QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA
Un altro tragico fallimento finanziario, 26000 disoccupati, 6000 in Europa
di e h c a n cro
Crollano le banche, impazziscono le Borse: siamo tutti Lehman Brothers
di Ferdinando Adornato
di Gianfranco Polillo
L
L’ANNO SCOLASTICO COMINCIA TRA LE PROTESTE
La guerra della scuola
9 771827 881004
ISSN 1827-8817 80916
Di fronte al ministro Gelmini un drammatico aut-aut: o riuscirà a tagliare gli organici degli insegnanti senza toccare il tempo pieno, o il suo diventerà davvero un autunno “bollente”
alle pagine 2 e 3
Mentre prosegue la trattativa
Incarico all’Onu per l’ex premier
«Alitalia deve fallire», voci dalla pancia Pdl
Prodi in Africa. Ma non doveva andarci Veltroni?
di Alessandro D’Amato
di Franco Insardà
di Riccardo Paradisi
Mentre le trattative fra lavoratori e nuova Alitalia proseguono a oltranza, dalla base del Popolo della Libertà salgono molte voci che puntano sul fallimento: «Salvarla costa troppo».
Romano Prodi guiderà una task force sull’Africa dell’Onu. Insomma, ha battuto due volte Berlusconi, da una sua idea è nato il Pd e ora va in Africa: ha coronato tutti i sogni mancati di Veltroni.
Dimenticato il revisionismo storico il leader di An Gianfranco Fini rilancia l’antifascismo come valore assoluto. Sergio Romano spiega i motivi non disinteressati di questa sortita.
pagina 6
pagina 7
MARTEDÌ 16
SETTEMBRE
2008 • EURO 1,00 (10,00
ehman Brothers. Un altro capitolo di una storia infinita. Quella della grande crisi finanziaria internazionale di cui non si vede la parola “fine”. Crolleranno altre banche: questa è al momento la facile profezia, mentre le Borse di mezzo mondo sembrano impazzite. A dirlo non è l’uomo della strada, sconvolto dal crollo improvviso di un mito: la potenza finanziaria di solo un anno fa. Ma uno dei più grandi artefici della politica monetaria americana di quest’ultimo decennio. È Alan Greenspan, di professione “guru” dopo gli anni in cui era stato presidente della Fed, forse una delle massime autorità mondiali in questo campo. Ed il suo scetticismo ha fatto subito presa. Scenari diversi, rispetto solo a qualche mese fa. Allora il fallimento della Bear Stearns fu risolto in quattro e quattr’otto. Il Tesoro americano mise mano al portafoglio, impegnando, attraverso la banca centrale, 29 miliardi di dollari. A tanto ammontò l’aiuto dato a JP Morgan per comprarsi quel che restava di una grande banca: 25mila dipendenti, un capitale (prima della crisi) di 66 miliardi di dollari ed assets per 350. Una banca che era sopravvissuta alla crisi del 1929 e che ora diventava preda della concorrenza. s e g u e a pa g i n a 4
Sergio Romano sulle dichiarazioni del leader di An
L’antifascismo di Fini passato allo scanner
MOBYDICK Il supplemento
SEDICI PAGINE DI ARTI E CULTURA
Per un errore tecnico il supplemento MobyDick sabato scorso non è uscito a Roma. Sarà in edicola nella capitale domani, mercoledì 17 settembre.
pagina 12 CON I QUADERNI)
• ANNO XIII •
NUMERO
176 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
prima pagina
pagina 2 • 16 settembre 2008
Già il primo giorno caratterizzato dalle proteste: il ministro rischia un autunno bollente
Per chi suona la campanella Se i tagli degli organici metteranno in forse il tempo pieno la guerra della scuola può trasformarsi in un terremoto sociale di Errico Novi
ROMA. Come inizio non c’è male. Non si ricordano primi giorni di scuola con le maestre listate a lutto. Ieri è successo: a Firenze, a Roma e in altre città. Il ministro Mariastella Gelmini non dà l’impressione di voler raffreddare gli animi. «È vergognoso strumentalizzare i bambini per una protesta che è solo politica», ha detto. D’altronde in trincea, con gli insegnanti delle elementari, si è già piazzata l’Unione degli studenti, che annuncia la «mobilitazione nazionale» per il 10 ottobre. E non sembra fare sconti il Pd, visto che il responsabile per l’Istruzione Maria Coscia rispedisce al mittente l’invito all’autocommiserazione: «Si vergogni la Gelmini, la protesta per i tagli è spontanea e riguarda innanzitutto le famiglie». Solo schermaglie d’inizio d’anno? Fino a un certo punto. Perché il piano di razionalizzazione si fa sempre più pesante. La vita dei precari sarà complicata, e il discorso riguarda quasi 300mila insegnanti senza cattedra di ogni ordine e grado. Tra le misure previste dal responsabile dell’Istruzione ce n’è una scarsamente propagandata: una commissione ministeriale è al lavoro per allargare le classi di concorso, e quindi ridurne il numero.Vuol dire che un insegnante di ruolo di filosofia potrà essere impiegato anche per sostituire un collega di materie letterarie. E che quindi la fisiologica quota di precari utilizzati ogni anno come se fossero già di ruolo verrà cancellata. È una mano pesante, quella del governo. Non se lo nascondono nemmeno gli esponenti del Pdl che da diverse legislature si occupano di scuola, come il senatore Franco Asciutti: «L’impatto sociale sarà duro, non possiamo nascondercelo. Ma sarebbe ancora più pericoloso per le famiglie ita-
liane se continuassimo a considerare l’insegnamento come un ammortizzatore sociale: non possiamo permettercelo, così è il Paese che va per aria». Certo. Asciutti fa notare anche che «all’epoca del
maestro unico eravamo al secondo posto in Europa per la qualità dell’insegnamento elementare, dati Ocse. Adesso siamo scesi al sesto». Sta di fatto che il combinato disposto tra i 130mila tagli pre-
Altra stangata in arrivo per i precari: una commissione ministeriale prepara l’allargamento delle classi di concorso per riciclare i prof di ruolo
visti in Finanziaria e ulteriori razionalizzazioni come quella delle classi di concorso rischia di creare una vera emergenza sociale. «Al Sud già quest’anno sono decine di migliaia le famiglie di insegnanti precari che si trovano senza stipendio», dice il coordinatore della Gilda, Rino Di Meglio, «e se il ritorno al maestro unico mettesse in pericolo il tempo pieno per i bambini del ciclo primario, indispensabile soprattutto per le famiglie del Nord, si andrà incontro a una vera e propria rivolta».
Si gioca col fuoco. Le proteste di ieri rischiano davvero di essere “solo l’inizio”, come recita un mega striscione esposto ieri dagli studenti sulla collina del Pincio a Roma. Possibile che una maggioranza accreditata di ampio consenso dai sondaggi debba perdere la pace sociale per i tagli alla scuola? Berlusconi e il suo governo sembrano decisi a correre il rischio. Venerdì il ministro Gelmini discuterà del piano di razionalizzazione con i sindacati. Spiegherà che la reintroduzione del maestro unico, a regime dal prossimo anno, si accompagnerà a un diverso utilizzo degli insegnati elementari di ruolo.Verranno eliminate materie
complementari che danno lavoro migliaia di insegnanti a tempo parziale. «Ma adesso ai bambini impartiamo persino i rudimenti del giardinaggio o degli scacchi», dice Asciutti, «lo Stato non può farsi carico di spese del genere, deve casomai utilizzare i maestri di ruolo per approfondire le materie importanti». D’accordo. Ma era proprio necessario introdurre le novità in modo così traumatico? C’è un riflesso di spericolato thatcherismo, nella strategia del ministro. «Può darsi, ma dopo i primi cinque anni di lacrime e sangue gli inglesi capirono, e confermarono la Thatcher», si consola il senatore del Pdl. Intanto il governo assicura che tutti i 280mila precari inseriti nelle graduatorie permanenti verranno assorbiti grazie ai pensionamenti: se ne prevedono una media di 70mila all’anno di qui al 2011 e circa la meté negli anni successivi. «Stime ottimistiche, più che raddoppiate rispetto alla realtà», secondo la Gilda.Vuol dire che molti dei 280mila supplenti dovranno fare anticamera ancora per molto. Forse non si listeranno tutti a lutto, ma rischiano comunque di diventare una bomba a orologeria per il governo.
Giulio Ferroni contesta i tagli del Governo e auspica una politica scolastica lontana dalle risse ideologiche
«No alle forbici, serve un progetto culturale» colloquio con Giulio Ferroni di Francesco Lo Dico li interventi sulla scuola hanno ragione d’essere se discendono da un piano culturale di grande respiro, capace di allargare il panorama conoscitivo dei nostri giovani e di rinsaldarne le ambizioni professionali alla luce di una solida preparazione. Non si può procedere soltanto in funzione di tagli e di ragioni contabili legate al denaro. Il malumore di giovani e insegnanti cova da tempo. Se non si cambia rotta, i conflitti sociali monteranno come una marea, e la
«G
barchetta sarà sempre più difficile da governare». Giulio Ferroni, celebre professore di letteratura italiana presso l’Università La Sapienza di Roma, sfoggia da subito la predilezione per la similitudine classica, per quel nitore formale capace di fissare in una figura retorica lo stato delle cose. Si profila un autunno rovente per la scuola italiana, e Ferroni, che tempo fa ha promosso insieme ad altri docenti un appello per il ritorno al merito e alla responsabilità, non pare in vena di ditirambi. Professore, il taglio annunciato di 17mila do-
centi fa temere che il tempo pieno verrà cancellato. Paura infondata? Non so davvero che cosa accadrà o che cosa comporterà
la riduzione d’organico. So bene, però, che il tempo prolungato è essenziale, se si vuole tenere a galla il nostro sistema scolastico. Abolirlo o ridimensionarlo equivarrebbe a dar vita a una progressiva descolarizzazione, e getterebbe nello scompiglio migliaia di famiglie che si giovano del tempo pieno. Si contestano fra l’altro il pesante ridimensionamento delle risorse destinate alla scuola. La carenza di risorse era già determinante prima dell’ulteriore sforbiciata decisa dal Governo, ma adesso si fa sem-
prima pagina
16 settembre 2008 • pagina 3
La mappa degli sprechi sui quali si può intervenire
Dirigenti e supplenti: ecco come tagliare di Giuseppe Bertagna atriottismo costituzionale? Programma da tedeschi. Alla Habermas. Da noi non funziona. Abituati ai guelfi e ai ghibellini, tutto diventa strumento di contesa politica. Contesa politica, da noi, vuol dire che non conta la verità delle cose, ma la linea dei partiti. Quando si scivola su questa china e ogni parte chiama i suoi alle armi la realtà si dissolve nelle rappresentazioni ideologiche. Si combatte perciò a suon di bugie.
P
Ci si compiace non se i problemi vengono risolti, ma se si incarogniscono ancora di più: perché così si fa dispetto al «nemico» e si compattano le proprie truppe con sparate sempre più fantasiose. Peccato. Sembrava che in questa legislatura il triste spettacolo non si dovesse ripetere e che la scuola potesse davvero essere lo spazio di un inaugurato patriottismo costituzionale. Per un po’ maggioranza e opposizione, per la verità, facevano finta di guerreggiare di giorno, anche se banchettavano insieme di notte. Come costume negli eserciti premoderni. Che difatti facevano anche pochi morti in battaglia. Niente. Adesso, si è tornati dritti dritti al clima incattivito 2001-2005. Con le truppe e i mass media schierati sui due fronti. Con una differenza fondamentale, però, rispetto ad allora: i vincoli finanziari non sono più aggirabili. Lo impone non tanto e non solo l’Europa, ma il rischio di bancarotta. Se si dice non più aggirabili, però, significa che finora sono stati aggirati. E purtroppo alla grande. Significa che a prescindere dai risparmi che potranno in futuro venire dalle attuazione delle norme Tremonti-Gelmini, finora si sono alimentati sprechi che non avrebbero dovuto esserci. Qualche esempio.
se transitoria, ma perché e chi ha aspettato così tanto a «razionalizzare»? Altro esempio. Da nessuna parte (nel senso di «in nessuna legge») si dice che nella scuola primaria si devono avere le compresenze orarie tra docenti (vuol dire due o tre docenti nella stessa ora). Invece, sono tali e tante che, tra classi normali e a tempo pieno, raggiungono la stratosferica cifra corrispondente all’orario di oltre 20 mila maestri. Venti mila maestri che, senza toccare l’organico di tre maestri su due classi, consentirebbero da subito un risparmio di non poco conto. Altro esempio ancora. La spesa per le supplenze, tra primaria e secondaria, è oltre ogni misura ragionevole su un bilancio complessivo di 45 mila miliardi. Se al posto di assegnare gli organici con il criterio attuale, però, lo si fosse fatto su quota capitaria e su organico funzionale, come peraltro avrebbe obbligato una norma di qualche tempo fa, e, al contempo, si fosse adoperato il vincolo contrattualmente possibile di tener fermo l’organico funzionale per tre o cinque anni, così da non avere più trasferimenti per l’intero periodo di sua vigenza, e l’altro vincolo sempre contrattualmente possibile circa l’impiego del personale con ampie flessibilità orarie non nell’arco della settimana ma dei mesi, così da non nominare i supplenti oltre i 30 giorni, avremmo avuto risparmi che oggi taciterebbero perfino il Tesoro più famelico.
La lotta politica che si sta combattendo intorno alla scuola impedisce di vedere in quali spazi organizzativi si può intervenire
Qui sopra, il ministro per l’Istruzione Mariastella Gelmini. Sotto, Giulio Ferroni. A destra e a sinistra, due immagini delle proteste di ieri
pre più grande il rischio di affossare gli standard qualitativi dell’istruzione. Se la scuola si trova costretta da ragioni finanziarie, a fornire servizi deficitari, e l’università continua a fabbricare laureati seriali, spesso destinati a ricoprire ruoli lavorativi inadeguati ai loro studi, le prospettive di queste e delle prossime generazioni diventano funeree. A occhio e croce, mi pare che il ritorno al maestro unico non la faccia andare in solluccheri. Avere un solo maestro per classe alza l’asticella dell’azzardo. Non sono in molti, a essere preparati nell’approccio multidisciplinare. E nel caso una scolaresca si imbatta in un docente non troppo brillante, la sconfitta educativa si
estende a tutti i fronti del sapere da lui rappresentati. E sul grembiule, come la mettiamo? Il grembiule va benissimo, insegna il rispetto dell’altro sin dall’età più precoce, e previene la feroce classificazione degli esseri umani in base alle griffe. Un ottima misura, da accogliere senza beghe ideologiche. Quelle famose beghe che hanno condotto la scuola al disastro. È necessario che il dibattito sulla scuola venga deideologizzato, e che la politica, al di là delle risse, si scuota dalla sua serpentina indifferenza. Ciò che occorre è invece un progetto nobile, un’idea culturale in grado di far fiorire le eccellenze che questo Paese possiede
Ci sono attualmente 2600 istituzioni scolastiche su poco meno di 11 mila che sono fuori norma. Non dovrebbero avere l’autonomia perché troppo piccole. Non dovrebbero avere un dirigente, né segreteria. E ciò non per le norme di adesso, ma per quelle previste dal Dpr. 233 del 1998! Va bene la prudenza e la fa-
Comunque, di «razionalizzazioni» di questa natura ce ne sarebbero molte altre da ricordare. Soldi risparmiati solo facendo «buona amministrazione». Perché non ci sono proteste contro questi intollerabili sprechi? Se poi dovesse andare in porto l’ipotesi Tremonti-Gelmini di assicurare alle famiglie la possibilità di raggiungere i risultati di apprendimento attesi per tutti i ragazzi alla fine della quinta classe, optando tra le formule organizzative delle 24 ore, delle 27 e delle o delle 30 più la mensa per giungere alle 40, saremmo sicuri che si potrebbe ampliare di moltissimo anche il tempo pieno proprio con i maestri risparmiati sulle 24 ore.
pagina 4 • 16 settembre 2008
economia
Crisi finanziaria. L’istituto d’affari statunitense non è riuscito a trovare un acquirente: i suoi 613 miliardi di dollari di debito pesano troppo
Tutto il mondo in tilt Il fallimento della Lehman Brothers fa impazzire le borse dell’intero pianeta. La Banca Europea lancia l’allarme di Gianfranco Polillo segue dalla prima Di quella storia importante restano solo i 6.500 dipendenti che JP Morgan ha mantenuto. Il resto è stato disperso nel grande serbatoio della disoccupazione (83 mila white collar) che rendono cupa l’atmosfera di Wall Street. Subito dopo, la crisi di Freddie Mac e Fannie Mae: le due agenzie para-governative che operavano nel campo dei mutui in posizione di assoluta primazia. Nuova richiesta al Tesoro americano e nuovo esborso di quattrini. Questa volta una cifra ancora maggiore, che raggiungerà i 100 miliardi di dollari. Ma il conto di questa crisi non si chiude qui. Alle somme indicate devono essere sommati i provvedimenti assunti da Bush per venire incontro alle richieste di chi i mutui non poteva e non può pagare. Somme insufficienti rispetto alla reale dimensione del fenomeno. Ma comunque un nuovo fardello per un bilancio pubblico già oberato dai costi della guerra e da un deficit eccessivo.
mia, era stato il disperato tentativo di arginare la crisi. Per Bear Stearn si sperava fosse un caso isolato, da risolvere prima che le acque si contaminassero. Per Freddie e Fannie, invece, occorreva evitare le ripercussioni di un fallimento che rischia di determinare un’onda d’urto dirompente. Al punto da scuotere, in modo imprevedibile, l’intero sistema finanziario. Pericoli che rimangono
te. Ed il cerchio si è chiuso con il definitivo fallimento di Lehman. Per evitarlo, si era tentata una strada diversa. La stessa che era stata sperimentata per risolvere la crisi dell’hedge fund Ltmc, nel 1998. Quel fondo di investimento ad alto rischio, in cui aveva investito anche il Fondo pensioni della Banca d’Italia. Si era chiamato a raccolta un pool di grandi banche internazionali all’indomani del fallito tentativo da parte di Korea Development Bank di acquistarne il 25 per cento, ad un prezzo di realizzo.
Il crac è la drammatica conseguenza di una politica troppo spregiudicata nell’ambito del mercato immobiliare. Quello più a rischio
Nei casi precedenti, la motivazione che aveva fatto pendere la bilancia a favore dell’intervento pubblico in econo-
se continuerà lo stillicidio. Lehman Brothers, invece, è stata lasciata a se stessa valutandone i minori pericoli. L’episodio – lo diciamo incrociando le dita – è stato considerato marginale per i riflessi sistemici di un suo eventuale fallimento. Nessun effetto domino, se si escludeva Merrill Lynch: una banca ad essa, in qualche modo, collegata. Alla fine Bank of America, piuttosto che intervenire nella prima le cui perdite sono insondabili, ha preferito acquistare, per 50 miliardi di dollari, la seconda. Una banca meno esposta sul terreno dei mutui e delle spericolate operazioni finanziarie che le hanno accompagna-
Il parere dell’economista francese
Fitoussi: «Prepariamoci, questa crisi non finirà prima di tre anni» colloquio con Jean Paul Fitoussi di Vincenzo Faccioli Pintozzi
Fallimento dovuto essenzialmente a un ripensamento del Governo della Corea del Sud che trovava sconveniente – questa almeno la versione ufficiale – per una banca pubblica, quale è quella coreana, imbarcarsi in un acquisto del genere, nel tempio di Wall Street. Venuto meno quel business, è stato l’inizio della fine. Il titolo, già in forte difficoltà, subiva il definitivo tracollo: in due anni il suo valore di borsa passava da 40 a 2,7 miliardi di dollari. Con una perdita complessiva superiore al 90 per cento. Del resto era inevitabile: quando le perdite, negli ultimi due semestri dell’anno hanno rag-
l fallimento di Lehman Brothers e il capitombolo finanziario che ne conseguirà «non rappresentano una buona notizia, per nessuno. La conseguenza immediata di questo crollo sarà rappresentata da un innalzamento dei tassi di interesse per i prestiti bancari e da una maggiore prudenza nel concedere mutui ai privati, mentre a lungo termine possiamo prevedere non più tardi di tre anni la fine del mondo dorato del private equity». Ne è convinto il professor Jean-Paul Fitoussi, economista francese di fama mondiale, che in una conversazione con liberal analizza il fallimento del colosso Usa e la «preoccupante nebbia che avvolge il mondo finanziario internazionale». Una nebbia che, sottolinea il presidente del consiglio scientifico dell’Iep di Parigi, «rischia di diradarsi troppo tardi» e che nasce da un lassismo degli organismi di controllo, statunitensi ed europei, che deve essere fermato prima che sia troppo tardi.
I
D’altra parte, «se la Fed ha sbagliato nel decidere di non intervenire per la Lehman, lo capirà soltanto domani». Professore, perché gli Stati Uniti non sono intervenuti su Lehman Brothers come hanno fatto per Fannie Mae e Freddie Mac? Ci sono due ragioni per questo mancato intervento: la prima è che non faceva parte dei compiti del governo; la seconda è che il fallimento di due fondi mutui sarebbe stato molto più pericoloso per il sistema-Paese rispetto a quello di una private bank. Per il momento si pensa – ma non si sa mai – che il fallimento di Lehman Bros sia molto più circoscritto rispetto agli altri due. La ragione è semplice: i clienti della Lehman sono soprattutto clienti ricchi. La gente normale non ha un conto in quella banca, e quella banca
giunto la cifra di 3,1 miliardi, le svalutazioni i 9 e l’esposizione sui mercati immobiliari i 50 era difficile mantenere un qualche appeal; nonostante la forte personalità del suo amministratore delegato. Uno dei principali operatori nel campo dei derivati immobiliari.
Il tentativo delle autorità americane è stato quello di dividere, innanzitutto, il grano dall’oglio. Due distinte società: una newco, non avrebbe mai concesso un prestito a uno di loro. Nella riunione di Nizza, il governatore di Bankitalia Draghi ha parlato di una necessità economica di 350 miliardi di dollari per uscire dalla crisi. Secondo lei, quali sono i contorni di questa recessione economica? Sinceramente, io non vedo alcuno spiraglio. Non si può immaginare alcuna via di uscita, perché c’è un’oscurità totale che copre gli aspetti di questa crisi. Semplicemente, non si sa quali porcherie nascondano le banche nel loro bilancio e non si capisce perché si sfidino fra di loro. Quello che si può dire con certezza è che ognuno degli attori di questa tragedia ha dei titoli, che il mercato valuta zero. Ma è il mercato a valutarli, oggi, in questo modo. Forse, domani la valutazione sarà diversa in assetto positivo. Inoltre, va considerato il
economia
16 settembre 2008 • pagina 5
Il presidente promette solo di «minimizzare l’impatto»
E Bush chiude l’era dell’interventismo di Francesco Pacifico
ROMA. Il Nobel Joseph Stiglitz è convinto che il fallimento di Lehman Brothers – il più grande della storia con i suoi circa 613 miliardi di dollari di debiti – sia figlio di «una crisi finanziaria che dovrebbe essere meno grave di quella del 1929». Ma i mercati sembrano di parere opposto: soltanto a Wall Street il Dow Jones ieri ha aperto in perdita di 350 punti, poi recuperati in corso d’opera. L’ennesima puntata della crisi finanziaria in atto da 14 mesi ha spinto in basso le quotazioni del petrolio e fatto bruciare alle borse europee 120 miliardi di euro (Milano è calata dello 3,49 per cento, con Unicredit maglia nera, -3,27, per i suoi rapporti con la banca d’affari americana). Così a poco sono serviti interventi come quello della Bank of England, che ha iniettato sui mercati liquidità straordinaria per 6,3 miliardi di euro.
dure per il Chapter 11 per la banca, mentre il suo direttore finanziario, Ian T. Lowitt, annunciava che «la decisione di ricorrere all’amministrazione controllata è stata causata dalla crisi di liquidità». Il riferimento è a 53 miliardi di dollari in titoli illiquidi. Così ora temono anche gli investitori istituzionali (fondi pensioni in primis) e governi (come il nostro Tesoro) in rapporti con Lehman. Intanto ci si interroga sulla decisione del Tesoro Usa di non intervenire direttamente per salvare la baracca. Il no a un nuovo caso Bearn Stern, Freddie Mac o Fannie Mae condizio sine qua non posta da Barclays o la Bofa per accollarsi i debiti. Le mosse della Fed (apertura dei suoi sportelli di sconti, consorzio bancario per recuperare 70 milioni indispensabili per la continuità aziendale e oggi un taglio di 25 punti base ai tassi) sono poca cosa. Per tranquilizzare il sistema – ma non pare esserci riuscito – è dovuto intervenire George W. Bush. «L’Amministrazione», ha detto il presidente americano, «sta cercando di ridurre A l l ’ i n i z i o f u l a “f i n a n z a le turbolenze dei mercati creativa”, che piegò ex e di minimizzare l’impatc o lo s s i d i t e l e f o n i a e d to di questi sviluppi sule n er g i a , c o n v e r t i t i s i a l’intera economia. Abbibanche d’affari specializamo fiducia nella tenuta zate in derivati rischiosi. dei nostri mercati fiOra è il turno della crisi nanziari». dei mutui subprime. NelNulla di più. Ma ancora l ’ u l t i m o d e c e n n i o s on o stati molti gli esempi di più netti nel negare inbancherotte multimiliardaterventi pubblici sono rie a partire dai fallimenti stati i suoi candidati alla di Worldcom ed Enron, le successione. Il repubblidue crisi più eclatanti vericano John McCain ficatesi negli Usa dopo promette che, una volta l’11 settembre. Quando eletto, «rimpiazzerà il portò i libri in tribunale dodatato e inefficiente sispo essere stata scoperta tema di controlli che rea falsificare i propri bilangola l’attività finanziaria ci, l’ex multinazionale dela Washington e porterà le telecomunicazioni Wortrasparenza e responsldcom denunciò asset per abilità a Wall Street». Il quasi 104 miliardi di dollasuo avversario Barack ri, mentre il gruppo enerObama non è andato getico Enron mise sul taoltre il lanciare un perivolo attività per oltre 63 coloso allarme: quanto miliardi di dollari. Esce dal sta accadendo «è una podio dei maggiori falligrave minaccia per la menti la società assicuranostra economia e la sua t i v a C o n s e co c h e n el capacità di creare posti maggio 2002 crollò sotto il di lavoro ben remupeso dei debiti raccolti in nerati, che aiutino gli una campagna acquisti americani che lavorano che durava dal 1990. a risparmiare per il loro futuro».
Senza lavoro 26000 dipendenti di cui 6000 solo in Europa. Ripercussioni anche per Unicredit e per il Tesoro?
come nel caso di Cai-Alitalia, dove conservare ciò che restava dei gioielli di famiglia; una bad bank, dove invece accumulare tutto il materiale tossico. Titoli ad alto rischio, attività buone solo sulla carta, crediti improbabili nella loro solvibilità e così via. La newco doveva essere appannaggio della Barclays, la terza banca inglese, 23 miliardi di ricavi (sterline) nel 2007 ed un utile netto, nello stesso anno di oltre 5 miliardi. Per la bad bank avrebbe dovuto, in qualche
fatto che i titoli nel portafogli di queste banche sono titoli complessi, di cui non si conosce la percentuale composta da mutui. Se avessero anche soltanto il 5% di mutui all’interno del loro pacchetto, non varrebbero nulla. C’è un serio problema di visibilità, che annulla ogni possibilità di previsione. Altri assetti, che hanno più valore, sono presenti ma affogati. In questo momento, dunque, c’è soprattutto un problema di percezione: se tutti vedono un valore in ribasso, questo scende. Se viene visto in salita, questo sale. Si tratta della self realize expectation.Va detto però che la Fed compie un’opera di altissima vigilanza. Se ha sbagliato nel caso di Lehmann, lo saprà domani. Infatti, forse dietro questa banca vi sono altri fondi, che vanno così a fallire. Questo domino colpirebbe l’economia statunitense molto di più di quanto la Fed si potrebbe aspettare. Tuttavia, questa nebbia potrebbe diradarsi troppo tardi. Si può dire che c’è stata una fles-
modo provvedere il Tesoro, grazie al sostegno di un pugno di banche internazionali: Citigroup, JP Morgan, Chase Morgan Stanley ed un’altra decina di istituti, compresa qualche banca giapponese. Sembrava fatta ed invece così non è stato. All’improvviso Barclays, dopo una lunga notte di trattative, si è tirata indietro facendo crollare l’intero castello di ipotesi. Sulla testa dei suoi 19 mila dipendenti, di cui ben 6.000 nella Vecchia Europa.
sione da parte del governo di Washington nel controllo di questi fondi, una sorta di lassismo? È vero che vi è stata un’enorme assenza di controllo. Ma questo accade anche in Europa: non è una specificità degli Stati Uniti, ma della globalizzazione finanziaria. Il mondo del private equity non durerà per più di due o tre anni, credo. Soprattutto, la conseguenza di tutto questo è che le banche saranno molto più prudenti nel concedere prestiti: possiamo aspettarci un razionamento del credito e un rialzo dei tassi di interessi. Quella di oggi non è una bella notizia, per nessuno. L’acquisizione di Merryl Lynch da parte di Bank of America è una realtà positiva per il mondo finanziario? È molto meglio, per qualunque banca, essere comprata piuttosto che essere in fallimento. Questa è una realtà che vale per tutto il mondo e per tutti i suoi protagonisti.
Il mondo della finanza, a dispetto di quello che sperava Ben Bernanke, non ha preferito guardare all’acquisizione di Merril Lynch da parte di Bank of America. Non ha voluto trarne un segnale di ottimismo per il processo di consolidamento in atto nel private equity. E non poteva essere diversamente in una giornata in cui si è saputo che soltanto in Europa Lehman licenzierà 6mila dipendenti (140 in Italia, con annessa chiusura nel weekend delle sedi di Roma e Milano), mentre le borse di mezzo mondo staccavano l’operativa della banca e un colosso del credito come Dexia denunciava un’esposizione con la banca d’affari pari a 2,2 miliardi di euro. E tanto basta per temere, come ha paventato il direttore del Fmi Dominique StraussKahn, un nuovo effetto domino, che «l’impatto della crisi del sistema finanziario globale non è finito, ma ci saranno altre conseguenze». Ieri il tribunale di New York ha avviato le proce-
Le grandi crisi della storia
pagina 6 • 16 settembre 2008
economia
Prima il ministro Brunetta, poi la base e alcuni analisti hanno cominciato a puntare sulla rottura della trattativa
Alitalia deve fallire: voci dal Pdl di Alessandro D’Amato l primo a dare l’impressione di volersi smarcare è stato Renato Brunetta: «Alitalia andava fatta fallire per poi essere rilanciata», ha dichiarato nei giorni scorsi il responsabile della Funzione Pubblica, non mettendosi di traverso rispetto alla linea ufficiale del governo ma adombrando in un certo qual modo una critica verso chi sta gestendo l’affaire. Ma basta andare a scavare la superficie per vedere che qualche dissenso c’è. Anzi: il sito di Forza Italia, nella sezione dedicata ai messaggi dell’elettorato, ne è pieno zeppo. Anonimi, certo. Ma anche brutali nell’indicare le soluzioni: «Che Alitalia fallisca e che si liberalizzino i trattati bilaterali. Su tutti gli aeroporti italiani: questa è una promessa elettorale a cui non potete sottrarvi. Indipendentemente da quale sarà il partner estero di CAI, i trattati bilaterali su Malpensa devono essere rivisti», dice “Roby”, mentre “Sconsolata” è più drastica: «L’Alitalia me la compro io: costa niente ed i buffi ve li ciucciate voi italioti! che bello fare gli imprenditore così! Che popolo sconfortante e pecorone».
I
Oppure: «Piloti, assistenti di volo e personale di terra di Alitalia stanno così bene che preferiscono perdere il lavoro piuttosto che ridursi paga & privilegi: nessuna solidarietà». Non saranno una rappresentanza sociologica e statistica valida, ma qualcuno dovrà anche tenerne conto, a Palazzo Chigi.
Ma se la base ha già scelto da che parte stare, tra i parlamentari e gli esponenti del Popolo delle Libertà le voci sono contrastanti: Benedetto Della Vedova, esponente dei Riformatori Liberali all’interno del PdL, ha criticato la soluzione proposta per i risvolti sul mondo del lavoro: «Mi auguro che si met-
attenti a non creare un precedente. Come negli Usa, la via maestra dovrebbe essere quella degli esodi incentivati a carico dell’azienda e non quella di messa in carico in un modo o nell’altro dei dipendenti sulle spalle dei contribuenti». C’è da dire anche che questa dichiarazione risale alla fine di agosto:
tario dei Radicali nel dicembre scorso, quando ancora era in forza al centrosinistra, mentre su Libero Mercato denunciava l’inciucio tra l’Air One di Carlo Toto e il Partito Democratico. «Il governo Berlusconi ha creato per Alitalia un’occasione unica, insieme realistica e di mercato», di-
Il sito di Forza Italia è pieno di proteste contro i sindacati, i piloti e il loro salvataggio forzato. Ma anche Alberto Mingardi, Carlo Stagnaro e Benedetto Della Vedova sono usciti allo scoperto tano molta prudenza nella gestione degli esuberi di Alitalia. Posso capire che lo stato abbia un’attenzione particolare per i dipendenti di un’azienda di fatto pubblica, però bisogna stare
poi più nulla.
E c’è pure chi, come Daniele Capezzone, ha radicalmente cambiato idea. «Stringere con Air France», diceva l’ex segre-
chiara oggi che è diventato portavoce di Forza Italia. Non sembrano essere molto d’accordo i tipi dell’Istituto Bruno
Primo accordo con i confederali ROMA. Se gli aerei di Alitalia ieri sono decollati e atterrati senza grandissimi ritardi – s’è allontanato per ora lo spettro di una messa a terra dei velivoli – diventa sempre più difficile per il governo far sedere allo stesso tavolo i rappresentanti delle nove sigle sindacali. E trovare un accordo comune per sbloccare la partita Cai, che necessita di tempi supplementari. Così l’esecutivo si deve “accontentare” di un’intesa quadro stretta con i confederali di Cgil, Cisl e Uil e con l’Ugl sul perimetro della nuova compagnia. Un accordo che ha portato a quota 12.500 il numero degli assunti. Ieri sera Palazzo Chigi ha provato ad estendere l’intesa anche ai piloti, convocati dopo tanti giorni di attesa, e oggi proverà a fare altrettanto con i rappresentanti degli assistenti di volo. Ovvero le categorie di lavoratori più colpite dagli esuberi e dai ritocchi ai contratti previsti dal duo Colaninno-Sabelli. Ad aumentare la pressione sull’esecutivo anche il corteo – pacifico – che proprio i rappresentanti di piloti e assistenti di volo hanno tenuto per le via di Roma e che ha fatto tappa finale davanti piazza Montecitorio.
In alto, i lavoratori dell’Alitalia protestano all’aeroporto di Fiumicino. Qui accanto, dall’altro in basso: Renato Brunetta, Benedetto Della Vedova e Daniele Capezzone
Leoni, think tank liberale storicamente vicino al centrodestra: «La trattativa è appesa a un filo che forse è meglio recedere», si legge in un articolo a firma Andrea Giuricin, mentre Alberto Mingardi scrive che questa è «la vendetta del mercato». Carlo Stagnaro, direttore del dipartimento Ecologia di mercato è categorico: «Mi pare che i fatti stiano dando ragione a Spinetta, che diceva che ci voleva l’esorcista. Do un giudizio negativo del piano del governo, ma se i sindacati non accettano nemmeno questo l’unica strada è il fallimento». Ma perché sulla questione i liberali appaiono così timidi? «Guardi, a prescindere da Alitalia, i liberali nel Pdl sono una minoranza non tanto influente. Il problema è che quella del è governo una posizione non negoziabile. O la si subisce tacendo, o si abbandona la partita. Magari su altri temi…».
politica
16 settembre 2008 • pagina 7
Da oggi è il capo di una task force dell’Onu per la pace in Africa: così realizza anche l’ultimo sogno di Walter...
Non sarà che il vero Veltroni è Prodi? di Franco Insardà
d i a r i o
d e l
g i o r n o
Inflazione: ad agosto ha toccato il +4,1% Inflazione al 4,1% ad agosto, lo stesso livello di luglio e ai massimi dal giugno 1996. Lo ha comunicato l’Istat, che ha rivisto la stima provvisoria, che dava l’inflazione in discesa al 4%. Persistono le tensioni sui prezzi di pane e pasta. Ad agosto, in base alle rilevazioni Istat, il prezzo del pane è cresciuto dello 0,3%, quello della pasta è salito dell’1,1%. In lieve calo invece i carburanti.
Concluso il viaggio del Papa in Francia
l ciclismo è la metafora della sua vita. Da passista esperto, Romano Prodi anche questa volta è rimasto coperto nel gruppo per uscire al momento giusto e piazzare lo sprint decisivo. Da ieri è ufficialmente Romano l’Africano. Il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon lo ha nominato, infatti, a capo di un gruppo di esperti delle Nazioni Unite e dell’Unione africana che si occuperà delle missioni internazionali per il mantenimento della pace in Africa. L’ex premier sarà a New York con gli altri membri della Commissione fino al 18 settembre, per incontrare Ban Ki-moon prima di mettersi al lavoro su un rapporto che dovrà essere completato entro al fine del 2008. Dopo la caduta del suo esecutivo alla fine di gennaio di quest’anno e l’allontanamento dal Partito democratico, tutti pensavano a un futuro prodiano da pensionato. Ma il sagace emiliano ha spiazzato tutti e, come una novella Fenice, è riapparso per andare in Africa a capo di una task force dell’Onu.
I
Proprio in quella stessa Africa dove Walter Veltroni avrebbe voluto ritirarsi, finita l’esperienza amministrativa in Campidoglio. Era il lontano 8 gennaio 2006, quando l’allora sindaco di Roma, forse ancora ebbro della bontà del Natale, annunciò a un compiaciuto Fabio Fazio che lo intervistava a ”Che tempo che fa”, l’ intenzione di lasciare l’Italia per il Continente nero. Invece no. Il destino beffardo ha voluto che Veltroni rimanesse per perdere malamente le elezioni politiche, e che l’instancabile passista coronasse il decennale impegno per l’Africa con il prestigioso incarico. Così mentre Veltroni tenta disperatamente di tenere insieme i cocci di un centrosinistra a pezzi, Prodi può concedersi il surplace,se
la ride e taglia ambiziosi traguardi internazionali. Insomma, tutto quello che non riesce a Walter, Romano se lo prende senza troppa fatica. Per due volte
Ha battuto due volte Berlusconi, ha fondato lui il Pd, ora parte per il continente amato dal segretario: la sinistra piange, lui ride salvatore della sinistra contro il pericolo del Cavaliere, per due volte è stato scaricato. Nel 1999 per liberarsi della sua presenza ingombrante fu spedito addirittura a presiedere la Commissione europea fino al 2004. Poi fu richiamato in patria e, alla guida di un’armata
I compagni d’avventura nsieme al presidente Prodi, sono stati nominati ieri da Ban Ki-moon altri cinque membri della task force africana. Si tratta di James Dobbins (Stati Uniti), Jeanne Pierre Halbawchs (Mauritius), Monica Juma (Kenya),Toshu Niwa (Giappone) e Berhooz Sadri (Iran). Si tratta di un gruppo di diplomatici di chiara fama, anche se fra tutti brilla il primo, inviato speciale di Washington in Kosovo, Bosnia e Afghanistan. Secondo il mandato, la Commissione considererà le lezioni delle missioni di pace in Africa per esplorarne le opzioni e migliorarne la prevedibilità.
I
Brancaleone, riuscì, anche se per un pelo, a battere di nuovo Berlusconi. Mentre la sua idea di Partito democratico prendeva corpo, veniva, neanche troppo elegantemente messo da parte. Lui si ritira nel silenzio della sua Bologna, mentre la gioiosa macchina da guerra partorita nel Loft si avviava a una sonora sconfitta.
C’è da dire, per dovere di cronaca, che le sortite istituzionali di Romano Prodi non sono state mai indolore per i suoi, mentre è riuscito sempre a ottenere il massimo per se stesso. I suoi brevi governi sono riusciti a deludere parte dell’elettorato di centrosinistra e a determinare la successiva vittoria del centrodestra. Con misure in molti casi impopolari, Prodi e i suoi ministri hanno lasciato tante macerie alle loro spalle. Ma un buon ricordo dell’ex premier non lo hanno nemmeno dalle parti di Bruxelles. Basti ricordare i titoli che gli dedicò all’epoca buona parte della stampa estera. Su tutti il Financial Times che scriveva: ”il mandato di Romano Prodi come presidente della Commissione è stato atroce”e dava questo giudizio pesantissimo: ”un manager incapace, a cui mancavano doti comunicative e incline spesso a gaffe imbarazzanti”. Non se ne curò granchè e per tutta risposta ritornò in Italia e vinse le elezioni. Quello che poi è successo con Prodi a Palazzo Chigi dal 2006 al 2008 è storia recente. Una maggioranza litigiosa, azione di governo quasi inesistente e il goffo tentativo di risolvere ogni cosa aumentando la pressione fiscale. Risultato: Berlusconi ha stravinto. Romano Prodi, zitto zitto, ha piazzato la zampata vincente riuscendo, alla soglia dei settant’anni, a ritornare in sella. Il famoso fattore C colpisce ancora.
Si è concluso con l’incontro con i malati di Lourdes il primo viaggio di Benedetto XVI in Francia. E con un messaggio sul significato del dolore e della sofferenza. «Se soffrite e siete tentati di voltare le spalle alla vita - ha detto il Papa a circa 2.000 malati - volgetevi a Maria: la sofferenza non deve far ’disperare del senso e del valore della vita». Subito dopo la messa nella spianata del rosario a Pompei, appositamente dedicata ai malati, papa Ratzinger si è congedato dalla Francia, all’aeroporto di Lourdes, presente anche il primo ministro Francois Fillon. E ha fatto un bilancio, tutto positivo, nei sentimenti e nelle valutazioni, di questo decimo viaggio internazionale del pontificato. «Lascio la Francia non senza rincrescimento, rallegrato’ da questo viaggio. Chissà se potro’ tornare: ne ho il desiderio. Sono convinto che ’i tempi siano favorevoli a un ritorno a Dio».
Delitto di Perugia: parla il primo testimone Ieri, alla vigilia della prima udienza del processo per l’omicidio di Meredith Kercher, la studentessa inglese uccisa nel suo appartamento a Perugia nel novembre scorso il testimone albanese Hekuran Kokomani ha rotto il silenzio decidendo di dare la sua testimonianza in una trasmissione televisiva. La sera tra il primo e il due novembre, stando a quanto ricorda Kokomani, Amanda Knox, Raffaele Sollecito e Rudy Guede erano davanti all’abitazione in cui Meredith Kercher è stata uccisa. «Io mi ricordo che ho visto tutto quello che è successo. Uno si alza e viene verso il mio sportello e mi dà un pugno. Era Raffaele. Ho visto che gli erano caduti gli occhiali. Lei (Amanda) ha cominciato a urlare e ha tirato fuori il coltello dalla borsa». Kokomani ha confermato che si trattava di un coltello da cucina («era lucido quel coltello») e che Amanda gli avrebbe detto «vieni qua che ti faccio vedere io». Poi, rivolgendosi a Raffaele Sollecito, la ragazza avrebbe aggiunto: «Copriti la faccia che ti conosce».
Censis: Roma è la capitale del disagio Roma è la città più impaurita del mondo. È questo il verdetto del Censis e della Fondazione Roma che, in un’indagine svolta su dieci metropoli (New York, Bombay, Londra, Parigi, Il Cairo, San Paolo, Mosca, Pechino e Tokyo), hanno evidenziato come la città eterna sia la «capitale del disagio», quella che ha più paura e che manifesta, per il 58% dei cittadini, «il più alto tasso di inquietudine esistenziale».
Fini in Albania: «Evitare il rischio di una democrazia senza popolo» «Evitare il rischio di una democrazia senza popolo. Questo l’impegno fondamentale che coinvolge innanzitutto le attività dei Parlamenti in un’epoca in cui si può sovente percepire una certa sfiducia nel metodo parlamentare, che rischia di tradursi in una democrazia senza popolo, con istituzioni indebolite e delegittimate». Lo ha detto il presidente della Camera, Gianfranco Fini, in occasione del suo intervento davanti al parlamento albanese, trasmesso in diretta dalla tv di stato di Tirana.
pagina 8 • 16 settembre 2008
mondo
Il Mend lancia l’offensiva contro gli occidentali che “rubano” il petrolio. Con le armi di al-Qaeda
L’energia in guerra Attentati in Nigeria per il controllo dell’oro nero mentre in Caucaso si combatte per il gas di Massimo Fazzi er quanto possa essere scontato, il petrolio infiamma. Non soltanto l’economia mondiale, ma anche le piattaforme che servono per estrarlo. Come annunciato dal Mend – il Movimento per la liberazione del Delta del Niger - il “jihad” lanciato contro gli occidentali che sfruttano il petrolio nigeriano ha mietuto ieri le prime vittime, dopo l’esplosione di una piattaforma estrattiva nei mari di Alakir. Versioni contrastanti sull’iden-
P
Questi, che vedono nella Nigeria il possibile bastione di al-Qaeda in Africa, hanno affiancato i guerriglieri in quella che definiscono “una nobile lotta contro l’arroganza occidentale, composta da infedeli”. E l’hanno armata con quegli esplosivi, finora non utilizzati, che stanno facendo esplodere le piattaforme.
In effetti, da parte sua il Mend non ha connotazione religiosa. È piuttosto un movimento militante composto da nativi della zona del delta del Niger che, secondo i suoi fondatori, usa la lotta armata contro la degradazione e lo sfruttamento dell’ambiente naturale da parte di corporazioni e multinazionali straniere coinvolte nell’estrazione del petrolio dal sottosuolo della regione. L’organizzazione, nata nel contesto del conflitto del delta del Niger, è coinvolta in molti degli attacchi alle compagnie petrolifere che operano in Nigeria. Il 7 dicembre 2006, il Mend ha rivendicato il rapimento dei tre tecnici italiani e di un libanese (tutti successivamente liberati ed incolumi) avvenuto durante un attacco ad una stazione estrattiva gestita dall’Agip nello stato di Bayelsa. Uno dei leader del gruppo – il cosiddetto Maggior-Generale Godswill Taluno – afferma: «Noi combattiamo per il controllo totale del petrolio in tutto il delta del Niger, in quanto la popolazione locale non ha mai ottenuto alcun vantaggio dalle notevoli ricchezze del sottosuolo». Il gruppo ha inoltre chiesto al presidente nigeriano Olusegun Obasanjo di liberare due dei suoi leader trattenuti in carcere. Nel gennaio del 2006 una e-mail spedita dal Mend alle compagnie petrolifere dichiarava: «Deve essere chiaro che il governo nigeriano non può proteggere i vostri dipendenti o le vostre attrezzature. Lasciate le nostre terre finché potete o morirete. Il nostro scopo è distruggere totalmente la capacità del governo nigeriano di esportare petrolio». Subito dopo, i suoi militanti hanno bombardato due condutture, provocando un incremento internazionale del costo del petrolio. L’uragano Barbarossa avrà con ogni probabilità un effetto simile.
L’uragano Barbarossa, l’offensiva terrorista contro gli occidentali, colpirà ancora: è la minaccia del Mend, che cerca di spartire il petrolio
E Bruxelles approva l’invio del contingente in Georgia
tità dei morti: per i militanti, si tratta degli operai e dei soldati che proteggevano le trivelle; per il governo, sono morti soltanto gli assalitori. Secondo il comunicato emesso ieri mattina dal Mend, «l’uragano Barbarossa ha continuato la sua corsa distruttiva attraverso lo stato Rivers della Nigeria e l’occhio della tempesta ha colpito la stazione di pompaggio Alakiri della Shell. Al momento, l’impianto è ancora in fiamme: i lavoratori e i soldati che non hanno ascoltato i nostri avvertimenti sono morti nell’attacco». L’avvertimento di cui parla il comunicato è quello contenuto nel lancio dell’offensiva – denominata per l’appunto “uragano Barbarossa”– contro gli stranieri che estraggono il petrolio nigeriano. Una vera e propria “guerra del petrolio” contro le compagnie della zona, che si combatte soltanto con la distruzione delle installazioni petrolifere (comprese quelle dell’Eni). La guerriglia del Mend mira a una re-distribuzione alle popolazioni locali delle royalties petrolifere pagate dalle compagnie straniere al governo nigeriano.
el pieno di una guerra di nervi sulle scelte militari preventive di Mosca, arriva il via libera dei ministri europei alla missione di polizia Ue in Georgia. L’approvazione dei 27 Paesi riuniti a Bruxelles riguarda i 200 osservatori della Eumm (European union monitoring mission), che saranno inviati nelle zone di conflitto: Ossezia meridionale e Abkhazia, con il compito di monitorare l’attuazione del piano di pace tra Mosca e Tbilisi. Secondo l’Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione, Javier Solana, i 27 «sono pronti a inviare il contingente di osservatori civili nelle regioni separatiste. Aspettiamo comunque di vedere come si evolve la situazione». Il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, ha poi precisato che si tratterà «di un compito di polizia in senso ampio, non solo di osservazione. Nelle prospettive di medio periodo, l’Ue ha chiesto di più, e ovviamente lo dovrà negoziare». Il piano, al quale daranno via libera i ministri degli esteri dell’Ue riuniti a Bruxelles, prevede a partire dal 1 ottobre il contributo militare di Francia, Germania e Italia (quest’ultima impiegherà 40 uomini) con esperti militari, di polizia e
Per ora non sono riusciti a fermare l’estrazione, ma ne hanno provocato una riduzione dai 2,6 milioni di barili di due anni fa agli attuali 1,8-2. È importante sottolineare che la loro lotta – che dura da oltre un decennio – ha avuto un incremento di violenza negli ultimi due anni. Il motivo, con ogni probabilità, va imputato ad un affiancamento fra la leadership del gruppo e una nuova realtà, composta da estremisti islamici.
N
dei diritti umani. Da parte sua, Mosca dispiegherà invece nelle regioni circa 7.600 uomini.
Gli accordi di cooperazione tra la Russia e le due repubbliche separatiste – ha precisato di nuovo ieri il presidente russo Dmitri Medvedev «avranno anche una componente militare. In settimana si firmerà un’intesa speciale sulla creazione di legami amichevoli con questi due nuovi soggetti di legge internazionale». Nel frattempo, la Nato arriva a Tbilisi per la sua missione di solidarietà alla popolazione georgiana. Il segretario generale del Patto Atlantico Jaap de Hoop Scheffer ha usato toni moolto forti contro Mosca, parlando di «uso indiscriminato della forza». In un’intervista al Financial Times, però, il leader dell’alleanza occidentale ha quasi sfiorato la gaffe diplomatica con Bruxelles, definendo “inaccettabile” il patto Ue, che consente alla Russia di mantenere il presidio militare nelle regioni separatiste. Immediato l’intervento dei portavoce che hanno precisato: nessuna critica della Nato alla Ue, ma soltanto alla Russia e alla sua politica estera. (v.f.p.)
mondo
16 settembre 2008 • pagina 9
Il gasdotto sarà in grado di trasportare 31 miliardi di metri cubi di gas
Nabucco spariglia i conti di Mosca. Che si affida all’Eni di Fernando Orlandi a guerra nel Caucaso continua a scatenare reazioni a catena. La diplomazia calcistica fra Ankara e Erevan, ad esempio, lascia presagire nuovi sviluppi. Non a caso, il ministro degli esteri turco Ali Babacan ha annunciato per questa settimana un incontro a tre fra Armenia, Azerbaijan e la stessa Turchia, che dal 1993 ha chiuso la frontiera con l’Armenia in protesta per il sostegno fornito ai secessionisti del Nagorno Karabakh. Pochi giorni prima il commissario per l’energia dell’Unione Europea, Andris Piebalgs, aveva ribadito che l’Ue deve intensificare i suoi sforzi al fine di costruire il gasdotto Nabucco (costo previsto: 7,9 miliardi di euro) in modo da ridurre la dipendenza energetica dell’Europa dalle forniture provenienti dalla Russia. In contemporanea, il vicepresidente americano Dick Cheney volava in Caucaso. Oltre a rilasciare dure dichiarazioni sulle azioni di Mosca (accusata di costituire una “minaccia di tirannia, ricatto economico e invasione militare” per i paesi vicini), Cheney ha fatto il lobbista a favore di Nabucco, pur non essendo gli Usa parte del consorzio. Gran parte dell’incontro con il presidente Ilham Aliyev è stato dedicato alle questioni della “sicurezza energetica”. La guerra nel Caucaso ha infatti portato molti esperti a mettere in dubbio la realizzazione di Nabucco, il gasdotto di 3300 km che dovrebbe trasportare via Georgia e Turchia il gas proveniente dalla regione del Mar Caspio fin nel cuore dell’Europa, in Austria. Per Piebalgs, invece, la necessità di diversificare le vie di approvvigionamento è divenuta oggi ancora più pressante: «Ci serve un maggior impegno politico per rimuovere tutti gli ostacoli al Nabucco». Infatti il Cremlino, tramite il suo braccio energetico Gazprom, nel palese tentativo di sabotarne la costruzione si è offerto di acquistare a prezzi di mercato tutto il gas estratto da Azerbaijan, Kazakhstan e Turkmenistan e si è impegnato nella veloce costruzione di un gasdotto rivale e alternativo, South Stream. La Russia fornisce il 42% del gas che viene consumato in Europa e il 30% del petrolio, ma in alcuni Paesi la
L
dipendenza da Mosca raggiunge l’80%. Soprattutto, Mosca è riuscita a dividere i paesi dell’Ue, firmando importanti accordi bilaterali con Italia, Germania e Austria e persuadendo altri ad entrare in South Stream. «Il nostro obiettivo di diversificare le nostre fonti e vie di approvvigionamento è ancora più importante dopo gli eventi in Georgia», ha affermato Piebalgs.
Quando sarà pienamente operativo, il gasdotto trasporterà 31 miliardi di metri cubi di gas dalla regione del Caspio o dal Medio Oriente via Turchia, Bulgaria, Romania, Ungheria e Austria. I troppi rischi derivanti dalla presenza russa, con il Cremlino che disattende sistematicamente agli impegni di ritiro assunti nell’accordo firmato da Dmitri Medvedev e Nicolas Sarkozy, giungendo ora a mettere in discussione gli stessi accordi me-
L’Unione europea e gli Stati Uniti tifano per il grande gasdotto, che potrebbe spezzare la morsa russa sulla dipendenza energetica del Vecchio Continente. L’anello debole è l’Italia, che continua il suo allineamento con il Cremlino e non consente atti di forza diati dall’Ue, hanno aumentato gli ostacoli sul cammino di Nabucco. La visita del vicepresidente americano Dick Cheney in Azerbaijan ha in qualche modo sparigliato le carte. Una conferenza di cooperazione strategica tenutasi nella capitale azera subito dopo la partenza di Cheney ha fatto riemergere tutto l’interesse di Baku per questo gasdotto. Natiq Aliyev, ministro dell’industria e dell’energia, ha dichiarato che il suo Paese «non ha abbandonato il progetto». Parole simili sono state pronunciate dal ministro dell’energia turco Hilmi Guler: «Il progetto di Nabucco rafforzerà non solo la sicurezza energetica della Turchia ma anche quella dell’Europa. Nessuno deve dubitarne». Alla conferenza di Baku ha anche preso parte Boyden Gray, il rappresentante speciale degli Stati Uniti all’Ue. Questi ha rimarcato come «la cooperazione fra Azerbaijan e Turkmenistan e altri Paesi quali il Kazakhstan per creare una diversificazione nelle possibilità di esportazione aiuta ad assicurare l’indipendenza di ogni Paese e lo rafforza economicamente». E soprattutto ha invitato alla cooperazione e coesione regionale. Ad opporsi a Nabucco non è so-
lo la Russia, ma anche l’Iran. Ad una riunione dei paesi litorali del Caspio, tenutasi sempre a Baku con oggetto lo status giuridico del mare, l’iraniano Mehdi Safari si è opposto al gasdotto del Caspio per il possibile impatto negativo sull’ecologia marina e sottolineando che «ci sono già le vie energetiche iraniana e russa». Mosca e Teheran si fanno forti soprattutto del fatto che lo statuto giuridico del Caspio è quello di un “mare comune” e si oppongono alla suddivisione in zone marittime nazionali. Ma a mettere in pericolo il futuro di Nabucco non è solo la presenza militare russa in Georgia. Eventualmente realizzato il gasdotto, serve la materia prima da trasportare. A differenza di altri progetti, Nabucco non stipula contratti per il gas, ma è invece una via per il passaggio dell’energia verso l’Europa. Agli acquisti del gas provvederanno gli azionisti, come pure altre società. Ma senza il gas proveniente da Azerbaijan, Kazakhstan e Turkmenistan il progetto è destinato a naufragare. La domanda chiave è: saranno questi Paesi in grado di estrarre gas a sufficienza per onorare gli accordi già stipulati e alimentare anche Nabucco? A dispetto dei progressi conseguiti alla conferenza di Baku, restano molti ostacoli. Charles Esser, specialista di questioni energetiche all’International Crisis Group, osserva che la partecipazione del solo Azerbaijan non rimuove tutti gli ostacoli a Nabucco. Pur dando tutto il suo sostegno, il ministro azero ha anche ammesso che il gas del suo paese non sarà sufficiente per far funzionare a regime Nabucco. E pertanto sono necessarie altre fonti.
I funzionari turkmeni che hanno preso parte alla conferenza di Baku non solo non si sono espressi su quale sarà la partecipazione del loro paese a Nabucco, ma non hanno neppure detto chiaramente se parteciperanno. Asgabat, peraltro, si è già impegnata a incrementare le proprie forniture di gas a Cina e Russia. Diversi specialisti coltivano dubbi sulle effettive capacità estrattive del Paese. Il prossimo mese, a Budapest,si terrà una importante riunione cui parteciperanno gli azionisti di Nabucco assieme ai potenziali investitori e ai potenziali fornitori. Sarò un appuntamento cruciale per il futuro del progetto. C’è poi il ruolo del nostro Paese. In diversi ambienti di Washington si manifesta preoccupazione per la partnership strategica tra Gazprom e l’Eni in South Stream. Secondo Glenn Howard, presidente della Jamestown Foundation, «togliete Italia e Eni dall’equazione e le speranze di Vladimir Putin di soggiogare l’Europa attraverso l’energia saranno congelate a tempo indeterminato».
pagina 10 • 16 settembre 2008
mondo
Israele. Al via domani le primarie di Kadima per eleggere il nuovo leader. 4 i candidati, ma lo sprint finale è fra Tzipi Livni e Shaul Mofaz
Tutte le incognite del dopo Olmert di Antonio Picasso
d i a r i o e primarie di Kadima, in agenda domani, sono probabilmente l’appuntamento più importante di tutto l’anno per Israele. A soli due anni e mezzo di distanza dalle elezioni, per il Paese si apre una nuova fase di incertezza interna, che rischia di incidere significativamente sui diversi tavoli di pace tuttora aperti in Medio Oriente. Sul dialogo con i palestinesi, come pure con la Siria e il Libano, grava l’eventuale inversione di tendenza, che un nuovo governo potrebbe assumere, per quanto riguarda l’intero processo di pace. Infatti, mentre la sincerità di Olmert in merito non è mai stata fonte di discussione, oggi l’incognita riguarda proprio le intenzioni di eventuali cambiamenti della politica estera israeliana che un qualsiasi suo successore potrebbe adottare.
L
La caduta dell’attuale governo offre due possibilità. Da un lato il nuovo leader di Kadima dovrebbe essere abbastanza forte da ridurre la crisi a un semplice cambio al vertice dell’esecutivo. In questo caso, l’auspicio è che la continuità e il confronto politico con l’Anp proseguano. Dall’altro, le primarie potrebbero innescare lo smembramento della coalizione di maggioranza. Da qui si andrebbe automaticamente alle elezioni anticipate. In questo caso, la possibile vittoria del Likud di Netanyahu provocherebbe la temuta inversione di rotta e l’irrigidimento dei rapporti con gli interlocutori arabi. In questo clima di attesa, i riflettori sono puntati sui quattro candidati alla sostituzione di Olmert alla guida di Kadima e del governo: il ministro degli Esteri, Tzipi Livni, quello dei Trasporti, Shaul Mofaz, il titolare degli Interni, Meir Sheetrit, e quello per la Sicurezza Interna, Avi Dichter. Godendo della ribalta mediatica e internazionale, i primi due dispongono delle maggiori possibilità per essere eletti. In particolare la Livni – tratteggiata come la “Golda Meir del Terzo millennio”– pare avere l’asso vincente nella manica. La sua forza, agli occhi degli stranieri, risiederebbe nel carisma dimostrato in qualità di capo delegazione nei colloqui di pace con l’Anp. D’altra parte, stando alla stampa israeliana, il capo della diplomazia sarebbe più evanescente e indecisa di quanto appaia all’estero. E forse è proprio per confutare queste critiche che la Livni ha dichiarato l’eventualità, nel caso venisse eletta Primo ministro, di interrompere i colloqui di pace con la Siria. Questa nuova intransigenza, però, suona come strumentale e
d e l
g i o r n o
Onu, condannato ex generale bosniaco Il tribunale dell’Onu per i crimini di guerra ha condannato a tre anni di prigione per maltrattamenti verso prigionieri serbi Rasem Delic, ex generale musulmano-bosniaco. Delic è stato invece prosciolto dall’accusa di omicidio. L’ufficiale 59enne è il militare musulmano-bosniaco più alto in grado ad essere condannato dal tribunale dell’Aja. Delic è stato riconosciuto colpevole di mancato intervento quando, nell’estate 1995, combattenti stranieri sotto i suoi comandi hanno torturato, violentato e ucciso prigionieri serbo-bosniaci. Nel 2005 Delic si era consegnato al tribunale, dichiarandosi però innocente di tutti i crimini di cui era accusato. L’accusa aveva richiesto quindici anni di prigione.
Lufthansa entra in Bruxelles Airlines La tedesca Lufthansa entra in Bruxelles Airlines. Come hanno comunicato i manager dei due gruppi, la compagnia aerea di Francoforte con 65 milioni di euro ha acquisito il 45 percento della azioni della consorella belga. Dal 2011 l’azienda tedesca potrebbe entrare in possesso di tutta la proprietà di Bruxelles Airlines. La compagnia belga, nata alla fine del 2006 dalla fusione di Sabena e della low cost Virgin Express, serve soprattutto destinazioni europee e africane. Con una flotta di circa 50 areomobli, Bruxelles Airlines lo scorso anno ha raggiunto un target di 5,8 milioni di passeggeri.
Iraq, arriva Gates per addio Petraeus
Il ministro dei Trasporti Mofaz (a sinistra) e la sua “collega” agli Esteri Livni (a destra), cercheranno di aggiudicarsi il 40% per cento dei voti volta a recuperare gli ultimi voti degli indecisi. Ed è infatti sulla sua persona che l’Occidente ha puntato perché il processo di pace non subisca scossoni con la crisi di governo. Mofaz, dal canto suo, vanta un cursus militari di tutto rispetto. Già ministro della Difesa e prima ancora Capo di Stato Maggiore delle
Le primarie potrebbero innescare lo smembramento della coalizione di maggioranza e condurre il Paese verso le elezioni anticipate Forze Armate. A suo vantaggio, inoltre, si riconosce la posizione marginale – suo malgrado – durante il fallimentare conflitto contro Hezbollah nel 2006. Due anni fa, Mofaz era già ministro dei Trasporti e in questo ruolo i suoi suggerimenti tattici sulla necessità di evitare uno scontro di terra con i miliziani del “Partito di Dio”non vennero ascoltati.Ma, per quanto a Israele possa tornare comodo un premier con un passato in uniforme – dopo l’esperienza del “borghese” Olmert – il punto debole di Mofaz è
essenzialmente politico. L’iniziale rifiuto all’invito di Sharon ad unirsi a Kadima, per poi ritrattare, fa apparire l’ex comandante in una posizione politica poco coerente e più interessata ai giochi di potere. Infine, le sue recenti dichiarazioni sulla necessità di riprendere gli assassinii mirati dei leader palestinesi non è passato inosservato tra i collaboratori di Abu Mazen.
Di tutt’altra consistenza è il peso di Sheetrit e Dichter. Questi due candidati, infatti, paiono aver assunto il ruolo di gregari nella corsa alla leadership di Kadima, affinché le primarie non passino come un mero ballottaggio.Tuttavia, il punto in favore di entrambi, è che costituiscono un elemento innovativo. Cosa che proprio Kadima ambisce ad essere. E se, in un futuro prossimo, si dovesse andare alle elezioni anticipate, le loro possibilità di vittoria, in tal caso come candidati premier, non sarebbero da sottovalutare. A differenza della Livni, troppo legata alla memoria di Sharon, e di Mofaz, direttamente coinvolto in esperienze di governo precedenti, Sheetrit e Dichter potrebbero fronteggiare con più destrezza un “Bibi” Netanyahu nuovamente agguerrito e, di conseguenza, evitare che questo smonti i buoni propositi di pace di Israele.
Il segretario alla Difesa statunitense, Robert Gates, è giunto ieri a Baghdad per una visita a sorpresa. Il viaggio giunge alla vigilia del cambio al vertice della coalizione internazionale tra il generale David Petraeus e il suo omologo Raymond Odierno. Washington e Baghdad stanno negoziando un controverso accordo sulla presenza delle truppe americane in Iraq a partire dal 2009, alla fine del mandato delle Nazioni Unite. La settimana scorsa, Gates aveva espresso l’auspicio di una presenza americana in Iraq anche «negli anni a venire», con un’evoluzione del loro ruolo e una riduzione della loro presenza in termini numerici.
Cina, latte contaminato colpisce bambini Dopo i ravioli ai pesticidi, il dentrificio all’antigelo, il riso agli insetticidi e la pappa per cani alla melanina, un nuovo scandalo sanitario ha colpito la Cina. Il dramma del latte contaminato questa volta colpisce i lattanti. Due neonati sono già morti, mentre altri 1200 sono malati. Secondo quanto dichiarato dal vice ministro della Sanità di Pechino, Ma Shaowei, «circa 10mila bambini potrebbero aver consumato il latte in polvere del gruppo Sanlu. Le dichiarazioni del funzionario che ha confermato due morti avvenute il 1 maggio e il 22 luglio, portano a credere che la contaminazione sia iniziata da tempo.
Sudafrica, Mbeki sotto pressione Dopo il ritiro delle accuse contro il capo dell’African National Congress, Anp, Jacob Zuma, e le dichiarazioni del giudice Chris Nicholson che alla base del procedimento giuridico dello scorso dicembre, coordinato dall’attuale capo dello stato sudafricano, vi erano motivazioni politiche, in Sudafrica si moltiplicano le richieste di dimissioni anticipate nei confronti del presidente Mbeki. Il gruppo dirigente dell’Anc è deciso a risolvere entro settembre, la questione della permanenza o meno di Mbeki nelle funzioni di presidente del Paese. Anche gli alleati del Congresso, la lega sindacale Cosatu e il partito comunista, sono dello stesso avviso. La richiesta di dimissioni arriva in un momento delicato per Mbeki che, grazie alla mediazione in Zimbabwe intende passare alla storia sudafricana come presidente di successo.
mondo
16 settembre 2008 • pagina 11
Manifestanti nella regione ribelle di Pando, dove l’esercito boliviano ha ricevuto l’ordine di arrestare il governatore accusato di aver violato lo stato d’assedio imposto dal presidente Evo Morales (in basso nella foto) dopo un’ondata di violenze. La legge marziale è stata imposta venerdì per porre fine agli scontri fra contadini fedeli a Morales, a sua volta un ex coltivatore di coca, e gruppi della destra radicale che sostengono il governatore Leopoldo Fernandez
Dal vertice Unasur di Santiago del Cile sostegno a Morales e invito a sospendere le ostilità per scongiurare il peggio
Bolivia, si dialoga tra minacce e accuse di Maurizio Stefanini ula è l’unico non chavista cui Evo Morales dà retta», ha detto Philip Goldberg: proprio l’ambasciatore statunitense in Bolivia espulso con l’accusa di istigare la sollevazione dei quattro dipartimenti orientali, e la cui cacciata ha dato luogo a una guerra delle ambasciate in cui è entrato in mezzo anche il Venezuela. Ma, appunto, dà retta anche e soprattutto a Chávez, al punto da essersi addirittura vantato in un comizio di stare prendendo soldi direttamente dall’ambasciata venezuelana «senza passare per nessun intralcio burocratico». Ora, secondo Chávez la protesta dei dipartimenti di Santa Cruz, Beni, Pando e Tarija contro l’abolizione dell’ali-
«L
quota del 40% sull’imposta degli idrocarburi che andava alle regioni produttrici non sarebbe che un «colpo di Stato in corso», contro il quale minaccia di mandare le Forze Armate venezuelane, e nel caso poi anche di appoggiare «ogni tipo di lotta armata possibile»: cose che gli hanno tra l’altro valso una ferma messa a punto da parte dei comandi militari boliviani, a
darebbe inizio alla “balcanizzazione della regione”.
Anche Lula manifesta solidarietà a Morales. Però fa sapere di stargli telefonando in continuazione per consigliargli “moderazione e dialogo”. Comunque, la sua reazione agli ultimi drammatici sviluppi, dopo le espulsioni degli ambasciatori e il massacro nel Di-
proprie ragioni, e anche a spiegare di non essere “golpisti”. A chi dei due sta dando retta Evo Morales? Sembra che a tutti e due contemporaneamente, alternando i gesto di rottura e quelli di concessione. Ed è questo il guaio. Prima, infatti, aveva deferito i quattro prefetti ribelli ai tribunali militari, provocando la sfida greve di quello di Santa Cruz, Rubén Costas: «che ci pro-
Il summit è stato convocato dopo che, alla fine della scorsa settimana, un gruppo di contadini del dipartimento boliviano di Pando sono caduti in un’imboscata: almeno 30 le vittime, ma il numero è ancora incerto “farsi gli affari suoi”. Dunque, la sua intepretazione del Vertice dell’Unasur, comunità dei Paesi sudamericani, convocata a Santiago per discutere sul caso boliviano è stata: deve manifestare appoggio granitico a Morales, per evitare sia un golpe che sarebbe un secondo “caso Pinochet”; sia una secessione che
partimento di Pando, è stata appunto quella di convocare l’argentina Cristina Kirchner e la cilena Michelle Bachelet, come presidenti di una troika già stabilita di mediatori denominati “Amici della Bolivia”. È la Bachelet che come presidente di turno dell’Unasur ha concretamente convocato il vertice straordinario a Santiago. E la linea di Lula è che il vertice non deve limitarsi a stabilire che la continuità istituzionale e l’integrità territoriale della Bolivia non vanno infrante; ma deve anche rimettere i contendenti assieme, per porre termine al conflitto. Ragione infatti per cui anche i quattro prefetti ribelli avevano chiesto di poter andare nella capitale cilena, a esporre le
vi, e vedremo se ha davvero le palle!». Poi aveva chiamato al dialogo. Poi ha mandato l’esercito nel Pando, dopo gli scontri tra opposte fazioni che avevano provocato tra i 14 e i 30 morti, che le due parti si rinfacciano a vicenda. Poi ha offerto addirittura di cambiare la Costituzione imposta dal suo stesso partito, pur di venire incontro all’Est. Poi ha fatto emanare un mandato di cattura contro il prefetto di Pando Lepoldo Fernández. Poi si è incontrato col prefetto di Tarija, Mario Cossío. Poi ha mandato il vicepresidente Álvaro García Linera a incontrarsi con tutti i prefetti per combinare un vertice congiunto. Poi è stato però fatto sapere che Fernández è escluso, proprio per il mandato di cattura che pende su di lui. Rispetto alla settimana scorsa,
l’esercito si è infine scosso dalla sua abulia, messo come era in mezzo tra la scarsissima simpatia per il governo di estrema sinistra di Evo Morales e la simpatia ancora minore per la deriva separatista che sta prendendo la proresta dell’Est. Decidendo che alla fine è proprio Evo il male minore, e bilanciando l’atto con la già citata e clamorosa presa di posizione contro Chávez, i militari sono infine intervenuti nel Pando, lanciando un segnale talmente inquivocabile che i protestatari hanno sospeso i blocchi stradali. Ma d’altra parte l’internazionalizzazione della crisi segnata dal vertice di Santiago è a sua volta un successo, e dunque stiamo ancora sul pari e patta.
È d’altronde lo stesso stallo già consacrato dal referendum revocatorio del 10 agosto, con la conferma a un tempo che Morales ha l’appoggio su scala nazionale di due cittadini su tre, ma che i quattro dipartimenti da cui vengono i due terzi della ricchezza boliviana gli sono ostili. Sempre più analisti vedono ormai Morales e Costas come due grandi “capitribù” saldamente ancorati l’uno a La Paz e l’altro a Santa Cruz, e incapaci di venire a capo l’uno dell’altro. Uno scenario da ex-Jugoslavia: anche a prescindere dai trascorsi di Goldberg con Bosnia-Erzegovina e Kosovo e dalle origini croate di gran parte della classe dirigente di Santa Cruz.
pagina 12 • 16 settembre 2008
polemiche
L’ambasciatore Sergio Romano spiega pregi e limiti del dibattito sul revisionismo che si è aperto dentro Alleanza nazionale
L’antifascismo di Fini colloquio con Sergio Romano di Riccardo Paradisi
ROMA. «Per andare al potere Alleanza Nazionale non ha più bisogno di difendere il retaggio fascista, rivendicare l’esistenza di un fascismo sociale o dimostrare che il comunismo fu peggio del fascismo. Il passato al di là della censura è definitivamente passato. Può essere letto, giudicato, pesato e valutato con gli strumenti della storia. Scopriremo così che anche il XX secolo, come i secoli precedenti, è fatto di uomini e Stati che non sono mai stati né completamente buoni né completamente cattivi. Smetteremo di giudicare gli avvenimenti in funzione degli effetti desiderati e capiremo che essi possono essere compresi soltanto alla luce degli interessi e delle intenzioni dei protagonisti». Sergio Romano, storico ed editorialista del Corriere della Sera scriveva dieci anni fa queste cose in Confessioni di un revisionista (Ponte alle Grazie). Malgrado però siano passati due lustri da quell’auspicio e più di sessant’anni dalla fine della guerra civile in Italia non si è ancora smesso di dividere la lavagna della storia tra buoni e cattivi. La notizia, giornalisticamente parlando, è che ora è il leader di Alleanza nazionale Gianfranco Fini ad usare la categoria dell’antifascismo – elaborata dalla Terza internazionale – come limes culturale di legittimazione politica per la destra italiana.
Ambasciatore Romano dunque ci risiamo. Il tema fascismo-antifascismo torna all’ordine del giorno nel dibattito italiano. E stavolta è il leader di An Gianfranco Fini a rimetterlo in gioco. Fini è un politico che coltiva per sé ambizioni molto alte e che ha capito che il problema del fascismo è tornato incredibilmente attuale, che l’accusa di fascismo, rivolta a un’avversario politico o a un governo, rischia di diventare pericolosa. È chiaro che il pericolo fascista non esiste
“
Indubbiamente Fini ha reagito alle sortite politicamente inopportune di Alemanno e La Russa: ha capito che quei giudizi sul fascismo e sulla Rsi finivano per accreditare le tesi secondo cui il governo Berlusconi sarebbe sospettabile di essere fascista. Dal suo punto di vista dunque, dal punto di vista della sua personale tattica politica, Fini ha ragione. Facendo una dichiarazione ultra-antifascista ha riequilbrato il carro che due esponenti del suo partito avevano fatto sbandare. Questo ragionando nella logica interna alla tattica finiana. Più in generale è desolante e deprimente che un Paese come l’Italia fissi l’attenzione del dibattito politico all’interpretazione di un passato così remoto Invece Berlusconi, che non ha mai partecipato a un 25 aprile, va alla festa di An a fare l’apologia di Italo Balbo e qualche anno fa specificava che il fascismo era stata una dittatura morbida, che Mussolini non era Hitler. Non sono parole e comportamenti di un convinto antifascista. Perché Berlusconi secondo lei usa questo registro e Fini ne usa uno così diverso? Berlusconi sta facendo in modo soffice un’operazione alla Putin che ha ricercato di ricomporre l’unità della storia russa per restaurare l’orgoglio nazionale. Nel farlo la storiografia
La sua sortita è un fuor d’opera. Si spiega con la necessità di mettere in riga due esponenti del suo partito
”
e che l’accusa di fascismo rivolta a questo esecutivo è ridicola, non ha senso. Ma produce una rendita politica. Anche le cose che non hanno senso avvengono. C’è chi dice che Fini sia stato tirato per i capelli dalle dichiarazioni degli esponenti del suo partito: il sindaco di Roma Gianni Alemanno e il ministro della Difesa Ignazio La Russa.
In alto: un’immagine che ritrae un’ausiliaria dell’Rsi nelle mani di alcuni partigiani e a fianco Benito Mussolini. A destra, il presidente della Camera Gianfranco Fini e il ministro della Difesa Ignazio La Russa. Sopra, l’ambasciatore italiano Sergio Romano, autore del saggio sul revisionismo storico ”Confessioni di un revisionista. Uno sguardo sul secolo dopo la morte delle ideologie” (Ponte alle Grazie, Milano 1999)
ufficiale ha dovuto recuperare anche la figura di Stalin con i suoi lati oscuri ma anche con i suoi meriti di modernizzatore della patria russa e vincitore della seconda guerra mondiale. Si tratta evidentemente di un’operazione storico pedagogica a sfondo nazionalista ma sono operazioni queste che fanno anche gli stati democratici. Berlusconi tenta di farlo con la storia italiana con il suo stile guascone. Fini questa operazione non può permettersela, per evidenti motivi. Anzi è costretto a eccedere sul lato opposto. Sta di fatto che davvero Mussolini non è paragonabile a Stalin. Paolo Mieli una volta l’ha detto che Mussolini ha ucciso meno comunisti di quanti ne abbiano ammazzati i comunisti stessi. È una battuta sintetica ed efficace mi sembra a confermare quanto lei ha detto. Ambasciatore che effetto le ha fatto sentire il leader di una destra che per anni ha usato le argomentazioni del revisionismo storico impugnare in modo così sbrigativo e aproblematico l’antifascismo più duro? La sortita di Fini ha un significato solo contingente: nasce ora perché, lo ripeto, ci si è accorti che accusare un governo di essere fascista può costituire un pericolo per il governo. Certo che quello di Fini è sembrato un fuor d’opera però se con quel fuor d’opera ha zittito due persone moleste del suo partito avrà conse-
polemiche
16 settembre 2008 • pagina 13
Nel centrodestra si scatena il dibattito online
Moderno o traditore? I blog si dividono di Guglielmo Malagodi ella variopinta galassia dei blog di centrodestra il dibattito infuria. Da un lato c’è chi considera le ultime sortite del presidente della Camera, Gianfranco Fini, come un passaggio - quasi obbligatorio - per portare a termine il traghettamento di Alleanza Nazionale dalle sponde del neo (o post?) fascismo dell’era missina a quelle di una destra conservatrice, europea e “normale”. Dall’altra, non mancano le voci fortemente critiche per quello che viene considerato, né più né meno, come un “tradimento”. «Quali sarebbero i “valori” dell’antifascismo?» si chiede Lettera Maltese, uno dei quasi duemila blog che compongono l’ossatura di www.tocqueville.it, il più grande aggregatore di centrodestra nel cyberspazio italiano (e forse europeo), «La Democrazia? Rousseau era antifascista? La Libertà? Tocqueville era antifascista? La socialità? Bacone era antifascista? Ecco dunque spiegato il tutto... la dialettica fascista-antifascista oggi è solo l’ennesimo teatrino di una politica corrotta, becera ed ignorante, creato ad arte per ricreare nel popolino forme identitarie del tutto inutili di fronte alle enorme difficoltà dell’europa di oggi... tanti auguri ai fascisti-antifascisti di domani». Per Mikereporter, invece, quelle di Fini sono state le parole di un leader con «la capacità di vedere oltre», parole «certamente condivisibili, che confermano con quanto coraggio e lucidità politica Gianfranco Fini stia portando avanti il suo percorso verso la destra del futuro». C’è chi, come Big Blog, invita i suoi lettori ad offrire una «chiara e sincera un’apertura di credito nei confronti dell´operato di Gianfranco Fini. Perché la destra di oggi deve guardare agli effettivi problemi dell´Italia, e non piangere sul passato, deve confrontarsi con le sfide del futuro, e non spolverare di tanto in tanto labari e croci celtiche». Ma anche chi, come Il Siculo, si scandalizza perché è proprio il leader di An a dire «che l’anti-fascismo è un valore e che in Italia è giusto che ci siano morti di serie A e morti di serie B (morti di Salò): questo discorso te lo aspetti da un leader di sinistra, ma non da colui che nel nostro panorama politico ha sempre rappresentato la destra moderna». Ad attaccare Fini, però, non sono soltanto i militanti di Azione Giovani o delle realtà vi-
N
guito il suo obiettivo. E tra un mese si parlerà d’altro. È questa la dimensione dentro cui stiamo. Fini però era andato anche oltre: aveva parlato di fascismo come male assoluto. Un’enormità. Se fosse stato un male assoluto avremmo dovuto cancellare tutto quello che il fascismo aveva fatto, invece per decenni abbiamo convissuto con gli avanzi istituzionali del fascismo. Con la sua eredità. Non abbiamo distrutto l’Inps, o raso al suolo Guidonia o Littoria. Non si rischia così, e paradossalmente l’impulso viene stavolta da destra, di tornare a proporre il paradosso per cui come lei ha scritto, i collaborazionisti della Germania hitleriana sono moralmente più riprovevoli di quei comunisti dell’Europa occidentale che per molti anni accettarono il denaro di un Paese totalitario e nemico come l’Urss? Certo che si ricrea questo paradosso. Ma questa, per usare un gioco di parole, è l’eterogenesi delle parole di Fini. Che ha reagito, subendolo, a un clima creato nel Paese dalle ali estreme dell’opposizione che ricrea continuamente le insistenti ragioni per una mobilitazione antifascista. «Non so se Fini sia un grande leader – ha detto Giampaolo
Pansa, autore di una fortunata serie di libri revisionisti – so e lo scriverò nel bestiario, che ha fatto un errore madornale nel non distinguere bene fra l’antifascismo democratico e quello totalitario. E so che ha messo in difficoltà, a partire da oggi, tutti i militanti di An che, in tutta Italia, adesso saranno irrisi e censurati». Che ne pensa di queste parole? Constato che siamo rientrati di nuovo in questo tipo di dibattito e davvero mi sembra surreale. Pansa non dice cose insensate naturalmente: io potrei aggiungere che nel ’43 c’erano due concetti di onore in Italia. E chi ha combattuto sotto le bandiere della Rsi ha difeso il suo. Ma il punto è un altro e ci tengo a ribadirlo ancora: davvero crediamo che ribadire queste cose sia importante? Io temo che questo Paese parli così tanto di passato perché non è interessato al suo futuro. Se lo fosse avrebbe tutto l’interesse a garantire un massimo di unità nazionale Ambasciatore finirà mai questa storia? L’accusa di fascismo intendo rivolta a chiunque entri nel mirino della sinistra più o meno estrema di questo Paese. Io pensavo che con la fine del Pci ci sarebbe stato in questo Paese un minor uso di antifascismo. Invece questa storia, come dice lei, continua.
cine alla “destra-destra”, visto che anche L’Occidentale, quotidiano online vicino alla Fondazione Magna Carta, scrive (in un articolo firmato con lo pseudonimo “Milton”): «È ora di finirla con questa sudditanza e questo calarsi le braghe ogni volta che i santoni dell’antifascismo e della resistenza rispolverano i loro pruriti nostalgici, finirla di ripetere il sermone sulla sacralità intangibile della Carta Costituzionale ormai vecchia e stantìa, solo per essere accettati nel club». Parole dure, ma anche chi utilizza toni più morbidi - come Orpheus, ricorda a Fini che «l’essere presidente della Camera, non deve prescindere dai propri ideali, e men che meno è necessario rinnegare il proprio passato. Bertinotti da presidente della Camera ha scritto un missiva di auguri affettuosi e complimenti a Fidel Castro, inneggiando ad una dittatura feroce che è costata la vita a migliaia di cubani. Senza arrivare a tanto, francamente indegno della terza carica dello Stato, non è neanche il caso di abbracciare in toto un antifascismo distante anni luce dai precetti democratici e liberali». Qualcuno, invece, come Il Caffè Piacentino ritiene che le parole di Gianfranco Fini sulla Rsi «non possono che portare ad un ulteriore chiarimento circa il percorso che la destra italiana sta seguendo agli inizi del ventunesimo secolo. L’antifascismo, inteso come avversione al totalitarismo, non può che essere il tratto comune che deve contraddistinguere tutti i partiti e le forze politiche di un sistema democratico perché è proprio grazie a tale presupposto istituzionale che è possibile garantire le differenze». Il problema vero, però, è per il futuro. Il Neoaristocratico, per esempio, intravede nubi nere (è proprio il caso di dirlo) all’orizzonte: «Temo che Fini si stia lanciando dalla rupe Tarpea di propria sponte e che presto i contrasti all’interno del Pdl si acuiranno. L’inebriante profumo della vittoria ha offuscato, come sempre accade, le menti dei militanti. Ma non durerà a lungo, congressi e unione sono alle porte. Sento il bisogno di innalzare alto il grido di dolore che viene da tanti uomini e donne iscritti ad An che sono stati esclusi da ogni decisione e sono costretti quotidianamente a bere l’amara medicina somministrata da una classe dirigente di partito spesso vecchia, mediocre e chiusa in se stessa».
«La dialettica fascista-antifascista è solo un teatrino». «No, l’antifascismo è un tratto comune di tutti i democratici»
pagina 14 • 16 settembre 2008
speciale
economia
NordSud
Il turismo in Italia è all'anno zero: sono calate del 10 per cento le presenze nei mesi estivi. E assieme con la crisi congiunturale si paga l'assenza di innovazione
IL BELPAESE SCACCIA I VACANZIERI di Magda Antonioli Corigliano egli ultimi giorni sono stati divulgati dati di diversa provenienza, tutti con l’intento di delineare le caratteristiche di fondo dell’andamento della stagione estiva turistica 2008, che volge al termine. Di fatto nonostante varie eccezioni positive, l’estate in linea generale a consuntivo, come varie infauste cassandre avevano presagito, chiude in calo, senza tuttavia registrare quello che può definirsi un vero crollo. Anche la bella stagione di settembre e probabilmente di ottobre, dovrebbe contribuire a rialzare alcuni valori non proprio ottimali per il Belpaese. Dopo una partenza al rallentatore, la ripresa del mese di ago-
N
villaggi, in tenuta campeggi e in crescita B&B e agriturismi. Sempre da uno sguardo di massima, si è visto un turista nazionale e straniero, che spende meno, che restando sulla tendenza ormai ben delineata da tempo, accorcia la durata media della vacanza estiva (ormai sui dieci giorni circa), che si muove (uno su cinque!) ancora con l’auto, anzichè in treno o in aereo. Hanno tenuto testa aree con eccellenze dell’enogastronomia, aree minori fra quelle culturali, dove il termine sta a indicare destinazioni meno note e ancora non inserite nei circuiti tradizionali, ma non per questo di minor valore, aree a forte valenza termale. Minor successo
Nel resto del mondo il settore tira: +5 per cento fino a questo momento sto ha in molte località recuperato terreno, anche se le nostre cattedrali (Roma, Firenze e Venezia) di fatto hanno subito un calo nelle presenze di circa un 10 per cento, al quale ha sicuramente contribuito la crisi dell’economia americana, la ormai nota prudenza dei consumatori statunitensi in clima elettorale, nonché il tasso di cambio euro/dollaro. Bene comunque gli hotel di lusso, un po’ meno le altre categorie e i
ha riportato il mare, soprattutto quello tradizionale più “immobile”, bene una grossa parte del lacuale. Sicuramente si riafferma un trend generale, peraltro già manifestatosi nel corso degli ultimi anni, di un settore in crisi al quale probabilmente si dovrebbe riconoscere un ruolo specifico, e non residuale, rispetto ad altri comparti produttivi. Non più la “gallina dalle uova d’oro”, bensì un com-
parto, composto da un’altrettanto fondamentale catena orizzontale di mestieri e industrie, nel quale crederci, investire e attuare tutte quelle strategie che abbandonano una mera rendita di posizione, per entrare in una logica di innovazione, di un attento rapporto prezzo qualità e di investimenti. Sì di investimenti anche massicci, che partendo dalle infrastrutture di trasporto, abbracciano la ricettività e tutto quel vasto insieme di servizi che appunto ne fanno un tutt’uno. Non da ultimo un settore nel quale gli investimenti in comunicazione e promozione, anche attraverso le Ict, giocano un ruolo sempre più fondamentale. Allora cosa bisogna fare per attivarne questo circolo virtuoso? Di fatto la stampa, anche nell’illustrare i programmi del governo da poco insediatosi, ha spesso già evidenziato alcune linee di intervento e di policy: si è parlato, per esempio, delle necessità di una nuova classificazione alberghiera, non tanto regionale quanto nazionale con regole e segnali chiari alla domanda, dell’ uniformazione dell’ Iva, discriminate a livello europeo per esempio proprio verso nostri partners/competitors diretti, della reintroduzione di un dicastero apposito, di attribuire un ruolo propulsore agli eventi, in particolare a quelli di grande rilievo internazionale. In questa direzione il fatto che l’Italia – e non solo Milano! – si sia aggiudicata l’Expo2015 si-
curamente ha riacceso gli animi e creato interessi di ampia portata per un futuro non solo immediato. Pensare alla grande, forse anche sognare, in tal senso sicuramente fa bene al sistema nella misura in cui rappresenta una spinta a lavorare assieme e a ritrovare quello spirito di gruppo, collante fondamentale del comparto e un po’ rilassatosi, e per contro non avere un’ulteriore occasione di “assalto alla diligenza”. Ma anche questo aspetto, come altre osservazioni che si vogliono riportare in seguito, deve necessariamente prendere l’avvio dalla presa di coscienza dalla necessità che è indispensabile una cultura dell’accoglienza, abbinata a un grosso sforzo di lavorare assieme, aspetti che sicuramente negli ultimi anni, fatte salve alcune eccezioni, non hanno sempre brillato. Allora vediamo qualche punto su come, a parere di chi scrive, si dovrebbe riprendere a ragionare, sia come singoli sia come attori diversi uniti in una logica di rete a livello locale, ma anche nazionale. Una destinazione deve essere intesa facendo primariamente attenzione all’ottica della domanda turistica anziché riferirla, come spesso si fa con un approccio alquanto banale, semplicemente alle strutture operanti dal lato dell’offerta, oppure in modo ancor più riduttivo, limitandosi a una logica amministrativa (o istituzionale) a livello territoriale/geografico. Le attrazioni tangibili
e intangibili, naturali e artificiali (non solo i prodotti e i servizi ma anche le risorse antropiche, la comunità locale e l’identità della destinazione stessa), vanno valutate nella misura in cui sono in grado di suscitare e rispondere alle motivazioni del viaggiatore. Solo così facendo si potranno percepire i fondamenti della competitività del prodotto, nelle sue varie componenti e declinazioni e segmentazioni, nonché avvertire i cambiamenti in atto nel mercato turistico, particolarmente acceleratisi negli ultimi anni, a seguito della progressiva globalizzazione dei mercati, secondo i principi più basilari di quel marketing esperienziale peraltro spesso evocato. Tutti elementi che dovrebbero imporre agli operatori turistici e ai soggetti pubblici territoriali lo sviluppo di nuove competenze e di capacità, che costituiscono altrettanti elementi fondamentali per mantenere il proprio vantaggio competitivo, secondo il principio del “cooperare all’interno per competere all’esterno”. A maggior ragione in uno scenario, di piccole e medie imprese, che dominano il panorama dell’offerta turistica italiana, la rete è fondamentale anche nel comunicare adeguatamente e nel gestire al meglio le peculiarità non solo spaziali ma anche temporali del territorio, avendo cura dell’ambiente e dei suoi equilibri, delle sue risorse antropiche e delle identità della comunità locale.
16 settembre 2008 • pagina 15
Resistono il lusso, le crociere e gli agriturismi
Il tradimento delle città d’arte di Alessandro D’Amato era crisi o segnale di difficoltà ciclica? Le stime di Federalberghi e Confturismo parlano di un settore, quello del turismo, per il quale nel 2008 si parla di una flessione complessiva del 6 per cento: un dato in controtendenza rispetto agli ultimi due anni, nei quali la crescita era stata continua, dando la sensazione agli operatori di un superamento definitivo della crisi dei primi anni 2000. E che pesa assai, visto che significa minori ricavi per 1,5 miliardi di euro su un fatturato di circa 33 miliardi di e di 140 miliardi come fatturato complessivo, compreso l’indotto, del turismo in Italia.
V
Dunque, se in passato era possibile essere competitivi banalmente puntando su un vantaggio posizionale conferito dalle risorse (culturali in buona misura ma non solo), in un’ottica di “rendita di posizione”, nel nuovo contesto concorrenziale e in base a quanto osservato in precedenza, per ottenere successo risulta essenziale “essere organizzati”, ricorrere a una aggregazione del prodotto in una logica sistemica a livello di area e cogliere tutti quei passaggi sulla filiera. Sono state carenze in questo meccanismo alla base dello slittamento del nostro Paese in pochi anni dal secondo al quarto posto (dati 2006 dell’Omt, per spese, mentre per arrivi al quinto! superata dalla Cina) della classifica delle principali destinazioni turistiche internazionali, in presenza di trend positivi di crescita del mercato turistico mondiale, nonché di alcuni nostri competitors storici. La logica del management integrato della destinazione turistica richiede alla gestione di focalizzarsi su quattro aspetti fondamentali: l’orientamento al mercato, le esigenze di differenziazione espresse da parte del turista-inclusi i cosiddetti fattori no price, una progettazione congiunta da parte degli operatori della destinazione, e il coinvolgimento del soggetto pubblico e degli enti vari coinvolti, a partire dai residenti. Un ruolo essenziale in questo processo risiede nella profes-
sionalità e nella managerialità. Anzi quest’ultimo aspetto, unitamente al fattore “imprenditorialità”, in grado di garantire tutte le professionalità necessarie per un management della destinazione, oltre naturalmente a quelle specifiche di ogni elemento/componente della propria offerta, costituisce l’elemento basilare per una concreta accettazione del principio che una strategia competitiva è per sua natura dinamica e quindi devono essere tali anche le competenze connesse. All’interno di una destinazione turistica sono chiamate a operare professionalità nuove, così come alle competenze tradizionali si impone un costante orientamento alla flessibilità e all’adeguamento. La formazione, anche intesa al di fuori del percorso scolastico, diviene quindi un importante strumento di traduzione in professionalità delle specifiche esigenze di un territorio, e si deve estendere ad ambiti più allargati, si pensi alle nuove figure lavorative in campo culturale, sanitario (terme, fitness, spa, terza età etc), degli eventi e dell’enogastronomia e create dalle nuove forme sul mercato del lavoro. Anche questo, spesso, fa la differenza tra la situazione italiana e quella di molti altri Paesi, dove queste istanze sono avvertite con maggiore sensibilità ed urgenza. Direttore del Met dell’università Bocconi
L’allarme è confermato da quello che succede nel resto del mondo. L’Italia infatti sembra aver preso una china in netta controtendenza rispetto ai Paesi europei. L’Agenzia turistica dell’Onu, per l’anno in corso, ha previsto un aumento globale del movimento turistico intorno al 5 per cento e la Francia, ma soprattutto la Spagna, registrano una dinamica dell’industria delle vacanze sostanzialmente in linea con queste previsioni. E stiamo parlando di due Paesi che possono vantare un patrimonio artistico e culturale di certo inferiore rispetto a quello nostrano. I numeri, comunque, sono contrastanti. Vero è che l’Associazione italiana catene alberghiere (Aica, associato di Confindustria), sulla base dei dati dei primi sei mesi, registra un calo dei ricavi alberghieri del 7,5 per cento a fronte di una riduzione del tasso di occupazione del 4,5 per cento. Il problema sembra risiedere nella fascia alta: forti, più forti della media, le perdite dei 5 stelle con un calo dell’11 per cento dei ricavi e del 7,3 per cento dell’occupazione delle camere. A soffrire di più le realtà meno rinomate: Napoli, dove l’emergenza spazzatura finita su tutti i quotidiani esteri ha avuto il ruolo decisivo (55,4 per cento, -10,3 sul 2007:); Pisa (55,6 per cento e - 2,4); Trapani (46,1 per cento e -18,74; Verona (51,6 per cento e -9); Firenze (62 per cento e -4,3; Venezia (57,5 per cento e -12,6 sullo scorso anno). Ma è anche vero che hanno retto le grandi città: a Milano il primo consuntivo del 2008 fa segnare un tasso di occupazione degli hotel del 67,3 per cento in crescita del 2,1 per cento sul 2007; Torino ha messo a segno un recupero del 17,3 per cento con un tasso di occupazione salito al 61,3 per cento e Genova registra una crescita delle presenze alberghiere del 6,7 per cento, a quota 63,7 per cento. Secondo le stime dell’Astoi (Associazione tour operator italiani), il calo maggiore è quello registrato dalle località di mare (-8 per cento), ma sul comparto, per quanto riguarda i
clienti italiani, ha pesato anche la riduzione della capacità di spesa: 900 euro il prezzo medio pro capite per una settimana di ferie, mentre significativo è anche il “taglio” della durata dei viaggi, arrivata a 10 giorni dai circa 15 che erano la media “storica”. Però non tutto è nero: la Liguria, il Veneto e la Sicilia sembrano reggere e, anzi, crescere modestamente tra le preferenze dei turisti italiani e non.
Mentre il Piemonte, che sul settore ha investito risorse pubbliche e private, è in marcata controtendenza. E chi cresce c’è: le crociere (+30 per cento), che hanno ritrovato fascino, e - in un paese di buongustai era il minimo - anche il turismo enogastronomico (vale 5 miliardi per Coldiretti), che secondo alcuni è il comparto del futuro. Tanto che persino qualche grosso investitore comincia ad accorgersene, e a pensare che puntare una fiche potrebbe dare i suoi frutti. Ma soprattutto: sono in aumento le prenotazioni per il 2009. Come dire che forse quella che è accaduta è stata soltanto una fisiologica controtendenza, da imputare più a cause esterne (la crisi dei subprime per gli Usa, con tutti i suoi effetti collaterali sul credito, e quindi sull’industria europea) che a un problema prettamente italico, a parte le ben note difficoltà di Napoli. A testimoniarlo il calo delle città stimato in media intorno al 15 per cento secondo la Federalberghi con Venezia, Roma e Firenze in prima fila. E infatti i tour operator internazionali sembrano essere ritornati a interessarsi dopo la stasi, e il peggio potrebbe essere passato, ragionano i gestori: il fascino l’Italia non sembra averlo perso, l’appeal, almeno all’estero, è soltanto un po’ appannato. «Questioni di mode, ma noi siamo un must», dice uno di essi, «e i must non passano mai di moda». Eppure qualche problema di fondo c’è, e continua ad essere irrisolto da anni. La qualità dell’offerta, mediamente inferiore in Italia non tanto per un problema di immobilismo, ma proprio a causa di “picchi” di disorganizzazione e di non professionalità che poi puntualmente portano a polemiche estive di clienti insoddisfatti, facendo risolvere il tutto in una pubblicità negativa che a volte possiede le caratteristiche precipue dell’autogoal. «Vacanza rovinata? Aiutaci a difendere i tuoi diritti!», recita un documento di Telefono Blu consumatori – Sos turista. Dove si legge che sarebbero 1,5 milioni gli italiani ad aver deciso di rinunciare alle vacanze all’inizio dei mesi estivi: per i prezzi troppo alti (anche se in frenata rispetto al 2007), ma anche perché la qualità non soddisfa in troppi casi. Un altro campanello d’allarme che suona per l’industria e per il governo.
pagina 16 • 16 settembre 2008
speciale
economia
NordSud
Destination management e suggestioni di arte e tradizioni per far dialogare pubblico e privato
L’era della mediazione culturale, l’ultima frontiera dell’accoglienza colloquio con Nicola Costantino di Pierre Chiartano un’estate col segno meno per il turismo italiano, va male anche per le città d’arte. Scappano gli stranieri, soprattutto americani, anche per il caro-euro. Ma cosa non ha funzionato? L’abbiamo chiesto a Nicola Costantino Ad di Turisma. Nell’intervista con alcuni aspetti tecnici emerge un elemento ancora poco conosciuto nella promozione del turismo: la mediazione culturale. Una parola che Costantino ci aiuterà a comprendere meglio. «È uno strumento che non è alla portata di un singolo imprenditore ed è legato all’idea di destination management (dm). È un insieme d’iniziative. Serve un aggregato di soggetti, non solo alberghieri, che sappia accogliere e dialogare col turista. Ostuni, Martina Franca Alberobello è un classico esempio di aggregato territoriale. In un raggio di quaranta chilometri puoi trovare molti stimoli tanto da costruirne un percorso degno di essere visto e un’esperienza che merita essere vissuta. In questo contesto funziona la mediazione culturale. Nel Salento è stato fatto un tentativo, non tutto ha funzionato, ma si è cominciato. Ciò che serve è la coralità fra pubblico e privato». Dal vigile urbano che conosce un po’ d’inglese alle pianificazioni degli eventi culturali fino alle infrastrutture. Il festival della Valle d’Itria è un trascinatore di turismo d’élite e ha un controcanto popolare nella Notte della Taranta di Melpignano, poco lontano. Eventi noti internazionalmente che devono rientrare nel progetto turistico di un territorio. «Dopo aver organizzato il territorio in “destinazioni” occorre anche il distributore all’estero. Un esempio fra tanti è Elephant&Castle leader in Europa per
È
con Storia controversa dell’inarrestabile fortuna del vino Aglianico nel mondo di Gaetano Cappelli, legando un romanzo ad un prodotto d’eccellenza come il vino. Un risultato raggiunto grazie ad un’attenta politica pubblica. Accanto ai buoni risultati ci sono i fallimenti e la stessa Basilicata ne ha collezionati, non ultimo, il successo del film di Mel Gibson, The Passion of Christ, girato quasi interamente a Matera. Notizia rimasta sconosciuta al mondo. E non è il solo problema. «Permangono tre fattori. Il primo continua ad essere la mancanza di una leadership progettuale da parte di un’authority super partes, che poi si traduce nell’inanità di soggetti come l’Enit o altri che, comunque, non hanno la titolarità per rappresentare il Paese». Un’authority in questo settore come potrebbe essere costruita? Come in Francia o Spagna, dove c’è coordinamento fra i diversi poli d’attrazione e la pianificazione delle infrastrutture. Il piano turistico spagnolo punta sulla promozione e sui nuovi prodotti. Prendiamo la città di Bilbao che non era niente come destinaziona e turistica. Era la ”Sesto San Giovanni” spagnola, una città operaia. Oggi la gente ci va per la suggestione culturale creata dal centro Guggenheim e dalle nuove architetture.Valencia e Siviglia sono due altri esempi di riuscita mediazione culturale. Si sono dotati di un tipo di marketing segmentale che sfrutta gli eventi piuttosto che il flusso stagionale. Stiamo parlando di pianificazione.
Serve coralità - e a tutti i livelli - per realizzare il sistema che oggi manca le dimore storiche. In Italia c’era l’iniziativa di PregioHotel dei Boscolo». Riguardo all’appeal di un territorio siamo su di un livello progettuale complesso. Cuba non sono solo i cayos - spiega Costantino - ma anche le suggestioni che vengono dal film di Wim Wenders, Buena Vista Social Club. Qui introduciamo un altro livello della promozione: il legame con il mondo dello spettacolo che eccita la curiosità dei media e quindi del pubblico. Diventare location di un film di successo veicola rapidamente l’immagine di una località nel mondo. Nulla può però essere lasciato all’improvvisazione. La letteratura è un’altro veicolo formidabile di suggestioni. La Basilicata ha fatto qualche passo nella giusta direzione
Come possiamo coniugare l’iniziativa privata, per sua natura magmatica, con un intervento dall’alto? Non è pianificazione in quel senso. La chiave sta nella cultura del destination management. Bisogna ragionare in termini di marchio. Si scelgono tre o quattro aree, come si è fatto con la Provenza o la Bretagna. Così il giovane americano sa che dopo la laurea, se vuole perfezionare la propria maturità culturale, lì deve andare. Ormai è un dato acquisito, ma come possiamo farlo funzionare nel concreto, nel rapporto tra pubblico e privato? Oggi il partner pubblico non è più, come Sviluppo Italia, il proprietario di attività di serie C, magari prodotto di fallimenti. È un consulente di primo piano, diventa così un regista di dm. Evitando sprechi e giostre inutili... Infatti, che senso ha che la Basilicata spenda due milioni di euro per andare in Cina, a Shangai, per attaccare qualche manifesto, quando il cinese che viaggia non sa se Colonia sia in Germania o in Italia. Vanno evitati sprechi inutili e dannosi. In Francia e in Spagna il pubblico orienta la promozione, secondo un piano integrato nazionale, scegliendo alcune priorità. Con un budget consistente, ma centralizzato». Come in Puglia, dove si sono persi 7 milioni di euro per la promozione all’estero. Lì si era presentato un consorzio regionale, ma molti si sono chiesti cosa c’entrassero i media locali (Gazzetta del Mezzogiorno e Telenorba). Ed è intervenuta la magistratura. Esattamente. In Italia abbiamo una sola regione che fa bene anche quando fa da sola. È il Trentino che ha un suo marchio. Così la regione va a trattare con Ryan air e i tour operator, con Tui con la Thomas Cook. L’altro ruolo del pubblico è quello di attento pianificatore delle infrastrutture. Il successo spagnolo è legato ad almeno quindici aeroporti d’eccellenza. Se vai all’aerostazione di Malaga ti sembra di essere sbarcato in quella di Dubai. Da Barcellona a Madrid serve la metà del tempo che da Roma a Milano. E l’Italia è scesa al quinto posto in Europa per l’offerta turistica. Non c’è un approccio sistematico, che varia a seconda dei fondi e delle “gelosie” locali. Mediazione culturale significa anche allevare una generazione di promotori culturali. I tanti laureati in lettere che non troveranno mai una collocazione, sarebbero adatti allo scopo». Ravello, Matera sono degli esempi e in quest’ultima città si sta coniugando bene cultura, cibo e ospitalità. Immaginate un concerto di musica barocca cubana diretto da Claudio Abbado, ambientato in una chiesa del XIII secolo e poi una cena con i prodotti descritti da Orazio, apprezzati da Pascoli e benedetti da Francis Ford Coppola, originario di quelle parti. Così funziona la mediazione culturale.
i convegni BARI Martedì 16 settembre Palazzo del Mezzogiorno nell’ambito della 72esima Fiera del Levante, tavola rotonda con regione Puglia organizzata da Business International dal tema «Come far crescere e competere la Puglia». Tra i partecipanti il presidente della Regiona Puglia, Nichi Vendola, il ministro degli Affari regionali, Raffaele Fitto, il sindaco di Torino Sergio Chiamparino, il presidente della regione Emilia Romagna, Vasco Errani. ROMA Mercoledì 17 settembre Palazzo Colonna incontro promosso dall’Istituto Bruno Leoni, sul tema «Liberare l’Italia»: come possono riforme coraggiose entrare nell’agenda del governo Berlusconi?». Partecipano, tra gli altri, Emma Marcegaglia, presidente di Confindustri, Maurizio Sacconi, ministro del Lavoro. ROMA Giovedì 18 settembre sala Giunta, viale dell’Astronomia seminario promosso dal Centro studi Confindustria, su «Le sfide della politica economica». Partecipano, tra gli altri, Giulio Tremonti, Emma Marcegaglia, Enrico Letta. VENEZIA Venerdì 19 settembre Palazzo Ca’ Corner prima edizione del forum «L’emergenza educativa» organizzato da Confcommercio. Saranno presenti Mariastella gelmini, ministro della Pubblica Istruzione, Claudio Scajola, ministro dello Sviluppo economico, Raffaele Bonanni, segretario generale della Cisl, Silvio Berlusconi, presidente del Consiglio. BENEVENTO Sabato 20 settembre Museo del Sannio convegno sul tema «Tfr ad un anno di distanza dall’entrata in vigore della legge». Partecipano Cosimo Rummo, presidente di Confindustria Benevento, Pasquale Viespoli, sottosegretario al Welfare.
16 settembre 2008 • pagina 17
Mancano le infrastrutture e una promozione unificata del territtorio
Un’idea del turismo tutta da ripensare di Marco Palombi a notizia del 2008 per il turismo italiano? È finita l’epoca in cui si poteva campare di rendita. Assenza o malapresenza della politica e scarsa capacità imprenditoriale hanno ridotto all’osso le possibilità di profitto di un comparto che rappresenta – dati del 2007 – il 10,8 per cento del Pil nazionale. I numeri sono ancora parziali e la stagione estiva è, in parte, ancora in corso ma le associazioni di categoria già lanciano i loro gridi di dolore. Il presidente di Federalberghi Bernabò Bocca, ad esempio, ha fatto il suo consuntivo: 12,5 milioni di pernottamenti in meno (-6 per cento) che tradotto in soldi fa un miliardo e mezzo di fatturato perso. Colpa degli italiani che se ne vanno all’estero (o stanno a casa) e di americani e giapponesi che non arrivano più per via del supereuro. Sarebbe un dato brutto anche solo se mantenere le posizioni, anziché incrementarle, fosse lo scopo del turismo italiano: al contrario tutti ripetono che la percentuale di Pil prodotta dal settore dovrebbe aumentare del 2 o 3 per cento, a spanne trenta o quaranta miliardi. E allora? Le potenzialità, come ripete ad ogni pié sospinto anche Berlusconi, ci sono: gran parte del patrimonio culturale del pianeta si trova qui, le bellezze naturali non mancano ed esiste pure, il che non guasta, un’antica e consolidata tradizione dell’accoglienza e del buon vivere. Tutto bene se non fosse che il primo è malgestito (si ricordi, a questo
L
proposito, solo il caso Pompei), le seconde non valorizzate quando non deturpate, la terza messa alla prova da un progressivo, cupo incrudelirsi dei rapporti sociali.
Ovviamente il problema è più articolato di così e si presenta sotto la forma di precise mancanze industriali e politiche. In primo luogo si potrebbe citare il pessimo rapporto qualità-prezzi. Come testimoniato da uno studio dell’Istituto Piepoli per Confturismo il costo medio di una stanza d’albergo in Italia è di 141,9 euro, cioè molto al di sopra dei 126,3 della media Ue e un’enormità a confronto dei 114,9 della Spagna, il nostro diretto concorrente. Un dato che addirittura peggiora se si guarda ai costi complessivi, completi cioè di trasporti, ristorazione, comunicazioni e servizi in generale. Il vero buco nero del turismo italiano è però la mancanza di infrastrutture. Gli aeroporti, ad esempio: sono un po’ pochini – po-
co più di cento, molti dei quali peraltro garantiscono poche tratte - e mancano pure dei collegamenti con le mete turistiche. Come sanno tutti i cittadini di questo paese, poi, i treni funzionano solo sull’asse tra le città maggiori e la loro praticabilità e utilità diminuisce man mano che si scende verso Sud. Risultato: in Italia volano circa 103 milioni di passeggeri l’anno, in Spagna 163 milioni (e il maggior gap, per di più, viene accumulato nella categoria low cost). La totale assenza di sistema risalta simbolicamente nelle cose minori, quelle per le quali non servono grandi investimenti. Il “nuovo” turista, ad esempio, è sempre più incline a progettare e prenotare le sue vacanze da solo, spesso da internet: servono siti ben fatti col maggior numero possibile di servizi online. Ci sono? Macché, persino il portale Italia.it è sospeso. Terrificante anche la situazione della promozione: a questo fine (nel 2006) le regioni hanno speso 1,8 miliardi di euro senza risultati apprezzabili, mentre l’Enit - l’ente nazionale che dovrebbe coordinare il tutto - con i suoi 50 milioni circa (dimezzati per i prossimi anni) è ridotto a non contare nulla.
Ce n’è abbastanza per un’intervento del governo e va detto che la sottosegretario Michela Brambilla ha fatto mostra di avere le idee chiare: serve una rivoluzione in logistica, trasporti e ricettività. In attesa delle prime due, nella Conferenza unificata StatoRegioni di dopodomani dovrebbe essere approvata la nuova classificazione alberghiera: le stelle, in sostanza, verranno finalmente attribuite con precisi criteri nazionali. Alle viste anche la riforma dell’Enit, da tre mesi presieduta da Matteo Marzotto: il cda dovrebbe passare da 16 a 9 membri (tre ciascuno per governo, regioni e associazioni di categoria) e si proverà a razionalizzare le sedi estere - ora sono 26, sedici delle quali in 12 paesi europei puntando sui mercati emergenti, Cina in primis. Perché questa soluzione sia efficace però le regioni, che hanno la competenza totale sul turismo, dovranno inserire le loro campagne all’interno di un’unica cornice e non è chiaro se accetteranno di farsi dire da Enit come spendere i loro soldi. Per gli imprenditori del turismo comunque il nodo è un altro: vogliono un taglio dell’Iva sul turismo, che attualmente è al 10 per cento contro il 7 della Spagna e il 5,5 della Francia (complessivamente la tassazione, secondo dati del governo, è del 31 per cento contro il 24 della media Ue). Brambilla si sarebbe impegnata in questo senso e avrebbe l’assenso del Cavaliere, ma è improbabile che la cosa vada in porto quest’anno: non ci sono soldi. Solo che - è oramai un ritornello della storia patria - le riforme a costo zero servono solo a conquistare qualche minuto di telegiornale.
MERCATO GLOBALE
La crisi d’identità della Bei. E della Ue di Gianfranco Polillo entre si medita mestamente sui possibili risultati del 2008, si azzardano le prime previsioni per l’anno successivo. Esercizio utile, solo in parte. Troppe sono le variabili in gioco e le incertezze. Continuerà la flessione nei prezzi del petrolio? La minor crescita degli emergenti frenerà la food inflation? E come andranno le altre materie prime. La Commissione europea ha tentato una prima spericolata previsione. Ed il responso è stato, tutto sommato, positivo. La possibile recessione ma c’è chi nega anche questo - sarà di breve periodo. Si misurerà a mesi, poi dovrebbe seguire se non proprio la primavera, almeno il sereno. Crisi finanziaria permettendo. Perché questa è, almeno l’incognita più difficile da valutare. Le perdite finora accertate e contabilizzate ammontano a 500 milioni di dollari. Ma solo in parte sono state coperte da aumenti di capitali. Secondo le valutazioni di Mario Draghi, nelle sua veste di responsabile del Financial stability forum, occorrerà trovare, almeno per il momento, altri 350 milioni di dollari. In parte per coprire deficit dimostratesi più ampli del previsto; in parte per far fronte agli impegni sottoscritti, ma non onorati. Che effetto avrà questa nuova grandinata sull’economia americana, dopo il diluvio dei mesi precedenti? Finora il contagio tra i due mercati – quello finanziario e quello reale – non si è verificato. Ma quell’argine fino a quando potrà resistere? Se le prospettive dell’economia internazionale sono quindi segnate dall’incertezza, non brilla certo la stella europea. Anche nel vecchio continente i sintomi sono identici: soprattutto bassi investimenti, debolezza delle esportazioni, crollo dei consumi. Sarà forse per questo che vecchie ricette, enunciate qualche anno fa ed allora ac-
M
colte con un generale scetticismo, all’improvviso hanno suscitato un grande interesse. Giulio Tremonti aveva proposto, durante la presidenza italiana del semestre europeo – nel 2003 – un’action plan for growth. Un piano d’azione per favorire la crescita centrato sulla Bei: la banca europea degli investimenti. La banca, oggi gestita in modo a dir poco burocratico, secondo le intenzioni del ministro dell’economia, doveva diventare lo strumento principe per finanziare le grandi opere con un respiro europeo. Di più non aveva detto: consapevole del tasso di conservatorismo che alberga nel cuore di Ecofin e degli altri ministri finanziari del Vecchio continente. Così la proposta fu incamerata ed archiviata. Con la sola eccezione dei francesi, che, all’indomani della vittoria di Sarkozy, l’hanno rielaborata in salsa cisalpina, proponendo un impegno maggiore della Bei a favore delle piccole e medie industrie. Era un segnale che Tremonti aspettava da tempo. Dimostrava che la fase di ibernazione della sua proposta stava finendo e che era possibile riprendere l’antico discorso. Lo ha fatto sparando alla luna. Proponendo cioè che la Bei assumesse anche le caratteristiche di un fondo di investimento, in grado di intervenire sul capitale delle singole aziende. Proposta rimessa al mittente, ma in cambio di una sostanziale accettazione della subordinata: vale a dire il finanziamento europeo delle grandi opere infrastrutturali. Per il momento è stato istituito un gruppo di lavoro, al fine di verificare la fattibilità dell’operazione. Ma sarà difficile reinsabbiare il tutto. Se il più liberista Stato del mondo – vale a dire gli Stati Uniti d’America – di fronte ai morsi della crisi sono costretti a divenire statalisti, come dimostra la vicenda di Fannie Mae e Freddy Mac, perchè l’Europa non dovrebbe riscoprire il keynesismo?
pagina 18 • 16 settembre 2008
cinema
A breve in Italia l’attesissimo film ”Control” di Anton Corbijn, che ripercorre i travagli interiori del cantante suicida Ian Curtis
La tragica fine di una vita in bianco e nero di Alfredo Marziano a sera di sabato 17 maggio 1980 Ian Curtis, ventitreenne cantante dei Joy Division, si sistemò sul divano a guardare in tv La ballata di Stroszek, film di Werner Herzog dal finale tragico e surreale. Tracannò una caraffa di caffè, finì il whisky rimasto in dispensa e mise sul piatto del giradischi The Idiot di Iggy Pop. Qualche ora dopo, quando era già domenica mattina, si impiccò. La moglie Deborah, che aveva avviato le pratiche di divorzio dopo avere scoperto la sua relazione con la giornalista belga Annik Honoré, lo trovò senza vita in cucina, inginocchiato con le mani appoggiate sulla lavatrice, il capo reclinato e un cappio avvolto intorno al collo.
L
Avrebbe dovuto imbarcarsi di lì a poco su un volo aereo per gli Stati Uniti, dove la sua band era attesa per una tournée nella terra promessa del rock’n’roll. Ma non era quello il suo piano, o il suo destino. «Credo che Ian avesse stabilito quando morire», scrive Debbie nell’autobiografia Così vicino così lontano (Giunti, 1996) ricordando la sua irresistibile attrazione adolescen-
ziale per Jim Morrison, Janis Joplin e James Dean, i belli e dannati dello star system. E’ la storia triste di un uomo troppo fragile e inquieto per venire a patti col suo ruolo di marito, di giovane padre e di rock star emergente: e il biopic Control, pluripremiato l’anno scorso a Cannes e finalmente prossimo (fine settembre, pare) all’uscita nelle sale italiane, la racconta in modo esemplare, asciutto e lineare.
Lo stile tipico di Anton Corbijn, olandese di 53 anni, fotografo famoso, autore di celebri copertine di dischi (The Joshua Tree) e di videoclip per conto di superstar come U2, Depeche Mode, Nick Cave e Coldplay. Nessuno meglio di lui poteva mettere in scena la gioventù bruciata di Curtis, poeta maudit e ribelle martoriato dall’epilessia: il grande male che gli gravava sulla testa come una nuvola nera e che lui, in un estremo gesto di rappresentazione spettacolare di un dramma personale, trasformò sul palco in quella nevrotica danza a scatti che mandava in orbita i giovani inglesi elettrizzati dal post punk. Fu proprio per in-
La sera di sabato 17 maggio 1980 l’artista dei Joy Division tracanna una caraffa di caffè, finisce del whisky, mette su un disco di Iggy Pop. Qualche ora dopo, allaccia un cappio al collo e si impicca contrare i Joy Division, il suo gruppo preferito, che l’introverso Corbijn lasciò i Paesi Bassi e si trasferì a Londra, ingaggiato come fotoreporter dal settimanale musicale Nme.Tempo dodici giorni, e il giornale gli organizzò un primo incontro con i suoi eroi: è sua la foto più celebre della band, un fuliginoso bianco e nero che ritrae i quattro sotto il tunnel della metropolitana, di spalle e con il solo Ian a voltarsi (profeticamente?) verso l’obiettivo. «Mi piacquero subito, intuitivamente, perché all’epoca non parlavo bene l’inglese e non afferravo il senso dei loro testi. Però amavo la disperazione della loro musica, perché anch’io all’epoca ero un depresso. Hanno questo di strano, la depressione e la disperazione: il fatto di generare conforto, di creare una complicità». Chiamato in causa a progetto cinematografico già avviato, Corbijn ha subito messo mano alla sceneggia-
In alto, una vecchia immagine di repertorio dei Joy Division; sotto, il regista anton corbijn, autore del film ”Control” (in basso a sinistra la copertina della pellicola) interamente incentrato sul leader del gruppo rock, il cantante Ian Curtis tura di Matt Greenalgh rimaneggiandola ampiamente. «Ho dovuto tagliarla, era troppo lunga e poco lineare. Dovevo renderla più mia, prima di mettermi dietro la macchina da presa. Ho lavorato sodo sulla costruzione dei dialoghi e nella direzione degli attori, due sfide che per me rappresentavano una novità assoluta. L’immagine del film era l’ultima delle mie preoccupazioni».
Eppure la sua firma è inconfondibile, per chi ne conosce i lavori precedenti e la predilezione per il bianco e nero («all’inizio è stata una semplice questione di comodo, per potermi stampare le foto da solo. Poi mi sono accorto che rendeva meglio la mia visione del mondo»): la scelta cromatica più adatta a raccontare la musica cupa e spigolosa dei Joy Division, la livida Manchester di quei tempi (oggi ricreata a Nottingham), i cieli grigi e le case popolari di un anonimo borgo di provincia in tempi di recessione economica, i club sudici e la folla sovraeccitata dei concerti, l’ascesa e la caduta agli inferi.Tutto il contrario del coloratissimo 24 Hour Party People di Michael Winterbottom, che descrive la Manchester di fine anni Settanta come una giostra ubriacante di sesso, droga e rock’n’roll, un tourbillon di egocentrismo, follia, testosterone e pessimo senso degli affari. «Divertentissimo», dice Corbijn, «a patto di prenderlo per quello che è: una caricatura. Non mi piace solo il modo in cui descrive Ian e il suo suicidio, distorcendo la verità». Quella verità a cui il regista olandese cerca invece di rimanere fedele dipingendo un quadro quasi neorealista, complice la spettacolare adesione al personaggio dell’attore esordiente Sam Riley: un ex magazziniere che canta in un gruppo rock e che alle scene musicali del film regala un’autenticità da brivi-
do. Il resto lo fa una storia intensa, concitata e crudele di cui Ian non è l’unica vittima e per ricostruire la quale Corbijn attinge molto al libro della vedova Curtis (interpretata sullo schermo dall’eccellente Samantha Morton).
«Ma non sono convinto che Debbie abbia ragione, quando dice che Ian ha ottenuto quello che voleva. Io preferisco pensare che siano state le circostanze, e la malattia, a portarlo verso quella terribile scelta e a tirare fuori gli aspetti più negativi della sua personalità». Il film però questo non lo dice: limitandosi a tracciare senza sentimentalismi una parabola umana tragica e toccante, ai tempi in cui un cantante rock non poteva mentire al suo pubblico (piuttosto a se stesso, semmai) e i contratti discografici si firmavano col sangue.
letture
16 settembre 2008 • pagina 19
ggi è «il partito più vecchio d’Italia». Una constatazione che stupisce (e, magari, spaventa) gli elettori dai cinquanta in su, quelli che sono cresciuti considerando la Democrazia cristiana e il Partito comunista come i protagonisti eterni della scena politica nazionale, e gli altri partiti di un tempo che fu (i socialisti, i liberali, i repubblicani, i socialdemocratici, i missini) come i comprimari più o meno necessari in uno scenario pressoché immutabile. Oggi – invece – è la Lega nord il «partito più vecchio d’Italia».
O
Gli altri sono stati spazzati via, dal crollo del Muro di Berlino e da Tangentopoli. Si sono scomposti e ricomposti, come in un gioco da tavolo, cambiando sigle, schieramenti, alleati. Qualche elettore in avanti con gli anni fatica ancora a riconoscerli e a riconoscersi nei loro programmi e nei loro uomini di prima fila: ha bisogno di fare il cambio nella propria testa, come accade per l’euro da convertire nella vecchia lira. Se la Lega è il partito più vecchio, era ora che qualcuno ce ne raccontasse la storia. Hanno provveduto (in modo eccellente) due giornalisti esperti della materia, Adalberto Signore e Alessandro Trocino, con un libro – Razza padana (Bur editore, 398 pagine, 11,50 euro) – che ha un sottotitolo che ne racconta le caratteristiche essenziali: «Attecchisce nelle città e nelle fabbriche. Ruba voti alla sinistra. Urla Roma ladrona ma ambisce alle sue poltrone. La storia, il fascino e le contraddizioni della Lega nord, oggi il partito più vecchio d’Italia». Appunto. Le pagine più interessanti, e divertenti, sono quelle che precedono e accompagnano la nascita della Lega, che si intrecciano (fino a confondersi) con la biografia di Umberto Bossi, come è naturale che sia nella concezione di partito-famiglia che il senatur sbandierava all’inizio degli anni Novanta: «Io sono come un barbaro, e porto la famiglia in battaglia con me. La mia donna e i miei figli devono sentire l’odore della polvere e il fragore metallico delle spade. La mia crociata è la loro crociata». Il modello sono le orde che traversavano l’Europa nell’alto Medioevo: e forse questo spiega anche la passione per i riti pagani, alle sorgenti del Po. Per molti anni i dirigenti del Car-
”Razza padana”: storia, fascino e contraddizioni della Lega nord
Identikit del partito più vecchio d’Italia di Massimo Tosti
Le pagine più interessanti e divertenti sono quelle che precedono la nascita del Carroccio e che si intrecciano con le biografie di Bossi e Borghezio roccio si sono portati addosso (forse anche per quelle tentazioni “barbariche”) una fama di rozzezza e di ignoranza. Borghezio – per esempio – è stato spesso giudicato come una specie di selvaggio. Leggendo Razza pa-
dana, viceversa, lo si scopre bibliofilo, colto, profondo conoscitore dell’astrattismo e del surrealismo, studioso delle opere di René Guénon.
La stessa fama negativa se l’è portata appresso a lungo RoIn senso orario: una delle manifestazioni della Lega nord; il leader del Carroccio Umberto Bossi; la copertina di libro ”Razza padana” (di Adalberto Signore e Alessandro Trocino); e l’eurodeputato Mario Borghezio
berto Calderoli: fino a quando – caricato di pesanti responsabilità governative – alleati e avversari ne hanno riconosciuto le sottili qualità politiche. Gianfranco Miglio – che fu a lungo l’ideologo del nuovo (allora) partito – nutriva qualche dubbio sulla cultura di Bossi, ma non riteneva che questo fosse un limite: «Il politico troppo colto», disse una volta, «non riesce più a fare niente. Deve avere una sua rozzezza naturale per agire. Senza inciampi culturali». Deve avere temperamento, intuito, flessibilità mentale per cogliere tutte le opportunità che gli si offrono: qualità che non mancano certo a Umberto Bossi. Il racconto degli esordi ha
venature romantiche che ricordano il Piccolo mondo antico di Fogazzaro: l’attaccamento sincero alla sua terra e ai dialetti della Lombardia, che lo spinse in anni ormai lontani a dar vita a un circolo filologico e ad avviare la compilazione di uno specifico dizionario: un progetto abbandonato poi a causa degli impegni politici. Si sfogava, allora, nel comporre versi, rigorosamente in vernacolo, sulle orme di Carlo Porta. «Duman vo ca’» (domani vado a casa) è una poesia molto proletaria, che interpretava i sentimenti della classe operaia (quella che allora “andava in paradiso”). Tre versi ne riassumono il senso: «Duman vo a ca’ e apena podi / vo in stabilimen a licenziam» («e appena posso vado in stabilimento a licenziarmi». L’ultimo dei tre non ha bisogno di traduzione: «Vagan da via ul cu i padron». Manuele, la moglie (la seconda moglie) di Umberto racconta che fu catturata proprio dalle poesie: «Mi piacque il suo amore per gli aspetti semplici della vita: la casa, i figli, un bel bosco, un bel prato. È rimasto sempre lo stesso». L’immagine pubblica è apparsa spesso molto diversa, ponendo in prima fila gli aspetti barbarici del suo carattere. Ma quella è anche una storia di astuzie politiche, di conquista delle prime pagine, di capacità di interpretare la pancia degli elettori. È quel che ripetono da molti anni gli osservatori più attenti: quando Bossi minaccia la secessione mira soltanto ad aggiudicarsi il piatto, da bravo giocatore di poker.
La Lega è cresciuta: è (come si diceva negli anni Settanta del Pci) «un partito di lotta e di governo», che «recita la parte in commedia dei sindaci sceriffi, del separatismo, delle gradassate violente. E che però, con il suo pragmatismo sul territorio, crea le condizioni per una convivenza pacifica». Le ultime elezioni hanno dimostrato appunto questo: il radicamento nel territorio è una garanzia di durata. Il «partito più vecchio d’Italia» aspira a durare quanto la Dc e gli altri, che ai tempi della prima repubblica sembravano immortali.
pagina 20 • 16 settembre 2008
architettura
Grandi opere. Da Lisbona a Zurigo, da New York a Taiwan, da Roma a Malmo: vediamo chi è Santiago Calatrava
La post Venezia Il piccolo Gaudì tecnologico ha portato un po’ di Barcellona in Laguna di Claudia Conforti hi è Santiago Calatrava? A chi si deve il nuovo ponte veneziano destinato, in qualche modo, a modificare l’impatto visivo con Venezia? Per scoprirlo, bisogna partire da Barcellona. Il viadotto costruito per le Olimpiadi, tra il 1984 e il 1987, sulla confluenza di calle Felipe con calle Bac de la Roda, per superare i fasci di binari che interrompono la continuità urbana, fissa la reputazione internazionale di Santiago Calatrava come costruttore di ponti. Risultato di un concorso bandito dalla municipalità della capitale catalana, il viadotto sorprende i visitatori con una struttura aerea e dinamica, costituita da coppie contrapposte di archi, l’uno verticale e l’altro obliquo, orditi da cavi di acciaio a raggiera che, delimitando due piazze aeree semicircolari, si dispiegano come ali tese nello spazio. La struttura, che permette al centro il passaggio delle auto e sulle due passerelle esterne quello dei pedoni, assume immediatamente la pregnanza di un segnale urbano e diventa icona di un evento planetario come le Olimpiadi, oltre che prova che la bellezza può accompagnarsi anche alle infrastrutture viarie, rinnovando il miracolo della bella ingegneria che già fu di Riccardo Morandi e di Pierluigi Nervi. Infatti
C
la natura funzionale del ponte, mero sovrappasso di congiunzione tra due luoghi, viene qui trascesa dall’irruenza estetica di un manufatto che sa fondere in armonia i caratteri dell’architettura, dell’ingegneria e della scultura.
In effetti sono proprio questi gli ambiti che hanno sovrinteso alla formazione culturale e alla preparazione professionale del progettista spagnolo. Nato nel 1951 a Benimanet presso Valencia, Calatrava viene avviato poco più che bambino allo studio del disegno e della pittura presso la Scuola di Arti e Mestieri di Valencia, città in cui segue più tardi i corsi di Architettura fino alla laurea nel 1973. Pochi anni dopo, alla fine degli anni Settanta, conquista anche la laurea in Ingegneria al Politecnico di Zurigo, dove si stabilisce e dove nel 1981 apre il primo studio. Proprio nel capoluogo svizze-
vie svizzere, che deve servire il passante ferroviario urbano, favorendo le interconnessioni tra linee nazionali e locali e smaltendo al contempo anche l’intenso traffico di viaggiatori della stazione centrale zurighese. Il lotto è in curva, addossato a una collina che guarda verso il lago, ed è contrassegnato da un forte dislivello, alla sommità del quale si trova un giardino con un cimitero. Questi limiti sono trasformati da Calatrava in opportunità progettuali che ispirano un antro polimorfico, scavato e ipogeo: una smisurata grotta, brulicante di vita, che sostiene il giardino affacciato sulla città. Lo spazio interiore è plasmato da possenti pilastri in cemento che sembrano piegarsi sotto il peso del terreno sovrastante: le linee di forza del carico disegnano la plastica turgida dei sostegni in cemento che, appena lambite dalla luce esterna, evocano membra di primordiali creature ctonie. L’arida funzionalità della stazione ferroviaria qui, nel cuore razionale della Zurigo dei tecnocrati e dei banchieri, è stravolta e resa irriconoscibile da un afflato
definitiva in entrambi i casi si tratta di una declinazione, variata e dinamica, del tema strutturale della copertura. Negli anni giovanili di Cala-
Dall’acciaio alle suggestioni fantastiche alla maniera della Sagrada Familia: così la ricerca sui materiali si riallaccia alla grande tradizione caratterizzata dall’equilibrio fra gli spazi ro il progettista ha la possibilità di vincere nel 1983 un concorso per la costruzione della nuova stazione ferroviaria Stadelhofen, nel cuore della città. Si tratta di un edificio prettamente funzionale - proprio come il ponte di Barcellona -: una stazione di transito per le ferro-
fantastico che si nutre dell’immaginario naturalistico di Antoni Gaudì, in particolare al colonnato ipogeo del parco Guëll a Barcellona, e lo ibrida con le più aggiornate tecniche costruttive. Nella stazione di Zurigo il concetto guida non è sostanzialmente diverso da quello del viadotto: in entrambi i casi si tratta di modellare plasticamente una struttura aerea che, saldamente ancorata a terra, intercetti ambiti spaziali, sopra e sotto, a quote diverse. In
trava, sulle riviste e nelle periferie dell’Occidente, trionfava un’architettura altezzosa e sgargiante, detta “postmoderna”, revival svaporato di parole morte: non stupisce pertanto che le potenti plasticità del giovane spagnolo, con il loro sanguigno vigore primordiale, gli siano valse un’immediata celebrità internazionale, preludio di progetti disseminati in tutto il mondo.
Da Toronto, dove si impone con il monumentale Centro
commerciale Bce Place (19911993), impalcato da una vertiginosa sequenza di archi parabolici che ribadiscono il debito verso il Gaudì della Sagrada Familia; a Lisbona, dove nella stazione Oriente, terminata nel 1998, replica l’ossatura parabolica della galleria commerciale canadese; a Lione dove realizza la stazione dell’aereoporto Satolas; a Milwaukee l’avveniristico museo; a Londra il ponte East London River Crossing; ad Atene gli impianti olimpici del 2004; a Reggio Emilia i viadotti che intersecano l’alta velocità; a Malmö una torre tortile; a New York progetta il centro trasporti del nuovo World Trade Center e un grattacielo residenziale che aggrega in verticale blocchi di case a schiera; a Roma, nel campus di Tor Vergata, gli impianti per i mondiali del nuoto del 2009 e il Rettorato, della cui formula-
architettura
16 settembre 2008 • pagina 21
La città in festa per l’inaugurazione del ponte Costituzione
Una costola di dinosauro cavalca il Canal Grande di Marzia Mirandola l palpabile entusiasmo che a Venezia ha accolto, la notte dell’11 settembre, l’apertura del nuovo ponte Costituzione ha spazzato via le lunghe polemiche che ne hanno accompagnato la lunga gestazione. Prima era stato contestato l’incarico senza concorso all’architetto Santiago Calatrava; poi l’eccessivo peso della struttura e, in ultimo, l’inaccessibilità ai disabili. Come annunciato dal sindaco Massimo Cacciari, né cerimonie né proclami hanno inaugurato il ponte: il rapido passaparola, favorito dalla fitta presenza di architetti convenuti a Venezia per la Biennale di Architettura, ha trasformare l’apertura notturna del ponte in una spontanea e gioiosa festa a cui hanno presenziato, tra la folla, l’architetto portoghese Souto de Moura, i francesi Odil Decq e Jean Nouvel, l’anglo-irachena Zaha Hadid e l’americano Frank Gehry. Assente l’autore Santiago Calatrava, a New York per il Centro trasporti del World Trade Center. Il ponte, fortemente voluto da Cacciari, risolve il nevralgico nodo di interscambio di piazzale Roma con la stazione ferroviaria, ed è il quarto a scavalcare il Canal Grande, affiancandosi a Rialto, all’Accademia e agli Scalzi.
I
zione architettonica è meglio tacere. E l’elenco è tutt’altro che completo. È indiscutibile che la prima produzione di Calatrava sappia coniugare la chiarezza tecnica con un originale vigore plastico, che spinge al limite le possibilità statiche del rapporto forma/materia, configurando architetture immaginifiche, che trascendono la giustificazione tecnologica, mentre intessono un originale dialogo con i luoghi.Tuttavia nella fase della maturità lo slancio sperimentale e l’audacia innovativa di Calatrava sembrano sensibilmente appannarsi: l’architetto tende a ripetere soluzioni di successo, dilatandone gli effetti dinamici e l’ipertrofia scultorea, alla ricerca di una meraviglia meccanica e cinetica, che fa delle sue architetture colossali macchine celibi, spaesate e noiose come i giocattoli di Taiwan.
In alto, il nuovo ponte Costituzione, a Venezia. Qui sopra e a destra, altre due opere dell’architetto spagnolo: la Stazione di Zurigo e il viadotto di Barcellona. Nell’altra pagina, un ritratto di Santiago Calatrava
da due archi laterali in tubolari uniti da fitte costolature che ordiscono un impianto robustamente tridimensionale.
Conci di pietra d’Istria, sagomati sinuosamente, rivestono gli attacchi a terra; la stessa pietra è adottata per le alzate dei gradini, le cui pedate sono in vetro stratificato; i parapetti ugualmente in vetro sono rilegati da un corrimano tubolare bronzeo, che alloga anche punti luce. Anomalo nel repertorio formale di Calatrava per la sua sintetica essenzialità, il ponte esibisce nell’intradosso il suo “fronte” principale: una gigantesca ossatura vertebrale preistorica si mostra non solo a chi percorre in vaporetto il canale, ma anche a chi sta sulle cosce. Il ponte non è cresciuto progressivamente in cantiere, ma la sua costruzione è un assemblaggio di grandi pezzi realizzati fuori opera - come l’intera struttura portante in acciaio e poi trasportati su zattere, sfruttando la bassa marea per passare sotto i ponti, e adottando misure eccezionali, come la chiusura notturna del canal Grande e l’imballaggio dell’intradosso di Rialto e degli altri ponti intercettati nel percorso, per evitare danni da urti imprevisti. Il trasporto in canale dei colossali componenti nell’agosto del 2007 è stato un vero evento, seguito da folle come una sacra processione.
Pietra e acciaio caratterizzano l’opera destinata a risolvere lo snodo pedonale fra Piazzale Roma e la Stazione ferroviaria
Benché l’incarico risalga al 1996, solo nel 2001 i lavori sono stati appaltati all’impresa Cignoni, mentre la progettazione definitiva porta la data del 2003. Il disegno ha una grande semplicità formale: un arco teso di 94 metri, che in chiave supera di poco l’altezza di 9 metri, poggia sulle rive con cosce sensibilmente rialzate e modellate. L’osteologica struttura in acciaio vermiglio è innervata da un arco centrale a curvatura variabile, affiancato
Il ponte, costato circa 7 milioni di euro, lascia irrisolto l’attraversamento dei disabili, per i quali è prevista un’ovovia aggiuntiva: e forse questa non è l’ultima ragione di una così irrituale, ancorché riuscita, inaugurazione.
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog IMMAGINI DAL MONDO
LA DOMANDA DEL GIORNO
Moschee: stop della Lega Che cosa ne pensate? HA RAGIONE ZAIA: BASTANO E AVANZANO Non c’e’ nessun bisogno di nuove moschee perchè quelle che ci sono non vengono granchè frequentate. Condivido quello che dice il ministro dell’agricoltura Luca Zaia, dopo che a Treviso c’erano state richieste di nuove sedi da parte della comunità musulmana. Il fatto è che proprio come da noi, il sistema mediatico arabo enfatizza le pressioni di alcuni fino a farle sembrare autentiche piaghe di un’Italia inospitale e poco attrezzata nel concedere spazi a culti diversi. E invece non solo qui si trovano spazi di preghiera offerti con enorme prodigalità, ma anzi interi quartieri delle città italiane, come Porta Palazzo a Torino, sono diventate ai cittadini italiani praticamente inaccessibili. In ogni caso poi le rivendicazioni e le campagne televisive delle televiosioni arabe, non devono far dimenticare a nessuno che predicare tanta larga manica e liberalismo in termini religiosi, ha i tratti della totale impudicizia, visto che nei Paesi musulmani vigono pene severissime per chi professa religioni alternative. Non siamo terra di conquista, e quello che agli arabi offriamo qui da noi è più che sufficiente.
Gianni Francesconi Latina
LA DOMANDA DI DOMANI
A Lourdes il monito di Benedetto XVI contro le unioni civili. Favorevoli o contrari?
PIÙ CHE COSTRUIRE NUOVE MOSCHEE, BISOGNA ELIMINARE QUELLE ABUSIVE Lo stop alle moschee è più che giustificato, ma oltre a questo necessario giro di vite, quello che serve davvero è esaminare il territorio per cercare di porre fine all’occupazione di locali abusivi, nei quali spesso, complici sedi fatiscenti e nascoste, si insediano gruppi di preghiera fittizi, dediti in realtà ad attività cospirative a finalità terroristiche. Occorre estirpare qualunque iniziativa pseudo religiosa che maschera in realtà attività clandestine di sabotaggio alle nostre istituzioni. Anche se l’undici settembre è passato da un pezzo, le frange eversive pronte a colpire sono in crescita e mirano a una penetrazione capillare nel territorio. Restino aperte solo le moschee alla luce del sole, situate in locali consoni e pubblici, aperti a tutti. E non si dimentichi che i musulmani non possono qui da noi accampare solo diritti, se spesso sono così recalcitranti ai doveri, alle tradizioni e alla nostra storia civile e religiosa, che più volte hanno disprezzato o osteggiato.
Mauro Trentacoste Potenza
INNANZITUTTO FARE DUE CONTI, POI DECIDERE Prima di prendere decisioni per saziare il ventre molle del popolo, occorrerebbe fare un semplice ragionamento e due conti. Sarebbe necessario verificare, su basi certe, quanti sono i frequentatori di moschee regolari, in possesso di documenti validi, e stabilire caso per caso, se in una specifica comunità c’è davvero l’esigenza di concedere una sede religiosa ai fedeli, oppure no. Non deve trattarsi di una pura e semplice reazione emotiva, pronta a soddisfare le piazze a colpi di slogan, ma solo di una questione contabile. Solo così ci si può tenere al riparo dalle facili ideologie, e dalla scialba riproposizione di caricature fumettistiche, che sempre più spesso si sovrappongono all’idea di fare politica in modo serio e onesto. Se davvero si vuole evitare l’invasione, si facciano leggi più severe.
Rispondete con una email a lettere@liberal.it
LA MOLTIPLICAZIONE DEI PANNI E DEI MAESTRI Siete d’accordo oppure no se, per ragioni sociali, manteniamo come forestali 20.000 persone invece che 500? La risposta, che è tutt’altro che ovvia, alla fine probabilmente è : si, se ce lo possiamo permettere. Poi, siccome “nessun pasto è gratis”, si ricomincia la discussione e così all’infinito. Parimenti sul ritorno del maestro unico nelle scuole primarie. Quando cambiò, insegnavo alle superiori. Ero di ruolo avendo superato l’esame: una rarità, visto che migliaia di insegnanti sono assunti con i famosi colpi di spugna per il solito problema del mescolare l’alibi della disorganizzazione ed efficienza amministrativa statale con il merito. Allo stesso tempo mi dedicavo alla politica. Ero repubblicano e uno dei momenti più belli fu il mio incontro con Arisio, quando organizzai un congresso a Pordenone per lui. Molti non sanno neppure chi è, ma fu una figura fondamentale. Ebbe il coraggio di organizzare la marcia dei 40.000 a Torino con la
Carla Morello Ancona
LA RUOTA DELLA FORTUNA Samantha Sherman fa una giravolta nella sua proprietà alluvionata nei pressi di Detroit, cittadina del Michigan
GLI IMPEGNI E LE DOMANDE DEL DOPO ALITALIA Comunque si concludano le trattative incagliatesi tra le pantagrueliche richieste sindacali di invarianza salariale e le lillipuziane prospettive industriali disegnate dalla CAI, tre questioni devono essere chiarite dai ministeri di Economia e del Welfare. C’è un nesso tra la privatizzazione del Cai (Club Alpino Italiano) e l’istituzione della nuova CAI (Compagnia di Bandiera Italiana) con rispettivo passaggio di finanziamenti pubblici da una all’altra destinazione? Che fine faranno il brand, i loghi, l’alfabeto e le eccellenze Alitalia nella comunicazione aziendale? Li si regalerà alla CAI (migliore delle ipotesi) o li si svenderà all’Ass.Italo-americana, dopo averli pagati un giusto enorme prezzo ancora non ammortiz-
dai circoli liberal
quale i quadri intermedi, la piccola borghesia della fabbrica, disse basta alle minacce dei terroristi nelle fabbriche (ne azzoppavano uno al giorno). Da allora il sindacato nel settore privato e la sua colleganza con i partiti marxisti entrò in crisi irreversibile. Molte cose cambiarono per fortuna. Tra l’altro fu un movimento che mosse altri strati sociali e creò effettivamente le premesse di una svolta radicale della nostra società in quel momento destinata alla rottamazione. Ebbene, ciò non accadde nel pubblico: non ci fu nessun “Arisio”. Il motivo: il sindacato riuscì a spremere all’inverosimile lo Stato in termini stipendi senza puntare all’efficienza, alla produttività e al miglioramento del servizio che, tra l’altro, è destinato si cittadini. Al punto che negli ultimi dieci anni gli stipendi degli statali sono cresciuti del 30% in più di quello privato, mantenendo il privilegio ingiustificato costituzionalmente della totale assenza di rischio di perdita del posto del lavoro. Nella scuola ad esempio, dopo il baby boom degli anni Sessanta, si presenta-
zato? Al momento della chiusura della ”pratica celeste”quali saranno i tempi e i termini di attuazione del quoziente fiscale e del bonus bebè? Tali due impegni programmatici non devono essere contrattati nè con sindacati nè con alcun’altra corporazione perchè sono coessenziali alla ripresa di crescita, innovazione e natalità cioè sono prioritari beni comuni della patria e del popolo italiani.
Matteo Maria Martinoli Milano
LA ROVINA È IL PD Non è vero, come dice Veltroni, che la destra sta rovinando il Paese. L’unica vera rovina italiana è che il Pdl fa cose discutibili, ma ne fa molte. E il Pd invece sa solo chiaccherare
Bruno Mussola Rovigo
va il problema di un’eccedenza di maestri e maestre. Il problema si risolse inventando i moduli che in pratica voleva dire eliminare l’insegnante unico. Aumento della spesa a parità del servizio. Tutto qua. Si gioca sulle parole per favorire interessi. Come per il grembiulino, visto come fatto di snobbismo dalla sinistra in passato. E pensare che la tradizione della divisa scolastica era sorta durante il regno della regina Vittoria per nascondere le differenze sociali nei College inglesi tra gli studenti (nobili e borghesi). E certamente nella Cina di Mao del grembiulino si faceva grande uso anche da adulti! Dovrebbe essere obbligatorio fino alle medie. Fino all’adolescenza il concetto di uguaglianza e di merito dovrebbe essere inculcato nei giovani soprattutto ora che l’immigrazione ha riportato visibilità di differenza sociale nelle scuole. Invece si scese di moltiplicare i “panni” (firmati da Versace) e i “maestri”: Leri Pegolo CIRCOLO LIBERAL PORDENONE
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog Quei cattivi pensieri dell’uomo Mio caro Toussenel, voglio assolutamente ringraziarvi per il regalo che mi avete fatto. Non conoscevo il valore del vostro libro, ve lo confesso ingenuamente e grossolanamente. L’altro ieri ho avuto un dispiacere, un colpo abbastanza grave, al punto che ho interrotto un lavoro importante. Non sapendo come distrarmi, ho preso in mano il vostro libro. Ha inchiodato la mia attenzione, mi ha ridato equilibrio e tranquillità. Il vostro libro risveglia in me molte idee sopite e, a proposito di peccato originale e di forma modellata sull’idea, ho pensato molto spesso che le bestie malefiche e disgustose non erano, forse, nient’altro che il farsi corpo, lo schiudersi alla vita materiale dei cattivi pensieri dell’uomo. Perché così la natura intera partecipa del peccato originale. Non vogliatemene per la mia audacia e credetemi vostro devoto. Charles Baudelaire ad Alphonse Toussenel
IN ATTESA DI ALITALIA Sdrammatizziamo un po’ la faccenda Alitalia: in un modo o nell’altro noi, piccoli niente in un mare di potenti, possiamo solo restare ad aspettare. Ed allora, nell’attesa, diamo un consiglio: prima che si pronunci la parola “caso risolto”, preoccuparsi dei morti e dei feriti. Non credo che a sinistra tutti possano sopravvivere ad un’altra Berlusconata. Vuole che non ci sia qualche ictus, qualche collasso, qualche sbalzo di pressione? Teniamoli d’occhio ed un medico a portata di mano: dopo la monnezza, la sicurezza, il federalismo e la prostituzione, se anche Alitalia decolla di nuovo... Berlusconi, stai esagerando, cominci a stufare anche me che ti ho votato! Chi ti credi di essere, Babbo Natale? A proposito, a Natale ridai a tutte le case il Presepe? L’albero di Natale porta sfiga, guarda il Milan...
Paolino Di Licheppo Roseto degli Abruzzi (Te)
IL CAPITALISMO SECONDO FRANCESCHINI Dario Franceschini, numero due del Pd, non fa sconti d’esuberanza, riempiendolo e strabordando da tutte le parti. Alla nuova sede delle Frattocchie, è stata sua la frase ”Il
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
ACCADDE OGGI
16 settembre 1904 - In Italia inizia il primo sciopero generale che durerà sino al 21 settembre, innescato dalla strage dei minatori sardi il 4 settembre ad opera dei carabinieri 1940 - Il governo degli Stati Uniti avvia il Selective Service Act, che istituisce la leva 1941 - Lo scià di Persia è costretto ad abdicare in favore del figlio Mohammad Reza Pahlavi sotto la pressione di Gran Bretagna e URSS 1959 - A Barletta, un crollo causato da sopraelevazioni abusive provoca 60 morti 1963 - La Malesia viene formata da Malaya, Singapore, Borneo Settentrionale Britannico e Sarawak 1975 - La Papua Nuova Guinea ottiene l’indipendenza dall’Australia 1991 - Negli Stati Uniti inizia il processo a Manuel Noriega 1992 - Mercoledì nero - la sterlina britannica esce dal Sistema Monetario Europeo e viene svalutata rispetto al marco tedesco
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Giancristiano Desiderio,
sistema capitalistico non è eterno. È necessario ipotizzare un nuovo modello di sviluppo, lontano dalle degenerazioni individualiste, dalle brame egoiste e dal gretto e volgare spirito piccolo borghese”. Il vago tono di serietà e di dignitoso distacco con il quale l’ha pronunciata tanto deve essere piaciuto ai suoi compagni e sodali, ma non a noi.
Pierpaolo Vezzani Correggio (Re)
SOFRI L’IMPUNITO Ho letto con attenzione, sul Giornale, l’attenta disamina delle ennesime farneticanti dichiarazioni di Sofri. Diversamente da Michele Brambilla, concordo con l’appena settantina di giudici che hanno ritenuto Sofri mandante dell’assassinio del commissario Calabresi. La vicenda di Adriano Sofri pervade e condiziona pesantemente, dagli anni Settanta, la vita del nostro Paese e il mondo dei media, governato trasversalmente dai suoi sodali di allora. Lobby Continua è oggi così potente da aver trasformato il mandante (mai pentitosi) di un così efferato assassinio, in uno dei più autorevoli editorialisti nazionali. L’aspetto inquietante del caso Sofri e’ costituito dalla enorme quantita’di tempo trascorsa dai fatti, ma la circostanza, lungi dall’esser un’attenuante, e’ un’aggravante.
Enrico Pagano Milano
PUNTURE “Per Berlusconi”, dice Veltroni, “la scuola è la tv”. Per Veltroni invece è il cinema.
Giancristiano Desiderio
“
Si parla di perseveranza, quando si tratta di una buona causa, e di testardaggine quando è cattiva LAURENCE STERNE
”
Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Rossella Fabiani, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
il meglio di FINI E L’ANTIFASCISMO: UN FALSO STORICO «Se i valori dell’anti-fascismo sono libertà, uguglianza e giustizia sociale allora tutti dobbiamo riconoscerci nell’anti-fascismo». Con questi semplici e futili parole Fini ha gelato la composta e matura platea di Atreju 2008, annuale appuntamento per i ragazzi di Azione Giovani. Nessuno si aspettava un intervento simile, un mix di storia e politica inutile e anacronistico, una lezioncina che i giovani di AN non meritavano. Forse Fini è troppo impegnato a mantenere l’equilibrio sul suo piedistallo per pensare e dire qualcosa di serio e concreto ai suoi ragazzi, che in quanto a storia e revisionismi ne hanno ascoltate abbastanza lectio magistralis. Non si riesce a capire il perchè di tutto ciò, perchè proprio lui deve dire a noi che l’anti-fascismo è un valore e che in Italia è giusto che ci siano morti di serie A e morti di serie B (morti di Salò). Nella platea di Atreju c’erano giovani che forse non si sono mai detti fascisti (a differenza di Fini) e che la storia la studiano o l’hanno studiata e sanno ben scindere il bene dal male, ma non per questo devono sentirsi anti-fascisti, anzi sono ragazzi che lottano giorno per giorno per la libertà (scuole e università), per l’uguaglianza (proprio contro chi si fregia di essere un antifascista militante) e per la giustizia sociale. Forse il caro Gianfranco non conosce bene i suoi giovani o forse li frequenta poco, non lo sa che non abbiamo bisogno delle sue svolte per capire in che mondo e società viviamo, se in questi anni Azione Giovani, Azione Universitaria e Azione Studentesca si sono affer-
mati nel territorio nelle università e nelle scuole è perchè noi siamo immersi nel nostro tempo, ascoltiamo la musica dei nostri coetanei, conosciamo i loro problemi, forse meglio dei nostri leader. E se qualcuno si domanda come mai siamo cosi ostili all’antifascismo a Fini e a tutti i sapiens ricordiamo che in nome di questo valore noi (ragazzi di destra) veniamo ancora discriminati, insultati e aggrediti e che in una parte della storia dimenticata (Fini ne dovrebbe sapere qualcosa) altri ragazzi hanno perso la vita e altri sono stati fucilati o infoibati, forse la lezioncina su quali valori rappresenta l’anti-fascismo Fini la dovrebbe fare, da presidente della Camera, a chi ancora oggi parla di pericolo fascista e incita all’odio politico. Caro presidente NOI non facciamo politica per hobby, siamo giovani, ma siamo maturi e l’abbiamo dimostrato in questa fase di nascita del PDL e non fischiandola per le assurdità che ha detto sabato mattina, quindi ci risparmi la sua saccenza e la sua prosopopea, noi non siamo fascisti ma non siamo neanche anti-fascisti. Non accettiamo l’ennesima lezione di storia e di vita, soprattutto dal nostro capo e a casa nostra, per l’ennesimo anno Atreju è stato un laboratorio ricco di idee, frutto di una generazione di giovani che lottano e elaborano politica e continuano a fare sacrifici, anche per chi li continua a considerare massa non pensante. Concludo con una frase inviatami oggi, da un’ amica-camerata, che rappresente il nostro modo di fare politica.
Hobbit Il siculo
Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma
Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1
Amministratore Unico Ferdinando Adornato
Diffusione e abbonamenti Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia (responsabile) Massimo Doccioli 06.69920542 • fax 06.69922118
Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Lagrotta Amministratore delegato: Gennaro Moccia Consiglio di aministrazione: Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Angelo Maria Sanza
Semestrale 65 euro - Annuale 130 euro Sostenitore 200 euro c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” Copie arretrate 2,50 euro
Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: Gaia Marcorelli Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento) Editorial s.r.l. Medicina (Bologna) E.TI.S. 2000 VIII strada Zona industriale • Catania Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.”
Abbonamenti
Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Udc
e di cronach
via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 0 6 . 6 9 9 2 4 0 8 8 - 0 6 . 6 9 9 0 0 8 3 Fax. 0 6 . 6 9 92 1 9 3 8 email: redazione@liberal.it - Web: www.liberal.it
Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30