QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA
La società dell’indifferenza dove l’egoismo si trasforma in valore
L’Italia è diventata una nazione ignorante
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e di h c a n o cr
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
di Gennaro Malgieri i sono catastrofi ben più gravi del crack borsistico e perfino dell’impoverimento delle nazioni. Tra la più disastrose annoveriamo la perdita dell’anima dei popoli. E’questo il sostanziale preludio della loro scomparsa, annunciata dall’irrilevanza che sul piano internazionale viene evidenziata dalla caduta di credibilità non tanto a causa delle classi dirigenti, ma perché la complessiva percezione che se ne ha è deficitaria sotto il profilo culturale, creativo e civile. Se questi sono i parametri per giudicare la “forza”dei popoli, dobbiamo concludere che l’anima perduta dall’Italia è l’esplicitazione di una decadenza che non esiste soltanto per chi si ostina a non volerla vedere.
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DURO INTERVENTO DI NAPOLITANO Alla Camera il governo fa passare l’ennesimo decreto (sulla scuola) con l’ennesimo voto di fiducia, ma il capo dello Stato avverte che “vigilerà con rigore” su ogni alterazione della democrazia parlamentare. Si apre così uno scontro che peserà sul futuro della legislatura
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Anche negli Stati Uniti, come in Italia, vige il “complesso di superiorità”
Il presidente Napolitano all’apertura dell’anno scolastico
Decretinismo
di Giuseppe Baiocchi
Verso la Corte costituzionale?
Viaggio nei misteri La tentazione di Berlusconi: del Partito candidare Violante democratico
Mentre Bush invita i leader a un G8 straordinario
Nel giorno nero delle banche l’Europa decide di non decidere
di Francesco Costa
di Francesco Capozza
di Alessandro D’Amato
A pochi giorni dal suo primo compleanno il Pd dà segni di pessima salute. Accusa un calo preoccupante nei sondaggi, la popolarità del suo leader è in calo, e soprattutto sembra essersi spezzata l’unità.
Da diciassette mesi il Parlamento italiano deve nominare un giudice della Corte costituzionale. Il candidato naturale sembrava Gaetano Pecorella, finché Silvio Berlusconi non ha pensato che per salvare il lodo Alfano...
L’Ecofin ha detto no a un “piano Paulson” europeo e i titoli bancari continuano a perdere su tutte le Borse mondiali. Intanto Bush chiama al telefono i leader europei per organizzare un G8 straordinario.
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MERCOLEDÌ 8 OTTOBRE 2008 • EURO 1,00 (10,00
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pagina 4 CON I QUADERNI)
• ANNO XIII •
NUMERO
a politica italiana, e il circuito mediatico-intellettuale che l’accompagna e talvolta la soffoca, hanno sempre guardato alle elezioni presidenziali americane con un misto di paura e di invidia: è per la democrazia la sfida più affascinante e insieme la più sostanziosa, perché è in gioco il potere reale a livello planetario. In realtà, anche in questa come in quasi tutte le occasioni precedenti, qualunque sia il risultato non modificherà i“fondamentali” della politica estera statunitense, in particolare nel contrasto al terrorismo islamico, (minaccia sempre incombente) alla presenza nelle aree inquiete del globo e del controllo a distanza delle altre potenze mondiali (Russia, Cina e India su tutte).
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alle pagine 2 e 3 Le tre anime del Pd
Lettera aperta agli obamisti vezzeggiati dai mass-media
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WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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La riforma della scuola è diventata un semplice decreto e così è riuscita a evitare la discussione in Parlamento: una sconfitta per il Paese
Governo, 6 in condotta Duro intervento del presidente Napolitano: «Vigilerò con rigore su ogni alterazione della democrazia parlamentare» di Giancristiano Desiderio i può modificare la scuola utilizzando la fiducia? Se la situazione non fosse il disastro che è si potrebbe rispondere con una battuta: «La scuola non gode più da molto tempo della fiducia degli italiani e allora il governo pone la fiducia». Ma il disastro scolastico italiano non è liquidabile con battute di spirito, purtroppo. Proprio ieri il presidente Napolitano ha sottolineato che il ricorso allo strumento della fiducia e della decretazione d’urgenza non può essere la regola della legislazione democratica, ma l’eccezione. Mariastella Gelmini ha anche delle buone frecce al suo arco per giustificare la scelta del metodo della fiducia, ma non si può fare a meno di notare che proprio la decisione del governo di incamminarsi sulla strada della fiducia per cambiare la scuola è una scelta che si ritorce contro lo stesso ministro. Perché si perde un’ottima occasione per discutere in Parlamento e nel Paese dell’unico argomento valido per ridare nuova vita legislativa, educativa e morale all’ordinamento scolastico: la scuola libera.
S
Diciamo le cose come stanno: nel merito le scelte del ministro Gelmini non sono sbagliate. Tuttavia, con la stessa franchezza si
deve dire che si tratta di provvedimenti che si muovono sempre all’interno del medesimo paradigma scolastico, quello della “scuola di Stato”, che ormai da molto tempo ha fatto il suo tempo. La cosa tragicomica è che l’opposizione di sinistra che si oppone al decreto lo fa in nome e per conto esclusivamente della scuola statale. L’opposizione grida allo scandalo, sostiene che il ministro stia stravolgendo la scuola, dice «giù le mani dalla scuola statale» senza notare che davanti a sé ha proprio l’espressione più alta dell’ordinamento scolastico
to. In altre parole, se invece di porre la fiducia e di troncare sul nascere il dibattito parlamentare il ministro Gelmini avesse imboccato la strada della spiegazione e del confronto avrebbe potuto mettere l’opposizione, il mondo della scuola e tutto il Paese davanti a questo serio dilemma: o si sceglie di rafforzare la “scuola di Stato” come dice la stessa opposizione o si decide di cominciare a passare a un nuovo ordinamento scolastico in cui non è lo Stato il centro dell’universo della scuola bensì è la libertà della scuola. La “scuola di Stato” si fonda sull’autorità, mentre la “scuola libera” si fonda sulla libertà: il primo tipo di scuola si
stra o a sinistra, e finì con il morire di sete e fame. La fiducia impedisce che si parli ed impedisce che si possa parlare della scuola non solo come sistema impiegatizio (è questa la visione distorta dei sindacati) ma anche e soprattutto come luogo in cui si dovrebbero nutrire i più alti ideali della cultura e della vita morale che sono la base del rafforzamento e della continuità della vita democratica. La “scuola libera” - che non è la parità, i bonus, i finanziamenti - è una possibile e concreta scelta, ma è anche quella filosofia dell’educazione che permette a chi ha la pretesa di governare la scuola di avere degli strumenti di comprensione del mondo scolastico nella sua complessità e interezza.
Se avessero scelto la via del dibattito in aula, la Gelmini e l’esecutivo avrebbero potuto mettere l’opposizione di sinistra di fronte alle sue contraddizioni italiano: il signor ministro. Può piacere o non piacere, ma se solo qualcuno prima di parlare avesse la pazienza di studiare si renderebbe conto che il nostro ordinamento scolastico è il classico sistema di tipo napoleonico in cui il ministero decide e il ministro decide ciò che deve decidere il ministero. Ci troviamo di fronte, quindi, ad un vero e proprio circolo vizioso o un cortocircuito che, però, il ministro e il governo, ponendo la fiducia, evitano di far risaltare come avrebbero potu-
Il Palazzo vota la fiducia
La scuola scende subito in piazza intorno a Montecitorio di Francesco Capozza
basa sul diploma, il secondo sulla preparazione. Purtroppo - e lo diciamo con rammarico - la Gelmini scegliendo la fiducia ha implicitamente messo del piombo nelle ali del suo volo scolastico e politico. Sono ormai più di quarant’anni che la scuola italiana è davanti a questo bivio: da una parte lo Stato e dall’altra la libertà scolastica, ma è da quarant’anni che si finge di non vedere, non sapere e si rimane nel mezzo, senza scegliere ed è la scelta peggiore. La scuola è come il celebre asino di Buridano che non sapeva dove girarsi per mangiare, a de-
ROMA. Davanti a Montecitorio hanno manifestato ieri per tutta la giornata centinaia di insegnanti e studenti alzando l’immaginetta ”sacra” del ministro Mariastella Gelmini ribattezzata ”Santa Ignoranza”. Tamburi di guerra anche dagli studenti universitari che venerdì scenderanno in piazza a propria volta. Perché non è solo la scuola dell’obbligo, il problema. C’è anche l’università che, con il via libera alle Fondazioni previste da Tremonti e Brunetta, in tre anni potrebbe essere privatizzata. I ricercatori prima e gli studenti da ieri pomeriggio hanno occupato le facoltà scientifiche di Pi-
La fiducia, purtroppo, impedisce proprio questo: che si possa pensare la scuola nel suo significato educativo, morale e democratico e riporta il dibattito sulla scuola al solito scontro tra chi crede che la scuola statale sia l’unica possibile e chi non ha il coraggio di dire che non c’è “scuola di Stato” senza una rigorosa autorità statale. Rimane un dubbio: la decisione del governo Berlusconi di porre la fiducia potrebbe rispondere a calcoli politici. Ponendo la fiducia il governo sa benissimo di andare allo scontro con i sindacati e un’opposizione di sinistra che è a rimorchio della Cgil. Il governo sa che i provvedimenti della Gelmini sono malvisti dal sindacato, ma
sa e Firenze, «contro il taglio dei fondi statali all’università e la possibilità che gli atenei siano trasformarti in fondazioni private».
Scende la sera e alle ore 19 arriva il voto di fiducia numero 6 in meno di quattro mesi di vita della XVI legislatura. Che pure è quella con la maggioranza più ampia nell’èra della Seconda repubblica. La chiede, in un’aula di Montecitorio semideserta, il ministro per i Rapporti con il Parlamento Elio Vito, precisando che la richiesta nasce «solo da fatti tecnici, dalla mancanza di tempi certi nel dibattito che può diventare in fretta
ostruzionismo dell’opposizione e non certo da divisioni all’interno della maggioranza». Sia come sia, il governo ha fretta. Il pacchetto scuola del ministro Mariastella Gelmini - dal maestro unico alla non sostituzione di circa 150 mila insegnanti in tre anni passando per i ritorni al grembiule e al voto in condotta - scade il 31 ottobre. Fiducia, quindi, come così spesso è accaduto nella storia seppure breve di questa legislatura: così andò per l’Ici, per il pacchetto sicurezza con la norma sui processi, e per la Finanziaria.
Non c’è dubbio che il pacchetto Gelmini abbia creato
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Dal 1996 all’ultimo governo Prodi: storia di un fallimento
Tutte le riforme mancate dalla sinistra di Giuseppe Bertagna el 1996, la coalizione guidata da Romano Prodi si presenta alle elezioni, promettendo di valorizzare, nel nostro paese di avvocati e di liceali verbosi, la «cultura del lavoro». In questa prospettiva, la Tesi 76 del programma elettorale dell’Ulivo assumeva il solenne impegno di superare «la situazione attuale (…) caratterizzata: da una sistematica sottovalutazione dei temi relativi alla moderna cultura professionale e da elaborazioni che in sostanza tendono ad una licealizzazione dei comparti tecnici; da un sottodimensionamento delle offerte scolastiche e formative di tipo professionale e professionalizzante; dall’attribuzione all’istruzione professionale e alla formazione professionale solo di significative funzioni di recupero delle cosiddette fasce deboli della popolazione scolastica, ciò che nei fatti ha depresso e deprime il potenziale attivo dei due settori». Giugno 1997. Il governo presieduto da Romando Prodi presenta al parlamento il disegno di legge quadro in materia di riordino dei cicli, predisposto dal Ministro della pubblica istruzione Luigi Berlinguer. Le linee di forza di questa proposta di legge, poi successivamente trasformata, erano tre. La prima era un consistente tagli degli organici del comparto scuola. Già allora appariva patologico il bilancio della Pubblica Istruzione: il 97% in stipendi e spese fisse, il resto a disposizione per la qualità e il merito. L’obiettivo di ridurre progressivamente oltre 60mila posti di ruolo era raggiunto dal Ministro, accorciando da 13 a 12 gli anni degli studi preuniversitari. La seconda linea era di procedere a questi tagli all’interno di un organico disegno di riforma. La proposta prendeva infatti di petto il gravissimo crollo degli apprendimenti che si registrava allora e si registra, pure peggiorato, oggi, tra la fine della quarta scuola primaria e la fine della prima media. E risolveva il problema “eliminando” la scuola elementare quinquennale e la scuola media triennale, e sostituendole con una scuola di base settennale unitaria, all’interno della quale potessero porsi in continuità educativa e didattica più di quanto accada ora i maestri e i professori. Si levarono naturalmente lancinanti grida di dolore, ma la sinistra politica, culturale e sindacale (Cgil) tutto sommato digerì, anche per abitudine al disciplinamento di partito, l’operazione. Gli elementi innovativi contenuti nella proposta (unità della scuola di base, continuità educativa, rinnovamento dei contenuti di insegnamento) compensavano il sacrificio della perdita di un anno
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sono benvisti dalla maggioranza delle famiglie e degli italiani. Può darsi, dunque, che la scelta della fiducia sia stata dettata dall’agenda politica del governo. Ma se così fosse, allora, povera scuola, ridotta ancora una volta a campo di battaglia e a serbatoio elettorale. Sarebbe il peggior servizio per una scuola che, invece, ha un disperato bisogno di recuperare la fiducia in se stessa e nella sua dignità di essere prima di tutto scuola di libertà.
non pochi mal di pancia nella maggioranza, tra i banchi della Lega soprattutto. Bossi ci ha messo del suo per complicare la vita al ministro, prima dicendo che il maestro unico «rovina i bambini», poi aggiungendo che «gli insegnanti del sud abbassano la media italiana». Malumori che il governo ieri ha subito provveduto a smentire in aula ma che si sono materializzati anche nel tardo pomeriggio, poco prima del voto.
Il presidente Napolitano durante l’inaugurazione dell’anno scolastico al Quirinale. Sotto, Luigi Berlinguer e Tullio De Mauro. Nella pagina a fianco, Giuseppe Fioroni e Mariastella Gelmini
che, invece, preoccupava molto la Cisl da sempre attenta al mondo magistrale. Se non ché quando i docenti, i genitori e i mass media compresero che l’eliminazione di un anno per forza di cose intermedio al percorso degli otto anni attuali avrebbe provocato per sei anni il fenomeno della cosiddetta “onda anomala”, in base alla quale bisognava scegliere ogni anno un 20% di alunni che meritassero di saltare una classe, le resistenze crebbero. Ma non fino al punto di impedire al ministro De Mauro, nel frattempo succeduto a Berlinguer, fulminato dal suo stesso tentativo di introdurre un po’ di merito tra i docenti, di portare comunque in porto il piano applicativo della legge. La terza linea consistette nel proporre per la scuola secondaria l’esatto opposto di quanto era stato promesso in campagna elettorale. Per un verso, tutte le scuole secondarie vennero, infatti, chiamate “licei”. I primi due anni diventavano obbligatori per tutti e non avevano più nulla di professionalizzante. Gli ultimi tre avevano differenziazioni tecniche. Per l’altro verso, dopo i 15 anni, si confermava che chi avrebbe frequentato i licei avrebbe assolto l’obbligo di istruzione, arrivando all’esame di stato che apriva all’università. Diciamo il percorso della serie “A”. Chi invece si fosse trovato male già nel biennio liceale avrebbe dovuto frequentare soltanto l’obbligo formativo. Diciamo il percorso di serie “B”. La prospettiva di avvalorare l’istruzione e formazione professionale e di istituire, anche nel nostro paese, due percorsi di pari dignità tra istruzione liceale e formazione professionale era saltata. Nel 2001 arrivò una riforma della Costituzione che, almeno per l’istruzione e formazione professionale, riprese il programma dell’Ulivo del 1996, e ne affidò la piena sovranità alle Regioni. La XIV legislatura, con il centro destra, tenne conto di questa disposizione, e varò la contestata, dalla sinistra, riforma Moratti. Nel 2006, però, il nuovo governo Prodi, mentre non tocca gli otto anni della scuola primaria e secondaria di I grado della Moratti, riprende, invece, il programma di consacrare l’esistenza di un circuito formativo di serie “A” (le scuole dello Stato, peraltro mantenute come oggi, distinte in licei, istituti tecnici e istituti professionali) e un circuito formativo di serie “B“ (i percorsi dell’istruzione e formazione professionale delle Regioni). Respinge, in questo senso, l’idea della legge Moratti di costruire un sistema di istruzione liceale statale e dell’istruzione e formazione professionale regionale che fossero di pari dignità, ma tra loro interconnessi e reversibili dai 14 ai 22 anni. Adesso non sa più bene qual è l’idea della sinistra su questa questione. Vedremo gli sviluppi.
Contro il progetto di Berlinguer si levarono lancinanti grida di dolore dal mondo politico, culturale e sindacale
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economia
L’Europa è sempre immobile di fronte al tracollo dei titoli di tutti i maggiori istituti di credito. In Italia, oltre a Unicredit, trema anche la Popolare
Il banco degli imputati Ancora una giornata drammatica per i mercati E Bush chiama i leader europei: facciamo un G8 di Alessandro D’Amato
ROMA. Sfiduciati al loro interno e dai risparmiatori. E non si credono nemmeno tra di loro, mentre la politica gli nega anche un piano Paulson su misura. Per i banchieri europei è un momento davvero buio, di certo il più buio dall’introduzione dell’euro. Su tutte le Borse del Vecchio Continente i titoli degli istituti di credito sono in caduta libera. E non basta neanche la telefonata del presidente americano George W. Bush ai leader europei per preparare un G8 straordinario sulla crisi a risollevare le sorti dei mercati. Di primo mattino Deutsche Bank e Commertzbank perdevano il 13% e il 9% a Francoforte, l’amministratore delegato di Hypo RE, Georg Funke, si è dimesso con effetto immediato, mentre nella City è un massacro: RBS è andata sotto del 29%, Hbos del 16%, i leggendari Lloyds dell’11%, mentre Barclays “soltanto” del 9,3%. Curioso, dopo che l’operazione di salvataggio di Lehman Bros da parte della banca inglese non è andata a buon fine, per un motivo piuttosto prosaico: la Barclays era a ROMA. Certo, Enrico Cuccia non prendeva ordini neppure dal suo azionista (pubblico) Iri. Ma sembra lontano un secolo la “foresta pietrificata”dove le banche erano statali e i partiti decidevano i vertici degli istituti. Perché accanto alla rivoluzione industriale che ha portato il nostro sistema a vantare due player europei, c’è stata una sempre più marcata distinzione dalla politica: tanto che ormai si può parlare di bancocentrismo, di un potere autoreferenziale. È per questo che il “sistema” (Mediobanca o gli azionisti forti come le Fondazioni») ha trovato in proprio le risorse per l’aumento di capitale da 6,6 miliardi di Unicredit. Guarda caso per l’unico banchiere che non sembra smanioso di
sua volta“piena”di titoli Lehman. Ma i banchieri non si fidano nemmeno dei colleghi. L’Euribor – il tasso interbancario in base al
L’Ecofin ha bocciato definitivamente l’idea di un ”piano Paulson” europeo: una nuova prova di immobilismo politico quale gli istituti si prestano soldi tra di loro - sulla scadenza tre mesi è salito di tre punti base, al
fare affari con Palazzo Chigi sulle opere pubbliche. Ed è per questo che Corrado Passera, banchiere di sinistra che nel 2005 e nel 2007 ha fatto la fila per le Primarie uliviste, può portare a compimento con un governo di centrodestra la stessa operazione – l’acquisto di Alitalia – che Prodi gli aveva rifiutato. Ai banchieri la politica non può dire no, soprattutto se uno di loro, Cesare Geronzi, ha sistemato i conti di Forza Italia, dei Ds o di An. Il primo passo verso il bancocentrismo è la legge AmatoCiampi del 1990: le vecchie casse di risparmio si trasformano in fondazioni. Ufficialmente dovrebbero rispondere agli enti locali, in realtà diventano realtà autoreferenziali, spesso guidati da ex politici
5,38%, segnando l’ottavo record consecutivo. In deciso rialzo anche l’Euribor a una settimana secondo i dati della European Banking Federation - salito dal 4,89% al 4,99%. Il boom dell’indicatore testimonia l’assoluta mancanza di fiducia tra le banche, ed è il primo indice che la crisi è lontana da una soluzione. Il contagio dell’economia reale, nonostante quanto pontificano gli “ottimisti a tutti i costi”, è già in atto, altrimenti la Fed non avrebbe cominciato a prestare denaro direttamente alle aziende, annunciato un programma di acquisto di commercial paper, ossia di cambiali a breve termine emesse direttamente dalle imprese. In più, ieri è arrivato il“no” ufficiale, durante l’Ecofin, all’idea di un fondo europeo per salvare le banche, caldeggiata dal ministro Giulio Tremonti per l’Italia e dal premier francese Sarkozy. L’opposizione più dura viene dalla Merkel: la Bce non gradisce, e Francoforte ha ancora una forte influenza sulla politica tedesca. Ognun per sé, dice l’Europa.
Qui accanto, Jean-Claude Trichet, della Banca centrale europea. Sotto, a sinistra, Alessandro Profumo
Tra gli istituti italiani, oltre al caso Unicredit, c’è quello Banco Popolare.Tutto è cominciatro con un comunicato rassicurante, inviato alle agenzie di stampa e agli investitori mezz’ora prima dell’apertura della Borsa. Poi la notizia che i dirigenti hanno acquistato azioni del gruppo, per testimoniare l’assoluta tranquillità della situazione. Infine, il tonfo. Insieme alle difficoltà di Unicredit, nella giornata a Piazza Affari ha “brillato”per perdite superiori alle attese, sia lunedì che ieri. E proprio per tamponarle, la banca di Fabio Innocenzi ha fatto sapere di primo mattino al mercato che «con riferimento alle dinamiche di mercato comunica che sulla base delle stime al 30 settembre non emergono impatti rilevanti sui ra-
tios patrimoniali del gruppo, rispetto a quanto già comunicato in occasione dei dati al 30 giugno e di quelli obiettivo di fine anno, che prevedono un indice Tier 1 al 7,5%». E l’effetto sembrava fosse assicurato: dopo il drammatico 14,76% dell’altroieri, il titolo in avvio di seduta segnava un rassicurante +3,75%. Purtroppo c’era, almeno parzialmente, il “trucco”: ad acquistare 260mila titoli tra quelli sul mercato erano i dirigenti della banca. Alle 10 arrivava il macigno: il titolo sospeso per eccesso di ribasso. Poi arriva il dietrofront, e BP torna in terreno positivo a metà pomeriggio.
Grazie anche all’altalena in Borsa: Intesa Sanpaolo vola (+3,61 per cento) mentre perdono
L’evoluzione del sistema creditizio che si è affrancato dai partiti e può trattare alla pari con i governi di ogni colore
Nell’era del banchiere trasversale che ha la forza di dare ordini alla politica di Francesco Pacifico (come Giuseppe Guzzetti) che fanno pesare sul territorio tutto il loro potere d’interdizione. E poi i loro pacchetti azionari nelle banche sono blindati. Con Tangentopoli cambia lo scenario: gli stranieri bussano alla porta, Mediobanca è troppo potente, e senza il Pentapartito si indebolisce il veto dei partiti sugli istituti. In questo clima arriva il Testo unico bancario del 1994 e l’introduzione della “banca uni-
versale”: ha natura imprenditoriale, esercita sia la raccolta presso il pubblico sia l’esercizio del credito, può entrare nel capitale delle aziende. Personaggi come Bazoli, Geronzi, Siglienti o Profumo capiscono che le banche possono diventare aziende come altre. Ricorda Massimo Pini, plenipotenziario all’Iri per l’ex Psi: «Si prese come parametro il sistema anglossassone e il flusso di cassa diventò più im-
portante dell’entità patrimoniale. Fortunatamente non si è seguito gli eccessi americani». L’enorme debito pubblico impone di privatizzare, ma la politica – che pure sul versante bianco può contare su un interlocutore come Andreatta e su quello laico su Ciampi – dimostra di non avere un progetto. Prodi, da presidente dell’Iri, avalla lo schema pubblic company, fatto sta che realtà come il Credit o la Comit sa-
economia
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Così Tronchetti Provera analizzava il rapporto tra etica e mercato
Il capitalismo morale di Marco Tronchetti Provera Ieri l’altro il Papa è tornato a parlare della forza della fede a fronte della caducità del denaro. Sul tema, riproponiamo un intervento di Marco Tronchetti Provera del 2001. er lungo tempo, e questo a prescindere dalle convizioni religiose di ciascuno, il rapporto fra la dottrina e la coscienza di coloro che dedicano la propria vita alla produzione o all’accumulazione di ricchezza è stato difficile. È vero che la parabola dei talenti potrebbe ancora oggi essere considerata un manuale del moderno banchiere, ma è anche vero che si è voluto insistere, sin dall’educazione dei giovani, sulla scarsa possibilità che ha il ricco, oggi si direbbe più facilmente il capitalista, di entrare in Paradiso. A questa visione si è voluto contrapporre un pensiero, di origine calvinista, secondo cui la ricchezza può essere considerata un segno della grazia. Di tutto ciò il dibattito odierno si sta fortunatamente liberando, anche se dobbiamo essere consapevoli di quali scorie rimangono ancora nella nostra memoria individuale e collettiva. Scorie che rispecchiano la problematica sociale di un mondo in cui, con l’eccezione dei mercanti, la ricchezza era un concetto statico; il suo problema sociale non riguardava tanto i modi dell’accumulazione quanto l’uso che se ne faceva.
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Unicredit (-4,68%), Banca Popolare Milano (-5,27%) e Mediolanum (-4,54%). Il cattolico Roberto Mazzotta, presidente di BPM, proprio ieri aveva magnificato le parole del Papa: «Un giusto altolà all’avidità del mercato». Intesa Trade, divisione del gruppo, ha chiesto ai clienti con operazioni short (aperte nei giorni precedenti) di rientrare entro fine giornata: una scelta prudenziale che ha permesso alla banca di Passera e Bazoli di guadagnarsi maggiore fiducia nei mercati: e infatti, il giudizio degli analisti è che Ca’ de’ Sass sia meglio capitalizzata, e capace di performare meglio nel medio-lungo periodo. Anche meglio rispetto a un settore, quello italiano, che non sembra aver trovato per uscire dal tunnel. Ma,
ranno vendute senza premio di maggioranza e a un terzo del valore. Ma a comprare non saranno i piccoli risparmiatori, bensì i soci di Mediobanca o pezzi di finanza bianca come le fondazioni. Da qui parte un processo di aggregazione che porterà nel 2007 alla costituzione di quattro macro poli (IntesaSanpaolo, Unicredit, Mps-AntonVeneta, Banco Popolare). La politica non sarà mai il motore. Se il centrodestra sul versante bancario può contare solo su Geronzi il centrosinistra al governo al massimo si accoda a decisioni prese da altri: nel 1999 D’Alema, forse per indispettire la Fiat, contribuisce a bloccare le Opa di Unicredit su Comit e di Sanpaolo su Banca di Roma, ma nulla può
più di tutto, sulle difficoltà influiscono i numeri odierni. I quali dicono che i confronti tra i ratios patrimoniali, il core tier 1 (ovvero il tier 1 capital al netto degli strumenti finanziari come le obbligazioni) di Unicredit, al netto dell’aumento di capitale, è di 5,55. Peggio di lei sta il Monte dei Paschi di Siena, che ha 5,10, mentre appena sopra ci sono Intesa San Paolo (5,70) e Banco Popolare (5,90). Il Tier 1 Capital, ovvero la quota più solida e più facilmente disponibile del patrimonio della banca, è invece 6,30 per Unicredit, 5,40 per Mps e 6,60 per Intesa San Paolo. Forse la finanza italiana aspetta che la politica (nostrana e/o europea) batta un colpo. Difficile, se anche così fosse, che basti per uscire dal guado.
per favorire la fusione tra Mps e Bnl o le mire di Generali sull’Ina.Durante gli anni del centrodestra al governo è emblematica la sconfitta di Tremonti contro le fondazioni, affievolita dalle dimissioni di Fazio. Ma a certificare la separazione tra politica e banche è Giovanni Bazoli. Nel 2006 lamenta l’insistenza di un Romano Prodi – lo stesso che dieci anni prima ha segnalato come leader dell’Ulivo – che cerca fondi per le infrastrutture. Così si arriva ai giorni nostri: Berlusconi ha bisogno di soldi per le opere pubbliche. E i banchieri – compresi quelli che fecero la fila per le primarie dell’Unione – sono disposti a darne. Ma in cambio di buoni affari come quello che Passera ha fatto con Alitalia.
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do eccessivamente semplicistica e riduttiva che fa dell’homo economicus una caricatura anche rispetto a ciò che potevano pensare i più cinici individualisti del pensiero positivista. Per tutti valga la celebre affermazione, attribuita dalla signora Thatcher, secondo cui «non esiste la società, ma solo una somma di individui». (…)
Ora, sarebbe sbagliato chiedere alla Chiesa di abbandonare il terreno puramente morale. (…) Del resto, nel momento stesso in cui mette lo sviluppo al centro della sua dottrina sociale, essa è necessariamente cosciente di avere aperto una finestra su un processo per sua natura dinamico, impossibile da cristallizzare in una formula e in cui l’equilibrio fra le esigenze dell’accumulazione e quelle della redistribuzione o dell’uguaglianza può solo essere trovato per approssimazioni successive. Per progredire, è essenziale evitare le caricature e le semplificazioni. Da un lato il rifiuto dell’immagine di un unico sistema capitalista fonte automatica di disuguaglianze, per far posto a un’analisi più articolata dei vari capitalismi esistenti in continua evoluzione e concorrenza tra loro. Dall’altro, non guardare al testo dell’enciclica in modo isolato, e quindi necessariamente riduttivo. Oltre a questo riferimento allo sviluppo, che mi sembra il messaggio centrale dell’enciclica, mi è anche utile, per concludere, ricordare altri tre spunti stimolanti del testo papale. Il primo riguarda la vigorosa difesa della democrazia e della libertà come precondizione dello sviluppo. È soprattutto importante, quando si affronta il problema dello sviluppo dei Paesi emergenti, non riflettere soltanto sull’impatto delle politiche dei Paesi più sviluppati, ma anche su quello dei fattori endogeni di natura politica, culturale e sociale. Altrimenti risulta assolutamente incomprensibile uno dei fenomeni più rilevanti degli ultimi decenni, quello della straordinaria differenziazione nei gradi e nei modi di sviluppo proprio all’interno di quello che un tempo si definiva in maniera indistinta «il terzo mondo». Il secondo elemento riguarda l’affermazione, anch’essa espressa con grande efficacia, che la disperazione conduce facilmente alla violenza. Sembra una ovvietà, ma chi è nutrito di razionalismo cede troppo spesso alla tentazione di dimenticarla. Il terzo elemento infine, riguarda la definizione dello sviluppo come condizione per la pace. Da un lato ciò ricorda una delle grandi massime del pensiero liberale: «Dove passano le merci non passano gli eserciti». Soprattutto, richiama tutte le nazioni non solo a un’esigenza di solidarietà ma anche a un’esigenza di collaborazione. In particolare, si sottolinea la necessità di una solidarietà e di una maggiore cooperazione regionale fra i Paesi emergenti. Più in generale si tratta di un messaggio importante in un momento in cui pare venga posta minore attenzione alle istituzioni internazionali da parte dei Paesi più avanzati.
Dove passano le merci, non passano gli eserciti: questo, che sembra un luogo comune, in realtà è un principio che richiama gli Stati a un’esigenza di solidarietà e collaborazione
Nello svolgere la sua analisi, l’enciclica Sollecitudo Rei Socialis di Giovanni Paolo II vuole, idealmente, contrapporsi sia al «capitalismo liberista» che al «collettivismo marxista». Nel frattempo, il testo è del 1987, il comunismo è crollato rovinosamente. Il lettore odierno si trova quindi a fare i conti esclusivamente con i problemi legati al funzionamento del sistema che ha trionfato. La critica che il testo papale fa del sistema economico e sociale in cui viviamo è, a prima vista, spietata e si ha l’impressione che l’oggetto dell’analisi sia un meccanismo cieco in cui le esigenze dell’accumulazione, o «la logica del profitto», prevalgono su qualsiasi altra esigenza di dignità e di libertà della persona umana. La cosa deve fare riflettere. (…) Se questa percezione riduttiva del liberalismo economico è così diffusa, non solo nel pensiero del Pontefice, ma, dobbiamo ammetterlo, anche in buona parte dell’opinione pubblica, è doveroso chiedersi se una responsabilità non ricada anche sui più recenti pensatori liberali. L’appannarsi del pensiero liberale può essere spiegato anche con una dichiarata volontà di molti economisti di sradicare dalla scienza economica «gli elementi morali», nel proposito, a mio avviso vano, di dare a essa i fondamenti di una scienza esatta. Il risultato è un panorama del pensiero liberista non proprio esaltante. Nel tentativo, in sé giustificato, di demolire molte delle eccessive rigidità introdotte nel funzionamento dell’economia occidentale nella seconda metà del secolo scorso, si è spesso sviluppata una visione del mon-
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società
Il ricordo di Rosario Caruso, l’operaio morto a Barberino del Mugello di cui nessuno parla più
Il silenzio sugli innocenti di Francesco Rositano
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La Lega propone il permesso a punti
A lato la piattaforma del cantiere di Barberino del Mugello dove il 2 ottobre scorso hanno perso la vita tre operai: Rosario Caruso, (nella foto qui sopra); Giovanni Mesiti e Gaetano Cervicato i Rosario Caruso - l’operaio di 26 anni morto insieme a due colleghi la settimana scorsa mentre stava costruendo un pilone autostradale a Barberino del Mugello, vicino Firenze - tutti i giornali hanno ricordato che voleva ricevere il sacramento della cresima per sposarsi. Era stato lui a dirlo ad un collega per scherzo: in realtà voleva cresimarsi per far da padrino al figlio di un suo caro amico. Ma ai giornali tante, forse troppe sfumature della sua vita sono sfuggite. E come da copione, il tritacarne mediatico ha trattato la sua vita e quella dei suoi colleghi come se fossero solo numeri. “Numeri” che contano per lo spazio di un mattino e già il giorno dopo finiscono nel buco nero della dimenticanza: nessuno ne parla più fino alla tragedia successiva.
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Ma Rosario non era un numero. Bastava andare nel cantiere in cui lavorava, trascorrere qualche ora con i familiari oppure partecipare al suo funerale per accorgersene. Aveva dei sogni, delle speranze, aveva dei progetti. Nel suo piccolo voleva cambiare il mondo e per questo aveva lasciato la sua Calabria per andare al Nord a lavorare. Aveva lasciato la sua regione, si era separato dai suoi affetti. Ma era sempre rimasto un ragazzo del Sud perché in tasca conservava i tesori della sua terra: il calore umano, la simpatia, la voglia di fare, l’altruismo, il coraggio. E ogni volta che poteva - circa ogni tre settimane tornava a casa, dalla famiglia e dagli amici. Per loro era «’U zì Rosu», lo zio Rosario. Un modo simpatico di chiamarlo, un modo affettuoso per dirgli che gli volevano bene.
Un’attenzione che ricambiava continuando ad essere presente anche a distanza: continuando a sentirli per telefono, a chiedergli di loro, a raccontargli le sue avventure. Un suo collega, parlando con i familiari, ha raccontato loro che lui era l’unico che al mattino appena arrivava in cantiere lo salutava, gli dava una pacca sulla spalla e si rendeva disponibile ad aiutarlo in qualsiasi momento. Rosario non si tirava mai indietro. E anche quando si è trattato di salire su quella piattaforma a quaranta metri da terra, non ha avuto esitazione. «Al mattino racconta un altro operaio - arrivava qui con una grande voglia di lavorare. Non voleva perdere tempo, ci
Ecco il triste destino delle vittime del lavoro: un enorme titolo sui quotidiani il giorno della morte e l’oblio in quello successivo teneva a fare bene, era preciso, pieno di energie». Per Rosario il lavoro era stato il suo riscatto: gli aveva dato l’indipendenza, gli aveva permesso di comprare la macchina, di pensare al futuro. E per lui il futuro era a colori, come i suoi disegni.Voleva sposarsi, avere una famiglia, fare dei figli. Rosario adorava i bambini. Lo aveva dimostrato nel modo in cui coccolava il suo nipotino Antonino, oppure dalla premura con cui teneva in braccio il figlio primogenito del suo migliore amico: il piccolo Giuseppe. «Che grande gioia ha dimostrato - racconta
un amico - quando gli è stato chiesto di far da padrino a Giuseppe, tanto che aveva deciso di fare il catechismo per ricevere la cresima». Fin da piccolo Rosario aveva riempito la casa dei suoi disegni, che i genitori avevano appeso alle pareti con splendide cornici: acquerelli, ritratti a mano libera. In ognuno c’era il suo sigillo: la sua firma in calce, come i grandi artisti. Il futuro per Rosario era a colori come le sue battute.
«Aveva sempre un modo per strapparti un sorriso in qualsiasi circostanza, anche nelle più drammatiche», ricorda la madre. Era a colori come le canzoni che amava ascoltare e ballare in tutte le occasioni: in particolare la musica folckoristica calabrese. Era a colori come la sua risata. È questa, forse, la cosa che mancherà di più alla gente che lo ha conosciuto, alle duemila persone che si sono messe in fila dietro al feretro per accompagnarlo a piedi in chiesa, per i funerali. Ora che queste parole non possono più dirgliele, gli amici hanno deciso di scriverle e di conservarle nella bara. Insieme alla tuta che usava per lavorare, simbolo del riscatto; insieme ai suoi dischi musicali e al suo libro preferito; insieme all’album con i suoi disegni. Sappiamo tutti che questo è il destino delle vittime del lavoro: un enorme titolo sui quotidiani il giorno della morte e l’oblio in quello successivo. Per Rosario vogliamo, invece, un futuro diverso. Non un numero nelle statistiche, ma un ricordo autentico. In fondo, non può bastare il grigiore della morte o la negligenza della stampa a spegnere una stella luminosa.
Un permesso di soggiorno «a punti», un po’ come la patente di guida: chi si integra nella società italiana vede accresciuto il punteggio, chi viola le leggi o non è in regola perde punti fino a esaurimento. E in questo caso scatta l’espulsione. È uno degli emendamenti messi a punto dai senatori della Lega Nord per il ddl sulla sicurezza illustrati nel corso di una conferenza stampa a palazzo Madama. Gli emendamenti leghisti al ddl del governo sono stati illustrati dal capogruppo dei senatori, Federico Bricolo, dalla vice presidente del Senato, Rosi Mauro (nella foto). Permesso a punti, quindi, ma anche matrimoni misti più difficili. E inoltre referendum comunali per costruire edifici di culto per confessioni religiose che non hanno stipulato intese con lo Stato.
Statali, sindacati sul piede di guerra Cgil, Cisl e Uil vanno verso lo sciopero del pubblico impiego. I sindacati valutano negativamente la riunione che si è svolta ieri mattinata con l’Aran e hano annunciato che in settimana valuteranno le «ulteriori iniziative di lotta da assumere a sostegno della vertenza» per il rinnovo contrattuale, che verranno definite più precisamente giovedì. Cgil, Cisl e Uil di categoria chiedono anche un incontro urgente al Governo. La battaglia - spiegano i sindacati - sarà «dura e lunga e potrebbe concretizzarsi in più iniziative di protesta, non escludendo lo sciopero generale della categoria».
Idv e sinistra di nuovo uniti L’11 ottobre comincerà ufficialmente la raccolta delle firme contro il Lodo Alfano. Ad annunciarlo è il leader dell’Idv Antonio Di Pietro in una conferenza stampa organizzata a Montecitorio insieme ad Arturo Parisi del Pd, al segretario del Prc Paolo Ferrero, a Carlo Leoni della Sinistra Democratica e a Manuela Palermi del Pdci. Mancano i Verdi, ma è molto probabile che loro aderiranno alla seconda delle manifestazioni indette l’11 ottobre. Già, perchè se la sinistra e l’Idv sono unite nel «fronte-anti-lodo-Alfano», restano divise nelle piazze. Sabato prossimo, infatti, mentre Di Pietro sarà a piazza Navona, il Prc, con Pdci, Verdi, Sd e altre realtà della sinistra di opposizione darà vita a una manifestazione nella capitale. Spiega Ferrero, che definisce l’evento «la fine della ritirata».
Calderoli: le riforme si fanno insieme Basta con le riforme fatte a maggioranza, ora è il caso di ripartire da zero per farle insieme. Lo dice Calderoli. Il ministro per la Semplificazione legislativa sottolineando che «dopo che sono stati commessi errori da entrambe le parti e si sono fatte le riforme a maggioranza, è giunto il momento di tirare una riga e ripartire da zero per fare le riforme insieme». Il federalismo fiscale, il codice delle autonomie e la riforma costituzionale aspettano da troppo tempo. Il ministro, parlando di queste ultime, spiega che si tratterà di «un percorso abbastanza tranquillo».
Bertone difende Pio XII Papa Pio XII «non fu silente né antisemita: egli fu prudente». È quanto scrive il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato vaticano, nell’introduzione al libro di Margherita Marchione. Nel testo, anticipato dall’Osservatore Romano, Bertone scrive che fu proprio attraverso un approccio prudente che Pio XII «protesse ebrei e rifugiati». Papa Benedetto XVI celebrerà giovedì 9 ottobre, nell’ambito del Sinodo dei vescovi, una messa per i 50 anni dalla morte di papa Pacelli. Lunedì, il rabbino di Haifa, Shear-Yashuv Cohen, primo ebreo invitato a parlare al Sinodo, ha ribadito la contrarietà degli ebrei israeliani alla beatificazione di Pio XII, per la quale manca la decisione proprio del pontefice.
politica ROMA. Diciassette mesi. Da tanto la Corte costituzionale lavora pur non essendo nel plenum della sua composizione. Tutto ha inizio il 5 maggio del 2007, quando il giudice Romano Vaccarella, eletto dal parlamento in quota centrodestra, si dimette dopo che nessun membro dell’allora governo guidato da Romano Prodi ha replicato o smentito la sua lettera al Corriere della sera in cui la Corte veniva definita «serva del potere esecutivo». Un’accusa grave, ma evidentemente vera se nessun ministro della Repubblica aveva ritenuto giusto ed opportuno respingerla. La Consulta si era poi espressa contro le dimissioni del giudice Vaccarella ma questi, inamovibile, le aveva confermate. Da allora si è aperto un vulnus all’interno della Suprema Corte che lo stesso Parlamento non è riuscito a sanare, creando una situazione di stallo che rischia di creare una vera e propria crisi delle istituzioni. Per ben 10 volte, infatti (8 nella scorsa legislatura, 2 in questa), senatori e deputati riuniti in seduta comune - non hanno trovato l’intesa su un nome per ricoprire il posto di giudice mancante. Dopo i numerosi richiami dei presidenti (vecchi e nuovi) dei due rami dal parlamento, si è mosso, con un richiamo formale, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che la scorsa settimana ha fatto appello al buon senso di tutti gli esponenti politici per risolvere l’empasse che rende anatra zoppa la Consulta, immobiliz-
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Anche se Berlusconi continua a non fidarsi dell’ex pm, a via dell’Umiltà sanno che l’approdo di Violante alla Corte costituzionale, il quale in tempi non sospetti ha fatto lodi sperticate del lodo Alfano, può essere la soluzione per evitare che lo “scudo”per le alte cariche dello Stato venga dichiarato incostituzionale. Questo è lo stesso e identico motivo per cui negli ultimi giorni pare sia il Pd a frenare la nomina dell’ex presidente della Camera. Uno scenario paradossale, ma neppure poi tanto.
L’ex magistrato del Pd verso la Corte Costituzionale?
Tentazione Berlusconi: candidare Violante di Francesco Capozza scade il mandato del presidente della Corte Franco Bile e dopo qualche mese, il 18 febbraio 2009, quello del vice presidente (nonché, per prassi, probabile successore di Bile alla presidenza, seppure per pochi mesi) Giovanni Maria Flick. Se da un lato il sostituto di Franco Bile sarà scelto dalla
rella ancora vacante, quell’elezione potrebbe essere criticata e ritenuta invalida. Secondo scenario. Il Parlamento si accorda sul nome di Gaetano Pecorella o su quello di un altro esponente di area vicina al Pdl e si ripristina il plenum della Corte mettendo fine ad una vacanza che dura da un anno e mezzo. Quest’ultima ipotesi, tuttavia, allo stato attuale dei
Orlando, ma per una serie di accordi con l’Italia dei Valori, per primo quello in Abruzzo, che rischierebbero di saltare. Di più: al segretario democratico serve un altro elemento per dimostrare che il premier, oltre ad essere «un’anomalia», è inaffidabile, perché sordo anche ai richiami del Capo dello Sta-
Al Cavaliere, secondo fonti a lui vicinissime che raccomandano l’anonimato, sarebbe venuto in mente di fare un blitz che metterebbe in grave difficoltà il Pd: eleggere subito Luciano Violante e congelare la nomina di Gaetano Pecorella fino a febbraio. Messo di fronte ad una proposta del genere Walter Veltroni si troverebbe di fronte ad un bivio senza una terza via: rifiutare l’offerta e sbattere così la porta in faccia ad uno dei padri nobili del Pd, oltre che un ex presidente della Camera (e uno dei pochi che si è fatto da parte autonomamente alle scorse elezioni al grido di «largo alle nuove generazioni»), oppure ingoiare il rospo e accettare la proposta, cadendo nel trappolone berlusconiano. A questa seconda ipotesi starebbe lavorando il premier, che vorrebbe presentarsi ben presto al Quirinale da vincitore dell’intera partita. E se riuscirà nel suo intento, la liaison del premier con Giorgio
Da 17 mesi il Parlamento deve nominare un giudice. Il candidato naturale sembrava Gaetano Pecorella, finché il premier non ha pensato che per salvare il lodo Alfano...
zata la Vigilanza Rai e, conseguentemente, impedisce il ricambio dei vertici stessi della televisione di Stato.
La situazione in cui la Corte Costituzionale versa da tutti questi mesi, se non venisse eletto il sostituto di Romano Vaccarella, potrebbe aggravarsi ulteriormente nel giro di poche settimane. L’8 novembre, infatti,
Corte di Cassazione, quello di Flick dovrà essere eletto, anch’esso come quello di Vaccarella, dal parlamento. Da qui discendono vari scenari.Vediamoli nell’ordine. Il primo è questo: si arriva alla scadenza della presidenza Bile senza il plenum della Corte. In teoria, la Cassazione dovrebbe designare in breve tempo il sostituto dell’attuale presidente, e ciò renderebbe piuttosto agevole l’elezione del suo successore. In teoria. Perché se si arrivasse alla nomina del nuovo presidente della Consulta con il posto lasciato scoperto da Vacca-
fatti, visto il clima di scontro sempre più esacerbato tra maggioranza e opposizione, sembra improbabile.
È chiaro a tutti che Walter Veltroni non accetterà di votare Pecorella alla Consulta finché Berlusconi non darà il via libera all’elezione di Leoluca Orlando alla Vigilanza Rai. E questo, ovviamente, non perché Veltroni tenga particolarmente ad
A sinistra, Gaetano Pecorella. A destra, il presidente della Consulta Franco Bile. In alto, Luciano Violante
to. Questo, dunque, lo scenario possibile e, forse, probabile. A meno di sorprese dell’ultim’ora. Già, una sorpresa. A questo starebbe puntando segretamente il presidente del Consiglio. E la sua sorpresa ha anche un nome: Luciano Violante. In ambienti azzurri si era da tempo diffusa la consapevolezza dell’utilità del ticket Gaetano Pecorella – Luciano Violante per ricoprire i due posti vacanti alla Consulta ( quello scoperto dal maggio 2007 e quello che si libererà a febbraio allo scadere del mandato di Giovanni Maria Flick).
Napolitano raggiungerà vette talmente imbarazzanti per il leader del Pd, che il rischio che l’oscuro auspicio fatto ieri da Paolo Flores D’Arcais di una «batosta che porti il Pd al di sotto del 25% come unica via di rinascita per il centro sinistra» diventi realtà, portando al patibolo per primo l’artefice della debacle: il segretario del partito.
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politica
L’inchiesta. Viaggio nelle tre anime del Pd, sempre più frantumate al loro interno tra attese e prospettive per il futuro
Mistero democratico A pochi giorni dal suo primo compleanno il Partito democratico dà segni di pessima salute. Accusa un calo preoccupante nei sondaggi, la popolarità del suo leader precipita, e soprattutto sembra essersi spezzata l’unità faticosamente costruita nei mesi che hanno
portato alle primarie del 14 ottobre 2007. Ci sono tre grandi aree in competizione tra loro: quella che fa riferimento al segretario, la dalemiana Red e la neonata PeR, che unisce Rutelliani e teodem. Vediamo quali sono le rispettive strategie per i prossimi mesi.
Che cosa vogliono davvero/1. D’Alema
Massimo punta su Enrico Letta di Francesco Costa
ROMA. Tesseramento, elezioni europee, congresso: queste le tre tappe della strategia di Massimo D’Alema per voltare pagina nel Partito democratico. Che l’ex premier non sia un estimatore della leadership di Walter Veltroni è cosa nota, così come sono noti i fastidi dell’apparato veltroniano per l’attivismo post-elettorale di D’Alema e della sua fondazione Red. Presto però saranno accan-
arruolate nella commissione statuto del partito, non si sarebbe mai realizzato. Meglio sarebbe stato, per Walter e i suoi fedelissimi, preservare lo status di partito liquido tanto caro al segretario del Pd. C’è un altro tesseramento, però, al quale D’Alema tiene particolarmente: quello di Red, il cui primo conteggio ufficiale è stato diffuso nei giorni scorsi con cifre di tutto rispetto (tremila iscritti, e la campagna nelle regioni rosse deve ancora partire). Le iscrizioni a Red e quelle al Pd sono strettamente collegate. In molti considerano ormai l’associazione dalemiana un vero e proprio partito nel partito, e
La campagna per sostenere il ministro ombra al Welfare partirà dopo le Europee, in vista del primo congresso. Intanto viaggia con una buona media il tesseramento di Red tonate le dichiarazioni a mezza bocca con cui si sono sfidati finora i due storici rivali, e si comincerà a fare sul serio.
La prima fase sarà il tesseramento, iniziato a fari spenti quest’estate e presto rilanciato in grande stile in occasione della manifestazione del 25 ottobre. Un tesseramento voluto fortissimamente da Massimo D’Alema («io sono abituato ad avere una tessera, per ora ho ancora un attestato e aspetto trepidante di avere una tessera») e che, fosse dipeso dalle truppe veltroniane
pensano che sarà proprio Red lo strumento con cui, al momento opportuno, D’Alema lancerà l’opa sulla leadership interna. Quando arriverà questo momento opportuno? Certamente dopo le elezioni europee della prossima primavera, altro passaggio fondamentale nella strategia di D’Alema. Prima però ci sono da definire le modifiche della legge elettorale, e anche sulla proposta del Pdl (liste bloccate e sbarramento al 5 per cento) le strade di Massimo e Walter divergono. La posizione ufficiale del Pd è nota: mantenimento
delle preferenze e sbarramento al 3 per cento, sebbene non sia un mistero che il segretario voglia a tutti i costi conservare le preferenze (anche in cambio di uno sbarramento al 5), mentre D’Alema preferisce uno sbarramento più basso e meno penalizzante per l’Udc e le forze alla sinistra del Pd, anche a costo di dover votare con le liste bloccate. Al di là delle regole, però,
quel che conterà delle elezioni europee sarà il risultato: con il Pd sopra la soglia psicologica del 30 per cento,Veltroni riuscirà a rimanere in sella al partito. Con il Pd sotto quella soglia, si aprirà inevitabilmente la guerra di successione, e lì prenderà il via la terza ed ultima tappa: il congresso. Un congresso anticipato durante il quale celebrare lo scontro covato negli ultimi
mesi tra due visioni radicalmente diverse della politica. Non assisteremo però a una riedizione delle sfide del passato.
D’Alema non ha intenzione di contendere personalmente la leadership del partito a Veltroni, e ha deciso di puntare tutto su qualcuno che dell’attuale segretario del Pd è già stato avversario, poco più di un anno fa: Enrico Letta. Da
Che cosa vogliono davvero/2. Veltroni
Walter scava la trincea interna,il resto verrà di Errico Novi
ROMA. Una settimana fa è toccato a Giorgio Tonini, veltroniano doc, prendersi una solenne ramanzina da Enrico Letta. Ieri è stata la volta del segretario in persona. «Dire che Berlusconi è un’anomalia diventa ridicolo. Questo Paese avrebbe bisogno di ben altri esponenti di opposizione». Non lo dice un ministro del governo Berlusconi. È Massimo Cacciari che parla, e testimoniando la sfiducia sempre più diffusa all’interno del Pd nei confronti di Walter. Il sindaco di Venezia non si limita a questo: nell’intervista al sito Affaritaliani.it riconosce che dietro l’inasprimento dei toni esibito nelle ultime settimane da Veltroni può esserci il timore di un flop alla manifestazione del 25 ottobre: «È un motivo tattico possibile, è chiaro che in una situazione di grande difficoltà si accentua la polemica». Non sarà certo con l’adunata anti-governativa che si esauriurà il nuovo corso del leader democratico. La scelta è strategica, non occasionale. In un partito in cui le componenti più solide si organizzano attorno alle identità originarie,Veltroni e il suo coordinatore Goffredo Bettini fanno la cosa più semplice, scontata: aggrapparsi all’antico e finora insostituibile collante del centrosinistra, l’antiberlusconi-
smo, il giustizialismo condito dall’allarme per la democrazia in pericolo.
È una reazione studiata. D’Alema prova a riorganizzare l’orgoglio diessino ferito dalla sconfitta e dalla disgregazione organizzativa. Rutelli approfitta dello sbandamento diffuso tra i popolari per catalizzare il malcontento dell’ala cattolica. Schiacciato tra i due, il segretario si aggrappa all’unica suggestione capace di accomunare gli elettorati pre-costituente: l’opposizione saggiamente accecata dal disconoscimento del nemico. Funzionerà? Di sicuro l’idea è tenere il punto fino alle Europee. Dopodiché si tireranno le somme. Nel tempo che separa Walter dall’esame decisivo i suoi sforzi sono tutti concentrati nel contenimento dell’emorragia di consensi già in corso verso le sponde dipietriste. Marcare a uomo l’ex pm ed evitare che monopolizzi il linguaggio da opposizione intransigente è la sola vera priorità strategica che si sono dati al Nazareno. Il resto è riduzione del danno. Innanzitutto nella difficile partita del tesseramento, complicata anche da qualche paradosso organizzativo: il lancio in grande stile è fissato sempre per la manifesta-
politica
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Che cosa vogliono davvero/3. Rutelli
O il partito cambia o i cattolici tutti insieme di Franco Insardà
ROMA Qualcuno intravede già
mesi ormai lettiani e dalemiani si parlano e si muovono come un sol uomo: sistema proporzionale, fine dell’autosufficienza del Pd, convergenze con l’Udc di Casini, difesa del governo Prodi e critica alla leadership di Veltroni, anche dopo la recente svolta di opposizione radicale. Non è finita: la stessa Red è presieduta da Paolo De Castro, sostenitore della candidatura dell’attuale ministro om-
bra del Welfare alle primarie del 14 ottobre. Gradita a popolari e rutelliani, una candidatura Letta rispetterebbe poi la regola non scritta dell’alternanza tra ex Ds ed ex Dl nei ruoli cardine del partito. D’Alema lo aveva anticipato: «Il prossimo segretario dovrà avere vent’anni meno di me». Tra Massimo ed Enrico di anni ce ne sono diciassette: l’impressione è che nessuno starà lì a sottilizzare.
zione del 25, ma in molte regioni il lavoro è già avviato. Nella Venezia di Cacciari le tessere circolano eccome (anche se non passano per le mani del sindaco), a Napoli gli assessori estranei alla filiera diessina si lamentano già per una campagna di adesione sfacciatamente «pilotata», a Roma vengono presi per buoni gli attestati di fondatore diffusi con le primarie e si eleggono già i coordinatori di circolo. Tutti meccanismi che la macchina veltroniana non controlla certo in via esclusiva. Sarà difficile battere la concorrenza anche in vista delle candidature per le Europee. Veltroni aveva trovato il modo di avvantaggiarsi delle liste bloccate che il Pdl si appresta a introdurre: i nomi da inserire nell’elenco sarebbero stati scelti con le primarie, meccanismo con il
lo spettro di una nuova diaspora che ricorda quella della Dc. Il padre nobile Franco Marini sta da tempo tentando di tenere uniti gli ex popolari. Il convegno di Assisi di Quarta Fase, dal 10 al 12 ottobre potrebbe essere l’occasione buona, anche se molti hanno già imboccato strade diverse. Marini spera che a Fioroni e Franceschini possano di nuovo affiancarsi Rosy Bindi ed Enrico Letta per poi tentare di ripetere l’operazione con Francesco Rutelli e i teodem. La situazione è in evoluzione in attesa degli appuntamenti importanti di fine ottobre: la manifestazione del 25 ottobre contro il governo Berlusconi e il dibattito parlamentare sulla legge elettorale per le europee. Poi, dicono, si vedrà. Ma al momento, come successe 14 anni fa, più che unirsi i cattolici sembrano occupati a dividersi. Nello stesso Pd sono nate molte correnti, anche se i diretti interessati precisano: «Non sono correnti». Fioroni e Franceschini sono leader di ”Quarta fase”, En-
quale i veltroniani sanno muoversi bene. Ma nella commissione statuto si è deciso che eventuali selezioni preelettorali dovranno avvenire con il voto di preferenza. L’opzione è stata sostenuta, non casualmente, dai dalemiani. C’è uno scoglio più difficile di altri: la probabile disfatta abruzzese. Potrebbe essere quella la molla che spingerà i popolari di Franco Marini a ridiscutere l’alleanza con il segretario. Se non altro per liberarsi le mani e attribuire a Walter la sconfitta nella regione dell’ex presidente del Senato.A quel punto il gioco si farà ancora più duro. Ed è per questo che l’intensità polemica del Veltroni anti-berlusconiano non potrà permettersi pause, a cominciare dagli stati generali della Giustizia annunciati nei giorni scorsi.
Si andrà avanti con il giustizialismo fino alle Europee per contrastare il ritorno alle vecchie identità.Ma il pressing sul segretario e Bettini si fa asfissiante:ieri duro affondo di Cacciari
rico Letta di ”Trecentosessanta gradi”, Rosy Bindi di ”Democratici davvero”, Pierluigi Castagnetti ha la fondazione ”Persona, comunità, democrazia” , per tutti ”White” in contrapposizione alla ”Red” dalemiana, e poi c’è l’ultima arrivata ”Per, Persone e Reti”di Francesco Rutelli. Paola Binetti che ha aderito al progetto di Rutelli ha una sua lettura di questo momento particolare dei cattolici del Pd: «La vivacità è proprio dell’essere cattolici. Il nostro mondo è libero per definizione. Non a caso esistono tanti ordini religiosi, tanti movimenti e perché no tante correnti politiche».
Ma qual è l’obiettivo di questi gruppi? Come si collocano all’interno del Pd? E che rapporti hanno con Walter Veltroni e Massimo D’Alema? Secondo voci ben informate Dario Franceschini e Giuseppe Fioroni scalpitano per liberarsi della ”patria potestà” di Franco Marini, e avere una propria autonomia. I due sarebbero anche in competizione per stabilire una volta per tutte chi è il leader della corrente che, sempre più appiattita sulle posizioni veltroniane, perderebbe visibilità e consensi nella base elettorale. L’altro padre nobile dei popolari, Pierluigi Castagnetti, cerca di ritagliarsi un ruolo, ma non ha molto seguito. Con la sua Fondazione ha in programma un convegno sulla crisi democratica e il ruolo dei cattolici. Enrico Letta, come spieghiamo in queste pagine, è dato in avvicinamento verso D’Alema. Mentre Rosy Bindi, con la sua
Paola Binetti: «Tutti questi gruppi dimostrano una vivacità propria del nostro mondo, che è libero per definizione» ”Democratici davvero”è alla ricerca di uno spazio autonomo.
Dal canto suo l’ex presidente della Margherita, Francesco Rutelli, con la creazione di ”Persone e Reti”, vuole rafforzare il suo gruppo in attesa di sviluppi futuri. Oltre ai fedelissimi Paolo Gentiloni e Renzo Lusetti ha agganciato i teodem che facevano capo a Paola Binetti e Luigi Bobba, con la sola eccezione di Enzo Carra. L’obiettivo di Rutelli sarebbe quello, nel caso di una debacle del segretario Veltroni, di proporsi come possibile alternativa alla guida del Pd. O, se questo obiettivo non fosse centrato, a guardare verso l’Udc. Ma l’onorevole Binetti ne dà una lettura più nobile: «I cattolici nel Pd non possono essere una minoranza, sono portatori di valori universali e nel momento in cui vengono prese decisioni importanti non possono risultare marginali per riuscire a difenderli. Altrimenti non ci sarà un Partito democratico, ma una riedizione dei Ds». E sul futuro la Binetti è chiara: «La scommessa da vincere è questa: saper difendere la nostra libertà e i nostri valori verso un’unione d’intenti aperta a tutte le aree che si muovono nel mondo cattolico».
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mondo
La manifestazione antigovernativa di ieri si è trasformata in guerriglia urbana: un morto e 148 feriti
Bangkok verso il colpo di Stato di Vincenzo Faccioli Pintozzi
d i a r i o on accenna a diminuire la crisi politica che attanaglia la Thailandia da oramai quasi sei mesi, e che è esplosa ieri in un violento scontro tra forze armate e dimostranti antigovernativi. La manifestazione contraria all’insediamento del nuovo premier, svoltasi ieri davanti al Parlamento di Bangkok, si è trasformata in guerriglia urbana, con un morto e 148 feriti. Gli scontri sono nati dalla figura del primo ministro entrante, Somchai Wongsawat, che davanti ai deputati thailandesi ha parlato per circa un’ora della crisi finanziaria mondiale, del riscaldamento del pianeta e della sanità nel Paese. Ignorando i lacrimogeni e le violenze che si svolgevano all’esterno del palazzo. Il vicepremier Chavalit Yongchaiyudh, incaricato di trattare con i manifestanti, si è dimesso dopo aver ordinato la prima carica della polizia, quella che ha innescato i sanguinosi scontri. Poco dopo, una donna è morta nell’esplosione di un’autobomba vicino al quartier generale del partito d’opposizione Chart Thai, che si trova nella zona del Parlamento assediato dai manifestanti. Un manifestante ha anche aperto il fuoco contro gli agenti, che si sono sparpagliati per sfuggire agli spari. Due poliziotti, tuttavia, sono stati feriti gravemente da alcune pallottole vaganti e ora sono ricoverati in ospedale. Alle pressanti richieste di dimissioni del premier, avanzate dalla stampa nazionale e da alcuni deputati dell’opposizione subito dopo gli scontri, il governo ha risposto con un secco no.
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Somchai, parlando subito dopo il giuramento, ha sottolineato che non intende dimettersi o imporre lo stato d’emergenza. Secondo il primo ministro, infatti, l’imponente manifestazione di ieri - guidata dall’Alleanza del popolo per la democrazia - «ha soltanto una valenza politica di parte: non rappresenta i veri desideri della popolazione, che non contesta la riforma della Costituzione che intendiamo presentare o la mia figura, che ha l’appoggio di una larga maggioranza del Paese». Per tre volte, infatti, la polizia ha caricato invano
la folla, nel tentativo di liberare le vie d’accesso al Parlamento. I militanti dell’opposizione, un’alleanza composita che comprende ex ufficiali e sindacalisti, occupa dal 26 agosto la sede del governo e ha promesso di continuare nelle proteste fino a quando il Partito del potere del popolo (Ppp) non rinuncerà al governo.
Il premier è il cognato di Thaksin Shinawatra, l’ex uomo forte del Ppp che ha governato la Thailandia dal 2001 al 2006, quando fu rovesciato dai generali fedeli al re. Ora Shinawatra – chiamato “il Berlusconi d’Asia” per i suoi molteplici interessi nel mondo delle televi-
relle indirizzate a conti esteri intestati proprio all’ex premier, che gode tuttavia di una stima illimitata nelle zone rurali del Paese. In precedenza, a partire dal 26 agosto scorso, l’Alleanza ha raccolto migliaia di dimostranti per cacciare l’allora primo ministro Samak Sundaravej, anch’egli accusato di essere una marionetta di Thaksin. Samak è stato poi allontanato dalla carica il 9 settembre scorso dopo l’intervento del re, che lo ha giudicato inadatto a continuare a guidare politicamente la Thailandia. Un tribunale lo ha giudicato infatti colpevole di conflitto di interessi: aveva accettato dei soldi per ospitare una trasmissione tele-
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Nobel, polemiche per l’esclusione di Cabibbo Polemiche per la mancata assegnazione del Premio Nobel per la fisica. Stoccolma ha premiato i giapponesi Makoto Kobayashi e Toshihide Maskawa, ma ha ignorato l’italiano Nicola Cabibbo, nonostante la comunità scientifica internazionale gli attribuisca senza dubbio la paternità delle idee successivamente sviluppate dai due premiati. La prima versione della matrice Cabibbo-Kobayachi-Maskawa (o matrice Ckm, delle iniziali dei tre ricercatori) è stata elaborata nel 1963 da Cabibbo e successivamente completata da Kobayashi e Maskawa con l’introduzione di tre nuove famiglie di quark. La matrice descrive il modo in cui i “mattoni” della materia, i quark, si mescolano per andare a formare le particelle. In pratica la matrice Ckm è stata ed è ancora il riferimento per comprendere anche l’esistenza dell’asimmetria, ossia la cosiddetta violazione di simmetria Cp.
Orissa, dal Sinodo sostegno ai cristiani Dal Sinodo dei vescovi riuniti a Roma, il cardinale indiano Varkey Vithayathil - arcivescovo maggiore di Ernakulam-Angamaly dei siromalabaresi - ha denunciato ieri ciò che sta avvenendo nel suo Paese e specialmente in Orissa. Il porporato - che ha preso la parola durante la seconda congregazione generale - ha parlato espressamente di persecuzione, «una tra le peggiori», e di «nuovi martiri». Quanti restano cristiani rifiutando di cambiare religione vengono colpiti e «bruciati a morte». All’intervento del cardinale indiano ha fatto subito eco quello del cardinale Franc Rodè, prefetto della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica: riferendosi all’esperienza delle persecuzioni comuniste in Europa ha affermato che dove «la religione del Verbo è rinnegata anche la parola umana muore». Il Sinodo è riunito dal 5 ottobre: i vescovi discutono un tema molto impegnativo, la Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa. Presente anche il rabbino capo di Haifa, Cohen, che ha scatenato diverse polemiche esprimendosi contro la beatificazione di Pio XII. Secondo il rabbino, infatti, «pur avendo aiutato in maniera silenziosa molti ebrei durante la persecuzione nazista, il Papa non ha mai parlato contro le deportazioni. Magari non lo ha fatto per paura, o per motivi suoi, ma questo non può essere ignorato».
Putin, un video sul judo per il compleanno
L’opposizione contesta il nuovo premier, che ignora l’ipotesi dimissioni e gli scontri sioni e dell’industria thai – si trova sotto accusa per corruzione nel suo Paese. Per evitare il processo, vive in Gran Bretagna. Sono almeno sei settimane che l’Alleanza combatte per le strade contro la formazione governativa. Il principale capo d’accusa mossa contro il nuovo primo ministro è quello di essere un parente dell’ex premier Thaksin Shinawatra e quindi «corrotto a prescindere». L’opposizione motiva questa presa di posizione con le numerose cause vinte dalla giustizia thailandese contro i familiari di Thaksin. Tutti i procedimenti – contro la moglie, un figlio e un altro genero – hanno portato alla luce un sistema di busta-
visiva di cucina all’interno dell’ufficio del premier. Lo scontro ruota inoltre intorno alla questione rurale. L’Alleanza accusa il partito al potere di prendere i voti dagli agricoltori e dalle comunità rurali, che sono la maggioranza, con false promesse elettorali che poi non mantiene.
Questo elettorato – dice l’opposizione – è quasi analfabeta e rischia di essere manipolabile: il loro voto non conta quanto quello degli abitanti urbani. Per questo, l’opposizione chiede di cambiare la Costituzione e abbandonare il sistema di voto individuale (un uomo un voto), facendo spazio a un sistema misto dove ci siano rappresentanti di gruppi sociali e di professioni. Una richiesta che il governo ha dimostrato di non poter accettare, dato che proprio su questo elettorato ha costruito negli anni la sua fortuna politica.
Per il 56esimo compleanno, il premier russo Vladimir Putin ha presentato ieri in anteprima a San Pietroburgo, sua città natale, il film “Imparare il judo con Vladimir Putin”, di cui è coprotagonista. Nel centro stampa del palazzo di Costantino, davanti a sportivi, giornalisti e funzionari guidati dalla governatrice di San Pietroburgo Valentina Matvienko, Putin ha indossato i panni del modesto, sostenendo che il suo nome nel titolo era solo una trovata del marketing: «Il titolo nasconde un’astuzia pubblicitaria, perchè quelli che guarderanno questo film non impareranno il judo dal vostro umile servitore, ma da autentici corifei, atleti giapponesi di fama mondiale e atleti russi campioni olimpici e mondiali». Ma noti judoki nazionali si sono subito prodigati per garantire che invece Putin ha la stoffa del campione e che con il suo fisico, e soprattutto il suo carattere, avrebbe potuto aspirare gloriosamente al professionismo. Nel frattempo, si sono svolte a Mosca alcune piccole cerimonie in ricordo di Anna Politkovskaya, la giornalista uccisa due anni fa nell’ascensore del suo palazzo.
mondo
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Un’immagine dell’Assemblea Generale Onu; nel riquadro: il premier montenegrino Milo Djukanovic. La sola approvazione della richiesta serba potrebbe scoraggiare il riconoscimento del Kosovo e persino condurre alla revoca del riconoscimento da parte di qualcuno
Oggi all’Onu si vota il ricorso serbo contro l’indipendenza di Pristina
Il risiko del Kosovo al Palazzo di Vetro di Franz Gustincich ggi per la Serbia è un giorno importante: alle 10, ora di New York, verrà esaminata la richiesta del suo governo di chiedere il parere della Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) sulla legittimità dell’auto dichiarazione di indipendenza del Kosovo. Se a Belgrado si vivranno attimi di trepidazione, a Pristina la cosa non sembra interessare più di tanto, e a ragion veduta. Il 17 febbraio di quest’anno, il governo provvisorio del Kosovo ha proclamato l’indipendenza, fortemente sostenuto dagli Stati Uniti. Si è trattato di un atto politico sostanziale, al quale hanno, a tutt’oggi, aderito formalmente solo 47 Paesi sui 192 membri delle Nazioni Unite. Skënder Hyfeni, ministro degli Esteri del Kosovo, ha spiegato ieri che «le dichiarazioni di indipendenza ed i riconoscimenti, sono diritti riservati esclusivamente ai leader politici e non una questione legale». La Serbia, infatti, date le difficoltà politiche di impedire la secessione del Kosovo, con questa richiesta vuole trasportare la questione sul piano formale del diritto internazionale. Il processo di indipendenza del Kosovo, tuttavia, è iniziato in piena era Milosevic, quando il leader serbo soppresse tutti i
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diritti della minoranza albanese, e quel che allora era un torrente è diventato oggi un fiume in piena, del quale è ormai impossibile invertire la corrente.
La diplomazia serba ha lavorato alacremente per convincere quanti più governi possibile ad esercitare il proprio diritto di voto in favore della risoluzione e, se alla conta dei voti dovesse essere approvata, la patata bollente passerà alla Corte di Giustizia, con il risultato di congelare nuovi riconoscimen-
persino nel Consiglio di Sicurezza si nota la contrapposizione di Russia e Cina contro Usa e Gran Bretagna.
Il periodo di attesa è stato stimato dai serbi in non meno di 9 mesi, e se questo periodo non cambierà nulla per Pristina darà, invece, una boccata d’ossigeno a Paesi come la Macedonia che, pressati da Washington per il riconoscimento, preferiscono temporeggiare per non deteriorare le importanti relazioni commerciali che intratten-
In caso di approvazione all’Assemblea sarà la Corte di Giustizia a dover decidere, con il risultato di congelare i nuovi riconoscimenti della neonata Repubblica almeno per nove mesi ti del Kosovo da parte di altre nazioni, fino ad un pronunciamento definitivo. La comunità internazionale è profondamente divisa. L’Unione Europea non ha raggiunto una posizione unitaria, mentre gli Stati che hanno sponsorizzato l’indipendenza – primi fra tutti gli Usa – stanno lavorando per scongiurare l’approvazione della risoluzione. I Paesi aderenti alla Lega Araba e alla Conferenza Islamica hanno dichiarato la propria astensione, mentre
gono con la Serbia. Proprio la Macedonia, perseguendo questa politica, ha dichiarato ieri la sua astensione alla votazione al Palazzo di vetro. La vicenda del Kosovo indipendente è stata additata da molti analisti e leader politici, come la concausa delle recenti vicende georgiane e degli scontri tra i reparti speciali Vostok russi e l’esercito di Tbilisi in Ossetia del Sud. Il Kosovo avrebbe stabilito un primato per quanto riguarda l’auto proclamazione d’indipen-
denza, in violazione della risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza, che stabiliva che il Kosovo fosse una parte della Serbia sotto amministrazione internazionale ma, come già detto, i processi politici, soprattutto quando sostenuti da un’imponente maggioranza di cittadini, non possono essere arrestati dalle formalità. Il sostegno ed il riconoscimento del Kosovo, avversato da Mosca, è stato effettivamente un atto precipitoso. Nessuno può pensare che gli albanesi tornerebbero mai sotto la guida di un presidente serbo, ma la velocità con cui tutto il processo si è concluso ha indubbiamente animato pensieri secessionisti – con le dovute differenze - in molte aree del mondo comprese tra la Corsica e la provincia russa del Dagestan, sebbene il fatto che il Kosovo abbia rappresentato davvero un precedente, piuttosto che un pretesto, lascia molti dubbi.
Il Kosovo sembra non rendersi conto che il gioco delle grandi potenze sulla sua testa è molto più grande dei suoi due milioni di abitanti. La tensione che si è registrata tra la Russia di Putin e gli Stati Uniti negli ultimi anni, e che ha rievocato i climi della guerra fredda, ha trovato nel Kosovo un suo baricentro. Fin-
ché il neostaterello ha vissuto nel limbo, le grandi potenze hanno potuto giocare a braccio di ferro puntando i gomiti su Pristina, ma ora i giochi sono fatti, e i fatti sono un palmo al di sopra di ogni decisione legale che l’Onu possa prendere. La prima reazione è stata quella russa in Ossetia, per marcare il territorio anche in vista di un possibile ingresso della Georgia nella Nato, ora il livello dello scontro potrebbe allontanarsi dal Kosovo – vedremo cosa ne penserà il prossimo inquilino della Casa Bianca – e per i kosovari non ci sarà da stare allegri. Perché comunque vadano le cose, il Kosovo è e resterà ancora a lungo un paese non autosufficiente, i cui proventi più importanti derivano da attività illecite, e che non potrebbe sopravvivere senza l’aiuto economico della comunità internazionale. UnMik, l’amministrazione Onu in Kosovo, si appresta a passare il testimone alla missione EuLex dell’Unione Europea, ancora una volta, secondo i serbi, in violazione della 1244 e, poiché Spagna, Grecia, Cipro, Romania, Slovacchia e Malta sostengono le posizioni di Belgrado, c’è il rischio di ritrovarsi con un Europa ancora più divisa ed un Kosovo ancor meno autosufficiente.
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il paginone
La società anarchica respira miasmi che provengono dall’abbandono di una concezione naturale della vita. Adesso si raccolgono i prodotti che qualcuno vorrebbe vendere al mercato della politica pronunciando l’impronunciabile parola, l’anatema definitivo: razzismo. Ma c’è dell’altro
segue dalla prima A questa decadenza si dovrebbe reagire, a condizione che la si rilevasse invece di nasconderla dietro confortevoli quanto menzogneri alibi per giustificare che se le cose non vanno tanto bene è perché in crisi è l’intera civiltà occidentale. Sarà anche così, ma, francamente, non si sembra che il livello di vita di altri popoli vicini a noi, per sensibilità, cultura e tradizione, si sia negli ultimi decenni abbassato tanto da farci concludere, angosciosamente, che l’Italia assomiglia ad una specie di landa cui rimane soltanto lo splendore del passato a lenire il dolore che il presente provoca.
La nostalgia è un farmaco che non cura la malattia, ma quanto meno la rende sopportabile. Di poco dobbiamo accontentarci a fronte delle miserie che
presa), ma di uno stato d’inciviltà che fa rabbrividire. Si dirà che anche altre nazioni hanno i nostri stessi problemi, ma la costatazione non alleggerisce la pena anche perché noi ritenevamo di essere “diversi” per tradizione e stile di vita da tutti gli altri: non dirò “migliori” soltanto per pudore, ma ciò che ci circonda parla per noi e non è un caso se il settanta per cento del patrimonio culturale mondiale è allocato nella nostra Penisola, a prescindere dalle bellezze naturali di cui è gremita e che nel corso dei secoli, anche quelli più bui, ha reso gentile come nessun altro il nostro popolo, questa nostra gente che si scoprì “italiana”al volgere dell’XI secolo, assumendo dentro di sé e su di sé il peso di un’eredità plurale e contraddittoria, ma feconda quant’altre mai e la lanciò nell’avvenire creando i presupposti per un umanesimo vissuto perfino religiosamente e raffigurato dall’arte nello splendore delle cattedrali piene di luce e dalla letteratura ispirata da sacre epifanie e dalla musica levatrice di un linguaggio universale che il gregoriano ha esaltato come espressione divina.
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non riusciamo a demolire. E ci domandiamo come sia stato possibile smarrire la strada al punto di disperare di ritrovarla. Probabilmente occorreranno decenni perché il nostro Paese riacquisti l’anima perduta. E ci vorrà tanto amore e tanta dedizione e tanta tenacia perché quel che rimane del nostro popolo accresca dentro se stesso un carattere ed una coscienza senza i quali nessuna risposta potrà essere data ai drammatici problemi che ci assediano. La cartolina che dall’Italia giunge a un ipotetico solitario viandante in contrade lontane, non è soltanto quella dell’occasionale degrado della nostra vita associata (immondizia com-
C’è del demoniaco nei giovani banditi che danno la caccia al “negro”, frutto non di una mentalità razzista, ma dell’ignoranza che genera prepotenza, arbitrio, selvaggeria a buon mercato
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La Nazione ig di Gennaro Malgieri
Quel che resta non può piacerci. E sarebbe vile non denunciarlo.
L’Italia è percorsa da fremiti e inquietudini che azzannano le coscienze. Siamo prigionieri di un’aggressività che non ha precedenti nei nostri costumi. La criminalità organizzata la si può anche battere (e ce lo auguriamo di cuore) con interventi radicali, perfino militari, all’altezza della guerra che ha dichiarato allo Stato ed alla
comunità nazionale. Ma come facciamo a difenderci dalle bande di delinquenti che uccidono il diverso, che bastonano chi ha la pelle di un altro colore, che recidono vite senza conoscerne il valore, che selvaggiamente scorrazzano per le vie di città e di borghi seminando il panico, che limitano la nostra libertà, che considerano la persona come una “cosa” di cui appro-
priarsi e farne scempio? Razzismo? Troppo poco. Liquidare così gli episodi che le cronache doviziosamente raccontano è minimizzare.
Significa non dare l’importanza dovuta a un fenomeno di scollamento sociale. No, gli italiani non sono diventati razzisti anche se alcuni tragici eventi sono classificabili anche come razzi-
il paginone sti. Ma sono eventi circoscritti, per fortuna: strumentalizzarli vuol dire recare un supplemento di offesa alle vittime della violenza e dell’intolleranza. C’è del demoniaco nei giovani banditi che danno la caccia al “negro”, frutto non di una mentalità razzista, ma dell’ignoranza che genera prepotenza, arbitrio, selvaggeria a buon mercato sapendo gli “eroici” picchiatori di farla franca il più delle volte. Mi piacerebbe conoscere la formazione di questi giovani ingannatori di se stessi, ma credo di non sbagliarmi se li giudico relitti umani, prodotti peggiori della società nella quale tutto si consuma in fretta, affetti amori e odi compresi. Il loro è il mondo dell’indifferenza che trasuda dai romanzetti insulsi che leggono (quando li leggono), dai giornaletti che propagandano l’indifferenza e l’egoismo, dal consumismo che hanno respirato in famiglia, dai valori (chiamiamoli così) ispirati dall’effervescenza del successo facile proposto da certa televisione, dalla scuola che non educa, dall’università (se ci arrivano) che non prepara. Il fango nel quale si rotolano non è la xenofobia, ma la rabbia frutto della scontentezza di chi non ha mai visto altro orizzonte se non quello sul quale si stagliano i miti fondanti del nostro tempo: l’eudemo-
pronunciando l’impronunciabile parola, l’anatema definitivo: razzismo. C’è dell’altro, mi pare. Spero si sia capito. Invece non si è ancora compreso che l’intolleranza che serpeggia nel Paese è derivata anche dalla violenza verbale di cui trasuda lo scontro politico, rilanciata dai giornali e dalla televisione. Non c’è talk show in cui non si litighi per una miserabile oncia di audience; non c’è “grosso” quotidiano (“grande” sarebbe esagerato e immeritato) che non rilanci la poltiglia quotidianamente confezionata, in maniera addirittura enfatica, come se i lettori dovessero essere sempre scioccati e mai messi nelle condizioni di comprendere. Il gossip ha soppiantato il pur indigesto “pastone” e dietro ogni fatto deve esserci un retroscena dai contorni, manco a dirlo, “piccanti” affinché per due o tre giorni il “tormentone” possa tenere banco in attesa che si consumi a vantaggio di un altro. Di fronte a tanto sperpero d’intelligenza, i reality show più stupidi e volgari sembrano composte rappresentazioni d’altri tempi. Ma l’Italia peggiore è quella che viene dipinta sui muri delle nostre città. Uno spettacolo simile non lo si vede in nessun angolo d’Europa. Tutti offendono tutti. Una palestra pubblica di incitamento all’odio verso questo o quello. Tuttavia ciò che più affligge è la deturpazione del paesaggio urbano: sembra siano state tolte le puttane dalle strade, ma per chi imbratta qualsiasi cosa non è previsto neppure un buffetto? Eppure sono espressioni delinquenziali quelle che leggiamo contro il negro, l’ebreo, il fascista, il comunista, il politico di turno, il vescovo, il Papa. Una specie di Youtube in graffiti dove c’è tutta la violenza del mondo raccolta lungo chilometri di cemento armato. Ma se si vuole, si può proseguire anche su Youtube vero e proprio, sfogatoio di private inclinazioni e antologia raccapricciante, talvolta, della contemporaneità dove la libertà, la dignità, la privacy vengono spesso e volentieri fatte a pezzi. Non meno di come la
altri e, dunque, il risultato non cambia. Perché dobbiamo essere invasi da messaggi non desiderati che ci propongono qualsiasi acquisto, concorso o premio? La radicalità dei comportamenti più volgari ci fa disperare che in tempi brevi, e malgrado le migliori intenzioni, il risanamento dell’Italia cominci dalla scuola e dal rispetto del patrimonio artistico e culturale messo a dura prova dal vandalismo che non si riesce a debellare. E siamo portati a credere che la questione, alla fine, della decadenza italiana, sia tutta di ordine e natura culturale. Un esempio: qualche giorno fa ho scoperto, leggendo Le Monde che ne dava notizia addirittura in prima pagina, un lungo reportage sulle città di fondazione degli anni Trenta in Italia. L’occasione colta dal giornale francese è stato un convegno tenutosi a Latina il 26 settembre scorso tra gli amministratori delle “città di Mussoli-
La società anarchica respira miasmi che provengono dall’abbandono di una concezione naturale della vita. Ed è imperdonabile che soprattutto chi ha la responsabilità della formazione, il mondo della cultura in primo luogo, abbia acceso ceri votivi al libertinaggio quale forma suprema di realizzazione. Adesso si raccolgono i prodotti che qualcuno vorrebbe vendere al mercato della politica
si fa intercettando questo e quello, legalmente o illegalmente, a fini giudiziari o di puro ricatto, magari, come si dice, per disegnare “profili”che potrebbero tornare buoni, un’espropriazione dell’identità, insomma, quando ci sarebbe da preoccuparsi di acquistarne e salvaguardarne finalmente una da parte dei singoli e della collettività. Dal telefono non si può prescindere, ovviamente. Ma di telefono si muore anche, poco a poco. Basterebbe non usarlo. Già, ma lo usano gli
La cultura, come si sa, è un campo più difficile e faticoso da arare rispetto
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Viviamo nel mondo dell’indifferenza che trasuda dai giornaletti che propagandano l’indifferenza e l’egoismo, dai valori (chiamiamoli così) ispirati dall’effervescenza del successo facile proposto da certa televisione
gnorante nismo e l’edonismo, senza qualificarli in altro modo.
ni”. L’articolista ne ha tratto lo spunto per riprendere un tema andato a male dalle parti nostre, ma vivo nella cultura di altri Paesi. L’architettura razionalista, la sua attualità, la sua bellezza, la concretizzazione estetica dell’ordine civile. L’evento non ha giustificato una sola riga sui giornali italiani, non ha eccitato neppure i sapienti che quotidianamente impartiscono lezioni dalle colonne dei quotidiani “autorevoli”per definizione. Che cosa significa tutto questo? Probabilmente che disconosciamo un passato perché immersi nel presente tutt’altro che esaltante.
In alto, gli ”Orologi molli” di Salvador Dalì. A sinistra, un’immagine di una manifestazioni di extracomunitari. Nella pagina a fianco, alcuni graffiti dipinti nelle metropolitane e un’immagine pubblicitaria alla tivù
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a quello politico. Una nazione che deperisce non la si rimette in piedi con brodini leggeri. Occorre ben altro. E, perdonatemi il pessimismo, in giro non si vedono volontari della rinascenza disposti a giocarsi posizioni consolidate andando controcorrente. La modernità, interpretata all’italiana, risulterà tra qualche anno un cimitero di buone intenzioni infrante contro la cruda realtà della scomparsa del carattere stesso degli italiani ai quali è stato sottratto il patrimonio più grande e prezioso che un popolo possa avere: un destino. Quanto a noi che ne scriviamo, non ci consola la consapevolezza della povertà, né il tentativo destinato peraltro al fallimento, di smarcarci dal vento che scuote il nostro Paese. Quando l’autunno delle civiltà si annuncia, esso è per tutti. Heidegger direbbe che «solo un Dio ci può salvare». Non è detto che il miracolo non si compia. Sperare, dopotutto, non costa nulla.
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La sinistra va spesso incontro a inattese sconfitte quando esalta personaggi dell’establishment vezzeggiati dai mass-media
La sindrome obamista I democratici Usa (e quelli di casa nostra) continuano a sottovalutare l’America profonda di Giuseppe Baiocchi segue dalla prima E tuttavia è tale il coinvolgimento culturale, e talvolta emotivo, che si attribuisce all’andamento di quel voto un significato esemplare, condizionante e spesso anche imitabile. Mai questa volta, o almeno così sembra, l’identificazione con le speranze e le attese del Partito Democratico, che ha compiuto la scelta coraggiosa del primo afro-americano, il senatore dell’Illinois Barack Obama, si coglie evidente nella parte politica intorno alla formazione guidata da Veltroni (che ci ha sempre messo del suo) e nel milieu dell’informazione, della cultura e dello spettacolo che a questa area fa pressocchè esclusivo riferimento.
Con in più anche il nome: infatti a questa scadenza americana assiste trepidante e ottimista un omologo Partito Democratico, finalmente formatosi dopo tanti rinvii e tante aspettative. E il modello di Oltreoceano è stato il più trascinante e unitivo nella costruzione del nuovo soggetto politico. (Manca invero la riproposizione del simbolo: ma quell’Asinello se le era giocato prima Prodi e certamente con esiti non brillantissimi). È umanissimo che si aspetti con fiducia l’esito del primo martedì di novembre, anche perché un successo della casamadre allieverebbe i dolori, le incertezze e le frustrazioni italiane dopo la sconfitta di aprile: e però appare riprodursi pari pari il clima delle puntate precdenti, quando qui (anche a causa di corrispondenze dall’America rinchiuse nel mix intellettuale delle due coste, New York e Hollywood) si dava per certo l’affermazione dei democratici,
sia nel 2000 con Al Gore, sia e ancora di più nel 2004 di John Kerry. Se è permesso un appunto, nessuno appare chiedersi come mai, fin dai tempi di Reagan, i democratici americani sono andati incontro a brucianti e talvolta inattese sconfitte tutte le volte nelle quali hanno candidato figure riconoscibili come appartenenti all’establishment e adottati e vezzeggiati dai mass-media e dalla “gente che piace” (oltre che da forti lobbies economicofinanziarie). Mentre le uniche
recenti vittorie sono arrivate soltanto quando sono stati candidati “uomini di provincia”, figure più estranee al circuito intellettuale dell’East Coast e più assimilabili alla dimensione “mediana” degli americani. (Come è accaduto per il governatore della Georgia Jimmy Carter e dell’Arkansas Bill Clinton)…
Riemerge anche negli States il peccato originale di un mondo intellettuale che dipinge tutti gli avversari politici con un “complesso di superiorità” che deforma grottescamente la realtà D’altra parte, mai come in questa occasione, la campagna
elettorale appariva per i democratici come una trionfale pas-
seggiata. La voglia di cambiamento, fisiologica dopo gli otto anni di Bush, segnati oltretutto dall’attentato dell’11 settembre, dal forte impegno militare e da una situazione economica nè prospera né promettente (aggravata dai costi del petrolio e dalla crisi finanziaria) rendeva quasi scontata la corsa alla Ca-
Ieri notte a Nashville il secondo confronto tra McCain e Obama eri notte (stamattina alle 3, ora italiana), si è svolto - alla Belmont University di Nashville (Tennessee) il secondo dei tre confronti previsti tra il candidato alla presidenza del partito repubblicano, John McCain, e quello democratico, Barack H. Obama. Il dibattito, trasmesso in diretta televisiva da tutti i network statunitensi, è stato condotto con la modalità del “townhall meeting”, espressione che rinvia all’antica tradizione delle assemblee dei cittadini nella sala municipale nelle prime cittadine del New England coloniale, e che oggi definisce un dibattito in cui il pubblico non si limita a fare da spettatore, ma interviene formulando domande dirette ai candidati. Ogni do-
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manda è stata rivolta ad uno solo dei due candidati (con un tempo massimo di due minuti per la risposta), poi l’avversario ha un minuto e mezzo per commentare. Questo tipo di format è senza dubbio quello preferito da McCain, che da ottimo improvvisatore su questo terreno ha sempre dato vita a buone performance. Questo, paradossalmente, potrebbe averlo caricato di aspettative pericolosamente alte, a tutto favore di Obama. Quella di ieri notte, poi, è stata l’ultima chance del candidato repubblicano per mettere in difficoltà l’avversario sulla politica estera, visto che il terzo ed ultimo round, in programma il 15 ottobre a New York, sarà interamente dedicato alla politica interna.
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Una tradizione nata nel 1960 ma che non sfondò fino agli anni Settanta
sa Bianca, peraltro con la scelta profetica del primo candidato di pelle nera, all’insegna del “politically correct”, dello stile di Harvard e di un certo messianismo capace di affascinare.
Eppure in poche settimane il confronto si è fatto oltremodo incerto: sono ricomparsi sulla scena elettorale quei milioni di cittadini legati a forti valori tradizionali e religiosi che costituiscono l’ossatura del paese e che, in vivendo centomila piccoli centri, restano esclusi dalle scenario informativo. La scelta a sorpresa della governatrice dell’Alaska, Sarah Palin come numero due repubblicano ha immediatamente rimesso un gioco l’America profonda con in più elementi di novità in grado di intervenire nell’immaginario collettivo: perché è donna, è giovane, è “pioniera”e, come le donne della mitica frontiera, è madre forte di cinque figli, compreso l’ultimo disabile non rifiutato ma amato di più.
E l’immediato processo di vivisezionamento messo in atto nei suoi confronti dal mondo mediatico rischia di rivelarsi controducente: gli errori e le debolezze anche familiari sono forse l’elemento in grado di stabilire una identificazione emotiva dall’evidente peso elettora-
le. D’altronde la sufficienza e il malcelato disprezzo che traspare ad ogni articolo di giornale o servizio televisivo si accompagna alla evidente sottovalutazione dell’eroismo e dei sacrifici affrontati in una dura prigionia dal candidato McCain. Riemerge anche in America il “peccato originale” di una sinistra intellettuale che avvolge tutti con un “complesso di superiorità” che legge la realtà con occhiali così deformati e deformanti da diventare insostenibile. E sembra che, almeno in Italia, sia caduta drammaticamente nel vuoto la predica di Luca Ricolfi che ha cercato invano di spiegare “perché noi di sinistra siamo antipatici”...
Un’ultima notazione: nella tempesta che sta sconvolgendo gli assetti del mondo finanziario statunitense (con ripercussioni dovunque) pochi hanno notato che uno dei “salvatori” viene anche lui, guarda caso, dall’America profonda. Snobbato dai potenti di Wall Street, il leader di “Bank of America”, Ken Lewis, ha salvato dal fallimento la Merrill Lynch, dopo aver anche trattato il soccorso a Lehman Brothers, rivelatosi impossibile. Lewis è nato nel Mississippi, e “uomo di provincia”, si è sempre rifiutato di trasferire nella City la sede della sua banca, rimasta sempre a Charlotte, nel North Carolina, proprio per non finire nell’“abbraccio mortale” di New York.
Nella pagina a fianco, da sinistra: Joe Biden (candidato democratico alla vicepresidenza), Barack Obama (candidato democratico alla presidenza) e John McCain (candidato repubblicano alla presidenza). Nel tondo a sinistra, Sarah Palin (candidato repubblicano alla vicepresidenza). Qui sotto, dall’alto verso il basso: John F. Kennedy, Richard Nixon, Lyndon Johnson, Barry Goldwater, Ronald Reagan, Jimmy Carter, George Bush Sr. e Bill Clinton
Il rituale televisivo dei dibattiti americani di Maurizio Stefanini i dice “dibattito all’americana”, e così sembra quasi che la cerimonia del grande scontro in tv tra i candidati alla presidenza durante la campagna elettorale sia la quintessenza della democrazia Usa. Invece si tratta di una tradizione che si è attestata da poco più di trent’anni. Sì: in molti ricordano l’antecedente ottocentesco della famosa serie di sette dibattiti dal vivo senza moderatore di Abraham Lincoln contro Stephen Douglas, i due grandi sfidanti alle elezioni del 1860: prima parlava l’uno per 60 minuti; poi l’altro per altri 60; poi di nuovo il primo per 30; e all’incontro successivo si ricominciava dal numero due. Va però ricordato che in realtà quella tribuna elettorale ante-litteram non era avvenuta per le presidenziali, bensì al voto per un seggio di senatore nell’Illinois due anni prima. In quell’occasione i due avevano però già anticipato tutti i temi principali che avrebbero poi dominato la campagna presidenziale del 1860, intere folle erano accorse ad ascoltarli dagli Stati vicini, e anche i giornali avevano riportato per esteso i relativi discorsi. Anche se quelli democratici aggiustando le parole di Douglas e lasciando allo stato grezzo quelle di Lincoln così come le aveva pronunciate, e i repubblicani viceversa. Dunque, era stata l’impressione ancora viva per la sfida precedente a determinare anche quella successiva e più importante: anche se in modi opposto, visto che in Illinois aveva vinto Douglas.
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tra due candidati alla presidenza fu quello che si tenne in tv il 25 settembre 1960. Quasi la pura immagine, però, aiutò il belloccio Kennedy a travolgere un Nixon che oltre a essere meno avvenente era pure visibilmente sofferente per un malanno al ginocchio. Nei tre dibattiti successivi se la cavò un po’meglio, ma se si considerano gli appena 112.827 voti di differenza tra i due su un corpo elettorale di 68.895.628 persone si scopre il come Nixon in pratica si sia giocato tutto in quell’occasione. Il che spiega poi bene il perché, nel 1960, 1964 e 1972, non ci volle più provare nessuno: a parte un paio di schermaglie alle primarie democratiche, nel 1968 tra Robert Kennedy e Eugene McCarthy e nel 1972 tra George McGovern e Hubert Humphrey.
Il primo vero scontro diretto tra due candidati alla presidenza fu quello tra Richard Nixon e John F. Kennedy
Sarebbe passato però oltre un secolo prima che si tornasse a quello schema. Nel 1940, è vero, il candidato repubblicano Wendell Willkie avrebbe sfidato per radio il presidente Franklin Delano Roosevelt, ma senza ottenerne risposta. Nel 1948 ci sarebbe poi stata la sfida radiofonica tra Thomas Dewey and Harold Stassen alle primarie repubblicane, e nel 1956 quella tra Adlai Stevenson and Estes Kefauver alle primarie democratiche. Ma il primo vero scontro diretto
Ci volle insomma l’ondata di sfiducia di massa provocata dallo scandalo Watergate perché nel 1976 Ford e Carter cercassero di accattivarsi l’opinione pubblica con un richiamo al mito kennedyano: tre dibattiti tra di loro, più uno tra i candidati alla vicepresidenza. Ford vinse il primo, ma infilò una gaffe dopo l’altra nel secondo, per poi finire travolto. Forse in seguito ai due rovesci di immagine i repubblicani alla volta successiva prescelsero un grande comunicatore come Reagan, che infatti stracciò Carter nel 1980, trasformando lo stretto margine di vantaggio dei sondaggi in una cavalcata trionfale. Da allora la capacità di comunicare in tv è divenuta la regola numero uno per gli aspiranti presidenti, anche se l’interesse è stato altalenante: dai 66 milioni di spettatori su 179 milioni di americani del 1960 agli 80 su 226 del 1980, 46 milioni su 280 del 2000, 62,5 milioni del 2004. Nel 2004 ebbe 43,6 milioni di spettatori anche il dibattito tra i candidati a vice, lanciato nel 1976 ma mai veramente decollato. Anche se nel 1988 Lloyd Bentsen vi lanciò una battuta a Dan Quayle restata nel battutario politico Usa: «senator, you’re no Jack Kennedy». I 70 milioni che ha invece fatto la sfida tra la Palin e Biden dimostra il ruolo che sta già avendo il carisma della governatrice dell’Alaska.
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Anniversari. 60 anni fa l’Assemblea delle Nazioni Unite proclamava la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo
La Carta nella polvere Dallo Zimbabwe al Darfur, dalla Cina alla Russia Storia di oltre mezzo secolo di fallimenti di Aldo Forbice utti pensavano che nel 2008 venisse celebrato o perlomeno ricordato il Sessantesimo anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo proclamata dall’Assemblea delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948. Ma a giudicare dall’estrema carenza di eventi registrati (a cominciare dalle scuole e dalle università), non ci sembra che questa data così importante abbia trovato uno spazio adeguato nei media, nelle manifestazioni culturali e nella società civile. Quasi sicuramente a Ginevra e/o a New York, nelle sedi delle Nazioni Unite, il segretario generale Ban KiMoon e i capi di Stato parteciperanno alla cerimonia ufficiale. E poi, come sempre, tutto sarà dimenticato sino al prossimo decennio.
T
Per la verità il Papa, nell’aprile scorso, durante il suo viaggio in Usa, andando al Palazzo di Vetro per parlare ai rappresentanti di 192 Paesi, ha ricordato l’anniversario. E, sorprendendo tutti gli osservatori politici (avevano previsto che Benedetto XVI si soffermasse sull’abolizione della pena di morte, do-
po la moratoria approvata dall’Assemblea dell’Onu a dicembre, sui conflitti dimenticati e sull’aborto), ha affermato che «i diritti umani vengono sempre più presentati come il linguaggio comune e substrato etico delle relazioni internazionali» e che «la promozione dei diritti umani rimane la strategia più efficace per eliminare le ineguaglianze fra Paesi e gruppi sociali e per aumentare la sicurezza».
Il Pontefice ha insistito molto sulla centralità del rispetto dei diritti umani e sulla necessità della loro difesa e promozione in tutte le regioni del mondo. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, come è noto, non è vincolante, anche se rappresenta l’atto più solenne, più importante, della legislazione internazionale, costituita da convenzioni giuridiche che - richiamando proprio la Dichiarazione universale - la promuovono come la “fonte delle fonti” del nuovo diritto umanitario. Nel preambolo della Dichiarazione si proclama che «il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti,
Human Rights Watch L’organizzazione umanitaria denuncia una gran quantità di elezioni manipolate: «attraverso frode (Ciad, Giordania, Kazakistan, Nigeria, Uzbekistan); controllo dell’apparato elettorale (Azerbaigian, Bahrein, Malaysia, Thailandia, Zimbabwe); la pratica di ostacolare o scoraggiare i candidati dell’opposizione (Bielorussia, Cuba, Egitto, Iran, Israele nei Territori Occupati, Libia, Turkmenistan, Uganda); violenza politica (Cambogia, Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, Libano); il soffocamento della società civile e dei media (Russia, Tunisia); e lo svuotamento dello Stato di Diritto (Cina, Pakistan)». Human Rights Watch denuncia anche l’ipocrisia con cui Usa e Ue parlano di democrazia «solo perché si è tenuta un’elezione»: Bahrein, Giordania, Nigeria, Russia e Thailandia. Ricorda «atrocità» in Ciad, Colombia, Repubblica Democratica del Congo, regione etiopica dell’Ogaden, Iraq, Somalia, Sri Lanka e regione sudanese del Darfur. Le società più “chiuse” sono Arabia Saudita, Birmania, Cina, Corea del Nord, Cuba, Eritrea, Libia, Iran, e Vietnam. (m.s.)
uguali e inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo». Oltre ai diritti umani, civili e politici, sono enunciati anche i diritti economici e sociali, alla luce del principio della loro interdipendenza e indivisibilità. Avremo modo di constatare come questi principi siano stati (e ancora oggi vengono) violati, aggirati, calpestati in ogni angolo della terra. Eppure si tratta di norme che hanno una lunga storia. Infatti, la Dichiarazione del 10 dicembre 1948, che scaturì sull’onda delle atrocità della Seconda guer-
Nata sull’onda delle atrocità della Seconda guerra mondiale, la Dichiarazione rappresenta la sintesi di un dibattito filosofico che ha visto impegnati Locke, Rousseau,Voltaire, Kant, Nietzsche e Maritain ra mondiale, rappresenta il punto di arrivo di un dibattito filosofico sull’etica e i diritti umani che, nelle diverse epoche, ha visto impegnati filosofi e umanisti come John Locke, Jean- Jacques Rousseau,Voltaire, Inmmanuel Kant, Nietzsche, fino a quelli contemporanei, fra cui il filosofo Jacques Maritain, che partecipò alla redazione del testo della Dichiarazione.
Non si possono dimenticare documenti storici di grande importanza, come la “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” elaborata nel 1789, durante la rivoluzione francese, con la “scoperta” dei diritti civili e politici dell’uomo. E, successivamente, i “Quattordici punti di Woodrow Wilson” (1918) e i quattro principi delle libertà enunciati dalla “Carta atlantica” di Franklin D.Roosevelt e Winston Churchill del 1941. Alla Dichiarazione universale sono poi seguiti il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali e il Patto internazionale sui diritti civili e
politici, adottati dall’Onu il 16 dicembre 1966 e una serie di altre 36 risoluzioni, fra cui la Convenzione per i diritti dell’infanzia del 1989 e quella contro le discriminazione delle donne (1979). Dai principi della Dichiarazione sono scaturite molte delle conquiste umanitarie della seconda metà del XX
Amnesty International La Cina è accusata di appoggiare «governi che violano i diritti umani, come quelli di Myanmar, Sudan e Zimbabwe, affermando che i diritti umani sono una questione interna su cui gli Stati sono sovrani e non di politica estera», oltre a praticare per conto proprio massicce repressioni verso attivisti per i diritti umani e stampa e ad aver aumento il ricorso alla rieducazione attraverso il lavoro: «una forma di detenzione senza accusa né processo utilizzata prima dei Giochi». La Russia «ha represso il dissenso politico e fatto pressione sui giornalisti indipendenti». Mentre India, Brasile e Messico sono state accusate di ipocrisia a proposito del modo in cui sostengono i diritti umani all’esterno e il modo in cui li applicano in casa, e il Sudafrica per la sua acquiescenza verso il regime dello Zimbabwe. Amnesty International denuncia poi «il malcontento in Bangladesh dopo l’aumento del prezzo del riso, i disordini in Egitto dopo l’aumento del pane, la violenza post-elettorale in Kenya e le proteste contro sfratti e problemi ambientali in Cina». (m.s.)
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del Congo ha ripreso quota). Secondo recenti denunce delle ong umanitarie per ogni due bambini soldato rilasciati, cinque vengono rapiti e arruolati. Secondo Amnesty, infatti, degli ex bambini soldato che erano stati riuniti alle loro famiglie nel Kivu, circa la metà sono stati nuovamente arruolati forzatamente dai gruppi armati.
Foto grande: profughi del Darfur; in alto: il cinese Hu Jia (con la moglie), candidato al nobel per la Pace 2008 e oggi in prigione; in basso a sinistra Robert Mugabe (Zimbabwe) e a dx. Aung San Suu Kyi (Birmania) norme di protezione umanitaria e di difesa della dignità degli esseri umani, di tutte le età, è stata violata largamente nelle guerre che hanno insanguinato continenti, come l’Africa, ma anche in Europa, in Asia e in America.
Nel suo recente rapporto annuale, che contiene capitoli su 150 Paesi, Amnesty International ha denunciato che, a 60 an-
La tortura è ancora presente in almeno 61 Paesi, in 54 si celebrano processi iniqui, mentre in 77 la libertà di stampa e di opinione non è consentita. In Iran, solo nel 2008, sono stati giustiziati 300 minori secolo e rappresentano la base di riferimento ideale della “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”, inserita nel 2004 in quella Costituzione europea che però, per il “no”di alcuni Stati, non è stata adottata ufficialmente dall’Ue. Come si è già accennato, purtroppo, la maggioranza delle
Freedom House Freedom House è famosa per le “pagelle”con cui dà un doppio voto ai vari Paesi, sul fronte della democraticità e su quello dei diritti civili. Da questo risulta che il 46 per cento dell’umanità vive oggi in Paesi liberi; il 18 per cento in Paesi “parzialmente liberi”; il 36 per cento (ben 2.391.400 persone) in Paesi “non liberi”. 1 e 1, il punteggio migliore, ce l’hanno Andorra, Australia, Austria, Bahamas, Barbados, Belgio, Canada, Capo Verde, Cile, Costa Rica, Cipro, Repubblica Ceca, Danimarca, Dominica, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Ungheria, Islanda, Italia, Kiribati, Liechtenstein, Lituania, Lussemburgo, Malta, Isole Marshall, Micronesia, Nauru, Nuova Zelanda, Norvegia, Paesi Bassi, Palau, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Saint Kitts e Nevis, Saint Lucia, San Marino, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Stati Uniti, Svezia, Svizzera, Tuvalu, Uruguay. In fondo alla classifica, con un doppio 7, stanno Birmania, Corea del Nord, Cuba, Libia, Somalia, Sudan, Turkmenistan e Uzbekistan. (m.s.)
ni dalla storica Dichiarazione di New York, la tortura è ancora presente in almeno 61 Paesi, in 54 Paesi si celebrano processi iniqui, mentre in 77 Paesi la libertà di stampa e di opinione non è consentita. Nel rapporto si fa osservare che «il 2007 è stato caratterizzato dall’impotenza dei governi occidentali e dall’ambiguità e riluttanza delle potenze emergenti rispetto ad alcune delle peggiori crisi dei diritti umani, come i conflitti in corso da decenni o la crescente ineguaglianza di cui fanno le spese milioni di persone» (Paolo Pobbiati, presidente di Amnesty Italia). Il riferimento è specificamente a Paesi come il Darfur, Zimbabwe, Gaza, Iraq, Myanmar e Cina. A cui bisognerà aggiungere la Russia, dove i diritti fondamentali degli esseri umani (a cominciare dalla libertà di stampa) vengono calpestati ogni giorno. È giusto ribadirlo oggi, a due anni dell’uccisione della coraggiosa giornalista Anna Politkovskaya, che ha assunto ormai un grande valore simbolico della lotta antitotalitaria, anti Putin,
per la libertà e il rispetto dei diritti umani. Proprio in questi giorni Amnesty ha dichiarato: «Due anni dopo l’assassinio di Anna Politkovskaya, i difensori dei diritti umani e i giornalisti, specialmente nel Caucaso settentrionale, rischiano ancora di essere sequestrati, torturati, attaccati, minacciati di morte o uccisi in circostanze sospette». Infatti, in meno di tre anni oltre cento giornalisti russi sono rimasti vittime di “incidenti” (da quelli stradali agli avvelenamenti per cibi guasti alla classica tegola in testa).Tutti questi dell’informazione operatori avevano una cosa in comune: avevano scritto di Cecenia o si erano comunque occupati del Caucaso.
Ma i diritti umani, come si è detto, non vengono rispettati ancora in numerosi Paesi: dalla Cina (dove ormai anche il diritto al cibo sano viene costantemente sabotato, all’Iran (le esecuzioni di giovani hanno superato, solo nel 2008, quota 300, agli Stati Uniti (dove i boia continuano a lavorare in 37 Stati), in Arabia Saudita, nello Yemen e, ovviamente, in Africa (per citare un solo caso - il fenomeno dei bambini soldato nella Repubblica democratica
C’è da registrare un solo grande successo, a 60 anni dalla Dichiarazione universale: la costituzione del Tribunale penale internazionale sui crimini contro l’umanità. Per il momento il suo peso non è stato rilevante, ma il Procuratore generale, Luis Moreno Ocampo, sta cominciando ad attuare inchieste su ampio raggio in più direzioni (Ossezia e Georgia compresi). Forse è arrivato il momento che le Nazioni Unite si impegnino per garantire maggiori poteri a questo organismo sovrannazionale per favorire una vera “ingerenza umanitaria” in tutti quei Paesi dove si commettono crimini di guerra, crimini contro l’umanità e/o atti di genocidio. Crediamo, infine, che la migliore celebrazione del 60° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani sia rappresentata dal riconoscimento del Premio Nobel per la pace a un dissidente dei vari regimi totalitari in Cina, Russia e altri Paesi. Non c’è che l’imbarazzo della scelta. Noi sosteniamo Hu Jia, rinchiuso nelle carceri cinesi per avere pubblicato su Internet una lettera aperta, «La vera Cina e le Olimpiadi», in cui si denunciavano gli orrori di questo grande Paese e le violazioni sistematiche alla dignità delle popolazioni e degli individui. È stato condannato a tre anni di carcere e la moglie è agli arresti domiciliari. Ci aspettiamo da Oslo una risposta positiva: un Nobel per la pace a lui e alla moglie Zeng Jiyan.
Reporters sans Frontieres Reporters sans Frontieres elabora un “barometro della libertà di stampa”, continuamente aggiornato. Al momento di scrivere queste righe stava a 32 giornalisti e un loro assistente uccisi nel corso del 2008, 132 giornalisti e 8 assistenti imprigionati, 70 cyberdissidenti imprigionati. L’organizzazione francese complia anche una lista di “predatori della libertà di stampa” in cui ci sono i gruppi armati islamisti in Afghanistan, Iraq e Pakistan; i guerriglieri di estrema sinistra colombiani delle Farc e i paramilitari di estrema destra delle Auc; le Tigri Tamil; l’Eta; i cartelli della droga messicani; le forze armate israeliane; le polizia di Maldive, Nigeria e di entrambe le entità palestinesi, di Gaza e della West Bank; le fazioni somale; il ministro della Difesa dello Sri Lanka; i governi di Arabia Saudita, Azerbaigian, Bielorussia, Birmania, CIrea del Nord; Cuba, Eritrea, Gambia, Guinea Equatoriale, Iran, Kazakistan, Laos, Libia, Russia, Ruanda, Siria, Tunisia, Turkmenistan, Uzbelistan, Vietnam e Zimbabwe. (m.s.)
cultura Qui ci vuole un nuovo umanesimo
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Il rapporto tra scienza e religione nel libro-intervista di Riccardo Chiaberge ”La variabile Dio”
di Sergio Belardinelli cienza e religione: questo il tema che Riccardo Chiaberge affronta nel suo libro intervista La variabile Dio (Longanesi 2008). La scelta degli intervistati è eccellente: il gesuita Padre Gorge Vincent Coyne, astronomo di fama internazionale, già direttore della Specola vaticana, e l’ebreo Arno Penzias, scopritore della radiazione cosmica di fondo, premio Nobel per la fisica nel 1978. L’ambientazione e i dialoghi sono avvincenti. Quanto al tema dominante, esso riguarda soprattutto Dio e l’evoluzione dell’universo. Big Bang, Darwin, creazionismo; i grandi nomi della scienza moderna: Copernico, Keplero, Galileo, Newton; quindi le grandi rivoluzioni scientifiche del secolo scorso, Einstein, Planck, Goedel; il magistero della chiesa cattolica e la scienza, le odierne cadute di stile di Richard Dawkins, Daniel Dennett e, si licet, Piergiorgio Odifreddi. Ma soprattutto i soli, le stelle, le galassie, i buchi neri.
S
Il tutto avvolto in un’atmosfera, la cui espressione letterariamente bellissima sta a pagina 67 del libro, allorché Chiaberge, racconta della «radiazione cosmica di fondo, l’eco del Big Bang, l’atto di nascita dell’universo, un rimbombo che dura da quattordici miliardi di anni». E’ in questa atmosfera che lo scienziato cattolico e lo scienziato ebreo agnostico vengono chiamati a spiegare a se stessi e ai lettori che cosa c’entri o non c’entri Dio con la nostra vita e l’evoluzione dell’universo. Le biografie individuali si intrecciano con quelle del cosmo e con quella stessa di Dio. Teologia, scienza ed esperienza personale sembrano diventare un tutt’uno. E Chiaberge ha fatto un lavoro che, pur non condividendo il suo pensiero su alcune questioni cruciali, non esito a definire eccellente, affascinante, da far leggere anche ai nostri figli. «Vorrei credere in Dio, ma non posso. Non posso credere in un Dio antropomorfico. Mi disturberebbe pensare che Dio mi ami in quel modo» (p. 35), dice Arno Penzias; anche se poi non
esclude di poter descrivere la sua visione scientifica dell’universo «come se rinviasse all’esistenza di un’entità trascendente, un’entità al di fuori del tempo e dello spazio» (p. 36). Quanto a Padre Coyne, il suo obiettivo primario è quello di rendere compatibile l’idea di Dio con l’odierno evoluzionismo: «Oggi - scrive - sappiamo che l’universo non può essere compreso se non attraverso l’evoluzione sia su scala cosmica che su una scala micro, ossia la nostra scala umana. Siamo i prodotti di un universo evolutivo come lo sono le galassie e le stelle e tutto il resto. Se questo è vero, il Dio che io credo abbia creato questo universo non può essere lo stesso tipo di Dio che mi hanno insegnato alle elemenGalileo, uno dei più grandi e controversi scienziati della storia. In basso, Riccardo Chiaberge, autore del libro-intervista ”La variabile Dio” (a sinistra la copertina)
tari, un Dio onnipotente, un Dio autocratico che mette ogni cosa al suo posto» (p. 40). E più avanti: «Dio lavora costantemente con l’universo. L’universo ha una certa vitalità propria come un bambino. Ha la capacità di rispondere a parole di affetto e di incoraggiamento. Un padre deve permettere al figlio di crescere e diventare adulto, di arrivare a fare le sue scelte, di percorrere la propria strada nella vita. Parole che danno vita sono più ricche di meri comandi o informazioni. E’ in questo modo che Dio tratta il cosmo… Dio lascia che il mondo sia quello che sarà nella sua
continua evoluzione. Non interviene, ma piuttosto asseconda, partecipa, ama» (p. 119).
Il libro è tutto un susseguirsi di passaggi vertiginosi di questo tipo, resi spesso più vertiginosi ancora dall’intreccio con le domande della scienza di ieri e di oggi, con la triste vicenda dell’abiura di Galileo, il dibattito sulle odierne questioni bioetiche e via di seguito. L’impulso che il lettore ne riceve è straordinario, sia che si trovi d’accordo, sia che dissenta da come Chiaberge e i suoi intervistati pongono volta a volta i diversi problemi. Credo dunque che vada riconosciuto all’autore il merito di aver saputo trattare con maestria, rendendola accattivante, una materia difficilissima: Dio e la scienza, appunto, senza cedere alla diffusa tentazione
La scelta degli interlocutori è eccellente: il gesuita Padre Gorge Vincent Coyne e l’ebreo Arno Penzias.Temi dominanti, Dio e l’evoluzione dell’universo. Dal Big Bang al creazionismo, passando per i grandi nomi della scienza moderna: Copernico, Keplero, Galileo, Newton di presentare la chiesa cattolica come il peggior nemico del progresso scientifico.
Certo si sarebbe forse potuto dire qualcosa di più sul fatto che oggi, contrariamente a ieri, certi scienziati sembrano assai più dogmatici del papa. Ma il fatto che il libro termini con l’auspicio di «un nuovo umanesimo» basato sulla libertà e la tolleranza e sulla convinzione che il conflitto tra religione e scienza «non è inevitabile» mi sembra già molto importante e significativo.
mostre
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Al Metropolitan di New York una retrospettiva dedicata al maestro bolognese
Moranditrova un centro di poetica permanente di Angelo Crespi è nella riflessione di Heidegger su “L’origine dell’opera d’arte” un passo che ben si addice a Giorgio Morandi. Il filosofo tedesco, nel saggio in questione, cerca di spiegare un celebre quadro di Van Gogh in cui è ritratto semplicemente un paio di scarpe da contadino. Il dipinto non ci dice nulla di come sono state costruite, né quanto costano queste calzature o chi le ha indossate, eppure proprio per essere state rappresentate in quel modo ne cogliamo l’intima essenza. L’essere di quel determinato paio di scarpe ci viene svelato grazie all’arte, anzi a ben vedere proprio grazie all’arte possiamo cogliere l’essenza universale delle scarpe in generale. Compito titanico viene assegnato da Heidegger all’arte, non più solo ritrarre il bello, bensì il vero, la verità spiega - dell’essente che per sua natura è ascoso, nascosto e dunque ci vuole qualcuno che ce lo disveli. Rainer Maria Rilke, prima ancora di Heidegger, aveva scritto che la parola poetica svela le cose come esse stesse non sapevano intimamente d’essere. Guardando l’opera di Morandi riecheggiano dunque le parole di Heidegger, anche se alcuni critici richiamano più spesso le riflessioni di Sartre e Merlau Ponty che di Heidegger furono epigoni. Riecheggiano le parole di Heidegger proprio per l’ostinazione di Morandi a voler rappresentare cose, e in questa ossessione per le cose a voler rappresentare la verità di esse.
C’
Non si spiega altrimenti la determinazione del pittore bolognese a dipingere uno dopo l’altra, quasi all’infinito, sempre le stesse bottiglie e i piccoli oggetti d’uso comune, con la coscienza anno dopo anno di chi sa che la maestria sta nel togliere. Oggetti che per questo via via si rarefanno sulla tela, fino al punto che le ultime prove saranno fatte di poche linee e macchie di colore, a lasciarne presagire solo i contorni, l’orma, in definitiva la loro ultima verità, prima ancora che la loro esistenza. È un percorso dentro le disgregazioni del Novecento quello proposto nella grande retrospettiva dedicata al maestro bolognese che prosegue fino al 14 dicembre al Metropolitan di New York, per la cura di M. Cristina Bandera e Renato Miracco. Un secolo in cui definitivamente l’arte smette di essere ricerca del bello, dopo che sul finire dell’Ottocento aveva smesso anche di
essere riproduzione del reale, per diventare qualcosa d’orribilmente altro. Nel caso di Morandi appunto pervicace ricerca della verità, in molti altri casi purtroppo provocazione fine a se stessa, non-sense, raffigurazione del brutto, esaltazione del trash. In Morandi infatti brilla la fiducia di chi ancora crede che l’arte possa salvare il mondo. Non è un caso che mentre due guerre passavano e nel mezzo l’esperienza tragica del fascismo, lui in modo quasi maniacale attendesse ai suoi piccoli quadri, nei quali il nero profondo delle ombre fa esplodere geometricamente le cose. Anche la scarna biografia esalta l’aspetto introverso di solitario ricerca-
cambio delle stagioni». Ma c’è di più. Ed è l’amore verso gli oggetti che nutre Morandi, un amore che si sublima nella relazione amorosa tra gli stessi oggetti, ricercata talvolta per mesi, che alla fine acquistano nello spazio prescelto dello studio e poi sulla tela raffigurati una propria umanità.
Quando guardiamo i quadri di Morandi intuiamo alla perfezione quanto un oggetto può amare un altro oggetto ed essere con lui in relazione, in quella relazione estetica che al vertice diventa amore. E c’è una pietas nel ritrarli davvero grande che avvicina Morandi a Rilke il quale negli stessi decenni convulsi di inizio Novecento, percepita l’imminente morte, si danna nel dare senso al mondo che finisce, perché anche una cosa può cadere felice, anche una cosa felicemente declina. E il senso sta tutto qui, realizza il poeta boemo, non solo accettare il mondo perituro, ma essere felici nella caduta, perché comunque c’è stato un “qui” e un “ora” irriducibili. E stupisce quanto poco della poetica morandiana sia passata nella pittura italiana seguente, quella esposta per esempio in questi giorni da Francesco Bonami a Venezia nella rassegna “Italics” che è una panoramica del nostro contemporaneo dal ’68 fino ad oggi. Eppure Morandi muore nel 1964, appena quattro anni prima che il postmoderno esplodesse con tutte le sue contraddizioni, archiviando per sempre una bimillenaria tradizione che assegnava all’arte un compito salvifico. Adesso, a quanto pare, c’è solo spazio per un nichilismo accertato e pienamente consiviso, in cui l’arte è il “chissenefotte” di Paola Pivi o le installazioni mortuarie di Cattelan, e le bottiglie di Morandi sono sommerse dalla spazzatura.
Nell’opera dell’artista traspaiono l’ostinazione e l’ossessione a voler rappresentare le cose. O meglio, la verità di esse
tore della verità: la camera studio di via Fondazza è una sorta di fortino claustrale, con la piccola finestra sul verde, la brandina, il tavolo da lavoro, oppure la dimora estiva a Grizzana, sugli appennini bolognesi, una sorta di osservatorio da quale analizzare sempre con metodica perseveranza lo stesso paesaggio, solo con luce diversa. Proprio la luce è il segreto di Morandi: «La storia della luce - osserva Miracco nella lectio magistralis che ha tenuto al Met a fine settembre - è anche la storia dell’ombra. Nel microcosmo dell’artista, la luce del mattino entra nelle stanza e illumina i protagonisti di quel mondo, teiere, bottiglie, scatole e coppe. Ogni giorno la luce entra in un differente e impercettibilmente diverso modo, regolato solo dal
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il personaggio
Scrittori rimossi. Le critiche a Giovanni Arpino si sono fatte sentire sin dai primi successi, avvolgendo poi la sua opera in un’imbarazzante omertà letteraria
La realtà del ”Malanoia” Nelle sue trame, chiare e cristalline, si rintraccia spesso l’incubo della monotonia di Filippo Maria Battaglia siste, nel Novecento italiano, una letteratura che non ha trovato facili sbocchi né calorosi incoraggiamenti. Tacciata di evasione o, al peggio, di futilità, è stata spesso guardata di sottecchi dai critici, ha risentito dell’ideologismo esasperato degli anni Sessanta e Settanta, è rimasta schiacciata dalle mode editoriali rifiutando di rincorrerle o di adattarvisi. E ha così contato, post mortem, la peggiore delle pene da scontare: non è stata ricordata, se non come ricorrente strumento di battaglia e di polemica tra cricche letterarie.
E
È questa la letteratura di Carlo Cassola e Giorgio Bassani (che con l’imponenza e la qualità delle loro opere hanno comunque retto più d’altri questo strano gioco al massacro), ma è anche la letteratura di Giovanni Arpino. Pure nel suo caso, le critiche si sono fatte sentire sin dai primi successi editoriali, finendo poi con avvolgere la sua opera da un curioso e imbarazzante silenzio postumo. Una vera omertà letteraria,
che è ancora oggi inspiegabile, tanto più se si considera che lo scrittore nato a Pola nel 1927 ha venduto centinaia di migliaia di copie coi suoi romanzi, ottenendo con uno di essi - L’ombra delle colline (1964) - il Premio Strega, in quegli anni conteso da autori del calibro di Elsa Morante, Dino Buzzati, Mario Soldati e Raffaele La Capria.
Proviamo dunque a ripercorrere le origini del cortocircuito della memoria attraver-
oggi che è inutile complicare con delle domande in più; già la storia di per sé è un nodo esistenziale da sciogliere e quindi va seguita nei suoi particolari». Oltre a giustificazione postuma, questa di Arpino, è una definizione che spiega bene la sua narrativa, piena di storie e di persone, e anche una certa avversione a ogni ideologia e demistificazione a cominciare dal serbatoio comunista, a cui lo scrittore dedica due dei suoi più intensi romanzi: Gli anni del
Le origini del cortocircuito della memoria, secondo l’autore stesso: «Alcuni critici mi rimproverano di costruire delle trame troppo semplici. Non mi sembra vero. Sono vicende dell’uomo di oggi che è inutile complicare con delle domande in più; già la storia di per sé è un nodo esistenziale da sciogliere e quindi va seguita nei suoi particolari» so le parole dell’autore del Fratello italiano: «Alcuni critici mi rimproverano di costruire delle trame troppo semplici. Non mi sembra vero. Sono vicende dell’uomo di
giudizio (1958) e Una nuvola d’ira (1962). Libri di storia e libri di amore, ambientati in una provincia ancora a stretto contatto con la vecchia e cocciuta civiltà contadina, ma ormai scarnificata nelle sue strutture essenziali e ridotta a muto protagonista di un progresso incerto ed enigmatico.
I protagonisti di questi due romanzi – come del resto, buona parte dei protagonisti degli atri romanzi arpiniani – sono agli antipodi dei personaggi-intellettuali che dominano i romanzi coevi. Non ne hanno le pose, gli atteggiamenti e gli abiti mentali, non
Riedito da Spoon River il romanzo ”Azzurro tenebra”
Quello che... il calcio l calcio è un elemento fondamentale della cultura contemporanea». Sul dio Eupalla e sui suoi aedi, Giovanni Arpino la pensava più o meno così, tanto da aver dedicato al rettangolo verde e ai suoi protagonisti più di una pagina della sua ultradecennale produzione. Un’attenzione niente affatto marginale, che negli anni della maturità porterà l’autore a scrivere due pamphlet, centinaia di articoli e uno dei suoi più divertenti romanzi, di recente riproposto dall’editore Spoon River. Azzurro tenebra è un bozzetto interamente incentrato sulla fallimentare trasferta della nazionale di calcio ai mondiali tedeschi del 1974. Un ritratto al vetriolo, dove i primi a finire sul banco degli imputati sono le “iene”, ovvero i giornalisti sportivi. Unica eccezione della categoria è il “saggio”Gianni Brera (di cui la casa editrice Book Time ha da poco ripubblicato uno dei suoi più fortunati libri, I campioni vi insegnano il calcio). Ma per Arpino,“Gioanbrerafucarlo”resta solo una virtuosa anomalia in un panorama umano assai più vasto e popolato di tecnici e giocatori che, arrivati all’apice della loro carriera, «anziché correre e sudare» si abbandonano ad atteggiamenti divistici e infantili. Dal rettangolo di gioco si salvano così solo in pochi: Giacinto Facchetti, Enzo Bearzot e Carletto Parola. In particolare, l’ex ct della nazionale, celato nel racconto con l’appellativo di “vecio”, è il simbolo della saggezza innata che rifugge la carta patinata e lo star-system. Sono loro gli archetipi del racconto arpiniano: un disegno ironico, mosso e vivace, che per presa narrativa e spunti polemici resta ancora oggi attualissimo.
«I
ne imitano la ricerca ossessiva dell’omologazione. Scolpito su questa traccia è ad esempio Ugo Braida, un militante che con foga ed en-
tusiasmo decide di partecipare alla campagna elettorale del 1953, affrontando i disagi e le umiliazioni che l’attivismo comporta. Braida, rispet-
il personaggio
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Nella pagina a fianco, un’immagine dello scrittore italiano Giovanni Arpino. A sinistra, una manifestazion e politica degli anni Cinquanta. In molte delle sue opere, Arpino ha tenuto a trattare le contraddizion i interne al Pci porprio di quegli anni
to ai suoi compagni, è una mosca bianca: scettico e disincantato, si capacita presto del velo di maya che avvolge l’impegno e la politica con un disinganno ben rappresentato da un suo commento all’acquisto di una poderosa enciclopedia: «È utile, ma non ragiona mai», dice con tono niente affatto intimorito dalla mole delle nozioni squadernatagli davanti dal venditore. Uno scetticismo incompatibile con la passione politica che emergerà in modo più stretto e soffocante durante il resto della narrazione e che – a libro pubblicato - porterà ad una dura polemica con i vertici del Pci.
Come ha scritto Gian Maria Veneziano in uno dei più accurati saggi pubblicati sull’opera dell’autore del Primo quarto di luna (Giovanni Arpino, Mursia, 1994), «la rappresentazione che Arpino ci ha dato dell’impegno politico attivo e poi la successiva testimonianza della sua degenerazione ideologica, come le tangenze, i punti di contatto che ha saputo descrivere tra mondo comunista e mondo borghese, hanno veramente svelato dinamiche profonde
della realtà, in una capacità di andare oltre al puro dato fisico, che è il tratto più caratteristico della sua narrativa».
Un registro reale e demistificante, dunque, che torna in Un delitto d’onore (1961), romanzo che per scansione e ritmo è più vicino ad un’opera teatrale. La storia racconta di un tentativo di costruire un rapporto sentimentale “puro” con la donna amata, subliminando così «la sporcizia del mondo». Tentativo che però viene frustrato e che aggrava anzi la condizione dei protagonisti. La trama è rigonfia di eros, tradimenti e gelosie. Eppure, Arpino non cede mai al compiacimento stilistico o all’eccesso polemico, ricusando anche il tono melodrammatico e sentimentale. Se c’è, il lirismo resta così inchiodato a un registro severo, quasi defilato rispetto ai personaggi e alla loro psicologia.
ogni scrittore e tema che tornerà del resto in una pagina del Diario Sonnambulo. Lo spunto è un divertente dialogo goethiano: «Troppe volte invocato, il Diavolo arrivò nello studio del famoso romanziere: “Insomma, che
mio. Se non fosse che la tua anima non vale un bottone. Mi basta aspettare il giorno convenuto. Però...”. “Però”, balbettò il romanziere tremando, una mano sul cuore che batteva cupi colpi extrasistolici. “Ma sì. Posso darti una mano” convenne il Diavolo accendendo la pipa di smeraldo: “Via la pancia, sì al pelo, lasciamo perdere l’amante, anch’ella è già destinata a me purtroppo. E dei capolavori non parliamone neppure. Ma una ripulitina potrei concedertela. Devi però procurarmi altre anime. Innocenti, beninteso”. “E come? Contrabbandando fantasie erotiche squisite? Corrompendo lettori ideali? Scrivendo i miei sogni più segreti e perversi?” balbettò l’altro.“Non esagerare” urlò il Diavolo: “non riusciresti. Senti, facciamola corta: ti dimagro, ti rimetto un ciuffo in testa, parola d’onore che non mi dimenticherò di te nella prossima quaterna del Nobel. Però giu-
La sua narrativa è piena di storie e di persone, e anche di una certa avversione a ogni ideologia e demistificazione. A cominciare dal serbatoio comunista, a cui lo scrittore dedica due dei suoi più intensi romanzi: ”Gli anni del giudizio” (1958) e ”Una nuvola d’ira” (1962)
E tuttavia con trame chiare e cristalline come queste resta comunque l’incubo della noia, vero chiodo fisso di
vuoi?”, gli domandò senza nascondere il fastidio. Il famoso romanziere squittì: “Ma come! Intendo firmare subito la famosa carta: grazie alla quale tu ti impossesserai della mia anima e in cambio mi aiuti a comporre quattro capolavori. Ah, non dimenticarmi che voglio essere più giovane, levami questa pancia, ridammi i capelli, via i capelli, fa’ crepare quella mia amante così appiccicosa, e spingi i giovani a divorare le mie edizioni in tiratura economica”. Il Diavolo non riuscì a trattenere una turpe risata: “Sarebbe possibile, vecchio
ra: continua a scrivere come hai sempre fatto. Basta la tua noia esistenziale ad aumentare il numero delle anime a me destinate. Orsù, al lavoro».
U n a p i e c e i r o n i c a nella quale lo scrittore di Pola leviga i suoi registri fino a farli confluire in un bozzetto godibile e leggero e che tuttavia al suo fondo ci restituisce l’ossessione di ogni narratore. Ossessione tanto più sentita in quanto – come ricorda Veneziano - «il filo che lega ogni suo lavoro è rinvenibile proprio in questa passione per la realtà, come contesto significativo di una reale scoperta di sé nel mondo». Analisi del resto molto simile a quella di un altro narratore rimosso, Mario Pomilio, sicuro che «tra tutti gli scrittori della sua generazione» Arpino è stato «quello che maggiormente aveva conservato fiducia nell’evidenza e per così dire nella eloquenza della realtà». Ed è proprio in tale qualità che una certa critica letteraria ha intravisto la vera condanna postuma dello scrittore. Non comprendendo invece come questa sia stata la sua più rara e rimpianta dote narrativa.
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LA DOMANDA DEL GIORNO
In Afghanistan non si vincerà mai.Cosa pensate? LE RAGIONI DI UNA VERITÀ NASCOSTA Le dichiarazioni del generale Carleton-Smith sono l’ultimo tassello di un quadro la cui decomposizione è iniziata diversi anni fa. A sette anni dalla rapida vittoria della coalizione Onu sul regime talebano, l’incertezza prevale sul futuro dell’Afghanistan. Le speranze suscitate dalla conferenza di Bonn e rinnovate dalle elezioni, fanno spazio a grandi inquietudini. L’apparato del nuovo Stato, esercito, polizia, giustizia, strutture di sviluppo, è rimasto incompiuto. Né le trattative con i “signori della guerra”, né le “squadre di ricostruzione provinciali”, hanno permesso a Kabul di imporsi su tutto il territorio nazionale. La coltura dell’oppio rappresenta la metà del Pil nazionale. Osama bin Laden è tuttora in libertà, il coordinamento Nato alle Forze internazionali di assistenza alla sicurezza non si è rivelato sufficiente a stabilizzare il Paese. Nel 2003 nella cintura pasthun sono riapparsi i talebani e, soprattutto dal 2005 2006, la ribellione ha iniziato a colpire partendo dalle province vicine alle frontiere col Pakistan e da quelle del sud, con azioni localizzate nel nord. Di fronte a 52mila soldati stranieri, 23mila americani, questi neo-talebani, hanno adottato una tattica di guerriglia efficace
LA DOMANDA DI DOMANI
La Lega lancia il permesso di soggiorno a punti.Via chi sbaglia. Siete d’accordo? Rispondete con una email a lettere@liberal.it
soprattutto nei villaggi dove la pressione degli insorti fa il paio con la delusione popolare verso il potere centrale e le autorità locali. L’instabilità persistente dell’Afghanistan non è dovuta solo alle lacune interne o alle dinamiche corruttrici dell’oppio. Le divisioni nella comunità internazionale sono patenti. Come è stato ricordato al vertice Nato di Bucarest 2008, l’egemonia americana è diretta conseguenza del debole impegno di alcuni membri Nato. Altri Paesi, come il Canada, si preparano a lasciare il campo. Le dichiarazioni di CarletonSmith non sono altro che la conseguenza di quanto avviene da tempo nel Paese centroasiatico. Indignarsi contro di esse servirà, forse, a mettersi ipocritamente in pace con la propria coscienza, ma non basterà.
Antonio Laffetta - Bari
LARGO AI GIOVANI Ottant’anni e non sentirli. Ray Moon, il signore tutto bicipiti e olio abbronzante al centro della foto, tra poco spegnerà le sue “prime” 80 candeline. Ma questo non gli ha impedito di partecipare ai campionati di bodybuilding di Melbourne
UN DISFATTISMO INUTILE Gli inglesi conoscono bene l’Afghanistan, perché in epoca vittoriana, quel paese era stato il centro del Grande Gioco fra corona britannica e Russia. Da quelle parti hanno sempre perso tutti, gli stessi mujiahiddin non si fidavano dei talebani, che tendenzialmente decidevano, durante gli scontri, se concluderli dalla stessa parte in cui li avevano cominciati. Detto questo, mi pare che il generale inglese che ha affermato che la Nato, l’Occidente lì, non vincerà mai è un disfattista. Poteva risparmiarci un tale commento. Il generale americano Petraeus padre della dottrina del surge in Iraq sa che l’Afghanistan è tutta un’altra faccenda e che i numeri c’entrano, perchè per controllare quel territorio immenso non sono sufficienti i satelliti. Ma il numero di uomini necessari non basterà mai, soprattutto se non si vince la battaglia politica e il presidente Karzai non governi solo a Kabul. Una “figurina”per tg e giornali, ma senza potere effettivo. Fra poco la crisi economica mondiale incomincerà ad incidere anche sulla voglia dei Paesi della coalizione di mettere mano al portafogli per sostenere quella missione. Allora si cercheranno soluzioni rapide, magari le più cruente... Dio non voglia.
MAZZINI E IL GUASTO PIÙ GRANDE Cosa pensava veramente Mazzini dell’animo degli italiani? Tra tutti valgono poche parole scritte in una lettera a George Sand. G.S. in realtà è il pseudonimo di Aurora Dupin, una famosa scrittrice francese, femminista ante litteram. Tra loro si instaurò una solida simpatia soprattutto epistola finché lei si orientò verso un socialismo idealista a cui, come è noto, Mazzini era molto ostile. La sua dottrina politica infatti non solcò mai in quando a “sinistra” la linea democratica. Mazzini la conobbe personalmente nel 1847 ed il rapporto epistolario si interruppe nel 1853 proprio per quel motivo. Mazzini, esule a Lugano dopo le famose “cinque giornate”, in una lettera del 7 ottobre, deluso non solo per il triste esito milanese ma anche per l’atteggiamento della Francia, scrisse: “Il male da noi non è interamente l’egoismo; è piuttosto la mancanza di intelligenza da un lato, e la mancanza di credenza dall’altro. Vi sono infatti istinti magnifici
NON SOLO POLTRONE Ho partecipato ad un convegno molto ben condotto indetto dall’Acli sulla condizione degli anziani nel nostro territorio, convegno che ha evidenziato come attualmente grazie al sostegno delle famiglie lo stato di grave bisogno riguarda una percentuale minima della popolazione over 65. Ma che succederà quando il sostegno verrà da famiglie con un solo figlio? La situazione diverrà drammatica se non verrà da subito avvito uno studio capace di individuare le soluzioni possibili. Un ”grande” partito non può fare a meno di affrontare il problema proponendo idee e non può occuparsi solo di poltrone con accordi sottobanco in vista delle elezioni di primavera. Riportiamo democrazia e scambio di opinioni al nostro interno, altrimenti si va solo dove ci por-
dai circoli liberal
Arcangelo Gabriele Suriano - Trento
nelle nostre masse; ma esse sono profondamente ignoranti e pronte a darsi al primo intrigante venuto. Vi è nelle classe superiori “une sorte de savoir faire”, ma senza una salda credenza: fanno dell’analisi, dell’anatomia, della fisiologia, ma non ombra di sintesi. Si persegue Machiavelli, si gioca all’uomo di Stato; si è pratici, positivi. Noi siamo, dicono, dei poeti, degli artisti; e quando si è detto questo, si crede di aver pronunziato una condanna. Siamo nel vuoto che si è fatto tra il cattolicesimo ed il materialismo. Naturalmente quando utilizza il termine riferito agli italiani di “ignoranti”, ovviamente non ha tono offensivo ma è riferito al basso livello di istruzione generale e morale delle masse che non poteva che impedire una creazione di una comune coscienza e consapevolezza. Per questa ragione Mazzini si prodigò come scritture nella stesura di opere, come “I Doveri dell’Uomo”, destinati al Popolo di chiara impronta più etica ed educativa prima che politica. Voleva l’emancipazione del
ta la ”saccoccia” ma, chi ci seguirà? I partiti dell’opportunismo ci sono già, il clientelismo senza valori non è per chi vuole proporre un polo alternativo cristiano - liberale.
Dino Mazzoleni - Perugia
CORTO CIRCUITO DA GIORNALE Ma mi spiegate perché un giorno sostenete una tesi sul giornale e un altro la cambiate? Mi riferisco al numero dedicato a Madonna, dove smontavate l’icona della cantante americana. «Non sa ballare, non sa recitare, non sa cantare», recitava l’articolo di apertura. Poi andando a guardare il numero del giorno prima mi sono accorto di un pezzo che invece esaltava la star. «Bella, super informa, una cantante da sogno». Insomma mettetevi d’accordo.
Giuseppe Proto - Genova
Popolo e questa passava attraverso l’acquisizione dell’”intelligenza”, così come avviene per ognuno di noi singolarmente. Le eccezioni, come De Gasperi o Ugo La Malfa e pochi altri, in fin dei conti sono imbarazzanti intruse della nostra storia. Come intuì i guasti che avrebbe portato un’unità del Paese creata nel “vuoto” spirituale, che perdura, “tra cattolicesimo e materialismo”, perché il futuro degli italiani, con l’impossessamento sabaudo del movimento Risorgimentale e l’emarginazione dei mazziniani, era oramai stato privato di una possibile religione civile per una società di virtù repubblicane. Così si fece l’Italia ma si evitò la trasformazione sociale democratica, ovvero la modernizzazione, che era il vero obbiettivo di Mazzini. Patria come mezzo di emancipazione perché è “ il punto d’appoggio della leva che noi dobbiamo dirigere a vantaggio comune” (I doveri dell’uomo). Leri Pegolo CLUB LIBERAL PORDENONE
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog La luce dei pensieri durante la notte
nasca. Perché forse è vero. Noi non abbiamo il diritto di dire no ad una vita.
Elisa Rossi - Roma
il meglio di
MAGGIORANZA IN PIAZZA? In futuro, quando la mia casa non sarà più un giaciglio di ferro in un luogo circondato dal filo spinato, voglio avere una lampadina sopra il mio letto, così di notte ci sarà luce ogni volta che lo vorrò. Spesso, nel mio dormiveglia, turbinano pensieri e piccoli racconti, sottili e trasparenti come bolle di sapone, vorrei poterli catturare su un pezzo di carta. Quando mi sveglio alla mattina mi sento come dentro un bozzolo è un ricco risveglio, sai! Ma poi comincia a volte una piccola Passione, pensieri e immagini si agitano intorno a me, sono così tangibili e vogliono essere messi sulla carta, ma non c’è nessun posto in cui si possa star seduti con calma, certe volte passo delle ore a cercarlo. Una volta nel cuore della notte una gatta randagia è entrata nella nostra baracca, le abbiamo messo una cappelliera sul gabinetto e là ha avuto i suoi piccoli. Certe volte mi sento proprio come un gatto randagio senza cappelliera. Etty Hillesum a Maria Tuinzing
CHI È SENZA PECCATO SCAGLI LA PRIMA PIETRA Come si dovrebbe leggere la Bibbia come un importante testo allegorico, colorato di figure e situazioni stereotipate, metaforiche. E trarre da esse degli insegnamenti concreti. Allo stesso modo forse dovremmo ascoltare le parole del Papa. Probabilmente il suo messaggio contro la contraccezione è un po’ estremista e fuori dalla realtà. Ma dovremmo leggere tra le sue parole, un invito ad amare la vita e ad accettarla come un dono di Dio. Vi sono coppie che non possono avere figli per una serie di motivazioni serie e concrete. Ma molte altre coppie sfuggono alle loro responsabilità per superficialità o mancanza di maturità. Ed ecco che i rapporti sessuali diventano un divertimento, uno sport, un modo come un altro per passare il tempo. Persino con un partner per cui non si nutre alcun sentimento d’amore. E dunque vediamo nel Papa più che un’invadenza nelle vite della gente e delle coppie e più che una censura, un invito ad amare e ad accettare un figlio come un dono. Non come un peso da portarsi dietro tutta la vita. Un dono da amare prima ancora che
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
ACCADDE OGGI
8 ottobre 1815 L’ex-Re di Napoli Gioacchino Murat sbarca con ventotto compagni a Pizzo Calabro per cercare di recuperare il proprio trono, ma è arrestato 1918 Prima guerra mondiale Nella Foresta delle Argonne in Francia, il Caporale statunitense Alvin C. York uccide 25 soldati tedeschi e ne cattura 132, praticamente da solo 1939 Seconda guerra mondiale: la Germania si annette la Polonia occidentale 1956 Don Larsen, pitcher dei New York Yankees compie il primo (e unico) gioco perfetto nella storia delle World Series, in gara 5 1967 Che Guevara e i suoi uomini vengono catturati in Bolivia 1982 Il governo polacco mette al bando Solidarnosc 1985 Durante il dirottamento della nave Achille Lauro viene ucciso il cittadino americano Leon Klinghoffer 1895 nasce Juan Domingo Perón, militare e politico argentino
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Giancristiano Desiderio,
La scuola è di tutti: del governo, della maggioranza, dei sindacati, degli studenti, dei maestri e professori, dei cittadini dell’uno e l’altro schieramento politico. Questo governo e relativa maggioranza hanno percentuali di consensi mai registrate in passato. Buon senso vorrebbe quanto meno il rispetto. Così non è: Bonanni ed Epifani dichiarano di scendere in piazza per scioperare. Ma in piazza ”scenderebbe” anche la maggioranza per rivendicare il diritto a veder agire il governo da essa sostenuto. Vogliamo lo scontro? No, non ci sarebbe, perché lo ”scenderebbe” non è casuale: molti hanno bisogno di andare a lavorare o riposarsi del lavoro svolto, non hanno tempo e voglia di ...scendere! E, soprattutto, con i tempi che corrono, la quarta settimana vale per tutti e buttar soldi per la strada...a meno che non paghi qualcuno per noi!
Leopoldo Chiappini Guerrieri - Teramo
PUNTURE Crisi economica e finanziaria di proporzioni bibliche, ma Berlusconi balla in discoteca fino al mattino. Prove da Titanic.
Giancristiano Desiderio
“
Ricco non è colui che possiede, ma colui che dà, colui che è capace di dare GIOVANNI PAOLO II
”
Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Rossella Fabiani,Vincenzo Faccioli Pintozzi, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Roselina Salemi, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
I MERCATI CROLLANO, MA WALTER PENSA ALLA RAI Il totale distacco dimostrato da Walter Veltroni dal principio di realtà è ormai diventato un problema non solo per la sinistra e per il Pd, ma anche per il Paese. Nell’ultimo mese, il pianeta è sconvolto da una delle più epocali crisi economiche della modernità, ma nelle sue parole, nei suoi ragionamenti, non ve ne è straccia. Gli elettori del Pd, così come quelli di tutti gli altri partiti sono angosciati o perché piccoli azionisti di una borsa che perde a livelli mai visti. O come azionisti o correntisti di banche finite nella tempesta come Unicredit (il cui amministratore, Profumo ieri ha detto: “Mai visto nulla di simile”), o come piccoli imprenditori o artigiani che sanno di non potere più contare nei prossimi mesi su normalissime linee di credito, o come dipendenti di assicurazioni, banche, o piccole imprese che possono essere se non travolte, pesantemente condizionate in negativo dalla crisi. Chi è azionista o socio Unipol –si tratta della sua stessa base elettorale e di potere emiliano-toscana- trema per le tante polizze Unipol collegate a obbligazioni della fallita Lehman & Brothers che ora il gruppo deve rimborsare. Insomma, chi ha un minimo principio di realtà, chi legge anche distrattamente i giornali, sa che questa crisi è al centro di ogni preoccupazione di ogni italiano, e quindi anche di ogni piattaforma politica. Chi, peraltro, ha a cuore i problemi dei popoli meno fortunati –e non solo per le proprie fortune letterarie- sa anche bene che tutto questo si ritorcerà con feroce devastazione in Africa e nel terzo mondo, provocando fame, disoccupazione, terremoti
economici e sociali. L’Europa, sta decidendo se mettere a disposizione 500, o forse 1.000 o forse più centinaia di miliardi per fronteggiare la crisi. Ma Walter Veltroni non si accorge di nulla, non lo percepisce, non ne tiene conto e continua a organizzare la sua manifestazione del 25 ottobre guardando a Di Pietro, alle pugnalate alla schiena di D’Alema o Rutelli su una piattaforma –questo è incredibile- che è identica di fatto a quella dei Ds del 25 aprile 1994. Il centro di questa “storica” mobilitazione è sempre lo stesso: antiberlusconismo à tout azimuth, come si dice in Francia, a giro d’orizzonte. Leggete le interviste del segretario del Pd, i manifesti affissi per le strade, allargate l’attenzione a tutto il gruppo dirigente del Pd – escluso D’Alema e i suoi - e non troverete semplicemente traccia della realtà. Il mediatico Veltroni porta la sinistra a un distacco sempre più drammatico dal paese, obbligandola a recitare una sorta di “second life”in cui il suo proprio immaginario onirico fa da sfondo al disastro. L’unica cosa concreta di cui si occupa è la nomina del Consiglio di Amministrazione della Rai e dei futuri direttori di testata. Così, quando gli si pone una domanda diretta sul tema,Veltroni risponde in un modo disarmante. Ieri mattina, intervistato da Concita de Gregorio su Radio 3 si è così espresso sulla crisi dei mutui: «È colpa della destra, perché prima sosteneva che il capitalismo doveva essere libero e selvaggio e ora a farne le spese sono i cittadini. È insopportabile poi che i teorici della deregulation siano diventati i teorici della nazionalizzazione e dell’intervento dello Stato».
Carlo Panella
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