrore di un inverno freddo mentre le compagnie energetiche fanno profitti giganteschi - ha affermato il segretario generale del Tuc Brendan Barber – non si può andare avanti con salari che non riflettono il reale costo della vita, è inaccettabile». Da una parte il governo, dall’altro i lavoratori, con aumenti di stipendio fermi al 2,5 percento

ranno per primi gli insegnanti e i lettori universitari, i funzionari della pubblica amministrazione e i lavoratori dei centri per l’impiego. A Londra ci potrebbe essere il primo grande sciopero del prossimo autunno. Il Pcs, altra sigla importante dell’universo sindacale britannico, promette tre mesi di agitazione per“salvare i salari”. Secondo il sindacalista Mark Serwotka, «la nostra rabbia potrebbe decidere l’esito delle prossime elezioni. Se vinceranno i Tory, la colpa sarà soltanto del governo». Tutta musica per le orecchie dei Tory. Il giovane leader David Cameron segue con attenzione il congresso di Brighton e l’evoluzione del dialogo tra sindacati e governo. I conser-

Le richieste-ultimatum: tagli alle tasse dei più disagiati, aumenti per gli impiegati pubblici, maggiore tassazione sulle rendite sopra le 100mila sterline l’anno e sui profitti delle compagnie petrolifere mentre l’inflazione galoppa al quattro percento. La luna di miele tra Labour e le trade unions sta finendo. «Il nostro governo deve ascoltare le persone che lo hanno votato. Se questa ingiusta politica dei redditi non cambierà – ha avvertito Dave Prentis, leader del sindacato Unison – milioni di lavoratori pubblici diserteranno il Labour. Noi ci sentiamo traditi». Alcune sigle hanno già annunciato giorni di protesta: a scendere in piazza a novembre sa-

vatori infatti non perdono tempo per strizzare l’occhio alle potenti trade unions cercando di portarle dalle loro parte. L’obiettivo è sfruttare al massimo questo indebolimento nel legame di ferro che ha sempre unito sindacati e laburisti. Il ministro ombra dell’economia George Osborne ha scritto una lettera aperta ai delegati del Tuc invitandoli ad abbracciare il partito Tory: «Siamo pronti ad accogliervi tutti a braccia aperte».


mondo

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Mentre Medvedev militarizza le due repubbliche, il vicepresidente Usa da Berlusconi

Basi russe in Georgia Cheney:Tbilisi nella Nato di Enrico Singer

Il presidente russo Dmitry Medvedev assieme al ministro della Difesa Anatoly Serdyukov, assistono al lancio di una granata all’accademia militare di Kostroma

d i a r i o

d e l

g i o r n o

Corea del Nord, ictus per Kim Jong-il Il leader nordcoreano Kim Jong-il sarebbe stato colpito da un ictus. Ora c’è la conferma anche da parte di fonti dei servizi segreti americani delle voci che circolano da alcuni giorni in ambienti diplomatici. Anche la scorsa estate, però, Kim venne dato per spacciato, ma poco tempo ritornò in pubblico in condizioni di salute all’apparenza ottime. Kim Jong-il, 66 anni, ex fumatore e bevitore incallito, soffre di diabete e di problemi cardiaci, e periodicamente si ripropongono voci allarmistiche sulle sue reali condizioni, in concomitanza con le frequenti sparizioni di scena. Il Caro Leader (il Grande Leader è suo padre, Kim Ilsung, morto nel 1994 e nominato «presidente eterno della Corea del nord») non compare in pubblico dal 14 agosto e martedì non si è presentato nemmeno alla grandiosa parata militare nella capitale Pyongyang per il 60mo anniversario dello Stato. Il quotidiano sudcoreano Chosun Ilbo ha rilanciato le supposizioni già emerse nei giorni scorsi: il 22 agosto sarebbe stato colto da collasso e non si sarebbe più ripreso tanto che a Pyongyang sarebbero arrivati in gran segreto cinque medici cinesi.

Cina, decine di morti per una frana Dopo le diverse scosse sismiche degli ultimi mesi, una nuova catastrofe ha colpito la Cina. In una miniera di ferro di Taoshi, nella provincia di Shanxi, le piogge torrenziali hanno causato la frana di una gigantesca discarica illegale di detriti, provocando la morte di almeno 34 persone e centinaia di dispersi. Nove responsabili della miniera sono stati fermati e interrogati dalla polizia mentre mille, tra poliziotti, vigili del fuoco e abitanti del villaggio, sono impegnati nelle operazioni di ricerca e di recupero dei sopravvissuti. «Dobbiamo concentrarci sui soccorsi: dobbiamo usare il cento per cento delle nostre risorse per salvare questa gente» ha detto in tv il governatore dello Shanxi, Meng Xuenong.

Germania, al via primo impianto “cattura Co2” alutata tra sorrisi e strette di mano la trokia europea guidata da Nicolas Sarkozy, il presidente russo Dmitri Medvedev ha richiuso nell’armadio il suo abito conciliante e ha indossato di nuovo i panni del condottiero. Liberal lo aveva scritto anche ieri: una cosa sono le parole, altra cosa sono i fatti. E la conferma è subito arrivata: un corpo di spedizione permanente di 7.600 soldati s’installerà in quattro basi in Abkhazia e in Ossezia del Sud. Le due Repubbliche di cui Mosca ha riconosciuto l’indipendenza vengono, così, inglobate di fatto nel sistema militare russo. Non è un’annessione, ma certo è la consacrazione di una zona d’influenza. Ed è anche l’ennesimo messaggio diretto alla Nato: se mai la Georgia entrerà nell’Alleanza atlantica si troverà alle frontiere settentrionali non due regioni-cuscinetto, ma due avamposti dell’arnata russa.

sca si prepara a “ridispiegare”, come si dice in gergo militare, le sue forze dalle porzioni di territorio georgiano occupato in più ospitali retrovie. Che restano, comunque, a meno di cento chilometri da Tbilisi. E appare nella sua luce reale anche il risultato della missione della troika europea a Mosca. Ancora una volta, parlare di successo personale di Nicolas Sarkozy o, peggio, di successo della mediazione europea vuol dire cullarsi in un’illusione. Significa far finta di non capire che Vladimir Putin e il suo presidente-reggente Dmitri Medvedev giocano sullo scollamento tra Europa e Stati Uniti. E riservano a Sarkozy il ruolo di notaio di decisioni già prese. Come quella del ridispegamento dell’armata russa in un mese e, soprattutto, della spartizione del territorio georgiano con il riconoscimento - e ora con il sostegno militare - delle due Repubbliche indipendenti di Abkhazia e Ossezia del Sud.

L’ordine di creare le basi lo ha impartito direttamente

Non è un caso che Cheney, ieri a Roma, abbia ripetu-

Medvedev al ministro della Difesa,Anatolij Serdiukov, dopo che al Cremlino i ministri degli Esteri di Abkhazia e Ossezia del Sud avevano formalizzato i rapporti diplomatici con la Russia e avevano immediatamente chiesto che forze armate russe «garantissero la sicurezza» delle due neonate Repubbliche indipendenti. Una mossa, questa, ampiamente concordata con Mosca e che sarà realizzata in tempi brevi anche perché Medvedev e Putin avevano spedito in Georgia circa diecimila uomini appoggiati da mezzi corazzati e da unità lanciamissili che ora, invece di rientrare in Russia si fermeranno nelle quattro nuove basi: due in Abkhazia e due in Ossezia. Il ministro Serdiukov ha detto che le due in territorio osseta sono state già individuate: una nella capitale, Tskhinvali, e l’altra nella città di Dzava. In Abkhazia, per il momento, i soldati si installeranno in due basi che erano già a disposizione degli “osservatori” russi impegnati nella missione di pace dell’Osce. Ecco che il «ritiro completo entro un mese» promesso appena 24 ore prima da Medvedev a Sarkozy si mostra nella sua luce reale: Mo-

to a Silvio Berlusconi che la Georgia «deve entrare al più presto nella Nato». Il vicepresidente americano ha rilanciato la tesi già sostenuta da Bush nel vertice della Nato in Romania, anche se è ben consapevole che fino alle elezioni di novembre sarà difficile trovare un nuovo equilibrio tra le posizioni di Washington e quelle di molti Paesi europei. Berlusconi ha risposto a Dick Cheney che «dobbiamo collaborare tutti insieme, noi che facciamo parte dell’Occidente che non sono due ma è uno solo» e che bisogna rimanere nello «spirito di Pratica di Mare dove avevamo dato impulso alla collaborazione con la Federazione russa per combattere il terrorismo, la proliferazione delle armi atomiche, la miseria e le malattie per portare il mondo in uno stato di pace e di benessere che è ancora lontano dall’essere raggiunto». Tutto giusto e condivisibile. Con un problema, però. Ad allontanarsi dallo spirito di Pratica di Mare è la Russia di Putin che punta a ricostruire, in nome del controllo delle vie dell’energia, l’impero sovietico dissolto dopo il crollo del Muro di Berlino.

S

Il ritiro promesso alla Ue non è altro che il ridispiegamento delle truppe. E un’annessione di fatto delle regioni separatiste

A Spremberg, nel Brandeburgo, è entrato ieri in funzione il primo impianto sperimentale al mondo che consente di separare e depositare sottoterra gran parte delle emissioni di Co2 prodotte da una centrale a carbone, invece di rilasciarle nell’atmosfera. L’impianto, gestito dal gigante energetico Vattenfall, è stato realizzato presso la centrale a lignite di “Schwarze Pumpe”, che un tempo costituiva uno dei parchi industriali più inquinanti della defunta Germania dell’Est. Qui, non lontano dal confine con la Polonia, viene sperimentata la tecnologia Ccs (Carbon Capture and Storage): l’anidride carbonica emessa nel processo di produzione verrà separata, resa liquida e trasportata attraverso dei camion nel vicino Land della Sassonia-Anhalt, dove verrà immagazzinata sottoterra, in un ex giacimento di gas ormai vuoto. In tal modo, secondo Vattenfall, nell’atmosfera finirà soltanto il 10% delle emissioni di Co2 normalmente rilasciate da una centrale a carbone.

Cecenia, obbligatorio il Ramadan I negozi di alimentari, le mense e i bar ceceni resteranno chiusi durante il giorno per tutta la durata del Ramadan, la ricorrenza musulmana durante la quale i fedeli sono tenuti a digiunare dall’alba al tramonto. Lo ha deciso il presidente della Cecenia (Caucaso russo), Ramzan Kadirov. In occasione del Ramadan, Kadirov ha inoltre organizzato ronde di volontari per distribuire gratuitamente alle donne veli per coprirsi il capo, ha vietato la vendita di alcolici e ha accorciato di un’ora la giornata lavorativa per consentire ai fedeli di dedicarsi alla preparazione dei banchetti serali.


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identità

Ecco come il ministro Frattini vuole (e può) fare degli italiani nel mondo un punto di forza della sua politica estera

La ”cultura tricolore” cambia rotta di Claudia Razza l decreto ministeriale del 18 luglio scorso, che indice la “Prima conferenza dei giovani italiani o di origine italiana nel mondo”, dà l’avvio a una fase che, rispetto alla storia dei rapporti dell’Italia con gli italiani all’estero, segna l’inizio di una nuova era.Tale è infatti la volontà del ministro degli Esteri Franco Frattini, primo politico seriamente intenzionato, insieme con il sottosegretario Alfredo Mantica, a mettere fine a una stagione penosa, che la Legge Tremaglia ha fatto emergere ma che ha avuto inizio a partire dai primordi stessi della nostra emigrazione. Infatti, a parte le prime associazioni regionali, che hanno avuto il merito di mantenere i legami culturali, con gli italiani all’estero il nostro Paese ha sempre sbagliato. Dapprima abbandonandoli alle intemperie del mondo, più tardi instaurando un rapporto paternalisticoassistenziale che si è reso insostenibile, e infine costringendoli a subire la prepotenza di un proselitismo d’assalto che, in sole tre campagne elettorali, ha incrinato una stima che in tutto il mondo, giorno dopo giorno, con il loro comportamento e con il loro lavoro, avevano conseguito.

I

Il subentro dell’età della politica ha segnato un punto di non ritorno. Svilita ed esposta al ridicolo da una patria che non sa fare la madre, ma già svezzata da decenni,“l’altra Italia” si è sentita spinta a staccarsene (a rifiutare il diritto di voto è infatti la maggioranza). L’Italia può tornare all’indifferenza e rinunciarvi per sempre, o può fin d’ora “cambiare rotta” e fare della presenza italiana nel mondo un punto di forza della sua politica estera. Il teorico delle rivoluzioni scientifiche Thomas Kuhn spiega che quando un paradigma entra in crisi proliferano le ipotesi ad hoc fino a renderlo ingestibile. Fallito, esso non riesce più né a spiegare la realtà né a prevederla: non è più uno strumento valido per governare. Ma non viene abbandonato se non dinanzi all’avvento di un altro paradigma, che non sia soltanto “nuovo” ma anche capace di sbrogliare, con coerenza ben più semplice, ciò che prima era confuso. Solo allora avviene il superamento, chiamato appunto “rivoluzione”. Ecco dunque un insieme di nozioni d’indirizzo, che

conformano una teoria. Centrale è un’espressione in cui il nuovo soggetto dell’emigrazione trova compiuta definizione. Usando un genitivo che riflette il senso di un’appartenenza che va non solo riconosciuta come doppia in virtù dello ius solis che vige in molti dei Paesi di inserimento, ma fin d’ora potenziata nella sua valenza di ponte, propongo di chiamarli italiani del mondo. Il nuovo nome non ha solo un valore simbolico, ma performativo. Fondato tra l’altro sul principio che l’italianità è una cultura e non meramente una nazionalità e su un neologismo elementare – l’amor sanguinis – in virtù del quale il nesso pri-

adesso pronto a intraprendere una strada inedita, costruttiva e strategica, di portata storica.

Il dato rivoluzionario è costituito dal fatto che per la prima volta un’iniziativa del Mae include i giovani “di origine italiana”, introducendo così non solo un nuovo soggetto che allarga la diaspora in proporzioni geometriche, ma aprendosi a un principio capace di sollevare il baricentro del rapporto da quella politica parziale, partitica e di parte imprudentemente messa al centro dalla Legge Tremaglia, e che soprattutto la sinistra, che è internazionalista e all’amor patrio tiene poco, ha preso a sfruttare pesante-

Il titolare della Farnesina, alle prese con gli errori della Legge Tremaglia, prepara il terreno alla Prima conferenza dei giovani italiani o di origine italiana nel mondo, in programma per dicembre vilegiato con l’Italia non è solo il passaporto, esso rende obsoleti tanti stereotipi che un tempo apparivano irrinunciabili e smaschera l’inutilità e la strumentalità dei troppi equivoci che su questo tema si sono creati. Il nuovo insieme di concetti - il cui vettore cardinale va dalla rivendicazione della cultura del lavoro come lascito pregiato della nostra emigrazione all’esplicitazione della cultura delle libertà che ne è figlia naturale, delle quali bisogna rafforzare l’influenza all’estero (anziché incoraggiare il “rientro”) racchiude il senso di una svolta che si apre al futuro, perché ha il valore e il vigore di un nuovo paradigma.

Un tema divenuto problematico e oscuro, esaurito e a rischio di decomposizione, come è appunto quello degli “italiani nel mondo”, è

mente. Cambiare rotta in questo senso significa quindi correggere il tiro, e avanzando in maniera costruttiva nella nuova direzione il ministro Frattini dà prova della sua volontà, impeccabile anche dal punto di vista tattico, di porre rimedio al cumulo di errori che hanno fatto fallire il vecchio paradigma. La sua svolta può avere la caratura di una rivoluzione scientifica. Solo in virtù di un approccio alto e ideale di questo tipo l’Italia può infatti aspirare a ritrovare il pieno valore – e il pieno sostegno – della sua diaspora. Perciò è vitale che lo faccia il centrodestra. Se lungo il secolo della “grande emigrazione” l’Italia aveva solo chiuso gli occhi restando impassibile, negli ultimi anni essa non è rimasta affatto immobile, ma si è mossa in disordine. Fermarsi alla

A sinistra, il ministro degli Esteri Franco Frattini; a destra, Mirko Tremaglia, autore nella scorsa legislatura del centrodestra della Legge sul voto agli italiani all’estero. Sopra, un francobollo celebrativo del 2002 emesso dalla Repubblica

legge ad hoc che sancì la preminenza della politica in senso stretto sarebbe deleterio. Solo avanzando un passo oltre si avrà l’effetto unificante di una politica in senso ampio, organica agli interessi del Paese e in grado di conseguire il favore della diaspora in maniera capillare e sistematica. Non si deve pertanto aspettare che a indicare la strada siano i giovani convocati a dicembre, dei quali va piuttosto stimolata l’adesione a una direzione di marcia che veda alla guida un’Italia rinsavita. La Conferenza di dicembre è una “prima”in assoluto: la migliore occasione per lanciare e illustrare la nuova politica per gli italiani del mondo. E a dare la linea non può che essere il ministro degli Esteri. Se nei prossimi cinque anni Frattini avrà la forza di affrontare una storia fatta di indifferenza, arroganza, sprechi e sprovvedutezza, realizzando un autentico superamento prospettico capace di arginare l’influsso fuorviante dei politicanti dell’emigrazione, scuotere l’inerzia della burocrazia e azzerare le strumentalizzazioni ideologiche (a cominciare dal vizio capitale di confondere emigrazione e immigrazione), in favore di una sana, autorevole politica di valorizzazione della presenza italiana all’estero, l’Italia di Berlusconi riuscirà a conquistare in massa anche il sostegno (e non solo il voto) degli italiani del mondo.

Questa è la strada. La razionalizzazione degli organismi di rappresentanza degli italiani all’estero è solo uno dei fatti auspicabili. L’indispensabile riforma della legge elettorale, che dovrebbe convogliare il voto all’estero sui collegi nazionali, è il secondo. La sensibilizzazione della rete diplomatica è forse il primo. La chiarezza di idee ne indica altri. Dalla formazione in tutti i campi, tesa all’affermazione dell’identità italiana, all’allineamento di Rai International. Dall’esportazione delle associazioni di categoria, alla costituzione di una lobby mondiale (non una rete virtuale ma una reale alleanza italiana), in grado di contribuire tra l’altro anche allo sviluppo dei Paesi poveri. Senza i fatti, la propaganda è nulla. Senza questi fatti, e al di là di ogni sforzo, il mondo continuerà a essere terreno di sguazzo degli Schulz di turno, che andranno avanti a mancarci di rispetto senza vergogna, di proposito e a sproposito, con il placet dei nostrani agitatori – traditori – dovunque e per sempre. E’ un punto d’onore. La rotta è cambiata e il vento è buono. Siamo pronti al decollo. Il mondo non aspetta.


polemiche intolleranza mediatica e le polemiche che hanno affollato le pagine dei quotidiani dopo la pubblicazione dell’editoriale di Lucetta Scaraffia uscito qualche giorno fa sull’Osservatore Romano, suggeriscono altre considerazioni sul tema delicato e cruciale della morte cerebrale. Tutti possono consentire sulla definizione, in negativo, della morte come «fine della vita». Ma che cos’è la vita? La biologia attribuisce la qualifica di vivente ad un organismo che ha in sé stesso un principio unitario e integratore che ne coordina le parti e ne dirige l’attività. Gli organismi viventi sono tradizionalmente distinti in vegetali, animali ed umani. La vita della pianta, dell’animale e dell’uomo, pur di natura diversa, presuppone, in ogni caso un sistema integrato animato da un principio attivo e unificatore.

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L’

La morte dell’individuo vivente, sul piano biologico, è il momento in cui il principio vitale che gli è proprio cessa le sue funzioni. Lasciamo da parte il fatto che, per l’essere umano, questo principio vitale, definito anima, sia di natura spirituale e incorruttibile. Fermiamoci al concetto, unanimamente ammesso, che l’uomo può dirsi clinicamente morto quando il principio che lo vivifica si è spento e l’organismo, privato del suo centro ordinatore, inizia un processo di dissoluzione che porterà alla progressiva decomposizione del corpo. Ebbene, la scienza non ha finora potuto dimostrare che il principio vitale dell’organismo umano risieda in alcun organo del corpo. Il sistema integratore del corpo, considerato come un “tutto”, non è infatti localizzabile in un singolo organo, sia pure importante, come il cuore o l’encefalo. Le attività cerebrali e cardiache presuppongono la vita, ma non è propriamente in esse la causa della vita. Non bisogna confondere le attività con il loro principio. La vita è qualcosa di inafferrabile che trascende i singoli organi materiali, dell’essere animato, e che non può essere misurata materialmente, e tanto meno creata: è un mistero della natura, su cui è giusto che la scienza indaghi, ma di cui la scienza non è padrona. Quando la scienza pretende di creare o manipolare la vita, si fa essa stessa filosofia e religione, scivolando nello “scientismo”. Il volume Finis Vitae. La morte cerebrale è ancora vita?, pubblicato in coedizione dal Consiglio Nazionale delle Ricerche e da Rubbettino (Soveria Mannelli 2008), con il contributo di diciotto studiosi internazionali, dimo-

La morte cerebrale può essere definita un «punto di non ritorno»?

Quando la vita va oltre la razionalità scientifica di Roberto de Mattei stra questi concetti in quasi cinquecento pagine. Non solo non può essere accettato il criterio neurologico che fa riferimento alla «morte corticale», perché in essa rimane integro parte dell’encefalo e permane attiva la capacità di regolazione centrale delle funzioni omeostatiche e vegetative; non solo non può essere accettato il criterio che fa riferimento alla morte del tronco-encefalo, perché non è dimostrato che le strutture al di sopra del tronco abbiano perso la possibilità di funzionare se stimolate in altro modo; ma neppure può essere accettato il criterio della cosiddetta «morte cerebrale», intesa come cessazione permanente di tutte le funzioni dell’encefalo (cervello, cervelletto e tronco cerebrale) con la conseguenza di uno stato di coma irreversibile.

Lo stesso professore Carlo Alberto De Fanti, il neurologo che vuole staccare la spina a Eluana Englaro, autore di un libro dedicato a questo argomento (Soglie, Bollati Boringhieri,Torino 2007), ha ammesso che la morte cerebrale può essere forse definita un «punto di non ritorno», ma «non coincide con la morte dell’organismo come un tutto. È evidente come il «punto di non ritorno», posto che sia realmente tale, è una situazione di gravissima menomazione, ma non è la morte dell’individuo. L’irreversibilità della perdita del-

le funzioni cerebrali, accertata dall’encefalogramma piatto, non dimostra la morte dell’individuo. La perdita totale dell’unitarietà dell’organismo, intesa come la capacità di integrare e coordinare l’insieme delle sue funzioni, non dipende infatti dall’encefalo, e neppure dal cuore. L’accertamento della cessazione del respiro e del battito del cuore non significa che nel cuore o nei polmoni stia la fonte del-

la vita. Se la tradizione giuridica e medica, non solo occidentale, ha da sempre ritenuto che la morte dovesse essere accertata attraverso la cessazione delle attività cardiocircolatorie è perché l’esperienza dimostra che all’arresto di tali attività fa seguito, dopo alcune ore, il rigor mortis e quindi l’inizio della disgregazione del corpo. Ciò non accade in alcun modo dopo la cessazione delle attività cerebrali.

L’accertamento della cessazione del respiro e del battito cardiaco non significa che nel cuore o nei polmoni stia la fonte vitale

Oggi la scienza fa sì che donne con encefalogramma piatto possano portare a termine la gravidanza, mettendo al mondo bambini sani. Un individuo in stato di «coma irreversibile» può essere tenuto in vita, con il supporto di mezzi artificiali; un cadavere non potrà mai essere rianimato, neppure collegandolo a sofisticati apparecchi. La verità è che la definizione della morte cerebrale fu proposta dalla Harvard Medical School, nell’estate del 1968, pochi mesi dopo il primo trapianto di cuore di Chris Barnard (dicembre 1967), per giustificare eticamente i trapianti di cuore, che prevedevano che il cuore dell’espiantato battesse ancora, ovvero che, secondo i canoni della medicina tradizionale, egli fosse ancora vivo. L’espianto, in questo caso equivaleva ad un omicidio, sia pure compiuto ”a fin di bene”. La scienza poneva la morale di fronte a un drammatico quesito: è lecito sopprimere un malato, sia

In alto, la giovane Eluana Englaro e la copertina del libro pubblicato dal Cnr ”Finis Vitae, la morte cerebrale è ancora vita?”. In basso, il pioniere dei trapianti cardiaci, Chris Barnard

pure condannato a morte, o irreversibilmente leso, per salvare un’altra vita umana, di “qualità” superiore? Di fronte a questo bivio, che avrebbe dovuto imporre un serrato confronto tra opposte teorie morali, l’Università di Harvard si assunse la responsabilità di una “ridefinizione” del concetto di morte che permettesse di aprire la strada ai trapianti, aggirando le secche del dibattito etico. Non c’era bisogno di dichiarare lecita l’uccisione del paziente vivo, era sufficiente dichiararlo clinicamente morto. In seguito al rapporto scientifico di Harvard, la definizione di morte venne cambiata in quasi tutti gli Stati americani e, in seguito, anche nella maggior parte dei Paesi cosiddetti sviluppati (in Italia, la “svolta” fu segnata dalla legge 29 dicembre 1993 n. 578 che all’art. 1 recita: «La morte si identifica con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni del cervello»).

La natura del dibattito non è dunque scientifica, ma etica, Che questa sia la verità lo conferma il senatore del Pd Ignazio Marino che in un articolo apparso su Repubblica la scorsa settimana definisce l’articolo dell’ Osservatore Romano «un atto irresponsabile che rischia di mettere in pericolo la possibilità di salvare centinaia di migliaia di vite grazie alla donazione degli organi». Queste parole insinuano innanzitutto una menzogna: quella che il rifiuto della morte cerebrale porti alla cessazione di ogni tipo di donazione, laddove il problema etico non riguarda la maggior parte dei trapianti, ma si pone solo per il prelievo di organi vitali che comporti la morte del donatore, come è il caso dell’espianto del cuore. Ciò spiega come Benedetto XVI, che ha sempre nutrito riserve verso il concetto di morte cerebrale, si sia a suo tempo detto favorevole alla donazione di organi. Il vero problema è che il prezzo da pagare per salvare queste vite è quello tragico di sopprimerne altre. Se un tempo i segni tradizionali della morte dovevano accertare che una persona viva non fosse considerata morta, oggi il nuovo criterio ”harvardiano” pretende di trattare il vivente come un cadavere per poterlo espiantare. A monte di tutto questo sta quel medesimo disprezzo per la vita umana che dopo avere imposto la legislazione sull’aborto vuole spalancare la strada a quella sull’eutanasia.


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il personaggio

Il centenario dalla nascita è l’occasione per riscoprire uno scrittore scomodo, difficile: un mito negli anni Settanta, ma oggi lontano dalle giovani generazioni

Dimenticare Pavese? di Mario Bernardi Guardi

er noi, liceali degli anni Sessanta, Pavese era un’icona. Amavamo la sua solitudine, l’ostinato prolungarsi adolescenziale in una scontrosa timidezza che poi si sfaceva in trasalimenti romantici, il vitalismo nevrotico sempre confinante con la voglia di morte. Ci sentivamo “rappresentati” nell’estenuazione dei sensi e dei sentimenti; quando lo sentivamo terrestre e carnale, avvitato alle Langhe come a uno spazio alieno, dove non c’è Provvidenza, ma evidenza terribile di cose e uomini così come sono; e quando lo vedevamo inoltrarsi nei territori della Poesia e del Mito, alla cerca di emozioni arcane, fondate su una identità primitiva e sacrale. Amavamo Pavese perché amavano l’inquietudine, e lui questo era: inquietudine. Voce accorata che chiede un incontro e subito fugge via, e chiama e di nuovo si chiude: molto deserto e un po’ di tenerezza, ma sempre franchezza disarmante. Lo amavamo nelle tensioni irrisolte e nell’intenzione, esplicita od occulta, di far finalmente pace col mondo. Eravamo ragazzi disperatamente felici, anche perché leggevamo Pavese.

P

che passa oggi il giovanil convento. E tuttavia bisogna avere il coraggio di proporre Pavese ai ragazzi. Aprendo un varco nella loro sensibilità arruffata e avvilita da banalizzazioni e minimalismi quotidiani. Illuminando una testimonianza poetica di rango. E mostrando quanta delicata sapienza ci sia dietro quel che, a un primo approccio, può apparire duro e oscuro, tetro ed ostico. Da che cosa cominciare? Magari dai versi di Lavorare stanca che, nella seconda metà degli anni Trenta, quando i modelli ermetici dominavano, proposero viaggi nella memoria ancestrale, squarci di epica povera, evocazioni identitarie affidate a una narrazione cantata, “omericamente”

solo/- un grand’uomo tra idioti o un povero folle-/ per insegnare ai suoi tanto silenzio». Insegnare il «silenzio» della propria terra, magari andando lontano, magari da lontano: tanto, quando si torna, e si trova tutto nuovo, «le Langhe non si perdono».

È difficile ritrovare, e cioè propriamente, “capire” il mondo di Pavese? E rendersi conto che, nel personalissimo fluire di pensieri ed immagini, è “di noi” che racconta, mescolando la realtà più concreta e dimessa, e il richiamo “viscerale” alla dimensione mitica e agli archetipi? Ma tutto in Pavese è difficile (dunque doloroso, dunque vero). Ad esempio, tutti sanno che Pavese non fu mai fascista (anche se nel 1932 prese la tessera del Pnf) e che nel maggio del 1935 fu arrestato a Torino, insieme ad altre duecento persone, tra cui Giulio Einaudi e tutta la redazione della rivista La Cultura. È noto che Pavese fu condannato a tre anni di confino (ma, in seguito a una sua domanda di grazia, la pena gli fu accorciata e nel marzo del ’36 poté rientrare a Torino, dove scoprì che la sua donna si era sposata con un altro) e inviato a Brancaleone Calabro, dove cominciò a scrivere il proprio diario, Il mestiere di vivere. Ebbene, il nostro è per certi versi il primo scrittore “revisionista”. Infatti, nelle pagine conclusive del romanzo La casa in collina (1948), possiamo infatti leggere una profonda testimonianza di “pietas” per quelli della “parte sbagliata”: «Ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l’ha sparso. Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso. Si ha l’impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce - si tocca con gli occhi - che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per que-

I liceali del terzo millennio, se dietro sollecitazione del professore si mettono a leggere un suo libro, quasi sempre fanno una fatica dannata ad andare oltre le prime pagine

I liceali del terzo millennio, invece, se dietro sollecitazione del prof si mettono a leggere un libro di Pavese, quasi sempre fanno una fatica dannata ad andar oltre le prime pagine. Non lo capiscono, lo sentono lontano, carico di un’amarezza che fa star male (e loro non vogliono star male), perennemente crucciato perché intimamente solo come un cane, con la sfiga appiccicata addosso e le donne che la fiutano e fuggono, perché genio e sregolatezza van bene, ma se ci metti dentro un umor nero a temperatura costante, ti rovini la vita. Pavese è un altro cielo o, se si preferisce, un altro inferno: non ti eccita, non ti consola, non è una bella emozione che ti coinvolge e magari ti droga, parla una lingua che non capisci, e non perché sia criptica, ma perché appare estranea nella “sostanza”, malinconica, raggelante, e se insisti con la lettura, ecco che ti senti soffocare, ti afferra uno sgomento claustrofobico, e così butti via il libro. Cercando di non buttar via la maturità, se te lo ritrovi tra le tracce stilate dal solito prof sentimentalmente abbarbicato alle sue letture adolescenziali e ignaro di quel

solenne. Come nei Mari del Sud: «Camminiamo una sera sul fianco di un colle,/ in silenzio. Nell’ombra del tardo crepuscolo/ mio Cugino è un gigante vestito di bianco,/ che si muove pacato, abbronzato nel volto,/ taciturno. Tacere è la nostra virtù./ Qualche nostro antenato dev’essere stato ben

Qui sopra e nella pagina a fianco, due ritratti di Cesare Pavese negli anni Quaranta. Al centro, la riproduzione di una sua lettera autografa al padre.

sto ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione».

Sono parole di straordinaria nobiltà. Un altro “revisionista”, Giampaolo Pansa, le scelse come epigrafe del suo romanzo I figli dell’Aquila (Sperling & Kupfer, 2002) dove racconta la storia di un ragazzo di Salò. Sono parole che dovrebbero figurare in ogni antologia per la scuola media superiore e che potrebbero offrire spunto per una “maturità” come si deve. Un bell’«esame» non solo per i ragazzi, ma per i tanti adulti - soprattutto politicanti di basso conio - cha ancora non sanno dire una parola giusta per risolvere in “memoria condivisa” i nodi della guerra civile prolungata e strisciante. Ma torniamo a Pavese. Sì, era un tipo “difficile”. Lo dimostrano queste parole generosamente “alte”, che scrisse da


il personaggio gressivo” piuttosto che odorare di “razionale progressivo”,a partire dall’attrazione verso i miti della terra e del sangue (non era robaccia “nazista”?), la “religiosità” della natura, gli archetipi.

Comunque, la tessera del Pci in tasca era una garanzia, no? Poi, nel 1990, esplode il “caso”: La Stampa pubblica inediti fogli del diario vergato da Pavese tra l’estate del ’42 e il dicembre del ’43 e subito ci si accorge che quelle note scottano. Dentro, infatti, non c’è l’antifascista che tutti si aspettavano. Anzi. Pavese non sputa sul “bieco Ventennio”; dichiara la propria ripugnanza per Badoglio e il Re fuggiaschi; appare più filotedesco che filoamericano; mostra interesse per l’opera di Nietzsche e di Jünger (al pari di un altro antifascista “anomalo”, Giaime Pintor); e prende atto, con lucido realismo, che guerre e rivoluzioni non sono una passeggiata, ma sono fatte di violenza, spietatezza e feroce decisionismo. No, così non va. “Compagni” e intellettuali radical-chic ci restano male. Giancarlo Pajetta tuona contro il vigliacco e il disertore che non aveva fatto la Resistenza ma si era nascosto in Monferrato, insieme alla sorella, durante l’occupazione tedesca; la libertaria, “beat” e pavesiana doc Fernanda Pivano appare sbalordita: no, non può esser lui, non lo riconosco; Fernando Camon tira fuori l’orribile sospetto che, a suo tempo, il “piccolo Cesare” (perché adesso qualche compagno lo chiama così) abbia detto no a Primo Levi, insomma non gli abbia pubblicato Se questo è un uomo, «non ritenendo importante che certe cose fossero rese note».

“comunista”, visto che già nel 1945 aveva preso la tessera del Pci. A noi, liceali degli anni Sessanta, nella stragrande maggioranza anticomunisti, quel “compagno” piaceva. Piaceva a tutti. E gli intellettuali di sinistra ne parlavamo in termini ammirati: Pavese detestava la retorica guerrafondaia del fascismo; credeva nei valori della Resistenza; confidava nella forza redentrice del comunismo; faceva il direttore editoriale della antifascistissima Einaudi; sulle pagine de l’Unità esaltava la cultura impegnata ecc. Insomma, un santino rosso. Anche se… Anche se già allora alcuni aspetti della sua personalità, della sua poetica e della sua “ideologia” lasciavano perplessi: quell’individualismo, quell’inclinazione a chiudersi nel privato, quegli atteggiamenti decadenti, quel rovello autodistruttivo, no, non erano cose belle… E qualcosa puzzava di “irrazionale re-

Insomma, se non siamo al Pavese “fascista” o addirittura “negazionista”, poco ci manca. Eppure bastava leggerlo con attenzione per capire che si trattava di un uomo e di un intellettuale, ripetiamo, “difficile”. Anticonformista. Controcorrente. Già dovevano suscitare dubbi e perplessità i Dialoghi con Leucò (1947), che, nel pieno della stagione del neorealismo, riscoprivano le tradizioni mitiche e magiche e celebravano i perduti, profondi legami tra l’uomo e la natura; e poi quella dichiarata e maledettamente scorretta pietà per i vinti che segna indelebile le pagine di La casa in collina; e, ancora, il fatto che, in piena riorganizzazione della casa editrice Einaudi, il “piccolo Cesare” (un fior di reazionario? Anzi, un “fiore del male” reazionario?) volesse inserire nella «Collana di studi religiosi, etnologici e psicologici» le opere dello studioso rumeno Mircea Eliade. Vale a dire di un fascista patentato, già ardente seguace delle idee di Corneliu Zelea Codreanu, il fanatico leader delle Guardie di Ferro. Insomma, nel 1990 Pavese fece scandalo solo per chi,a suo tempo, si era rifiutato di “conoscerlo”. Di “leggerlo”. Perché se nella Casa in collina c’è tutt’altro che retorica partigiana, lo stesso discorso vale per La luna e i falò dove una ragazza fascista, Santina, accusata di essere una spia, viene bruciata in un fuoco sacrificale; e dove il mezzadro Valino, per odio di classe, stermina la famiglia, dà alle fiamme la casa, il fienile, la stalla e infine si impicca. Scandaloso Pavese, tutto da riscoprire.

10 settembre 2008 • pagina 21

Ritratto di un grande testimone del tempo

E io invece dico che è da rileggere di Leone Piccioni o conosciuto Cesare Pavese nell’agosto del 1950 a Forte dei Marmi. Nell’agosto del 1950 Pavese si suicidò. Si può dunque capire con che animo io ripensi a quei giorni e al buon rapporto che avevo costituito con lui.

H

Tutto nacque da alcune recensioni precedenti al ’50 che avevo dedicato ai libri di Pavese, anche ai primi, quelli di un rude tentativo di presentarsi come uno scrittore molto legato alla materia. Ma la cosa che ci legò d’amicizia fu una lettera che Pavese mi inviò in seguito a un articolo che scrissi su Il diavolo sulle collina. Per descrivere l’atteggiamento centrale di Pavese narratore mi venne da definirlo «autore del diario degli altri». Questa definizione gli piacque molto e il nostro carteggio si infittì. Venne poi quel libro bellissimo che chiude al meglio la carriera letteraria di Pavese, La luna e i falò. Ero sempre stato - come ho detto - un estimatore di Pavese, ma questi due titoli lo elevarono a un’altezza non prima raggiunta. La luna e i falò e Il diavolo sulle colline sono i capolavori della sua attività letteraria anche, e specialmente, se si mettono in confronto con quello che il mercato librario ci elargiva. Sono stati molti gli scrittori pienamente degni di ammirazione nel Novecento italiano, ma Pavese con quei libri indicava il momento, che momento non fu, di una nuova partecipazione psicologica dell’autore con i suoi personaggi. Qui nasce un piccolo problema: io ero convinto, e lo scrissi, che Pavese fosse stato influenzato più che dalla letteratura americana nel suo insieme (che egli conosceva benissimo) da Francis Scott Fitzgerald. È curioso, appunto, che questo scrittore non sia mai citato nell’opera di Pavese benché Pavese, anche per iscritto, sollecitasse Calvino e Giulio Einaudi a tradurne in italiano i libri. Pavese era di passaggio a Forte dei Marmi in quell’agosto del ’50 perché allora in quella bella Versilia si ritrovavano molti scrittori a quel caffè che è diventato per questo famoso, «Il

quarto platano». Si ritrovavano a quei tavoli, facendo ben pochi nomi, Pea, De Robertis, Longhi, Montale, e di passaggio (venendo da Bocca di Magra dove villeggiava), Vittorini. Erano frequenti anche le apparizioni di Ungaretti che era membro della giuria del tanto discusso Premio Viareggio (dimenticavo di dire, ma non voglio dimenticarmene, che tra gli scrittori di quel periodo con Pavese, sia pure con tratti completamente differenti, si affacciava la personalità e l’intelligenza di Elio Vittorini, e non solo per i suoi romanzi. Ai più giovani interessati alla letteratura, consiglierei di non dimenticare né Pavese né Vittorini). Qual era il carattere di Pavese? Era quello di un uomo profondamente deluso dalla vita malgrado i successi e le vicende alterne dell’esistenza. A mio parere, da una sua consistenza un po’ pigra e denigratoria di se stesso Pavese tentò di reagire in due modi: impegnandosi, finché poté, nelle vicende politiche del Partito comunista, e sognando un grande amore per la sua vita. Si vide chiaramente che dal Partito comunista Pavese si stava allontanando deluso. Si seppero poi tutti i suoi patimenti per l’amore con un’attrice americana che lo aveva forse illuso nella sua seconda speranza, ma quell’amore finì presto insinuandosi nell’animo di Pavese anche il sospetto di non poter essere un amante impegnato. A queste due importanti e determinanti delusioni non seguì alcuna vera e profonda autostima. In questi fallimenti io vedo il carattere di Pavese.

L’ho conosciuto nell’agosto del 1950 a Forte dei Marmi. Proprio l’anno in cui si suicidò

Ero sulla terrazza dell’Hotel Hassler a Roma, nel giugno del ’50, quando gli fu assegnato con una vera e sentita festa il Premio Strega per La bella estate. Pavese non era solo, aveva accanto la sorella della sua amata. Anche quella sera potetti vederlo, fu possibile stare un po’ con lui, malgrado la ressa degli altri scrittori e dei giornalisti, e rimasi nel convincimento che quel pur ambito premio non lo ripagava dei dolori subiti. Due mesi dopo, in uno squallido albergo torinese Pavese si ammazzò.


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LA DOMANDA DEL GIORNO

Stadio San Paolo a porte chiuse. Siete d’accordo? SOLO UN DANNO ALLA SOCIETÀ

TUTTI A CASA

Ma perché deve rimetterci il Napoli calcio, se un pugno di scapestrati ha deciso di passare la domenica a devastare treni e creare disordini? Che cosa mai dovrebbe fare il presidente De Laurentis affinchè questi episodi non si ripetono? Dovrebbe prendere le impronte digitali all’ingresso dello stadio? Garantire la sicurezza in luoghi pubblici come uno stadio è compito delle forze dell’ordine, che devono tutelare la sicurezza dei cittadini. È la polizia a dovere avere il monopolio della violenza in uno stato di diritto, e non come accade in Italia, i tifosi, ormai sempre più simili a stupidi guerriglieri senza causa, ottusi attaccabrighe senza neppure ideali. La logica del branco deve essere sgominata a partire dalle strade, perché le esplosioni di violenza che costellano gli eventi calcistici non sono che un distillato di condotte abitualmente assunte da persone che non hanno rispetto per nessuno e guardano alla convivenza e al bene pubblico solo come a giganteschi moloch da abbattere a calci e pugni attraverso la prevaricazione, l’insulto e la ferocia.

È ora che facinorosi e teppistelli, come i guappi e i cretini che amano dilettarsi in piccole e grandi performance di barbarie domenicale, siano costretti a starsene a casa propria. Dispiace che il calcio, sport popolare per definizione debba essere ammutolito e strozzato dalle autentiche urla di festa e di passione civile che ne ha sempre accompagnato le fasi di gioco, ma disagio giovanile, antipolitica e ammuine sono stati assorbiti nel fenomeno ultrà, ormai spietatamente contaminato da frange camorristiche e terroristiche che fanno della violenza sorda e indistinta i propri tratti costitutivi. Lo stadio è diventato ormai luogo d’incontro di malavitosi e malintenzionati, zoo assortito popolato di faune che con l’ambiente calcistico non hanno nulla da spartire. Tutto questo non può essere ignorato. E di fronte all’evidenza, sempre più sesquipedale, di che cosa sia diventato il tifo italiano, non resta che pensare a quel famoso film di Comencini: tutti a casa

Damiano Morello Lipari (Me)

LA DOMANDA DI DOMANI

Proposta di legge Brunetta – Rotondi sulle unioni civili: Favorevoli o contrari?

Carlo Abbruscato Faenza

PERCHÉ DEBBONO PAGARE I VERI APPASSIONATI DI CALCIO? Non è giusto che per colpa di pochi scalmanati esagitati, ci sia tolto il piacere di guardare giocare la nostra squadra allo stadio. Il fatto è che le forze dell’ordine devono essere capaci di isolare i violenti e di espellerli vita natural durante dalle manifestazioni sportive, e infliggendo loro pene durissime. Una città come Napoli si è sudata il palcoscenico della serie A dopo innumerevoli traversie e adesso che la squadra promette di potere tornare tra le grandissime, noi tifosi che amano il calcio e lo vivono però con somma civiltà non stiamo nella pelle, all’idea di non potere seguire i nostri beniamini. La soluzione non è chiudere gli stadi e basta, la vera soluzione è chiudere lo stadio a chi dimostra di non poterci stare per manifesta inciviltà, e comunque di non farlo entrare. I criminali vanno isolati, e la camorra deve starsene alla larga dal calcio, che già di suo ha molti problemi.

Rispondete con una email a lettere@liberal.it

QUALE AGENDA POLITICA PER IL PAESE? CONVEGNO A SANTA MARIA DI LEUCA Quale agenda politica per il Paese? È il tema della tavola rotonda promossa da Mario De Donatis e Ignazio Lagrotta, rispettivamente il primo Presidente dell’Associazioni “Identità e Dialogo” e il secondo Coordinatore dei “Liberal” di Puglia, che si svolgerà a Santa Maria di Leuca, domenica 14 settembre p.v. I lavori – che avranno inizio alle ore 18:30 e termine alle ore 21:00 – si svolgeranno presso l’Hotel Terminal – Gruppo Caroli Hotels della richiamata cittadina turistica. Parteciperanno alla tavola rotonda Paola Binetti, Marco Follini, Francesco Rutelli, Bruno Tabacci, Michele Emiliano e Angelo Sanza. L’apertura dei lavori è affidata a Mario de Donatis, Presidente Associazione Identità e Dialogo e ad Ignazio Lagrotta, Coordinatore regione Puglia Circoli Liberal. L’iniziativa si propone – alla ripresa della vita

Gennaro Francini Napoli

A PROVA DI PUNTURA Due delle “concorrenti” del Quick Chek Festival of Ballooning, una spettacolare parata di mongolfiere che si tiene tutte le estati nel New Jersey (Usa).

L’INDIA DIFENDA LA MEMORIA LAICA DI GANDHI Le violenze anticristiane nella regione dell’Orissa rendono ancora più attuali le riflessioni di Amartya Sen sulla necessità di valorizzare la tradizione razionale, tollerante e ”laica”che fa parte del patrimonio culturale indiano Moghul – dall’imperatore Ashoka al Mahatma Gandhi – e si riflette nella Costituzione di quel Paese. Anche l’India deve difendere la laicità della sua Costituzione e combattere ogni forma di fondamentalismo, fanatismo e intolleranza. Come insegna la straordinaria testimonianza di Gandhi, uno spirito religioso accoglie la dimensione della libertà della coscienza e della laicità. Dall’amore ricevuto da Dio non può che generare sincero altruismo, ri-

dai circoli liberal

politica e parlamentare del nostro Paese – di aprire un dialogo tra riferimenti di partiti politici di opposizione portatori di valori e principi che si ispirano alla dottrina sociale della Chiesa ed al riformismo laico e liberale. Tanto al fine di concorrere a delineare una “agenda politica” in grado di avviare un processo di riaggregazione del consenso sulla base di un progetto e dei programmi condivisi “di nuovo conio”. Se vogliamo “Santa Maria di Leuca” intende riprendere – cogliendo lo spirito dei “coraggiosi di Montecatini” e dei “centristi di Todi” – un percorso per la costituzione, nel medio periodo, di un’area culturale-politica, capace di ridare spazio alla “Politica”, oggi sempre più relegata a questioni, pur importanti, di carattere gestionale, tanto da apparire molto spesso – per effetto anche della comunicazione governativa – “un insieme di emergenze da risolvere”. L’impegno delle Associazioni promotrici dell’ini-

spetto e desiderio di bene per l’altro, compassione; per i cristiani carità (la carità di Madre Teresa). Mi auguro che l’India, grande paese di spiritualità, di saggezza, di cultura e anche di sviluppo democratico e socioeconomico, con importanti relazioni con l’Italia (come confermano gli accordi bilaterali sottoscritti nel corso dell’ultima visita in India dell’allora presidente del Consiglio Romano Prodi), possa dare un grande contributo per la convivenza tra uomini e religioni e per la costruzione di un ordine internazionale che garantisca e promuova i diritti umani universali. Aggiungo infine vivissimi complimenti per la fiaccolata promossa da liberal

Matteo Prandi Dottore in ricerca diritto ecclesiastico

ziativa è, al contempo, quello di concorrere – a partire dal livello regionale - alla definizione di “un progetto Paese” nel contesto della globalizzazione e delle sfide che la stessa impone. La ricerca di modelli di sviluppo nuovi si impongono per ridurre le distanze sociali in Italia e nel mondo, partendo da un uso delle risorse compatibile con l’ambiente e la dignità della persona.

ATTIVAZIONI Il coordinamento regionale della Campania ha attivato un numero verde per aderire ai circoli liberal del territorio

800.91.05.29


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog ANCHE LE AZIENDE LIBERE DA FANNULLONI

Procedo per sentieri interrotti Hannah, gli auguri per il tuo compleanno sono già da un po’ di tempo in viaggio. È una carlina che cresce nei prati intorno alla baita. Se lo spazio lo consente, dovresti appenderla con un filo di seta al soffitto sopra il tuo letto. Da lì essa ti rifletterebbe il sole. Al minimo soffio si metterebbe a oscillare e girare. Col cattivo tempo talvolta si chiude. In essa sono tutti i pensieri e gli auguri. Speriamo soltanto che sia riuscita ad arrivarti, inattesa, al momento giusto. Ti ringrazio per i tuoi auguri di compleanno e per aver pensato a Stifter. Noi abbiamo dovuto interrompere anticipatamente il nostro soggiorno in baita. Il tempo era cattivo, freddo, umido e tempestoso. Continuo a procedere per sentieri interrotti. Conosci il quarto (ultimo) movimento del primo concerto brandeburghese? Entrambi ti salutiamo affettuosamente per il tuo compleanno con tutti i più cari auguri. Martin Heidegger ad Hannah Arendt

BASTA CON LE MANFRINE DELL’ANTIFASCISMO Le polemiche recenti tra fascismo e resistenza, mi riportano indietro di 40-50 anni. A questo punto mi domando: cui prodest ( a chi giova)? Quando i politici, di cultura totalitaria, sono in difficoltà, si porta l’attenzione dei cittadini su falsi obiettivi, per distrarli da altri argomenti che li vedrebbero in crisi. A volte è un nemico esterno, a volte interno. Riaprire il contrasto tra fascismo e resistenza, ormai nelle mani degli storici, è ridicolo e non più sentito dagli elettori. Si possono dire due cose: che, alla luce di quanto sopra, il Pd e alcuni suoi uomini di spicco stiano attraversando momenti di forti contrasti interni. Secondo che alcuni suoi dirigenti e quotidiani di fiancheggiamento hanno spostato l’attenzione sulla polemica ( quella di sempre) che ha dato spesso buoni frutti. Ergo, non penso sia la maggioranza ad alimentare il fuoco: spero soltanto che si capisca presto quanto sia ormai ridicolo scrivere ancora fiumi di parole per la centesima volta.

Leopoldo Chiappini Guerrieri Roseto degli Abruzzi (Te) e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)

ACCADDE OGGI

10 settembre 1919 - L’Austria e le potenze Alleate firmano un trattato che riconosce l’indipendenza di Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia e Jugoslavia 1943 - Le truppe tedesche iniziano l’occupazione di Roma durante la seconda guerra mondiale 1967 - La popolazione di Gibilterra vota per rimanere una dipendenza britannica 1974 - La Guinea-Bissau ottiene l’indipendenza dal Portogallo 1977 - Hamida Djandoubi, viene ghigliottinato a Marsiglia. Sarà l’ultima esecuzione capitale eseguita in Francia. 2002 - La Svizzera entra nelle Nazioni Unite 2003 - Anna Lindh, il ministro degli esteri svedese, viene accoltellata a morte 2006 - Michael Schumacher annuncia il suo ritiro dalla Formula 1 2007 - Incendio nella galleria della SS 36 vicino Lecco: 2 morti e 140 intossicati

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Giancristiano Desiderio,

Chi si trova d’accordo con quanto sta facendo il ministro della Funzione pubblica, accoglierà con piacere le parole della presidente dei giovani di Confindustria, la dottoressa Guidi. Al diavolo i pudori e le ipocrisie, siamo sinceri: i fannulloni e gli organici ridondanti ci sono anche nelle aziende private. C’è bisogno di una lotta di liberazione dai furbi, dagl’inautentici e dagli sfaticati. La battaglia va combattuta ad ogni livello, anche dirigenziale, con un solo obiettivo: liberare le aziende, incuranti delle proteste delle vetuste opposizioni ideologiche e sindacali. Sì, perchè s’instauri una logica sana, virtuosa, competitiva e premiante per i tanti lavoratori corretti e per i migliori, ci vuole un Renato Brunetta in ogni azienda e posto di lavoro.

Pierpaolo Vezzani Correggio (Re)

VIVA IL MAESTRO UNICO Un unico maestro per imparare a leggere/scrivere e a far di conto, che dai sei anni segue fino alle soglie dell’adolescenza, riparerebbe in parte i guasti emotivi e relazionali lasciati a troppi bambini dalle separazioni e/o disordinate unioni sentimentali dei propri genitori.

Matteo Maria Martinoli Milano

PUNTURE Veltroni lascia il museo dell’Olocausto, ma rimane al museo del Pd.

Giancristiano Desiderio

La morale è la tendenza a buttare via la vasca con l’acqua sporca col bambino dentro KARL KRAUS

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il meglio di IL PDL È LA NUOVA DC? La recente visita in Sardegna di Benedetto XVI, e l’evidente affabilità del Santo Padre con Gianni Letta e Silvio Berlusconi, hanno ridato forza ai “rumors”di un possibile, forte interessamento della Chiesa nei confronti del nuovo progetto politico ideato dal Cavaliere, contenitore di Forza Italia, Alleanza Nazionale e gruppi minori, ovvero il Popolo delle Libertà. Questo partito, vero vincitore delle ultime elezioni politiche nazionali, in effetti possiede alcune caratteristiche o potenzialità simili alla “Balena Bianca” defunta quasi 15 anni fa. Innanzitutto, la vocazione moderata e popolare. Ora, è evidente che questa apparente “somiglianza” con la DC, in realtà, contiene anche importanti differenze. Il PDL infatti è costituito anche dalle forze di destra (AN), e addirittura da ex-socialisti e componenti marcatamente liberali. Insomma, è una unione effettivamente eterogenea, tenuta insieme dal “leader”, dall’onnipresente Berlusconi. La DC, pur divisa in correnti, costituiva invece il “partito unico dei cattolici”. Eppure, nonostante tutto, anche il PDL sembra una iniziativa che attira buona parte del consenso cattolico, destinato ad allargarsi non solo a destra con AN, ma pure verso il centro, ricomprendendo l’elettorato di una UDC ormai sull’orlo dello svuotamento. Il PD presenta solo una componente cattolica minoritaria ( i cosiddetti “TeoDem”), ininfluente in Parlamento e schiacciata dal peso preponderante degli ex-comunisti. Gli ex-popolari come Marini rappresentano al più il residuo della corrente sinistra della Dc, e

Rutelli ha una storia politica personale discutibile. Solo il PDL, nell’attuale quadro politico, può aspirare a divenire il referente politico della gerarchia. Del resto, il centrodestra si è sempre opposto a proposte contrarie al magistero, come quella dei DICO sulle coppie di fatto, promossa invece proprio dal Partito Democratico, in spregio alla sensibilità cattolica. Solo il PDL può raggiungere percentuali superiori al 40%, e costituire una forza a vocazione maggioritaria, un “blocco d’ordine” con esclusione delle forze progressiste e di quelle troppo a destra. Insomma, come la DC, il Popolo delle Libertà si avvia a diventare un partito essenziale per i destini di qualsiasi maggioranza e governo, mentre il PD pare rassegnato al ruolo di eterna opposizione (come il PCI, ai tempi). Il paragone forse risulta forzato, ed effettivamente ci sono tantissimi altri fattori da considerare. Non è possibile, quindi, semplificare a tal punto da far coincidere il PDL con la DC, e il PD con il PCI. Eppure, l’interessamento del Pontefice verso il PDL, in forme e modi rispettosi e indiretti, qualcosa pur significa. Si badi, non si vogliono strumentalizzare i gesti e le parole del Papa, che del resto possono divenire oggetto di molteplici interpretazioni. Ma la Chiesa sa bene che in tempi cupi, con una società in trasformazione e sempre più secolarizzata, è necessario influire sulla politica e sui governi, con equilibrio e senza eccedere, in rispetto della sensibilità di quei cattolici che con Berlusconi non vogliono avere nulla a che fare.

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PAGINAVENTIQUATTRO L’avventura di un giovane campione, da Teheran all’Nba

La crisi Iran-Usa risolta dal

BASKET di Cristiano Bucchi

n Italia sarebbe una notizia sportiva come un’altra: tecnicamente, una breve sul mercato del basket. Ma negli Stati Uniti sicuramente farà scalpore. Prima di tutto per i pessimi rapporti tra Iran e Usa, poi per l’embargo commerciale con Teheran, infine per quell’alone di paura che ormai dall’11 settembre 2001 i cittadini americani si portano dietro nei confronti dei mediorientali. Stiamo parlando di Hamed Haddadi, un gigante di 218 centimetri destinato a diventare il primo iraniano a giocare in Nba, vale a dire nel campionato di basket più blasonato del mondo. Il 23enne già nel 2004 fu notato dalla federazione americana nella Summer League di Salt Lake City dove con la maglia della propria nazionale aveva messo a segno oltre 28 punti in due gare. Purtroppo però una disposizione della federazione proibisce alle proprie squadre di trattare il giocatore, a causa di una norma federale che vieta a cittadini o a organizzazioni statunitensi di avere rapporti commerciali con iraniani e così il discorso era stato rinviato.

I

Ma dal momento che la globalizzazione non ha ideologie, se non quella di mercato puro, l’offerta è arrivata lo stesso. A farsi avanti per primi i Memphis Grizzlies che, ottenuto il nul-

la osta da parte dell’ufficio governativo per gli affari esteri, hanno potuto mettere sotto contratto il nuovo pivot, miglior rimbalzista e miglior stoppatore alle recenti olimpiadi di Pechino. «Siamo lieti che Hamed abbia firmato con noi – ha commentato il General Manager e Vice presidente dei Grizzlies, Chris Wallace – è un giovane centro molto bravo sui rimbalzi, sulle stoppate. I nostri tecnici sono ansiosi di cominciare a lavorare con lui». Così, mentre i legami diplomatici sembrano stagnanti, gli Stati Uniti cercano di costruire un ponte con l’Iran organizzando –

sarò in campo con i miei nuovi compagni si svilupperà una sana competizione. Il gioco servirà ad unirci e ad avvicinarci».

In fondo, una cosa non dissimile successe nel 1974, quando i mondiali di calcio si giocarono nell’allora Germania dell’Ovest: ironia della sorte, le nazionali di Ddr e Germania occidentale si ritrovarono nello stesso girone eliminatorio. Ebbene, mentre i due governi si guardavano con sospetto, i tifosi divennero di una sola nazione. E applausi per tutti al termine della partita vinta dalla Ddr per 1 a 0. Ma non sempre lo sport ha unito i popoli: forse sono maggiori i casi in cui ha dato spazio al nazionalismo e alla politica. La semifinale di pallanuoto alle Olimpiadi di Melbourne del 1956 tra Ungheria e Urss, giocata solo tre settimane dopo l’invasione dell’Ungheria da parte delle truppe del Patto di Varsavia, fu talmente violenta che i cronisti del tempo riferirono che l’acqua della piscina divenne rossa di sangue.

Si chiama Hamed Haddadi è un gigante di 218 centimetri. Per comprarlo, i Memphis Grizzlies hanno dovuto aggirare le maglie dell’isolamento commerciale perché no – scambi sportivi. La visita della nazionale di basket iraniana due mesi fa ne era stata un esempio: per dimostrare che il disappunto non riguarda la popolazione ma solo il governo iraniano.

In un’intervista telefonica, Hamed Haddadi ha confidato di essere rimasto molto sorpreso dal benvenuto che i nuovi compagni di squadra gli hanno riservato, forse perché credeva che al proprio arrivo ci sarebbero state inevitabili manifestazioni di protesta. «Le persone sono state molto gentili con me – ha spiegato Haddadi - sono sicuro che quando

Tra Stati Uniti e Iran però è tutta un altra storia, con i due contendenti che strillano e mostrano i muscoli. A tener banco, la questione nucleare che molto preoccupa l’amministrazione americana sempre più divisa tra l’embargo ed un eventuale attacco alle postazioni missilistiche di Teheran. In mezzo al fuoco adesso c’è Hamed Haddadi con il suo pallone alzato verso il cielo e un sogno nel cassetto: quello che le uniche bombe a cadere siano i suoi tiri da tre. Quei canestri che un pomeriggio di fine estate improvvisamente lo hanno portato alla ribalta mondiale.


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