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QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA

Si apre a Londra il congresso Labour: Gordon Brown in minoranza

di e h c a n cro

Tramontato il modello Blair: la sinistra europea ha ancora un futuro?

IPOCRISIE NAZIONALI 9 771827 881004

ISSN 1827-8817 80920

di Ferdinando Adornato

di Renzo Foa e tante sinistre che ci sono nel mondo devono molto ai laburisti britannici. Devono innanzituto quel modello di Welfare, inventato dopo la fine della seconda guerra mondiale, che ha dato il via alle politiche di sicurezza sociale nell’Europa della ricostruzione post-bellica. Non è poco. Però devono soprattutto al «modello Blair», ovvero al più importante tentativo di rinnovamento, direi di fuoriuscita dal Novecento, mai compiuto da nessuna left o gauche o izquierda sotto ogni latitudine o longitudine. In sintesi un tentativo di rinnovamento liberale del socialismo, capace di incamminarsi lungo il solco tracciato dalle rivoluzioni reaganiane e thatcheriana e dalle novità da queste introdotte nel mondo. Oggi, al congresso del Labour, non è più l’uomo Blair in discussione. Egli si è già ritirato, da tempo ha traslocato dal n. 10 di Downing street. In discussione, semmai, è il suo successore Gordon Brown che non è riuscito a lasciare una sua impronta nel conflitto politico e che stando ai sondaggi e alle previsioni si prepara, naturalmente non volendolo, a lasciare il governo nelle mani dei conservatori. se gu e a p ag in a 8

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Un popolo di piloti (cioè: chi è senza peccato scagli la prima pietra) Oggi tutti (a ragione) processano il personale Alitalia che applaude al fallimento. Magari, però, sono gli stessi che appoggiavano con enfasi la rivolta corporativa dei tassisti. Oppure si opponevano alle liberalizzazioni del commercio e delle aziende municipali solo perché proposte dagli avversari. La verità è che in Italia è in vigore “l’alternanza dello scaricabarile”. Che blocca ogni modernizzazione alle pagine 2, 3, 4 e 5 Un difensore d’ufficio per Berlusconi

Domani elezioni del Senato

Storia di Chiara, 15 minuti di celebrità

Francia al voto, Raffarin si gioca la leadership

di Susanna Turco

di Michele Marchi

di Riccardo Paradisi

di Filippo La Porta

Silvio Berlusconi difeso da un avvocato d’ufficio. È successo ieri al processo Mills dove, mancando i difensori ufficiali, il compito è toccato a Chiara Zardi, contattata dal call center.

Domani la Francia vota per eleggere 114 senatori. Una consultazione di grande valore simbolico: Jean-Pierre Raffarin, leader del partito Ump si gioca la sua leadership nella maggioranza.

«Al popolo di An adesso Fini ordina di fare gli antifascisti. E lo dice ricordando solo tra parentesi che c’è anche un antifascismo comunista. Dunque è fatale che una parte di quel popolo respinga l’ordine».

È finita nel silenzio la lunga stagione dello strutturalismo, quella disciplina critica che per decenni ha ingessato lo studio della letteratura. Più che una scienza, era una moda.

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SABATO 20

SETTEMBRE

2008 • EURO 1,00 (10,00

Polemiche culturali

Colloquio con lo storico Piero Melograni

Strutturalismo, la fine di un’illusione

«L’errore di Gianfranco Fini sul fascismo? La rimozione»

pagina 18 CON I QUADERNI)

• ANNO XIII •

NUMERO

pagina 20 180 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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L’alternanza e la ricerca continua di un capro espiatorio continuano a bloccare la modernizzazione

Il Paese dello scaricabarile Chi è senza peccato scagli la prima pietra di Carlo Lottieri a dove proviene la logica del «tanto peggio, tanto meglio»? Perché, una volta all’opposizione, quanti in campagna elettorale predicavano il rigore si chiedono oggi che si prema sull’acceleratore della spesa pubblica? Questo gioco al massacro, ai danni del Paese nel suo insieme, ha ragioni ben chiare: e per certi aspetti ripete uno schema che già si era visto in occasione delle proteste dei tassisti romani sostenuta dalla destra. Per la maggior parte dei politici, infatti, gli interessi concentrati (i 20 mila dipendenti di Alitalia, ad esempio, o – ancora meglio – le poche migliaia di piloti) sono sempre da anteporre ai diritti dei cittadini, ad un tempo consumatori e contribuenti. Un certo opportunismo gioca naturalmente il proprio ruolo, ma è in fondo sempre da mettere in conto. In questo senso è significativo il comportamento che centrodestra e centrosinistra – salvo sparute eccezioni – hanno tenuto nella vicenda Alitalia. Far saltare l’accordo con Air France, prima, e quello con la Cai, in seguito, è stato un obiettivo perseguito da spezzoni delle opposizioni di turno proprio in ragione del fatto che in tal modo era possibile ottenere la simpatia dei lavoratori. Non c’è stato solo questo, ovviamente, ma è pur vero che questa centralità degli interessi concentrati ha avuto un ruolo non secondario. Salvare Alitalia, coprirne i debiti, garantirle un futuro restringendo il mercato aereo e ammortizzando le conseguenze per quanti non saranno assunti, comporterà (se alla fine una soluzione sarà trovata) oneri enormi per un gran numero di persone: ben più numerose di quanti lavorano in Alitalia. Ma quelle molte decine di migliaia di persone sono vittime senza volto, senza nome, distribuite un po’ ovunque nel Paese e quindi poco appetibili politicamente. Dominata da tali logiche, però, l’Italia non può avere un futuro.

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di Errico Novi

ROMA. Dopo il terremoto ci sono le scosse telluriche. Giovedì il centrodestra ha esibito l’espressione inspiegabilmente paciosa di Maurizio Sacconi, che non ha aspettato un minuto per additare i colpevoli: la Cgil e i piloti. Ieri il sadico tiro al bersaglio ha trovato eco nelle parole di Daniele Capezzone, portavoce di Forza Italia: «Solo i suicidi possono festeggiare un possibile fallimento com’è accaduto a Fiumicino. Gli italiani hanno potuto vedere e giudicare chi siano e cosa facciano la Cgil e i piloti». Sempre più duri. Nel Pdl hanno tutto ben chiaro in testa. E così lo stesso ministro del Welfare non

può che ripetersi, tornare all’epitaffio del giorno prima e dirsi ancora stupito che il sindacato di Epifani e gli autonomi abbiano avuto una posizione congiunta: «Un’alleanza di cui non potremo non tener conto», chiosa sibillino Sacconi. Ma come dare torto al vicepresidente dei senatori pd Nicola Latorre e al suo promemoria? «Amareggia vedere i colleghi del centrodestra che condivisero il no dei sindacati ad Air France preoccuparsi, oggi, di attaccare la Cgil».

Chi ha davvero titolo per assumere il magistero di perfetto liberale? Non l’attuale maggio-

ranza, di sicuro. Basti pensare alla convinzione con cui An e gran parte dell’allora opposizione diedero battaglia sulle liberalizzazioni di Bersani. Impossibile dimenticare lo slancio con cui Gianni Alemanno e molti del suo partito si unirono alla protesta dei tassisti romani. È la stessa classe dirigente che adesso contrae la faccia in un moto di disgusto davanti alle urla delle hostess. È lecito il sospetto avanzato da Latorre, che definisce preoccupante «la divisione del movimento sindacale come l’atteggiamento del governo, che incoraggia questa idea di disunità». C’è un tasso di ipocrisia evidente, al limite della sfrontatezza. E forse non è un caso se proprio il sindaco di Roma ha sentito il bisogno di non scadere nel ridicolo, e ha

Capezzone non si placa: «Solo i suicidi festeggiano un loro fallimento, ora gli italiani possono giudicare chi siano e cosa facciano la Cgil e i piloti». Ma il pd Latorre: «Quando dissero no ad Air France fu il Pdl a incitarli»

così deciso di farsi carico dello sconcerto di molti suoi elettori toccati dal dramma del fallimento: è stato lui giovedì sera a consegnare al sottosegretario Gianni Letta una preoccupata missiva, controfirmata anche dal presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti e dal governatore Piero Marrazzo.

Sul destino della compagnia di bandiera il governo ha investito una quota importante della propria immagine. Non è detto che l’esito finora infelice dell’operazione produca un effetto boomerang. L’esecutivo sembra essersi efficacemente riparato sotto il pretesto della rigidità sindacale. È in virtù di questa polizza che Sacconi ieri ha potuto stilare il bollettino con assoluta leggerezza: «Il Consiglio dei ministri non può che prendere atto del ritiro dell’offerta da parte di Cai, non credo si possa parlare ancora di trattativa visto che la società ha ritenuto esaurito il negoziato. Può esserci solo una riflessione, da parte delle organizzazioni che non hanno firmato, circa l’assenza di alternative». All’opinione pubblica già si propone più o meno esplicitamente l’immagine dei dipendenti Alitalia come di un blocco irriducibilmente aggrappato alla pretesa che l’azienda debba sopravvivere a carico dello Stato. Non casuale è l’avvertimen-

ROMA. «Il governo non può sot-

Le ragioni della politica hanno vinto su quelle sindacali: parla Savino Pezzotta

trarsi, non può far finta di dire che è colpa di qualcuno. Deve riconvocare le parti e fare loro una proposta di mediazione in modo che sia chiaro quali sono le responsabilità degli uni e degli altri». Questa la soluzione alla situazione Alitalia, dopo il ritiro della Cai, proposta da Savino Pezzotta «Questa partita - ha aggiunto - va chiusa in fretta». Onorevole Pezzotta, l’accordo per salvare Alitalia è sfumato per colpa del governo? Com’è noto, sono stato tra quelli che non ha mancato di esprimere un giudizio negativo su come si è affrontata la questione Alitalia. Ero e resto convinto, come molti, che al punto in cui si era giunti era indispensabile

«Ecco perché non è stata una trattativa» colloquio con Savino Pezzotta di Francesco Capozza arrivare ad un accordo. Ora bisogna fare in modo di riannodare i fili ed evitare il precipitare degli eventi. La ricerca del capro espiatorio serve solo a liberarsi la coscienza. Cercare oggi il colpevole non serve a nessuno se non ad aumentare le tensioni. Il governo ha ora tutta la responsabilità di indicare una soluzione e riaprire in modo stringente il confronto tra tutti i soggetti interessati alla vicenda. Questo è il momento delle responsabilità condi-

vise. Si esca dalla polemica politica e si riprenda nuovamente la strada del confronto e della trattativa sindacale. Per il resto ci sarà tempo. Viste le posizioni politiche di questi ultimi giorni non crede che ci si trovi nella stessa situazione del 2006 ai tempi delle liberalizzazioni del governo Prodi, e che si possa parlare di una modernità bloccata dall’alternanza? Certo, ma è colpa di «questa» alternanza. È l’alternanza tra due

partiti che impedisce l’equilibrio del confronto; che impedisce la pluralità; che porta ad essere l’uno contro l’altro per partito preso, senza nemmeno valutare se ci siano o meno aspetti positivi. È «questa» alternanza che ci sta portando verso un bipartitismo coatto che è il vero dramma dell’attuale sistema politico. Secondo lei, quindi, anche se il Pd vedesse qualcosa di buono in quello che ha tentato di fare Berlusconi non gliene darebbe atto?


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Le ragioni della Cai raccontate dall’interno

«Il problema? La rottura tra Berlusconi e Colaninno» di Francesco Pacifico

ROMA. Il confine tra intransigenza sindacale

Qui sopra, l’esultanza di un pilota, dopo la rottura con la Cai. Nella pagina a fianco, il blocco dei taxi, a Roma, dopo le liberalizzazioni del 2006 to di Giulio Tremonti: «Non può esserci alcuna nazionalizzazione della compagnia, lo impedisce la legge e l’Unione europea». Resta esposta al pubblico spregio l’ostinazione dei piloti, delle hostess, del personale di terra. Dovrebbero sembrare loro gli unici ad aver difeso in questi anni l’idea di un’Alitalia fondata sulle rimesse dei contribuenti. Eppure non è così ed è bizzarro che il governo provi a dimostrare il contrario, in un Paese in cui la resistenza alle aperture del

mercato è più forte di qualsiasi tentativo modernizzatore. Il rimpallo delle responsabilità sembra destinato a imprigionare la vicenda Alitalia dentro un destino scontato. Anche se ieri Berlusconi ha preferito non assecondare il singolare impossibilismo di Sacconi ed è rimasto in silenzio. Durante il Consiglio dei ministri ha confidato che l’ipotesi Cai è ancora in piedi, anche perché non si vedono eserciti stranieri in arrivo. È la prova che in queste ore il premier lavora per riaprire il negoziato, e che almeno lui comprende come sia impossibile difendere, sul lungo periodo, la favola del sindacato come unico colpevole.

Ma ovviamente. Ed è accaduto l’esatto contrario quando al governo c’era il centrosinistra. All’inizio di quest’anno c’era la possibilità di un accordo con Air France poi, però, l’attuale premier impedì – anche come mossa elettorale – quell’accordo. Io penso che anche se allora Berlusconi avesse pensato che la soluzione Air France fosse la migliore possibile, non l’avrebbe mai ammesso solo perché proposta dall’avversario. Quindi, se capisco bene, lei ritiene che questo scontro a due non

fa che nuocere al Paese. Esatto. E lo dico perché l’ho vissuto in prima persona quando ero al sindacato e anche dopo. Mi è capitato di sentire proposte da una parte e vederle rifiutate dall’altra e poi riproposte dalla seconda per essere infine rigettate dalla prima. È un clima assurdo, che fa male al paese e ne impedisce la modernità. Sembra un vicolo cieco allora. La soluzione è una: fare sì che il sistema politico italiano inverta la rotta che lo sta portando ad essere bipartitico e diventi finalmente un sistema perfettamente bipolare. Fino a quel momento non credo che vedremo mai scelte bipartisan.

e la consapevolezza di un piano poco adeguato è molto labile. Lo si è capito quando Silvio Berlusconi ha scaricato la sua rabbia contro Roberto Colaninno: «Lei - gli avrebbe detto il premier saputo del fallimento - non ha rispettato i patti». A riprova che nel fallimento dell’offerta Cai non c’è «soltanto la colpa di Cgil e piloti». I soci di Cai si sono salutati con un patto di riservatezza su quanto accaduto. Ma racconta a liberal un manager vicino all’operazione: «Il presidente in questa partita ha giocato un doppio ruolo: punto d’incontro tra gli imprenditori impegnati nella cordata e riferimento di IntesaSanpaolo. Un ruolo che gli ha creato visibilità, ma anche una certa indipendenza rispetto alle altri parti». Un giro di parole che cela il fatto che Roberto Colaninno aveva meno da chiedere a questa partita al governo: non è un concessionario autostradale come i Benetton o Gavio, non fa il costruttore come Toto o Bellavista Caltagirone, non è amico di Berlusconi come Diana Bracco e i Ligresti. Non un Adriano Olivetti dei tempi moderni, ma un imprenditore con altri interessi e aspirazioni. Ieri, Raffaele Bonanni ha spiegato che basterebbe una telefonata di Epifani a Colaninno per riprendere la trattativa. Ipotesi che non molti condividono proprio per la distanza di vedute e di interessi tra mister Piaggio e gli altri cavalieri bianchi. E che fosse lui a dover rinunciare ai tempi supplementari?

que anni per uscire, voluta dalla politica. «Due le considerazioni più in voga all’assemblea di Cai - racconta la nostra fonte -, la prima è stato il timore di restare invischiati in un’operazione troppo grande». L’altra invece riguarda l’atteggiamento del vettore straniero, partner indispensabile per il rilancio. «Entrando con il 20 per cento, come è stato detto, chi ci dice che dopo 5 anni Air France o Lufthansa, ma sono nomi citati a caso, decidessero di non accrescere la propria quota? E se non avessimo potuto vendere a loro, a chi si sarebbe venduto?». In questo cahier des doleances non mancano i sindacati. Colaninno e Sabelli «si sarebbero dispiaciuti ché l’Anpac di Fabio Berti e la Cgil hanno provato a riaprire la trattativa sul contratto unico – vecchio pallino di Epifani – con lo scopo di modificare il perimetro aziendale».

Studiando l’organizzazione interna dei vettori stranieri, l’Anpac avrebbe calcolato che per far volare gli aeromobili di Cai servivano circa 2.173 piloti contro i 1.500 previsti; stessa metodologia sul rapporto costo lavoro-incassi da parte di corso d’Italia: in media è del 20 per cento, l’Ad Rocco Sabelli aveva previsto il 7, il sindacato il 15. Così sono risultati a tutti più indigeste le concessioni fatte alle nove sigle: le rotte di lungo raggio che sono passate da 16 a 18; 40 ore di lavore calate per miracolo a a 38, l’approccio point to point sostituito dal ritorno al feederaggio, nessuna soluzione sul dualismo Malpensa-Fiumicino. Un conoscitore del settore fa questa battuta: «Ma c’era veramente un piano? Perché queste cose si decidono per tempo, non si transige se c’è esperienza». “Buone nuove”, si fa per dire, anche da Bruxelles. Dietro le parole del commissario ai Trasporti, Antonio Tajani – «L’Europa impone una discontinuità contrattuale tra la vecchia Alitalia e la nuova» – si è notata l’insofferenza della Ue per la Marzano bis: le modifiche volute da Tremonti permettono di scindere anche i singoli asset, vendendo al compratore la parte in bonis». Per l’Unione vanno venduti nella loro interezza. È vero che la ci sono voluti 16 anni per decidere su Olympic, «ma chi può escludere che la Corte di giustizia avrebbe imposto di prenderci anche i debiti della bad company». Mischiando tutto questo si capisce perché nessuno dei soci si è sorpreso ché – per ora – è saltata l’operazione.

Vincoli europei, mancanza di una vera strategia industriale e disaccordi sui ”ricavi”: ecco gli ostacoli nascosti sulla strada dell’intesa

Più complesso il giudizio sulla voce di una discesa in campo di una riveduta e più composita cordata Cai per Alitalia. Sulla stampa straniera è apparsa controversa la corsa di imprenditori lontani dal settore. Racconta la nostra fonte: «A un certo punto si è dovuto frenare l’ingresso degli Arcese e del gruppo Cisco». Qualche imprenditore si sarebbe «chiesto per quale motivo non si fissava un termine sulle quote». Così, chi entrava, avrebbe dovuto comprare azioni dai soci della prima ora garantendo loro la prima plusvalenza. Senza contare il rischio di dare un messaggio sbagliato all’esterno: ripartiamo il rischio perché non crediamo nell’operazione. Le plusvalenze più facili si realizzano con turnaround comprensivi di pochi rischi. In Alitalia il conto più grande era destinato allo Stato. I 18 imprenditori avrebbero garantito (non versato) fino a venerdì scorso risorse per 1,3 miliardi. Ma a scontentare tutti l’ipotesi di lockup: cin-


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Dopo la rottura. L’ipotesi di un salvataggio in extremis della compagnia da parte dello Stato ormai è sbagliata: l”italianità” non è più un tabù

E ora, passi lo straniero di Giuliano Cazzola a grande maggioranza degli italiani sarà sicuramente rimasta sconvolta nell’assistere alle manifestazioni di giubilo con cui è stata accolta (per fortuna da minoranze sindacalizzate di lavoratori) l’annuncio del ritiro dell’offerta Cai. Per esperienza, sappiamo che le vertenze sindacali marcite e decomposte (al pari di quella dell’ex compagnia di bandiera) portano con sé una sorte di «cupio dissolvi» che travolge i protagonisti: un desiderio di andare alla ricerca della «bella morte» (che ricorda, in tempi di dibattito sulla fine del fascismo, la vicenda dei combattenti di Salò).

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Ma in quell’entusiasmo per noi incomprensibile c’è qualcosa di più: la speranza che il sistema delle protezioni che hanno consentito all’Alitalia (e al suo personale) di vivere al di sopra di ogni ragionevole possibilità, si sia solo inceppato, ma che presto – complice l’establishment politico-sindacale – tornerà a funzionare. Tanto più che per molti dipendenti sembra preferibile avvalersi del largo ombrello degli ammortizzatori sociali piuttosto che lavorare, passando così da una condizione di lavoro assistita ad una di nullafacenza retribuita. Non a caso una delle hostess giubilanti ha candidamente dichiarato sugli schermi televisivi: «Adesso è lo Stato che deve ricomprare l’azienda». Immaginiamo che la signora sia arrivata a tale conclusione non attraverso una ri-

flessione compiuta in solitudine, ma partecipando a riunioni o a conversazioni in occasione delle quali ipotesi siffatte sono state avanzate. Si tratta di sogni di una notte di fine estate, pronti a svanire con il risveglio del mattino oppure di soluzioni all’esame «là dove si puote ciò che si vuole»? Indiscrezioni di stampa raccontano di un suggerimento che Nicolas Sarkozy avrebbe dato al collega Berlusconi in ambasce per il fallimento dell’operazione Cai, in cui aveva profuso tanto impegno. L’idea è quella di una ”nazionalizzazione a termine”, come venne fatto a suo tempo con Air France, allo scopo di mantenere in vita la compagnia, fino alla ricerca di un nuovo acquirente. Del resto non è stata

al consenso dell’opinione pubblica, deve sapere che la stragrande maggioranza dei cittadini italiani considera come un insulto personale il comportamento dei sindacati renitenti all’accordo.

Il Cavaliere farebbe bene a riflettere sulle critiche da lui rivolte durante la campagna elettorale alla vendita ad Air France-Klm (è vero che il premier non è il solo né il principale responsabile di quel fallimento, come ormai viene da tutti riconosciuto). La riflessione dovrebbe riguardare innanzi tutto gli effetti che l’allontanamento dell’acquirente d’Oltralpe produsse sui dipendenti e sui sindacati, i quali videro in quella vicenda un segnale di incoraggiamento per la difesa delle loro condizioni attuali. Aver criticato i francesi perché volevano ristrutturare ha contribuito a creare delle aspettative circa la possibilità di evitare i costi sociali dell’operazione: aspettative che si sono puntualmente presentate all’appuntamento con la Cai e che hanno prodotto il disastro che è sotto i nostri occhi. Se lo Stato – Dio non lo voglia! – dovesse oggi subentrare nella gestione, sarebbe costretto a farlo congelando la situazione attuale con i suoi «grumi di privilegio». Si perpetuerebbe così una condizione insostenibile, anche perché è ormai chiaro che nessun compratore accetterà mai di acquistare una compagnia malata di sindacalismo

I lavoratori avevano bocciato Air France pensando che restare in mani italiane avrebbe significato mantenere intatti i loro vecchi privilegi questa la linea di condotta dell’amico Bush con le due società di mutui che gli americani chiamano per nome?

Solo così, adesso, si potrebbe evitare il fallimento; anche perché – lo si è visto con la conversione in legge del decreto ponte dei 300 milioni di euro – la Ue non consentirebbe l’erogazione di ulteriori risorse (classificabili come aiuti di Stato) alla compagnia. Sarebbe però un atto di follia collettiva che il Paese non perdonerebbe mai al Governo. erlusconi, che è sensibile

Dagli Usa al Lussemburgo

Come vivere, e bene, senza una compagnia di bandiera di Maurizio Stefanini

a speranza è sempre l’ultima a morire, ma la domanda è ormai ovvia: può sopravvivere senza compagnia di bandiera? Tradizionalmente, da quando è nata l’aviazione commerciale una compagnia aerea era vista dalla maggior parte degli Stati come un attributo di sovranità irrinunciabile, un po’ come la bandiera o la moneta. Ma ormai proprio alla moneta i membri dell’Unione europea hanno rinunciato. E c’è un pugno di Stati minuscoli che la compagnia di bandiera non ha mai cercato di averla, da Andorra a San Marino e dal Lussemburgo al Vaticano; anche se altri Stati altrettanto minuscoli ma insulari hanno invece preferito attrezzarsi: Air Malta, Air Mauritius, Air Marshall Islands, Air Nauru… Inoltre, molte compagnie di bandiera sono definite in questo modo per eredità storica, ma in realtà sono oggi completamente private. Esempi? L’australiana Qantas, Air Canada, la tedesca Lufthansa, Japan Airlines, l’olandese Klm, British

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Airways. In altre, la quota di proprietà statale è ormai minoritaria: dalla Austrian Airlines all’Air France, all’irlandese Air Lingus, all’israeliana El Al, alla stessa Alitalia. In qualche Paese esistono compagnie di bandiera di fatto senza avere alcun investimento ufficiale: la taiwanese China Airlines, la Cathay Pacific di Hong Kong… Sarebbe quella la situazione in cui si ritroverebbe la Air One in caso di fallimento dell’Alitalia.

In compenso, gli Stati Uniti una compagnia di bandiera non l’hanno mai avuta. E un’altra importante eccezione è in tre prosperi Paesi del Nord Europa come Norvegia, Svezia e Danimarca, che dal 1946 hanno creato in comune lo Scandinavian Airlines System: a sua volta fondatore di altre sigle come la Air Greenland, la svedese Linjeflyg, la spagnola Spanair e perfino la compagnia di bandiera thailandese Thai Airways International. Di recente, anche altri Paesi importanti si sono trovati col rischio di

deteriore come l’Alitalia. Per come sono messe le cose, c’è una unica via da seguire: il fallimento. Solo l’avvio di una procedura concorsuale (diretta da un magistrato) può consentire quella cesura netta con un passato che è divenuto ormai la palla al piede di un’azienda di trasporto aereo che – se opportunamente ristrutturata – sarebbe in condizione di continuare a volare. In tale contesto, il comportamento dell’opposizione è stato irresponsabile. Negli ultimi giorni, una parte del Pd si è accorta dell’errore che il gruppo dirigente del partito aveva compiuto, lasciando peraltro priva di sostegno la Cgil, se mai avesse voluto sottoscrivere l’accordo. Ma ormai era troppo tardi per tornare indietro.

rimanere senza compagnia di bandiera, anche se poi in qualche modo l’hanno scampata. Uno è la Svizzera, i resti della cui Swissair dopo il fallimento furono venduti dai creditori Crédit Suisse e Ubs alla sua ex-controllata Crossair, a base regionale, dando così origine per fusione nel 2002 alla Swiss. Questa però tra 2005 e 2007 è stata poi assorbita da Lufthansa, anche se ha conservato il nome, una sede in Svizzera, una certa autonomia e una flotta a ranghi ridotti, servita da personale anch’esso a ranghi ridotti. Insomma, si trova nella situazione che per Alitalia era stata paventata al momento della trattativa con Ai France. C’è stata poi la belga Sabena, che era la terza compagnia aerea più antica del mondo dopo l’olandese Klm e la colombiana Avianca, e che fu trascinata nel fallimento della Swissair, cui era collegata. Al suo posto, partendo da quella sussidiaria Dat cui erano riservati i voli europei e con l’intervento di alcune finanziarie, è nata nel


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Il giorno più lungo e difficile del Commissario

Fantozzi è mobile (non può far altro) di Gianfranco Polillo el day after di Alitalia il problema è “che fare?”. Dagli schermi di Porta a porta Piero Fassino ha invitato a riprendere la trattativa. Con piglio deciso ha redarguito il Ministro Sacconi: non faccia il notaio – lo ha rimproverato – e convochi le parti. Non si arrenda di fronte all’arroccamento del Cia. Faccia la spola tra Scilla e Carridi per convincere la controparte che ancora nulla è perduto. Ma una trattativa può riprendere solo se c’è un fatto nuovo. Se una delle parti è in grado di formulare una proposta diversa da quella esaminata nel corso di una maratona durata giorni e giorni. Se questo evento non si produce, tutto diventa inutile, nella stanca ripetizione di un rituale burocratico, buono solo per salvare la coscienza di qualche sindacalista o di qualche esponente politico, pentito di aver perso l’ultimo treno.

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«Solo dieci giorni di vita» ROMA. Abbiamo dieci giorni di soprav- di tre giorni, ancora, per indurre Cai e vivenza, poi sarà la fine: così Augusto Fantozzi, il commissario di Alitalia. Mentre Tremonti aggiunge:«Togliamoci dalla testa l’ipotesi di qualsiasi nazionalizzazione. Non sono possibili altri interventi pubblici su Alitalia». Secondo Tremonti la ragione di ciò è nei vincoli europei: la Ue non lo consentirebbe. Gianni Letta ha aggiunto: «Non ci siano alternative al piano della Cai”. E questa è la posizione ufficiale del governo e dello stesso Berlusconi: si parla di un margine

2002 Sn Brussels Airlines, a sua volta fusa nel 2006 con la concorrenteVirgin Express nella Brussels Airlines. Un altro esempio è la bulgara Balkan Airlines, che dopo la privatizzazione degli anni ’90 era passata al gruppo israeliano Zeevi, fallendo però anch’essa in quel maledetto 2002 segnato dalla crisi dei trasporti aerei dopo la tragedia dell’11 settembre. L’ha rimpiazzata una Bulgaria Air di Stato, che però nel 2006 è stata a sua volta privatizzata e acquistata dall’altra compagnia bulgara Hemus Air.

C’è poi la venezuelana Viasa, venduta alla spagnola Iberia nel 1991, ma fallita nel 1997, lasciando in eredità le sue rotte all’Avensa: ma anche l’Avensa, di proprietà pubblica, è collassata nel 2002, così che un limitato servizio locale è ora svolto dal 2004 dalla nuova società pubblica Conviasa. C’è la paraguayana Lap, chiusa nel 1994 dopo un fallito tentativo di privatizzazione, e al posto della quale funzione oggi una Tam Mercosur che è

sindacati a trovare un punto di accordo. Dopo di che, per Alitalia dovrà partire la mobilità. Sul fronte sindacale, è da segnalare l’invito rivolto da Bonanni a Epifani: « ”Basta una telefonata a Colaninno per metterlo in difficoltà e farlo tornare sui suoi passi». Epifani non ha commentato. Ma intanto Fantozzi ha incontrato i rappresentanti di Cgil e delle sigle autonome che non hanno sottoscritto il piano Fenice.

in realtà una società brasiliana. Ma anche il Brasile ha visto il collasso della Varig, che poi in realtà era stata in origine una società regionale del Tio Grande do Sul: “promossa” nel 1965 al posto della precedente compagnia di bandiera Panair, il cui proprietario non era ben visto dal regime militare dell’epoca. In crisi dal 1992, iniziò la procedura per il fallimento nel giugno del 2005, e i due pezzi più pregiati Varig Log e Veg furono subito venduti a Tao Portugal. Ma per ben cinque tentativi di vendita del resto furono bloccati dall’assemblea dei creditori, fino a quando al sesto non riuscì infine a prenderla l’ex-controllata Varig Log: la stessa già ceduta ai portoghesi. Solo dopo una drastica cura dimagrante e la ripartenza dei voli lo scorso dicembre con un nuovo certificato di omologazione, a aprile è arrivato l’interessamento della Gol, un’altra società brasiliana. Attualmente la Varig sopravvive appunto come classe Executive della Gol.

Il problema allora è

Che su questa operazione, con un pizzico di patriottismo, investe i propri soldi e si aspetta un giusto ritorno. Nel bene e nel male è quanto di più avanzato il capitalismo italiano può offrire. Le eventuali alternative possono essere solo peggiori. Perché i francesi o i tedeschi dovrebbero intervenire quando potranno comprare, dopo l’eventuale fallimento, pezzi della società – vettori, assets, risorse umane, slots – a un prezzo di realizzo? Cai dava le necessarie garanzie? Augusto Fantozzi è andato ben oltre i poteri, previsti dal codice civile. Da un punto di vista giuridico doveva attivare da tempo la cassa integrazione, a tutela del patrimonio dell’azienda, che è garanzia dei creditori. Non lo ha fatto assumendosi gravi responsabilità personali di cui, un domani, potrebbe rispondere. L’escamotage trovata è stata quella della “liquidità”. Finché ci sono soldi l’azienda può andare avanti. Ma questa posizione, da un punto di vista civilistico, non ha senso. La liquidità è solo una componente marginale degli equilibri aziendali. Ciò che conta è il rapporto tra l’ammontare delle perdite ed il capitale sociale. Da questo punto di vista, l’azienda è praticamente fallita. E ogni operazione compiuta è in danno ai creditori.

Doveva essere solo una carica formale, ma ora la vecchia Alitalia dovrà gestire migliaia di cassintegrazioni

capire quale può essere l’elemento di novità. Noi ne vediamo uno soltanto: l’accettazione di un passaggio, che consideriamo ineludibile. La trasformazione di un’azienda, che nel passato è stata solo una dependance del potere politico e sindacale, in una moderna impresa industriale. Operazione non da poco, ma anche l’unica in grado di dare ad Alitalia una prospettiva reale. Le condizioni ci sono tutte. Esiste un mercato potenziale che può consentire alla società un tasso di crescita adeguato. E non pensiamo solo al flusso dei turisti stranieri. Forse non saremmo più «un popolo di santi e di navigatori», ma certo gli italiani, almeno a giudicare dalle statistiche, non hanno perso quell’antica abitudine. Può funzionare? Si pensi al caso Fiat. Era un’azienda che molti consideravano ormai decotta. Sull’orlo del fallimento. Poi è arrivato Sergio Marchionne con la sua cura. Niente di eccezionale, ma solo una governance rigorosa, in grado di misurarsi con le esigenze del mercato. E la Fiat, in pochi mesi, è rinata a nuova vita. Può ripetersi il miracolo? Anpac ha ragione quando critica il vecchio management più interessato alle proprie stock option, che non ai destini della società. Ma è proprio questo il passaggio decisivo: voltare quella brutta pagina del trasporto aereo italiano e creare un’azienda vera. La conseguenza pratica di questa diversa impostazione è l’accettazione “senza se e senza ma” del piano industriale. La sua elaborazione spetta alla Cai. Che non è un’organizzazione di beneficenza, ma un gruppo imprenditoriale che fa business.

Può continuare questa pantomima – come suggerisce Piero Fassino – utilizzando i beni immobili per ottenere ulteriori crediti e tirare a campare, non si sa bene per cosa? Sarebbe da irresponsabili. E dall’eventuale semplice “colpa” si passerebbe al “dolo”. Se fosse presentata istanza di fallimento da chiunque ne avesse interesse, Augusto Fantozzi potrebbe dimostrare di aver operato, fin’ora, nel perimetro previsto dal decreto che modifica la legge Marzano. Per altro ancora non convertito. Ha operato in vista di un possibile accordo, teso a salvare – bene primario – l’intangibilità della società e quindi la continuazione della sua attività. Ma se questa prospettiva dovesse venir meno, come si giustificherebbe la distrazione di risorse aziendali a favore di taluni – i lavoratori non posti in cassa integrazione – ed a danno di altri: fornitori, banche, creditori e così via? Sono questi i problemi che, almeno finora, il sindacato dei piloti e la Cgil hanno sottovalutato, provocando quel disastro che quasi nessuno riteneva possibile. Forse esistono ancora spazi minimi per non chiudere definitivamente la partita. Ma bisogna rimanere con i piedi per terra ed operare con il senso di responsabilità che la situazione richiede.


pagina 6 • 20 settembre 2008

politica

Al loft studiano la strategia per ridurre il danno delle prossime, probabili sconfitte: si parte dalle Regionali in Abruzzo

Primarie e populismo,Walter ci prova di Francesco Costa

d i a r i o

d e l

g i o r n o

Scuola, la Gemini presenta il suo piano Meno ore di scuola alle superiori, maestro unico con insegnante di inglese, aumento delle sezioni primavera e tempo pieno alle elementari, anticipi alla scuola d’infanzia. Sono i punti salienti del ”piano” del ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, presentato ieri ai sindacati, che prevede il reinvestimento di due miliardi di euro di risparmi. Nel piano è confermato il personale docente che si occupa degli alunni disabili. Non si toccano le scuole di montagna: in Italia ci sono più di 10mila classi con meno di 10 studenti.

Caso Eluana, l’8 ottobre decide la Consulta La Corte Costituzionale deciderà il prossimo 8 ottobre se dichiarare ammissibili o meno i ricorsi presentati dalla Camera dei deputati e dal Senato sul conflitto di attribuzione tra poteri in relazione alla sentenza della Cassazione sul caso di Eluana Englaro, la giovane donna di Lecco in stato vegetativo da oltre 16 anni a causa di un incidente stradale. Si tratterà di un primo vaglio da parte della Consulta, che, se dichiarerà ammissibili i ricorsi, dovrà poi fissare nuova udienza per discutere nel merito la vicenda. La Cassazione, con la sua sentenza dell’ottobre 2007, aveva annullato con rinvio la precedente decisione della Corte d’Appello di Milano, che aveva detto «no» alla richiesta del padre della ragazza di interrompere le cure.

ROMA. Come fa un leader dell’opposizione a starsene tranquillo a New York, a presentare il suo libro, nel giorno fatale di Alitalia? Semplice: ha messo prima un po’ di ordine nella sua strategia. Nel caso di specie, quello di Walter Veltroni, si è premurato di disinnescare la mina più pericolosa, vale a dire il rischio di imboccare un insidiosissimo vicolo cieco con una pesante sconfitta elettorale alle Regionali in Abruzzo del prossimo 30 novembre. Il piano in realtà è più articolato. E si fonda su un principio generale: smetterla di farsi scavalcare dall’Italia dei valori, recuperare consensi tra i ceti popolari in libera uscita e tra l’elettorato sensibile alle sollecitazioni giustizialiste. E il primo scoglio è appunto quello della scadenza fissata per rimediare al crollo della giunta Del Turco. C’è il rischio che il candidato democratico arrivi addirittura terzo, staccato anche dal dipietrista Costantini, che conterà sull’appoggio del Prc. La mossa escogitata al loft è la seguente: sorpassare l’Idv sul tema della trasparenza con la proposta di celebrare le primarie tra Costantini e uno sfidante espresso dal Pd.

Non basterà a scongiurare il trionfo del centrodestra, quasi certamente apparentato per l’occasione con l’Udc. Ma lo stratagemma servirà almeno a tenere viva la competizione a sinistra, e a preparare la strategia di primavera. Walter d’altronde è all’ultimo appello: un risultato deludente alla prossima tornata di Amministrative ed Europee aprirebbe di fatto la lotta per la

sua successione (Letta, Bersani e Finocchiaro scaldano già i motori) portando il partito dritto dritto al congresso anticipato. Bisogna dunque evitare che il circolo vizioso si inneschi subito con le elezioni in Abruzzo. C’è da fare i conti con un Di Pietro decisissimo ad assestare il colpo di grazia, animato da pessime intenzioni, come è risultato evidente a chi ha seguito la festa celebrata dall’Idv a Vasto nei giorni scorsi. Nelle prossime ore il Pd abruzzese diffonderà un regolamento regionale per le elezioni primarie: Di Pietro – grande sostenitore di questo stru-

vesse introdurre le liste bloccate anche in Europa, Veltroni sarebbe pronto a lanciare delle primarie organizzate per stabilire la posizione in lista dei candidati, tentando così di scompaginare le carte anche all’interno del suo apparato. I big del partito sarebbero così svuotati da ogni potere decisionale: se gli ulivisti gongolano, dalemiani e popolari sono già sul piede di guerra. E i segnali di distensione tra Massimo D’Alema e Goffredo Bettini andrebbero dunque interpretati come una mossa cautelativa da parte dell’ex premier.

Scelta dei candidati con la formula diretta estesa anche alle Europee: così Veltroni tenterà di difendere la propria leadership da qui alla prossima estate

Non solo primarie, comunque. Lo slittamento a sinistra del Pd sarà complessivo e toccherà tutti i temi caldi di questi e dei prossimi mesi. Abbandono delle velleità liberal e mercatiste della campagna elettorale, con una correzione che potrebbe portare i democratici su un terreno insolitamente vicino a quello del ministro dell’Economia Giulio Tremonti; no a qualsiasi collaborazione col centrodestra sul ddl Alfano; stop al dialogo sul federalismo fiscale e sulle ipotesi di riforma della Costituzione; ferma opposizione al progetto di riforma della scuola del ministro Gelmini; bocciatura senza appello della gestione della vicenda Alitalia. In generale: toni più alti, comunicazione aggressiva, posizioni oltranziste e un po’di populismo per combattere sul suo terreno l’Italia dei valori, tagliare le gambe alla rediviva sinistra radicale e tentare di salvare il salvabile. Più Di Pietro, meno Blair: la nuova stagione è già finita.

mento e del“diamo voce ai cittadini” – dovrà decidere se far passare o no la candidatura di Costantini al vaglio degli elettori.

Il rilancio delle primarie non si fermerà all’Abruzzo. Il Pd darà battaglia perché le preferenze non vengano cancellate dalla legge elettorale per le elezioni europee (qualche fonte assicura che pur di avere le preferenze, il Pd non farebbe le barricate davanti allo sbarramento al 5 proposto dal Pdl), ma se davvero il centrodestra do-

Benedetto XVI, monito sull’edonismo Contrastare la crescente e pervasiva secolarizzazione, curare particolarmente la formazione dei sacerdoti, promuovere «un consenso morale della società sui valori fondamentali», educare i laici ad assumere responsablità «in campo politico, sociale ed economico». Questi gli impegni a cui il Papa ha chiamato i vescovi di Panama, ricevuti a Castel Gandolfo per la visita «ad limina» (il tradizionale incontro che ogni cinque anni i vescovi di un Paese o regione ecclesiastica hanno con il papa, ndr). Benedetto XVI ha indicato come «motivo di felicità» il fatto che la Chiesa panamense a tutti i livelli contrasti «la crescente secolarizzazione della società» che emargina la trascendenza, «invade ogni aspetto della vita quotidiana», «sviluppa una mentalità secondo cui Dio è assente dalla esistenza e dalla coscienza umana», si serve dei media «per diffondere individualismo e edonismo e ideologie che minano i fondamenti del matrimonio, della famiglia e la morale cristiana».

Base Vicenza, Napolitano abbassa i toni «Gli interessi dei cittadini, possono e debbono combinarsi con le ragioni della collettività nazionale». Il Capo dello Stato Giorgio Napolitano si è rivolto così ai consiglieri comunali di Vicenza che ha incontrato ieri mattinata. Nella dichiarazione un riferimento implicito alla vicenda dell’ampliamento della base militare Dal Molin, che divide la città. Fra l’altro, proprio sulla questione si svolgerà il 5 ottobre prossimo un referendum, che il presidente del Consiglio Berlusconi ha chiesto di non celebrare. Napolitano aveva parlato con Bush il 12 dicembre dell’anno scorso alla Casa Bianca assicurando che l’Italia avrebbe mantenuto gli impegni.

Bossi festeggia 67 anni a Palazzo Chigi Prima un brindisi in Cdm poi gli auguri dei suoi al ministero delle Riforme. Umberto Bossi compie oggi 67 anni e il primo a festeggiarlo è stato Silvio Berlusconi. Terminata la seduta di ieri mattina, tutti i colleghi gli hanno fatto gli auguri nel salottino giallo attiguo al salone dove si svolge il Consiglio. Il Cavaliere ha regalato al senatur una sciarpa di cachemire “verde padano” e lo ha abbracciato, tra gli applausi dei presenti.


politica

20 settembre 2008 • pagina 7

Qui accanto, Silvio Berlusconi in tribunale. Sotto, la giovane avvocata Chiara Zardi che ieri è stata chiamata a difendere d’ufficio il premier per l’assenza dei suoi rappresentanti ufficiali

Effetto Warhol per la giovane avvocata che si è trovata, per caso, a difendere Berlusconi al processo Mills

Chiara, quindici minuti di celebrità di Susanna Turco

ROMA. I più maliziosi, nei tempi in cui un posto in lista non si nega a nessuno, la vedono già candidata nelle liste del Partito delle libertà. Tanto più che lei, senz’ombra di civetteria, si definisce «imprenditrice di se stessa»: dettaglio che Silvio Berlusconi, uno che ai bambini di sei anni arriva ad augurare di scoprire «l’imprenditore» che è in loro, non potrebbe non amare. Un colpo di telefono da parte del suo assistito- perun- giorno, comunque, è dato per scontato. Di certo se l’imputato fosse stato Walter Veltroni, la chiamata sarebbe arrivata in un baleno. Veltroni, a telefonare, è bravissimo. Ma Chiara Zardi, ventottenne avvocatessa dal capello liscio e la faccia pulita, studi all’istituto privato Maria Immacolata e laurea

alla Statale, protagonista casuale e temporanea del magico mondo di Arcore, nel ruolo di difensore d’ufficio nientemeno che del presidente del Consiglio nel processo Mills, ha l’aria di una che non ha intenzione di montarsi la testa. «Non credo proprio che mi telefonerà, mica gli ho fatto un piacere: il difensore d’ufficio è obbligato a dire di sì quando viene chiamato, l’avrei fatto comunque», spiega.

Peraltro, aggiun-

dettaglio, solo una questione procedurale, nell’udienza di ieri. Dove la Zardi è entrata in gioco giusto per sostituire il ragazzo di bottega mandato dai difensori del premier Ghedini e Longo, non in possesso dell’abilitazione per partecipare al processo. «Nelle prossime udienze subentreranno i suoi avvocati, immagino». Un po’ le dispiace, forse, ma si guarda bene dal dirlo. «La questione che si dibatte è interessante, dal punto di vista giuridico intendo», precisa lei, favorevole al lodo Alfano.

ge, «l’udienza non è stata niente di particolare».

Certo è ai limiti della realtà che, di punto in bianco, la sor-

anche all’università, lavoricchiando come hostess ai congressi e cassiera in teatro. Una che è appassionata di politica («ma non le dico chi voto»), che guarda Vespa, Mentana e Floris e si annoia solo quando «il politico non ha una grande oratoria». Una che fa l’avvocato d’ufficio anche per arrotondare e che, per lavorare, si appoggia allo studio dell’avvocato Alessandro Carlo Turrà ma non ha «una collaborazione regolata da contratto» perché, come si diceva, preferisce «rischiare» piuttosto che cercarsi la sicurezza di un lavoro dipendente. Su internet già la rimprovera-

Non credo proprio che il Premier mi telefonerà: ero obbligata ad accettare la difesa, mica gli ho fatto un piacere. La parcella? Quella di un avvocato d’ufficio dipende da quanto è solvibile il cliente

Certo, a parte il fatto che i due avvocati del premier, lei e il praticante Filippo Pagnacco, totalizzavano 54 anni in due, vicendo il premio per la più giovane coppia di difensori nella storia giudiziaria dell’imputato Silvio Berlusconi. A parte questo

te del presidente del Consiglio sia finita quasi per gioco nelle mani di una normalissima giovane donna. Una che è iscritta all’albo degli avvocati da poco più di un anno, che voleva fare la giornalista perché le piace «scrivere» e al liceo andava bene in italiano, che vive ancora coi genitori ma non si sente una «bambocciona» perché si è sempre data da fare,

no: «Cara Chiara, oggi hai avuto una grossisima fortuna», scrive un certo Zobbi, «potevi finalmente dare “sazio” a mezza Italia, potevi diventare la paladina del Pd o del popolo “comunista”rimasto in Italia, potevi diventare famosa senza passare da Maria de Filippi, potevi far condannare Silvio…E invece…». E invece, senza essere una novella

Giulia Bongiorno, la Zardi ha eseguito il compitino. Si è scusata con il presidente Nicoletta Gandus per non avere con sé la toga; non sapendo nulla del processo, ha chiesto tempo per studiarsi la causa; poi ha fatto propria la richiesta di rinvio per legittimo impedimento (accolta, prossima udienza il 27). Tutto ciò, mentre di ora in ora le citazioni sui motori di ricerca si moltiplicavano e il suo telefonino si riempiva di messaggi fino a scoppiare. Genitori, parenti amici: «Un sacco di complimenti».

E la parcella? Nei primi anni Novanta, a un avvocato di chiara fama che in una situazione analoga aveva tolto dall’impiccio Silvio Berlusconi, Massimo Maria Berruti aveva consigliato di presentare subito una parcella da seicento milioni, perché è così che ci si fa «rispettare». Ma sono altri tempi. E altre persone. Quanto prende oggi un avvocato d’ufficio? «Dipende», fa la Zardo. «Dipende da quanto è solvibile il cliente», precisa. E le viene, rispettosamente, da ridere. Certo, perché «di solito il difensore d’ufficio entra in gioco quando l’imputato, un altro avvocato, non può permetterselo».


pagina 8 • 20 settembre 2008

miti infranti

Labour. La debolezza di Gordon Brown punta il dito sulla crisi del socialismo liberale, che ha fallito la sua missione riformatrice

La sinistra senza Blair di Renzo Foa

segue dalla prima

DA QUI LA DISCUSSIONE che si è aperta, anzi la contestazione diretta che viene rivolta da più parti al premier, fino a ipotizzare una sua sostituzione per il periodo che resta da adesso al giorno del responso elettorale. Si tratta certamente di un problema rilevante. Non è secondario – direi nemmeno per l’intero Occidente – se uno dei suoi Paesi più importanti, quale appunto è il Regno Unito, vivrà un’alternanza e vedrà il ritorno dei conservatori dopo oltre un decennio di opposizione. Ma il dato che maggiormente richiama l’attenzione è la crisi del socialismo liberale che si sta consumando lungo le sponde del Tamigi. Attorno al destino di Gordon Brown – chiunque possa essere il suo successore, se ci sarà un successore subito – si sta infatti giocando la fine di un’epoca, si sta consumando l’ultima più importante esperienza che è possibile legare alla parola «socialismo», appunto il blairismo. Si tratta di una consuzione che in modo diretto riguarda la Gran Bretagna e il suo destino politico, ma che in modo indiretto parla a tutta l’Europa. Alla quale dice esplicitamente che il socialismo, così come lo abbiamo conosciuto nella seconda metà del secolo scorso, il socialismo in tutte le sue versioni, anche in quelle positive, non è più in grado di svolgere una funzione propulsiva in società complesse come le nostre. Che non ha più spazi. Che non ha speranza di raccogliere consensi maggioritari. Che per restare egemone non gli basta neppure rinunciare a quella parte di se stesso che ha privilegiato il riferimento allo statalismo e all’assistenzialismo.

La storia del blairismo è eloquente. Il suo protagonista prima si impadronì di un Labour consumato dal suo attaccamento alla tradizione e ai vecchi soggetti sociali che a lungo avevano rappresentato il suo «zoccolo duro». Non considerò mai la rivoluzione liberale della Thatcher una mostruosità o un vulnus alla civiltà, bensì ebbe il coraggio di guardare a quella esperienza riconoscendone il valore e considerandola un punto di partenza imprescindibile. Senza la storica sconfitta dei minatori, senza le riconversioni industriali, senza il rilancio inatteso del «sistema britannico», Tony Blair non sarebbe riuscito a introdurre alcuna aria nuova e non avrebbe conquistato una duratura egemonia sull’opinione pubblica del proprio Paese. Fu, allora, una vera svolta. La conferma che venne dal corpo elettorale dimostrò che la

chena e sul rapporto di ferro con l’America di Bush, l’interpretazione giusta è quella che vuole il socialismo liberale solo come un’estrema propaggine del sistema costruito da Reagan e dalla Thatcher. Con poco di suo, nel senso che nell’esperienza britannica c’è stato più liberalismo che socialismo. Per la semplice ragione – e questo si può dire a chiare lettere – che proprio il socialismo, in ogni sua versione, si è esaurito con la fine del Novecento. Anzi, molti hanno parlato direttamente della sua morte. Blair è stato solo uno scoppiettante superstite. E oggi su Gordon Brown c’è il peso schiacciante di questa verità.

Al «modello Blair» a lungo ha guardato la sinistra europea per poi girare le spalle e la testa da un’altra parte. Non abbiamo la memoria corta, non deve sembrare strano il fatto che pensare all’ex premier britannico significa anche pensare a quel che è successo e succede

Blair perché prima c’era stata la Thatcher. «Stagione rosa» voleva dire che si era aperto un ciclo che non poteva essere chiuso da alternative che si riferivano alle tradizioni delle tante sinistre che avevano attraversato il Novecento. E i suoi due massimi esponenti aveva-

Chi ha creduto che il modello inglese potesse rappresentare per la sinistra globale quel che Reagan e la Thatcher avevano incarnato per il mondo liberale e conservatore, deve ricredersi left poteva avere un futuro solo restando nel solco tracciato dai conservatori, proponendo sì correzioni od emendamenti, ma non cancellazioni. Semmai a cercare di far dimenticare la «lady di ferro» era stato il suo successore John Major e questo gli tolse concorrenzialità di fronte al suo avversario, più dinamico e più ricco di idee. Questa è stata la forza del socialismo liberale riproposto alla fine del Novecento a Londra. Questo il suo fascino. Dove si è esaurito? Si è già scritto e discusso molto sulle ragioni del ritiro anticipato di Tony Blair. Tra le tante interpretazioni una è certamente giusta: aldilà delle polemiche sulla vicenda ira-

in casa nostra. Difatti non sono lontani gli anni in cui all’inquilino del numero 10 di Downing street guardavano, con invidia e spirito di emulazione, gli esponenti della sinistra italiana. Era «la stagione rosa», in cui alla Casa Bianca abitava Bill Clinton e le ventate moderate venivano interpretate soprattutto da una sinistra – i new democrats e il new labour – che aveva compiuto uno strappo decisivo con la sua storia precedente. In realtà, ora, a distanza di tanto tempo sappiamo perché sia Clinton che Blair riuscirono a rappresentare l’ultimo tentativo di una sinistra moderna e a darle sostanza. Sappiamo appunto che Clinton aveva potuto essere Clinton perché prima c’era stato Reagan e Blair aveva potuto essere

no proposto una politica di sostanziale continuità, quanto a valori e a punti di riferimento: il libero mercato, la riduzione del peso dello Stato, l’interventismo democratico e la libertà globale… Così, se pensiamo a quella stagione ci accorgiamo che era stata costruita su mitologie esibite anche in Italia, e con grande disinvoltura – tranne invece fare il contrario nella concretezza dell’azione di governo.

Ma se oggi l’attenzione è concentrata su Gordon Brown, il fenomeno dell’esaurimento della sinistra va declinato al plurale. Riguarda l’intero Occidente. Si può cominciare da dove si vuole. Intanto pensando che in Francia – dove già nel 2002 Lionel Jospin non riuscì ad entrare

nel ballottaggio presidenziale – l’alternativa al vecchio conservatorismo di Jacques Chirac è stata rappresentata dalla «rottura» attuata da Nicolas Sarkozy, a sua volta un anno fa facile vincitore sulla Royal, la quale oltretutto non è riuscita nel frattempo a ridare un’identità ed un profilo all’esperienza ereditata da Mitterrand. Si può continuare con la Germania, dove il segno al governo di grande coalizione è dato soprattutto da Angela Merkel e dove gli eredi dell’ultimo cancelliere socialdemocratico, Schroeder, soffrono sempre di più le concorrenze sul fianco destro e su quello sinistro, proprio per la mancanza di un progetto chiaro. Conosciamo poi, perché ci siamo dentro, la situazione italiana dove l’ultima esperienza di sinistra, quella prodiana, si è conclusa in modo catastrofico, dove non esistono più socialisti identificabili come tali in Parlamento, dove gli eredi diretti del riformismo craxiano stanno dando il segno alla terza esperienza berlusconiana, cioè un’esperienza di centrodestra, dove il Partito democratico cerca di sfuggire al passato e dove le stesse estreme rappresentano più il massimalismo sociale e il giustizialismo che la tradizione del socialismo (o se si vuole, perché è stata maggioritaria nella storia re-


miti infranti

20 settembre 2008 • pagina 9

Manchester, si apre oggi la convention laburista (che guarda al 2009)

Più che un Congresso, per Brown è un tribunale di Silvia Marchetti

pubblicana, dell’italo-comunismo). Non è casuale l’abitudine a consolarsi citando Zapatero, ma dimenticando che il capo del governo spagnolo non si è mai dissociato dalle politiche economiche, della sicurezza o dell’immigrazione dei conservatori e che la sua «impronta sinistra» non ha nulla a che fare con la tradizione del socialismo, ma è figlia del relativismo e di certo radicalismo.

Tutto questo sta finendo sul palcoscenico del laburismo britannico sul quale – con le contestazioni a Brown – stanno calando i titoli di coda. Difficile però non esprimere un rimpianto. Chi ha creduto nella capacità di Tony Blair di poter lasciare un segno più duraturo e di rappresentare per la sinistra globale quel che Reagan e la Thatcher averappresentato vano per l’insieme del mondo liberale e conservatore, non può che riflettere sulla brevità di un decennio – si può anche dire spreco? – che ha il suo epilogo nell’esaurimento dell’ultimo tentativo compiuto di ridare un senso alla parola socialismo.

In alto, da sinistra: Gordon Brown, primo ministro e leader dei Labour e il suo predecessore Tony Blair. Pagina 8, il giovane ministro degli Esteri David Miliband, dato per favorito alla “successione”. Pagina 9, l’ex presidente Usa Bill Clinton e il “perenne” emergente di casa Labour Alan Johnson, attuale ministro della Sanità

LONDRA. Paura, instabilità, confusione. Per la prima volta da quando sono saliti al potere con Tony Blair i delegati che si riuniscono oggi a Manchester per la conferenza annuale del Labour hanno più dubbi che certezze. Tutti – incluso il premier Gordon Brown – sanno che il partito è arrivato a un punto di svolta: o cambia o perisce. La spinta originale della rivoluzione blairiana si è esaurita e nel corso di questi cinque giorni (la convention chiuderà mercoledì) si cercherà di individuare una via di riforma che salvi il Labour dalle secche dell’immobilità. L’obiettivo è un restyling vincente in vista delle prossime elezioni nazionali. I malumori dei delegati si concentrano sulla questione della leadership: Gordon Brown non è più amato (forse non lo è mai stato), ha commesso errori e ha perso troppe elezioni locali. Se il Labour intende vincere un quarto mandato Brown dovrà farsi da parte. L’opinione diffusa è che il rilancio del partito può avvenire soltanto tramite l’incoronazione di un nuovo leader. Stando a un sondaggio apparso proprio ieri sull’Independent il 54 per cento dei simpatizzanti laburisti (votanti e membri di partito) vuole che sia un altra persona a guidare il Labour alle prossime elezioni. Il favorito a sostituire Brown è il ministro degli Esteri David Miliband con il 24.6 per cento di preferenze, il rivale sempre additato come il più papabile. Seguono a ruota il responsabile alla Salute Alan Johnson (18.1 per cento), il deputato Jon Cruddas (11.3), il ministro della Giustizia Jack Straw (9.6), la capogruppo dei laburisti in parlamento Harriet Harman (6.6), il simpatizzante di estrema sinistra John McDonnell (6.5), il ministro del welfare James Purnell (3.2) e quello della scuola Ed Balls (2).

mondo. Tavole rotonde e workshop si susseguiranno per cercare di trovare una risposta ai mutamenti in atto nell’era della globalizzazione, ma dietro le quinte e tra i corridoi a tenere banco sarà la “cacciata”di Gordon Brown, ormai una questione solo di tempo.

I pochi che ancora difendono il premier (con dichiarazioni di facciata) lo fanno più per salvare il governo che per simpatia. Brown è solo, il segretario per la Scozia si è già dimesso e gli altri membri di gabinetto non possono più ignorare la crisi in atto. Sia James Purnell che John Hutton, responsabile per le imprese, si sono rifiutati di condannare i ribelli. Secondo Purnell il Labour «è stato troppo lento nel rispondere ai problemi che hanno colpito l’economia mondiale, abbiamo sbagliato ad applicare le solite vecchie politiche quando il mondo invece sta cambiando». Un mea culpa che pesa interamente sul primo ministro: se il Paese va male, se il partito è debole la responsabilità è sua. Per i ministri Hazel Blears e Ed Balls Brown “nega la realtà”. Un altro ex esponente di governo, Alan Milburn, ha scritto in questi giorni un pamphlet in cui denuncia «la distanza tra la politica e il pubblico». Inevitabile dunque che per Brown la convention di Manchester diventi un tribunale. A oggi c’è stato un solo appello all’unità. Alcuni giorni fa, dalle pagine del quotidiano New Statesman, Alastair Campbell (spin-doctor di Blair), Glenys Kinnnock (eurodeputato), John Prescott (ex vice primo ministro) e Richard Caborn hanno lanciato la campagna “Avanti per un quarto mandato laburista”. Il loro obiettivo è evidenziare i pregi del Labour e i difetti dei Tory, riformare le politiche, aumentare la partecipazione di partito e ritrovare «la passione originaria» che caratterizzò l’era di Blair. Prescott afferma che «tutti i laburisti devono stringersi attorno a Brown perché è l’unico che può risolvere la crisi economica», ma nel manifesto apparso sul giornale il nome del primo ministro non appare. Una tattica mediatica per ignorare la spinosa questione della leadership? Sta di fatto che oggi alla conferenza laburista regnerà la “disunione”. In platea ci saranno delle sedie vuote, alcuni ribelli hanno deciso di disertare l’evento ma saranno comunque a Manchester per partecipare alla convention “parallela” di centro-sinistra organizzata da verdi, nazionalisti scozzesi, comunisti e alcuni sindacati. Cinque giorni di dibattiti su riforme, razzismo, energia, scioperi, trasporti. Tra i relatori c’è anche John McDonnell, uno dei favoriti per il dopo-Brown.

Per il 54% dei delegati le elezioni del prossimo anno si potranno vincere solo con un altro leader

I più “forti” , capaci di aggregare consenso, sono Miliband, Straw e Johnson sia per la loro personalità che per il lavoro svolto e promosso dai simpatizzanti. I risultati del sondaggio incoraggiano i ribelli e indeboliscono ulteriormente il premier. La convention servirà a preparare il terreno per il dopo-Brown, ma secondo molti la vera resa dei conti arriverà a fine ottobre con le suppletive a Glenrothes: in caso di un’ennesima sconfitta toccherà ai ministri chiedere la testa di Brown. Il padrone di casa si prepara così ad affrontare una platea fredda, una schiera di nemici in casa. A Manchester si parlerà di tutto: la crisi del credito, le diseguaglianze sociali, il potere d’acquisto, il lavoro, la corsa dei prezzi dell’energia e del cibo, l’emergenza clima e i diritti civili nel


pagina 10 • 20 settembre 2008

mondo

La malagestione delle scorie radioattive nella miniera di Asse frena le ambizioni energetiche della Merkel

Germania, colpo duro al nucleare di Katrin Schirner

d i a r i o Sigmar Gabriel, ministro dell’Ambiente tedesco, sta tenendo un braccio di ferro con il Cancelliere Angela Merkel sul nucleare. Alla base dello scontro, le scorie radioattive che per oltre vent’anni sono state depositate in una miniera della Bassa Sassonia

BERLINO. Non accade di frequente che le commissioni Ambiente e Ricerca si riuniscano congiuntamente in Parlamento per una sessione speciale. Ma è successo questa settimana. Il motivo era una vecchia miniera di sale in Bassa Sassonia, denominata “Asse”. I problemi di sicurezza in questo sito di scorie nucleari – un tempo programmato come progetto di ricerca – sono talmente gravi che il ministro per l’Ambiente, Sigmar Gabriel (Spd), ha definito Asse come il «più pericoloso sito nucleare d’Europa». In un recente rapporto del governo regionale della Bassa Sassonia si legge che il gestore avrebbe violato per decenni le direttive contenute nella legislazione sul nucleare. Nel sito di Asse sono stati depositati 126mila fusti con scorie radioattive fra il 1967 ed il 1978, ufficialmente “in prova”. In realtà, l’industria nucleare tedesca ha trattato Asse piuttosto come un deposito definitivo. Da decenni, inoltre, non viene più effettuata “ricerca”; si tratta solo di una gestione tecnico-preventiva volta a governare il problema delle scorie tossiche. Già da 20 anni vi sono infiltrazioni di acqua nella salina. Di qui il rischio che sostanze radioattive trovino la via della superficie – come nel giugno di quest’anno – o nella falda freatica. Oltrettutto, la salina potrebbe crollare. Asse, però, rappresenta molto di più di uno scandalo ambientale. Esso viene usato da chi si oppone all’industria nucleare per far morire sul nascere il dibattito appena avviato sulla possibile proroga al-

la disattivazione delle centrali nucleari tedesche. Il Cancelliere Angela Merkel (Cdu), da sempre a favore del nucleare, pensava che fosse arrivato il momento giusto per rimettere in discussione l’abbandono dell‘energia nucleare decisa dai socialdemocratici e dai verdi nel 2000. Anche i cittadini, preoccupati dalle notizie degli scienziati a proposito dei cambiamenti climatici e dalle bollette della luce sempre più alte, sembravano più aperti all’ipotesi . Asse – con la fibrillazione che ne è seguita - ha avuto una forte ripercussione sull’industria, mostrando allo stesso tempo che una soluzio-

Nel sito sotto accusa, fra il 1967 e il 1978, sono stati stoccati 126mila fusti con scorie radioattive, ufficialmente “in prova”. In realtà definitivamente ne del problema del deposito definitivo di scorie viene bloccato da anni per motivi ideologici.

È dal 1979 che viene cercato un possible sito per il deposito definitivo a Gorleben, località anch’essa in Bassa Sassonia. Lo Stato ed i grandi gruppi dell’energia hanno speso finora in questo progetto circa 1,5 miliardi di euro. I soldi, tuttavia, non sono andati esclusivamente nella ricerca. Gorleben è in gran parte già costruita nel sottosuolo e tutto questo malgrado la mancata

verifica di possibili alternative. Otto anni fa il governo rosso-verde aveva fermato la prosecuzione dei lavori, allo scopo di valutare altre opzioni. Gorleben, come nel caso di Asse, è una formazione di roccia salina. E così gli avversari del nucleare, movimento considerevole, sostengono ora che Gorleben sia ugualmente troppo pericoloso. La questione non è precisamente nei medesimi termini: Asse è una vecchia miniera piena di tunnel e pozzi situati vicino agli strati di roccia freatica; Gorleben invece è un sistema geologicamente compatto mai usato come miniera.

L’argomento si presta fin troppo bene alla campagna elettorale. I socialdemocratici, con il loro ministro dell’Ambiente Gabriel, si presentano come coloro che vogliono fare fronte alle crisi e mettono dunque alla gogna la Merkel e la Cdu, definendolo il partito che serve ciecamente gli interessi dei potenti gruppi energetici. A ciò si aggiunge che due Laender come la Baviera ed il Baden-Wuerttemberg, entrambi governati dall’ Unione, hanno possibili siti alternativi per la salina di Gorleben, ma si oppongono fortemente a un deposito definitivo. «Perchè – si domanda in pubblico il socialdemocratico Gabriel i conservatori vogliono aiutare l’industria nucleare a un comeback ma si difendono dall’ipotesi di collocare in un “loro” Land un deposito definitivo?». Il quesito evidenzia come la discussione segua soprattutto una tattica di partiti. Rimane da ricordare che Asse si trova nel collegio elettorale del ministro dell’Ambiente.

d e l

g i o r n o

Nato, migliorare i piani operativi Riuniti a Londra, i ministri della Difesa dei 26 Stati che fanno parte dell’Alleanza atlantica hanno affrontato i vari problemi logistici della Nato, soprattutto quelli legati alle forze di risposta, Nrf. Questa struttura non è in grado di raggiungere il numero di soldati, 25mila, originariamente previsti per svolgere i propri compiti. Per il ministro della Difesa inglese, Browne, l’Alleanza non ha «le truppe e le capacità di cui avrebbe bisogno», da qui un «gap tra le ambizioni e le reali capacità» della struttura. Un problema, che riguarda soprattutto la logistica delle operazioni in Afghanistan, è «l’insufficiente capacità del trasporto aereo nelle zone operative». Per quanto riguarda l’eventuale ingresso della Georgia nella Nato, il ministro della Difesa Usa, Gates, affermando la necessità di «procedere con attenzione» è sembrato tenere in considerazione le riserve espresse da Francia e Germania allo scorso vertice di Bucarest.

Afghanistan, ferito soldato italiano Un ordigno è esploso al passaggio di un convoglio di militari italiani nell’ovest dell’Afghanistan: il mezzo, un blindato ”Lince” ha retto all’urto e per i soldati non ci sono state gravi conseguenze. solo uno, secondo le prime informazioni, avrebbe riportato delle «escoriazioni e un colpo di frusta».

Corea del Nord, riparte un reattore Hyon Hak Bong, diplomatico nordcoreano ha dichiarato ieri che il suo Paese ha intenzione di rimettere temporaneamente in funzione un reattore del contestato complesso nucleare di Yongbyong. E ha attaccato Washington per le sue dichiarazioni nel cosiddetto gruppo dei Sei. Ovvero che la Corea del Nord non avrebbe nessuna intenzione di portare a termine il programma di smantellamento dei suoi impianti nucleari militari, programma utile alla cancellazione del Paese dalla lista dei cosidetti «Stati canaglia».

Venezuela, Chavez non va criticato Jose Miguel Vivanco, un’attivista per la difesa dei diritti umani in Cile, è stato espulso dal Paese caraibico dopo aver espresso le sue riserve sulla situazione dei diritti umani in Venezuela. Secondo quanto dichiarato dal ministro degli Esteri di Caracas, non è possibile che «stranieri vengano nel nostro Paese per insultare la dignità delle istituzioni venezuelane». Vivanco, direttore per l’America di Human Rights Watch, organizzazione per i diritti umani con sede in New York, in una relazione aveva attaccato la politica di Chavez nei confronti degli avversari del regime.

India, ucciso leader islamista La polizia indiana avrebbe ucciso il capo del gruppo islamista che ha eseguito gli attentati avvenuti nei giorni scorsi a Nuova Dehli. Il fondamentalista Atif, alias Bashir, è stato colpito in una moschea del quartiere musulmano situato nella zona meridionale della capitale indiana situato. L’uomo sarebbe il leader del gruppo islamista “Mujahedin indiani”.

Spagna, partito basco messo fuorilegge La Corte suprema spagnola per la seconda volta in pochi giorni, ha vietato un’altro partito basco a causa dei suoi stretti rapporti con l’organizzazione terroristica Eta. Questa volta a cadere sotto la scure dei giudici è stato il Partito comunista dei Paesi baschi, Pctv, messo fuorilegge con un voto unanime della Corte, che ha anche disposto il suo scioglimento. Il Pctv è rappresentato nel parlamento basco con nove parlamentari. Martedì scorso il massimo organo di giudizio spagnolo, aveva messo fuorilegge un’altra forza politica, l’Azione nazionalista basca, Anv.


mondo

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Il maestoso Palais du Luxembourg, sede della Camera Alta francese e nel riquadro Jean-Pierre Raffarin, che guarda sia alla presidenza del Senato che a quella dell’Ump, vacante dall’elezione di Sarkozy all’Eliseo

Francia. Domani si vota per l’elezione di 114 senatori. In ballo anche la presidenza della Camera Alta

Ump, Raffarin si gioca la leadership di Michele Marchi o sanno i francesi che domenica 21 settembre si voterà per eleggere un terzo dei membri del Senato, la Camera alta della République ospitata nel maestoso Palais du Luxembourg? La domanda è paradossale ma solo fino ad un certo punto. Lo scarso entusiasmo è in parte imputabile al fatto che si tratta di un’elezione indiretta, dato che saranno circa 50mila “grandi elettori” a scegliere i 114 nuovi senatori. Ma che siano elezioni poco attese e poco sentite lo confermano i dati dei sondaggi. Il 74% dei francesi si dichiara scarsamente “toccato” dal voto, la stessa percentuale giudica il Senato “poco moderno”e il 71% reputa la Camera alta addirittura “scarsamente rappresentativa”. Di fronte a questi dati viene da riflettere su quale sia il ruolo del Senato nell’architettura costituzionale della V Repubblica. Dal punto di vista formale il Senato francese partecipa con la Camera bassa, il Palais Bourbon, alla gestione del potere legislativo. In base all’articolo 24 della Costituzione del 1958, il Senato è inoltre la Camera di rappresentanza delle entità territoriali e dei francesi che risiedono all’estero. Come si è già anticipato l’elezione dei senatori è indiretta. Un collegio di cir-

L

ca 150mila “grandi elettori” composto di consiglieri municipali (costituiscono il 95% dell’insieme dei grandi elettori), consiglieri regionali e deputati elegge i senatori. Fino alla riforma del 2003 ogni senatore restava in carica per nove anni e ogni tre anni veniva rinnovato un terzo del Senato. Dopo la riforma la durata del mandato è di sei anni e il rinnovo è di metà ogni tre anni. Fino a qui i poteri formali e la composizione. Per quanto riguarda i poteri effettivi in realtà, in un sistema

seo. Ad oggi la storia francese conta due casi di interim, sempre svolti dal centrista Alain Poher, nel 1969 dopo le improvvise dimissioni di de Gaulle e nel 1974 dopo la morte inattesa di Pompidou.

Proprio guardando alla storia della V Repubblica e in particolare al decennio gollista, il protagonismo del Senato balza agli occhi. Dopo la proposta di elezione diretta del Presidente della Repubblica del 1962, il Palais du Luxembourg si tramuta

Ma la storia mescola le carte e oggi il Senato è saldamente nelle mani dell’Ump, l’erede più prossimo del gollismo che però, con il voto di domenica, potrebbe perdere la maggioranza assoluta. Il Partito socialista, pur lacerato dalle sue divisioni interne in vista del congresso di Reims, dovrebbe infatti incassare gli ottimi risultati delle elezioni regionali del 2004 e cantonali del 2008, guadagnando tra i 10 e i 15 seggi. Un magro bottino se rapportato al quasi totale dominio socialista, con 20 regioni su

I socialisti dovrebbero guadagnare tra i 10 e i 15 seggi. Un magro bottino se rapportato al loro quasi totale dominio territoriale, con 20 regioni su 22, 58 dipartimenti su 98 e la maggioranza dei comuni con più di 30mila abitanti istituzionale che ha fatto della centralità dell’esecutivo il suo fulcro e in un complesso amministrativo che da sempre fa del centralismo burocratico il suo dogma, lo spazio per le Camere è sempre stato esiguo. Il Senato è considerato una Camera di compensazione e di rappresentanza del territorio, in un sistema però in cui la parola “federalismo” è pressoché sconosciuta. L’operato dei senatori occupa le prime pagine dei giornali quasi solo in caso di revisione costituzionale e in caso di vacanza del potere all’Eli-

nel cuore pulsante dell’opposizione alla presidenzializzazione del sistema istituzionale. Lo scontro con il Generale si ripropone nel 1969. De Gaulle, nonostante il parere negativo del Consiglio di Stato, decide di sottoporre a referendum la sua riforma del Senato, che dovrebbe tramutarlo per metà in Camera di rappresentanza territoriale e per metà in luogo di espressione delle entità socioeconomiche del Paese. Il referendum del 27 aprile 1969 sarà fatale al Generale e ne sancirà l’uscita di scena.

22, 58 dipartimenti su 98 e la maggioranza dei comuni con più di 30mila abitanti. Non ha dunque tutti i torti il decadente Hollande quando insiste sulla scarsa rappresentatività dell’elezione indiretta senatoriale. Il découpage elettorale e il mix di proporzionale e maggioritario finiscono per sovrarappresentare i piccoli comuni e i territori rurali. Per questa ragione poco più di un terzo della popolazione sceglie il 53% dei “grandi elettori”. Dopo il voto di domenica si tornerà a parlare del ruolo del Se-

nato, in vista anche del rinnovo della metà dei suoi membri del 2011. Tra tre anni un rovesciamento degli equilibri a favore dei socialisti potrebbe bloccare parte dell’attività legislativa nell’ultima parte di mandato presidenziale di Sarkozy. Al momento uno dei problemi più spinosi per quella che dovrebbe essere la maggioranza, anche se solo relativa, dell’Ump sarà l’elezione del nuovo Presidente. Tra i candidati (che si affronteranno in una primaria il 24 settembre) il testa a testa dovrebbe svolgersi tra l’ex ministro del Lavoro Larcher e l’ex Primo ministro Raffarin. Come spesso accade per la Camera alta, abbondano gli ex ministri o i deputati “delusi” dalla mancata elezione al Palais Bourbon. Chiunque diverrà Presidente del Senato non potrà esimersi dal fornire risposte ad altre tendenze registrate nell’opinione pubblica transalpina. Se il 61% dei cittadini afferma di sentire il bisogno di una Camera alta forte e partecipe del percorso di formazione delle leggi, solo un cittadino su quattro è convinto che l’attuale Senato sia in grado di svolgere questo ruolo. Da domenica sera, insomma, il Senato difficilmente potrà limitarsi ad essere il “rifugio dorato dei bocciati dal suffragio universale”.


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Una recente polemica sull’Osservatore romano rimette in discussione il criterio della morte cerebrale lessandro Nanni Costa è direttore del Centro Nazionale Trapianti. Con lui liberal ragiona sul problema della morte cerebrale, su quella sottile linea dove finisce la vita e comincia la morte. Un tema riaperto da settimane da un dibattito nato sulle colonne dell’Osservatore romano. Quando una persone può definirsi morta professore? Uno dei punti dell’attuale normativa italiana – non era così nella normativa precedente – è che la morte è fatta coincidere con l’accertamento della morte encefalica e che tale definizione è assolutamente sganciata dal problema dei trapianti. È, questo, un fatto importantissimo, non sufficientemente evidenziato nel dibattito di questi giorni. Io ritengo che il tema centrale sia definire il criterio di morte. La donazione è un aspetto importante, ma assolutamente eventuale e successivo. Che impressione ha avuto, in quanto medico, cattolico e responsabile dell’attività dei trapianti in Italia, leggendo quanto ha scritto Lucetta Scaraffia? La prima necessità che ho provato è stata quella di capire se fosse cambiato atteggiamento da parte del Magistero della Chiesa: le prese di posizione sono arrivate subito e questo mi ha confortato. La Chiesa si è confrontata in modo approfondito e ripetutamente su questa materia - basti pensare alle dichiarazioni della Pontificia Accademia delle Scienze o alle posizioni esplicite assunte sia da Giovanni Paolo II che da Benedetto XVI - non rinnegando affatto la scienza, come alcuni sostengono, ma riscontrando l’assenza di contrasti tra questa e una corretta visione personalistica dell’uomo. La debolezza di quanto si è letto sulla morte cerebrale, è proprio di carattere scientifico. Infatti, le argomentazioni portate nei due libri che sono stati presi in considerazione sono di carattere filosofico. I metodi per affrontare la questione di cui ci stiamo occupando, invece, devono essere quelli propri della comunità scientifica. Dal punto di vista scientifico, quali sono i criteri che definiscono la morte? La definizione riconosciuta dalla comunità scientifica internazionale e dalle legislazioni di tutti i Paesi culturalmente avanzati è quella della dichia-

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razione di Harvard del 1968. La dichiarazione riconosce nel cervello l’origine di tutti i processi vitali: il respiro, il battito cardiaco, la termoregolazione, la fame, la sete. Quando le cellule cerebrali che sovraintendono a tutte queste funzioni sono totalmente e irrimediabilmente danneggiate, la conseguenza è la morte del paziente. La morte si identifica, quindi, con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo. Le conoscenze acquisite in questi anni - che hanno progressivamente affinato le tecniche e gli strumenti di rianimazione e di accertamento di morte - hanno confermato l’inadeguatezza della definizione di morte intesa come arresto della funzione cardio-respiratoria ma hanno altresì confermato che la cessazione delle funzioni vitali generate dalla distruzione totale delle cellule cerebrali rimane uno stato irreversibile, irreparabile e definitivo che coincide con la morte della persona. In tal caso, infatti, il cervello non solo è danneggiato sul piano della funzionalità, ma anche su quello anatomico perché le cellule morte cominciano a decomporsi e gli enzimi che si liberano, conseguenza di questa decomposizione, aggrediscono e demoliscono le altre cellule innescando un meccanismo inarrestabile. Che cosa avviene in Italia? La morte encefalica, definita nella dichiarazione di Harvard, è recepita dalla legge 578/1993, che prevede che nessun medico possa, da solo, effettuare una diagnosi di morte cerebrale: la dichiarazione di morte può essere effettuata da una commissione di tre specialisti solo dopo un periodo di osservazione di almeno sei ore, mirato ad accertare, con scrupolosi esami clinici e strumentali ripetuti diverse volte, la permanenza delle condizioni di morte. Se in questo arco di tempo, una sola delle prove cliniche o strumentali dovesse modificarsi, se dovesse cioè comparire anche uno solo dei riflessi vitali di natura encefalica, l’accertamento non potrebbe proseguire e di conseguenza non sarebbe possibile dichiarare e certificare il decesso del paziente. Data la rigorosità delle metodiche adottate in questa procedura, possiamo affermare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che essa non è suscettibile di errori. Che cosa ritiene non sia corretto nella posizione espressa dalla Scaraffia?

QUANDO FINISC di Ernesto Capocci

Nell’articolo, vengono genericamente citate, come determinanti ai fini della confutazione dei criteri di definizione di morte, nuove ricerche e nuove acquisizione scientifiche non contenute in articoli scientifici internazionali o affermate da modalità adottate dalle comunità scientifiche; ci si limita alla citazione di un singolo caso, descritto in uno dei libri recensiti. Inoltre, è assolutamente fuorviante affermare un legame tra l’accertamento di morte e l’attività di prelievo degli organi. È solo successivamente all’accerta-

trettanto comprovati. Quali sono, a suo parere, le ragioni vere per le quali è stata aperta in questo modo questa discussione? La morte rappresenta un fatto biologico di cui, da un punto di vista scientifico si conoscono tutti gli aspetti e i processi. Tuttavia, la paura della morte, la “faticosità” della sua definizione, è uno dei punti che ha sempre interessato l’uomo. Questa è una delle ragioni. C’è, poi, nel nostro Paese, una discussione aperta da tempo sulle tematiche che riguardano il finis vi-

Ogni confronto sulla finis vitae non può porsi oltre le evidenze scientifiche mento e alla certificazione di morte, di fronte ad una manifestazione di volontà che acconsente al prelievo, espressa in vita dal soggetto, o attraverso la non opposizione dei familiari, che il cadavere può essere candidato al prelievo degli organi a scopo di trapianto. Ogni legittima considerazione o confronto sul piano etico, giuridico o filosofico, attinente le questioni del finis vitae non può porsi oltre le suddette evidenze scientifiche, né modificarle se non con l’apporto di riscontri scientifici al-

tae; tra queste, anche la necessità di dare una definizione del problema relativo alla vicenda di Eluana Englaro, che finisce con il rendere molto sensibili tutti gli aspetti in qualche modo connessi. Ma è proprio qui che occorre distinguere. Nel momento in cui dico che le cellule celebrali della Englaro sono funzionanti, dico qualcosa che non rientra nel modo più assoluto nei criteri contenuti nel rapporto Harvard e credo che il problema dello stato vegetativo persistente – è il caso in cui si

trova Eluana – vada affrontato proprio avvalendosi dei criteri di Harvard, in base ai quali diciamo che essa è viva. Al contrario, se capisco bene. Esattamente. Lo stato vegetativo persistente è decisamente lontano dai criteri di Harvard. Anche qui si deve utilizzare il criterio scientifico dell’osservazione. È un problema legato alla valutazione degli spazi di sofferenza, ma un conto è parlare di sofferenza neurologica, un conto è parlare di morte. Dal punto di vista scientifico, qual è la differenza tra stato di coma, ”stato vegetativo persistente” e morte cerebrale? Il coma è una condizione clinica complessa, derivante da un’alterazione del regolare funzionamento del cervello con compromissione dello stato di coscienza. Nel coma, anche nei casi più gravi, le cellule cerebrali sono vive ed emettono un segnale elettrico rilevabile attraverso l’elettroencefalogramma o altre metodiche. Il coma comprende più stadi di diversa gravità, incluso lo stato vegetativo persistente, ma è comunque una situazione dinamica, che può variare sia in senso regressivo, sia in senso progressivo. In questi casi, tuttavia, siamo in presenza di pazienti vivi, sui quali si deve attuare qualsiasi presidio terapeutico che


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Ogni giorno ci sono dieci morti in Europa per penuria di organi

Trapianti, un sistema che non funziona P

CE LA VITA? sia in grado di curarli. Nello stato vegetativo persistente (spesso confuso con la morte cerebrale), le cellule cerebrali sono vive e mandano segnali elettrici evidenziati in modo chiaro dall’elettroencefalogramma, mentre nella morte encefalica le cellule cerebrali sono morte, non mandano segnale elettrico e l’elettroencefalogramma risulta piatto. Sul piano clinico, nello stato vegetativo persistente il paziente può respirare in modo autonomo; mantiene una vitalità circolatoria, respiratoria e metabolica e un controllo delle cosiddette funzioni vegetative. Nella morte encefalica, il soggetto ha perso in modo irreversibile la capacità di respirare e tutte le funzioni encefaliche e non ha controllo sulle funzioni vegetative. Come giudica la situazione dei trapianti nel nostro paese? Come tutti i paesi evoluti, l’Italia soffre di una carenza di donazioni. La trapiantologia utilizza un bene pubblico, che sono gli organi donati. Deve avere un grande rispetto del bene, deve garantire la trasparenza delle regole della donazione, quella dei risultati e l’umanizzazione delle procedure. In Italia è stata creata una rete nazionale che assicura questo e altrettanto avviene per il trapianto di tessuti. Nell’aprile scorso, il Parlamento europeo ha denunciato il fabbisogno di al-

meno 60.000 organi da trapiantare in tutt’Europa. E’ una cifra enorme. Come la spiega? C’è la necessità di fare delle campagne informative ed individuare strategie comuni. Noi collaboriamo molto con altri paesi a livello internazionale. C’è un fine etico di chi lavora per i trapianti, che consiste nella cura dei pazienti e ha come presupposto l’assoluta distinzione tra il momento della morte, accertata con criteri scrupolosi e condivisi, e l’eventualità che da questa ne derivi la donazione degli organi. La morte sarebbe definita e accertata allo stesso modo anche se, per assurdo, da domani, i trapianti fossero vietati. Sul traffico di organi umani ai fini della necessità del reperimento di organi, che opinione si è fatto? Per quanto riguarda l’ipotesi di persone uccise per il prelievo, posso dire con certezza che questo fatto non esiste in nessun paese europeo. Il traffico dei reni, invece, da soggetto vivo a soggetto vivo, in entrambi i casi soggetti “deboli”– uno che ha necessità di curarsi, l’altro che lo fa per una ricompensa – esiste, non dall’Italia, ma da altri paesi verso i paesi poveri. Per contrastare questo gravissimo e inaccettabile fenomeno, occorre che la comunità internazionale prendere delle posizioni di denuncia sempre più forti .

iù di 60.000 pazienti in Europa sono attualmente in attesa di un trapianto e dieci muoiono ogni giorno a causa della penuria di organi. Lo afferma una risoluzione del Parlamento europeo del 22 aprile 2008. Il Parlamento europeo chiede un piano d’azione che rafforzi la cooperazione tra gli Stati membri al fine di aumentare la disponibilità di organi, potenziare l’accessibilità dei sistemi di trapianto, sensibilizzare l’opinione pubblica e garantire qualità e sicurezza. Secondo la Risoluzione, dovrebbero essere creati dei registri nazionali di controllo dei donatori viventi e delle disposizioni giuridiche rigorose dovrebbero essere introdotte in relazione ai “trapianti da donatori viventi”, per escludere ogni possibilità di vendita illecita di organi, di coercizione di donatori e di pagamento tra donatori e riceventi. Il parlamento europeo ritiene che traffico, commercializzazione e turismo dei trapianti “siano in rapido sviluppo” e che “vi sia un legame tra penuria di organi e traffico” e sottolinea come sia “necessario disporre di ulteriori dati sul traffico di organi”. Mette in evidenza che esiste un legame tra la penuria di organi e il loro traffico, dato che quest’ultimo compromette la credibilità del sistema per potenziali donatori volontari e non retribuiti; sottolinea che qualsiasi sfruttamento commerciale di organi non è etico ed è contrario ai valori umani fondamentali e che la donazione di organi dettata da considerazioni di carattere finanziario degrada il dono dell’organo a semplice merce di scambio, il che costituisce una violazione della dignità umana e viola l’art. 21 della Convenzione sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina ed è proibito ai sensi dell’art. 3, par. 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Invita la Commissione a lottare, nel caso dei paesi terzi, contro il traffico di organi e di tessuti, che dovrebbe essere oggetto di un divieto universale, in cui rientra il trapianto di organi e di tessuti prelevati da minorenni, da disabili mentali o da prigionieri giustiziati; chiede alla Commissione e agli Stati membri di sensibilizzare la comunità internazionale su tale questione. Ritiene che, per combattere il traffico di organi nelle parti più povere del mondo, sia necessario adottare una strategia a lungo termine,

finalizzata ad abolire le disuguaglianze sociali che sono alla radice di tali pratiche; sottolinea che, per poter combattere la pratica della vendita di organi in cambio di soldi (specialmente nei paesi in via di sviluppo), occorre predisporre meccanismi di tracciabilità, al fine di impedire che questi organi entrino nell’Unione europea. Invita la Commissione e gli Stati membri ad adottare misure per prevenire il “turismo di trapianti”, elaborando orientamenti volti a proteggere i donatori più poveri e vulnerabili contro il rischio di essere vittime del traffico di organi e adottando misure che accrescano la disponibilità di organi ottenuti in modo legale e mediante lo scambio di registrazioni di liste di attesa fra le organizzazioni per lo scambio di organi per evitare iscrizioni multiple alle liste. Invita la Commissione a promuovere, attraverso il settore della giustizia, della libertà e della sicurezza, un approccio comune volto a redigere informazioni sulla legislazione nazionale in materia di traffico di organi e ad individuare i principali problemi e le possibili soluzioni; rileva, a tal fine, che occorre stabilire un sistema di tracciabilità e responsabilità per il materiale umano. Chiede agli Stati membri di effettuare i passi necessari per vietare ai “professionisti della sanità” di agevolare il traffico di organi e tessuti (ad esempio, indirizzando pazienti a un servizio di trapianti estero che si sappia essere coinvolto in un traffico) ed esorta i fornitori di assicurazioni sulla salute a facilitare attività che promuovano direttamente o indirettamente il traffico connesso al trapianto di organi, per esempio rimborsando i costi sostenuti per ottenere un trapianto illegale. Ritiene che gli Stati membri debbano assicurare la formazione delle proprie autorità preposte all’applicazione della legge e quella del personale medico in materia di traffico di organi, affinché sia denunciato alla polizia qualsiasi caso noto. Chiede agli Stati membri di firmare, ratificare e dare attuazione alla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la tratta di esseri umani e al “Protocollo di Palermo”.

Esiste un legame tra la mancanza di organi e il loro traffico, che scoraggia i donatori volontari


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Per la ricercatrice di bioetica persone come Eluana sono individui che meritano da parte della società l’attenzione che si deve ai soggetti più deboli

C’è bisogno di una scienza libera dalle sudditanze colloquio con Maria Casini di Ernesto Capocci arina Casini è ricercatrice presso l’Istituto di Bioetica della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma. Nella sua attività didattica e di ricerca si occupa della dimensione giuridico-legislativa della bioetica e dei profili bioetici della deontologia professionale in ambito sanitario. È autrice e coautrice di numerose pubblicazioni in tema di biodiritto. I principi fissati dal Rapporto di Harvard, devono, a suo avviso, essere rivisti? Non risultano né nella letteratura medico-scientifica né in sede di consensus conference, comprovate evidenze scientifiche che mettano in discussione le conclusioni raggiunte dal Rapporto di Harvard. Poiché la questione dell’accertamento della morte è una questione scientifica, non ci sono, dunque, seri e argomentati motivi per rivedere i ”principi di Harvard”.Tra l’altro, il criterio neurologico di accertamento della morte, intesa come cessazione totale e irreversibile di tutte le funzioni dell’intero encefalo, è accolto dalla comunità scientifica internazionale e recepito in numerose legislazioni, compresa quella italiana del 1993, recentemente integrata dal decreto dell’11 aprile 2008 che ha reso ancor più rigorose e precise le metodiche di accertamento della morte. Nell’articolo sull’Osservatore Romano, Lucetta Scaraffia sostiene: «che la nuova definizione di morte, più che da un reale avanzamento scientifico, fosse stata motivata dall’interesse, cioè dalla necessità di organi da trapiantare». Qual è il suo punto di vista su quest’affermazione? Che possano esservi istanze

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utilitariste anche in ambito scientifico è una realtà. La scienza, purtroppo, come sappiamo anche per le trascorse tragiche esperienze storiche, può essere asservita ad interessi economici, di prestigio professionale o a ideologie che negano il valore dell’uomo, perché ha delle caratteristiche piuttosto che altre o perché si trova in uno stadio della vita piuttosto che in un altro. Basti ricordare il Rapporto Warnock, in cui per un verso si riconosce scientificamente l’inizio della vita umana nella fecondazione e per l’altro si posticipa - sulla base di un accordo pragmatico volto a autorizzare la speri-

e irreversibile tutte le funzioni dell’intero encefalo non equivale affatto a identificare la persona con il suo cervello! Il cervello viene in causa in quanto garantisce il funzionamento coordinato e unitario del corpo e delle sue funzioni; organizza le varie parti del corpo in un tutto unitario e coordinato. Esso svolge la funzione di «principio unificatore» nello stesso modo in cui il genoma unifica e coordina lo sviluppo dell’embrione umano prima della formazione del cervello. La morte dell’intero encefalo, dunque, implica il dissolvimento dell’unitarietà coordinata del corpo e delle sue funzioni. Poi,

La morte arriva quando cessa in modo totale la funzione dell’intero encefalo mentazione sugli embrioni - il rispetto dell’embrione umano al 14° giorno dalla fecondazione. Detto questo, va anche aggiunto che la scienza è un potente strumento di conoscenza e di promozione dell’uomo. Si dice, anche: «Ma la messa in dubbio dei criteri di Harvard apre altri problemi bioetici per i cattolici: l’idea che la persona umana cessi di esistere quando il cervello non funziona più, mentre il suo organismo - grazie alla respirazione artificiale è mantenuto in vita, comporta una identificazione della persona con le sole attività cerebrali, e questo entra in contraddizione con il concetto di persona secondo la dottrina cattolica, e quindi con le direttive della Chiesa nei confronti dei casi di coma persistente». Che cosa pensa di questo? Dire che la persona muore quando cessano in modo totale

a seconda della maggiore o minore resistenza alla carenza di ossigeno, una volta persa l’uniterietà organismica e funzionale, vi sono parti del corpo che vanno in necrosi più lentamente. Tanto è vero che, come si sa, nel cadavere per un certo lasso di tempo continuano a crescere unghie, capelli e barba. A questo punto dovrebbe essere chiaro che non c’è affatto contrasto con la visione personalistica dell’essere umano abbracciata dalla Chiesa Cattolica, la quale non ha mai smentito quanto affermato nella dichiarazione del 21 ottobre 1985: «Una persona è morta quando ha subito una perdita irreversibile di ogni capacità di integrare e coordinare le funzioni fisiche e mentali del corpo». Le persone in stato vegetativo come Eluana o in “coma” sono persone vive che hanno subito una compromissione della zo-

na corticale del cervello e che per questo si trovano in una condizione di gravissima disabilità. Esse, dunque, meritano da parte della società l’attenzione che si deve ai soggetti più deboli e svantaggiati. È una questione di solidarietà umana. La Scaraffia riprende quanto sulla questione afferma Becchi, in un suo libro: “L’errore, sempre più evidente, è stato quello di aver voluto risolvere un problema etico-giuridico con una presunta definizione scientifica”, mentre il nodo dei trapianti “non si risolve con una definizione medico-scientifica della morte”, ma attraverso l’elaborazione di “criteri eticamente e giuridicamente sostenibili e condivisibili”. Lei pensa che i criteri attualmente in vigore siano tali? In realtà il problema dell’accertamento della morte è medicoscientifico e non etico-giuridico. Quando sopraggiunge la morte e come accertarla è compito degli scienziati; non dei moralisti, degli storici, dei filosofi o dei giuristi. La questione è analoga a quella dell’inizio della vita umana. Non siamo nel campo dell’opinabile, ma in quello dell’evidenza scientifica. Il compito del diritto, per esempio, non è quello di dire quando inizia l’essere umano e quando finisce, ma di recepire nella sfera giuridica il dato proveniente dalla comunità scientifica e applicare le istanze più significative della modernità: il principio di uguaglianza sulla base del riconoscimento della dignità inerente ad ogni essere umano e il conseguente principio di solidarietà. Questo vale anche per i trapianti. Il “nodo dei trapianti”, riguarda il rigoroso accertamento della morte, il consenso alla donazione, la tutela dell’identità del ricevente o della sua discendenza. Since-

ramente mi pare che i criteri assunti fino ad oggi siano già largamente condivisi sia dal punto di vista etico sia dal punto di vista giuridico. Alcuni, forse, intendono mettere in discussione l’intera questione dei trapianti. Il suo punto di vista, da giurista e da cattolica, qual è? La donazione di tessuti ed organi dopo la morte risponde alle istanze della solidarietà umana presenti nell’etica e nel diritto e mira a tutelare la vita e la salute delle persone. Ciò che va contrastato non è la chirurgia dei trapianti in sé, ma la logica commerciale e, peggio ancora, la strumentalizzazione – talvolta orribile – delle persone al fine di ottenere organi e tessuti. Il fine non giustifica i mezzi. È del 22 aprile 2008, una Risoluzione del Parlamento europeo, che denuncia il fatto che più di 60.000 pazienti in Europa sono attualmente in attesa di un trapianto e 10 muoiono ogni giorno a causa della penuria di organi. Che ne pensa? Effettivamente c’è ancora molto da fare per sensibilizzare l’opinione pubblica nei confronti di un’autentica etica dei trapianti. Prima di tutto, però, un’intensa opera di sensibilizzazione va compiuta a tutti i livelli affinché sia riconosciuta l’uguale dignità di ogni essere umano dal concepimento alla morte. Tutto parte da qui. Se è vero che la logica dei trapianti si fonda sulla solidarietà, sulla tutela della vita e sulla tutela della salute, è anche vero che questo è il fondamento di ogni società che voglia essere costituita da persone in relazione e non da individui posti uno accanto all’altro senza legami reciproci. La strada è lunga e faticosa, ma affascinante. L’importante è muovere i passi in questa direzione.


creato

20 settembre 2008 • pagina 15

Parla Laura Palazzani, vicepresidente del Comitato nazionale di bioetica: il ”rapporto Harvard” non può essere recepito senza spirito critico

Se la mente si spegne l’esistenza continua O

rdinario di Filosofia del Diritto alla Lumsa (Libera Università Maria SS. Assunta) di Roma, Laura Palazzani, vicepresidente del Comitato nazionale di bioetica, ha fatto parte di commissioni di studio presso la Pontificia Accademia per la Vita ed è membro del consiglio esecutivo dell’Associazione Scienza e Vita. I principi fissati dal rapporto Harvard del 1968, che riconosce nel cervello l’origine di tutti i processi vitali, devono, a suo avviso, essere rivisti? La possibilità tecnologica di sostituire il battito del cuore e il respiro, ha costretto a rivederne la definizione di morte come arresto cardio-circolatorio. L’introduzione del criterio neurologico (nel Rapporto Harvard), ha aperto la strada alla definizione di “morte cerebrale totale”, quale cessazione senza ritorno delle funzioni del cervello, organo che coordina le funzioni dell’organismo come un tutto. Si tratta di un criterio scientifico di morte che è stato accolto sul piano filosofico ed è divenuto legge in quasi tutti i Paesi del mondo. Mi sembra un criterio convincente nella misura in cui offre criteri empirici per accertare che l’essere umano in quel momento cessa di esistere come organismo. Ciò non

significa che non si debba tenere conto e analizzare criticamente anche la tesi di chi mette in dubbio tale definizione. Il Comitato nazionale di bioetica quale posizione ha assunto sul tema? Proprio il primo parere che è stato scritto dal Cnb si intitola «Definizione e accertamento della morte nell’uomo» (1991) e identifica la morte con la «perdita totale e irreversibile della capacità dell’organismo di mantenere autonomamente la propria unità funzionale». Può spiegare la distinzione tra morte cerebrale e stato vegetativo persistente? L’individuo in coma è ancora vivo: il sangue circola e il respiro è spontaneo, man-

ca la capacità di coscienza a causa di lesioni alla corteccia cerebrale. È detta “morte corticale”ossia “morte della mente”: ma non è “morte dell’organismo”come un tutto. Come giudica la situazione dei trapianti nel nostro paese? Agli enormi passi avanti della trapiantologia purtroppo non corrisponde una disponibilità sufficiente di organi da trapiantare. La scarsità di organi costituisce un grave problema sociale che potrebbe essere superato solo con un aumento delle donazioni e con la possibilità, speriamo nel futuro, di costruire organi bioartificiali. Il Parlamento europeo ha denunciato, nell’aprile scorso, la mancan-

za di oltre 60mila organi per persone che sono in lista d’attesa. Di queste, per insufficienza di organi disponibili, ne muoiono dieci al giorno. A che cosa si deve, secondo Lei, questa situazione? Forse alla rimozione della morte (quando si è vivi non si vuole pensare alla morte e sottoscrivere la donazione di organi), ma forse anche ai timori psicologicamente comprensibili nei confronti della definizione di morte cerebrale. Un individuo cerebralmente morto è mantenuto in vita artificialmente da macchine: sembra vivo, ma non lo è. È una vita “ad ogni costo”: una specie di “accanimento terapeutico” giustificabile solo in vista della conservazione degli organi per i trapianti. Giustificabile solo per il fatto che rappresenta un grande gesto di solidarietà sociale. A Suo parere, la posizione del Magistero della Chiesa sul tema dei trapianti, è chiara? Il Magistero della Chiesa si è espresso sulla donazione di organi da vivente e da cadavere, richiamandosi al concetto di morte cerebrale totale e sollecitando alla donazione altruistica.

Pier Luigi Gili, neurologo componente del Consiglio esecutivo di Scienza e vita, giudica inopportuno l’intervento della Scaraffia sulla morte cerebrale

In medicina le idee si cambiano su dati scientifici G ian Luigi Gigli è Direttore di neurologia dell’azienda ospedaliera di Udine, nonché direttore della struttura operativa complessa neurologia-neurofisiopatologia di S. Maria della misericordia nella stessa città, e anche professore a contratto di neurofisiologia clinica all’Università di Udine. Già presidente della federazione mondiale medici cattolici, è stato membro del Consiglio superiore di sanità. È componente del Consiglio esecutivo dell’associazione scienza e vita. È membro del Pontificio consiglio per la pastorale della salute e della pontificia accademia per la vita. Qual è la sua valutazione, da medico e da cattolico, degli argomenti richiamati da Lucetta Scaraffia sulla “morte cerebrale”? Gli argomenti usati non mi hanno particolarmente impressionato. Sono argomenti che la Scaraffia attualizza, a partire da una recente raccolta di articoli finanziata dal Cnr, ma si tratta posizioni note da tempo, scientificamente datate. Alcune delle persone che le esprimono sono anche membri della Pontificia accademia per la vita. Il mio stupore è derivato piuttosto dalla scelta dello strumento usato per riproporre questi argomenti: si è usato, infatti, un organo di stampa molto autorevole e le cose dette hanno fatto il giro del mondo, destando la preoccupazione di

molti medici e pazienti. A suo parere, il dibattito è opportuno su questo tema? Se rimanessimo nel campo del dibattito, non vi sarebbe alcun tipo di problema. Ma se il dibattito che si inizia ha l’obiettivo di cambiare le posizioni, queste possono essere cambiate solo se si è in presenza di dati di fatto realmente nuovi. Infatti, un dato di fatto consolidato in ambito medico si muta se ci sono nuovi dati altrettanto solidi dal punto di vista medico-scientifico,

La Chiesa ha giocato un ruolo positivo nei trapianti sufficienti a mettere in dubbio le tesi precedenti. Va anche sottolineato che, dal punto di vista etico, la Chiesa non stabilisce quando si muore. Ne prende atto. La Chiesa chiede ai medici di constatare la morte e ciò sia dal punto di vista bioetico che per i risvolti liturgici e pastorali. È diffusa questa posizione che vuole mettere in dubbio i criteri

di Harvard? Più che di una posizione diffusa, si tratta di un gruppo di opinione che opera da anni molto tenacemente, anche all’interno della Pontificia accademia per la vita. Si è anche cercato di portare Giovanni Paolo II su posizioni diverse da quelle tradizionalmente espresse. Le persone che manifestano questi argomenti, rispettabilissime peraltro, si trovano a disagio su quella che chiamano “predazione”degli organi e fin qui siamo nell’ambito del dibattito lecito. La cosa oscena, però, è che recentemente hanno invocato a sostegno della loro posizione un articolo apparso a firma di un noto bioeticista di Harvard, Robert Truog - che alcuni anni fa aveva proposto di fare l’espianto anche ai pazienti in stato vegetativo - il quale sostiene che la morte cerebrale non esiste e che sarebbe necessario basarsi sull’autodeterminazione del paziente o su chi esprime il consenso per conto di lui. In altri termini, secondo Truog, se un soggetto dicesse “autorizzo l’espianto degli organi”o chi per lui lo dicesse, non ci sarebbe bisogno di attendere la morte. Che questa posizione sia ora strumentalizzata è pretestuoso ed è anche pericoloso, perché se non esiste un fatto certo che definisca la morte - e la morte cerebrale è un fatto preciso - allora il criterio su cui si fonderà la medicina dei trapianti sarà basato su rilievi poco so-

lidi, tali da permettere ad un certo tipo di cultura in ambito bioetico di fare tutto ciò che vuole. Se si mette in crisi l’unico dato certo che abbiamo, si devono portare argomenti solidi; se questi non ci sono, si crea una palude e rischiamo di portare acqua al mulino di coloro che vogliono considerare l’essere umano a disposizione, riducendolo ad un valore puramente strumentale. Come giudica la situazione dei trapianti nel nostro paese? La medicina dei trapianti è estremamente sviluppata, ma non riesce a dare risposte per colmare la domanda. Negli anni si è sensibilizzata l’opinione pubblica sul dato di sicurezza della morte cerebrale, sull’indipendenza di giudizio di chi deve stabilire la morte cerebrale. Nel corso degli anni, l’opinione pubblica, che soprattutto al sud, era contraria ai trapianti, ha guardato con maggior favore ai trapianti d’organo ed un ruolo positivo a tale riguardo l’ha giocato proprio la Chiesa, nell’ambito dell’educazione alla carità. Se ora ci fosse una revisione della posizione della Chiesa non sostenuta da dati di fatto, ci sarebbe un impatto negativo formidabile sulla reperibilità degli organi. Chi può assumersene la responsabilità senza dati incontrovertibili, capaci di contraddire senza ombra di dubbio quanto universalmente ritenuto vero?


pagina 16 • 20 settembre 2008

il ritratto

Parla Benny Lai, il biografo del cardinal Giuseppe Siri, il Gran curiale che fin da giovane ”aveva studiato da Pontefice”

Il confessorelaico del Vaticano di Francesco Rositano ra primavera, camminavo sotto il colonnato di Piazza San Pietro. C’era un venticello a Roma che si divertiva a giocare con la lunga barba di un uomo accasciato sulla base quadrata di una delle colonne: sembrava un frate cappuccino. Incuriosito da questo esile uomo, mi avvicinai a lui e gli dissi la frase che si usa dire con i conventuali: ”Pace e bene”. Lui mi rispose ”pace e bene”, poi cominciammo a parlare».

«E

Con queste pa-

vita: quella con padre Ramaso, il sacerdote che gli presentò cardinal Giuseppe Siri, per quaruntuno anni arcivescovo di Genova: il porporato che in quattro Conclavi consecutivi sfiorò l’elezione al soglio di Pietro. Benny Lai è il più profondo conoscitore di colui che egli stesso ha definito ”il Papa mancato”: ha pubblicato diversi volumi e approfondito diversi aspetti. E in particolare nell’ultimo libro Giuseppe Siri. Le parole e le immagini, scritto a quattro mani con Annamaria Schiavo, ne ricostruisce il profilo umano. «Non era ieratico e duro come sembrava. Era un conservatore, ma anche questo aspetto va chiarito: il cardinal Siri non era

Avrei custodito le sue confidenze. In cambio Siri mi ha raccontato la sua storia e i segreti di quattro Conclavi

role, Benny Lai, decano dei vaticanisti (la sua tessera di accredito in Sala Stampa della Santa Sede è del 1951), racconta a liberal l’incontro che gli ha cambiato la

un conservatore in senso classico. Ma semplicemente un conservatore dal punto di vista conciliare: era un difensore della tradizione all’interno della Chiesa e si opponeva ad interpretare il Concilio come una grande apertura alla modernità. D’altra parte, sotto questo aspetto si comportava esattamente come l’attuale Pontefice: Benedetto XVI». Benny Lai ha capito benissimo che i tempi per una rivalutazione della figura dell’arcivescovo di Genova sono maturi. «Oggi - prosegue - tutta l’ostilità che c’era nei suoi confronti è cessata. Ecco perché si sta battendo non solo per mettere in discussione una visione stereotipata della sua figura (quella del papa ieratico e conservatore), ma anche per far partire il processo di beatificazione di quello che fu il ”delfino” di Pio XII. «La scorsa settimana - prosegue - a Genova ho lanciato quest’idea, proponendo di presentare tutta la documentazione che lo riguarda al tribunale diocesano e avviare in questo modo la prima fase del processo che parte proprio da questo primo passo. Mi sono voluto muovere personalmente

perché ho visto molta timidezza sul tema. Invece penso che ci siano gli elementi per avviare una causa. Poi sappiamo benissimo che queste cause hanno tempi lunghissimi e non è detto che abbia un esito positivo. Ma a me interessava dimostrare che c’erano gli estremi canonici per aprirla. Naturalmente vorrei dire che non basta aver

Nel 1978 doveva essere eletto al posto di Wojtyla

La storia di un Papa mancato di Francesco Capozza

compiuto un miracolo, ma è necessaria una dichiarazione dell’eroismo delle virtù».

Insomma per Benny Lai questa non è una battaglia di tipo religioso, ma di tipo civile: quasi a voler dire che allo stesso modo in cui la figura del cardinal Siri aveva bisogno di essere approfondita al di là dei pregiudizi,

Giuseppe Siri, il Papa non eletto, questo il titolo di uno dei più noti libri di Benny Lai, decano dei vaticanisti. Potrebbe sembrare semplicemente la ripresa di quel noto adagio, secondo il quale chi entra Papa in conclave ne esce cardinale, che spesso viene citato per dire che nella storia della Chiesa il più delle volte i grandi favoriti alla vigilia di un’elezione papale quasi sempre non sono stati eletti. Su Giuseppe Siri, invece, l’appellativo di “papa non eletto” si adatta particolarmente. La sua carriera fu talmente fulminea e la sua importanza nel Collegio cardinalizio fu tale da aver sfiorato per ben quattro volte l’elezione al supremo pontificato. In particolare, nel secondo dei conclavi del 1978 (quello che portò all’elezione di Karol Wojtyla) sembra ormai certo che Siri abbia mancato l’elezione per un pugno di voti. Chi fu Giuseppe Siri? E come mai uno storico di cose vaticane come Benny Lai ha passato oltre metà della sua lunga carriera di giornalista a studiarne la personalità, il pensiero e a raccoglierne le testimonianze in numerosi colloqui?


il ritratto

20 settembre 2008 • pagina 17

In primo piano, il cardinal Giuseppe Siri, arcivescovo di Genova, benedice la stazione televisiva di Portofino Vetta. Era il 2 gennaio ’54. Qui sotto, uno dei numerosi libri di Benny Lai. Nel box in basso, Pio XII (a destra). Nel lato sinistro del box, invece, l’immagine di un Conclave

anche nel campo cosiddetto soprannaturale ci sono molte cose che vanno comprese. E questo cronista che per anni ha custodito in silenzio i segreti che il porporato affidava prima al suo taccuino poi al suo registratore lo sa bene. «Io e Siri avevamo fatto un patto: io avrei conservato il segreto sul contenuto delle nostre conversazioni, lui avrebbe

parlato in libertà. Ad entrambi questo andava bene: io non volevo essere ”intruppato” tra i suoi uomini, lui aveva bisogno di una persona che serbasse il segreto». Lai ha rispettato i fatti: sino alla morte del porporato non ha detto una parola. Poi nello stupore generale ha pubblicato il primo dei suoi libri sulla sua figura. «Io sono un laico, e se ho

Nato nel 1906 a Genova, la carriera di Siri fu fulminea: rettore del Collegio teologico cittadino a soli 30 anni e vescovo ausiliare della diocesi a 38. Alla morte dell’arcivescovo di Genova - il cardinale Boetto - avvenuta nel 1946, Giuseppe Siri fu nominato suo successore per volontà di Pio XII. Proprio papa Pacelli aveva posato già da tempo il suo sguardo su quel giovane e promettente prelato e spesso lo invitava a venire a Roma per consultarsi con lui. Giuseppe Siri divenne in breve tempo uno dei pochissimi confidenti di Pio XII (Lai racconta che le udienze che il Papa gli concedeva duravano sempre oltre l’orario stabilito e furono assai frequenti negli ultimi anni del pontificato) e ricevette da lui numerosi incarichi prestigiosi al fine di prepararlo (come Pio XI aveva fatto con lo stesso Pacelli) al papato. Ricevette la berretta cardinalizia nello storico concistoro del 1953, il secondo e ultimo del pontificato pacelliano. Negli anni seguenti il suo potere all’interno del collegio cardinalizio fu enormemente ac-

cominicato a fare il vaticanista non è certo perché ero iscritto all’Azione Cattolica o perché frequentavo chiese e sacrestie. Ho cominciato per caso. Il giornale per cui lavoravo aveva bisogno di una persona che seguisse le questioni vaticane. E non potevo rifiutarmi. All’epoca i giornali erano costituiti da un unico foglio. E nascevano e morivano

cresciuto prima da Pio XII e poi da Giovanni XXIII tanto che Paolo VI - di cui era un netto oppositore - in un’udienza burrascosa lo definì «il cardinale con le tre corone», facendo riferimento alle tre cariche che ricopriva (e con la malizia del confronto con la Tiara papale): presidente della Cei, membro della commissione centrale del Concilio Vaticano II e presidente della Commissione episcopale per la direzione dell’Azione Cattolica. La prima occasione per il cardinale Siri di diventare Papa fu alla morte di Pio XII nel 1958, ma la sua giovanissima età, 52 anni, gli sbarrò a strada alla Tiara. Simpatica la frase che si dice abbia pronunciato il cardinale Ciriaci in conclave: «Se eleggessimo Siri non avremmo un Padre Santo, ma un Padre Eterno!». Anche nel conclave successivo, quello del 1963 che elesse Paolo VI, Siri ricevette numerosi suffragi. Fu nel 1978 però che l’elezione dell’arcivescovo di Genova si rese per ben due volte quasi concreta. Nel primo conclave, che elesse Giovanni Paolo I, Siri si scontrò con lo stesso

come le mosche. Ma questo mondo nel tempo mi ha appassionato, mi ha suggestionato: nel tempo ho cominciato a capire cos’era il Vaticano, il gossip del Vaticano, dove c’è sempre un ”nocciolino” di verità, dove i tipi umani che si nascondono dietro alla porpora si capiscono da come ti tendono la mano: o te la mettono sotto il muso, o usano mollemente la mano. Io ho sempre preferito sempre gli uomini che mi stringessero forte la mano».

del mondo operaio (basta pensare che introdusse la figura del cappellano di fabbrica); cominciò ad allacciare rapporti con la diplomazia sovietica; fece costruire strade; addirittura prese a cuore le sorti del Genova calcio che ai tempi reclamavano la costruzione di uno stadio che non potevano permettersi a causa della crisi economica in cui versavano. Il suo conservatorismo emerse, invece, riguardo al Concilio: era un grande difensore della tradizione in seno alla Chiesa. Insomma Siri era il portatore di un conservatorismo ereditato anche da Benedetto XVI, che sta portando avanti la stessa battaglia in difesa della tradizione e della dottrina. E che - di fronte al progressivo allontanamento delle persone dalla forma del sacerdozio - sta cercando di recuperare una funzione presenzialista della Chiesa nella società. D’altra parte che l’attuale Papa abbia recuperato il cosiddetto ”mondo siriano” lo dimostra la composizione della sua Curia. Non è un caso, ad esempio, che il segretario di Stato il cardinal Tarcisio Bertone e il cardinal Angelo Bagnasco (presidente della Cei) siano stati entrambi arcivescovi di Genova. Attualmente c’è una grande rivalutazione del clero genovese: oltre a Bagnasco e Betori, ad esempio, anche monsignor Mauro Piacenza (segretario della Congregazione per il Clero) e monsignor Guido Marini (maestro per le celebrazioni ponticie) sono genovesi. E forse - se questa città ha tanto peso a Roma è anche merito di quel porporato che «stringeva sempre forte la mano».

Non era un conservatore in senso classico. Ha saputo affrontare con piglio nuovo la modernità

Il cardinal Siri a Benny Lai la mano l’ha sempre stretta. E forse è per questa ragione che non si sono più lasciati: «Dal ’56 in poi lo andavo a trovare a Genova, in treno. Partivo il sabato notte e la domenica mattina facevo colazione con lui. Nel 1980 gli ho chiesto se voleva raccontarmi la sua vita. L’ha fatto senza esitazione. Io mi sono limitato ad appoggiare il mio registratore sul tavolo». Quello che il decano dei vaticanisti ci tiene a sottolineare è l’attualità di questo ”gran curiale”, che pur stando a Genova è riuscito a fare il consigliere di tre Papi - Pio XII, Paolo VI, Giovanni XXIII. «E non solo - aggiunge Lai. Il cardinal Siri ha influenzato tantissimo anche Benedetto XVI. Basta pensare alla grande convergenza di vedute che quest’ultimo aveva con l’attuale pontefice. In particolare sulla necessità di difendere la tradizione all’interno della Chiesa e di mantenere viva la presenza della fede nella società civile. Vorrei spiegare, però, che Siri non era conservatore in senso letterale: era attentissimo a ciò che arrivava dalla modernità. Era un acuto interlocutore

Lucani per poi riversare i voti su di lui e consentirne così l’elezione. Nel secondo e drammatico conclave Siri si scontrò con l’arcivescovo di Firenze Benelli e proprio il fatto che nessuno dei due candidati fu in grado ottenere il quorum necessario (anche se a Siri mancarono pochi voti) aprì la strada all’elezione di Giovanni Paolo II. Giuseppe Siri morì il 2 maggio del 1989, qualche giorno prima di compiere 83 anni. La sua vicenda terrena si concluse con l’amarezza di essere stato “dimissionato” da papa Wojtyla. Un giorno del 1987, infatti, un cardinale di Curia vicino a Giovanni Paolo II si recò da Siri per comunicargli che il Papa aveva accettato le sue dimissioni da arcivescovo di Genova per sopraggiunti limiti di età. Il fatto lasciò stupito il cardinale di Genova, perché quelle dimissioni di cui il collega parlava egli non le aveva mai date. Scelse, comunque, di accettare la decisione papale e si ritirò a vita privata attendendo la morte. Le sue spoglie riposano nella navata destra della cattedrale di Genova.


pagina 18 • 20 settembre 2008

revisionismi

Parla lo storico Piero Melograni: «Dopo Fiuggi, An avrebbe dovuto promuovere un grande convegno storico sul fascismo»

L’errore di Fini? La rimozione colloquio con Piero Melograni di Riccardo Paradisi l popolo di An adesso Fini ordina di fare suoi i valori dell’antifascismo. E lo dice ricordando solo tra parentesi che c’è anche un antifascismo comunista. Dunque è fatale che una parte di quel popolo rspinga l’ordine di Fini. Anche perché comincia a essere sbeffeggiato dalle tante sinistre che gli gridano: avete visto? Anche il vostro leader ammette che avevamo ragione noi. La questione non mi riguarda, perché sono antifascista da sempre, ma riguarda centinaia di migliaia di italiani che respingono l’antifascismo obbligatorio che Fini vuole imporgli». Così ieri scriveva sull’Espresso Giampaolo Pansa, autore di libri revisionisti sui massacri di fascisti avvenuti a guerra finita e violentemente contestati dall’estrema sinistra. La questione non riguarda direttamente nemmeno lo storico Piero Melograni, anche lui come Pansa di formazione antifascista. Ma anche Melograni, come Pansa, da storico, resta perplesso di fronte alle esternazioni di Gianfranco Fini sul valore ineliminabile dell’antifascismo. Un concetto molto aleatorio «esattamente come il fascismo» Professore mentre il postfascismo di Fini non aveva destato scandalo l’antifascismo agitato dal leader di Alleanza nazionale è stato registrato soprattutto a destra come un eccesso. Un fuor d’opera Sa qul è il guaio? Che noi italiani ci troviamo purtroppo immersi in un vuoto culturale molto profondo dal punto di vista storico. Sia la destra che la sinistra italiane non sono riuscite mai a fare i conti fino in fondo con la propria storia. A ricostruirne i passaggi, i nodi, ad avere cognizione della sua complessità. La realtà è che noi abbiamo avuto una democrazia bloccata lungo tutto il dopoguerra, una sovranità limitata anche sulle nostre coscienze, che

Partigiani che percorrono le vie di una città nei giorni della guerra civile. Sotto il giornalista Giampaolo Pansa che coi suoi libri ha svelato i crimini consumati dagli antifascisti nel primo dopoguerra sollevando polemiche violentissime. Pansa sull’Espresso di ieri ha polemizzato con Fini e con l’”Antifascismo obbligatorio” imposto ai militanti di Alleanza nazionale

«A

non ha solo impedito il ricambio e l’alternanza al potere ma anche uno sguardo spregiudicato sulla nostra storia. Per questo vengono brandite formule grossolane dai politici che parlano di questioni storiche? Certo.Vede Fini ha parlato una volta di fascismo come male assoluto. Che assurdità. Il male assoluto non esiste e comunque il male di Stalin è stato un male più assolutamente malvagio di quello di Mussolini. Ma queste sciocchezze si dicono quando non si conosce la storia, quando si assume la storia nella narrazione ideologica con cui fino ad oggi è stata raccontata. Il fascismo non è mai stato un monolite, sotto un manto che tendeva a presentarsi unitario conviveva di tutto. Sa che scriveva Ranuccio Bandinelli nel 1948:? Me lo dica. Glielo leggo: «Anche sotto il

fascismo in fondo gli italiani sono il popolo più libero di tutti e il formale ossequio alle gerarchie non costa loro fatica. Tutti fanno i fascisti nessuno quasi lo è». Noi non abbiamo avuto in Italia una dittatura fascista ma una dittatura personale. Tanto che sarebbe più corretto parlare di mussolinismo piuttosto che di fascismo. Certo Fini non fa lo storico ed è comprensibile che per farsi capire e ottenere certi risultati debba fare certe affermazioni. Ma questo rischia di ingenerare equivoci e di assolvere le ambiguità dell’intero Paese nei confronti del fascismo. C’è chi ha rilevato come l’antifascismo non sia un’idea innocente ma un’ideologia elaborata dal komintern come strumento di propaganda e di offesa per mettere con le spalle al muro ogni avversario che la rivoluzione socialista avrebbe trovato sul suo cammino. L’antifascismo ha finito con l’essere questo ma non è stato solo questo. Esiste un antifascismo italiano che non risponde alla logica della Terza internazionale. È stato ristampato per Laterza il mio libro

Intervista sull’antifascismo con Amendola. Lui a un certo punto dice: per fortuna nella resistenza c’erano anche i monarchici, i liberali e i cattolici. La resistenza non è stata rossa ma tricolore. Ha giocato un ruolo fondamentale anche il clero. Purtroppo il dominio

verrebbe mai in mente di dirsi anticomunisti anche se il Pci fu anche il partito di Secchia e di Togliatti. Qual è la differenza? La differenza la fa la presenza dei post-comunisti nei posti chiave di produzione e diffusione di cultura. È questa egemonia che ha dettato legge in Italia, che ha imposto il suo linguaggio, le sue verità. Ancora oggi gli ex comunisti non riescono a ricostruire la loro storia per quello che è stata. Si raccontano ancora la favola bella dell’eccezione italiana. Eppure la destra ora sembra accettare parte di quella vulgata Anche la destra non ha avuto il coraggio di fare la propria storia. L’errore di Fini dopo Fiuggi è non aver promosso un grande convegno internazionale di storici sul fascismo. Un’iniziativa che avrebbe contribuito a far comprendere alla stessa destra italiana un percorso avvenuto per strappi e rimozioni. Ma per fare queste cose occorre un personale politico culturalmente attrezzato, soprattutto coraggioso.

Con la fine del Pci e la crisi dell’estrema sinistra, la storia dell’antifascismo sembrava finita. Per la goffaggine politica di qualcuno ha oggi un appendice di vitalità della sinistra sulla cultura ha consentito che l’antifascismo diventasse l’arma del Pci. Con la fine del Pci e la crisi dell’estrema sinistra quella storia sembrava finita. Per la goffaggine politica di qualcuno ha un appendice di vitalità. Fini è stato costretto a mettere una toppa alle intemerate di due esponenti del suo partito che hanno perso un’occasione per stare zitti. Eppure se a destra sembrano necessarie professioni di fede antifascista perché a sinistra c’è chi rivendica ancora orgogliosamente l’eredità del Pci? A D’Alema o Veltroni non


spettacoli

20 settembre 2008 • pagina 19

L’esperimento di ”Repertorio Zero” a ritmo di tritaprezzemolo e cotton fioc

La musica di oggi? Roba da... palloni gonfiati di Roselina Salemi a bene la pentola con il bicchiere, il suono è perfetto». «Simone, l’imbuto è troppo vicino al microfono». «Vai con il tritaprezzemolo!». «Francesco, Eleonora, per favore, i pallini devono girare più velocemente e più rumorosamente!». Diventa difficile capire, durante le prove, se la bottiglietta di acqua minerale è lì in qualità di strumento o di bevanda. E il cotton fioc?

«V

Non è una combriccola di svitati e il neofuturimo non c’entra. E’ un esperimento. Un concerto, un po’ sui generis. L’ensamble di archi elettrici, tastiera e percussioni suona (anche) una ciotola piena di fermagli, tre imbuti, una pentola contro il bordo di un bicchiere, tre tritaprezzemolo, pallini di metallo dentro una scatola e un sacchetto di carta con due manici. Il brano, scritto da Giovanni Verrando, si chiama Triptych #2. In attesa del loro turno: un trapano e un frullatore. Il pezzo forte, che dura pochi minuti, ma richiede meticolosa precisione e innumerevoli tentativi è Degonflement di Jean-François Laporte, (compositore famosissimo per aver suonato qualsiasi cosa , compresi alcuni rimorchiatori), partitura «per esecutori di palloncini gonfiabili». Molto divertente. Giovani brillanti, che hanno vinto concorsi all’estero e hanno studiato composizione per dieci anni, modulano il respiro per ricavare sibili e lamenti da co-

munissimi palloncini, con davanti uno spartito dove non ci sono note, ma onde, sbuffi, serpentelli, disegni. Sono in sette, cinque ragazzi e due ragazze. Facce bellissime (e serissime).Tutti molto concentrati, mentre ascoltano Giovanni Verrando, 43 anni, compositore che ha sviluppato le sue ricerche sull’informatica musicale, premiato a Parigi e Amsterdam. Lui sa esattamente che cosa vuole ottenere da tritaprezzemolo, imbuti e palloncini. Semplice. Una piccola rivoluzione. Cambiare le regole. Giocare,

un’ora di spettacolo, sei composizioni di dieci minuti ciascuna, alcune novità assolute, in coproduzione con il Festival MiTo. E uno schermo-vela sul quale scorrono parole e immagini. Dietro tutto questo c’è “Repertorio Zero”, un’associazione no-profit, che, «come dice la parola stessa», spiega Andrea Minetti, consigliere di amministrazione, «significa assenza di repertorio, perché non c’è niente del genere, e soprattutto quasi niente di scritto, un’associazione nata all’inizio del 2007 per promuovere un

Sono in sette, cinque ragazzi e due ragazze, e suonano qualunque tipo di oggetto. Il pezzo forte, ”Degonflement”, è una partitura «per esecutori di palloncini» da far vibrare e scoppiettare

inverni, un brano dove, tra l’altro, è possibile ascoltare due spazzole, dice che era stufo della solita musica. Aveva commissioni fino al 2010 e ha annullato tutto «per uscire da meccanismi di produzione che sono ancora quelli dell’Ottocento». Dietro la sua scelta ci sono molte riflessioni, le stesse che hanno permesso a “Repertorio Zero” di trovare sponsor come Deutsche Bank e Porsche (ma il concerto per utensili da cucina è stato considerato un tantino ardito). C’è un vero e proprio manifesto sul musicista nesso a nudo, ma il rischio di essere presi per matti esiste in ogni caso. Loro lo sanno e ci scherzano sopra, ma intanto, anche solo per curiosità, li vogliono tutti. E certo una performance di questo genere non è facile da dimenticare.

perché no? Insomma, c’è la musica leggera. C’è la musica tradizionale. C’è il caso del folletto Giovanni Allevi con il suo pianoforte. E poi ci sono loro. Il mondo, dichiarano, è uno spartito, e tutto è musica.Tutto è suonabile: frullatori, frigoriferi, lavastoviglie, compressori. «Facciamo concerti, non solo da ascoltare, ma da vedere. Concerti dove», scherza Verrando, «possiamo usare stoviglie, far scoppiare palloncini, aggiungere agli archi, alla tastiera, alle percussioni, i suoni della vita». Una nuova versione dell’armonia del mondo. Il giorno della verità è il 22 settembre, appuntamento all’Hangar Bicocca di Milano,

Oltretutto, suonare gli elettrodomestici è più complicato di quanto sembra. Ci vuole lo stesso rigore matematico di Bach. Non parliamo poi dei palloncini (quelli che servono da strumenti e quelli che scoppiano alla fine dell’esecuzione). Il dibattito è se portarli già pronti per il botto, e legarli alle sedie, o gonfiarli dopo. Ride Verrando: «Io non mi riempirei di palloni gonfiati». Battuta servita su un piatto d’argento all’ingegnere del suono, Paolo Brandi: «Ce ne sono già abbastanza». Per inciso, la bottiglietta di acqua minerale era da bere, non da suonare, ma la scatola di cotton fioc faceva parte del concerto. Addio, solita musica.

diverso linguaggio musicale, senza spaventare lo spettatore, anzi con l’idea di sorprenderlo e divertirlo». Che cosa stupirà di più, il botto finale dei palloncini o l’insolito abbinamento (anche simbolico), fra un trapano e un vocabolario? Oppure Homogenisator, per cinque esecutori e cinque elettrodomestici? Non lo immaginano neanche i tre del Comitato artistico di “Repertorio Zero”,Yan Naresz, Nadir Massena e Giovanni Verrando, ma sono carichi di entusiamo. «Se non altro», sorridono, «diranno che ci abbiamo provato». Massena, 38 anni, svizzero, direttore di due festival musicali, compositore, insegnante, autore di Altri


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polemiche

Inchiesta. Che fine ha fatto la scuola che ha ingessato il’900. Rispondono Berardinelli, Conte, Gioanola, Onofri e Sanguineti

Lo strutturalismo? È morto Ascesa e caduta di una disciplina debole della critica letteraria del Novecento di Francesco Napoli

e Saussure, non pervenuto; circolo di Praga e di Copenaghen, chiusi per mancanza di iscrizioni; Hjemlmslev e Trubeckoj, Martinet e Chomsky dispersi all’orizzonte della critica letteraria. Todorov: pentito, sì pentito delle storture metodologiche portate dallo Strutturalismo. Insomma: la fine di questa linea è segnata, uomini e luoghi di una delle più imponenti

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verei decisamente in difficoltà». Tirando le prime somme, dunque, si potrebbe forse scriverne l’atto di morte e, per fortuna, il lascito testamentario è alquanto povero. «Sulla sua morte precisa Berradinelli - sembrano proprio tutti d’accordo da anni, perfino quelli che furono i leader dell’epoca: da Lévi-Strauss a Segre. Purtroppo però si sono limitati più a voltare pagina che

Alfonso Berardinelli Si parlava tanto di «scienza», ma alla fine credo che sia stata solo una moda. Così si spiega la sua dissoluzione scuole di pensiero del Novecento, critico ma non solo, ormai sono un pallido ricordo, talvolta rispolverato con sufficienza.

Eppure tra anni Settanta e Ottanta dettava legge e chi era fuori del coro, o provava a starci, era un nemico da esorcizzare. Molto a riguardo ne sa Alfonso Berardinelli, premio Napoli 2008 con il suo Casi critici (Quodlibet) e con pronta una nuova edizione da Marsilio di La forma del saggio. E dice: «C’è stata una complicità epocale tra avanguardia e strutturalismo. In comune, dalla loro avevano Barthes, ma non so quanto lui fosse dalla loro parte». Sfumata e con formula dubitativa la posizione a riguardo di Edoardo Sanguineti, critico di razza, intellettuale integrato e a tutto tondo, nei fatidici anni Settanta anima forte della Neoavanguardia: «Ma nella Neoavanguardia c’erano posizioni di ogni genere, non c’era nessun decalogo al quale attenersi e ogni posizione era oggetto di dibattito e di discussione. Se dovessi segnare questo o quello come strutturalista, mi tro-

a spiegare il perché di questi ripensamenti. Cosa che mi fa pensare che tutta quella “scienza” fosse anche, se non soprattutto, una moda». E Sanguineti su questo sembra concordare. «Credo che abbia decisamente esaurito quello che è stato il suo compito, cercare di individuare in un’opera delle costanti, ove e quando possibile. Adesso credo ci sia un deciso ritorno verso una visione storicista».

Ma fin quando era in vita e dominava le scene, non solo italiane, non c’era scampo: o appartenevi alla scuola o eri un reietto della cittadella letteraria e chi ne ha fatto esperienza ser-

di Leo Spitzer e Auerbach allo Strutturalismo – è ancora Berardinelli a ricordare -. Mi colpì il fatto che si volevano trasformare in scienza certe tendenze della prima metà del Novecento che non avevano carattere sistematico invece. Mentre anche i formalisti russi erano ancora critici saggisti, gli Strutturalisti pretesero di trasferire la critica nell’ambito della Scienza. Questo mi parve un abuso. Tutta la critica precedente veniva accantonata come impressionistica, soggettiva, arbitraria…”. In sintonia Elio Gioanola, saggista particolarmente attento alla figura autorale come dimostrato anche dall’ultimo Pirandello’s story al quale si affiancherà presto uno Svevo’s story, editi Jaca Book, che racconta come in quegli anni si leggesse pure «tanto anche di strutturalismo» ma come lo stesso non avesse avuto su di lui alcuna presa. «Sulla poesia e sulla narrativa – puntualizza ha agito con fare quasi terroristico mentre nel campo della critica si riscontrava soprattutto un affanno continuo ad aggiornarsi sulle novità del pensiero allora dominante».

Il combinato disposto tra metodo critico e creazione letteraria che ne seguiva i dettami ha certo dato origine a un vulnus ancora in parte sanguinante. Berardinelli sottolinea con forza come «il secondo punto dolente è stato che l’ege-

Giuseppe Conte Mi sono formato su quelle teorie, ma poi ho capito che erano una gabbia per la scrittura creativa ba ricordi vivi della situazione. «Notai in particolare la rapidità del passaggio nella critica letteraria dagli anni dello stilistico

monia, in particolare francese, nella cultura occidentale impose la teoria strutturalista come cuore e motore dell’attività

Massimo Onofri Sono rimaste solo le macerie, che in passato hanno rischiato di cancellare anche i grandi critici militanti letteraria. Nacque il tipo dello scrittore che si vergogna di chiamare poesia la poesia e romanzo il romanzo, presentandosi come teorico che compie operazioni sul linguaggio: scrive cioè quei testi che la teoria prevede di analizzare. La letteratura divenne un appendice secondaria della teoria della letteratura. In Italia perfino autori geniali come Calvino e Zanzotto furono ipnotizzati da questa tendenza e “ubbidirono”...». Ma non c’erano solo i Calvino e gli Zanzotto. Ci fu, a partire dalla metà degli anni Settanta, un movimento di opposizione allo strapotere culturale dello Strutturalismo anche nella scrittura creativa. E a riguardo la parabola di Giuseppe Conte, poeta e romanziere,recente autore di L’adultera con Longanesi, è senza dubbio emblematica. Allievo di Gillo Dorfles, lavora nella

redazione del «Verri» di Luciano Anceschi, quindi muove i primi passi in ambito decisamente attiguo al metodo strutturalista. Poi la svolta, la consapevolezza. Nel 1976 pubblica un saggio, Le istituzioni del desiderio, nel quale esplicita la sua opposizione al Sistema e nella prima raccolta poetica, Il processo di comunicazione secondo Sade (1975), attacca a tutto spiano. «Ho avuto una formazione certo legata proprio alle teorie dello strutturalismo e ho fatto appena in tempo ad accorgermi come queste mi stessero facendo entrare in una gabbia dove non c’era più la possibilità dell’invenzione, dell’atto creativo. Un enorme gabbia che mi chiudeva».

In letteratura, dunque, vigeva quasi uno status dittatoriale, con conseguenze forse inimmaginate sul piano della


polemiche

20 settembre 2008 • pagina 21

Un’illusione sfociata nell’idolatria

La bella favola della critica che si fa scienza di Filippo La Porta uella dello strutturalismo - almeno in relazione alla critica letteraria - è stata una delle meravigliose, eccitanti favole che circolavano negli anni della nostra gioventù (accanto alla Rivoluzione, al Desiderio, alla Liberazione dal Lavoro…). Una favola che consisteva nel credere che la critica potesse finalmente diventare una “scienza”, in grado di decifrare subito qualsiasi opera letteraria attraverso formule e diagrammi. Un aggressivo esercito di studiosi in camice bianco - i famigerati “logotecnocrati” descritti da Cesare Cases - avrebbe lavorato con bisturi e altri attrezzi chirurgici il corpo già malato della letteratura, per consegnarcene definitivamente l’essenza.

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didattica e non pochi sono gli strascichi di un metodo così assolutizzante. «L’applicazione nella scuola ha prodotto un danno enorme - ricorda Giuseppe Conte -. Presentare ai ragazzi l’opera come puro congegno, nel furore dell’analisi strutturale, è stato un danno incalcolabile. Una perdita d’anima». Analoga considerazione la porta Gioanola per il quale «Lo strutturalismo grandi danni li ha fatti nella scuola dove ha prodotto libri che hanno mandato in crisi studenti e insegnanti, facendo perdere di vista l’emozione del testo». Se nelle scuole lo Strutturalismo ha fatto i suoi danni, di certo ha mantenuto a lungo una posizione egemone nell’accademia. Docenti di stretta osservanza ce ne son stati e gli studenti anni Settanta-Ottanta cosa hanno vissuto? Qualcosa a riguardo la dice Massimo classe Onofri, 1961, docente di Letteratura italiana contemporanea all’Università di Sassari, critico della «Stampa» e di «Avveni-

Nel disegno di Michelangelo Pace, una ricostruzione simbolica dell’illusione dello strutturalismo: adottare un metodo scientifico per analizzare la creatività

re», recente autore di un brillante saggio La ragione in contumacia (Donzelli). «Ho studiato, ai tempi, filosofia: questo è stato per me e per la mia formazione una fortuna. Negli anni Ottanta avere come maestri Lucio Colletti, Bedeschi, Sasso e Garrone significava leggere Kant. Poi, iniziando a interessarmi di letteratura, seguivo le lezioni di Nino Borsellino, storicista problematico, e quindi, per fortuna, accademicamente nessun tipo di contraccolpo. Certo, avvicinandomi all’antropologia ho preso a leggere Lévi-Strauss e Althusser, e poi ancora Galvano Della Volpe, marxisti affascinanti ma dalla prospettiva del tutto sbagliata». E per chi

Edoardo Sanguineti Si è esaurito il suo compito, ossia cercare di individuare in un’opera delle costanti, ove e quando possibile

come Massimo Onofri si mosse, libero nel pensiero da una formazione filosofica eterodossa, verso i territori della

letteratura, lo sguardo si andava a posare su «un panorama pieno di macerie, con lo Strutturalismo in piena e rovinosa caduta e all’interno si trovavano saggisti e critici, militanti, come Garboli, Pampaloni, Baldacci nei quali era vivo e vegeto quel concetto di autore in aperta opposizione alla cancellazione dello stesso determinato dallo Strutturalismo».

L’ultima parola? Sempre alla difesa, come in ogni buon telefilm alla Perry Mason, attribuita d’ufficio a Edoardo Sanguineti. «Forse è stato più attivo nel campo della critica, mettendo in evidenza nelle diverse aree artistiche, musicali, letterarie o pittoriche, gli elementi strutturali delle opere. Ma proprio sulla parola “struttura”aleggia l’equivoco. Bach, ad esempio, nelle sue partiture, è stato attentissimo agli elementi strutturali della composizione e così gli architetti rinascimentali. Nel tempo è diverso il valore che la parola ha assunto e sotto la suggestione di un equivoco potrebbe perfino essersi rinforzato l’interesse verso questi elementi della creazione artistica».

A ben vedere, si trattava di una illusione collettiva dalle tinte sadiche, in sintonia con le tecnologie del nostro tempo: prometteva infatti il dominio totale sulla realtà, il controllo immediato sulla vita. Tramontata quella stagione, e le sue ingenue mitologie, verrebbe voglia di difendere lo strutturalismo contro i suoi devoti di allora (che peraltro si sono esibiti in autocritiche spettacolari, come Todorov o Compagnon). In che senso? Strutturalismo e semiologia, imperanti nelle università almeno lungo gli anni Settanta, fornivano spesso una preziosa chiave di lettura, una tecnica di analisi, un metodo critico tra gli altri. Assunti però come teoria letteraria, tendevano a impoverire la nostra idea di letteratura, la quale non è solo una funzione del linguaggio, ma ha a che fare con la “realtà” (comunque si intenda definirla), con la nostra viva e contraddittoria esperienza del mondo. F o r s e R a t z i n g e r direbbe che dipende dalla idolatria contemporanea, dalla attitudine a sostituire Dio con surrogati vari, ma accade spesso, nel nostro paese, che una metodologia di indagine diventi una ideologia totalizzante o financo una teologia (è successo ad esempio con il marxismo stesso). Pasolini: l’illuAveva ragione, sione più micidiale è di poter “possedere” le cose (letteratura compresa), che invece sempre ci sfuggono, si sottraggono ad ogni presa, fosse pure quella degli agguerriti scienziati-studiosi.


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LA DOMANDA DEL GIORNO

Semafori truccati. Che cosa ne pensate? CHI NON SI FERMA È PERDUTO

I FURBETTI DEL CROCEVIA

Vincere un ricorso è difficile. Se poi sono scaduti i termini di 60 giorni dalla notifica non è più presentabile. Chi ha preso la multa per essere passato col rosso rivuole i soldi indietro dal Comune truffaldino, ma indietro si hanno soltanto mazzate perché di solito ci si sente rispondere che non c’è più tempo per ricorrere, e che il Comune abbia torto è tutto da verificare e chissà un Prefetto o un Giudice di pace che ne pensano. Appellarsi ad altri Tribunali è impossibile, così come fare una mozione di massa. La morale della favola è che nessuno ridarà indietro nulla. Se bisogna ancora pagare, conviene farlo, perché ci vorrà tanto tempo prima di venire a capo della vicenda dei semafori truccati. E poi i Comuni, ammesso e non concesso che perdano il primo round, si potranno appellare. E anche per quanto riguarda i punti persi grazie all’inganno, non c’è niente da fare e sperare, visto che entra in ballo una burocrazia elefantiaca. Chi viene fregato dai semafori birichini, chi dagli autovelox trappola. Insomma, tutti gli automobilisti e i motociclisti vengono strapazzati. Chi non si ferma, è perduto.

Ogni comune fa il furbo a modo suo per fare cassa fregandosene della sicurezza, in questo modo una persona semplice che si ritrova congestionata nel traffico rischia tutti i santi giorni di tamponare, essere tamponato o beccare multa e decurtazione punti nel tragitto casa - lavoro. In questo modo non si risolvono i problemi sulla sicurezza, si fa cassa e basta. Io sono sempre stato contrario a qualsiasi forma di multa che ti arriva a casa. Piuttosto la pattuglia che ti ferma e ti multa ha molto più senso e ti fa capire che hai sbagliato? Io ho 28 anni di cui 10 di patente, mai preso una multa quindi non sono dalla parte dei supermultati, ma sono il primo a ribellarmi ad un sistema che così non funziona. Vedrete che i cittadini esasperati arriveranno a danneggiare i fotored e faranno solo bene perchè le cose fatte solo per fare cassa e per fregare gli utenti della strada non hanno senso. Volete sapere come la gente attraversa un incrocio controllato da fotored? Rallenta fin quasi sotto il semaforo, poi se è ancora verde all’ultimo accelera per non incappare in una sanzione....Vi sembra sicurezza?

Pino Serramonti Siena

Mauro Moreno Brindisi

LE MULTE: PRIMA INDUSTRIA ITALIANA

LA DOMANDA DI DOMANI

No di Alfano all’inchiesta sulla Guzzanti. Favorevoli o contrari?

È ormai ufficiale, il multificio nazionale è la più prospera industria del nostro Paese. Mentre gli altri settori arrancano, il tessile incespica, l’edilizia latita, le infrastrutture muoiono, ormai la speculazione stradale è diventata onnipresente, e rimpannucciata sotto le nobili dichiarzioni di sicurezza e tutela del traffico cittadino, emerge con sempre più violenza la sete implacabile di denari freschi che non esita a riccorrere alla più trita cialtronaggine italiana. Una commedia dell’arte che vive di espedienti per sopravvivere, e avvoltola l’inganno in intemerate dalla sonnolenta oratoria. La truffa di piccolo e grande cabotaggio, la finta aria stracciona, la dissimulazione del guadagno e l’ostentazione teatrale delle miserie. Piangiamo, e intanto ci freghiamo tutti a vicenda.

Rispondete con una email a lettere@liberal.it

GHANDI L’ANTIOCCIDENTALE A ferragosto nei quotidiani era apparso il discorso tenuto da Ghandi alla conferenza delle relazioni interasiatiche a New Delhi il 2 Aprile 1947. L’Occidente di sicuro ha fatto molte cose disumane, inutile ricordarlo. Certamente la fase coloniale per molti aspetti è tra queste. Ma se oggi nel mondo milioni di uomini e donne possono sperare nella libertà ed in una condizione di vita migliore, sono convinto che lo si debba all’Occidente e alla sua fruttuosa dialettica tra l’antidogmatismo relativista del pensiero scientifico e filosofico e la tradizione Cristiana che per un verso lo condanna. Cosa sarebbe oggi il mondo senza la presenza del pensiero Occidentale? Invece nelle parole di Ghandi traspare un forte antioccidentalismo, quasi un odio nascosto dal valore della non violenza, come logico risultato della volontà di sfruttamento e inferiorità religiosa e filosofica. Ghandi sembra il padre dell’antioccidentalismo nel dopoguerra e a parte l’aspetto della non violenza le basi della cri-

Michele Milanetto Caserta

SOTTO L'ALA PATERNA Alcuni padri divorziati, vestiti da uomo pipistrello, rivendicano una riforma delle leggi familiari che li tiene lontani dai loro figli, presso l’aeroporto londinese di Heathrow IL MESTIERE DI INSEGNARE Il mestiere d’insegnante non è facile, i requisiti e le caratteristiche necessari sono parecchi. Un po’ allenatore, formatore e direttore d’orchestra, un po’ arbitro o anche mentore, suggeritore e persino genitore: è il docente o professore. Così dicono di sè, e della loro attività, loro stessi. Presentano i Nostri, in realtà, i curricula e i profili più diversi e disparati. Nei casi migliori, sono persone d’eccellenza e d’esempio, capaci di uno sguardo nuovo sul loro lavoro e di suggerire agli alunni inedite e originali letture, visite e incontri. Nei casi peggiori, hanno una laurea ma difettano in maturità ed equilibrio. S’innamorano della cultura sui libri e sui giornali ma non sanno come trasmetterla agli altri. Combattono ogni giorno con la loro difficoltà d’eloquio senza mai decidersi a cambiare lavoro. Seguono gli alunni

dai circoli liberal

tica hanno quasi una matrice comune all’attuale islamismo militante. Ghandi dichiara che la saggezza non arriva da Occidente perché Zoroastro, Buddha, Mosè, Mohammad e Gesù sono tutti d’Oriente. “E poi cosa accadde? Il Cristianesimo, arrivando in Occidente, si è trasfigurato, per cui non bisogna apprendere la lezione di questi saggi con la lente dell’occidente”. “Voglio lasciarvi con il pensiero che l’Asia debba conquistare l’Occidente”. Si sentiva un iniziato al pari di Gesù al punto che afferma: “Certo, credo in un mondo unico. Come posso fare diversamente, quando divento erede di un messaggio di amore che questi grandi, inconquistabili maestri ci hanno lasciato?” Continua poi affermando che in questa era di democrazia (che non mi pare sia una tradizione nel pensiero in Asia) si risvegliano i poveri dei poveri e la conquista dell’Occidente sarà completata non attraverso la vendetta ma attraverso questa nuova verità di amore. Infine l’invito a “consegnare il messaggio al mondo, non solo all’Asia, e liberare il

senza metterli in guardia da idee, visioni o ambizioni indifendibili e insostenibili. Dovrebbero sapere tutto sulla scuola e sul rispetto della dignità delle persone, spesso sanno tutto solo sul PCI, sul PD, sui partigiani e sul Partito d’Azione. E nelle scuole pubbliche ci tengono a farcelo sapere, cosa che non ci fa affatto piacere.

Pierpaolo Vezzani Correggio (Re)

RESTARE AL PALO COME NEL FAR WEST Ma è possibile che un detenuto, in assenza di posti in carcere, sia legato a un palo come un cane, in quest’Italia del secondo millennio? Io sono inorridito. Non voglio certo l’indulto, ma almeno il braccialetto elettronico è il caso di introdurlo. Sembriamo tornati ai tempi del Far West dei film Usa. D’altra parte gli sceriffi già ci sono.

Gianni Trentalange Bari

mondo dalla malvagità, da quel peccato”. L’Occidente il male, l’Oriente il bene! Ma che ne sarebbe stato di Ghandi se non avesse potuto attingere, ad esempio, alla teoria della resistenza maturata alla fine del 1600 proprio in Inghilterra dalla stessa mente che pur tenendo in dovuto conto il valore relativo dei sensi non ne fece, come invece Ghandi, un puro strumento di mortificazione di eliminazione del desiderio? Mi riferisco al debito di pensiero di Ghandi, anzi del mondo, verso Locke. L’occidentale Locke, che affermava la natura pratica del conoscere e cioè che ciò che conta non è conoscere ogni cosa, ma solo quello che ci è utile per dirigere razionalmente la nostra vita, nel 1690 pubblicò i “Due Trattati sul governo”. Lì si definì il ghandiano diritto del popolo a resistere contro un governo ingiusto semplicemente perché innaturale e cioè perché contro i diritti naturali dell’uomo quali la vita, la libertà e la proprietà. Leri Pegolo CIRCOLO LIBERAL PORDENONE


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog Riconosco in te un fratello Caro Fellini, ieri mi è capitata una di quelle cose che scaldano il cuore. Stavo leggendo l’intervista che ha rilasciato all’«Express» di Parigi (leggo tutto quello che trovo a proposito del Satyricon). Alla quarta frase ero sbalordito e mi dicevo che le sue risposte erano esattamente le stesse che avrei dato io. Ritrovavo le mie idee, per quanto riguarda sia la creazione artistica che il modo di affrontare i vari problemi della vita. È sempre miracoloso scoprire di avere un fratello da qualche parte. Volto la pagina e, a conferma del fatto che non mi ero sbagliato circa le nostre «affinità elettive», mi trovo davanti quello che lei dice di me. A questo punto non vedo l’ora che il film arrivi da noi per correre a vederlo. Ma ho anche molta voglia di rivedere lei. Entro la fine dell’anno devo scrivere due romanzi. Non appena sarò libero le chiederò il permesso di fare un salto a Roma per chiacchierare a lungo con lei. Sento già che Satyricon sarà un’esperienza esaltante. Georges Simenon a Federico Fellini

BALLANDO A CHIANCIANO SOTTO LA PIOGGIA Sono andato a Chianciano pensando che perlomeno avrei fatto la cura delle acque. L’andamento dei lavori e la validità dei vari interventi sono stati invece una vera terapia per l’anima: tanta la gente e tanto l’entusiasmo, ma soprattutto non c’è stata la rassegnazione che avevo intravisto in qualche nostro dirigente a Todi. Avremo il coraggio di correre da soli e potremo essere riferimento per chi non è d’accordo con la Binetti o Alemanno. Casini ha accettato la sfida e, se sarà determinato, il popolo Udc lo seguirà recuperando il centro e consolidando la componente cristiano-liberale. Un importante e bell’elettorato. Al ”Silvio nostro”, ex amico ed alleato ma non nemico, vorrei chiedere di porre termine a tanto astio verso di noi e al suo volerci annientare; cercare di stravincere può causare ”falli di reazione” ma, non si illuda, noi non li faremo! Credo che questa sua posizione sia un errore e non lo favorirà quando il vento, come sempre avviene, girerà. Abbiamo storiche radici e moderni valori, non siamo facilmente eliminabili. A chi giova arrivare con“violenza” non solo a due poli ma a due par-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)

ACCADDE OGGI

20 settembre 1905 - Avviene la prima proiezione cinematografica in Italia 1932 - India: Gandhi inizia in prigione il suo primo sciopero della fame 1937 - Guerra civile spagnola: vien presa Peña Blanca; finisce la Battaglia di El Mazuco 1945 - India: Mohandas Gandhi e Jawaharlal Nehru chiedono che le truppe britanniche lascino il paese 1946 - Si inaugura il Primo Festival cinematografico di Cannes 1958 - Italia: entra in vigore la legge Merlin che decreta la chiusura delle case di tolleranza 1976 - Azione Rivoluzionaria rivendica l’ordigno esplosivo che causa otto contusi nella sede del giornale La Stampa di Torino 1979 - Lee Iacocca viene eletto presidente della Chrysler Corporation 1984 - Un attentatore suicida a bordo di un’auto-bomba assalta l’ambasciata statunitense di Beirut in Libano, uccidendo dodici persone

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Giancristiano Desiderio,

titi malnati? Certo non alla cultura politica o al positivo sviluppo delle diverse potenzialità, compito primario di chi ha l’onore di governare il Paese. Creonte, superbo vincitore, non sa che ”gli dei accecano quelli che vogliono perdere”.

il meglio di

Dino Mazzoleni Gualdo Tadino (Pg)

IL FEUILLETON ALITALIA PROGETTO PILOTA: ELETTI NEL PD La trattativa tra Alitalia e Cai è fallita: i piloti finiranno disoccupati. Ed il loro rappresentante, il rappresentante dei piloti ed altri protagonisti? Dove finiranno? Non mi stupirei se, per pura coincidenza, essendo liberi, li ritrovassimo in prima fila nell’elenco dei prossimi candidati alle europee per il Pd. Non faccio distinzione tra destra e sinistra, ma, sempre per pura coincidenza, i lottatori della vita civile, per intenderci Santoro, Gruber, Bocassini, ecc combattono, per sopraggiunta conversione di Damasco, nel ring rosso. Certo, hanno da fare e da dire per il bene degli europei, ma un sospetto sarà pur lecito, che possa essere un premio alla loro fermezza professionale ed alla tenacia con la quale hanno combattuto l’avversario. La domanda è: chi sarà stato mai tale avversario? Eh già, chi sarà? Grazie per l’attenzione e buon lavoro

L. C. Guerrieri Roseto degli Abruzzi (Te)

PUNTURE Alitalia, ora sì che siamo in mano a Fantozzi

Giancristiano Desiderio

Lo studio è la miglior previdenza per la vecchiaia ARISTOTELE

Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Rossella Fabiani, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

Se dovessimo scommettere sulla definitiva conclusione del feuilleton di Alitalia, dopo l’abbandono da parte della cordata guidata da Roberto Colaninno, non lo faremmo. Nessun Reagan contro i controllori di volo, nessuna Thatcher contro i minatori. È un Truman show senza fine, dove apparire è essere. E dove vi sono molte verità ma nessuna verità. La crisi di Alitalia è vecchia di almeno un quindicennio, e dall’inizio del secolo ha subìto un’accelerazione, a cui i governi che si sono succeduti non hanno saputo rispondere in modo efficace e rispettoso dei contribuenti. È utile ricordare che già nella legislatura 2001-2006 (centrodestra) vi fu una rappresentazione simulata di “privatizzazione”, con la discesa del Tesoro sotto il 50 per cento, e la sottoscrizione di un aumento di capitale da parte delle banche d’affari con le quali via XX Settembre ha un consolidato rapporto nella gestione dei collocamenti del debito pubblico, in un evidente do ut des.Venne introdotta la cassa integrazione per i dipendenti Alitalia, gli organici snelliti in modo poco più che simbolico. Poi si ricominciò, in un crescendo di distruzione di cassa culminato nella decisione del governo Prodi di cedere il controllo della società. Bel proponimento, minato da subito dai demenziali paletti posti dalla sinistra estrema, e prontamente avallati da Prodi. Si giunge alla stretta finale, il prescelto è Air France-KLM, sulla base di una proposta di acquisto che avrebbe maggiormente tutelato l’erario, almeno a guardarne i numeri. A evitare spericolate riletture della storia è utile ricordare che la proposta Air France, anche in ipotesi di continuazione della legislatura, non avrebbe avuto nessuna possibilità di riuscita, di

fronte al fuoco di sbarramento di sinistra e sindacati. In sostanza, la tentata vendita ad Air France è stata solo l’ennesima simulazione. Inutile, oggi, che il Pd sospiri e recrimini su Air France. Se si fosse giunti al dunque, il partito di Veltroni sarebbe stato preso a randellate dai sindacalisti-satrapi. I sindacati trovarono un improbabile alleato in Silvio Berlusconi, che anziché sostenere Prodi nel superiore interesse dei cittadini-contribuenti decise invece di intonare la canzone del Piave, per non far cadere il nostro Paese vittima dei perfidi francesi, “nostri principali concorrenti sui flussi turistici”. Il resto della vicenda è noto: nasce una cordata di imprenditori che non hanno mai gestito un business maledettamente difficile come quello delle aerolinee, abituati soprattutto agli agi ed agli ozi delle concessioni governative, oltre alla promessa di un monopolio blindato grazie alla neutralizzazione di un Antitrust da sempre sdentato, e a una riscrittura del diritto fallimentare che sfiora la follia. E ora? Se questo fosse un paese normale, il governo disporrebbe l’immediato avvio delle procedure concorsuali per Alitalia, organizzerebbe un’asta per lo spezzatino. Anche perché in un paese normale l’accusa di danno erariale a carico almeno dei due ultimi governi sarebbe qualcosa più di un’ipotesi di scuola. E da oggi si ricomincia. Con il gioco delle ombre sulla caverna. Qualcuno ha già intravisto Luthfansa, British Airways, il sosia di Air France, FlyNiki. E il cocorito-portavoce, ormai tramutatosi in Clarinetto della Fattoria degli Animali, tornerà a rispondere a chi gli chiederà l’ora:“Ora? Si certo, ora il Pd che farà, seguirà di Pietro?”

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