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La capacità di godere richiede cultura, e la cultura equivale poi sempre alla capacità di godere

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Thomas Mann

QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA

di Ferdinando Adornato

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Scontro India-Pakistan sui mandanti della strage. A Mumbai i morti sono 151. Liberi i sette italiani, tutti uccisi gli ostaggi israeliani

George W. Obama Il mondo ha bisogno che, dopo Bush, l’America continui a guidare la lotta al terrorismo, stavolta con il pieno consenso dell’Europa e dell’Onu. L’esito della guerra si gioca nell’Asia, tra Islamabad, Kabul e Nuova Delhi da pagina 2 a pagina 7 L’ignoranza e le classi-ponte

Approvata la maxi-manovra: ma i costi peseranno su banche e Regioni

L’italiano salvato dal correttore Word

Il mistero degli ottanta miliardi Ecco il piano ”creativo”. Berlusconi: l’opposizione collabori. Anzi no di Francesco Pacifico

ROMA. Ottanta miliardi di euro per rimettere in moto l’economia. Che si traducono in un conto da ottanta miliardi che Giulio Tremonti indirettamente presenta ai privati (banche e grandi utilities in primis) o alle Regioni. In maniche di camicia, Giulio Tremonti ieri ha presentato il suo piano contro la crisi: tra tagli fiscali, trasferimenti, blocco delle tariffe, nuova linfa alle opere pubbliche, l’obiettivo è mobilitare 80 miliardi riattivando consumi e produttività. Gli ha fatto eco, con un piccolo teatrino, il premier che prima ha esortato l’opposozione a collaborare e poi ci ha ripensato: «Però la SABATO 29 NOVEMBRE 2008 • EURO 1,00 (10,00

smetta di fare campagna elettorale». Comunque, saranno gli istituti di credito ad accollarsi attraverso la loro fiscalità il costo del bonus 2009 per famiglie numerose e anziani. Dai fondi infrastrutturali o sociali europei come quelli del Fas – di fatto gestiti direttamente dagli enti locali – saranno invece trovate le risorse per le opere pubbliche e per estendere gli ammortizzatori sociali. E questo soltanto per citare i pezzi principali di pacchetto che, va da sé, si realizzerà soltanto trovando un accordo con banchieri e governatori. s eg ue a pa gi na 8

CON I QUADERNI)

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NUMERO

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di Giuseppe Baiocchi orse le classi-ponte per facilitare il recupero linguistico e culturale andrebbero prima messe in funzione per i candidati italiani al concorso per la magistratura. È notizia scivolata via in una quasi generale indifferenza, eppure è un fatto accertato che la prova scritta del prestigioso concorso che dà accesso ai ruoli della magistratura abbia avuto (su migliaia di candidati) un numero di promossi addirittura inferiore ai posti da coprire.

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War on Terror. Il presidente dell’Istituto Affari Internazionali spiega il delicato ruolo di Islamabad nella crisi globale

L’epicentro della guerra

Silvestri: «È soprattutto in Pakistan che si gioca la partita geopolitica che coinvolge India e Afghanistan. E che l’Occidente non può perdere» colloquio con Stefano Silvestri di Silvia Marchetti in quella tormentata “striscia” di nazioni al confine tra Oriente e Medio Oriente - Afghanistan, Pakistan e India - che si giocherà, nei prossimi anni, la partita geopolitica globale. Ed è per questo che il ruolo di Islamabad è destinato a diventare sempre più importante. Oggi il Pakistan non è un unico territorio ma è diviso in due Stati. Il primo riconosce il potere del governo centrale, il secondo è in mano alle regioni tribali. Sono le zone ribelli, come il Waziristan, che corrono lungo la frontiera nord-est ai confini con l’Afghanistan, terre desolate e immense dove i terroristi di al Qaeda hanno trovato rifugio nel corso della guerra al terrore. Si tratta di zone che godono di una forte autonomia rispetto al governo centrale, benché partecipino regolarmente alle elezioni nazionali.

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Secondo Stefano Silvestri, presidente dell’Istituto Affari Internazionali, in Pakistan vige un contorto gioco di potere in base al quale il governo centrale si muove su un doppio binario: al tempo stesso cerca di domare e di strumentalizzare le regioni tribali. «Da una parte spiega Silvestri - trattandosi di aree con una forte autonomia e forme sviluppate di autogoverno, l’esercito di Islamabad fa incursioni periodiche ma pur-

troppo temporanee nelle regioni ribelli con l’obiettivo di riportarle sotto il controllo centrale e non ci è mai riuscito. Dall’altra, è interesse dello stesso governo pakistano tenere vive queste schegge impazzite in funzione anti-Afghanistan». All’indomani dell’intervento internazionale a Kabul e la nascita di un nuovo governo di unità nazionale che non comprende più soltanto l’etnia dei pashtun, Islamabad sente

tengono alla stessa tribù dei pashtun che vive nel sud dell’Afghanistan.

Questi legami etnici, spiega Silvestri, hanno sempre permesso a Islamabad di avere una fortissima influenza sui territori afghani e sullo stesso governo di Kabul. Oggi con lo scenario politico afgano profondamento cambiato, l’influenza

Le regioni del nord-est sono una polveriera che non riconosce il potere del governo centrale. In queste terre, desolate e immense, hanno trovato rifugio i terroristi che destabilizzano l’area e compiono azioni di guerriglia in Kashmir che la sua influenza in Afghanistan è meno forte di prima e perciò impiegherebbe a suo fine le azioni dei gruppi tribali lungo il confine interno per tenere alta la tensione all’esterno. I ribelli del Pakistan appar-

del Pakistan si è ridotta ma Islamabad continua a esportare turbolenze nel Paese confinante tramite i gruppi tribali del nordest. Insomma, il comportamento del governo pakistano è ambiguo, perché se da una parte collabora con il governo di Hamid Karzai per estirpare i gruppi terroristici lungo il confine e restaurare l’ordine, dall’altra spesso chiude un’occhio sulle incursioni dei gruppi tribali in Afghanistan. «Purtroppo oggi la collaborazione tra i due governi è notevolmente diminuita - dice Silve-

Ritiro americano entro il 2011

Il Parlamento iracheno approva il “patto strategico” con gli Usa di Andrea Mancia

stri - A Islamabad non piace affatto il nuovo assetto del governo di unità nazionale afgano nato dall’Alleanza del Nord». Insomma, gli equilibri interni politici afghani sono cambiati dopo l’intervento internazionale e Islamabad si è trovata spiazzata. Di conseguenza, è inevitabile che il governo pakistano si senta sì minacciato dai gruppi tribali nel nord-est, ma

che contemporaneamente li strumentalizzi a proprio fine per mantenere una forma di controllo sul vicino Afghanistan.

La realtà dei due Stati e il perenne stato di instabilità sono sempre esistiti in Pakistan, sin dall’epoca britannica per poi accentuarsi dopo l’indipendenza. Oggi, le regioni del nord-est sono una polveriera, ospitano importanti leader talebani tra cui, oltre a Bin Laden (come leggenda vuole) anche il suo diabolico “dottore” Al Zawahiri. Silvestri crede tuttavia che la frattura tra il nord-est tribale e il resto del Paese potrebbe rimarginarsi con il nuovo governo di Islamabad insediatosi alcuni mesi fa. «C’è

on 144 voti favorevoli e 54 contrari (ma i presenti erano solo 198 su 275), il Parlameno iracheno ha approvato il “patto strategico” con gli Stati Uniti per il ritiro delle truppe americane dal Paese entro la fine del 2011. Il voto è arrivato dopo quasi un anno di negoziati e dibattiti, anche aspri, tra le diverse fazioni che animano la vita politica di Baghdad. L’accordo, entro il 31 luglio del 2009, sarà sottoposto a referendum popolare. E in caso di mancata ratifica il governo sarà costretto ad abrogare (o rinegoziare) l’intesa.

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Sopra, Stefano Silvestri. A sinistra, un soldato Usa. Nella pagina a fianco, a sinistra un mujaiddin e, nel riquadro, un soldato indiano

Secondo il presidente americano, George W. Bush, si tratta di «un accordo storico». «Il voto di oggi - ha dichiarato Bush - afferma lo sviluppo della democrazia in Iraq e la sua capacità di provvedere autonomamente alla propria sicurezza». Il raggiungimento di una così am-

un orientamento generale a realizzare una maggiore forma di collaborazione con le regioni ribelli e un grandissimo sforzo a tenere sotto controllo i militari». Tra le prime mosse dell’esecutivo c’è stata infatti la chiusura dei servizi segreti e i reparti militari fuori controllo che in passato hanno spesso utilizzato i gruppi tribali e i terroristi pashtun per compiere azioni di guerriglia nel Kashmir indiano.

Silvestri insiste sull’importanza del ruolo dell’esercito nella costruzione dell’unità nazionale e soprattutto nel controllo delle zone tribali. «Se il governo ha l’esercito come amico, allora è possibile che queste regioni siano riportate sotto il cappello nazionale, ma se per caso c’è qualche schegge impazzita all’interno delle forze armate, come è già successo in passato, allora diventa molto difficile riuscirà a domare la zona di frontiera con l’Afghanistan». Insomma, il controllo del nordest è possibile soltanto con un esercito collaboratore. Secondo Silvestri, tuttavia, la partita è ancora aperta ed «è tutto da vedere». L’unica cosa certa è che «ci sono molti interessi internazionali che appoggiano l’operato del nuovo governo. La crisi attuale che vive il Pakistan dimostra l’importanza di concentrarsi sulla delicatezza geopolitica dell’area».

pia maggioranza è stato consentito dalla precedente approvazione, su richiesta dell’opposizione sunnita, di un testo che aumentasse la loro partecipazione nelle istituzioni del Paese.

L’accordo rappresenta soprattutto una vittoria per il primo ministro Nouri al Maliki. L’approvazione del patto con Washington lo eleva al rango di statista che sta riuscendo a traghettare l’Iraq verso la tanto sospirata sovranità nazionale, strappando il suo Paese alla tutela internazionale sancita dall’Onu dopo l’intervento militare anglo-americano e la caduta del regime di Saddam Hussein. Ma si tratta anche di un indubbio successo per Bush, che è riuscito - contro le previsioni di molti - a riportare alla “normalità”la situazione in Iraq prima della fine del suo doppio mandato, consegnando al president-elect Barack


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Blitz negli alberghi colpiti, mentre sale il numero delle vittime

Italiani in salvo Il lutto di Israele di Vincenzo Faccioli Pintozzi ono passate oltre 48 ore dall’inizio dell’attacco terroristico che ha messo in ginocchio Mumbai, ma gli scontri non si placano. Mentre vengono rilasciati tutti gli ostaggi italiani, e ritrovati morti i cinque israeliani chiusi in un centro di preghiera, le teste di cuoio entrano in azione all’hotel Taj Mahal. Impossibile dare un bilancio dell’operazione, ancora in corso mentre andiamo in stampa. Nel frattempo, sembra essere tornata la calma all’Oberoi: 148 ostaggi sono stati liberati dalle forze speciali dell’esercito indiano – in tenuta antiterrorismo – e nove terroristi uccisi. Fra i terroristi islamici arrestati, invece, sembra ci siano anche due cittadini britannici: una questione su cui sta indagando anche il ministero degli Esteri di Londra, che ha detto di voler collaborare a ogni stadio con la sua ex colonia. Nel corso dell’operazione, sono stati liberati illesi i sette italiani che erano ancora nel lussuoso albergo, uno dei simboli della “New York” dell’Asia e punto di incontro degli occidentali presenti nella capitale finanziaria dell’India. Sale dunque a 151 morti e 327 feriti il bilancio complessivo delle vittime degli attacchi terroristici in India. Si allunga contemporaneamente anche la lista delle vittime straniere degli attacchi nella capitale economica indiana: risultano essere almeno 13 gli stranieri, occidentali o asiatici, morti nelle ultime 48 ore. Secondo le informazioni fornite da fonti ufficiali delle rispettive capitali di appartenenza, oltre all’italiano Antonio Di Lorenzo, è stata accertata la morte di quattro cittadini tedeschi, di due francesi, di due statunitensi, di un britannico, di un canadese di un giapponese, e di un cittadino di Singapore. E questo dato riporta in auge la teoria che vuole, fra gli ideatori dell’attacco, anche i nazionalisti indù delle frange più estreme. Questi avrebbero stretto un patto con gli integralisti musulmani che hanno poi portato l’attacco al centro della città: un attacco che, d’altra parte, non sarebbe stato possibile (per evidenti motivi territoriali) senza almeno l’omertà dei fondamentalisti indù.

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terroristica della storia di Mumbai». Un’ipotesi rafforzata sia dai fotogrammi che hanno ripreso uno degli attentatori del Taj Mahal – con al braccio uno dei simboli sacri dell’induismo – sia dalla mancata reazione da parte degli stessi nazionalisti contro gli assalitori.

Qualunque sia il vero legame che ha unito i mandanti dell’attentato, a due giorni dal primo sparo iniziano a chiarire meglio i contorni dell’ attacco terroristico. A compierlo sarebbero stati 25 terroristi giovanissimi, che in una mail inviata subito dopo l’attacco si sono auto-definiti “Mujaiddin del Deccan”, un altopiano della parte meridionale dell’India. Alcuni sembrano essere arrivati sulle coste di Mumbai dal mare, con gommoni partiti da una nave-base che secondo alcuni appartiene ai pirati che nelle ultime settimane hanno colpito le coste africane. Gli autori dell’attacco erano in possesso di carte di credito e documenti d’identità mauritani. Lo riferisce la televisione indiana Ndtv, che cita fonti dei commando indiani. Negli zainetti dei terroristi sono state trovate, inoltre, riviste, frutta secca e dollari. I siti colpiti dagli attacchi terroristici simultanei nella città indiana sono stati almeno dieci, con esplosioni all’hotel Taj Mahal, all’hotel Oberoi e alla Nariman House, il centro ebraico. Gli attentati hanno preso di mira i due alberghi più lussuosi della città e i locali frequentati dai turisti: vi sono state anche sparatorie vicino ad alcuni edifici dell’area di Colaba-Nariman Point, dove si trovano gli alberghi e altri luoghi frequentati dai turisti, tra cui molti italiani, come il pub Leopold’s. Esplosioni e spari sono stati avvertiti anche a Mazgaon, la stazione di scambio della metropolitana e nell’area di Crawford market. Il premier indiano Manmohan Singh ha puntato il dito contro gruppi militanti che vivono «in Paesi vicini all’India». Si tratta di una chiara allusione al Pakistan, da cui provengono almeno due degli assalitori, da tempo nel mirino di Delhi per il poco impegno nella lotta al terrore. Un’accusa rimandata al mittente dal governo di Islamabad, che non ha offerto aiuto ai vicini, limitandosi a esprimere cordoglio. Mentre siti di integralisti del nord del Pakistan inneggiano agli assalitori e chiedono ad Allah di «uccidere tutti gli indù».

Ancora dubbi sulla vera identità dei terroristi. Il premier Singh punta il dito contro il confinante Pakistan, che rigetta le accuse ed esprime il proprio cordoglio

Obama la possibilità di dislocare nei prossimi mesi in Afghanistan le truppe che, gradualmente, abbandoneranno l’Iraq. Oltre al ritiro definitivo delle truppe Usa entro il 2011, l’intesa prevede che - entro il 2009 - i 150mila soldati americani attualmente presenti in Iraq abbandonino le città e tutti i centri abitati, per rimanere all’interno delle oltre 500 basi sparse in tutto Paese. In più, ogni edificio attualmente usato dalle forze americane diventerà automaticamente di proprietà dello Stato iracheno.

Sarà inoltre formata una commissione congiunta iracheno-americana incaricata di giudicare eventuali reati commessi da soldati e da contractor statunitensi in Iraq fuori dalle caserme e dalle basi americane. All’interno dei compound, ivece, vigerà invece solo l’autorità militare Usa. La stessa commissione si occu-

perà anche di coordinare tutte le operazioni militari da attuare sul territorio iracheno dalle forze armate di Baghdad e da quelle di Washington.

Da quando l’accordo entrerà in vigore, poi, le truppe americane non avranno più il diritto di arrestare un cittadino iracheno senza che sia stato già emesso contro di lui un mandato di cattura da parte delle autorità giudiziarie di Baghdad. E i tribunali iracheni si occuperanno anche degli oltre 16mila prigionieri attualmente detenuti nelle carceri militari americane. Il testo, infine, prevede che - a partire dal 1° gennaio 2009 - lo spazio aereo iracheno e le frequenze delle trasmissioni radio siano sotto l’autorità di Baghdad, così come l’intero perimetro della zona verde, con esclusione dei compound delle ambasciate, passerà sotto la giurisdizione irachena.

Intenzionati a destabilizzare il Paese – con il conseguente calo di potere da parte del partito Congress – questi ultimi non avrebbero esitato ad approvare il piano di lancio di quella che un editoriale del Times of India definisce «la più dura offensiva


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Est/Ovest. Le emergenze globali per il nuovo presidente secondo l’ex-ambasciatore degli Stati Uniti all’Onu

Le tre sfide di Obama L’accordo con la Cina, il duello con la Russia e la lotta al terrore e al nucleare iraniano di John Bolton questo punto viene chiedersi spontaneo che cosa farà Barack Obama quando, dal 20 gennaio, entrerà alla Casa Bianca. Non dimentichiamoci che è il primo candidato democratico ad avere ricevuto più del 50 per cento del voto popolare da quando Johnson fu eletto nel 1964. Non dimentichiamoci anche che, dopo la più grande vittoria politica in un’elezione presidenziale nella storia americana, Lyndon Johnson fu il principale artefice della spedizione di 400mila uomini in Vietnam, ma non fu poi in grado di riprendersi la nomination all’interno del suo partito e, nel 1972, il repubblicano Richard Nixon conquistò la seconda maggiore vittoria nella storia politica americana. Più recentemente il padre del presidente Bush, o “Bush 41” come lo chiamiamo noi visto che è stato il 41° presidente, ottenne un indice di gradimento del 91 per cento nel 1991, pochi mesi dopo la prima spedizione della guerra del Golfo. Tuttavia, nel giro di un anno e mezzo, la sua popolarità era già scesa al più basso livello dello share repubblicano dai tempi di William Howard Taft nel 1920. La politica americana è dura e non perdona. E oggi, in particolare, la crisi internazionale – dal terrorismo, all’economia – impone delle sfide che il nuovo presidente, qualsiasi sia il margine del voto popolare che ha ottenuto, dovrà affrontare.

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Come governerà Obama? Ha realizzato una campagna elettorale muovendosi verso la sinistra del partito democratico. Ha dichiarato che uno dei primi passi sarà il ritiro abbastanza rapido – alcuni direbbero precipitoso – delle forze armate dall’Iraq. Ha vinto con successo la nomination del partito democratico contro la senatrice Clinton che invece sosteneva la guerra in Iraq e che l’ha difesa nel corso della sua campagna. Ora sembra che Obama sta per nominare la senatrice Clinton segretario di Stato. Alcuni dicono che questo è una mossa per ricompattare le fazioni all’in-

terno del partito democratico. Credo che sia ancora presto per fare previsioni. Ma so che ci sono aspettative straordinarie in Europa per la presidenza di Obama. È pensiero comune che il presidente Obama governerà con intese a più livelli piuttosto che con l’unilateralismo dell’amministrazione Bush. Multilateralismo contro unilateralismo, come se si trattasse

Agli europei che vogliono il disimpegno Usa ricordo il vecchio detto: «Attenti a quello che chiedete, perché potreste anche averlo» di una sorta di approccio teologico. Personalmente preferisco vederlo come un dibattito tra una forchetta, da un lato, e un cucchiaio dall’altro. La questione sta in quello che si vuole ottenere: se si cerca di mangiare una zuppa con la forchetta, non è certo una buona idea. Credo che le differenze nell’approccio dal punto di vista americano sono state sempre più pragmatiche e, con il tempo, l’amministrazione Obama se ne renderà conto. Mi ricordo che in

Europa, verso la fine degli anni Novanta, quando si viveva la grande paura del ritorno dell’isolazionismo americano, molti dicevano che erano preoccupati che gli Stati Uniti potessero sviluppare il loro sistema missilistico lasciando l’Europa vulnerabile di fronte ai missili balistici degli Stati canaglia. Ironicamente, le critiche che sentiamo oggi agli Stati Uniti sono esattamente all’opposto: ovvero che l’America è troppo coinvolta a livello mondiale. E l’augurio di molti in Europa è che l’America sia un po’ meno presente nel Medio Oriente e altrove. Ricordate il vecchio detto: “Stai attento a quello che chiedi, perché potresti ottenerlo”? La verità è che l’America e l’Europa si trovano di fronte sfide comuni. La prima è rappresentata dalla Russia.Vladimir Putin disse tre anni fa, quando era ancora presidente, che il disfacimento dell’Unione Sovietica ha rappresentato la maggiore catastrofe geopolitica del XX secolo. Ora, io credo che la maggior parte di noi pensano che il crollo dell’Unione Sovietica fu un bel modo per chiudere il XX secolo, ma ovviamente questo non è il pensiero del Cremlino e l’invasione russa della Georgia è stata il primo passo di un piano per ristabilire il territorio della vecchia Unione Sovietica, o almeno per ristabilire l’egemonia russa all’interno dell’area caucasica. Nella primavera scorsa il presidente Bush aveva proposto di inserire l’Ucraina e la Georgia tra i membri della Nato. Proposta che è stata rifiutata da molti dei nostri alleati europei. Io credo che questa decisione da parte della Nato sia stato visto da Mosca come un segnale di debolezza: non voglio sopravvalutare il paragone, ma mi ha ricordato il discorso fatto dal segretario di stato Dean Hutchinson nel 1950 quando descrisse il programma di di-

fesa americano nel Pacifico e si dimenticò di includervi la Corea del Sud. Noi dobbiamo prendere una decisione se permetteremo che ci sia un’area di instabilità tra i confini orientali della Nato e i confini occidentali della Russia, perché le azioni della Russia in Georgia mi sembra che indichino una volontà ad andare sullo stesso percorso usato per l’Ucraina e eventualmente in altri stati della ex Unione Sovietica. Non credo che quello che è successo in Georgia sia stato un incidente: i russi volevano dimostrare che l’oleodotto che attraversa la Georgia - l’unico che non attraversa la Russia - era vulnerabile e lo hanno fatto in maniera molto chiara.

È una minaccia per gli Stati Uniti e in particolare per l’Europa che dipende dal petrolio e dal gas russo. Tutto questo fa pensare che abbiamo un problema e credo che questo sarebbe proprio il momento sbagliato per dimostrare debolezza di fronte alla Russia quando il prezzo del petrolio è arrivato al di sotto dei 50 dollari, lasciando così i russi molto più vulnerabili perché è più difficile per loro continuare la ricostruzione degli arsenali militari rispetto agli anni passati.

La seconda sfida è la Cina che ha vissuto una crescita economica esponenziale negli ultimi vent’anni e che punta ad arrivare ad essere la maggiore potenza economica al mondo. Tuttavia per una paese come la Cina vent’anni rappresentano un periodo troppo breve se si pensa all’ultimo secolo che ha vissuto. Gli ultimi cento anni hanno visto la caduta dell’ultima dinastia imperiale, l’affermazione della prima repubblica cinese, la prima caduta della repubblica cinese, il ritorno all’autoritarismo, l’invasione e l’occupazione giapponese, la guerra civile tra comunisti e nazionalisti, l’affermarsi della seconda repubblica cinese, la caduta della seconda repubblica cinese, il ritorno dei nazionalisti di Taiwan, la dittatura comunista, poi negli anni Cinquanta la più grande tragedia umana: la morte di 40 milioni di cinesi a causa delle politiche economiche seguite dalla rivoluzione culturale - durante la quale fu distrutta più cultura cinese che in ogni altro periodo della storia - poi seguita da piazza Tien An Men, e ancora da vent’anni di crescita economica. Quindi è stato un secolo di discontinuità radicale e si può prevedere un altro secolo di altrettanta discontinuità.


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L’odio dei fondamentalisti colpisce tutti. Ma alcuni più di altri

Ebrei nel mirino. Anche a Mumbai di Emanuele Ottolenghi è qualcosa di molto familiare nelle scene di orrore e di violenza che ci giungono da Mumbai, immagini simili a episodi ormai dimenticati nella storia recente del terrorismo. Pensiamo all’attacco agli aeroporti di Fiumicino del 27 dicembre 1985, o a quello alla sinagoga di Roma, il 9 ottobre del 1982 dove morì un bimbo di due anni, o gli attacchi alla sinagoga di Vienna, il 29 agosto 1981, e di Anversa, il 20 ottobre dello stesso anno. Oppure l’attacco con una granata a un gruppo di ebrei, sempre ad Anversa, il 27 luglio 1980 (un altro bimbo assassinato) o quello del 3 ottobre 1980, alla sinagoga parigina di rue Copernique, dove morirono quattro persone e ne furono ferite dodici. Ce ne ricordiamo sentendo le notizie di un venerdì pomeriggio di ordinaria follia, mentre a Mumbai il padre e la madre di Moshe Holtzberg, il rabbino Gabriel Noah Holtzberg e sua moglie Rivka, sono stati uccisi dai terroristi islamici che hanno preso in ostaggio il centro Chabad della città indiana. Moshe è stato riunito con i nonni - anche lui di due anni, ma più fortunato dei due bimbi della stessa età, uno italiano e uno belga, che altri terroristi massacrarono quasi trent’anni fa. I suoi genitori, dalle ultime notizie di cronaca, non ce l’hanno fatta. Ma nell’osservare quanto sta accadendo non possiamo che trarre alcune importanti conclusioni. Gli ebrei, i loro luoghi di culto, i loro centri di preghiera e attività sociale sono, insieme agli americani, l’obbiettivo preferito dei terroristi, quando la matrice terrorista è mediorientale o islamica. Lo sono sempre stati e lo saranno anche in futuro.

C’

Che scenario è possibile? Non dimentichiamoci che l’attore politico principale e più stabile, in Cina oggi, è ancora l’esercito e finché sarà così, la potenziale crescita delle forze militari per minacciare le democrazie a Taiwan e nell’Asia orientale è assolutamente reale. Obama dovrà fare ogni tentativo per muovere la Cina nella direzione di una pacifica crescita economica, piuttosto che del secondo scenario.

Come terza sfida c’è la minaccia della proliferazione di armi di distruzione di massa: nucleari, chimiche e biologiche. Le trattative con la Corea del Nord vanno avanti, ma la mancanza di volontà di permettere la verifica del loro impegno ad eliminare gli arsenali nucleari dimostra quanto siano ancora poco seri a questo proposito. Nel caso dell’Iran abbiamo assistito a più di cinque anni di trattative da parte dell’Unione europea e nel corso di tutto questo periodo non ci sono stati impegni da parte di Teheran per fermare i suoi piani nucleari. In effetti abbiamo assistito al contrario: abbiamo visto che l’Iran ha usato questi cinque anni di trattative per perfezionare la tecnologia nucleare. Il re-

gime di Ahmadinejiad ha approfittato della trattativa conquistando il bene più prezioso: il tempo. Il tempo che l’Iran ha conquistato nel corso di queste trattative gli ha permesso di trovarsi assolutamente vicino al suo obiettivo: un rapporto dell’Agenzia atomica internazionale lo conferma. In un futuro molto prossimo, invece di cinque anni di trattative portate avanti dall’Europa, potremmo assistere a una serie di azioni portate avanti in maniera più dura e decisiva da Israele per fermare i piani nucleari dell’Iran. Non credo che questa sia solo un’ipotesi: Israele ha dimostrato che, quando vede una minaccia diretta, parte all’azione. Quando e se questa decisione sarà presa è da vedere, ma io sarei sorpreso se la decisione tardasse più di otto, nove mesi. Potrebbe arrivare anche molto prima, prima del 20 gennaio poiché gli israeliani potrebbero preferire d’intraprendere un’azione così rischiosa ancora durante l’amministrazione Bush, piuttosto che nel corso di quella di Obama

Le squadre di soccorso intervengono con le scale aeree all’hotel Taj Mahal ancora in fiamme. In basso, alcune vittime del massacro e il presidente eletto, Obama

re una famiglia israeliana nel 1979, sfondando il cranio di una bimba di quattro anni dopo averle massacrato il padre davanti agli occhi. Un individuo così meriterebbe di marcire in una squallida e buia cella per tutta la vita, non di ricevere medaglie. Ma ha ammazzato degli ebrei, il che lo rende un eroe nazionale.

Perché quest’ossessione con gli ebrei in primo luogo, seguiti a ruota dagli americani? Intanto perché l’odio che i terroristi islamici (e i loro predecessori palestinesi) nutrono per gli ebrei - non soltanto per Israele - è profondo e autentico. Centrale all’ideologia che li spinge a massacrare uomini, donne e bambini inermi è un odio atavico per gli ebrei che si nutre del peggiore antisemitismo possibile. L’ebreo è al centro della demonologia dei terroristi e non stupisce che sia sempre uno dei bersagli preferiti. Ma c’è anche un altro motivo - che le nostre società aperte devono ben comprendere e metabolizzare. Accanto alle vittime e agli ostaggi ebrei di Mumbai ci sono al momento in cui scriviamo - 156 cadaveri e 1000 feriti. Molti di loro - la maggior parte non sono né ebrei, né israeliani, né tantomeno americani. Quel che i terroristi vogliono farci credere è che tutti questi innocenti sono morti perché morissero gli ebrei e gli americani che stavano tra loro e che se né ebrei né americani fossero stati presenti nelle nostre società noi saremmo in qualche modo immuni da quest’orrore. È una tesi seducente, che gioca sia sulla paura che sui pregiudizi latenti e le antipatie politiche che gli uni e gli altri riscuotono in molte nostre società. Ma la verità è che il terrorismo non discerne tra ebrei e non, americani e non, buoni e cattivi, innocenti e colpevoli, civili e militari, capitalisti e proletari, imperialisti e oppressi della terra. Il terrorismo uccide per il gusto di uccidere e si nutre del terrore, della confusione e del senso di insicurezza che risulta dai suoi feroci attentati contro obiettivi civili. Ne dovremmo trarre un messaggio molto semplice: che in un giorno come questo, siamo tutti ebrei, tutti indiani, tutti americani, tutti innocenti vittime potenziali del terrorismo e che nessuna scusa, nessun pretesto, nessuna causa e nessuna attenuante potrà mai spiegare, e ancor meno giustificare, l’orrore di Mumbai.

L’odio profondo che i terroristi islamici nutrono per gli ebrei, non soltanto per Israele, è profondo e autentico. Ma lo pagano tutti

Chi sostiene il terrorismo lo fa non in nome di una giusta causa che spesso è invece solo un meschino pretesto - ma in nome di un’ideologia assassina che offre giustificazione e persino glorifica tali nefandezze. Basti pensare alla follia del presidente siriano, Bashir el Assad, che ha recentemente offerto la più alta onorificenza del suo paese a Samir al Kuntar, il cui unico merito fu di stermina-


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Scenari. Il pensiero debole e «una civiltà ormai arrivata al suo declino» secondo il filosofo Manlio Sgalambro

Anatomia dello sgomento Crisi, terrorismo, smarrimento del senso della vita: in che cosa può credere l’uomo del XXI secolo? colloquio con Manlio Sgalambro di Pierre Chiartano

ROMA. Testimone della fine dell’Occidente, Manlio Sgalambro legge così il presente, che ai più si prensenta con i colori cupi e grigi della crisi materiale e del terrore, lui guarda con gioia e speranza a ciò che di nuovo dovrà sorgere. Filosofo, siciliano di Lentini, paroliere, i suoi scritti sono segnati da una venatura caustica e da un gusto particolare per l’aforisma. Diventato popolare negli anni Novanta, quando scrisse i testi di alcune canzoni di Franco Battiato, ha anche scritto il libretto di un’opera Il Cavaliere dell’Intelletto e Crepuscolo e Notte nel 1954. La crisi economica mondiale, è paragonata alla Grande Depressione del 1929, il terrorismo rialza la testa in India. L’odio verso l’Occidente non accenna ad attenuarsi. Siamo di fronte all’ennesimo annuncio spengleriano sul tramonto della nostra civiltà o è semplicemente una crisi di crescita? Da tempo coltivo la speranza che questa civiltà arrivi ad una sua fine, composta, decente. Ovviamente non una fine violenta, ma un dolce declino, se fosse possibile. Essere contemporanei alla fine di una civiltà è un evento che permette di essere presenti all’inizio, alla nascita di qualcosa di nuovo. Non vi-

terminale, di questa malattia mortale che avrebbe colpito l’Occidente? Vedo innanzitutto l’esaurimento dell’idea dell’uomo. Abbiamo un genere umano che cammina senza avere un’idea precisa di se stesso. Gli uomini hanno la percezione su tantissime cose, moltiplicano le realtà che li circondano, ma non coltivano più la coscienza di se. Ormai la civiltà, che potremo definire globale e che ci accomuna, non consente una decifrazione se non a pochi. Cioè a coloro i quali cercano con tutte le loro forze di separarsi da questa realtà. Abbiamo due forze che si contrappongono, entrambe con lo stesso scopo. Sono la religione e la politica. Nella politica non vedo altro che la religione conche temporanea, pronuncia parole di speranza, che prefigura un futuro e mutua inconsciamente dalla religione – è evidente – le parole che dovrebbe far avanzare l’uomo. Si cibano di quelle parole che trasmutano in slancio politico. Ormai siamo nelle mani di decine di

È un tempo di transizione quello che stiamo vivendo. Dove prosperano i capipopolo che cercano di frenare, di ritardare l’inevitabile fine; dove ormai anche virtù e pregi sono spenti vo con terrore o paura l’eventualità che ci si ritrovi al termine di un percorso.Tanto più che le civiltà scompaiono quando hanno raggiunto la fine di un percorso – non dobbiamo dimenticare lo spesso vituperato Spengler. Vedere questa morte, esservi dentro, poterla studiare è una grande occasione per un chierico, per chi cioè esalta lo strumento della ragione. Posso così contemplarla e pensare a cosa possa nascere dalle sue ceneri, cosa venga dopo. Può descriverci i sintomi principali di questa fase

dittatori, siamo nelle mani del potere dei politici che governano, che si occupano della nostra salute del nostro futuro… Come una malattia, perché con la politica, al contrario della religione, andiamo a sublimare dei concetti terreni. Certamente, sublimiamo dei concetti che sono simili e mutuati dalla spiritualità religiosa. Come la classe o la razza nel passato? No, oggi le cose sono diverse. Allora la legge come una malattia recente, non un

male antico dell’Occidente, in particolare di quello europeo? È una malattia che l’Occidente si porta dietro e non è possibile scriverne la storia. Dobbiamo parlarne al presente, con l’ampiezza di un pensiero non soggiogato da ciò che ci accade intorno. Compito del chierico è quello di guardarla con un colpo d’occhio generale, senza scendere nel particolare. Un tempo parlavo del “comunismo” non come condivisione del pane, dei beni materiali, ma come una condivisione della ragione e dei sentimenti. Noi in quel concetto non esaltiamo più un’idea di scopo ultimo… al povero non si da niente… Il poverismo non porta a niente, la dottrina che mutua dal poverismo… Si riferisce anche alla sua declinazione cristiana, la

teologia della liberazione? Secondo me, cristianesimo e comunismo sono sullo stesso livello. Fanno entrambi parte della civiltà che sta morendo. Sono però portatrici di una visione dell’uomo molto differente. Il comunismo leggeva l’uomo monodimensionale, solo ragione. Il cristianesimo promuoveva un’antropologia multidimensionale, un essere fatto di ragione e trascendenza, fango e grazia. L’uomo cartesiano, cogito ergo sum e l’uomo diviso tra componenti razionali e sprirituali. Quale di queste visioni è entrata in crisi? Sono entrate in crisi entrambe. La prima, il cogito ergo sum, perché si è trasformato in una liturgia dell’immediato. Pensare invece significa mettere una di-

stanza tra te e la realtà che vuoi elaborare. I nostri politici ad esempio non pensano. Sono costretti dall’immediatezza fra pensiero ed azione, questo esclude la cogitazione. Reagiscono alle contingenze. Cartesio per primo ci ha portato alla consapevolezza del pensiero. Questa consapevolezza si è persa, non parliamo poi a livello di masse. Non coltiviamo più questa attività perché la consideriamo astratta. Questa terribile parola: astratta. Parliamo invece del rapporto con l’altro mondo, quello islamico. Che ci odia, almeno nelle forme dell’ultrafondamentalismo, che si sente tradito e per troppo tempo soggiogato dall’ideologia razionalista di un modernismo, importato dall’Europa che ha portato a coniugare modernità col rifiuto della religione. Ha provocato una reazione forte, a tratti violenta antioccidentale. Si potranno costruire dei ponti e su che basi? Il dialogo c’è stato nella storia. Una trasfusione continua di cultura e tradizioni, negli anni Novanta mi sono occupato di questi temi scrivendo un’opera su Federico II. Il rapporto di


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Monsignor Luigi Negri condanna il relativismo culturale dell’Occidente

Piccole isole di speranza contro l’impero del male colloquio con monsignor Luigi Negri di Franco Insardà

ROMA. La strage di Mumbai evoca fantasmi vi-

Abbiamo due forze che si contrappongono, con lo stesso scopo. Sono la religione e la politica. Il problema è che nel mondo contemporaneo, in molti casi, la prima e la seconda coincidono

con la filosofia greca e molto altro. Il guaio che oggi abbiamo un’immagine del mondo arabo – per noi il mondo musulmano è quello – che è assai riduttiva. Leggiamo gli estremi, quelli di ricchezza e di miseria umana. Ciò fa dimenticare che quella cultura lo è stata con la «C» maiuscola, per tanto tempo. Sicuramente questa potrebbe essere una componente della futura civiltà che potrebbe sorgere dalle nostre ceneri. Lì c’è una propulsione etica forte che in Europa non si trova più. Un esempio è la Turchia che non percepisce l’Europa come interlocutore valido.Troppo debole per difendere dei valori in cui sembra non credere più. Quel mondo non ha stima di noi. Questo è vero, per troppo tempo abbiamo fatto professione di“debolismo” nel pensare. Troppo concentrati sugli aspetti materiali dell’arricchimento, non che sia sbagliato. Lo diventa quando manca la finalità ultima e conclusiva che è l’idea forte della figura umana. Di un uomo che pensa oltre all’agire. Parlava di transizione fra una civiltà che muore e una nuova che nasce. Ne vede

già i contorni, come li immagina? Sarebbe una civiltà che dovrebbe coltivare ciò che fino all’Ottocento veniva definita spiritualità. Da non confondere con quella religiosa. Dare importanza all’idea delle cose più che alle cose stesse. Qualche intellettuale di riferimento? In questo momento ho sul tavolo un libro di Simone Weil, che riesce a vedere la realtà attraverso dei cristalli. Una percezione della realtà mediata dalle idee. E deve essere un’idea soddisfacente per rimanere integra nella sua dolcezza e nella sua compassione. Ci può indicare alcuni elementi di speranza per il futuro? È un tempo di transizione quello che stiamo vivendo. Dove prosperano i capipopolo che cercano di frenare, di ritardare l’inevitabile fine, dove ormai anche i pregi sono spenti. Un tramonto che considero come evento positivo, perché ci apre al nuovo che può essere gioioso e positivo. Un mondo nuovo che nasce può essere custode delle nostre speranze. Un vecchio pessimista come me, aspetta questo momento per tornare a sorridere concettualmente.

cini e lontani. Il sangue innocente fa vacillare le coscienze, il pessimismo assale molti che si rifugiano nella fede con la speranza che la barbarie finisca. Ma oggi si può essere ottimisti? Per monsignor Luigi Negri - vescovo di San Marino-Montefeltro, da sempre sensibile all’insegnamento di don Luigi Giussani, fondatore del Movimento ecclesiale di Comunione e Liberazione - più che ottimisti sarebbe più giusto essere realisti: «Il realismo consiste in quello che lo scrittore inglese G.K.Chesterton definiva la ”grandezza del pensiero cristiano”. Esiste un fattore devastante, una negatività dirompente che non riesco neanche ad attribuire all’islamismo. Questa negatività esiste da sempre. I campi di concentramento erano in Europa, eppure anche in quel caso la volontà di distruzione era legata ad affermazioni di posizioni ideologiche identificate con presunte o reali professioni religiose. Purtroppo queste cose continueranno ad accadere. Ma abbiamo una certezza: il male non può vincere e non ha vinto». Ma la grandezza del pensiero cristiano potrebbe in qualche modo essere messa in discussione da queste manifestazioni del male, rischiando così di far dubitare gli uomini. Secondo monsignor Negri il cristianesimo ha due grandi risorse: la certezza della fede e gli uomini di buona volontà. «Dio cambia il cuore dell’uomo testimoniando la novità di vita che in Cristo ha assunto il volto della carità. C’è poi un risveglio potente di quelli che la Chiesa tradizionalmente ha chiamato gli uomini di buona volontà. Il nostro cuore è orientato positivamente, certo condizionato da molte cose, vuole il bene, il vero, il bello. Sono come piccole isole della speranza. Questo impero del male non si abbatte sostituendolo con un impero del bene con un’operazione in qualche modo ideologica. Si tratta di piccole isole che hanno fermentato, per esempio, all’inizio della civiltà cristiana quando l’Europa era flagellata dalla violenza barbarica, diversa da questa odierna che è civilizzata e tecnologicamente attrezzata. Si è avverato quello che diceva il grande Jacques Maritain: che sarebbe, cioè, comparsa una genia di barbari ipertecnologizzati e lo diceva nel 1920 non oggi».

vera e propria guerra di religione? Per monsignor Negri è così in modo unilaterale: «Da una parte c’è sicuramente una religione fortemente ideologizzata, non ho la competenza e non ho mai capito se tutto l’Islam è così. Certamente una parte del mondo islamico vive da secoli una sorta di corto circuito tra religione, volontà egemonica e violenza. Dall’altra parte, purtroppo, non c’è una religione che risponde. La risposta del mondo cattolico nei confronti di questo affronto è quanto mai debole. Non debole militarmente, ma sul piano della forza culturale».

La sfida con il mondo islamico si dovrebbe, quindi, vincere sul piano del confronto culturale. Però quelli che il mondo islamico considera martiri muoiono per la loro religione, mentre i cristiani sono stati ammazzati per difendere la loro fede. «Non esiste un martire che ammazza - sottolinea monsignor Negri - chi lo fa è un militante o comunque è l’esponente di una realtà funzionale all’espansione della violenza». Benedetto XVI nel suo appello ha auspicato la

Per combattere il terrorismo, il cristianesimo ha due grandi risorse: la certezza della fede e gli uomini di buona volontà

Queste piccole isole di speranza, quindi, potrebbero rappresentare una soluzione per sconfiggere questi nuovi barbari che stanno mettendo in discussione tutta la civiltà, soprattutto quella occidentale. Bisognerebbe che queste isole positive si moltiplicassero e si ingrandissero «soprattutto grazie al dialogo tra laici e cattolici». Dietro la strage di Mumbai c’è, quindi, una

fine di tutti gli atti di terrorismo che offendono la famiglia umana e destabilizzano seriamente la pace e la solidarietà. È sicuramente questa la strada da seguire. «Ma il Pontefice - dice monsignor Negri - sa meglio di tutti che si tratta di una strada impervia. Il primo agosto del 1917, uno dei suoi predecessori al ”soglio di Pietro”, Benedetto XV, rivolse un appello a tutti i capi di Stato invitandoli a porre fine alla Prima guerra mondiale. L’unico che si disse disponibile fu l’imperatore di Austria e Ungheria Carlo d’Asburgo, che adesso è beato». Insomma c’è speranza che il bene sconfigga il male? «Credo - conclude il presule - che ci possa essere un moderato ottimismo, nel senso che queste due istanze quella della fede e della ricerca del senso religioso sono formidabili: il male può creare un impero, il bene può travolgere questo impero».


economia

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Manovra. Un errore di metodo alla base del pacchetto anti-recessione: il vero nodo è lo sviluppo industriale

Ci vorrebbe l’Obanomics Il piano del governo non aiuta i consumi Bisogna prima aiutare le imprese di Enrico Cisnetto Italia è una Repubblica fondata sulla famiglia. Questo verrebbe da dire leggendo il decreto legge licenziato ieri dal Consiglio dei ministri. Per la stragrande maggioranza, infatti, le misure varate dal Governo riguardano i nuclei familiari: il bonus esteso sia nella platea di potenziali percettori sia nella cifra erogata, il congelamento delle tariffe, oltre alla famosa “social card”presentata nei giorni scorsi. Per le imprese, invece, il piatto è più magro ed è com-

L’

Ma perché alle base di questi provvedimenti c’è un errore di metodo e di sostanza. Di metodo, perché appunto vengono privilegiati i consumi (presunti) rispetto allo sviluppo industriale. Di sostanza, perché si tratta dell’ennesimo tentativo di immettere benzina in un motore ormai grippato.

Ma andiamo con ordine. Gli aiuti alle famiglie poggiano su un assunto per nulla scontato, e cioè che a un maggior reddito disponibile corrispondano più

Per affrontare lo shock planetario, la “crescita zero” italiana degli ultimi anni ci impone di puntare su un reale “stimulus”: un grande piano espansivo come quello del nuovo presidente Usa posto soprattutto da una misura temporanea – il taglio per il 2008 di tre punti all’acconto Ires e Irpef di fine novembre – mentre è stata pesantemente depotenziata l’idea (peraltro positiva) della nuova tempistica dell’Iva. Così, da qualunque parte lo si prenda, il pacchetto anti-recessione si dimostra inadeguato. E non perché si tratti di misure deleterie e non apprezzabili in un momento come questo.

consumi e dunque più attività economica. Purtroppo, si tratta di un’equazione infondata: in tutti questi anni si è visto che i provvedimenti di questo tipo hanno avuto scarsissimi effetti sulla domanda interna. Perché? Prima di tutto sono stati sempre compensati da collaterali incrementi della pressione fiscale, in particolare dei tributi locali (basti pensare che nei primi otto mesi del 2008 il gettito legato al-

l’addizionale comunale Irpef è aumentato del 26,5%, mentre il gettito dell’addizionale regionale ha registrato un +18%). La fiscalità locale è esplosa in particolare sulle fasce di cittadini che più hanno risentito in questi anni del crollo del loro potere di acquisto, ovvero quei dipendenti e pensionati che costituiscono la classe media falcidiata. Inoltre, l’equazione “più aiuti alle famiglie = più consumi” non regge perché gli sgravi fiscali concessi in questi anni hanno dimostrato di aver avuto un effetto che potremmo chiamare di“demoltiplicatore keynesiano”: sono costati cioè molto allo Stato, e hanno avuto ben poco impatto sulle entrate fiscali e sul pil. In poche parole, un fiume di denaro che è sgorgato dalla finanza pubblica si è trasformato in mille rivoli di risparmi che le famiglie hanno usato per rinsaldare la loro capacità di risparmio e per tentare di ristrutturare – almeno in parte – il loro potere di acquisto. Lo dimostrano le rilevazioni del Sole24Ore, che hanno dimostrato come gli ultimi tre interventi di riduzione fiscale disposti dal governo Berlusconi (2001-2006) e dal governo Prodi (1996-1998), hanno avuto ben miseri effetti: con la prima detassazione deci-

sa dal governo Berlusconi II (2003) lo Stato spese 5,5 miliardi di euro per introdurre novità come la famosa “no tax area”. Il risultato in termini di consumi fu una spesa media mensile per famiglia salita dell’1%. Nel 2005 scattò la seconda e ultima tranche della riforma fiscale del governo Berlusconi, per un totale di 6,5 miliardi concentrati questa volta sui redditi medio alti. La spesa mensile per famiglia

salì solo dello 0,7%. Infine nel 2007 con la prima Finanziaria del Governo Prodi e la rimodulazione di scaglioni e detrazioni, un’operazione da 1,4 miliardi portò un aumento dei consumi dello 0,8%. Una scommessa molto rischiosa, dunque. E per due ulteriori ordini di motivi: primo, che i consumi sono più correlati a variabili psicologiche che non al reale andamento dei redditi. Co-

Il Tesoro deve convincere le banche ad accollarsi il bonus fiscale e le Regioni le opere pubbliche

Ottanta miliardi, ma Confindustria e Cgil dicono no di Francesco Pacifico segue dalla prima Per la cronaca non c’è al momento né l’uno né l’altro. Quella che c’è, al momento, è l’opposizione di Cgil e Confindustria: strana coincidenza, ma entrambe le organizzazioni hanno sottolienato che il piano del governo non basta. Per ragioni diverse, naturalmente: ma colpisce la sintonia di intenti.

Ad ogni modo, a guardare le tante misure del piano, Silvio Berlusconi strappa 300mila euro in più e riesce ad ampliare la platea del bonus fiscale (circa 8

milioni tra pensionati e famiglie numerose). Ma accanto al solito richiamo all’ottimismo e alla richiesta agli italiani di consumare, c’è l’apertura (a doppio taglio) all’opposizione: «Dato che le prossime elezioni sono fra quattro anni e mezzo, si cessi di essere sempre in campagna elettorale e ci si metta tutti insieme». An, dopo tutto il lavoro ai fianchi di Ignazio La Russa, ottiene un altro bonus da 100 euro per i lavoratori dei comparti difesa e sicurezza, che si somma a un’indennità di 26 euro al giorno per chi è impegnato nell’operazione ”Città sicu-

re”. La Lega Nord si fa paladina delle partite Iva ottenendo per loro più del previsto: la promessa di rivedere a breve la congruità degli studi di settore, lo sblocco dei risarcimenti Iva pluridecennali e il pagamento dell’imposta soltanto a incasso avvenuto. Ma il vero vincitore è stato Giulio Tremonti. Dopo una lunghissima contesa durata fino a un minuto prima dell’inizio del Consiglio dei ministri (per la cronaca, una seduta di 10 minuti), vede confermata la sua linea rigorista, di fatto poco in linea con quanto sta accadendo in Europa. Non si sa fino a quando

dureranno questi rapporti di forza. Certo, il ministro avrà anche dovuto fare un piccolo mea culpa sulle tredicesime – «Non c’era tempo per intervenire sulla contabilità di dicembre» – ma è poca cosa rispetto a sentire Berlusconi ripetere accanto lui: «L’Italia non intende usufruire dell’allentamento dei parametri di Maastricht, visto il nostro alto debito».

Per le famiglie con figli a carico e per gli anziani il piano prevede un bonus straordinario con detrazioni tra i 200 e i 2000 euro. Il governo poi garantisce

per il 2009 un blocco delle tariffe, prestiti agevolati ai nuclei numerosi e l’accollarsi gli interessi dei mutui a tasso variabile, se lo spread supererà il valore del 4 per cento. Se per le partite Iva si prospetta un’applicazione meno rigida degli studi di settore, più in generale il mondo dell’impresa ottiene una riduzione di 3 punti all’acconto Ires e Irap con restituzione degli acconti pagati a novembre, la deduzione sulle voci costo del lavoro e interessi, e la proroga sulla defiscalizzazione dei premi salariali chiesta da Confindustria.


economia chi”, con redditi inferiori a qualunque media europea ma con una ricchezza (per quattro quinti concentrata in immobili), al netto di un indebitamento delle famiglie ancora basso nonostante i recenti incrementi, molto superiore ai nostri competitor internazionali. Non tenere conto di questo combinato disposto reddito-patrimonio rischia, in questa fase, di generare interventi “spot”inutili oltre che squilibrati anche dal punto di vista sociale (chi si prenderà la famosa social card?).

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Cieli. Più dell’80% delle rotte nazionali nelle mani di Alitalia e AirOne

Tutti i numeri del monopolio Cai di Alessandro D’Amato

ROMA. Il 98,2% dei voli tra Roma Fiumicino In definitiva, è evidente che se

sì anche l’incertezza dello scenario 2009, con la recessione ormai pienamente conclamata e una capacità di reazione della politica a dir poco debole, non incoraggerà certo a spendere. Anzi, si avrà semmai quell’effetto-sostituzione che spinge a risparmiare e a rinviare soprattutto le spese non ritenute essenziali. Secondo, si tratta di un errore “diagnostico”: l’Italia, infatti, è un Paese di “poveri ric-

In più ci saranno nuove regole (come l’introduzione di un commissario o paletti ai ricorsi) per velocizzare le opere pubbliche e maggiori risorse destinate agli ammortizzatori sociali, compresi oltre 900 milioni per le indennità destinate ai precari.

Il ministro, durante una conferenza stampa durata poco più di due ore, ha sottolineato più volte che «non si tratta di 80 miliardi di maggiori spese pubbliche» o che «il piano è in divenire». Perché a ben guardare la copertura di buona parte delle misure è legata ad altre entrate non ancora verificate, a eventi congiunturali favorevoli o a ritocchi delle regole contabili esistenti. I 2,4 miliardi di euro del bonus straordinario per i più bisognosi (dai 200 ai 2mila euro

da una parte bisogna cominciare, è quella delle imprese, non delle famiglie. Soprattutto perché solo in questo modo si può affrontare insieme la duplice emergenza in cui versa il sistema-Paese, quella di breve (dovuta alla crisi finanziaria internazionale) e quella di medio periodo (dovuta al declino struturale di cui soffriamo da oltre un quindicennio). E se si vuole affrontare la recessione indotta dalla crisi planetaria insieme con la nostra “crescita zero” degli ultimi anni, bisogna dunque puntare su un reale “stimulus”, un grande piano espansivo come quello alla base della nuova “Obanomics” americana, che promette ben altri ritorni in termini di consumi e di aumento del pil. Si calcola, infatti, che ogni dollaro investito in spesa pubblica – per investimenti, beninteso, e soprattutto infrastrutturali – si trasformerà in 1,5 dollari di aumento del pil pro-capite, il quale a sua volta si tradurrà in un aumento di 40 centesimi di dollaro di entrate fiscali. Questa è dunque l’equazione giusta: ripartire dall’impresa. Il resto, pur nella bontà delle intenzioni, rischia di assomigliare più a un blando rimedio omeopatico, più che a quell’intervento a cuore aperto di cui il Paese ha disperatamente bisogno. (www.enricocisnetto.it)

già a gennaio) saranno recuperati con gettito derivante dal riallineamento volontario dei valori contabili delle grandi aziende. Ma la cosa, come la speranza di frenare la crescita dei mutui a tasso variabile, si interseca nella battaglia tra Tremonti e le banche per ottenere migliori condizioni di credito. Al riguardo non c’è accordo tra le parti sui ratios patrimoniali e su quali istituti dovranno emettere obbligazioni per ampliare il capitale così da estendere il monte prestiti. Stessa logica anche per le opere pubbliche e gli ammortizzatori sociali: il governo vuole sovvenzionarli dirottando i fondi strutturali europei oggi in mano alle Regioni. Martedì Tremonti sarà a Bruxelles per convincere la Ue e forse lì si capira se il suo piano prenderà sostanza o meno.

e Milano Linate, il 91% dei collegamenti con Torino, e la totalità di quelli con Bari, Venezia, Trieste, Bologna, Firenze, Pisa. Questo, secondo le elaborazioni del Criet dell’Università Milano Bicocca, il livello di copertura potenziale da parte della nuova Cai nel mercato del trasporto aereo domestico. Il professor Ugo Arrigo, docente di economia pubblica e membro dell’Istituto Bruno Leoni, lo ha calcolato utilizzando i numeri della Iata, la “Confindustria dei vettori”, relativi ai voli offerti; i dati rivelano, per i voli italiani, dopo la fusione di Alitalia con Air One, una situazione di monopolio o quasi su decine di rotte. Un monopolio che - anche se Cai ha già dichiarato di non voler sfruttare nella sua interezza annunciando la chiusura di alcune rotte - nelle intenzioni di Colaninno e del governo non verrà comunque spezzato per un bel po’: gli slot, le “finestre” di decollo e atterraggio congelati da Alitalia non potranno essere assegnati ad altre compagnie per almeno tre anni, come prevede il contratto governo-Cai. A meno che gli imprenditori non li cedano volontariamente, ma in questo caso dovrebbero versare il 50% del corrispettivo nelle casse dello Stato, secondo l’accordo siglato con il commissario straordinario della Magliana Augusto Fantozzi. Oppure, potrebbero intervenire i regolatori internazionali o l’Unione Europea.

già oggi dimezzato una serie di collegamenti che probabilmente nemmeno Cai avrà interesse a ripristinare. Ma a Colaninno e Sabelli non converrà neppure vendere gli slot, in primo luogo perché dovranno comunque destinare allo Stato parte degli emolumenti, e secondariamente in quanto così renderebbero più facile a un potenziale concorrente l’entrata nel mercato italiano.

E l’Antitrust non potrà fare nulla: l’istruttoria in via di conclusione conferma quanto già si sapeva: gli impegni per ridurre l’impatto del monopolio derivante dalla fusione di Alitalia e Air One sono quasi assenti, quando non costituiscono un semplice palliativo. Ad esempio, l’idea di liberare una cinquantina di slot sulla rotta Fiumicino-Linate non porterà a una loro cessione: Cai riallocherà semplicemente le partenze verso Catania e la Sardegna, incrementando di fatto la concentrazione di mercato. Antonio Catricalà ha già fatto sapere che chiuderà il dossier la prossima settimana, e probabilmente il taglio delle “unghie” al Garante della concorrenza farà sì che al massimo si apporterà qualche correttivo alle tariffe per le rotte più battute. E a nulla dovrebbero anche approdare le proteste di Meridiana, la quale ha annunciato che abbandonerà i suoi due voli sulla Roma-Linate per far emergere il monopolio di fatto di Cai, e chiederà l’introduzione di tariffe regolate sul modello della Sardegna. «L’assurdo di tutta questa situazione – commenta il professor Arrigo – è che Colaninno e Sabelli non hanno nemmeno un numero sufficiente di aerei per coprire un numero di rotte così ampio. Ciò nonostante, il governo ha permesso lo stesso alla Cai di tenersi tutti gli slot di Alitalia e AirOne per tutto quel tempo, contribuendo di fatto alla scomparsa totale della concorrenza per tre anni». E non c’è alcuna possibilità di intervento da parte dei regolatori? «In Italia no, perché il decreto ad hoc ha permesso a Cai di agire nella piena regolarità. Però, c’è da ricordare che se una compagnia non utilizza queste fasce orarie per almeno l’80% in una stagione sarà costretta a rinunciarvi per la stagione successiva, cedendole ad Assoclearance, il coordinatore degli slot italiano, che le metterà poi a disposizione di altre compagnie che si son messe in lista d’attesa. Certo, la norma potrebbe essere disattesa; ma a quel punto potrebbe anche intervenire l’Unione Europea, per far rispettare i regolamenti comunitari in nome della libera concorrenza. Solo così il trasporto aereo italiano, come settore, si potrebbe salvare da tre anni buoni di monopolio di fatto».

Roma-Milano arriva al 91,8%; Milano-Napoli all’85%, Roma-Palermo all’84,5%, Milano-Palermo al 77%. Senza concorrenza, voleranno anche i prezzi

Il totale di rotte da Fiumicino, utilizzate dal 51% dei voli sui cieli italiani, vede una quota di mercato di Alitalia e Air One che arriva all’84%; da Linate (dove parte il 20% degli aerei italiani) è dell’81%, e da Malpensa (10%) del 43,7%. La destinazione più gettonata, la Roma-Milano (Linate e Malpensa), che pesa da sola per il 12,3% nel mercato domestico, ha una quota Alitalia-Air One pari al 91,8%, mentre la Milano-Napoli è coperta all’85% dai due vettori; la Roma-Palermo arriva invece all’84,5%, e la Milano-Palermo al 77%. Andando nel dettaglio, si scopre poi che ci sono una quindicina di rotte nelle quali il combinato disposto dei due ex grandi vettori italiani raggiunge il 100% dei collegamenti: le partenze e gli arrivi da Fiumicino con destinazione Genova, Venezia, Trieste, Firenze, Bologna, Pisa, Bari, Brindisi, Lamezia Terme e Alghero.Tutti luoghi verso i quali si potrà d’ora in poi o volare con marchio Cai, o ci si dovrà accontentare di prendere altri mezzi di trasporto per arrivarci. Lo stesso discorso vale per chi parte da Milano Linate, per Bari, Brindisi, Lamezia Terme e Milano Linate. E il caso interessante è quello pugliese, dove Alitalia ha


panorama

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Sindaci. Il centrosinistra, nell’occhio del ciclone per gli “scandali” fiorentini, ha già una soluzione

Vannino Chiti verso Palazzo Vecchio di Francesco Capozza

ROMA. Ecco, adesso ci mancava anche la questione Firenze! Non si può certo dire che ultimamente le cose filino lisce per il segretario democratico Walter Veltroni. Prima la questione Vigilanza Rai, da cui il Pd è rimasto fortemente scottato da una parte ed irritato dall’altra. Poi le dimissioni di Renato Soru dalla presidenza della Regione Sardegna che rischia di riportare la terra dei nuraghi in mano al centrodestra se ci fossero elezioni anticipate a febbraio. Ora il rischio che cada anche la giunta comunale del capoluogo toscano. I fatti sono noti e i quotidiani degli ultimi giorni ne hanno ampiamente parlato: l’assessore all’urbanistica del comune di Firenze, Gianni Biagi (uno dei papabili per la corsa alla poltrona più prestigiosa di Palazzo Vecchio), si è dovuto dimettere dall’incarico in seguito all’inchiesta avviata dalla procura fiorentina sulla trasformazione urbanistica dell’area di Castello, 170 ettari di terreni edificabili, che ha portato

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

all’iscrizione nel registro degli indagati per ipotesi di corruzione, tra gli altri, il presidente onorario di FondiariaSai Salvatore Ligresti, l’assessore comunale alla sicurezza Graziano Cioni e lo stesso Biagi.

Un mare di polemiche ha rischiato, nelle scorse ore, di

guenze. La questione morale e quella di classe sono intimamente legate». Ambienti molto vicini alla segreteria democratica ci hanno rivelato che Veltroni, appena appresa la notizia del “caso Firenze” sia andato su tutte le furie, intenzionato da subito a commissariare le primarie che dovrebbero designare il prossimo

Vertice da Veltroni per trovare la strategia da adottare in Toscana in vista delle elezioni. Va bene le primarie, ma con un asso nella manica travolgere tutta l’amministrazione comunale fiorentina. Non solo, infatti, tutta l’opposizione di centrodestra in comune ha chesto lo scioglimento della giunta, ma anche Rifondazione Comunista e Pdci hanno preso le distanze dal sindaco e dai suoi assessori dichiarando, per bocca di Marco Rizzo che «I comunisti non possono stare più in questa giunta. Dopo i recenti e reiterati fatti giudiziari che coinvolgono il comune di Firenze, bisogna trarre nette conse-

candidato democrat a sindaco della città di Dante. Per la corsa a Palazzo Vecchio, infatti, sono in lizza quattro candidati, ma due di questi, Cioni e Biagi, sono direttamente coinvolti nell’indagine in corso. Gli altri due, Lapo Pistelli e Daniela Lastri temono che la brutta storia intralci la strada anche alla loro di candidatura e, per questo motivo, sono furiosi. Proprio per capire meglio questa delicatissima situazione Veltroni ieri ha convocato a Roma tutti i diretti in-

teressati: i quattro candidati, il sindaco Leonardo Domenici e financo il presidente della Regione Claudio Martini. Nessun commissariamento, almeno per ora, e primarie confermate. Questo l’esito dell’incontro con i vertici democratici toscani. Un (forzatamente) sorridente Veltroni ha dato l’ok all’attuale schema a quattro candidature per le primarie.

Tutto finito, dunque? Crisi fiorentina risolta e archiviata? Nemmeno per sogno, per ora la macchina delle primarie non si ferma, ma solo perché Walter Veltroni vuole aspettare gli sviluppi delle indagini della procura di Firenze. Se dovessero confermare la collusione di Biagi e la conoscenza dei fatti anche da parte di Cioli, il segretario Pd ha già pronta la soluzione: niente primarie ed un candidato toscano che più toscano non si può autorevolissimo: l’attuale vicepresidente del Senato ed ex ministro per i Rapporti con il Parlamento Vannino Chiti. Proprio un homo novus insomma. Change!

La Social card, i poveri d’Italia, la lotta politica e quella per la sopravvivenza

Anche l’elemosina ha la sua utilità. Forse... a povertà non è una statistica. Il povero non è un numero. Se ne sono lette e scritte in questi due giorni sulla Social card: 40 euro per “gli ultimi degli ultimi”. C’è chi ha detto “non servono a niente” e chi ha fatto interessanti ragionamenti di macroeconomia. Ma il povero della macroeconomia se ne fotte, mentre con 40 euro ci mangia. Un’elemosina? Sì, ma anche l’elemosina ha la sua utilità. E’ meglio dirla tutta.Voglio farlo utilizzando le parole di Lucia Annunziata sulla Stampa, l’unica mi sembra che abbia effettivamente colto il problema: «L’impressione è che al centro della discussione sulla Social card ci sia un vuoto di consapevolezza su che cosa sia la povertà».

L

Il povero non ha le scarpe, ti chiede il pane, gli serve il latte. Il povero non sa cosa farsene dello snobismo di sinistra su Tremonti e la finanziaria approvata in nove minuti. Il povero lotta per la sopravvivenza. Ecco, proprio così, la lotta per la sopravvivenza. Non voglio fare demagogia, ma tra il mondo della “lotta politica” e quello della “lotta per la sopravvivenza” c’è una differenza come tra il giorno e la notte. La povertà ha poco a che vedere con i problemi di bilancio della famiglia della classe media, con la famiglia dell’operaio e con l’im-

prenditore a corto di liquidità. La povertà è un’altra cosa. E’ non avere da mangiare, non avere da vestirsi e non aver vergogna a chiedere un pacco di pasta. Qui l’elemosina non si rifiuta. Paternalismo? Andate a dirlo a chi non mangia e non sa come far mangiare i figli. Una sinistra che critica la Social card non so più che sinistra sia. L’unica critica seria che si può fare è quella sui destinatari. Ossia: quei 40 euro raggiungeranno effettivamente i veri poveri? Qual è la strada che faranno per non sbagliare casa? Il povero a volte non ha neanche un domicilio. Vive con una pensioncina, un sussidio, con quello che passa il convento. Bussa alla porta del parroco, a quella dei servizi sociali, da quella famiglia generosa. Non so quanto siano questi poveri, so solo che ci sono. Perché li conosco, li vedo, e so che quello schifo di Social card non la rifiutano perché ne hanno bisogno. Alla porta di

casa mia bussa ogni settimana la povera Maria. Una volta dieci euro, un’altra la bolletta, un pacco di pasta, il latte. Una piccola pensione di invalidità che va via subito. Il figlio, uno spiantato, non sa cosa fare: inizia un lavoro e non lo porta a termine. Mi chiedo: la Social card raggiungerà anche la povertà di questa famiglia? In che modo? Qui 40 euro andranno subito via, ma saranno comunque utili per due o tre giorni. Anzi, con un po’ di oculatezza e un po’ di generosità da parte del negoziante che pratica lo sconto, potranno risolvere il problema del pranzo per una settimana. Chi non ha soldi, sa bene come spenderli e quando spenderli quando li ha. Chi ha i soldi, li spende quasi senza pensarci: perché ci sono sempre stati e ci saranno sempre. Il denaro cambia valore con il cambiare della posizione sociale. Quei 40 euro avranno un valore al Nord e un altro al Sud, uno in città e uno in

paese. C’è differenza tra il povero di città, di provincia, e di paese. Nella grande città - Roma, Milano - la povertà è più drammatica che in una cittadina e questa è più triste che in paese.

Magari in un piccolo comune non c’è un buon servizio sociale, ma siccome tutti conoscono tutti, tutti conoscono i bisogni di chi ha bisogno: lo zucchero, il latte, i biscotti, le scarpe, una maglia, un vecchio cappotto. Un povero vero ha bisogno di tutto: il prete dà una mano, al prete danno una mano le famiglie e la carità trova una sua forma spontanea di organizzazione. In una piccola comunità la carità funziona meglio. In città è diverso. Qui la povertà è più triste non solo perché più numerosa, ma perché più anonima. Qui non vale la regola “tutti conoscono tutti” e l’organizzazione della carità assume delle forme meno dirette. La povertà cittadina è aggravata dalla solitudine. Così alla povertà materiale si aggiunge quella affettiva. La mensa dei poveri, i pranzi di Natale sfamano, ma anche qui la parola di Cristo “non di solo pane vive l’uomo” è vera. Il poco - ma non il niente - della Social card qui può fare poco, tuttavia non è da sottovalutare quel senso di vicinanza che chi la riceve può sentire. Come dire: c’è qualcuno che non si è dimenticato di me.


panorama

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Provocazioni. La nostra lingua ignorata e la proposta di classi-ponte per introdurre gli stranieri nelle scuole

L’italiano salvato dal correttore Word di Giuseppe Baiocchi accusare la scuola è in proposito come sparare sulla Croce Rossa. E tuttavia il complesso mondo dell’informazione non è per nulla esente da responsabilità. Il modello televisivo ne è la prova più lampante: eppure anche la stampa scritta è quotidianamente carica di strafalcioni, di nomi sbagliati, di fastidiose approssimazioni, di povertà di linguaggio, di lacune sintattiche se non addirittura grammaticali.

segue dalla prima E la ragione di tante bocciature andava ricercata nei marchiani errori di grammatica e di sintassi oltre a lacune spaventose di fronte a domande di semplice “cultura generale”. E d’altra parte la forzatura mediatica che accompagna la proposta di classi ad hoc per favorire l’inserimento degli immigrati (sia da parte di chi è ferocemente contrario sia da parte di chi la sventola come un successo politico) sembra dimostrare la “cattiva coscienza”di un complessivo sistema-Paese che ha dimenticato quel “minimo vitale” di rigore e che considera una inutile fatica la necessità di correggere e di pretendere.

Infatti un elementare buon senso (oltre agli esempi consolidati di tutti gli altri Paesi europei) farebbe pensare che forme preferenziali e limitate nel tempo di istruzione specializzata nell’accompagnare gli immigrati regolari e i loro figli nella piena acquisizione della nostra lingua, dei rudimenti della nostra cultura e (perché no) dei valori

Nessun computer è in grado di garantire stile e competenza linguistica: forse un domani saranno proprio gli immigrati a farci ritornare a Dante civili condivisi possano essere un utile strumento di concreta integrazione. In fondo, se si passa la similitudine, sarebbero come le corsie di ingresso in autostrada, dove è possibile accelerare senza rischi in modo da immettersi nell’onda del traffico alla stessa velocità degli altri veicoli. Il problema vero (ed è forse questo che finisce per far temere

la creazione di ghetti senza uscita) è che il nostro “traffico” è diventato completamente schizofrenico, nel senso che si è completamente dileguata la consuetudine a una cura del linguaggio, a un dovere di minima conoscenza, a uno stile di comunicazione anche interpersonale corretto e sorvegliato. Le colpe sono antiche e diffuse:

La correzione è integralmente delegata ai programmi automatici dei computer : ma nessun videoterminale è in grado di imporre criteri di verifica, di esercitare una autorevolezza sul prodotto, di saper pretendere quel minimo di controllo e di rigore professionale che rende credibile l’informazione trasmessa alla pubblica opinione. Anche gli ultimi “maestri” sopravvissuti nelle redazioni sono malvisti come pignoli rompiscatole dai più giovani colleghi o come fastidiosi ed eccessivi “perfezionisti” dai manager delle aziende. Il veleno sessantottino dell’anti-autoritarismo ha finito per premiare solo l’i-

Leader. Nel Pd c’è chi pensa che la sua autocandidatura a segretario non sia solo una battuta

Chi ha paura di Anna Finocchiaro? di Antonio Funiciello

ROMA. Nel Pd gira voce di non prendere troppo sul serio la “discesa in campo” di Anna Finocchiaro per la segreteria. La sua dichiarazione a Radio 3 «Non so se lo farò, ma non è escludo che lo faccia» viene per lo più interpretata come un’apertura un po’ femminista a una possibile futura leadership donna alla guida del partito. Dopo tutto, si aggiunge, la stessa Finocchiaro due giorni prima del suo ”non so ma non escludo” a Canale 5 aveva assicurato che «Veltroni non rischia». A meno che la presidente dei senatori democratici utilizzi una strategia comunicativa differenziata per Rai e Mediaset, in un disegno di ascesa politica abbastanza imperscrutabile, pare che la lettura minimalista della “discesa in campo” della Finocchiaro sia la più convincente. E poi fu proprio Veltroni, cinque mesi fa, a volerla confermare alla guida del gruppo senatoriale, pur vantando lei una ventennale, discreta militanza nelle file dalemiane.

alla Camera nell’87), passa difficilmente inosservata. Anna Finocchiaro non è proprio una dirigente politica nata ieri, insomma, e se è vero che alla riunione della Direzione del 19 dicembre Veltroni vorrebbe fare piazza pulita di resistenze e tentennamenti, per rilanciare leadership e linea politica, si può supporre che non tutti gli andranno dietro. Quale migliore antagonista, dunque, di una donna amatissima tra quegli stessi ex diessini mai veramente innamorati dell’ex sindaco di

La parola d’ordine è “non prenderla sul serio”, ma tutti sanno che, in caso di tracollo alle elezioni amministrative, il suo diventerà un nome pesante

Tutto qui? Forse. Eppure in attesa del Lingotto 2 di Veltroni, la sortita della parlamentare ex comunista da più tempo in Parlamento (è stata eletta la prima volta

Roma? Dalle parti di ReD si spera che il ritorno di Massimo D’Alema dal lungo viaggio in Sud America concorra a sciogliere questo nodo. Dopo tutto, già nell’estate del 2007, con Veltroni candidato segretario del Pd, la Finocchiaro si fece avanti come possibile sua competitor, salvo poi farsi da parte dopo il dichiarato sostegno a Veltroni proprio di D’Alema. I maligni se la ridono. Beppe Fioroni ha già chiosato che «lui vorrebbe sostituirsi a Putin, ma non sa se lui si preoccuperebbe di una sua candidatura». Un commen-

to divertente, e di certo più da leader di corrente che da responsabile nazionale dell’organizzazione, che nasconde però il profondo disappunto dei popolari per l’uscita della Finocchiaro. Non viene considerata adatta a un simile ruolo una donna che racchiude la sua più che ventennale carriera politica ai vertici, dal tonfo alle regionali siciliane dell’altro ieri all’ostilità per la chiusura del Pci tra l’89 e il ’91, contro la trasformazione in Pds. Chi non voleva chiudere neppure il Pci per aprire il Pds non sembrerebbe adatto a guidare oggi il Pd.

Eppure, Anna Finocchiaro non è Rosy Bindi né Enrico Letta, e se alla Direzione del 19 dicembre dovesse decidere di rappresentare l’alternativa a Veltroni, il Pd conoscerebbe forse (finalmente) il suo vero battesimo politico. La presidente dei senatori democratici potrebbe infatti stringere intorno a sé gran parte della sinistra interna e, giocando la carta femminile, potrebbe anche ghermire simpatie e adesioni traversali. Insomma, la Finocchiaro ha in realtà carte buone per rappresentare un’alternativa robusta a Veltroni e per innescare nel partito una dialettica politica degna di questo nome.

gnoranza, che è ormai diventata un “diritto acquisito”. Eppure i segnali di una stanchezza ormai diffusa e il bisogno di una ritrovata serietà si stanno facendo strada: non è un caso il successo clamoroso e ripetuto che stanno avendo le riproposizioni di classici universali come la Divina Commedia. Come se, di fronte alla mediocrità e alla manifesta sciatteria, non restasse altra via, autonoma eppure popolare, di riancorarsi a “padre Dante”, per ritemprarsi alla fonte della nostra lingua di incomparabile ricchezza. Chissà, forse paradossalmente ci aiuteranno proprio gli immigrati: attraverso le classi-ponte o altre forme di pratico inserimento, non è stravagante immaginare che chi si insedia nella nostra società e sceglie di condividerne fino in fondo il destino, assumendone la piena identità, poi pretenda che si esprima al meglio e rinnovi anche nella vita quotidiana quel patrimonio invece svalutato da chi l’ha ricevuto in comoda eredità. È questa, sembra la scommessa autentica dell’integrazione culturale…


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isagio giovanile e disgregazione sociale: l’antidoto è la famiglia. Il Cardinale Ennio Antonelli, Presidente del relativo Dicastero vaticano, non ha dubbi, e parlando a liberal sul tema del “VI Incontro Mondiale delle Famiglie”, che si terrà a Città del Messico dal 13 al 18 gennaio prossimo, ha affermato: «Essa è la cellula fondamentale della società: dal suo sviluppo dipende la sua rinascita ideale e materiale». Eminenza, come si svolgerà questo VI Incontro Mondiale delle Famiglie? L’incontro si compone di tre parti: la prima è il Congresso teologico pastorale di tre giorni, la seconda è una grande Festa delle famiglie sulla piazza antistante il santuario della Madonna di Guadalupe con testimonianze di famiglie di ogni continente. La festa culminerà nell’ascolto di un videomessaggio registrato del Papa e nel solenne affidamento di tutte le famiglie a Maria. La terza parte è la Messa di domenica che sarà presieduta dal Cardinale legato Tarcisio Bertone, Segretario di Stato Vaticano, e si concluderà con un collegamento televisivo diretto del Santo Padre che farà un discorso di saluto, annuncerà il VII Incontro Mondiale(sede e tema) e darà la sua solenne benedizione. Ci può parlare dei preparativi? L’Incontro ha per titolo “La famiglia formatrice ai valori umani e cristiani”. È un tema significativo sul quale sono state elaborate dieci catechesi che sono state diffuse un po’ in tutto il mondo. Inoltre mi fa piacere ricordare – oltre alle peregrinatio dell’icona della “Sacra Famiglia” che è stata portata in molte diocesi messicane – anche l’idea ribattezzata “il bosco delle famiglie”. In sostanza ogni famiglia pianta un alberello, come segno di attenzione ecologica e di salvaguardia del creato. Non sono mancate, poi, delle attività molto creative, come l’idea di realizzare un grande mosaico, composto di fotografie di singole famiglie che tutte insieme compongono l’immagine del Papa.

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Una cosa molto significativa per indicare che la famiglia è la cellula vitale che compone la grande famiglia della Chiesa e anche della società. Come Dicastero Vaticano della Famiglia, quali iniziative state mettendo in campo per aiutare le famiglie? Il Pontificio Consiglio lavora su due versanti. Uno più pastorale, interno alla Chiesa, che è quello della formazione delle famiglie alla vita cristiana, affinché esse ascoltino la parola di Dio e cerchino di viverla. Ecco il primo versante: avere delle famiglie cristiane che siano testimonianza luminosa. Diceva Paolo VI che non bisogna avere paura della notte se ci sono dei fuochi accesi che la rischiarano. Il secondo versante è quello civile, cioè formulare una proposta culturale rivolta alle varie componenti della società civile, alle istituzioni politiche e ai media. Cerchiamo, quindi, di aiutare i vari soggetti ecclesiali a stare nel dibattito pubblico – la Chiesa ha il diritto-dovere di farlo - con proposte ragionevoli, per una famiglia autenticamente umana: la difesa del matrimonio, il suo valore, il suo significato, la sua bellezza; e la difesa della vita umana dal concepimento alla morte naturale. A Suo avviso, cosa manca alle politiche italiane sulla famiglia? Certamente, l’Italia su questo versante deve crescere ancora. In altre nazioni dell’Unione Europea, come ad esempio la Francia, viene realizzato molto di più rispetto a quello che avviene da noi. La politica dovrebbe dunque difendere l’identità della famiglia e aiutarla a svolgere la sua missione: una missione procreativa ed educatiinva, nanzitutto favorire la natalità; garantire la libertà educativa, la libertà

Disgregazione sociale, disagio giovanile, mercificazione degli aff amarcord di certi film in bianco e nero. Ma il cardinale Ennio Anto

La famiglia. Un te colloquio con il cardinale Ennio

di scelta della scuola, perché questo è un bene per tutti. Il pluralismo educativo, cioè il fatto che le famiglie possano educare i propri figli secondo i principi in cui credono fermamente, produce benefici per l’intera società. Naturalmente, è evidente, che questa libertà di scegliere deve essere in armonia con alcuni valori generali, mi riferisco ai diritti dell’uomo, condivisi da tutta la società e accolti nella nostra Costituzione. Oltre all’educazione, bisogna risolvere il problema dell’emergenza casa e quello della mobilità del lavoro, evitando che essa non si trasformi in precarietà. Capisco che in un momento di crisi economica come questa non sia facile andare in questa direzione, ma bisogna andarci con segnali concreti che ridiano fiducia alla gente. Certamente, resta ancora aperto il capitolo relativo all’introduzione del “quoziente familiare” come criterio da adottare nella tassazione. Che ne pensa? Adottare questo criterio, a mio avviso, avrebbe l’effetto di garantire una maggiore giustizia nel prelievo fiscale. È un problema di equità che precede anche la distribuzione della ricchezza: chi ha dei figli non deve essere penalizzato. È un danno per la società: indebolire le famiglie significa mettere a rischio il futuro del nostro popolo. Il disagio giovanile e l’emergenza educativa spesso richiamata dal Papa hanno senza dubbio una radice anche nella difficoltà dei nuclei familiari, che non riescono più ad essere – fino in fondo – modelli di riferimento. Cosa può fare la Chiesa? Penso che negli ultimi decenni ci sia stato un disimpegno educativo da parte di molti genitori: si sono resi amici, complici dei loro figli, abdicando quindi alla loro responsabilità di adulti che hanno dei valori da trasmettere. E lo hanno fatto anche per catturare l’affetto dei figli. La relazione affettiva è importante, ma non è tutto: occorre una relazione educativa più impegnativa, più razionale; occorre an-

Il prossimo gennaio a Città del Messico si terrà un grande incontro mondiale dedicato al tema. I valori non sono in vendita ed è fondamentale che i genitori riscoprano la loro missione che saper dare dei valori, delle norme; dire dei sì ma anche dei no. È fondamentale aiutare i ragazzi ad essere più forti, fornendo intanto delle sicurezze su cosa sia buono e cosa non lo è, con la testimonianza quotidiana e con l’insegnamento. Infine, bisogna aiutarli ad essere anche capaci di sacrificio. Se si cerca sempre di soddisfare unicamente l’interesse immediato, l’impressione immediata, non si fa un favore ai figli. Ecco quindi l’importanza della ri-

nuncia in vista di qualcosa di positivo. Non si tratta di fare un sacrificio fine a se stesso, ma per far crescere. A suo avviso che rapporto c’è tra disgregazione sociale e quella familiare? Ricordo ancora che quand’ero Arcivescovo di Perugia andai a celebrare una messa nel carcere ed ebbi modo di incontrare tantissimi giovani. Come mai tanti ragazzi nelle prigioni? Lo domandai al direttore, il quale mi rispose che quei ragazzi


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fetti. Anche il focolare domestico sembra ridotto a un’immagine tonelli rilancia: «Dal suo sviluppo dipende il futuro della società»

esoro dimenticato Antonelli di Francesco Rositano

il personaggio Il cardinale Ennio Antonelli è nato a Todi (Orvieto) il 18 novembre 1936. Ordinato sacerdote il 2 aprile 1960, è stato eletto vescovo nel 1982. Promosso alla sede arcivescovile di Perugia-Città della Pieve nel 1988, è stato nominato segretario generale della Cei il 25 maggio del 1995, incarico affidato nel 2001 a monsignor Giuseppe Betori, avendo assunto Antonelli quello di arcivescovo di Firenze. La nomina ad arcivescovo è giunta il 21 marzo 2001 e Antonelli ha fatto ingresso nella diocesi il 20 maggio successivo. È stato l’ottantacinquesimo arcivescovo nella storia della diocesi. Fu Giovanni Paolo II a concedergli la berretta cardinalizia il 21 ottobre 2003. Finora, oltre alla carica di arcivescovo di Firenze, ha ricoperto quelle di presidente della Cei toscana. Fa anche parte del Pontificio consiglio per i Laici e di quello delle Comunicazioni sociali.

In primo piano, Benedetto XVI mentre accoglie con affetto un bambino. A lato, il cardinale Ennio Antonelli, Presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia

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Tempo fa aveva parlato del rischio che la logica del mercato pervada anche le relazioni familiari. Qual è il pericolo? Ho avuto modo di affrontare questo tema in occasione di una conferenza in Slovacchia su famiglia e media. In quell’occasione tra le altre cose, parlavo della pervasività del mercato, affermando che il valore principale alla base della nostra cultura e della nostra società è il produrre e il consu-

Eluana non è un vegetale. E si tratterebbe di una forma di eutanasia lasciarla morire di fame e di sete. No all’accanimento terapeutico, ma perché far mancare l’alimentazione a una persona? avevano alle spalle delle famiglie disgregate. Dalle statistiche, inoltre, ho avuto modo di apprendere che molto spesso i ragazzi non possono contare su una figura paterna che sia davvero autorevole. E questo crea gravi mancanze: c’è, infatti, bisogno, di una figura autorevole, ragionevole, che dia dei riferimenti precisi e li aiuti a crescere. In conclusione direi che le famiglie disgregate alimentano spesso disagio giovanile, disgregazione sociale,

violenza, aggressività, scontentezza. È d’accordo con l’idea di lanciare un Sinodo sul tema dei giovani? È senz’altro una buona idea anche se bisogna considerare che il Sinodo riguarda il mondo intero e quindi è difficile trovare orientamenti comuni sulla condizione giovanile. Forse sarebbe più facile realizzarlo in una nazione o in un continente, come può essere l’Europa.

mare. E quindi è evidente che, se questa è la dinamica principale, anche i rapporti tra le persone tendono a divenire funzionali: ognuno guarda cosa gli conviene e cosa non gli conviene, cosa gli è utile e cosa non gli è utile. Così anche nella famiglia entra il calcolo, la logica del “do ut des”. La dinamica del mercato pervade un po’ tutto e distrugge la logica del dono, della gratuità. E invece l’amore che fa la solidarietà e la solidarietà a sua volta fa la giustizia e va oltre la giustizia. Basta vedere tante famiglie che prendono in affidamento perfino bambini disabili e questo è un segno del tutto opposto alla cultura del mercato. Intendiamoci: non ce l’ho con il mercato, ma non deve essere il fattore determinante di tutti gli aspetti della vita. Bisogna che sia contenuto entro l’ambito economico che gli compete. La logica che governa i media è quindi la stessa? Il pericolo che minaccia la comunicazione dei media è che la verità e il valore della persona umana vengano sostituiti con ciò che fa più spettacolo, che fa più audience. Ecco perché si stimolano i bassi istinti, la violenza, il disordine sessuale. Ripeto: secondo questa logica l’obiettivo è fare audience e quindi anche ricavi dalla pubblicità. Il mercato, se diventa un idolo, può mercificare le relazioni sociali e perfino quelle interpersonali. La vicenda di Eluana Englaro ha riportato all’attenzione, oltre al dramma dei malati in stato vegetativo, anche quello dei loro familiari, spesso lasciati da soli ad assisterli. Cosa ne pensa? Dobbiamo essere tutti convinti del valore della vita umana, dal concepimento alla morte naturale. Questo per noi è un punto fermo. Togliere il bere e il mangiare, evidentemente, non significa rinunciare all’accanimento terapeutico, ma rappresenta una forma di eutanasia. Noi dobbiamo certamente non accanirci nelle cure straordinarie che sostituiscono le funzioni vitali ma nemmeno far mancare quella che è invece l’alimentazione normale. Che fare dunque? Si capisce la sofferenza della famiglia, ma ci sono anche altre persone come le suore che sono disponibili a tenere questa persona. D’altra parte quando arriva la disgrazia, spesso arriva anche un aiuto da molti volontari. Penso che sia importante incoraggiare questo volontariato: lo deve fare la Chiesa ma anche la cultura. Inoltre penso che vada incoraggiata l’assistenza professionale sanitaria a domicilio. Credo che sia vantaggioso sia dal punto di vista umano sia anche da quello economico per le istituzioni pubbliche.


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Analisi. Secondo Amnesty, alla base dello scontro interno ci sono interessi economici e vecchie faide etniche. Ma una soluzione c’è

La pace possibile in Congo Nkunda è soltanto un araldo dei tutsi Kinshasa deve dialogare con lui Pubblichiamo di seguito ampi stralci di un rapporto di Amnesty International sull’attuale situazione in Congo. lla fine di ottobre, il Congresso nazionale per la difesa del popolo (un gruppo d’opposizione armato) ha lanciato una pesante offensiva contro le postazioni militari del governo nella provincia del Kivu settentrionale. Nel giro di pochi giorni, le forze governative nella provincia sono crollate. Il Congresso ha conquistato la città di Rutshuru ed è avanzato fino alla periferia della capitale provinciale, Goma, uno dei luoghi più importanti della Repubblica democratica del Congo. Il 29 ottobre, con le sue forze a 15 chilometri da Goma, il Congresso ha dichiarato un cessate-il-fuoco unilaterale. Il governo e gli altri gruppi armati fedeli a lui, però, non hanno ricambiato la mossa. I combattimenti fra il Congresso e le forze governative è continuato su un buon numero di fronti, ma non sulla linea di Goma. La forza di peacekeeping dell’Onu – il Monuc – ha ricevuto il mandato di difendere la capitale con le armi. I combattimenti minacciano di esplodere ovunque. Il Congresso nazionale per la difesa del popolo è un gruppo armato e un’organizzazione politicomilitare guidato da Laurent Nkunda, un generale tutsi che ha rinnegato l’esercito.

A

Le sue forze sono stimate fra le quattro e le seimila unità. Nkunda dichiara di combattere per proteggere la comunità tutsi dagli attacchi dei gruppi armati hutu del Ruanda, scappati in Congo dopo il genocidio ruandese del 1994. La comunità tutsi nella parte orientale del Congo ha forti rapporti etnici, culturali, politici e commerciali con il confinante Ruanda e con l’Uganda. Il Congresso, dicono, conta fra le sue reclute cittadini di queste nazioni. Le Forze armate della Repubblica del Congo sono invece l’esercito nazionale, che conta circa 20mila sol-

dati nella provincia, al momento allo sbando. Sono numerose le violazioni ai diritti umani che hanno seguito il crollo della disciplina nell’esercito. I mai-mai sono milizie fedeli al governo. La maggior parte è riunita in una coalizione politico-militare nota come Pareco: la Resistenza patriottica del Congo. Al crollo dell’esercito, sono divenuti i maggiori antagonisti del Congresso. Le Forze democratiche per la liberazione del Ruanda sono composte da diverse migliaia di unità, per la maggior parte ribelli hutu presenti in Congo sin dalla ritirata dal Ruanda del 1994. Fra questi vi sono dei veterani delle milizie interahamwe e dell’esercito ruandese, principale responsabile del genocidio durato un decennio.

Tutti questi raggruppamenti militari sono responsabili di violazioni e abusi ai danni della popolazione civile congolese. Il Monuc, da parte sua, conta di circa 17mila soldati impegnati nelle operazioni di pace: il 90 percento di questi è stanziato nella parte orientale del Paese. La Brigata del Kivu settentrionale è composta da circa 6mila uomini, spalmati in 34 punti diversi nella zona. Circa 1.500 soldati Onu sono al momento posizionati a Goma. Il Monuc ha un robusto mandato “capitolo VII” che lo autorizza a utilizzare “ogni misura necessaria” (compreso l’uso di attacchi mortali) per proteggere i civili e il personale umanitario dalla minaccia imminente di violenza fisica. Il mandato include la possibilità di “agire in maniera attiva per evitare ogni tentativo di usare la forza da parte di qualunque gruppo armato che intenda minacciare il processo politico del Paese. Questo vale sia che si parli di congolesi, sia che provenga da stranieri. Questo include la possibilità di usare cordoni umanitari e tattiche di ricerca per fermare i miliziani”. Secondo diversi analisti, il Congo rischia di tornare a quello scenario devastante di

conflitti che lo ha caratterizato dal 1996 al 2003. Laurent Nkunda ha dimostrato di voler portare la guerra fino a Kinshasa, se il governo rifiuta di negoziare la pace direttamente con lui. Cosa che il governo ha rifiutato di fare.Tuttavia, è difficile che il generale ribelle possa raggiungere tale scopo se non costruisce una nuova, maggiore alleanza militare. Ci sono alcuni indizi che fanno pensare a un suo contatto con altri piccoli gruppi armati dell’Ituri e del Kivu meridionale.

Ma non ci sono prove che indichino un intervento militare diretto da parte di Ruanda e Uganda, i maggiori belligeranti della guerra 19962003. Tuttavia, la situazione è così tesa che ogni incidente potrebbe scatenare nuove, più estese violenze. La vicinanza degli scontri al confine con il Ruanda ha già causato alcuni incidenti. Rapporti non confermati parlato di truppe in prima linea provenienti da Ruanda, Angola e Zimbabwe. Con il crollo quasi totale dell’esercito nazionale, il governo di Cabila si è considerevolmente indebolito all’interno e all’esterno del Paese. Questo potrebbe scatenare nuovi scontri civili, o nuove defezioni militari, che potrebbero precipitare il Congo in una spirale di violenza più feroce.

Nella foto, uno dei soldati dell’esercito del generale ribelle Laurent Nkunda si esercita all’uso delle armi. Alle sue spalle si intravede lo stesso Nkunda, che chiede invano un canale di dialogo diretto con il governo del Congo no riconosciuto l’alto potenziale di rischio guerra nella regione. La prima iniziativa, lanciata nel novembre 2007, ha previsto un incontro fra il governo del Ruanda e quello del Congo a Nairobi.

Questo si è concluso con un comunicato congiunto in cui entrambi gli attori dichiaravano di non voler sostenere alcun gruppo armato operante in Congo, di voler bloccare

Il conflitto che affligge il Paese dura dal 1996. La colpa della guerra è di molti: Kinshasa, il Ruanda, la Cina e i suoi interessi. Ma soprattutto è un fallimento internazionale Il conflitto in corso è l’ultima fase di uno scontro iniziato nel Kivu settentrionale durante il mese di agosto del 2007, dopo il fallimento del piano di integrazione delle forze di Nkunda all’interno dell’esercito regolare. Nel tentativo di fermare quel conflitto, la comunità internazionale – le Nazioni Unite, l’Unione europea, l’Unione africana e gli Stati Uniti - ha lanciato due iniziative, che han-

il passaggio fra i confini di armi o reclute e l’intenzione di non voler fare propaganda negativa. Un punto chiave dell’accordo prevedeva l’impegno congolese di smantellare “con la massima urgenza” le Forze democratiche di liberazione del Ruanda presenti nella parte orientale del Congo. Con la forza, se necessario. A questo incontro seguì una conferenza di pace a Goma, nel gennaio 2008, a

cui hanno preso parte il governo e i gruppi armati del Congo: fra questi c’era il Congresso di Nkunda, ma non le Forze democratiche.

Dalla conferenza nascono delle “regole di ingaggio”(una per il Kivu del nord e una per il Kivu del sud), in cui tutte le parti si dicono favorevoli a un cessate-il-fuoco immediato. In cambio, il governo offre un’amnistia per “gli atti di guerra” commessi dai guerriglieri, ma escludono i colpevoli di crimini contro l’umanità. Secondo l’accordo di pace, tutti i lati avrebbero dovuto smobilitare le proprie forze e quindi integrarle nell’esercito regolare. Purtroppo, questo compito è stato delegato a una Commissione tecnica che non ha mai iniziato il proprio lavoro. Il Congresso si è ritirato dal processo di pace nell’aprile del 2008. Uno dei maggiori ostacoli nel processo è stata l’impossibilità di smantellare le Forze democratiche di liberazione del Ruanda. Il governo di Kinshasa e le Nazioni Unite hanno organizzato degli incontri con i vertici delle Forze a Kisangani, lo scorso maggio,


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ce, nelle aree sotto il controllo armato o comunque inaccessibile agli aiuti umanitari a causa dell’insicurezza, ci sono decine di migliaia di profughi senza una abitazione e senza una assistenza organizzata. Circa in 10mila si sono rifugiati in Uganda. Molti di queste persone hanno già vissuto nei campi profughi intorno alla città di Rutshuru, che è stata data alla fiamme durante i combattimenti, in circostanze che restano da chiarire. La maggior parte di questi vive ora in condizioni poverissime, in campi profughi alla periferia di Goma. Gli aiuti umanitari alla popolazione sono graduali, ma insufficienti. Le forze Onu del Monuc cercano di contenere la crisi, ma si trovano sotto un’immensa pressione. La loro credibilità, al momento, è particolarmente bassa. La caduta di Rutshuru, che il Monuc si era impegnato a difendere, ha danneggiato ancora di più la situazione. Si sono verificate diverse manifestazioni contro le forze Onu, alcune violente.

che ha prodotto una cosiddetta “road map” per il disarmo.

Tuttavia, soltanto poche centinaia di soldati hanno partecipato all’incontro e hanno lasciato le armi per affrontare il rimpatrio in Ruanda. Il fallimento di questi negoziati sono serviti al Congresso e al Ruanda per affermare che la comunità internazionale non sta facendo nulla per proteggere la comunità tutsi del Congo. Il Fronte ha già dichiarato di essere pronto a disarmare e rimpatriare, ma a condizione di un dialogo politico con il governo del Ruanda. Una condizione che Kigali rifiuta. Il Congresso è inoltre risentito per l’apparente utilizzo del governo delle milizie mai-mai nell’accordo di Goma, un modo per diluire l’influenza della fazione guidata da Nkunda. Al di là di tutto questo, tuttavia, rimane il fallimento nazionale e internazionale nell’eliminare le cause di questo conflitto. E fra queste non si può non citare il controllo delle risorse naturali abbondantemente presenti nel Kivu settentrionale.

All’inizio del 2008, il Congo ha firmato dei contratti multimiliardari con un gruppo di compagnie cinesi che preve-

Le strade per una vera soluzione al conflitto ci sono, ma devono essere intraprese da tutti. Il primo passo è far dialogare le etnie, da troppo tempo impegnate in uno scontro fratricida dono la cessione dei diritti di estrazione minerarie in cambio di investimenti in progetti di infrastrutture. Più o meno allo stesso tempo, il governo si è mosso per esercitare un maggior controllo delle miniere della zona di Walikale. Questi sviluppi hanno creato un senso di allarme fra coloro che avevano investimenti nella zona, e il tutto potrebbe aver scatenato i primi scontri.

Una delle ripetute richieste di Nkunda è proprio quella di rinegoziare i contratti cinesi. E che il Ruanda si escluda volontariamente dal conflitto, in cui è accusato di svolgere un ruolo predominante. Questa è un’ accusa sistematica da parte dei guerriglieri congolesi. Si basa su una serie di informazioni raccolte sul territorio. L’interesse primario della collaborazione fra le parti ha diverse ragioni economiche (per esempio il traffico di canapa nel territorio di Lubero). La prova di un’alleanza di tipo strategico o di comando tra il Fronte e i soldati dell’esercito regolare di Kinsha-

sa è debole, sebbene il racconto di azioni militari congiunte da parte di mai-mai e guerriglieri del Fronte, restii al rimpatrio in Ruanda, potrebbe puntare alla predisposizione o all’accordo da parte di Kinshasa. Da parte sua, il Ruanda ha negato ogni coinvolgimento nel conflitto e, fino ad ora, ha reagito bene agli sforzi della diplomazia internazionale per risolvere la crisi. Il 10 ottobre, il Congo ha mostrato equipaggiamenti ed effetti personali di soldati nemici uccisi per dimostrare la presenza di soldati ruandesi sul suo territorio. Ma questo non ha convinto la comunità internazionale. Nel frattempo, però, proseguono sul territorio le violazioni ai diritti umani della popolazione. Fra questi, reclutamento forzato di bambini, stupri, omicidi deliberati.

Fino ad ora, la violenza ha provocato lo sfollamento di circa 250mila persone, portando il numero totale di rifugiati interni a 1,2 milioni. Nella maggior parte delle provin-

Eppure, la situazione in Congo senza il Monuc sarebbe considerevolmente peggiore. Questo interviene quotidianamente per proteggere i civili, e i progressi fatti dal governo in questi anni – per quanto limitati – sono un risultato della loro presenza. D’altra parte, il principale ostacolo al loro operato è proprio l’ingaggio che hanno ricevuto: proteggere i civili in maniera neutra, aiutando nel contempo le forze regolari nelle operazioni militari. Eppure, proprio l’esercito è responsabile di violazioni contro la popolazione: questa situazione ha permesso all’esercito di Nkunda di accusare l’Onu di arbitrarietà e complicità con i militari di Kinshasa. La violazione dei diritti umani da parte di tutte le forze combattenti vengono registrate intorno alle province, compresso il reclutamento forzato di bambini, violenze sessuali, uccisioni senza scrupoli di civili e saccheggi massicci. Data la situazione in alcune province, caratterizzata da grande caos, le informazioni, anche se non sono state confermate, sono attendibili. Arrivano racconti di stupri o di uccisioni ordinate in prossimità di Ngungu durante i combattimenti tra dell’8 e del 9 novembre scorso; racconti di continui e in alcuni casi sistematici reclutamenti forzati nei territori di Rutshuru e Masisi; il racconto di massicci saccheggi e di attacchi contro i civili da parte di componenti dell’esercito regolare a Kanyabayonga lo scorso 10 novembre; oppure la deliberata uccisione di civili a

Kiwanjia, nel nord di Rutshuru da parte delle forze di CNDP nella notte tra il 5 e il 6 novembre, sulla scia dei combattimenti per il controllo della città il 5 novembre tra le forze CNDP e le forze maimai. Queste informazioni sono ampiamente confermate; in più è in corso un’inchiesta da parte della Divisione Diritti Umani di Monaco su uccisioni e altre violazioni dei diritti umani commessi da parte delle forze regolari durante il ritiro attraverso Goma nella notte tra il 29 e il 30 ottobre scorso.

A questo punto, è necessario un intervento del Consiglio Onu per i diritti umani, che deve convocare una sessione speciale sulla situazione della parte orientale del Paese. Deve mandare un messaggio forte al Consiglio di Sicurezza, chiedendo un intervento diretto per proteggere in maniera particolare i civili coinvolti nella guerra. Deve inoltre nominare un esperto indipendente, con il compito di riferire sulla situazione dei diritti umani e proporre soluzioni alla crisi La grandissima attenzione internazionale che attira oggi la situazione del Congo deve tradursi in un’azione diretta che possa fermare la crisi, in corso da oltre dieci anni. Sin dal 1996, non si è mai verificata un’azione diplomatica concertata per fermare i massacri. Buona parte di questo fallimento può essere imputato al governo congolese, che ha fallito nel trovare una riforma condivisa e corretta dei suoi settori minerari, giuridici e di sicurezza. Una parte della responsabilità è anche dei donatori internazionali, che hanno fallito quando dovevano insistere proprio in questa direzione. Anche gli Stati confinanti hanno la loro parte di colpa, perché non hanno cercato una soluzione al problema. Per dare una risposta duratura al problema, la comunità internazionale e il governo del Congo devono stabilire delle effettive regole di disarmo; interrompere la proliferazione degli armamenti; prevenire i crimini di natura sessuale, includendo le donne nel processo di pace; stabilire un meccanismo di giudizio indipendente; sviluppare un procedimento estrattivo trasparente per le risorse minerarie del Paese; assicurare una riforma della polizia e dell’esercito. Ma soprattutto, devono impegnarsi a trovare una vera riconciliazione per le comunità, divise da troppo tempo, e risolvere le questioni legate alla proprietà della terra contesa fra hutu e tutsi. (Traduzione a cura di liberal)


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l Cancelliere tedesco Angela Merkel si ispira volontieri ai valori tradizionali della politica democratica cristiana. Nel suo ufficio alla Cancelleria a Berlino c’è un grande ritratto del primo Cancelliere federale del dopoguerra, Konrad Adenauer. Lui e il suo successore Ludwig Erhard sono considerati gli artefici del cosidetto “Wirtschaftswunder” (il miracolo economico) postbellico, i comandanti che hanno tenuto la rotta della nave “Repubblica Federale di Germania”anche in momenti di tempesta. Esattamente così vuole presentarsi anche la Merkel, e lo farà al congresso della Cdu che comincia domenica prossima a Stoccarda e si protrarrà fino a martedì.

I

Una prova generale per il suo discorso il cancelliere l’aveva già fatta mercoledì scorso nel Bundestag. Durante la scorsa settimana, infatti, i deputati hanno discusso e litigato sulla Finanziaria del 2009. Le opinioni sul come la Germania dovrebbe affrontare la crisi finanziaria ed economica sono ben diverse tra di loro. Ad opinione di molti, il pacchetto di misure per sostenere l’economia è troppo poco coraggioso. La sinistra vuole spendere più soldi; alcuni conservatori ed i liberali vogliono ridurre lea tasse, il più presto possibile. È soprattutto la Csu a proporre questo, con l’obiettivo di sostenere la domanda nel

Germania. Inizia domenica prossima a Stoccarda il congresso della Cdu

Angela Merkel ora punta al Centro di Katrin Schirner Paese. Il capo della Csu, Seehofer, parlerà martedì e sicuramente non mancheranno i rimprovi sulla riluttanza del partito fratello Cdu. La Merkel non vuole aumentare gli incentivi economici e neanche ridurre le tasse. Perlomeno non ancora. A differenza dell’attuale trend in Europa, il Cancelliere vuole presentarsi ai cittadini come un Capo di governo privo di frenesia, uno che non trasmette dubbi all’esterno e lo fa con una strategia giusta.

«Niente di radicale, niente di nervoso, niente di troppo, niente di troppo poco». «Politica del centro» e «tenere la misura» sono state espressioni usate spesso nel discorso della Merkel al Bundestag. «Rafforzare il centro» è la parte principale del programma del Congresso di Stoccarda. È agli elettori di centro che intende rivolgersi la Cdu; i cittadini che vogliono l’e-

«Niente di radicale, niente di nervoso, niente di troppo, niente di troppo poco»: sono queste le parole d’ordine del Cancelliere per rivolgersi a chi vuole il mercato, ma anche uno Stato più presente

conomia di mercato, ma anche uno Stato che si occupi dei più deboli. Con troppo capitalismo - ciò che ha imparato dolorosamente a sue spese la Cdu nelle elezioni del 2005 - è difficile vincere in Germania.

«Rafforzare il centro», prevede anche delle modifiche nella politica fiscale. Anche se non adesso, durante la crisi, quanto piuttosto dopo le elezioni del settembre 2009. Anche per tenersi questo come futuro strumento alla caccia ai voti, invece di“spararsi tutte le cartucce” ora. La Cdu vuole ammorbidire quella che in Germania è chiamata la “progressione fredda”, un sistema che - anche nel caso di aumenti salariali - fa registrare solo insignificanti aumenti in busta paga a causa del particolare sistema di progressività delle aliquote fiscali. Ciò colpisce in modo particolare gli stipendi di livello medio. Anche le famiglie devono essere aiutate secondi i progetti della Cdu. Il congresso del partito vuole anche dedicare particolare attenzione agli imprenditori. La responsabilità cristiana verso i concittadini ed il prossimo, l’impegno del singolo verso la collettività: ecco i valori tradizionali che il turbo-capitalismo sembrava aver mandato in soffitta. Con un Cancelliere che tiene la nave in rotta nonostante le onde gigantesche, come un tempo Adenauer ed Erhard.


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Gran Bretagna. Centri sociali e Chiesa d’Inghilterra appoggiano il “Buy nothing day” contro il consumismo natalizio e Gordon Brown

«Spende bene chi non spende» di Silvia Marchetti a quale cura dell’ottimismo, quale taglio alle tasse? I consumatori inglesi bocciano il piano anti-crisi messo a punto in questi giorni dal ministro dell’Economia, Alistair Darling, e indicono per domani il “Buy nothing day”, ovvero il giorno del non-comprare, del boicottaggio totale di qualsiasi forma di spesa. Con il motto «spende bene chi non spende affatto», in migliaia aderiranno allo sciopero del borsellino con un duplice obiettivo.

M

Primo: respingere le politiche del governo laburista. Secondo: dire “no” al consumismo delle feste natalizie. Un movimento di massa organizzato da associazioni civili e centri sociali, con alle spalle l’appoggio spiri-

tuale della Chiesa d’Inghilterra. Insomma, un’iniziativa al tempo stesso politica e morale.

Il popolo del “Buy nothing day” domani eviterà non soltanto le vetrine ma anche i supermercati e i centri commerciali. La crisi economica che soffoca la Gran Bretagna in questi mesi ha decimato il potere d’acquisto dei cittadini, e le misure presentate in parlamento dal ministro Darling non convincono affatto. Il responsabile dell’Economia ha annunciato una serie di tagli alle tas-

se e al costo del denaro per rimettere in moto l’economia e sostenere la spesa natalizia degli inglesi, incentivandoli a entrare nelle boutique e fare regali. Insomma,“l’ordine”che giunge da Downing Street è quello di mettere mano al portafogli per iniettare liquidità nel sistema e uscire dalla crisi.

Una sorta di cura dell’ottimismo che i maggiori giornali britannici hanno già soprannominata con ironia «shopocalypse now, paga dopo», ossia «l’apocalisse della spesa oggi, ma pa-

Downing Street pensa a tagli alle tasse e al costo del denaro per rimettere in moto l’economia e sostenere la spesa. Ma gli organizzatori dell’evento replicano: «No allo shopping, sì alla vita»

ghi domani». Sta di fatto che per i consumatori qualche taglio fiscale non basterà a riportare nelle loro tasche le sterline perse negli ultimi mesi. «Spendere, spendere, spendere, è questo il motto del governo britannico - scrivono sul loro portale gli organizzatori del “Buy nothing day” - ma come facciamo a spendere in queste condizioni? L’unica soluzione è non spendere affatto. Domani è il giorno in cui ognuno di voi sfiderà se stesso dicendo no allo shopping e sì alla vita». Le regole per partecipare? «Sono semplici, - spiegano agli interessati - per 24 ore dovete disintossicarvi dal consumismo e dimenticarvi le vetrine dei negozi, astenendovi dal mettere mano al vostro portafogli». Non importa cosa, tutto è da evitare: dai ristoranti ai vestiti, dai giocattoli ai gioielli.

Il “Buy nothing day” nasce nel 1992 in America e si estende subito nel resto del mondo, diventando un appuntamento annuale al quale aderiscono centinaia di migliaia di consumatori. Ma l’edizione di quest’anno è destinata ad assumere un profondo significato in virtù dello tsunami creditizio ed economico che ha investito il mondo facendo proprio della Gran Bretagna una tra le maggiori vittime. La moratoria dello spendere diventa così un gesto simbolico (soprattutto se associata al periodo festivo), un modo per manifestare apertamente il malcontento generale nei confronti di un governo che agli occhi di molti viene visto come colpevole della situazio-

ne. La giornata di domani preannuncia così un triste Natale per gli inglesi. Il crollo nei consumi colpisce soprattutto i centri commerciali e le grandi catene di distribuzione, che nella speranza di risollevare gli acquisti hanno ridotto i prezzi. Da Tesco a Sainsbury’s fino a John Lewis, i grandi nomi si fanno concorrenza con offerte vantaggiose e trattamenti spreciali per i clienti. Ma i negozi sono vuoti e la “cura dell’ottimismo” del governo Brown convince poca gente.

Perfino la Chiesa d’Inghilterra è scettica e non perde occasione per condannare il consumismo. L’arcivescovo di Canterury ha lanciato un appello contro ”l’ansia” del Natale e la cultura della spesa folle, creando un video su You Tube e un sito web per far riflettere sul vero significato della nascita di Jesù Cristo. Per l’arcivescovo Rowan il segreto del Natale sta nell’attesa, nella calma con la quale i credenti si preparano all’evento. Quest’annno la Chiesa Anglicana ha quindi deciso di lanciare una crociata mediatica contro il consumismo delle feste, incoraggiando i fedeli a riscoprire la vera natura del Natale. Il vescovo di Reading, il reverendo Stephen Cottrell, ha perfino scritto un libro sui modi per diminuire gli eccessi del consumismo durante le festività natalizie e aumentare la riflessione interna. Sta di fatto che almeno quest’anno la Chiesa può stare tranquilla: difficilmente la gente si farà prendere dalla frenesia di comprare.


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Cinema. Sul grande schermo del Festival di Torino, che si conclude oggi, i “piccoli dracula” Eli e Oskar

Il tempo delle... vene “Lasciami entrare”, un’altra storia di vampiri Ma è tutto l’opposto di “Twilight” di Alessandro Boschi arà un caso ma venerdì a Torino è nevicato. Il giorno dopo la proiezione per la stampa del film fuori concorso Lasciami entrare, ambientato in una nevosissima Svezia (esattamente a Blackberg, quartiere periferico di Stoccolma, anno 1982), la 26esima edizione del Torino Film Festival è stata ricoperta, come si sarebbe detto una volta,“da una candida coltre di neve, con pochi passanti infreddoliti, sporadiche macchie nere sul manto bianco della città”. Forse il capoluogo piemontese ha voluto in questo modo rendere omaggio ad uno dei film più interessanti della rassegna diretta da Nanni Moretti (rimarrà come direttore? Non rimarrà? Noi speriamo di sì). Lasciami entrare, diretto da Tomas Alfredson, è una storia con tantissime cose dentro. Oskar è un dodicenne ansioso e introverso, vessato da compagni di scuola che lo sottopongono ad ogni genere di angheria. Eli è la sua vicina di casa, da poco trasferitasi non si sa da dove. Anch’ella dodicenne,“ma da un po’ di tempo”.

S

Oskar è biondissimo, quasi albino, etereo, Eli invece è bruna, tratti somatici marcati, occhi grandi e profondi. Il padre di Oskar si è diviso dalla madre ed ha una relazione, si intuisce forse per nostra malizia, con un uomo. Il padre di Eli non è il padre di Eli (forse l’amante, l’ex amante? vedremo), e però l’aiuta, uccidendo delle persone e dissanguandole, a sopravvivere. Perché Eli non è una ragazza, come afferma lei stessa ma, al di là di questa categoria accessoria, vive nutrendosi di sangue umano. Eli ed Oskar fanno amicizia e, su insistenza di Oskar si mettono insieme, anche se Eli non è una bambina. A Oskar questo non interessa. Notate: ancora non abbiamo usato la parola vampiro, e se non l’abbiamo fatto è perché sarebbe davvero riduttivo catalogare il film di Tomas

Alfredson come film di genere, verosimilmente come avrebbe suggerito la parola or ora scritta. Resta il fatto che a Blackberg avvengono degli omicidi, le vittime uccise e dissanguate, e la polizia, non ci crederete, brancola nel buio.

Durante una di queste aggressioni il colpevole, il padre non padre di Eli, viene scoperto e catturato. Nell’estremo tentativo di non farsi riconoscere, per proteggere in questo modo Eli, tenta di sfigurarsi. Eli lo

Il film è ambientato in una nevosissima Svezia (a Blackberg, quartiere periferico di Stoccolma, anno 1982): lui biondissimo, quasi albino, etereo; lei bruna, occhi grandi, e dodicenne “da un po’ di tempo”...

In alto a destra, alcune scene del film “Lasciami entrare” di Tomas Alfredson. Sopra, dall’alto: “DonneMoi la main” di Pascal-Alex Vincent; “Demain (Sophie)” di Maxime Giroux; “Dixia de Tiankong/The Shaft” di Chi Zhang; “Bitter&Twisted” di Christopher Weekes; “Die Welle” di Dennis Gansel. Nella pagina a fianco, la locandina della 26esima edizione del Torino Film Festival e il regista Nanni Moretti

raggiunge all’ospedale e con il suo consenso gli succhia il po’ di sangue rimasto. Allora, il plot sembra davvero perfetto per una puntata di Buffy l’ammazzavampiri, ma Lasciami entrare va davvero oltre. Nel film è molto forte la sensazione di trovarsi in una dimensione dove sono state superate le barriere del sesso, della razza, della famiglia. Manca al film, rispetto al racconto del libro, tutta la parte dedicata alla pedofilia, che qui è solo suggerita dalla relazione tra Eli ed il suo anziano fornitore di sangue. Evidentemente in un passato non recentissimo sono stati coetanei e forse pure Oskar, novello compagno, è destinato a quel ruolo dal momento che i vampiri non invecchiano. Nel film si parla anche del bullismo, che viene brillantemente affrontato dalla vampiretta, nel senso che i nemici di Oskar (che ha già tentato di reagire per conto suo), fanno una fine davvero poco invidiabile.

Se non fosse macabro suggeriremmo lo slogan “un vampiro in ogni scuola”. Già, Oskar ha già reagito e ha trovato la forza di farlo grazie proprio ad Eli. È arrivato il momento di dirlo, ma forse si era già capito: Lasciami entrare è una bellissima storia d’amore. Ma non una

storia d’amore tra adolescenti, una bellissima storia d’amore e basta. Che valica come abbiamo visto sesso ed età. Eli potrebbe essere un maschietto, e forse lo è stata, Oskar potrebbe sembrare una bambina. Sarebbe lo stesso.

È una storia d’amore senza parametri di riferimento. Emblematico il titolo: Lasciami entrare, perché un vampiro non può entrare nelle abitazioni altrui, pena il dissolvimento, se non è espressamente invitato. Questa è una regola ferrea, dai tempi di Nosferatu. Lasciami entrare, lasciami entrare nel tuo cuore, nella tua vita, nel tuo sangue. Distante anni luce da Twilight il film di Tomas Alfredson uscirà tra un mese nelle sale italiane, e di certo non potrà contare sul battage pubblicitario dei suoi patinati concorrenti, ma vi assicuriamo che è stata una delle cose più interessanti della 26esima edizione del Torino Film Festival. Anche per questo ci sentiamo in dovere di ringraziare la distribuzione italiana della pellicola, la Bolero Film. Un’altra piccola curiosità: ad un certo punto si vede uno dei protagonisti che legge un libro. Osservate con attenzione, si tratta di un libro di Lars Widding. Un carneade? Probabilmente sì ma non per


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Ha messo a segno una kermesse di successo. Alla faccia di chi lo aveva insultato

Nanni Moretti? Meglio di Mourinho «I

o sono un po’un indotto, se uno ha bisogno di pubblicità mi attacca e il giorno dopo si ritrova sulle pagine nazionali dei quotidiani». Questo uno dei passaggi più divertenti della intervista concessa ai microfoni della trasmissione radiofonica di Radio3 Hollywood Party da un Nanni Moretti in splendida forma che si accinge a concludere la 26esima edizione del Torino Film Festival e sua seconda personale. Sale piene e film molto apprezzati da critica e inclito, con il fiore all’occhiello di due retrospettive, quella dedicata a Jean-Pierre Melville e Roman Polanski, che hanno fatto registrare il tutto esaurito a tutte le proiezioni. Senza dimenticare la sezione denominata British Renaissance sul cinema inglese, altro grande successo in termine di presenze e qualità della selezione.

Spettatori numerosissimi anche alle sezioni “normali” del festival, con sale piene come non si vedeva da anni e con una qualità delle pellicole davvero notevole. Anche per questo Nanni, da vero leader, ha ringraziato più volte il lavoro di squadra, sottolineando il fatto di avere anche ereditato dalla precedente direzione un “blocco torinese” efficientissimo e poi integrato da inserimenti fatti anche tenendo conto di una volontà di ringiovanire i ranghi. Non si poteva però trascurare la polemica (ogni festival che si rispetti ne ha una, almeno) sulla mancanza di film italiani in concorso e fuori concorso. E qui è venuto fuori il Nanni migliore, ironico e pungente. In verità, ha fatto notare, il cinema italiano è ben presente a Torino, come pure lo è stato nello scorsa edizione. Che poi questo cinema sia il cinema di documentari come Biutiful cauntri e, quest’anno, di Armando e la politica, vuol dire semplicemente che Torino resta uno spazio dedicato a quelle opere che normalmente vengono ignorate dai giornali, che legittimamente si occupano negli altri festival di altro. Inoltre non si può dimenticare che a Torino in concorso possono arrivare solo film in anteprima. Questo, unito alla presenza di festival come Venezia e Roma che hanno fatto incetta di pellicole italiane (in maniera anche indiscriminata, aggiungeremmo), ha fatto sì che le opere italiane visionate fossero poche. È in questa ottica che va letta la frase d’apertura, evidentemente riferita alla polemica imbastita dal consigliere di destra del comune di Torino. Che un po’ come fanno certi personaggio del mondo del calcio in cerca di una ribalta, attaccano Mourinho, l’allenatore dell’Inter di cui il mondo intero parla e straparla. Almeno questo è quello che dice lui. Quindi Moretti è come Mourinho, ma considerando i risultati della squadra meneghina e del festival torinese, possiamo tranquillamente dire che

Mourinho serve all’Inter forse, e che Moretti alla manifestazione piemontese è invece indispensabile. Ma forse, aggiunge pacatamente Moretti, questo consigliere non conosce i meccanismi con cui i film possono essere scelti, riferendosi alla già citata necessità di essere in prima visione. Ineludibile anche la domanda sul suo futuro, ma qui non c’è nulla di nuovo, in quanto il discorso verrà affrontato solo a festival terminato. Moretti è poi tornato sui motivi che lo hanno spinto anno scorso ad accettare l’incarico di direttore. Sottolineando il suo affetto per la manifestazione, da spettatore, regista e giurato, Moretti ha ricordato l’atmosfera da resa dei conti che si respirava, a fronte di una manifestazione romana che stava nascendo mostrando tutti i suoi muscoli. In conclusione «per dare una mano al cinema italiano» è stato il motivo che ha spinto il regista di Caro diario ad accettare l’incarico, perché il cinema italiano è anche documentario, cortometraggio, e anche finzione unita a documentario. Tutte realtà queste che vengono sistematicamente dimenticate da tv private e pubbliche. Forse, chissà, visionare tutti questi documentari farà tornare a Moretti la voglia di cimentarsi di nuovo con questo genere, già affrontato in passato. «In effetti sarebbe bello fare documentari, soprattutto con materiale di repertorio, per capire quello che è successo nel nostro paese negli ultimi 15/30 anni. Ma questo è molto difficile, perché, più che in passato, per ottenere del materiale di repertorio sono necessari i diritti e questi diritti sono regolati in maniera più restrittiva di quanto non avvenisse anni prima».

Mentre l’allenatore portoghese all’Inter serve, il regista italiano, al Festival, è assolutamente indispensabile

gli addetti ai lavori. Lars Widding è un astrologo esperto di tarocchi, simbolismo alchemico e tecniche sciamaniche.

Forse è un omaggio alla sua opera voluto dal regista e soprattutto dall’autore del libro omonimo dal quale il soggetto

di Lasciami entrare è tratto, John Ajvide Lindquist. Il quale è commediografo, illusionista e, di conseguenza, sceneggiatore televisivo. L’individuazione della scena del libro è lasciata alla vostra attenzione.

Chissà se sono fischiate le orecchie a Pat O’ Connor, il regista irlandese ospite della rassegna British Renaissance con il film A month in the country (Un mese in campagna). Anche lui, insieme al produttore Kenith Trodd, qualche giorno prima aveva detto una cosa molto simile: «La signora Thatcher ha fatto di tutto per distruggere la televisione in Gran Bretagna, ma non ce l’ha fatta». Pat O’Connor è un personaggio molto vicino al calcio, avendo realizzato il filmato ufficiale dei mondiali del 2006 (quelli vinti dall’Italia). «Vi abbiamo preso il meglio, Giovanni Trapattoni (allenatore dell’Eire) e Fabio Capello (allenatore dell’Inghilterra)». I nostri allenatori evidentemente sono più esportabili dei nostri politici. Meno male che ci resta Nanni. (a.b.)


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Musica. A tu per tu con Tiziano Ferro e la sua maturazione artistica: «Mai più stereotipi. Oggi mi rivolgo ai miei coetanei»

L’ex cantante delle ragazzine colloquio con Tiziano Ferro di Alfonso Piscitelli

Uscito da poco, il nuovo album di Tiziano Ferro “Alla mia età” è primo in classifica e rappresenta la maturazione artistica del cantante, che ha deciso di abbandonare gli stereotipi degli ultimi tempi e rivolgersi in modo più propositivo alle generazioni a lui coetanee

a voce ha un tono pacato, con timbro metallico. Tiziano Ferro parla con scioltezza, alternando linguaggio colloquiale ed espressioni complesse. Del resto sono così anche le sue canzoni: brani nei quali si avverte l’importanza della parola, la forza evocativa di uno stile che suscita emozioni senza ricorrere a facili rime in cuore-e-amore. Eppure per anni a Tiziano Ferro si è applicato lo stereotipo del “cantante per ragazzine”. Nonostante i suoi testi fossero a volte criptici, a volte venati da una malinconia notturna. Oggi questo luogo comune si dissolve non appena ascolti Alla mia età, primo nella classifica dei dischi più venduti. Tiziano Ferro, dopo aver duettato con Antonacci e aver scritto testi di impatto immediato per Giusy Ferreri, si è anche impegnato nella traduzione in lingua spagnola delle ultime creazioni di Franco Battiato, che “cantante per ragazzine” certamente non è… Il successo di questi giorni si accompagna a convincenti prove di maturità artistica. «Con questo ultimo disco – ci dice – sono riuscito ad esprimermi al di là degli stereotipi preconfezionati: la critica musicale me ne ha dato atto. Del resto quella di essere definito cantante per adolescenti è l’etichetta più innocua nella quale tu possa incappare quando sei giovane e fai dischi. È una etichetta che oggi mi suscita tenerezza. Io ho cominciato a 19 anni e quando si parte così giovani è ovvio che per una questione anagrafica si esprima una particolare affinità con i coetanei. Poi si cresce insieme alla propria musica, si fa un percorso. È successo a Jovanotti, ad Eros Ramazzotti». C’è poi un altro luogo comune: quello di Tiziano Ferro cantore di storie finite, di tristezze d’amore. Lei ha fatto notare che la metà delle sue canzoni sono allegre, eppure il tono malinconico delle sue composizioni viene maggiormente percepito. La gente che dovrebbe farsi una ragione di questo fatto: se l’attenzione cade di preferenza sulle canzoni malinconiche è

L

perché forse le persone sono più predisposte ad ascoltare quel genere di testi. Nei suoi testi c’è un abbondanza di verbi al passato: i suoi sono amori e sentimenti espressi all’imperfetto. In questo ultimo disco propongo due canzoni d’amore: una si riferisce a una storia d’amore conclusa: Fotografia della tua assenza. In effetti parlo al passato. Ma l’altra è una canzone d’amore gioioso Il regalo più grande. E qui parlo al presente. Dunque la proporzione fifty-fifty è rispettata! Anche se attualmente non sono innamorato, vorrei esprimere la certezza che realizzare un rapporto d’amore so-

vado nei paesi dell’Europa Centrale: in Germania o in Nord Europa. Lì canto in Italiano e ogni tanto mi chiedo cosa convinca tante persone a seguirmi, ad appassionarsi alla mia musica pur senza afferrare il peso specifico di ciò che dico, e che per me è fondamentale. Evidentemente scatta una chimica, una attrazione quando si canta: meccanismi che non si riescono a comprendere razionalmente. È la magia della musica. La musica segue codici di comunicazione universali che nessuno capirà mai. Del resto quante delle persone che hanno comprato i dischi dei Beatles sono consapevoli delle cose talvolta profon-

Non sono innamorato, ma vorrei esprimere attraverso le mie canzoni la certezza che realizzare un rapporto d’amore solido è possibile, anzi accade tutti i giorni a tante persone

lido è possibile, anzi accade quotidianamente a tante persone. Italiano un po’ cosmopolita, lei ha avuto grande successo all’estero, soprattutto nei paesi di lingua spagnola. Nel mio caso è molto semplice: sono laureato in lingua spagnola e lo spagnolo è una delle passioni più grandi della mia vita. Quando scrivo una canzone la penso simultaneamente in castigliano. E non è un semplice processo di traduzione, perché spesso in lingua spagnola mi capita di trovare espressioni più efficaci di un sentimento, di uno stato d’animo. Del resto questa attitudine è una estensione della esistenza che conduco. Ho vissuto tre anni in Messico e nutro una passione viscerale per il mondo ispanico, latino-americano. Il problema della lingua diventa più complicato quando

dissime che il gruppo esprimeva. Evidentemente la musica riesce a toccare altre corde … Domanda complementare alla precedente: come è l’Italia vista dall’Inghilterra? È sempre il miglior Paese del mondo. Io ho scelto di stabilirmi per un certo tempo a Londra, di vivere un periodo di estraniazione dal mio mondo di origine, perché mi ero accorto che mi stavo un po’ perdendo in Italia: mi sentivo fuori control-

lo, condizionato più dall’esterno e da troppi impegni che non dalla mia effettiva volontà. Ho deciso allora di ritrovare la mia concentrazione distaccandomi in un luogo per me più sereno. Ma a parte questa esigenza non saprei trovare altri motivi per allontanarmi dall’Italia. In Xdono e Xverso Tiziano Ferro ha usato il linguaggio degli sms. In Rosso Relativo ha alluso al mondo delle chat nel quale le identità diventano fluide e si camuffano dietro maschere elettroniche. Sì, devo ammettere che qualche anno fa ero più tecnologico, più appassionato alle ultime novità nel campo della comunicazione. Ora non ho neanche la televisione in casa e provvisoriamente sono anche sprovvisto di e-mail: e ho scoperto che si vive meglio! Però magari legge. Lei ha una scrittura molto complessa. E di solito chi scrive così, legge anche. Mi piacerebbe leggere di più, l’ultimo che ho letto e che mi è piaciuto moltissimo si chiama Trilogia della città di K., di Agota Kristof, una scrittrice ungherese assolutamente affascinante. Ho trovato anche stupendo il libro di Paolo Giordano La solitudine dei numeri primi. Il primo successo del 2001 alludeva a un perdono implorato. Nel 2008 il testo di Alla mia età ancora ci si riferisce a «chi sa sempre perdonare». Effetti di una educazione cattolica? Il perdono è una delle cose più importanti. Ma essere educati al perdono è difficile perché richiede senso della responsabilità. Per chiedere e donare il perdono bisogna essere consapevoli dei propri limiti, delle mancanze che si sono commesse. Faticoso. Ma è l’unica via per avere un rapporto pacificato con il mondo che ci circonda: riconoscere a volte di aver sbagliato.


cultura

29 novembre 2008 • pagina 21

a vita della pittrice Franciska Stenius è legata alla Finlandia e all’Italia; la nascita a Roma e l’infanzia in Italia, le scuole in Finlandia e infine lo stabilirsi definitivamente in Italia. Queste sono le fasi decisive della sua vita. La ricerca della sua identità tra i due paesi, tra il nord ed il sud, ha inciso sulla sua arte in tanti modi. Del resto tutta l’arte di Franciska Stenius è profondamente legata alla sua vicenda personale. L’esperienza diretta è una sua caratteristica, che presenta spesso tratti da diario. L’impulsività e la forte vena espressiva sono tratti essenziali della sua natura artistica.

l’occhio. L’espressione è chiara e ben dominata, e non c’è, malgrado la sua attualità alcun ammiccamento alle mode correnti. Gli anni 1980 portarono grandi cambiamenti nella vita di Franciska Stenius. Il rapporto sentimentale si era consolidato ed era possibile il matrimonio. La vita familiare, la maternità a lungo agognata con la nascita del figlio occuparono la posizione principale della sua vita. Tuttavia le pressioni della carriera artistica da una parte e gli impegni della vita familiare e della amministrazione di una azienda agricola erano grandi.

L

Franciska Stenius ha realizzato quasi l’intera la sua produzione artistica a Roma. La luce meridionale è stata per lei necessaria. In Italia è riuscita a far splendere i suoi colori. I primi decenni in Italia sono stati caratterizzati dalla ricerca, dalle sperimentazioni e a volte dalle frustrazioni. I cambiamenti nella sua vita degli anni 1980, il matrimonio, la maternità e le nuove responsabilità, si rivelano nella sua arte in opere di piccolo formato e nell’osservazione del circostante ambiente quotidiano, ma anche in un arte più limpida della precedente. Di importanza primaria era comunque per lei fare l’arte in proprio. Negli anni 1968-69 nuovi segni entrano nei quadri. Dipinge spessi piani di colore, ispirati dai paesaggi di montagna appena accennati e tendenti all’astratto. Gli sperimenti materici di Alberto Burri, le masse di colore di Jean Dubuffet oltre ai lavori di Antoni Tapies e Jean Fautrier avevano ispirato gli allievi della scuola Franchetti a fare degli esperimenti propri. Avevano elaborato una tecnica con lo stucco e la tempera all’uovo unendo alla trasparenza del colore una forte matericità. Su

Arte. Gli esperimenti di Franciska Stenius, un po’ finlandese e un po’ italiana

Segatura, sabbia e pittura all’uovo di Timo Keinänen

Ha creato le sue opere prendendo ispirazione dal Sole del Mediterraneo e dal freddo gelo dell’Europa del Nord questi sperimenti Franciska Stenius fondava la sua tecnica. Per ottenere uno strato di colore spesso, mischiava al pigmento e all’olio segatura o sabbia. Le campiture ruvide così otte-

nute riempivano a grandi piani la tela in cui si poteva scorgere l’originario paesaggio. I lavori materici di questo periodo sono stati esposti nella sua prima personale in Finlandia nel 1970.

Ha presentato la sua seconda mostra personale nella Galleria Artek di Helsinki nella primavera del 1973, esponendo opere fatte a Roma. A.I. Routio ha cristallizzato le sue impressioni della mostra su giornale finlandese Uusi Suomi così: Franciska Stenius ha di

nuovo portato dall’Italia una serie di dipinti nella sua vecchia patria. Dal suo precedente modo di esprimersi sono cambiati i piani di colori unito in un espressionismo astratto dalle cui larghe forme penetrano a volte sintetizzate apparizioni umane. Gli accostamenti misurati ed efficaci giocano sempre un ruolo importante. L’artista macina essa stessa i suoi colori e li spalma su una supporto ruvido, limitandosi in genere ad accostamenti di colori semplici che colpiscono

In questa pagina, alcune delle opere della pittrice finlandese, ma di adozione italiana, Franciska Stenius. Nella sua opera omnia, diversi esperimenti a base di segatura, tempere all’uovo e sabbia

L’arte si concentrava allora sul disegno, che per tutta la vita è stata per lei un’espressione spontanea. Osservava disegnando il suo ambiente quotidiano, e ne studiava la vita di tutti giorni. «Disegnare un paesaggio è un modo di amarlo e capirlo senza togliere niente a nessuno. Porterò sempre con me tutte le luci e le cose che ho disegnato, credo anche nell’aldilà». Il passaggio del millennio è stato per l’artista un periodo difficile. Tra altre peripezie la lunga ed inevitabile fine dei genitori ha rimandato i pensieri ai momenti felici vissuti con loro. Nelle sue opere invernali Franciska Stenius ha seguito la strada indicata dal maestro finlandese Pekka Halonen (1855-1933). Il ghiaccio del lago o il campo agricolo, ricoperti dalla neve, riempiono gran parte del quadro. L’orizzonte è alto, si intravede il profilo scuro della foresta. Le luci della neve splendono di un blu pallido o nei toni rossastri della sera. Franciska Stenius ha raffigurato il silenzio dell’inverno finlandese come un istante immobile, ma a volte anche come il vortice di una ventata di neve. La serie di paesaggi invernali iniziata già negli anni 1970 nel passaggio del millennio acquista un nuovo significato. «L’inverno che copre la vita sotto il suo manto bianco, diventa per me un tema importante» scriveva l’artista diventando le pitture invernali parte della sua elaborazione di un lutto. I campi bianchi della neve diventano simboli di purezza e santità. Tra queste opere di commiato l’opera più incisiva è la visione sul ghiaccio del lago, spaccato in superficie da lunghe crepe. Quando Franciska Stenius, passati gli anni di lutto, ritorna ai suoi motivi invernali, essi si schiariscono, sparisce il bordo scuro, fina a trasmettere la quiete del inverno e la purezza della neve.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale

da ”le Figaro” del 28/11/2008

Crollo di consensi per Angela di Pierre Rousselin er il cancelliere tedesco, Angela Merkel, le cose sono andate bene a lungo. Era riuscita a destreggiarsi con perizia, puntellando la grosse koalition e venendo a capo di puzzle politico difficilissimo. Il Paese era in crescita, una vera locomotiva mondiale delle esportazioni, non si vedevano nubi all’orizzonte del cancellierato. Angela era sempre al di sopra della mischia, arbitro e decisore politico. Per tre anni tutto è andato per il meglio, è stata adulata all’estero e rispettata nel Paese.

P

Poi è arrivata una crisi di cui nessuno poteva prevedere l’ampiezza e la gravità e la Merkel sembra non sia ancora cosciente della sua vera portata. Presa in contropiede dalla crisi finanziaria che ha coinvolto numerosi istituti bancari considerati solidi, si oppone fermamente a qualsiasi piano di salvataggio di respiro europeo. Producendo un momento d’esitazione, quando invece servirebbe rilanciare con forza l’economia delVecchio continente. Dove il parere di tutti è allineato sul «presto e bene». Si dimostra indecisa e spesso in contraddizione con affermazioni da lei fatte in precedenza, proprio nel momento meno opportuno, dove servirebbero decisionismo e chiarezza. La stampa tedesca l’ha messa sotto pressione, così pure i partner europei. Anche all’interno del suo stesso partito, sul proscenio del congresso annuale che si sta svolgendo a Stoccarda, il disincanto nei suoi confronti è palpabile. Nel 2007, da poco al timone del governo, ha aumentato l’imposta Iva, e oggi si rifiuta di ridurla, al contrario di ciò che ha appena deciso il governo inglese per dare sollievo immediato alle imprese britanniche. Un disallineamento delle accise che non è pensabile all’interno di un mercato unico, soprattutto in un periodo

di recessione. La destra tedesca e le imprese vorrebbero che facesse questa scelta, come pure che imboccasse una politica d’allentamento delle imposte sul reddito, per rilanciare i consumi. Angela Merkel non se ne cura e continua nella difesa dell’ortodossia fiscale che fin qui seguito. Anche se il ministro delle Finanze, Peer Steinbrueck (Spd) aveva pianificato uno sforamento del bilancio del Bund a 8 miliardi di euro, poi levitati fino a 18,5 miliardi. Il mercato dell’auto è entrato in una spirale di crisi che sembra irreversibile. ll Patto di stabilità europeo è vitale, la politica di stabilità è irrinunciabile, ma non al prezzo di mettere in pericolo la stabilità politica e sociale dei nostri Paesi. Ecco l’appello lanciato col presidente francese, Nicolas Sarkozy, a poche ore dall’atteso annuncio del Piano della Commissione europea per una moratoria sul deficit e aiuti all’economia, che potrebbe sembrare un’apertura all’ortodossia. Angela però non vuol seguire la politica di Gordon Brown che sta attenuando la pressione fiscale sui cittadini di Sua Maestà. Non ha dunque alcuna importanza che il mondo sia ad un passo dalla peggiore crisi economica da quella del 1929, sull’orlo di una depressione economica senza precedenti, il pareggio di bilancio va mantenuto. Non importa quanto sia importante il coordinamento con gli altri Paesi, garanzia per una migliore riuscita delle politica di contrasto alla crisi, sembra che la Germania della Merkel abbia abbandonato ogni ambizione europea.

Dimenticando forse che la Germania è il cuore del Continente. Intanto i socialdemocratici restano divisi ed esitano anche loro, non sanno se guardare al centro, ma non vogliono alleanze con la sinistra della

nuova formazione del Der Linke. Servirebbe una maggior capacità d’adattamento alla situazione, il carisma e la popolarità sufficienti da spendere, per convincere i tedeschi sulle scelte da portare avanti, non le mancano.

In un recente sondaggio promosso da quotidiani internazionali come l’International Herald Tribune, l’istituto Harris Interactive e France 24, risulta al primo posto per influenza, precedendo addirittura un personaggio come il Dalai Lama e Nicolas Sarkozy. Il termometro di «World leaders» è un’inchiesta realizzata in sei Paesi: Germania, Spagna, Stati Uniti, Francia, Italia e Gran Bretagna. È dunque una valutazione credibile del feeling dei cittadini europei. Occorre dunque solo maggior decisione e sarà questa la sfida per la Cdu e per il cancelliere tedesco. Angela Merkel dovrà dare al Paese e ai tedeschi una visione del futuro chiara, che possa reintrodurre la parola fiducia nel vocabolario corrente. E far pensare che la strada per il superamento della crisi sia quantomeno imboccata.

L’IMMAGINE

Prevenire il rifiuto è sicuramente più ecologico della raccolta differenziata

Corna salvavita

Perché si insiste sempre e solo sulla raccolta differenziata e mai sulla ben più ecologica prevenzione del rifiuto? Il riciclaggio (e dunque una buona raccolta differenziata che sta a monte di un buon riciclaggio) è solo una seconda scelta. Come per il risparmio energetico (“l’energia più pulita è quella che non consumiamo”), il miglior rifiuto è quello prevenuto, non quello riciclato. Il riciclaggio comporta sempre una perdita di energia e materiali: l’oggetto o imballaggio usa e getta è stato comunque prodotto, imballato, trasportato, venduto... I rifiuti, dunque, sono un errore di sistema. Un errore compiuto dal sistema produttivo e commerciale, che non dovrebbe creare né vendere imballaggi od oggetti usa e getta, ma anche dai cittadini, che non dovrebbero comprare né usare imballaggi o oggetti usa e getta. Obiettivo molto lontano a vedere gli sprechi e lo shopping compulsivo di ogni bene (anche al di sopra delle proprie possibilità finanziarie) di cui soprattutto la società italiana è afflitta oggi.

Questa femmina di ragno - lunga una decina di millimetri - vive nel sud-est asiatico e appartiene alla famiglia dei Gasteracantha. Un clan allargato di aracnidi, dotati di corna o anche di variopinte corazze decorate da spine di ogni forma e dimensione: una specie di assicurazione sulla vita

Marta Pelini

ABOLIAMO LE PROVINCE Sono molto contrariato dalla scelta governativa di lasciare in vita le Province, carrozzoni amministrativi inutili, che hanno pochi compiti e che sono, senza ombra di dubbio, un’enorme fonte di sprechi e di clientele. E non solo non sono state abolite, addirittura se ne istituiscono delle nuove. Altro che grandi risparmi!

Dario Allegro

ANCHE LE NOCCIOLE (TURCHE) POSSONO FAR DANNI Non è possibile che tutto il settore dell’agricoltura dipenda dal commercio delle nocciole turche. Attualmente i nostri produttori sono succubi degli industriali e dei commercianti che fanno cartello contro di loro. Il governo deve interve-

nire. Propongo che l’agricoltura sieda allo stesso tavolo degli industriali. Non dimentichiamo che la prima industria è l’agricoltura.

Tonio Ferrara

LA SCUOLA DEI SOMARI Nella trasmissione “Chi vuol essere milionario”, davanti a uno sconcertato Jerry Scotti, uno studente universitario sardo non sapeva se la parola “addizione“ si dovesse scrivere con una o due “zeta”, tanto da ricorrere all’aiuto del computer per superare... l’ardua prova. E poi scioperano contro la Riforma Gelmini!

Gian Giacomo Giuli - Roma

PUNTI PREMIO PER GLI SPAZZINI VOLONTARI Ho visto in tv che un imprendito-

re del Nord compra l’immondizia a peso dai compaesani, a patto che sia differenziata ed impacchettata. Se un privato lo fa, vuol dire che guadagna rivendendola. Propongo ad Alemanno, mio sindaco, di fare una prova. Ad Acilia e a Ostia ci sono dei centri di raccolta del materiale di scarto dove si potrebbe attuare un esperimento. Se i cittadini portassero lì l’im-

mondizia, potrebbero esser loro accreditati dei punti, proporzionati al peso e al valore tabellare della merce. Punti da utilizzare poi come buoni sconto da scalare nel pagamento della tassa capestro, che usualmente sborsiamo per avere un pessimo servizio. Da questo metodo trarrebbero guadagno il Comune (due volte: abbattimento costi nella raccolta e

guadagno dalla rivendita), i cittadini (invogliati a risparmiare) e la città, privata di molti cassonetti maleodoranti. Ovviamente questa idea è estendibile a tutto il territorio nazionale e, conoscendo la passione degli italiani per i punti premio, penso che molti cittadini si trasformerebbero in operatori ecologici volontari.

Roberto Pepe


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog LETTERA DALLA STORIA

Mi consola il pensare: «È proprio finito ogni guajo!» Cara Luisa mia, quando due persone riconosciute oneste asseriscono l’una il bianco, l’altra il nero sul medesimo fatto, parrebbe che non vi fosse più modo d’intendersi: eppure: non è così. Se queste due persone hanno cuore indulgente, e volto alla pace pensano ognuno dell’altra: «Il suo errore nasce dall’intelletto, e non da cattivo volere» ed allora ogni mala impressione si cancella e la concordia ne nasce come conseguenza necessaria. E così deve accadere nel nostro caso. Anch’io dunque, non rammentando che gli ultimi periodi della tua lettera, dico: «Al passato non ci si pensi più, e riconosciamo ambedue che non è accaduto nulla che debba alterare la nostra stima reciproca, né l’amore che ci siam sempre portato, e che è rimasto intatto, come rimane il sole quantunque una nuvola gli sia passata innanzi». In questa lettera ho deciso che non volevo più entrar in nulla perché mi dà consolazione il pensare: «È proprio finito ogni guajo!». Siccome però credevo necessario toglierti dall’animo certe nebbie su due punti ne ho scritto al prevosto, che te ne parlerà esso. Ora Luisa mia, non pensiamo noi due che a rallegrarci della idea d’un avvenire lieto, tranquillo, quale deve essere tra due persone che alla fine non hanno poi né vizi né delitti da rimproverarsi. Non vedo l’ora di abbracciarti e lavorare e dipingere e giocare a bigliardo e far chiacchiere. Massimo d’Azeglio a Luisa Blondel

ACCADDE OGGI

FEDERALISMO E INNOVAZIONI ISTITUZIONALI Prendo spunto dal tema del Convegno di liberal di Cerignola:“Dall’Unità d’Italia al Federalismo” per dare un mio piccolo contributo. È aperta oggi in Italia una sfida che riguarda la modernizzazione del Paese, dal centro alla periferia. Occorre non semplicemente rafforzare gli strumenti del decentramento o i poteri delle Regioni, delle Province e dei Comuni; occorre introdurre un corpo di innovazioni istituzionali che – dalle competenze decentrate all’autonomia fiscale all’assetto organizzativo della pubblica amministrazione – consenta un rinnovamento radicale dei poteri e delle istituzioni e l’affermazione di una nuova classe dirigente locale. Federalismo, dunque, per uno Stato più moderno, più efficiente, più giusto. Ecco perché il federalismo è per davvero, e anche costituzionalmente, la sola ed unica via d’uscita obbligata per l’attuale crisi dello Stato. Si deve affermare una responsabilità dei poteri intermedi rispetto al centralismo statale, e quindi delle comunità locali. La scelta federalista diventa lo strumento utile e necessario a qualificare i vari contesti produttivi, una“via alta”alla competitività ed anche il canale di una nuova programmazione dello sviluppo economico nazionale e locale. Con la consapevolezza che una riforma di questo tipo rappresenta una vera e propria“rivoluzione”democratica, nel modo di concepire lo Stato e la sua articolazione periferica, e di gestire le risorse pubbliche e la loro redistribuzione.

Angelo Simonazzi

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)

29 novembre 1929 L’ammiraglio statunitense Richard Byrd sorvola il Polo Sud 1944 Seconda guerra mondiale: l’Albania viene liberata dall’occupazione tedesca 1947 L’Assemblea generale delle Nazioni Unite vota per la partizione della Palestina tra Arabi ed Ebrei 1954 Il principale punto di immigrazione del porto di New York, a Ellis Island, chiude 1963 Il presidente statunitense Lyndon B. Johnson istituisce la Commissione Warren per investigare sull’assassinio di John F. Kennedy 1967 Guerra del Vietnam: il segretario della difesa statunitense Robert McNamara annuncia le sue dimissioni 1981 Al largo dell’isola di Santa Catalina, la 43enne attrice Natalie Wood affoga in un incidente nautico 1990 Guerra del Golfo: il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite autorizza l’intervento militare in Iraq, se la nazione non ritirerà le sue forze dal Kuwait e libererà tutti gli ostaggi stranieri entro il 18 gennaio

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Francesco Rositano, Enrico Singer, Susanna Turco Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio,

UN INVITO PER BRUNETTA Vivo in una cittadina che fra le sue tipicità, come l’acqua oligominerale, la ceramica a lustro e l’ottimo olio d’oliva, ne ha una particolare: 40 anni fa ha avuto tanti impiegati all’Alitalia. Questa “tipicità privilegiata” durò diversi anni e ci deve essere stata anche in altri luoghi, viste le tante assunzioni. Nello stesso periodo, in attesa della cassa integrazione per la chiusura dell’azienda dove lavoravo, per vivere andavo nei cantieri a vendere piastrelle di ceramica. Me la sono cavata. Non so, però, come avrei reagito se avessi avuto diritto a 7-8 anni di cassa integrazione!Trasformare un periodo di giusto aiuto in una pensione di fatto è ingiusto e controproducente. Sono preoccupato per quello che succederà ai prossimi disoccupati. Il sindacato è allo sbando e il governo, per favorire amici imprenditori con annesso ministro ombra, si comporta come se, non dico l’etica, ma il semplice buon senso fosse “un in più”. Pur di mantenere una promessa elettorale, il “Silvio nostro” ha dovuto subire ricatti da tutte le parti in causa. A Chianciano ho ascoltato volentieri il ministro Brunetta al quale vorrei chiedere a quanti fannulloni equivale questo piano Alitalia. Siccome lo considero una persona perbene, competente e mi piace la sua voglia di modernizzazione, vorrei invitarlo a visitare la bellissima mostra della ceramica “a lustro” del maestro Alfredo Santarelli. Una bruschetta con l’olio nuovo ed un buon “rosso”per non pensare ai dispiaceri.

dai circoli liberal

LO SPIRITO GIUSTO PER LE COSTITUENTI Superate le ultime diffidenze interne, è entrata oramai nel vivo la formazione delle Costituenti regionali per l’Unione di centro. Ad oggi regioni come la Campania, la Puglia e ben presto anche il Veneto, l’Umbria, l’Emilia Romagna, il Lazio sperimenteranno questo nuovo modo di stare insieme e di avviare un processo costituente democratico e partecipativo, dal quale far nascere il nuovo partito unico dei moderati, cristiani e liberali italiani. In Campania, dove il coordinatore della Costituente è l’onorevole Ciriaco De Mita, questo processo ha già dato vita e insediato i primi comitati provinciali per raccogliere adesioni e promuovere il nuovo soggetto politico. Lo spirito con cui le Costituenti regionali e i comitati che man mano si andranno a formare sui singoli territori, così come è stato più volte sottolineato a livello nazionale, deve essere inclusivo, partecipativo e soprattutto volto in questa fase solo ed esclusivamente alla promozione del nuovo soggetto politico. Pertanto i comitati promotori e chi li rappresenta non sono di per sé organi precostituiti ma solo ed esclusivamente uomini e donne “di buona volontà” che si impegnano a livello nazionale, regionale e territoriale per promuovere, far conoscere e coinvolgere quanta più gente possibile sulla idea politica progettuale che movimenti come il nostro, quello di Pezzotta, quello di De Mita e l’Udc di Casini hanno voluto sintetizzare alle ultime elezioni politiche nel partito dell’Unione di centro. Questo ci dice anche un’altra cosa e ci dà la conferma che l’aver sopravvissuto allo tzunami che ha spazzato via i partiti minori dal Parlamento italiano non è stato il partito dell’Udc “convivente” nella Casa delle Libertà ma il nuovo, diverso e più ampio progetto politico rappresentato dall’Unione di centro. Se questo è, tutti insieme, unitamente al lavoro che stanno svolgendo i nostri rappresentanti in seno al Parlamento italiano, dobbiamo amplificare e portare in ogni angolo della società le ragioni, la storia, la cultura di un progetto e di un partito che guarda al futuro al di là del finto e inopportuno bipartitismo all’italiana. Vincenzo Inverso SEGRETARIO ORGANIZZATIVO CIR COLI LIBER AL

APPUNTAMENTI MARTEDÌ 2 DICEMBRE - ORE 14 ROMA - PRESSO LA SEDE DELLA FONDAZIONE Riunione nazionale dei Coordinatori Regionali dei Circoli liberal ORE 16 - ISTITUTO LUIGI STURZO ROMA - VIA DELLE COPPELLE, 35 “L’era del capitalismo democratico”: lezione di Michael Novak e interventi di Ferdinando Adornato e Rocco Buttiglione

Dino Mazzoleni - Gualdo Tadino

Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30



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