ISSN 1827-8817 81205
Chi è nato per obbedire, con ogni probabilità obbedirebbe anche sul trono
he di cronac
Luc De Vauvenargues
9 771827 881004 QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA
di Ferdinando Adornato
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
L’Europa tra fede e politica secondo l’ex presidente della Cei
UNA CAMPAGNA MONDIALE Cominciano le celebrazioni (un po’ retoriche) della giornata internazionale dei diritti dell’uomo. Due Nobel per la pace lanciano un appello per passare dalle chiacchiere ai fatti: l’Onu non si opponga alla condanna del presidente del Sudan per le stragi nel Darfur
Liberali e cristiani: la strada è la stessa di Camillo Ruini l libro di Marcello Pera Perché dobbiamo dirci cristiani. Il liberalismo, l’Europa, l’etica è decisamente importante in sé ed è ancora più importante per la lettera inconsueta che Benedetto XVI ha scritto al suo Autore. Si può dire che è un libro a tesi, in senso positivo, in quanto sostiene una posizione dichiarata con chiarezza fin dall’inizio e poi argomentata attraverso tutte le pagine. Già nell’introduzione Marcello Pera scrive: «La mia posizione è quella del laico e liberale che si rivolge al cristianesimo per chiedergli le ragioni della speranza». La conclusione di tutto il percorso, e anche di ciascuno dei tre capitoli in cui il libro si articola, è quindi che «dobbiamo dirci cristiani»: una conclusione forte e in buona misura contro corrente, cosa di cui l’Autore è ben consapevole. Il libro si colloca pertanto dentro al grande dibattito riguardo al cristianesimo che attraversa da alcuni anni, con nuovo vigore, tutto l’Occidente.
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Incriminate al-Bashir! di Jody Williams e Shirin Ebadi Un partito travolto dai nodi irrisolti
Questione morale e identità: il Pd è già finito? di Renzo Foa l partito democratico è stretto in un vero e proprio assedio. Una serie di inchieste della magistratura - in Campania, a Firenze e altrove - sta aprendo la questione morale a sinistra, proprio da dove sono piovuti venti anni di lezioni sul quadro politico e sulla pubblica opinione. Perdipiù, con un giornale di area come il Riformista che da tempo guida e alimenta una campagna mediatica. C’è poi, come mai in questi mesi, un pressing su Walter Veltroni che ha dovuto intervenire ieri con un’intervista a tutto campo sul maggiore dei giornali amici, la Repubblica, per rompere il silenzio e finalmente rispondere ai suoi critici.
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Moschee: il Vaticano contro la Lega
alle pagine 2 e 3
di Francesco Rositano a pagina 7
Il vicepresidente del Csm, tirato in ballo da De Magistris, minaccia le dimissioni
“Why Not”, è guerra di Stato Napolitano chiede gli atti dell’inchiesta che coinvolge Mancino di Francesco Capozza
ROMA. Sull’inchiesta Why Not inche «suscita inquietanti interrogatiterviene il presidente della Repubvi». Viene inoltre paventato il riblica. Un nuovo capitolo della vicenschio di «paralisi della funzione da De Magistris si è infatti aperto ieprocessuale». Marra ha chiesto, ri con l’intervento del capo dello dunque, atti e informazioni al proStato Giorgio Napolitano che ha ricuratore Lucio Di Pietro su preciso chiesto atti e informazioni al procumandato del capo dello Stato con ratore generale presso la Corte di una lettera in cui si dice che «la appello di Salerno. La discesa in Procura della Repubblica presso il campo del Quirinale avviene all’inTribunale di Salerno ha effettuato Il presidente Napolitano ha chiesto domani della decisione di sequeieri perquisizioni e sequestri nei strare atti di inchieste condotte dal- di avere gli atti dell’inchiesta «Why Not» confronti di magistrati e uffici della l’ex pubblico ministero della procuProcura Generale presso la corte di ra di Catanzaro Luigi De Magistris, ora in servizio a Na- Appello di Catanzaro e della Procura della Repubblica poli. Il Colle, in una nota ufficiale parla di una «vicenda presso il Tribunale di quella città». senza precedenti, con gravi implicazioni istituzionali» e s eg ue a p a gi na 6
VENERDÌ 5 DICEMBRE 2008 • EURO 1,00 (10,00
CON I QUADERNI)
• ANNO XIII •
NUMERO
234 •
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• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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Campagna mondiale. Celebrare la Carta dei diritti dell’uomo è doveroso. Ma è giusto farlo solo a parole?
Onu, ultima chiamata
Davanti alle tante tragedie mondiali, il Palazzo di Vetro cede troppo spesso alla real politik. È ora di passare ai fatti di Luisa Arezzo e Vincenzo Faccioli Pintozzi diritti umani vivono una perenne contraddizione fra le proprie premesse e ambizioni universali e la capacità pratica, molto limitata, di realizzarle. Una tensione che si impiglia nella disputa “normativa”di chi li considera una questione interna su cui gli Stati sono sovrani (come la Cina) e chi li ritiene tema di politica estera (l’Occidente). Parlare di diritti umani, inoltre, implica un balance anche tra valori che sono morali e politici e regole stabilite dalla legge; tra principi che si proclamano e comportamenti
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Oltre a puntare il dito contro Guantanamo, si dovrebbe pensare a Corea del Nord, Darfur, Birmania. E tanti altri che spesso li contraddicono. Questa distanza tra teoria e pratica, come evidenzia Marcello Flores - è forse la principale debolezza dei diritti umani. Di quest’ultimi, poi, oggi si parla molto. Forse talmente tanto da dare vita, da un lato, a una retorica che svaluta il suo significato più pieno e dall’altro a un senso di frustrazione da parte di chi ascolta e legge. Tanto da far cambiare canale davanti a scene tragiche che non lo meriterebbero, tanto da far risultare indigesto anche l’annuale rapporto della principale istituzione che, del rispetto dei diritti umani, ha fatto il suo scopo primario: Amnesty International. Che a fronte di un personale sul campo di enorme competenza, di quella propaganda retorica di cui sopra ha fatto il suo cavallo di battaglia. Detto questo, è un dato di fatto che l’11 settembre 2001 ha sancito la fine di un momento storico favorevole ai diritti umani. Negli ultimi due decenni del XX secolo, infatti, la crescita dei Paesi democratici, o almeno dei regimi in cui elementi fondamentali per la democrazia (elezioni, partiti, libertà di stampa) sono stati resi possibili per la prima volta, è stata strettamente legata alla questione dei diritti umani. La
L’appello. Due Nobel per la Pace chiedono al mondo di intervenire
Ridate speranza al Darfur: incriminate al-Bashir di Jody Williams e Shirin Ebadi l 3 dicembre, il procuratore capo della Corte Internazionale di Giustizia Luis Moreno Ocampo ha parlato al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite delle sue indagini sui crimini commessi nella regione del Darfur. In particolare, della sua richiesta di incriminare il presidente sudanese Omar al-Bashir per genocidio e crimini contro l’umanità. Nell’interesse del popolo sudanese, il Consiglio potrebbe cogliere l’occasione per dimostrare pieno sostegno all’azione della Corte. Fin dal luglio 2008, quando la richiesta di incriminazione nei confronti di al-Bashir è partita, il Sudan ha fatto pressione su Onu, Unione Africana e Lega Araba per convincere gli altri Paesi che il livello di sicurezza del territorio del Darfur stava migliorando, che gli abitanti della zona stavano tornando a una“vita normale”e che dunque l’incriminazione di Bashir doveva essere rinviata.Secondo l’ambasciatore sudanese alle Nazioni Unite, il mancato rinvio dell’incriminazione «aprirebbe le porte dell’inferno in Sudan». Questa opinione riecheggia quella dello stesso presidente, che ha detto: se l’incriminazione verrà revocata, la violenza in Darfur diminuirà.
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In caso contrario aumenterà. Al-Bashir sta cercando di convincere il mondo che il Sudan ha bisogno di lui per arrivare alla pace – un’affermazione che farebbe ridere persino un osservatore occasionale della recente storia sudanese – e il suo governo sta nuovamente tenendo il Darfur in ostaggio. Questa volta il riscatto è il differimento dell’incriminazione. Dato che alBashir e il suo governo stanno nuovamente facendo leva sulla violenza contro il popolo del Darfur per influenzare le relazioni internazionali, almeno due temi meritano di essere evidenziati. Primo, la situazione in Darfur non sta
migliorando. Il Sudan ha unilateralmente dichiarato un cessate il fuoco a metà novembre, ma è ancora sotto indagine da parte dell’Onu e condannato dagli Usa per i bombardamenti e la distruzione dei villaggi. Secondo l’Osservatorio per i Diritti Umani, le forze sudanesi e le milizie sostenute dal governo hanno attaccato più di una dozzina di villaggi durante operazioni contro i ribelli vicino Muhaiariya, tra il 5 e il 17 ottobre 2008, uccidendo più di 40 civili. In agosto, il governo sudanese ha attaccato il campo profughi di Kalma, dove avevano trovato rifugio 90mila persone, con sessanta automezzi militari pesantemente armati, fucili e armi automatiche.
L’attacco ha fatto almeno 32 morti e più di cento feriti, e un mese dopo le forze di sicurezza governative hanno attaccato il campo di Zam Zam vicino el-Fasher, provocando anche qui molte vittime. Ci sono inoltre attacchi continui contro i volontari delle associazioni umanitarie nelle città controllate dal governo, l’uso dello stupro come tattica di guerra, l’ostruzionismo verso il dispiegamento delle forze di pace congiunte Onu-Unione Africana, e - nella parte settentrionale del Darfur - continuano i bombardamenti governativi e gli attacchi di terra da parte dei suoi alleati. Secondo, anche una significativa diminuzione della violenza in Darfur non giustificherebbe, da sola, un rinvio dell’incriminazione da parte della Corte Internazionale, e costituirebbe un pericoloso precedente. Dopo oltre cinque anni di orribile violenza e insicurezza, esodi e brutale violenza sessuale, la gente del Darfur merita più che i negoziati tra il capo del governo e quello dei ribelli, o il perdono reciproco per la violenza che è stata perpetrata principalmente contro le donne, i bambini e i non combattenti. La gente del Darfur merita giustizia e la Corte Internazionale pur non essendo l’unico mezzo - è l’unica strada attualmente possibile. Nulla dovrebbe offuscare l’imperativo di mettere fine all’impunità per i crimini in Darfur. La creazione della Corte Internazionale è un passo avanti significativo per il diritto internazionale, che ci ha messo più di cinquant’anni a istituirla. Con la sua portata globale ha il potenziale per prevenire o ridurre drasticamente le vittime e le distruzioni causate dai conflitti e dagli abusi di potere. Per questo politicizzare l’atività della Corte vorrebbe dire minare il suo potenziale, ed è questo il motivo per cui la comunità internazionale deve fare la cosa giusta e lasciare fare alla Corte il suo lavoro.
battaglia condotta dalle opposizioni nelle dittature militari in America Latina (le madri di Plaza de Mayo in Argentina), o quelle dei gruppi delle società civili e del dissenso in Europa orientale (come Solidarnosc), e ancora quella condotta dal carcere da Nelson Mandela in Sudafrica, hanno avuto come denominatore comune il rispetto dei diritti umani. Ma il 9/11 questo “trend” si è interrotto e quella data, oltre a segnare l’inizio della guerra al terrorismo, ha reso tutti più sospettosi e prudenti. Per evitare una deriva pericolosa, tante parole pochi fatti, c’è solo un antidoto. Focalizzarsi su alcuni casi limite e cercare di esercitare una pressione internazionale tesa alla loro risoluzione. È con questo scopo che i Nobel per la pace Williams ed Ebady hanno preso carta e penna e lanciato un appello per non fermare l’inchiesta della Corte Internazionale di Giustizia contro il genocidio in Darfur di Omar al-Bashir. Era il 2004, quando il mondo cominciò a sentir parlare di Darfur - la terra dei Fur - quando le case di tanti agricoltori furono bruciate dai «diavoli a cavallo»: i janjawid arabi filo-governativi che qualche funzionario Onu chiama «i mori» (30mila secondo alcune stime) si scatenarono contro gli zurgas, il termine dispregiativo per indicare i «negri», maggioranza discriminata che aveva osato sollevarsi contro il governo centrale (arabo) di Khartoum.
Con l’attenzione internazionale puntata sull’Iraq, infatti, nell’aprile 2003 i ribelli attaccarono il piccolo aeroporto distruggendo velivoli e uccidendo 50 soldati. Il governo reagì alla sua maniera. Quasi 5 anni, 200mila morti e 2,5 milioni di sfollati dopo, su quelle piste ci sono elicotteri Onu. Vanno e vengono inviati, capi missione. Sferruzza la diplomazia. Ma non srotola la matassa. È questa l’impotenza che non è più accettabile. È questa l’impotenza che può minare il sentimento etico e morale dell’opinione pubblica che - gioco forza - si abitua a cambiare canale. La stessa impotenza che si prova quando si parla della potente Cina, dove proliferano censura, lavori forzati, torture, repressione sociale e religiosa, annul-
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L’iniziativa del ministro degli Esteri, Franco Frattini
«In Italia un’authority per i diritti umani» di Guglielmo Malagodi
ROMA.
Parlare di diritti umani implica un balance anche tra valori che sono morali e politici e regole stabilite dalla legge; tra principi che si proclamano e comportamenti che spesso li contraddicono lamento dei diritti politici. Tanto per citare alcuni dei tratti caratteristici della Cina contemporanea che, pur uscendo dalle pastoie del maoismo, continua a giustificare le continue violazioni dei diritti umani che avvengono nel Paese con la sua enorme crescita economica. È proprio questo fattore, infatti, che tiene lontano dai confini dell’Impero di Mezzo gli ispettori delle Nazioni Unite e i volenterosi membri delle diverse Organizzazioni internazionali. Un gradino più sotto troviamo il Myanmar. Guidata da una giunta militare da oltre 40 anni, il Paese è un’enorme miniera di pietre preziose. Qui vengono a fare i loro acquisti i produttori di gioielli mondiali e i governi, che all’oro aggiungono i diamanti per fare fronte all’emissione di valuta. Qui, allo stesso tempo, la popolazione non ha diritti politici e sociali: pessima la situazione dei diritti umani, diffusa la tortura e l’uso dei lavori forzati per i dissidenti. Fra questi brilla Aung San Suu Kyi, leader della Lega per la democrazia, il partito che ha vinto con una valanga di voti le ultime elezioni libere tenute nel Paese e condannata agli arresti
Un gruppo di sfollati si ripara dal sole del Darfur, la regione del Sudan dove è in corso un massacro da oltre cinque anni. Secondo dati recenti, gli sfollati interni hanno superato gli oltre 5 milioni. Nella pagina a fianco, un villaggio attaccato in Somalia
domiciliari dalla giunta, che ha contestualmente annullato il risultato delle urne. La missione speciale dell’Onu, guidata da Ibrahim Gambari, non ha ottenuto nulla: davanti al ricatto di chiudere il rubinetto di gemme, ha vinto la realpolitik. La stessa che ha permesso al regime coreano di regnare da 55 anni. Definito “un lager a cielo aperto”, il Paese è noto per la totale mancanza di libertà. Guidata da Kim Jong-il, la Corea del Nord viola tutti i principi contenuti nella Carta dei diritti dell’uomo, che fra pochi giorni compirà 60 anni, e non cerca neanche di nasconderlo.
E che dire dello Zimbabwe, che proprio ieri ha lanciato un appello al mondo per l’immane epidemia di colera che sta devastando il Paese controllato dal regime, di Mugabe, che ha distrutto (fra l’altro) un intero sistema sanitario? E della Cecenia condannata da Eltzin prima e dal nuovo imperialismo russo di Putin poi? I diritti umani meritano di più del nostro sdegno impotente. Meritano l’attenzione dei governi e una politica che, seppur a piccoli passi, si muova davvero.
«Sessant’anni di diritti umani: cosa è cambiato?». È questo il titolo del convegno organizzato dalla Fondazione della Camera per celebrare il 60° anniversario (che cadrà il 10 dicembre) della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo”. Ospiti d’onore al convegno, il presidente della Camera, Gianfranco Fini, il presidente della Fondazione della Camera, Fausto Bertinotti, il ministro degli Affari Esteri, Franco Frattini, e la vicepresidente del Senato. Emma Bonino. «Quando è stata elaborata la Dichiarazione - ha ricordato Bertinotti facendo gli “onori di casa” era il tempo della speranza, si veniva dall’orrore delguerra,dalla la memoria di Auschwitz. Mentre oggi la paura ha preso spesso il posto della speranza, il futuro è vissuto come incerto, la crisi economica minaccia tanta parte delle popolazioni anche di questa Europa e la guerra e il terrorismo non sono stati ancora debellati». Secondo l’ex presidente della Camera, bisogna tornare «allo spirito della Dichiarazione del ’48 e ricercare quella connessione tra i diritti universali umani e i nuovi diritti che i tormentati nostri giorni ci propongono, affinché una stagione nuova si possa aprire». Bertinotti ha parlato di «una nuova generazione di diritti che vengono chiamati “diritti globali”», che si stanno proponendo «anche di fronte alla drammaticità della loro violazione in tanta parte del mondo: sono i diritti all’acqua, al cibo, ad un ambiente sano, alla cultura». Nel suo intervento, invece, Gianfranco Fini ha insistito sul fatto che c’è ancora molta strada da percorrere prima di considerare «vinta» la battaglia per i diritti umani. «L’ideale di una giurisdizione mondiale in
nome dell’umanità - ha detto il presidente della Camera - non è più un’utopia. L’idea di un tribunale internazionale trova la sua legittimazione morale e culturale proprio nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo». «Ritengo - ha aggiunto Fini - che sia carica di significato la coincidenza di ricorrenze tra il sessantesimo anniversario della Carta mondiale diritti umani e il sessantesimo anniversario della nostra Carta costituzionale. Questo patrimonio etico, culturale e politico deve impegnare il nostro Paese a continuare con determinazione e convinzione la sua azione di sostegno dei diritti umani e di promozione della pace nel mondo». Una risposta positiva, in questo senso, è arrivata dal ministro degli Esteri, Franco Frattini, che ha annunciato il progetto di «istituire in Italia un organismo nazionale indipendente per i diritti umani». «È un impegno ha ricordato il titolare della Farnesina - che prendemmo quando ci candidammo al Consiglio per i diritti umani ed è venuto il tempo di onorare l’impegno». Frattini sta predisponendo «uno schema di disegno di legge governativo» in cui l’agenzia italiana sarà un «punto di collegamento con l’agenzia europea per i diritti umani e gli organismi internazionali». Il ministero degli Esteri, inoltre, sta preparando la legge di adeguamento alla Corte penale internazionale (Cpi) che sarà in Parlamento tra breve, perché la mancanza di tale legge, a dieci anni dalla ratifica dello Statuto della Cpi da parte dell’Italia «è chiaramente un vulnus per un Paese che ha l’orgoglio di aver ospitato a Roma la conferenza per lo statuto costitutivo».
La Camera celebra il 60° anniversario della Dichiarazione Universale promossa dall’Onu dopo la seconda guerra mondiale
politica
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Cartellini gialli. I gruppi parlamentari del Pdl chiedono una cabina di regia per limitare il potere del ministro dell’Economia. Quattro anni dopo la storia rischia di ripetersi
Primo avviso a super Giulio Dietro l’insofferenza di deputati e senatori c’è la scomunica del premier: il Professore non potrà più fare tutto da solo di Errico Novi
ROMA. Gianfranco Fini ha fiutato il pericolo e si è rifugiato in un contegno istituzionale. Basta parlare di cesarismo, fine delle polemiche sulla scarsa democrazia interna nel nascente Pdl. La contraerea forzista è stata fin troppo esplicita nel suggerirgli di evitare lo scontro, d’altra parte i colonnelli di An sono stati i primi a disertare il fronte. Adesso tocca a Giulio Tremonti. Ha dettato legge, a colpi di decreti, con molta disinvoltura fino all’altro ieri. Ha già capito di essere finito nelle acque extraterritoriali, e di avere i ricognitori azzurri alle calcagna. È bastato il segnale inviato dal vicecapogruppo dei senatori, Gaetano Quagliariello. «Serve un momento di sintesi tra la maggioranza e il governo, una cabina di regia». Evocazione non casuale. È l’espressione coniata cinque anni fa proprio dall’allora vicepremier Fini, per dare un senso alle attese di ministri come Gianni Alemanno, e di tutta quella parte dell’esecutivo che vedeva in Antonio Fazio un nuovo punto di riferimento. Anche l’Udc si fece sentire perché il ministro dell’Economia lasciasse aperta una breccia nel suo inavvicinabile fortino. Stavolta è tut-
ROMA. Bruno Tabacci è in uno stato di grazia. «Da che Tremonti si è impegnato a venire più spesso in Parlamento a patto che io vada meno in video, non fanno altro che invitarmi a parlare in tv», ridacchia. Sarà forse per una sorta di riconoscenza mediatica, ma quando con il deputato centrista si tocca l’argomento della «cabina di regia», idea rilanciata due giorni fa da Gaetano Quagliariello sul Riformista, la reazione è inattesa. Soprattutto perché a parlare è uno dei più decisi critici dell’azione del ministro del Tesoro. Allora Tabacci, sta tornando di moda la «cabina di regia», coniata nel 2003 con l’obiettivo di ridimensionare Tremonti. Siamo al bis? Ma quale bis. Ma che remake. Ma dove vanno senza Tremonti? L’altra volta non
to diverso. Sono i luogotenenti azzurri a trasmettere al Professore di Sondrio l’avviso di garanzia. Ma lo fanno in nome e per conto di Palazzo Chigi. È Silvio Berlusconi a trovare intollerabile lo spazio di potere conquistato da Tremonti. E per rappresentargli il proprio disappunto ricorre alla più classica delle liturgie in Forza Italia. Fa in modo che il destinatario percepisca
Nessuno scontro frontale, secondo la tradizione forzista: sarà il progressivo isolamento a ridimensionare Via XX Settembre un’insofferenza generalizzata, senza scaricargli addosso il peso di una scomunica frontale. Giulio capirà lo stesso.
Dalle parti di via dell’Umiltà nessuno si permette di prendere un’iniziativa così importante senza aver ricevuto precise indicazioni dal presidente. Nell’intervista pubblicata ieri dal Riformista
Quagliariello ha evocato un malumore comune a tutti i parlamentari della maggioranza, scatenato dallo squilibrio nei rapporti con il governo, che dà ordini e lascia solo il tempo di schiacciare i bottoni. La recriminazione in realtà non è indirizzata verso il vertice dell’esecutivo, ma solo al superministro dell’Economia. E l’espressione “cabina di regia” è scelta appunto in modo non casuale: serve a ricordare proprio la disavventura del 2004, quando Giulio fu costretto a dimettersi per le pressioni degli alleati, ma anche per la scarsa resistenza opposta dal Cavaliere. Il messaggio dunque è chiaro: la storia può sempre ripetersi, i rapporti di forza non sono cambiati.
Nei gruppi parlamentari del Pdl non è facile trovare qualcuno che sia disposto a morire per Giulio. La partita a distanza con Berlusconi è già persa, ora tocca a lui fare un passo indietro, ridimensionare le proprie ambizioni, riununciare soprattutto alla pretesa di essere il vero artefice della politica del governo. Deve rientrare nei ranghi sia sul piano mediatico che dal punto di vista strettamente politico. Tra gli azzurri c’è già chi azzarda paragoni inquietanti: «A Tremonti toc-
Con la richiesta di una “cabina di regia” avanzata da Gaetano Quagliariello nell’intervista rilasciata al Riformista, Berlusconi ha fatto intendere a Tremonti che non gli consentirà di coltivare ambizioni da leader. L’incidente sull’Iva per Sky è solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso e spinto il premier a fermare la corsa del Professore di Sondrio cherà la stessa sorte di Marcello Pera e Beppe Pisanu. Finirà emarginato, o al massimo gli toccherà la presidenza di una commissione, nemmeno quella della Camera», dice un deputato che pure si dichiara tra i pochi ad avere simpatie tremontiane ma che chiede di non essere citato per evitare contraccolpi irreparabili. «È così, c’è poco da fare, Giulio potrebbe ritrovarsi a fare il presidente della commissione Bilancio. Quando si entra in rotta di
collisione con il capo non si arriva lontano». Figuriamoci cosa ne pensano quelli che per Tremonti nemmeno dichiarano di avere simpatia.
Un primo serrato confronto tra il gruppo del Senato guidato da Gasparri e Quagliariello e il ministro dell’Economia è andato in scena mercoledì sera. C’era anche il ministro del Welfare Maurizio Sacconi. Già in quella sede è stato chiesto un migliore coor-
Bruno Tabacci, la politica economica del governo e gli avvertimenti del Cavaliere
«Cabina di regia? Allora, meglio Tremonti» colloquio con Bruno Tabacci di Susanna Turco sono andati da nessuna parte, tant’è che se lo sono dovuti riprendere. E stavolta? Sappiamo già che l’idea non porta bene. E in generale lascia intendere che dentro la coalizione ci sono dei problemi. Troppo potere al titolare dell’Economia? Si vede che Berlusconi avrà cominciato a pensare a come ridimensionarlo. Un’idea come questa non può che partire da quegli ambienti. Quindi? Se è questo, una trovata del Cavaliere, Tremonti deve
preoccuparsi. Se invece è un’iniziativa che nasce in maniera giocosa... Giocosa? In quel caso è velleitaria. Ridimensionare per fare che? Quali sarebbero le alternative? Una cabina di regia, che riequilibri... E chi ci mette, nella cabina: Ignazio La Russa? Tremonti ne viene fuori un gigante. Quagliariello dice che non può andare che il governo decide e i parlamentari schiacciano bottoni... Eh no. Invece è proprio così.
Con buona pace di Quagliariello, i deputati sono deputati a schiacciare pulsanti. Come i senatori, del resto. Che altro vorrebbero fare? Una «camera di compensazione» che... Coi parlamentari nominati? Ma figuriamoci. Sarebbe una finzione inutile. Meglio tenersi il colbertista? Tremonti è il miglior uomo di governo che hanno. È diventato di botto un suo fan? No. Ma gli riconosco delle qualità.Tenta di darsi una strategia di governo, cosa che a
politica
25 novembre 2008 • pagina 5
Monete. Riduzione dello 0,75%. Ora è ufficiale: recessione europea
Euro meno caro Trichet taglia i tassi di Alessandro D’Amato
ROMA. Una via di mezzo tra chi chiedeva una la Bce giudica «essenziale mantenere la discicura da cavallo, e le abitudini consolidate. La Banca Centrale Europea, come ampiamente annunciato, ha tagliato i tassi di tre quarti di punto in un solo colpo, portando l’interesse al 2,50%, mentre il tasso marginale scende di 0,75 punti al 3% e quello sui depositi al 2%. Nello stesso giorno, la Bank of England ha fatto di più, abbassando di un punto percentuale il costo della sterlina, e arrivando al 2%. Eurolandia ritorna così al livello di maggio 2006 per il costo del denaro, e per la prima volta dalla fondazione decide un ammontare così ampio del taglio.
dinamento tra i tempi del governo e la necessità del Parlamento di discutere i provvedimenti. Ieri Gasparri ha fatto una previsione: «Non credo che sul decreto anticrisi potrà esserci la fiducia». Anche questo è un segnale. I provvedimenti messi a punto da Via XX Settembre non usciranno mai più dall’aula immacolati com’erano. È il riscatto dei parlamentari dopo mesi di invisibilità? No, è il primo argine allo strapotere di Giulio. Adesso a Berlusco-
Berlusconi non passa neanche per l’anticamera del cervello. E allora perché lo critica? Lo critico quando non riesce a portare la coalizione su linee ragionevoli. Ora viene in Commissione, mette l’abito dell’agnello... e però in questi mesi la sua coalizione è andata avanti a colpi di fiducia e di decreti: come si fa a chiedere all’opposizione di dare una mano? Non si saprebbe nemmeno da dove cominciare. È chiaro che lui serve un equilibrio politico che finora non ha saputo trovare. Perché? Tremonti è anche bravo, ma è prociclico. Quando cose vanno bene, sorride e induce all’allegria. Quando vanno male stringe i cordoni ancora di più. Che dovrebbe fare invece? Smettesse di dire che lui aveva previsto tutto, per cominciare.
ni interessa ristabilire gli equilibri piuttosto che fissare nuovi record di velocità nella conversione dei decreti. Il fatto che Gasparri si mostri scettico sulla questione di fiducia non vuol dire però che An sia compartecipe, come quattro anni fa, della strategia di isolamento. A Via della Scrofa sanno che stavolta è meglio tenersene fuori. In gioco c’è una questione di potere che riguarda solo Palazzo Chigi e il ministro dell’Economia.
Eppoi, al suo posto io prenderei atto che stiamo andando incontro a una gelata di proporzioni gigantesche e, per esempio, rafforzerei la strumentazione degli ammortizzatori sociali, che va allargata anche ai precari, compensando i forti stanziamenti necessari con un intervento sulla curva della spesa previdenziale, che affronti il nodo dell’età pensionabile. Invece? Tremonti ha seguito il capo sull’idea di annunciare una finanziaria da ottanta miliardi, per dire. E la social card? L’accordo governo-Abi di quest’estate? Il blocco delle tariffe? Alitalia? Sky? Ma lasciamo perdere. Ci vorrebbe il coraggio di una visione globale. Ma il problema di fondo è l’ombra del Cavaliere, dei suoi affari, che si staglia su tutto e mette in difficoltà anche i più bravi.
«Il livello di incertezza resta ancora alto, ci sono forti rischi di un’ulteriore contrazione dell’attività economica» ha detto Jean Claude Trichet nella rituale conferenza dopo la riunione del board. Il presidente della Bce ha anche insistito sul fatto che l’inflazione non è più un problema – «I rischi per la stabilità dei prezzi sono ora più bilanciati che in passato» – e questo ha permesso a Francoforte di essere più libera nel taglio che tutti auspicavano. Trichet non si è voluto sbilanciare sulle scelte di gennaio, probabilmente sperando che gli indicatori economici del nuovo anno mostrino una realtà migliore rispetto a quella di oggi. Ha invece concentrato l’attenzione su altro, lanciando precisi segnali ai governi: «Non bisogna fare confusione tra disinflazione e deflazione. E al momento non ci sono indicazioni dai prezzi al consumo e da altri dati che c’è un fenomeno di deflazione», ha dichiarato, spegnendo così il fuoco delle dichiarazioni allarmistiche. Ha invece spronato gli esecutivi: «I Paesi membri attuino le misure anti crisi annunciate rapidamente ed in modo equilibrato, per contribuire a riportare la fiducia sul sistema finanziario ed evitare frenate nella fornitura di credito alle imprese e alle famiglie». Sul fronte della politica di bilancio,
plina e una prospettiva di medio termine, tenendo pienamente conto delle conseguenze che tutte le azioni di breve termine possono avere sulla sostenibilità dei conti pubblici è importante salvaguardare la fiducia dei cittadini sulla solidità delle politiche di bilancio applicando in modo integrale il quadro Ue fondato su regole». Detto questo, l’analisi monetaria non contiene novità rispetto alla precedente riunione Bce. Il fatto che ci siano le condizioni per reagire alla recessione e alla sfiducia è dimostrato (almeno finora) dall’andamento dei prestiti al settore privato non finanziario: la crescita è moderata, ma non c’è credit crunch. «Per l’eurozona nel suo insieme non ci sono segni significativi di rarefazione della disponibilità di prestiti». E Trichet dice anche qualcosa di nuovo a proposito del sistema creditizio: alla domanda se sia possibile che la Bce si trovi a dover acquistare asset bancari per far fronte alle difficoltà, ha risposto indicando vagamente che è una “possibilità” aggiungendo che bisognerà, se del caso, pensarci. Una dichiarazione importante perché l’ipotesi di intervento della Bce direttamente in aiuto delle banche era stata prima ventilata e poi ufficialmente considerata superata in quanto non necessaria. Da ieri, invece, è perlomeno tra le opzioni di Francoforte la possibilità di “ripulire”i bilanci delle banche, come prevedeva il piano Paulson, che per questo è stato sommerso di critiche.
«Il livello di incertezza resta alto, ci sono forti rischi di una nuova contrazione dell’attività economica» ha detto ieri il presidente della Bce
Le decisioni sul taglio del costo erano attese, anche a causa delle notizie arrivate in mattinata sullo stato dell’economia europea: nel terzo trimestre dell’anno, il Pil della zona euro è sceso dello 0,2% come anche quello dell’insieme dell’Unione europea. Considerato che anche tra aprile e giugno si è registrato un calo dello 0,2%,, si può affermare che l’Europa è in recessione. Non ancora per la Ue a 27, dove nel secondo trimestre si era registrato un tasso pari a 0.
giustizia
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Why Not. Nelle pieghe dell’inchiesta di De Magistris c’è anche il vicepresidente del Csm?
Napolitano interviene nella guerra delle Procure di Francesco Capozza segue dalla prima «Tali atti d’ indagine - prosegue il Segretario generale della presidenza della Repubblica nella nota - anche per le forme e modalità di esecuzione, hanno avuto vasta eco sugli organi di informazione, suscitando inquietanti interrogativi. Inoltre, in una lettera diretta al Capo dello Stato, il Procuratore generale di Catanzaro ha sollevato vive preoccupazioni per l’intervenuto sequestro degli atti del procedimento cosiddetto Why Not pendente dinanzi a quell’ufficio, che ne ha provocato la interruzione. Tenendo conto di tutto ciò, il Presidente Napolitano mi ha dato incarico di richiederle la urgente trasmissione di ogni notizia e - ove possibile - di ogni atto utile a meglio conoscere una vicenda senza precedenti, che - prescindendo da qualsiasi profilo di merito - presenta aspetti di eccezionalità, con rilevanti, gravi implicazioni di carattere istituzionale, primo tra tutti quello di determinare la paralisi della funzione processuale cui consegue - come ha più volte ricordato la Corte Costituzionale - la compromissione del bene costituzionale dell’efficienza del processo, che è aspetto del principio di indefettibilità della giurisdizione».
Poche ore prima che il Quirinale rendesse nota la decisione di Napolitano, si era tenuto il plenum del Consiglio superiore della magistratura con l’intervento del vicepresidente Nicola Mancino che si era detto pronto a lasciare dopo le indiscrezioni della stampa che avevano parlato di un suo possibile coinvolgimento proprio nell’inchiesta della procura di Salerno sul tentativo di delegittimare l’ex pm di Catanzaro Luigi De Magistris. «Non vorrei avere sulla mia persona neppure l’ombra di un sospetto, il giorno che dovesse accadere non avrei esitazione a lasciare». Mancino ha poi rimarcato: «Il giorno in cui una campagna di stampa dovesse incidere sulla mia autonomia non avrei difficoltà a togliere l’incomodo. Ho sempre operato al servizio delle istituzioni e sono venuto al Csm per cercare di conciliare politica e
magistratura, probabilmente me ne andrò senza aver raggiunto questo obiettivo, ma ciò dipende anche da quello che si muove all’esterno del Csm. Io, quando ero ministro dell’Interno, ho appreso come bisogna mantenere i rapporti politici all’interno di culture diverse».
Il vice presidente del Csm ha precisato di non aver mai avuto rapporti con l’imprenditore Antonio Saladino, ex presidente della Compagnia delle Opere della Calabria e personaggio cardine dell’inchiesta Why not,
della Repubblica Giorgio Napolitano ed il suo vice al Csm Nicola Mancino, in merito alla sua vicenda.
Prendendo carta e penna De Magistris afferma che «nel periodo in cui è cominciata, consolidandosi, l’attività della Procura generale della Cassazione ai miei danni - anche attraverso la costruzione di un processo disciplinare dai tempi tanto celeri, quanto altamente sospetti - alcuni organi d’informazione, mi pare proprio il Corriere della Sera, non vorrei sbagliarmi, diede-
te della Repubblica a tutela della verità dei fatti e di un magistrato che cercava di espletare solo le sue funzioni in Calabria, mai nessun“segnale”mi è pervenuto dalla più alta carica dello Stato se non quello, dopo l’avocazione illegale che, da quanto riportato dai mass-media, egli avrebbe vigilato sulla vicenda ed anche sulla stessa inchiesta Why Not: non so dire in che cosa si sia estrinsecata tale vigilanza attesi gli esiti illeciti ed illegali che hanno caratterizzato il prosieguo dell’indagine Why Not ed il fatto che non mi risul-
Nicola Mancino ha ripetuto di non aver mai avuto rapporti con l’imprenditore Antonio Saladino, personaggio cardine dell’inchiesta. E poi: «Sono pronto a dimettermi»
in breve Alitalia: «Vendita a prezzo di mercato» Per il Monitoring Trustee, l’advisor incaricato dalla Commissione Europea di vagliare la legittimità dell’operazione Alitalia, «la cessione degli asset è avvenuta a prezzi di mercato». Lo ha detto il commissario europeo ai Trasporti, Antonio Tajani, durante una conferenza stampa a Bruxelles, spiegando che il Monitoring Trustee «ha ritenuto che l’offerta di 1 miliardo e 52mila euro fatta da Cai per Alitalia per la cessione degli asset è una vendita a prezzo di mercato». Il Trustee, inoltre, «valuterà anche l’evolversi della situazione» ma si tratta - ha concluso Tajani - «di un importante passo in avanti». Ora il Monitoring Trustee «continuerà il suo lavoro per quanto riguarda il controllo del resto della procedura Alitalia».
Telecom, incontro azienda-sindacati È in programma per il 10 dicembre un incontro fra sindacati e Telecom. Lo ha indicato indica il segretario della Slc-Cgil, Emilio Micheli, ricordando che «l’incontro era già in agenda prima dell’annuncio del piano industriale ma acquista urgenza alla luce dei nuovi tagli».
Mediaset: «Utili vicini a quelli 2007»
incentrata su un presunto comitato di politici e imprenditori che avrebbe fatto affari grazie a truffe basate sull’utilizzo illegale di finanziamenti pubblici, statali e comunitari, e di non averlo mai sentito telefonicamente «come falsamente scritto da alcuni organi di stampa. Una telefonata fu fatta da un mio collaboratore». Tuttavia, in una deposizione fatta il 9 ottobre scorso alla Procura di Salerno l’ex pm di Catanzaro Luigi De Magistris fa riferimento ad un incontro tra il presidente
ro anche conto di un incontro tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ed il vicepresidente del Csm Nicola Mancino. Del resto sul ruolo di Mancino nella mia vicenda ho già rilasciato dichiarazioni ed anche prodotto articoli di stampa ove egli pure anticipa, in modo grave, valutazioni sulla mia vicenda, nonostante fosse il presidente della Sezione Disciplinare. Evidenzio, poi - afferma ancora De Magistris - che pur avendo io anche pubblicamente auspicato un intervento del presiden-
ta che magistrati indagati per gravissime ipotesi di reato abbiano subito concrete ed incisive iniziative disciplinari. Non posso non rilevare che in quei tempi, da più ambienti, ed anche da parte della stessa Procura generale della Cassazione, mi è stato riferito in modo chiaro che le mie indagini potevano procurare ed avevano successivamente contribuito a provocare proprio la crisi del governo presieduto dall’onorevole Romano Prodi, indagato anch’egli nell’inchiesta Why Not».
«Gli utili per il 2008 per l’Italia saranno vicini a quelli dell’anno scorso». Così Pier Silvio Berlusconi, vicepresidente di Mediaset, a margine della presentazione del nuovo prodi gramma Piero Chiambretti su Italia Uno, tenutasi a Milano, sul risultato previsto per il gruppo Mediaset. Gli utili per l’anno in corso, ha spiegato Pier Silvio Berlusconi, non saranno invariati rispetto a quelli dell’esercizio precedente, ma «vicini, non si può dire se in più o in meno, ma vista la situazione potete immaginarlo». Il vicepresidente di Mediaset ha poi sottolineato: «Stiamo continuamente investendo sul prodotto. Nel Gruppo è in atto un profondo lavoro di efficienza, ma di tagli che andranno ad intaccare il prodotto per adesso non se ne parla».
società
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in breve Presentato il logo del G8 del 2009
Religione. La Santa Sede difende la libertà di culto dei musulmani. Ma scoppia la polemica sul rifiuto dei matrimoni misti
Il Vaticano frena il Carroccio «Sì a nuove moschee in Italia» di Francesco Rositano
CITTÀ
DEL VATICANO. Il Vaticano dice sì alla costruzione di nuove moschee in Italia. E implicitamente fa muro contro proposta della Lega Nord di sospendere la costruzione dei luoghi di culto, in attesa di approvare una legge che regolamenti la questione.
L’apertura è arrivata da due esponenti di spicco delle gerarchie cattoliche: monsignor Mariano Crociata, neo-segretario della Cei e monsignor Gianfranco Ravasi, presidente del dicastero vaticano della Cultura. Una posizione prevedibile quella della Santa Sede che va certamente nella direzione di una difesa incondizionata della libertà di professare la propria fede, anche se diversa da quella cattolica. E suona anche come un’apertura ai “fratelli musulmani” nei confronti dei quali il Vaticano da tempo sta cercando di gettare le basi per un vero dialogo. Mano tesa, dunque, anche se la Santa Sede non ha celato i propri timori, lanciando un esplicito segnale allo Stato: quello di vigilare affiché le moschee siano effettivamente un luogo di culto e non vengano utilizzate per altre finalità. In particolare, quella di trasformarsi in rifu-
gi per terroristi terroristi, camuffati da luoghi sacri. «Da un lato ha affermato monsignor Ravasi bisogna riconoscere la legittimità del luogo di culto che deve essere sede di una presenza spirituale autentica; dall’altra parte questo non deve diventare un modello diverso. Se diventa qualcosa di diverso, infatti, la società civile ha diritto di intervenire e verificare». Nella stessa direzione è andato anche il segretario della Cei, monsignor Crociata, che - in un’intervista al mensile “30Giorni”, diretto da Giulio Andreotti - ha affermato: «Dobbiamo garantire che i musulmani presenti nel nostro Paese possano coltivare la loro religione in maniera appropriata. In questo dibattito, ha osservato, si va per eccessi: dal rifiuto immotivato a una visibilità, a una invadenza che stonano. Ci vuole equilibrio». Il presule, poi, ha anche toccato un altro tema che ha già creato rumore: quello dei matrimoni misti. La sua posizione è in linea con il magistero della Chiesa, da sempre contraria a questa tipologia
di unioni. Il presule, tra l’altro grande esperto delle tematiche riguardanti il dialogo religioso, citando un documento dei vescovi italiani sul tema ha spiegato: «I matrimoni misti tra cattolici e musulmani non sono da incoraggiare, perché il passare degli anni porta spesso a ritornare alle condizioni culturali e ai rapporti sociali, religiosi e giuridici di origine, con conseguenze a volte drammatiche che possono ricadere sui figli». Poi, cercando di tirare le fila del discorso, ha aggiunto: «Pertanto la richiesta è da accompagnare con grande
dito contro i matrimoni misti, imputandogli di avere radici di una crisi certa.
Le specificità culturali e religiose possono essere arricchimento straordinario e fertile humus per costruire una famiglia serena o diventare armi ferocemente utilizzate in caso di crisi matrimoniale; quasi mai sono le ragioni stesse della crisi tra gli sposi. È certo tuttavia - riconosce Piccardo - che una buona conoscenza delle reciproche culture e consuetudini debba essere propedeutica alla decisione di convolare a giuste
La riserva di monsignor Ravasi: «Se il luogo di culto diventa qualcosa di diverso dalla sede di una presenza spirituale autentica, la società civile ha diritto di intervenire e verificare» prudenza. L’evoluzione è difficile da prevedere. A sentire i maggiori esperti, stanno nascendo progetti di formazione per le nuove generazioni di musulmani in Italia. Perché la sfida è questa: rimanere islamici ma integrandosi in una società che non è a maggioranza musulmana. Questo potrà assicurare una possibilità di convivenza». Hamza Piccardo ex presidente dell’Unione delle comunità islamiche d’Italia - contesta le posizioni del nuovo segretario dei vescovi italiani. «È ingeneroso puntare il
nozze».Nel frattempo la Lega resta sulla propria posizione e con Roberto Cota, capogruppo alla Camera e promotore della contestata moratoria, tira dritta sul fatto che, in attesa di una regolamentazione legislativa, sia opportuno interrompere la costruzione di nuove moschee. Dietro la scelta, puntualizza Cota, non c’è nessuna intenzione di discriminazione: «Vogliamo tutelare il diritto di professare una fede, ma vogliamo tutelarci anche noi. Nessuna discriminazione verso l’islam, perché la moratoria riguarderebbe tutte le religioni che non hanno sottoscritte intese con lo Stato.Visto che nell’islam manca un interlocutore unico per stipulare un’intesa, l’unico modo per intervenire e regolamentare l’attività delle moschee è quello di dare noi delle norme».
Quattro tartarughe stilizzate che nuotano intorno al globo terrestre. È questo il logo del summit del G8 che si terrà nel 2009 alla Maddalena, in Sardegna, e che sarà presieduto dall’Italia. I capi di Stato e di Governo che parteciperanno al prossimo G8 a La Maddalena renderanno omaggio alla tomba di Giuseppe Garibaldi. Nel corso del vertice ci sarà infatti una solenne cerimonia a cui parteciperanno le autorità di tutto il mondo, dedicata a celebrare l’eroe dei due mondi. «L’Italia ha un triste primato del panorama europeo: nel nostro Paese nel 2007 sono state consumate oltre la metà delle rapine in banca di tutta l’Unione europea». Lo ha reso noto il presidente dell’Associazione bancaria italiana, Corrado Faissola, presentando i risultati dell’indagine condotta dall’Ossif, il centro di ricerca dell’associazione in materia di sicurezza.
Approvato decreto sull’immigrazione Via libera al decreto flussi 2008. Il provvedimento è stato firmato dal presidente del Consiglio. Si tratta di complessivi 150.000 cittadini extracomunitari che entreranno in Italia per motivi di lavoro subordinato non stagionale. In particolare, le quote riguardano 105.400 lavoratori domestici o di assistenza alla persona e 44.600 lavoratori domestici o di altri settori produttivi, provenienti da Paesi che hanno sottoscritto o stanno per sottoscrivere specifici accordi di cooperazione in materia migratoria.
Autostrada: polizia uccide malvivente Un uomo è stato ucciso ieri intorno alle 5 del mattino sull’Autostrada del Sole nei pressi di un’area di servizio nei pressi di Frosinone. Una pattuglia della Polstrada della sottosezione di Frosinone stava effettuando un controllo all’interno dell’area di servizio La Macchia sud dopo aver avuto la segnalazione che era stata effettuata una rapina ad Orvieto. A quel punto gli agenti hanno notato un’auto rubata con tre persone a bordo.
politica
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Cicloni. Il partito di Veltroni è sempre più nella bufera: la riunione della Direzione si annuncia come una resa dei conti
Pd, il sogno è già finito? Identità europea e questione morale stanno affondando i democratici di Renzo Foa segue dalla prima Per non parlare di Francesco Rutelli per il quale non ci sarà per il Pd una collocazione all’interno del socialismo europeo, polemizzando direttamente con i partigiani dell’«opzione Pse». Mi fermo qui, tralasciando di citare altri motivi di una crisi che è a 360° e che si sviluppa con uno stillicidio quotidiano di fatti, di dichiarazioni, di analisi, di pubbliche interviste come quella rilasciata al Corriere della sera, quotidiano ex amico, da Gustavo Zagrebelski che ha parlato di «cacicchi scatenati», in assenza di una forte direzione centrale.
Confesso di non essere sorpreso da questa deflagrazione della questione morale a sinistra. Semmai mi aspettavo da tempo che anche chi ha rivendicato di rappresentare «l’Italia migliore» avrebbe finito per trovarsi nella condizione per la quale, tra il 1992 e il 1994, si estinsero grandi formazioni politiche, come la Democrazia cristiana e il Partito socialista. E solo i racconti distillati l’altro giorno dalla Clementina Forleo - cioè che nella magistratura è ancora difficile colpire a sinistra, a cui va aggiunta una be-
nevola disattenzione del sistema mediatico - hanno evitato che il problema si ponesse prima e sta, forse, arginando una frana di grandi proporzioni. Provo a spiegare perché non sono sorpreso da questa ondata di scandali: resto convinto - l’ho scritto infinite volte da «mani pulite» in poi - del fatto che la corruzione, con i suoi perversi intrecci tra politica e potere, non sia stata provocata dalla malvagità o dallo scarso senso dello Stato di una parte della classe dirigente, bensì essenzialmente da un’altra malattia, cioè dalla fragilità dell’equilibrio dei poteri che dovrebbero regolare ogni democrazia, inclusa quella italiana. Così come prima del 1992 era mancato un sistema efficace di contrappesi e di controlli - con l’eccezione di quello giudiziario - anche oggi la crisi che investe il Pd in particolare sul piano dei poteri locali nasce da quello stesso vuoto. In molti dei casi rivelati dalle inchieste giudiziarie aperte è mancata a lungo - o non c’è stata affatto - un’alternanza nella guida di Comuni, Province o Regioni. Non solo: a me sembra che sia mancata anche un’efficace azione dell’opposizione di centrodestra la quale in molte realtà ha scelto
coscientemente la logica dello scambio, ha chiuso gli occhi ricevendo come compenso per lo più piccole mance e qualche poltroncina. Fino allo scorso aprile, a livello locale, l’Italia era dal punto di vista del colore politico una grande «macchia rosa», interrotta qua e là da puntini azzurri. Una «macchia rosa» - penso ai Ds, alla Margherita e ai vari cespugli che hanno costituito le galassie dell’Ulivo, dell’Unione e del centro-sinistra in generale - che ha costituito un potere assoluto e inontrastato. In una circostanza simile quello che sta venendo alla luce del sole era largamente prevedibile. Basta poi girare un po’ per il Paese o sfogliare le pagine di sperdute cronache per essere avvertiti che lo scandalo è in realtà molto più esteso di quanto non dicano le inchieste di cui si parla di più.
Sotto questo aspetto, il Pd creato da Veltroni non avrebbe potuto essere diverso dalle forze che l’hanno composto, integrandosi fra loro. Forse una critica può essere fatta ad un segretario a cui l’elezione attraverso il metodo del voto popolare diretto (che in Italia si chiama erroneamente primarie) aveva dato in partenza una for-
Il vero limite del segretario è quello di non essere intervenuto immediatamente nei casi più clamorosi (da Napoli a Firenze) per evitare lo scandalo con qualche azione esemplare za sconfinata ed un credito immenso. La critica è questa: sarebbe potuto intervenire più rapidamente sui punti maggiormente critici, avrebbe potuto compiere degli atti di prevenzione e arginare lo scandalo con qualche azione esemplare. Avrebbe pututo fare prima quel che sta facendo, secondo alcune indiscrezioni, con il governatore Antonio Bassolino il quale - aldilà delle mosse della magi-
stratura - ha subito con «la crisi della spazzatura» e con altre vicende una brutta sconfitta politica di cui è per forza di cose il «capro espiatorio». Ci sono probabilmente molte ragioni per cui Veltroni ha scelto di non farlo. Ma non lo ha fatto e oggi ne paga le conseguenze, con un suo ulteriore indebolimento, che si aggiunge alla debolezza provocata dall’assedio in cui è stretto e con Antonio Di Pietro
D’Alema intervistato alla radio punzecchia il segretario e rivendica il ruolo di “Red”: «Ma non dite che è una corrente»
«Se volessi la testa di Walter, glielo direi» ROMA. Botta e risposta a distanza fra Walter Veltroni e Massimo D’Alema: nulla di nuovo sotto il sole del Partito democratico. Il primo dice a la Repubblica che se qualcuno vuol farlo fuori, è bene che esca alla luce del sole e l’altro risponde, dai microfoni di Radiorai «Quello che vuole far fuori Veltroni non sono io». Colpi di sponda, come nel biliardo. E in effetti quella tra Veltroni e D’Alema, da decenni, è un gioco d’azzardo che catalizza l’attenzione (generale?) della sinistra: un po’come guardare il dito che indica la luna dimenticando la luna medesima.
Comunque, la nuova puntata della telenovela è quella dell’intervista a D’Alema. Il Partito democratico? «Deve diventare una grande forza nazionale organizzata secondo una struttura federale». La leadership di Veltroni? «Walter mi conosce da tanti anni e sa bene che il giorno in cui ritenessi che debba lasciare glielo direi immediatamente di persona». Red?
«È un’associazione culturale e non una corrente del Pd. Una buona quota di iscritti non fa parte del partito e sarebbe
buffo che qualcuno si iscrivesse alla corrente di un partito di cui non fa parte». Questi i temi affrontati da D’Alema, ieri, parlando con Barbara Palombelli nella trasmissione 28 minuti su Radiodue. Innanzitutto, però, D’Alema ha precisato la funzione di ”Red”: «È un’associazione culturale, ed è buffo pensare che sia una corrente. Purtroppo, in un dibattito politico così inquinato e avvelenato è difficile far
capire come stanno le cose. “Red”raggruppa alcune miglia di persone in tutta Italia, molte delle quali non fanno nemmeno parte del Pd. E nessuno si iscrive alla corrente di un partito di cui non fa parte». A pochi giorni dalla direzione nazionale del Pd, è ovvio parlare di cosa va e cosa non va nel partito. Veltroni, in un’intervista a Repubblica, ha chiesto a chi non lo vuole come segretario di uscire allo scoperto. D’Alema è uno di questi? «No, per la buona ragione che conosco Walter da tempo e sa bene che il giorno in cui ritenessi che debba lasciare la carica lo direi
politica
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Emanuele Macaluso e i «partiti senza democrazia interna»
«Sono tutti “nominati”, di cosa vi stupite?» colloquio con Emanuele Macaluso di Riccardo Paradisi
ROMA. «Io penso che più che una questione
che non perde occasione di rilanciare polemicamente la sua sfida giustizialista. La verità un po’ cruda è ormai questa: sembra sempre più in bilico la costruzione del Partito democratico, che avrebbe dovuto essere la seconda gamba di un sistema bipartitico destinato a sostituire un bipolarismo che, dal 1994 od oggi, non è riuscito a rispondere alle attese della pubblica opinione ed a ridisegnare il sistema italiano. Poiché è in bilico anche la prima gamba, cioè il Popolo delle libertà, è ormai chiaro che il progetto, a cui stanno lavorando da mesi sia Silvio Berlusconi che il suo antagonista, appare già pregiudi-
immediatamente a lui e poi lo direi anche in pubblico. Sono a volte spigoloso, ma comunque diretto e franco. Se non l’ho detto non lo penso. L’invito di Veltroni - dice l’ex ministro degli Esteri - non puo’ essere rivolto a me».
Ma il Pd ha comunque dei problemi strutturali, lo ha incalzato Barbara Palombelli... «Il punto è affrontare i nodi che il partito ha di fronte, a cominciare dal porsi la domanda su che cosa deve essere, quali regole deve darsi, come deve governare i conflitti in periferia. Il Pd - spiega D’Alema - è nato da un moto di popolo, ma deve diventare ancora un partito, altrimenti sarà difficilmente governabile. Perciò più che fare delle conte dovremmo
Walter Veltroni con Antonio Bassolino. A destra, Emanuele Macaluso. Nella pagina a fianco, Massimo D’Alema cato. Può essere recuperato? A me sembra improbabile. Se nel centrosinistra il quadro è quello che ho appena descritto, nel centrodestra c’è una situazione molto confusa che sta già contagiando l’azione del governo e che non lascia prevedere nulla di stabile. Non c’è, sul mercato politico, un’offerta capace di attrarre e subito dopo di non deludere. Il sogno salvifico di Pd e Pdl è già sfumato.
cercare di vedere i problemi seri, non esorcizzandoli dando la colpa a qualche oscuro complotto. Ora dobbiamo fare la conferenza programmatica: è ragionevole rispettare il calendario e discutere di questioni su cui fare chiarezza». E il Pd del Nord? Niente da fare: «Una cosa è dire che i partiti devono darsi una struttura federale, in grado di aderire alle diverse realtà del paese e anche di esprimere gruppi dirigenti fortemente radicati sul territorio. Altra cosa è dire Pd del Nord e Pd del Sud. Io - spiega D’Alema - dico grande partito nazionale che deve articolarsi in autonomie con forte impronta democratica». Insomma, un Pd «nazionale organizzato secondo una struttura federale».
morale si è aperta nel Pd una questione politica. Il problema è l’esistenza stessa di questo partito che sta mostrando contraddizioni tali da non reggere alla sua stessa ragion d’esistere». Secondo Emanuele Macaluso direttore delle Ragioni del socialismo e esponente storico della sinistra riformista italiana, i problemi del Pd, definiti ”questione morale”, sono collegati a questo nodo, al modo con cui è nato e cresciuto questo partito: «Una somma di potentati locali, di partiti tra i quali non c’ stata nessuna vera sintesi politico culturale».Tutto, secondo Macaluso, si limita a vivere intorno alle istituzioni – comuni, provincie, regioni, società pubbliche – non avendo il Pd motivato i quadri politici esistenti il calo di tensione morale ha continuato a precipitare verso il punto zero. Sta di fatto, Macaluso, che la questione morale sembra una nemesi per la sinistra: agitata da Berlinguer, poi cavalcata contro i partiti della Prima repubblica quindi contro “le destre”ora si rivela un boomerang. Quando Berlinguer pose la questione morale si riferiva alla sovrapposizione dei partiti sullo Stato. Indicava la necessità di una profonda riforma dei partiti. E siccome quella riforma non c’è stata i partiti sono implosi: oggi non c’è l’invasione dei partiti sulla sfera pubblica oggi c’è una questione morale sparpagliata in tutte le forze politiche. Eppure, insisto, la sinistra italiana ha portato la questione morale in punta di lancia per decenni. Nei primi anni Novanta la politica non fu in grado di capire nulla. La sinistra credeva che in quegli anni stesse crollando un sistema di potere invece era l’intero sistema politico, di cui essa stessa faceva parte, a venire giù. Anche quelli come Occhetto che facevano la svolta non capivano che era cambiato tutto, che Tangentopoli era l’epifenomeno di una crisi della politica tale che i magistrati invasero il campo politico con l’idea di rigenerarlo. È il tipo di antipolitica che ha generato Berlusconi. Del resto il sistema politico da allora non si è riorganizzato secondo un disegno. La prima Repubblica un fondamento ce l’aveva, era la Costituzione. Erano i partiti. Oggi non esiste uno straccio di democrazia interna ai partiti, c’è una legge con cui i parlamentari vengono nominati. Scusi Macaluso ma nel Pci c’era il centralismo democratico, nel Msi Almirante vinceva i congressi per acclamazione e nominava i suoi successori… Che oggi parlano di cesarismo, certo. Però guardi la Dc era un partito vero, il Pci lo stesso: c’era il centralismo ma era democratico. C’erano le mozioni, le correnti, i congressi. Fu il craxismo a inaugurare il cesarismo, che segnò anche la sua crisi. Di Pietro non ha atteso un attimo ad avventarsi sul Pd «Siamo di fronte a una questione morale ancora più grave di
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quella di Mani pulite. E dalla quale la sinistra non può tirarsi fuori». La presenza di Di Pietro è la spia di cosa ha determinato il crollo del sistema: uno che da procuratore diventa capo di un partito personale sulla base della sua azione giudiziaria è qualcosa di inquietante. Del resto siamo a questo. La politica è implosa. Berlusconi ha fatto un partito con i suoi mezzi. La sinistra non è in grado nemmeno più di un ricambio: è lo stesso gruppo dirigente di vent’anni fa. Il sistema è bloccato, nel caos. Ma intanto a logorarsi è il Pd. Il 19 dicembre ci sarà la direzione del partito: Veltroni ha detto che è quello il luogo per sollevare i problemi e risolverli, se serve anche attraverso un congresso straordinario da fare subito. A sinistra la crisi è più acuta per molti motivi. La sinistra radicale è morta, quella cosiddetta rifromista non è qualificata a proporsi come forza di governo.Veltroni ha molti limiti, D’Alema parla, ma qual è la sua posizione politica? I giovani protestano, ma non propongono alternative: facciano delle piattaforme politiche. Nel Pd c’è pochissima politica e molto personalismo. Cacciari parla di un partito del nord, federato con quello centrale, ma autonomo per strategia, leader, alleanze. Escamotage di un partito in crisi.
Il Pd è una somma di potentati locali, di partiti tra i quali non c’è stata nessuna sintesi. Il calo di tensione morale è direttamente generato dalla fine della tensione
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panorama
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Internet. Il ministro Gelmini sbarca su “YouTube” per dialogare con i ragazzi. E intanto il Cavaliere...
Il Pdl all’inseguimento della rete di Andrea Mancia l centrodestra italiano ha sempre avuto, con Internet, un rapporto a dir poco schizofrenico. Il più grande aggregatore di blog nel nostro Paese (www.tocqueville.it) è nato proprio sulla “riva destra” del cyberspazio: un esperimento copiato anche dalla sinistra, che in genere nell’utilizzo dei new media è avanti anniluce. Eppure la “classe dirigente”di quest’area politica quasi non se n’è accorta, tanto che alla vigilia delle ultime elezioni politiche il portavoce del futuro premier, Paolo Bonaiuti, andava ripetendo (agli organi d’informazione contigui alla sinistra) che il centrodestra era «praticamente assente dal mondo del web». La soluzione prospettata da Bonaiuti per colmare questa presunta assenza, poi, era un
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IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
capolavoro di surreale ingenuità: «Ci stiamo attrezzando con alcuni giovani per essere presenti nella campagna elettorale che incombe su questo mezzo che è prediletto particolarmente dai giovani». Come dire: non ho la più pallida idea di quello che di cui sto parlando, ma mi hanno detto che In-
va lodevole (anche se probabilmente un po’ tardiva), proprio come quella organizzata - sempre ieri, alla Camera - dal responsabile Internet di Forza Italia, Antonio Palmieri, con un interessante convegno in cui è stata analizzata la strategia online di Barack Obama e presentato in anteprima un censimen-
Berlusconi: «Porteremo sul tavolo del G8 una proposta internazionale per regolamentare Internet, che è un forum aperto a tutto il mondo» ternet è cool per i ragazzini, dunque ne ho chiamati un po’ per vedere di che si tratta. Imbarazzante. Questa schizofrenia di fondo è riemersa nelle ultime ventiquattr’ore. Ieri il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, ha annunciato di aver aperto un canale personale su YouTube (un celebre sito di condivisione dei video), allo scopo di costruire un luogo virtuale «in cui il ministro si confronterà con i ragazzi attraverso video domande o commenti che tutti potranno inviare». Un’iniziati-
to sull’uso di Facebook da parte dei politici italiani. Peccato che, appena un giorno prima, Silvio Berlusconi avesse dimostrato - per l’ennesima volta - tutta la fatica culturale che incontra il centrodestra italiano nel comprendere il fenomeno Internet. Di ritorno da una visita (poco proficua, evidentemente) al “polo tecnologico delle Poste”, il Cavaliere ha lasciato tutti di stucco affermando che «Internet deve essere regolamentata». E che lui stesso porterà questa esigenza al prossimo G8 (o G20) a presi-
denza italiana. «Ho visto - ha detto Berlusconi - che per quanto riguarda Internet manca una regolamentazione comune. Porteremo dunque sul tavolo una proposta internazionale, essendo Internet un forum aperto a tutto il mondo». Apriti cielo! Sulla rete hanno iniziato a circolare tutte le possibili ipotesi di censura, sono resuscitate le salme dei “comitati boicotta il biscione”, si è scatenata una corsa alle teorie cospiratorie sulla volontà del gruppo Mediaset di sbarazzarsi in un solo colpo di tutti i nuovi media, neanche fossero una Sky qualsiasi. La verità, purtroppo, è molto più semplice. Berlusconi, come Bonaiuti, parla di cose che non conosce (e che, peggio, non ha alcuna intenzione di conoscere). Del resto, appena qualche mese fa, aveva dichiarato di essere «troppo vecchio per Internet». Ecco, forse sarebbe meglio tornare a quel salutare bagno d’umiltà. Lasci stare queste diavolerie moderne, Cavaliere, perché aveva ragione Wittgenstein: su quello che non si conosce, è meglio tacere.
A Posillipo nasce “Felicissima sera”, il museo-taverna dedicato al re della sceneggiata
Pane, Merola e “gelusia” ue anni fa, nella Basilica del Carmine, ai funerali di Mario Merola c’era una folla immensa. Un’onda anomala. La bara, all’uscita dalla chiesa, galleggiava sulle teste e le braccia della marea umana. Il primo cittadino di Napoli, Rosa Russo Iervolino, definì il padre della sceneggiata «il guappo buono». Parole infelici - come molte definizioni della sindaca sia per la bontà sia per la guapperia. Non voleva essere un guappo Merola, e non lo era. Voleva essere un cantante napoletano popolare, e lo era. Popolarissimo. La sua prima canzone, agli inizi degli anni Sessanta, la incise indebitandosi: dimostrando così passione, ma anche e soprattutto intuito imprenditoriale. Popolarissimo, si è detto. Certo, utilizzando stereotipi, luoghi comuni, umori plebei che poco si conciliano con la sensibilità moderna, ma che pure esistono e sarebbe un errore ignorarne la non piccola cittadinanza, diciamo pure la maggioranza nella Napoli di ieri e nella Napoli di oggi, in quella di Lauro e della Dc e in quella di Antonio e Rosetta. Due anni dopo, ‘o Zappatore è risorto.
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“Felicissima sera”: questo il nome dell’associazione gastronomica e del museo-taverna dedicato non solo a Merola, ma al suo culto, a Posillipo, via
Rocco Calmieri 6. Vicinissima, a due passi, c’è la piazza dedicata a Salvatore Di Giacomo. Ma sono due mondi diversi: don Salvatore, anzi, Di Giacomo (come si dice Leopardi o Foscolo) è un poeta che, come voleva giustamente Benedetto Croce, fa parte della letteratura italiana, sia pure nel suo ramo dialettale, mentre Merola è «il re della sceneggiata». Che è tutta un’altra cosa, anche se non sempre è chiaro. Cosa c’è nel museo dove si mangia ascoltando Merola e guardando i film di Merola? Ci sono tre sale che raccolgono ricordi privati, cimeli, trofei, dischi, lettere. fotografie, Come quella di Eduardo De Filippo datata 1976. All’ingresso, ben custodita in un sipario in velluto, c’è una statuina di Merola, scolpita dall’artigiano Ferrigno, mentre una teca conserva il mantello originale dello Zappatore e il cappello e perfino la canottiera. Ma ancora: c’è l’ultimo assegno emesso da Merola, il
suo cellulare, le bretelle e le fiches per giocare a chemin de fer. I piatti in porcellana riproducono la sua firma e sulle pareti le locandine dei suoi circa trenta film continuamente riproposti dalle emittenti locali: Chiamate Napoli 081, Lacrime napulitane, I contrabbandieri di Santa Lucia. Naturalmente, le copertine dei suoi successi discografici e le placche con i vinili: da “Malufiglio” del 1962 a “Freva ‘e gelusia”. Quindi il “menu Merola”: mussillo di baccalà, mezz’anelli spezzati con pomodorini d’ ‘o piennolo, melanzane a pullastiello e tiramisù. A Marione piaceva la tavola e piaceva far sapere che gli piaceva la tavola: ‘o magna’. Non poteva mancare Maradona e infatti non manca, ma tra le tante altre foto di una infinita galleria, ci sono anche Ornella Muti,Vittorio Gassman, Adriano Celentano. Presenze che testimoniano l’affetto per Merola, ma marcano la distanza che c’era tra il
mondo della sceneggiata e il resto del mondo.
Dopo la morte, Mario Merola è diventato una sorta di Padre Pio napoletano. In vita faceva degli spot pubblicitari che passavano con successo sulle reti locali. In morte quella pubblicità è andata ancora in onda per un bel po’. A testimonianza che la morte ha bisogno di un po’ di tempo per essere creduta e assimilata, ma anche a conferma della vittoria dell’icona sulla realtà. L’uomo muore, ma le immagini continuano a riprodursi all’infinito. Merola si rivolgeva a un “suo”pubblico che conosceva bene perché da quel pubblico-popolo o pubblico-plebe era nato e da lì non si era mai allontanato. Anzi, con Merola si verifica un fenomeno particolare: l’incontro del mondo popolare e periferico napoletano con il mondo dei mezzi di comunicazione di massa. La sceneggiata non è l’espressività napoletana, né arte popolare, ma la caricatura del sentimento popolare napoletano e del suo contado. Una caricatura che condanna quel mondo a non uscire da se stesso, ma a specchiarsi in Merola e a riprodursi in sottoprodotti culturali di cui l’ultima evoluzione della specie sono oggi i cosiddetti neomelodici e il fenomeno Gigi D’Alessio che Merola considerava il suo figlioccio. La sceneggiata continua, “Felicissima sera”.
panorama
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Nuovi miti. I vampiri vanno per la maggiore fra gli adolescenti sia al cinema sia in libreria. Una moda pericolosa?
Ragazze, state attente ai morsi sul collo! di Luca Volontè l fenomeno dei Vampiri light, culminato nel successo del film Twilight, contagia l’Italia dopo l’impareggiabile trionfo dei libri e della pellicola negli Usa. In Italia, la storia impossibile tra una adolescente, bellissima e in piena crisi anche per la crisi familiare, e un vampiro della specie mangia-animali, sta raccogliendo euro a piene mani nelle sale cinematografiche. C’è la coda nei cinema anche negli orari più impensabili.
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Twilight è tratto dalla fortunatissima saga per teenager di Stephanie Meyer e ha incassato oltre 4 milioni di euro (secondo i dati Cinetel che coprono circa l’85% del mercato, ha incassato sinora 3.949.269 euro): in tre giorni ha fatto il vuoto dietro di sé, staccando di oltre un milione e mezzo di euro di incassi La fidanzata di papà con la coppia Boldi-Ventura, che resiste nei gradimenti del pubblico dopo dieci giorni di programmazione. Il film è molto gradevole con una ragazza che si
Dopo il successo negli Stati Uniti, «Twilight» è campione d’incassi anche in Italia: l’obolo ai demoni di una società in difficoltà inerisce nella nuova scuola laddove abita il padre che di professione fa lo sceriffo, con gli indiani amici del padre che la mettono in guardia da cattive compagnie e dalla fa-
miglia del dottore della città,con i vampiri mangiaanimali che combattono l’altra specie di vampiri, mangiauomini. Il figlio del dottore e la figlia dello sceriffo non so-
lo si innamorano ma,con la famiglia di lui, combattono i vampiri cattivi finché, una volta ucciso il cattivo “segugio”... Spiegarsi come mai il film abbia cosi’ tanto successo,non è per nulla semplice. Certo, aumentano le violenze che i giovani si fanno sul proprio corpo, anche i suicidi sono in forte aumento ma nessuno sinora si è fatto tranciare a morsi la carotide. Non vi è dubbio che ci sono bellissimi ragazzi e bellissime ragazze nel film: Twilight, sotto molti aspetti è un ottimo concorrente di High School Musical 3. Proprio dagli Usa, dove i libri della saga impazzano da molte settimane al top (le 4 opere sono ai primi 4 posti della top ten da molte seti-
Poveri. Settanta dollari al mese per aiutare le fasce deboli: arriva la «social card» iraniana
Se Ahmadinejad copia Silvio di Pierre Chiartano l successo ottenuto dall’annuncio del piano anti-crisi del governo Berlusconi ha attraversato il mediterraneo, tutto il Meshraq ed è arrivato sugli altopiani dell’Iran. Anche Ahmadinejead proporrà la «social card» per le fasce di popolazione meno abbienti. Un successo internazionale del buon governo del centrodestra italiano di cui potersi fregiare al momento opportuno.
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A Teheran si sono accorti che il programma di sovvenzionamento del mercato, per tenere bloccati i prezzi, non funzionava. La benzina a 36 centesimi di dollaro al gallone (3,7 litri), il detergente liquido a solo 50 centesimi e il latte a 20 centesimi per confezione, stava prosciugando metà del bilancio statale. Non poteva durare a lungo. Qualcuno, forse lo “squalo” Rafsanjiani - o altri che conoscono bene lo Stivale - deve aver sussurrato all’orecchio del leader iraniano: «Sai, Silvio ha avuto una grande idea...». Detto fatto. Settanta dollari al mese nelle tasche dei cittadini più poveri. E, dunque, pare che Ahmadinejead abbia voluto superare il maestro, perché al cambio attuale sarebbero 55, 5 euro.
Si sa, da quelle parti hanno il petrolio. Tanto. E forse si possono permettere di largheggiare. Però mancano, stranamente, le raffinerie. I maligni raccontano che così la nomenclatura si procuri “fondi neri”, entrate illegali per foraggiare correnti politiche e fortune personali: con tutte le società estere che si occupano di vendere il greggio e comprare la benzina e tutti i prodotti della raffinazione. Ma probabilmente sono solo le solite malelingue. E speriamo che in questo “copia-copia”, non arrivino sug-
le. Ma dai suoi concittadini è meglio noto per le promesse mancate.
La prima, quella di rendere migliore la vita del proletariato iraniano, è un obiettivo miseramente fallito. La seconda, quella di combattere la corruzione, che ha ottenuto un risultato assai simile alla prima. Ora in allarme è la middle class del Paese. Il vecchio sistema di sussidio al consumo (prezzi bassi integrati dallo Stato) garantiva dei redditi accettabili a molte famiglie, che ora si sentono in pericolo. «Se toglie i sussidi, la mia famiglia cadrà in miseria» è l’opinione di Payman Vatandoust, tecnico di una fabbrica di batterie. Come lui, la maggior parte della popolazione con un buon livello di studio non ama Ahmadinejad. Quindi al populista persiano piace il popolo ignorante. Speriamo che Silvio non senta, appunto.
A Teheran il programma di sovvenzionamento per tenere bloccati i prezzi non funzionava. E allora il regime ha deciso di imitare Tremonti gerimenti da Teheran diretti a Roma. Perché fra populisti ci si intende e ad Ahmadinejad non deve essere sfuggito l’impatto che la manovra ha sortito nell’opinione pubblica italiana, tanto simile a quella degli amici persiani. Tutti d’accordo, anche l’opposizione, i tempi sono duri, durissimi e non si sputa su 40 “euri”. All’estero, Mahmud è conosciuto per le sue sparate contro l’Occiente, Israele e il satana americano, e per la difesa del programma nucleare naziona-
mane), ci vengono motivi di riflessione sulle ragioni del fenomeno che molti avvicinano a quello del Codice Da Vinci.
«Per molti teen agers, vampiri e demoni sono il massimo della sensualita», dichiarava nei giorni scorsi il pubblicitario che si occupa della saga vampiresca: in aumento negli States sono tutti i romanzi paranormali e romantici,come a dire che piace sempre più l’amore romantico e fuori ordinanza e come nella moda gotica. Il ritorno al passato a volte si svolge lungo pendii perigliosi, macabri. Senza nulla togliere alla piacevolezza di Twilight, inquieta la frase iniziale e finale sul dare la vita per chi si ama, riferita al vampiro o, anche, la sfida della bella protagonista che vuole tentare tutta la notte il giovane vampiro,affinché la possieda e le succhi la vita. L’obolo ai demoni si poteva evitare, attenzione ai morsi sul collo delle vostre figlie... Scherzo, ma non troppo.
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segue dalla prima Un dibattito che si muove tra due poli: quello di coloro che vorrebbero espungere il cristianesimo dalla nostra cultura pubblica, o almeno ridimensionare la sua presenza, e quello di coloro che cercano invece di mantenere e rimotivare questa presenza, ritenendola oggi particolarmente necessaria e benefica. […] L’Autore dedica giustamente molta attenzione a precisare il senso nel quale dobbiamo dirci cristiani se intendiamo essere autenticamente liberali, se vogliamo che giunga a compimento il processo dell’unificazione europea, se desideriamo invertire la tendenza alla deriva dell’etica. Centrale è qui la distinzione tra “cristiani per fede”e “cristiani per cultura”. Ai fini predetti, occorre essere cristiani per cultura, mentre non è e non può essere necessario essere cristiani per fede: quest’ultima è una scelta che appartiene alla vita personale di ciascuno di noi, al mistero del nostro rapporto con Dio. Non basta tuttavia, secondo Marcello Pera, trincerarsi nel solo “cristiani per cultura”: è necessario superare un razionalismo chiuso e aprirsi all’ampiezza dell’esperienza umana, non amputandola della presenza nella nostra vita del senso del divino, del mistero, del sacro e dell’infinito.È necessario dunque essere aperti al “salto” della fede, senza per questo esigere in alcun modo che esso sia effettivamente compiuto. […]
All’interno di questo quadro generale il percorso di ciascuno dei tre capitoli è naturalmente differenziato in rapporto ai temi trattati. Non essendo possibile qui seguire la trama dei singoli sviluppi mi limiterò ad alcuni punti nodali che mi sembrano più rilevanti. Il primo, che l’Autore affronta espressamente solo nel terzo capitolo ma che gioca un ruolo essenziale in tutto l’im-
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quello dei “Padri”, individuati principalmente in John Locke, Thomas Jefferson ed Immanuel Kant – sia la dottrina dei diritti fondamentali dell’uomo in quanto uomo – i diritti oggi riconosciuti dalle carte internazionali – che precedono come tali ogni decisione positiva degli Stati e si fondano su una concezione etica dell’uomo ritenuta vera e trans-culturale. Sempre in riferimento ai “Padri”, l’Autore sottolinea la matrice teista e cristiana di tali diritti, iscritti nella nostra natura dal Creatore: per questo, come afferma la Dichiarazione di indipendenza americana, «tutti gli uomini sono creati uguali,… dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili». Così, mentre da una parte si conferma l’incompatibilità del liberalismo con il relativismo, dall’altra emerge il suo “nesso non estrinseco”, storico e concettuale, con il cristianesimo.
Un pregio del libro è l’aver sottoposto a un esame approfondito le posizioni e le motivazioni di alcuni principali teorici del liberalismo che non condividono questa tesi, tra i quali anzitutto John Rawls e Jürgen Habermas (quest’ultimo non un liberale in senso stretto). Essi sostengono l’autosufficienza del liberalismo politico, nel senso che esso non si basa su alcuna lettura “pre-politica”– etica, metafisica o religiosa che sia – e anche che esso distingue e separa la sfera pubblica, non religiosa, dalle sfere private, religiose o di altro tipo: anche se poi questa separazione dagli stessi autori – soprattutto da Habermas – è in buona misura attenuata e corretta, con il risultato però di rendere le loro posizioni alquanto incerte e anche non troppo coerenti. Marcello Pera mostra come questa autosufficienza del liberalismo sia soltanto apparente, mentre in realtà esso presuppone il riconoscimento dell’altro come perso-
Il dialogo interculturale tra le religioni può portare gli interlocutori a rivedere le proprie posizioni iniziali, correggerle e anche rifiutarle, senza mettere in discussione il proprio nucleo dogmatico pianto del libro, riguarda il rapporto tra liberalismo e relativismo. La posizione di Pera è netta: «Se il relativismo è corretto, il liberalismo sbaglia con la sua pretesa di validità universale, con i suoi diritti di tutta l’umanità, con la sua idea di produrre un regime migliore degli altri». Perciò il relativismo è incompatibile con il liberalismo, e a maggior ragione con il cristianesimo il cui Fondatore ha detto: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6).Viene rovesciata così la tesi diffusa che un atteggiamento relativistico sia invece indispensabile per la realizzazione di una società libera. Un po’ ovunque nel libro si mette in evidenza come il liberalismo autentico ed originario –
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na e come fine in se stesso […] A questo punto è possibile dar conto più rapidamente di altre tesi qualificanti di questo libro. In particolare di quella riguardante il multiculturalismo, che l’Autore esamina giustamente subito dopo aver parlato del relativismo, con il quale il multiculturalismo ha un legame profondo. Non si tratta semplicemente del dato di fatto che le società moderne sono complesse e contengono al loro interno minoranze, comunità, gruppi di varie etnie e culture. Specifica e decisiva dell’approccio multiculturale è la convinzione che non possano esistere criteri per valutare se una cultura sia migliore o peggiore di un’altra: ogni forma di cultura avrebbe infatti caratteristiche
Religione, Cultura e Ragione: nel rapporto fra questi tre termini c’è il privilegio dei diritti naturali della Fede. Il discorso dell’ex-pre
L’Europa liber
di Camil
il paginone
è la possibilità di edificare un’identità condivisa. Ma resta centrale esidente della Cei a proposito del nuovo libro di Marcello Pera
rale e cristiana
llo Ruini proprie e irriducibili e meriterebbe il medesimo rispetto delle altre. Marcello Pera riconosce senz’altro il contributo delle culture alla formazione dell’identità delle persone e alla stessa vita di una società libera, a condizione però che siano rispettati, e prevalgano su ogni differenza culturale, i diritti fondamentali e naturali delle persone.
Proprio qui il multiculturalismo mostra il proprio limite, perché la sua logica interna lo conduce a misconoscere il carattere universale e inalienabile di tali diritti. Le sue conseguenze pratiche sono a loro volta spesso incresciose: esso rende la più ampia società insicura di sé e può condurla a ripudiare la propria identità sia culturale sia religiosa, e d’altro canto non facilità ma ostacola una effettiva integrazione degli immigrati […] Con le grandi domande sul liberalismo, sul relativismo e sul
multiculturalismo si connette la questione dell’Europa e della sua identità e unità, in rapporto al ruolo che ha avuto ed ha in Europa il cristianesimo. A questa questione è dedicato tutto il secondo capitolo del libro, ma qui possiamo limitarci al punto centrale: Marcello Pera individua la ragione chiave delle persistenti difficoltà del processo di unificazione dell’Europa, e in particolare dei fallimenti registrati a proposito della “Carta europea”, nel rifiuto di riconoscere adeguatamente il ruolo svolto dal cristianesimo per la formazione dell’Europa e della sua identità e anche per la costruzione dello Stato liberale: è vero infatti che le tradizioni dell’Europa sono composite e che nell’arco dei secoli è avvenuta un’ampia mescolanza di culture, ma l’anima dell’Europa è il cristianesimo, che ha articolato, fuso e portato ad unità queste diverse culture e tradizioni,
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Il limite del multiculturalismo, secondo l’Autore, è nella sua logica interna. Lo conduce a misconoscere il carattere universale e inalienabile dei diritti fondamentali e naturali delle persone
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componendole in un quadro che ha fatto dell’Europa il “continente cristiano”. E tuttora il cristianesimo, come ha riconosciuto Habermas, è la sorgente a cui si alimenta quella che lo stesso Habermas definisce “l’autocomprensione normativa della modernità”, senza che siano disponibili a tutt’oggi opzioni alternative. Non riconoscere questo dato decisivo, e voler fondare invece l’unità europea soltanto su di un astratto “patriottismo costituzionale”, come sembra proporre Habermas, lascia l’Europa senza una precisa identità e senza un principio realmente unificante, oltre a dividere l’Occidente allontanando l’Europa dall’America. Per questi motivi l’Autore conclude senza esitazioni: «L’Europa deve dirsi cristiana», incontrando di nuovo il forte consenso di Benedetto XVI che gli scrive: «Di importanza fondamentale è la Sua analisi di ciò che possono essere l’Europa e una Costituzione europea in cui l’Europa non si trasformi in una realtà cosmopolita, ma trovi, a partire dal suo fondamento cristiano-liberale, la sua propria identità». In rapporto al problema del fonda-
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mentalismo religioso, e in particolare del fondamentalismo islamico, il libro entra anche nella tematica del dialogo interreligioso, al quale la Chiesa ha invitato i cattolici fin dalla Dichiarazione Nostra aetate del Concilio Vaticano II. Marcello Pera afferma nettamente che un tale dialogo, «in senso tecnico e stretto» non può esistere, perché presuppone che gli interlocutori siano disponibili alla revisione e anche al rifiuto delle verità con cui iniziano lo scambio dialettico, mentre le religioni, e specialmente le religioni monoteiste e rivelate, hanno ciascuna la propria verità e i propri criteri per accertarla. Perciò, richiamandosi all’invito al “dialogo delle culture” con cui Benedetto XVI concludeva la sua celebre lezione di Regensburg, propone che tra le religioni si instauri questa seconda forma di dialogo, che riguarda non il nucleo dogmatico ma le conseguenze culturali – in particolare di tipo etico – delle diverse religioni, ossia i diritti attribuiti o negati all’uomo, i costumi sociali consentiti o proibiti, le forme di relazioni interpersonali ammesse o censurate, gli istituti politici raccomandati o vietati. Questo dialogo interculturale tra le religioni può essere dialogo in senso stretto e può condurre gli interlocutori a rivedere le proprie posizioni iniziali, correggerle, integrarle e anche rifiutarle, senza che ciò implichi necessariamente una messa in discussione del proprio nucleo dogmatico. Il patrimonio morale dell’umanità, inalienabile e non negoziabile, rappresenta secondo Pera il grande terreno comune di questo dialogo [...]
Sorprendente intervento di Massimo D’Alema
«La religione è cosa pubblica» di Riccardo Paradisi
ROMA. «L’anima dell’Europa è il cristianesimo e non riconoscere questo dato decisivo, e voler fondare invece l’unità europea soltanto su di un astratto patriottismo costituzionale, lascia l’Europa senza una precisa identità e senza un principio realmente unificante». Non è una posizione neutra quella del cardinale Camillo Ruini, intervenuto alla presentazione del libro del senatore Marcello Pera Perché dobbiamo dirci cristiani (Mondadori). Nel rifiuto di riconoscere adeguatamente il ruolo svolto dal cristianesimo per la formazione dell’Europa e nella costruzione dello Stato liberale infatti si nasconde per Ruini la radice del relativismo occidentale e anche l’incapacità di valutare i limiti dell’ideologia multiculturalista e le minacce del fondamentalismo. Attenzione però a non confondere Islam e islamismo, è l’avvertimento di Massimo D’Alema, inter-
venuto anche lui alla presentazione del libro di Pera: «Il fondamentalismo si presenta come una relativamente recente risposta alla crisi e alla frustrazione di quelle società che si sentono a rischio di una omologazione». Una let-
Non riconoscere che l’anima dell’Europa è il cristianesimo lascia il Vecchio continente in balia del relativismo tura politico-sociologica quella dell’ex ministro degli Esteri, il quale pur riconoscendo che l’Europa nasce dalle radici giudaico cristiane si dice favorevole all’ingresso nell’Ue di un grande paese islamico come la Turchia. «Una visione che è la stessa di Barack Obama: a
differenza dei neocon e del suo predecessore Bush». Un intervento “laico” quello di D’Alema che nel pomeriggio in una trasmissione radiofonica aveva invitato Veltroni a leggere Biblioteca laica, edito da Laterza: «Un libro che aiuta a ritrovare nella nostra cultura le radici della democrazia e della libertà». C’entrano i teodem e le pressioni della Margherita nel Partito democratico? Chissà. Sta di fatto che anche per D’Alema presentare la religione come fatto privato è una concezione povera e insostenibile in una società come la nostra». Polemico nei confronti della Lega e le proposte embargo alla costruzione di nuove moschee è stato invece il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini: «Solo gli uomini primitivi mettono in discussione la libertà religiosa. Solo se le moschee diventano un luogo di reclutamento per il terrorismo si deve reagire con durezza».
Un ultimo punto a cui vorrei accennare è quello della “parabola dell’etica liberale”, di cui si parla verso la fine del libro. Prendendo come riferimento dapprima Kant, poi John Stuart Mill e infine le interpretazioni del liberalismo attualmente prevalenti, Marcello Pera traccia la parabola seguente: con Kant la legge morale è la legge (cristiana) dell’imperativo categorico, con cui la ragione universale comanda, in modo altrettanto universale, la volontà. Questa legge impone il rispetto della persona. Con Stuart Mill la legge morale è la legge (utilitaristica) che comanda come buone l’azione o la regola a cui segue il massimo di utilità per tutti.Tale legge impone il rispetto della libertà. Per le correnti oggi prevalenti non esiste alcuna legge morale universale, né religiosa né laica, e – limitatamente al mondo liberale, in concreto occidentale – vale il rispetto delle libere scelte di valore degli individui. Siamo dunque passati dall’universalità alla relatività e dalla persona al soggetto che è unica norma a se stesso. L’Autore ne trae la conseguenza che anche qui ci troviamo di fronte a quel bivio del liberalismo, tra cristianesimo e laicismo, che egli aveva già indicato all’inizio del suo libro. A questo punto il bivio si può articolare così: o il liberalismo si sposa con una concreta dottrina del bene, in particolare quella cristiana che gli è congenere, e allora esso ha qualcosa da offrire alla crisi morale contemporanea, o invece il liberalismo si professa autosufficiente,“neutrale”o “laico”, e allora diventa un moltiplicatore della crisi stessa.
mondo
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Russia. Crolla la ricerca. Putin e Medvedev richiamano gli scienziati, ma nessuno vuole tornare ”a casa”
A.A.A. Cervelli cercasi Ricco di petrodollari, povero di talenti il Cremlino corre ai ripari e indice un concorso di Francesca Mereu
MOSCA. La Russia rivuole i suoi cervelli. Nel suo primo discorso alla nazione, il 5 novembre, il presidente russo Dmitry Medvedev ha chiesto alle decine di migliaia di scienziati russi emigrati in Occidente di tornare in patria, mentre il ministero dell’Educazione e delle scienze ha elaborato un programma per farli rientrare. Il Paese ha urgente bisogno di loro. «Dobbiamo organizzare una vasta e sistematica ricerca di talenti in Russia e all’estero. Organizzare una vera e propria battuta di caccia ai cervelli. Solo in questo modo potremmo
occidentale. Ora la Russia, ricca di petrodollari, vuole riaffermarsi sul piano tecnologico e ha estremo bisogno dei suoi scienziati per sostenere la concorrenza occidentale. Il ministero dell’Educazione e delle scienze ha indetto un concorso per richiamare, a iniziare dal gennaio 2009, cento scienziati in patria. Nel sito dell’Agenzia federale per la scienza e l’innovazione si spiega che il programma ha lo scopo di «restituirli alla scienza russa» e «di usare la loro esperienza e conoscenza per sviluppare il
toly Chubais, l’ex capo dell’ormai defunto monopolio energetico Ues a dirigere questa mega holding di Stato.
Negli ultimi due anni, inoltre, i salari degli scienziati sono aumentati e spesso raggiungono i livelli occidentali. Lo stipendio base di uno scienziato è ora di mille euro circa (o dieci volte di più rispetto a sei anni fa), ma grazie alle grant russe e straniere questo può raggiungere i 3mila euro. Gli scienziati ricevono grant dal Fondo russo per la ricerca fondamentale, mentre il ministero dell’Educazione e del-
Il ministero dell’Educazione avverte: solo il 9% dei giovani si laurea in materie scientifiche e solo il 3% diventa ricercatore. Fra 10 anni non ci saranno più nuove leve aumentare il numero di giovani talenti nella scienza», ha detto Medvedev alla nazione. «Questo aiuterà a creare dei grossi centri pubblici e privati che si occupano dello sviluppo di nuove tecnologie e anche il medio e grande business a creare imprese più moderne», ha aggiunto il presidente. (Lo stesso appello è stato fatto dall’ex presidente Vladimir Putin, ora primo ministro, lo scorso anno).
Il progresso scientifico era uno dei pilastri dell’ideologia sovietica, ma dopo il crollo dell’Unione, nel 1991, la scienza è stata rimossa dalla lista delle priorità di Stato. Nei turbolenti anni Novanta era più urgente rimodernare la vecchia economia e il sistema politico sovietico, piuttosto che continuare a finanziare la ricerca. I soldi erano insufficienti per tutti i settori e la scienza ne soffrì in modo particolare. Per circa quindici anni, infatti, i finanziamenti sono stati del tutto inesistenti e decine di migliaia di scienziati hanno lasciato il Paese per lavorare all’estero o hanno abbandonato la scienza per dedicarsi ad altri settori più redditizi dell’economia. I cervelli russi, secondo gli esperti, hanno contribuito con l’esperienza acquisita in patria al progresso scientifico
personale e il sistema scientifico» del Paese. Agli scienziati russi emigrati viene offerta anche la possibilità di dirigere team scientifici e organizzare seminari. Per prendervi parte è sufficiente rimanere nel Paese anche per solo due mesi. Un inizio, sostengono le autorità. Nel 2007 il governo ha, inoltre, assegnato 130 miliardi di rubli (circa 4 miliardi di euro) di fondi pubblici alla compagnia statale Rosnanotech, che sta costruendo l’infrastruttura per i progetti di nanotecnologia. A settembre Medvedev ha nominato Ana-
le scienze organizza vari concorsi. Oltre ai soldi russi, è possibile ricevere anche finanziamenti da centri scientifici europei (per lo più francesi e tedeschi) o americani. Ma nessuno degli scienziati russi che lavora in Occidente sembra voler tornare in patria. I
salari, dicono, non sono tutto: i laboratori russi sono sprovvisti di attrezzature moderne e i finanziamenti avvengono in modo poco trasparente. «Non conosco nessuno che ha intenzione di tornare. Il salario ora non è più un problema. Le cose sono cambiate rispetto a qualche anno fa, ma questo non sembra attirare le persone», racconta Aleksandr Karasik, professore all’Istituto d’ingegneria di Mosca e ricercatore senior al Dipartimento di laser dell’Istituto di fisica generale di Mosca. Nel perio-
do sovietico Karasik era a capo di un importante laboratorio di spettroscopia e l’80 percento dei suoi ricercatori («giovani di talento»), ha lasciato la Russia, per lo più per andare negli Stati Uniti. «I soldi ora ci sono, anche se devo dire che non tutti vincono le grant. Di solito queste vanno a quelli vicini al centro, cioè agli scienziati di Mosca e San Pietroburgo», spiega Karasik.
Secondo una ricerca fatta da Ivan Sterligov, un esperto di scienza che lavora alla Fondazione economia aperta, i salari migliori non stanno richiamando gli scienziati in patria. Quelli che hanno lavorato all’estero dicono che non riescono più ad
Il Partito ci permetteva di condividere i risultati delle nostre scoperte. Oggi ognuno lavora per sé
Si stava meglio quando si stava peggio Andrey Sarychev, professore di fisica metamateriale, è tornato a lavorare in Russia dopo aver insegnato per 10 anni alla Purdue University, nello stato dell’Indiana. Ora lavora all’Accademia delle scienze. Lei è uno dei pochi ad esser tornato in Russia. Come mai? Sono partito con l’idea di tornare non volevo rimanere negli Usa. Qui abbiamo più libertà di ricerca, negli Stati Uniti lavori in campi ristretti, cioè solo in quelli per cui ti hanno dato la grant. Lo stipendio era ovviamente migliore, ma qui ho un appartamento, mentre lì pagavo l’affitto. Qual è la differenza tra la ricerca ora
e nel periodo sovietico? Nell’Unione Sovietica il governo era il nostro principale cliente e noi eravamo liberi di fare ricerca, ovviamente entro i confini dei progetti che il Partito ci dava. Ma allora eravamo uniti, ogni gruppo conosceva i risultati della ricerca condotta da un altro. Ora invece ognuno lavora per conto proprio. Alcuni lavorano per giapponesi, altri per gli americani o per Paesi europei. Nessuno è al corrente di quello che ha fatto l’altro. Collaborare con gruppi stranieri dà agli scienziati la possibilità di usare macchinari moderni, ma la ricerca si ferma, perché non c’è scambio d’informazione.
Quali sono i problemi principali in Russia? La scienza non può andare avanti solo con buoni stipendi. In Russia lo Stato continua ad essere lo sponsor principale, ma sembra ci faccia la carità. Ci dà stipendi più alti e poi? Da noi non ci sono ditte private interessate a finanziare la ricerca come avviene negli Stati Uniti. E poi un altro problema è che le nostre scoperte scientifiche continuano a (f.m.) non avere applicazione pratica.
mondo A fianco, l’Accademia delle Scienze russa. Nel 2007 il governo ha assegnato 130 miliardi di rubli (4 mld. di euro) alla compagnia statale Rosnanotech, che sta costruendo l’infrastruttura per i progetti di nanotecnologia. A settembre Medvedev ha nominato Anatoly Chubais (a sinistra), l’ex capo dell’ormai defunto monopolio energetico Ues a dirigere questa mega holding di Stato. Sotto: Andrey Sarychev
Il progresso scientifico era uno dei pilastri dell’ideologia sovietica, ma dopo il crollo dell’Urss, nel 1991, la scienza è stata rimossa dalla lista delle priorità di Stato. Ora è scattata l’emergenza nostro entusiasmo. In realtà sono pochi i gruppi capaci di contendere a livello internazionale. Ci mancano le attrezzature», spiega Karasik.
adattarsi alla realtà russa e ad affrontare la burocrazia e la politica del loro Paese. «Alcuni professori dopo aver lavorato in Canada erano scioccati quando, tornati a San Pietroburgo, hanno visto le autorità locali picchiare una marcia dei dissenzienti (marce organizzate dall’opposizione, ndr). Gli scienziati prestano attenzione anche a queste cose. La scienza ha bisogno di libertà», ha detto Sterligov. Aleksandr Nevsky, un professore che dirige un laboratorio all’Istituto di fisica sperimentale dell’Università tedesca di Düsseldorf, ha lasciato Akademgorodok (la prestigiosa cittadina accademica a 40 km da Novosibirsk) negli anni Novanta, quando lo stipendio di uno scienziato non era sufficiente neanche per comprare del cibo. Nevsky, 45 anni, dice che gli sarebbe piaciuto tornare in patria, ma la Russia non gli offre gli stessi vantaggi della Germania. «Un buon salario non è tutto, noi fisici abbiamo bisogno di fare anche un lavoro interessante e quando penso a questo non vedo nessun futuro in Russia». Se nel periodo sovietico gli scienziati avevano a disposizione attrezzature d’avanguardia, ora le grant sono sufficienti solo per arrotondare gli stipendi, ma non per comprare macchinari moderni e gli scienziati raccontano di dover fare esperimenti con attrezzature che risalgono a 17-18 anni fa. «Cerchiamo di competere con i gruppi stranieri solo grazie al
Valentin Gordeli è un professore di biofisica all’Istituto di biologia strutturale Jean-Pierre Ebel, a Grenoble, Francia. Gordeli sostiene che la costante mancanza di denaro sta rallentando la ricerca. «Chi vuole tornare a lavorare in questo modo? Un ricercatore ha bisogno di macchinari e di sostanze chimiche e deve averle in tempi brevi altrimenti è impossibile gareggiare a livello internazionale». Talvolta, invece, nota il professor Nevsky, i soldi sono spesi per comprare nuovi macchinari, ma gli scienziati non li usano, perché proprio di quel macchinario non ne hanno bisogno. «Le attrezzature sono comprate attraverso schemi e canali così complicati che nessuno capisce da dove siano arrivati i soldi. Spesso vedi macchinari da sogno buttati nei corridoi, perché non servono a nessuno», rac-
conta Nevsky. Oltre a questo, gli scienziati spiegano che non riuscirebbero a lavorare in Russia dove le grant sono di solito date a gruppi ben ammanicati piuttosto che a quelli che le meritano veramente. La scuola scientifica dell’Unione Sovietica con più di un milione di scienziati, o un terzo in più degli Stati Uniti, era una delle più grandi del mondo. Ma la superiorità non riguardava soltanto i numeri. Gli scienziati russi erano considerati tra i migliori. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, la Russia eredita quasi tutte le risorse scientifiche, ma i migliori scienziati lasciarono il Paese. Secondo diverse ricerche dal 1991 a oggi dai 30 ai 40mila scienziati sono emigrati (alcuni sostengono che la cifra è di 200mila). Le statistiche ufficiali dicono che sono circa 390mila gli scienziati che lavorano nel Paese, ma secondo
Emigra in Germania e crea un impero
Mosca è rimasta sola Vitalii Lissotschenko, un fisico russo che ha lasciato il Paese negli anni Novanta, ha creato in Germania la Limo, ditta leader in Europa per la produzione di micro ottica e sistemi laser. La Limo è stata premiata in Germania nel 2008 per la sua efficienza e Lissotchenko è stato nominato imprenditore dell’anno. Qual è il problema principale della ricerca in Russia? I laboratori si sono svuotati
di personale tecnico e senza di loro è difficile portare avanti qualsiasi esperimento. I fisici sono costretti a ripararsi gli strumenti o costruirsi dettagli da soli, non si può lavorare così. Quanto ci vorrà, secondo lei, perché le cose si sistemino? Negli anni Novanta un’intera generazione è scomparsa, ora c’è bisogno di molta pazienza e tempo perché tutto ritorni ad essere come una volta. (f.m.)
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Per Izvestya, quotidiano di punta
Sono rimasti i somari • Nel 2007 il numero di studenti iscritti a facoltà scientifiche era circa 14mila, mentre 170mila si sono iscritti a facoltà umanistiche. • Nel 2000 lo scienziato russo Zhores Alfyorov riceve il premio Nobel per la fisica, ma questo gli fu dato per una ricerca svolta 20 anni prima. • Nel periodo sovietico ogni anno si registravano dalle 800 alle 1.500 scoperte, ora solo 100.
Sterligov, solo 30 mila lavorano in modo attivo. L’emigrazione interna dei cervelli ha contribuito a peggiorare la situazione. Secondo una ricerca fatta da Aleksander Allakhverdyan, il direttore del Centro di storia della scienza presso l’Accademia russa delle scienze, dal 1999 al 1994 circa 99mila scienziati hanno lasciato la professione per altri lavori (per lo più nel settore economico). Nel 1993 il numero sale a 160mila (o il numero di scienziati di due Paesi come Italia e Canada messi assieme). Dal 1995 al 1998 una media di 25mila scienziati l’anno ha lasciato il lavoro, mentre dal 1999 al 2001 circa 700 l’anno. La cifra sale ancora nel 2002-2005 con circa 6mila scienziati che lasciano il lavoro. Se nel periodo sovietico gli studiosi ricevevano stipendi più alti rispetto alla media, negli anni Novanta prendevano 60 dollari circa, somma appena sufficiente per una spesa al supermercato. Tanti arrotondavano allora facendo i tassisti abusivi di notte, gli imbianchini o gli idraulici part-time, molti invece non sopportarono il degrado e si suicidarono. La ricerca riuscì a sopravvivere grazie all’aiuto di fondazioni straniere, soprattutto americane, che dal 1991 al 2001 hanno dato alla Russia più di 4 miliardi di dollari per la ricerca, (la paura era che gli scienziati russi potessero vendere la loro conoscenza ai cosiddetti ”Paesi canaglia” e aiutarli a costruire armi di distruzione di massa), mentre il miliardario americano George Soros aveva donato in quegli anni 130 milioni di dollari. Molti scienziati sono riusciti a sopravvivere grazie a questi aiuti, ma la scienza russa sta ancora pagando le conseguenze della crisi di quegli anni. I giovani sono quasi assenti dai laboratori e l’età media del ricercatore russo è oggi 55 anni, mentre in occidente è 40 anni. La professione dello scienziato ha perso, infatti, il prestigio di una volta ed è per
• Barzelletta degli anni Novanta: Un ascoltatore chiama alla radio armena (protagonista di moltissime barzellette) e chiede: «Ma com’è fatta un’università americana?» La radio risponde: «È un edificio negli Stati Uniti dove professori russi insegnano a studenti cinesi». • Titolo sul quotidiano Izvestya nel 1993: «In Russia sono rimasti solo gli idioti e i somari, gli intelligenti sono andati via».
molti diventata sinonimo di insuccesso e povertà. «I giovani non studiano materie scientifiche, ma preferiscono business ed economia. Nell’università di Novosibirsk già da due anni non riescono a raggiungere il numero pieno, perché i giovani sanno che nella scienza non c’è futuro», dice Nevsky.
Secondo il ministero dell’Educazione e della scienza solo il 9 percento dei giovani dichiarano d’essere attratti dalla professione dello scienziato, e solo il 3 percento di quelli che si laureano in materie scientifiche dicono di voler lavorare nel settore. Gli esperti sostengono che se la tendenza non cambia, fra circa dieci anni quando i professori del periodo sovietico andranno in pensione, non ci sarà nessuno a sostituirli. Nevsky ha organizzato uno scambio di studenti tra le università di Novosibirsk e Düsseldorf, perché vuole che i futuri scienziati russi vedano «una realtà diversa» e che capiscano che lavorare nel mondo della scienza non significa solo degrado, ma è la parte tedesca a finanziare lo scambio. «La Russia è un Paese ricco, pieno di oligarchi e di petrolio, ma non riesce a trovare 600 euro affinché uno studente possa andare all’estero a farsi un po’ d’esperienza. Come possiamo parlare di scienziati che devono tornare in Russia? Tornare dove? In un Paese che non può pagare una misera somma, perché i suoi studenti arricchiscano il loro curriculum?». Secondo una ricerca fatta dalla filiale di Novosibirsk dell’Accademia delle scienze, il 70 percento degli studenti di Novosibisrsk vuole lasciare il Paese dopo la laurea. E secondo Sterligov la diaspora scientifica russa si sta popolando di giovani scienziati che dopo aver ricevuto una buona educazione in patria vanno a fare il dottorato in Europa o negli Stati Uniti. Un dottorato ricevuto all’estero gli dà la possibilità non solo di imparare un’altra lingua, ma anche di rimanere quel Paese a lavorare.
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un passo avanti nel lodevolissimo sforzo di rendere più umano ciò che umano non è: la guerra. Parliamo del trattato per la messa al bando delle bombe cluster, le bombe a grappolo, firmato tra mercoledì e giovedì ad Oslo da un centinaio di Paesi. Il trattato entrerà in vigore con la ratifica da parte di 30 dei firmatari. È giusto celebrare un’iniziativa che avrà sicuramente l’effetto di ridurre le vittime civili colpite, a guerra finita, da ordigni inesplosi (Uxo, Unexploded Ordinance), in larga misura rappresentati dalle bombette seminate sui campi di battaglia da aeroplani, razzi, proietti d’artiglieria. Persino Stranamore non può che essere lieto di un tale sviluppo. Ma troppi “ma”rendono meno significativo il risultato. Intanto il trattato non è stato firmato proprio dai principali produttori ed utilizzatori di armi di questo tipo: Stati Uniti, Russia, Cina, India, Pakistan e Israele. Questi Paesi preferiscono far correre ad altri, comunque “nemici”, il rischio delle Uxo piuttosto che mettere a repentaglio la vita dei propri soldati. Il trattato ha comunque un effetto coercitivo morale anche su chi non firma. Però le remore morali cadrebbero qualora i protagonisti dovessero combattere una guerra per la propria sopravvivenza. Perché le bombe cluster rispondo ad una esigenza bellica importante, quella di colpire, in modo efficace, in fretta, senza
È
Ipocrisie. Proibite le letali “bombette”, ma non dai Paesi produttori
Il bando delle cluster? Una festa inutile di Stranamore esporsi ed a basso costo un obiettivo esteso, areale.
Le cluster assolvono questa funzione (una singola bomba può saturare un’area di 200x400 metri) costano relativamente poco e richiedono una tecnologia disponibile da più di 60 anni. Ed una volta che un’arma è stata creata non può essere “disinventata”. Tra l’altro la crociata anti-cluster è mirata soprattutto alle cluster di bassa qualità, quelle che seminano bombette che non esplodono come previsto. In questo le associazioni umanitarie e i militari hanno un identico interesse, anche se per motivi diversi: entrambi vorrebbero che tutte le bombette funzionassero. Però per i militari un tasso di mancata esplosione del 5% è accettabile, per le organizzazioni umanitarie no. Alcune bombe hanno tassi di insuccesso del 15%, fino al 25% su terreni soffici. Le industrie militari hanno sviluppato bombe
Il Trattato di Oslo non è stato firmato proprio dai principali produttori e utilizzatori delle cosiddette bombe a grappolo: Stati Uniti, Russia, Cina, India, Pakistan e Israele
cluster più moderne, avanzate e costose che riducono sensibilmente la creazione di Uxo.
Ma ora, grazie al trattato, queste industrie beneficeranno di una nuova corsa agli armamenti. Già, perché visto che il requisito militare rimane e le cluster vanno eliminate servono nuove armi, naturalmente molto più sofisticate e costose. Il trattato infatti ammette bombe cluster intelligenti, pesanti almeno 20 kg e contenenti non più di 10 submunizioni, ciascuna delle quali deve pesare almeno 4 chili. Ogni munizione poi deve possedere un sistema di guida per attaccare uno specifico bersaglio e una spoletta che ne garantisca la autodistruzione in caso di non funzionamento. In alternativa si possono usare missili e bombe guidati, indirizzandone uno contro ciascun obiettivo presente nella zona da attaccare. Anche queste armi costano una fortuna. Una ditta statunitense poi ha messo a punto un’arma areale che pesa appena 20 kg e svolge il “lavoro” di una cluster da 454 kg piena di bombette antiuomo.Tutto questo grazie ad uno speciale effetto esplosivo/incendiario. E tutti coloro i quali non potranno permettersi le costose e sofisticate alternative tecnologiche alle cluster, in caso di necessità torneranno o continueranno ad usare le“vecchie”armi messe al bando. Esattamente come accade per le mine. Questa è la realtà. E ora torniamo a festeggiare.
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La folla ascolta un discorso di Mangil Bagh, uno dei leader del movimento terrorista pakistano Lashkar-e-Taibe nella città di Khyber, una delle zone tribali al confine dell’Afghanistan. Delhi accusa questo gruppo degli attacchi contro Mumbai. Sotto, Brian Jenkins
Islam. Altre minacce contro Mumbai, nuove accuse al Pakistan
Gli attentati in India: strategia e religione U
I terroristi perseguono tre scopi: attaccare obiettivi-icone o che hanno “valore emotivo”, provocare gravi perdite umane e causare danni economici. Perché hanno colpito l’India? I jihadisti considerano l’India una nazione indù, nemica dell’islam. Il fatto che il Kashmir musulmano sia guidato da Delhi fornisce un ulteriore motivo. L’India poi è diventata sempre più un alleato degli Usa, innalzando in questo modo il suo status di obiettivo agli occhi di chi si ispira all’ideologia di al Qaeda. Alcuni vogliono uno Stato islamico in India. Ma la popolazione musulmana rappresenta solo il 14 percento della popolazione indiana, e questo ren-
I commandos di Mumbai, come il resto dei fondamentalisti, sono auto-radicalizzati: strumenti di morte usa e getta. Basta inserire una simcard per programmarli all’azione e al suicidio suf Muzammil, le menti dietro alla strage. Strage dietro la quale si può intravedere una “terrificante logica strategica”, come spiega Brian Jenkins, uno dei massimi esperti americani di terrorismo. Il consigliere capo della Rand Corporation ritiene che l’India sia stata colpita perché «i jihadisti la considerano come la nazione degli indù, che insieme a cristiani ed ebrei sono considerati nemici dell’islam». Tra gli obiettivi strategici degli attacchi, il dialogo tra India e Pakistan e il ruolo di Islamabad nella lotta al terrorismo in Afghanistan. I suoi scritti sul terrorismo si concentrano sulla psicologia del terrorismo. Cosa dicono gli attentati di Mumbai sulle motivazioni dei terroristi? Abbiamo la tendenza a descrivere il terrorismo come violenza senza senso, ma raramente è così. Questo non significa che i terroristi pensano come pensiamo noi: hanno una loro visione del mondo. Considerando gli attentati in prospettiva, ne discerne una terrificante logica strategica. Quali sono i criteri delle loro decisioni, come scelgono gli obiettivi?
de improbabile un simile obiettivo. Più concretamente, un attentato in India può esacerbare gli antagonismi tra la comunità indù e quella musulmana dell’India e scatenare rappresaglie da parte degli hindu, come quando nel 2002 più di un migliaio di musulmani furono massacrati nel Gujarat. In compenso, questo facilita il reclutamento da parte dei musulmani estremisti. Perché i terroristi hanno scelto Mumbai anzichè la capitale Delhi? Mumbai è il centro commerciale e di intrattenimento dell’India, la Wall Street e la Hollywood dell’India. Simboleggia l’India moderna. Mumbai è anche una città di indù e musulmani, e questo è un fattore che facilita il reclutamento locale e la ricognizione del territorio. Inoltre, cosa importante, è accessibile via mare. Si è trattato del terzo attacco terroristico più spettacolare contro Mumbai. Nel 1993, gli estremisti musulmani perpetrarono una serie di attentati dinamitardi che uccisero oltre 250 persone. Nel 2006, installarono bombe sui treni pendolari di Mumbai uccidendone 200 e scatenando l’insicurezza nel Paese.
Zimbabwe, il Kenya chiede dimissioni Mugabe L’accordo di condivisione del potere in Zimbabwe “è morto”. A sancire il fallimento è il primo ministro keniano Raila Odinga che chiede al presizimdente babwese Robert Mugabe di lasciare la scena politica del paese africano. Odinga ha tenuto in questi giorni a Nairobi una serie di colloqui con il capo dell’opposizione dello Zimbabwe, Morgan Tsvangirai, che dalla scorsa settimana sta compiendo un giro nelle capitali del continente per sollecitare i paesi dell’Unione africana a mobilitarsi per risolvere la crisi politica che ha colpito la nazione dell’Africa australe.
La Siria sospende i negoziati con Israele
colloquio con Brian Jenkins di Marco Antonellis na nuova minaccia tiene l’India in stato di allerta. La Deccan Mujahiddin, sigla terroristica che ha rivendicato la strage di Mumbai, ha minacciato infatti il Paese di nuovi attacchi fra il 3 e il 7 dicembre. Tutti gli aeroporti internazionali sono stati blindati dalle forze speciali di polizia, mentre l’intelligence starebbe operando per cercare i mittenti della nuova minaccia. Nel frattempo, si stringe il cerchio attorno al Lashkare-Taiba, gruppo estremista pakistano ritenuto responsabile degli attentati della capitale finanziaria dell’India. Nuove prove indicherebbero nei due vertici dell’organizzazione, Zaki-ur-Rehman Lakhvi e Yu-
in breve
Gli attentati aumentano le tensioni tra l’India e il Pakistan. Anche questo era uno degli obiettivi? I pakistani percepiscono già l’India come una grave minaccia per la sicurezza nazionale del Pakistan. Se da un lato ritengo che la maggior parte della gente in Pakistan sia rimasta impressionata dagli attentati quanto chiunque altro, dall’altro lato la prospettiva di un nuovo confronto armato con l’India, o di operazioni militari indiane contro presunti campi di addestramento per terroristi nel Kashmir pakistano, provocherà reazioni di rabbia e rafforzerà la posizione dei sostenitori in Pakistan di una linea dura nei confronti dell’India. Allo stesso tempo, questo aiuterà i terroristi basati in Pakistan: il Pakistan potrebbe convincersi a ridispiegare le sue forze dalle aree tribali di confine, dove sta inseguendo i militanti jihadisti, verso posizioni difensive contro l’India. Un eventuale allentamento delle forze pakistane nelle aree di frontiera potrebbe complicare ulteriormente le cose per la Nato e le forze americane in Afghanistan. Quel che lei descrive sembrerebbe essere un colpo da maestro della propaganda terrorista. Ma cos’è che motiva gli attentatori stessi? L’attentato rappresenta un’opportunità di dimostrare la propria convinzione, il proprio coraggio, il proprio valore di combattenti. I terroristi devono accettare la propria morte come esito più probabile. E sono convinti che Dio li farà entrare velocemente in paradiso, molto prima che se piazzano bombe contro civili inermi.Tuttavia, il loro fanatismo omicida-suicida scorre molto più in profondità di quel che rispecchiano le loro convinzioni dichiarate. Riflette un peculiare tipo di personalità, se non apertamente una psicopatologia. In un mondo dalle ingiustizie globalizzate, uno trova le ragioni per essere aggressivo. Questi giovani sono auto-radicalizzati, strumenti di morte usa e getta. Basta inserire una sim-card per programmarli all’azione.
La Siria ha deciso di sospendere i propri negoziati con Israele - condotti attraverso la mediazione della Turchia - fino a che lo Stato ebraico non darà una risposta alle richieste di Damasco riguardo al futuro delle Alture del Golan: è quanto pubblica il quotidiano arabo Al Hayat. Secondo il quotidiano la Siria ha consegnato ai mediatori il dossier con le risposte alle richieste israeliane, ma ha chiesto che non venga trasmesso a Israele fino a che lo Stato ebraico non farà altrettanto.
Corte Strasburgo, giusto il bando del velo a scuola La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha respinto il ricorso di due giovani francesi di religione musulmana, che avevano denunciato l’espulsione dalla loro scuola per essersi rifiutate di non indossare il velo islamico durante le lezioni di educazione fisica. I giudici di Strasburgo ritengono che i responsabili dell’istituto non abbiano violato l’articolo 9 della Convenzione sui diritti dell’uomo (libertà di pensiero, di coscienza e di religione), sottolineando che l’espulsione non era stata decisa a causa della religione, come sostenuto dalle due ragazze, ma per il loro “rifiuto di conformarsi alle regole applicate all’interno della scuola”. Regole di cui le due ragazze erano a conoscenza.
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Il convegno. A Palazzo Ducale di Lucca, oggi e domani, una mostra e una tavola rotonda sugli “autori della follia”
La malattia della scrittura Viaggio nell’«Io provvisorio e bipolare» di Ottiero Ottieri di Raffaele Manica er cominciare, è meglio rileggere il breve autoritratto che Ottieri stesso preparò per l’Autodizionario degli scrittori italiani (1989), posto da Maria Pace Ottieri in testa alla «Biografia di mio padre» (reperibile in internet): «Dal fascismo adolescenziale all’antifascismo il più accanito, dall’industria e dall’osservazione complice dell’esperienza operaia, al set, al jet set, alla clinica e all’amore.Voleva essere un sindacalista playboy. Sull’industria il libro più noto è Donnarumma all’assalto. Sul set L’impagliatore di sedie, sul jet set I divini mondani, sulla malattia morale L’irrealtà quotidiana e in versi, o meglio in cadenze, La corda corta. Sull’amore, I due amori e Vi amo. È un bipolare, vale a dire che dalla sua depressione zampillano euforie pericolose, perché scavano la fossa alla prossima, dolorosissima caduta. È un bipolare secondo Cassano, ossessivo e compulsivo. Secondo lo psicoanalista Zapparoli, non tollera il piacere, ha bisogno della continuità della sofferenza. Non può scrivere, vivere se non si intossica: alcol, sigarette, tè forte, caffè. Esistenza malsana. Il suo pancreas comincia a risentirne. Che muoia presto? Sotto l’ansia permanente saltano le valvole della macchina meravigliosa. Lei ha un terrore della morte, direbbe Zapparoli, a Milano. Le allungo una buona vita, dice, a Pisa, Cassano».
P
Dopo quell’anno verranno altri libri, ma intanto il libro d’esordio, Memorie dell’incoscienza, sullo scenario italiano tra 1943 e 1945, aveva aperto il sipario sui temi suoi principali della difficoltà a partecipare, pur volendolo, ai fatti civili e all’amore. La realtà aziendale delineata in Tempi stretti aveva posto il dilemma tra impegno politico e carriera. Lo psicologo di Donnarumma all’assalto, in azione per conto di un’azienda del Nord che apre una dipendenza nel Sud, si trova a dover decidere tra destino e lavoro. E se una decisione per l’impegno è nella Linea gotica, e uno sguardo quasi sociologico è nell’Impagliatore di sedie, il rapporto psichico col mondo fa ir-
ruzione veemente con L’irrealtà quotidiana. E ciò che viene alleggerito con I divini mondani torna al nucleo essenziale con la narrazione in chiave di commedia di Contessa e si affaccia in Di chi è la colpa. Ancora la malattia è universo escludente ed esclusivo per la relazione in prosa che è Il campo di concentrazione, e per i ritmi in «cadenza» di Il pensiero perverso (in prima persona) e di La corda corta, «poemetto pariniano» dedicato a un «malato giovinetto» (Antonio Porta). Inframmezzata dalle relazioni d’amore di I due amori e di Il divertimento, dal controverso rapporto col corpo di Improvvisa la vita, dal dongiovannismo infantile di Vi amo, è la malattia ora il tema che gli altri temi cancella o relega in piani irraggiungibili: e sono i poemetti e le prose che qui soprattutto si seguiranno.
linguaggio sia la consistenza dell’anima. Si rammenti la pagina di apertura dell’Irrealtà quotidiana («appena si decide una via, si finisce per decidere anche la via opposta. Appena si tocca una cosa o certezza, si rimbalza, per ciò stesso, su un’altra cosa o certezza che si trova o inventa. Non si è dubbiosi metodicamente ma disperatamente […] la mente è spinta a scegliere da una forza vitale immane che la preme, dalla possibilità di scegliere, dalla “possibilità angosciante di potere”, insomma dall’ambivalenza, e mai potrebbe rassegnarsi a non scegliere. E non sceglie») e si veda che cosa diventi nell’Infermiera di Pisa: «La clinica è l’equidistanza, / la stanza delle visioni fuggiasche / e la comoda attesa / vuoi della guarigione, / vuoi dell’estinzione. / Il domicilio morde d’angoscia, /
Il libro d’esordio “Memorie dell’incoscienza” aveva aperto il sipario sui temi suoi principali della difficoltà a partecipare ai fatti civili e all’amore Ma poi: per tema, Il campo di concentrazione non si distacca dai poemetti degli anni Novanta, cadenze ritmiche a parte; e I divini mondani ha una narrazione congegnata e scandita alla maniera di un poemetto. E La psicoterapeuta bellissima, del 1994, è scena forse di un sogno, forse ad occhi aperti, dove c’è l’abolizione del principio di non contraddizione e la consueta convivenza degli opposti. Scena anche in quanto procedente per dialoghi; anzi: con la messa in evidenza assoluta dei dialoghi, che invece sono intermittenti, per esempio, in L’infermiera di Pisa. L’«Io provvisorio» è protagonista, a suo modo nell’Infermiera di Pisa: «“Ma qual è insomma la sua casa?” / domandò affettuoso il professore / tornato al suo fulgido sorriso. / “È che ne ho diverse, / diversi luoghi ha per dimora / l’Io provvisorio». E si può credere che l’Io provvisorio sia soprattutto un problema linguistico e di decisione linguistica, e che il
perché è rinuncia a qualcosa. / L’io provvisorio vuole tutto. / Si imbizzarrisce all’afrore / della decisione». Situazione immutata nel Palazzo e il pazzo: «Ma io non aspettavo a Zurigo / La caduta dello Zar – / esule è l’analizzando – / bensì che i buchi dell’inconscio / non si richiudessero, / lasciassero alitare per materia l’Io, / non
provvisorio, definitivo, / che Io divenissi / il sindaco del Sé».
Sempre il turbamento arriva da ciò che in apertura del Campo di concentrazione è «la ridda delle donne vagheggiate» e, nel Palazzo e il pazzo, diventa: «appena penso a una donna / ne penso anche un’altra». Oppure, confinato in un letto di San Rossore per le cure chimiche del dottor Cassano, l’Io, che si finge stabile, viene turbato dalla presenza della magra infermiera, tra i cui seni vorrebbe quietarsi; ma l’irraggiungibilità di quel contatto rimette in modo il ricordo di altre donne («l’amante di Roma») o il desiderio viene deviato su altre occasionali apparizioni: la donna dai capelli ramati. Si vedrà tra poco. Intanto, si ricorda che tutto sta già annunciato in L’irrealtà quotidiana, il libro dal genere indeciso: romanzo, saggio, meditazione, forse poema in prosa. Ma indeciso nel genere è anche il Poema osceno: ora, non si crede che fosse precisamente problema di Ottieri la discussione o la pratica di un genere. I suoi poemetti in cadenza sono insieme l’analisi e la conseguenza del turbamento: così che potremo dire che la malattia in versi non è la malattia, ma il modo di guardarla; o anche l’accanimento a districarne il senso (o il non senso) da un
punto di vista interno, secondo uno sguardo interiore. E, a poter ciò affermare, aiuta il congedo dell’Irrealtà quotidiana: «È strano allora se un libro è esso stesso, in sé, la dimostrazione della propria tesi?». Al suggerimento durante un’intervista raccolta da Maria Pace – «l’interrogarsi filosofico somiglia all’interrogarsi del nevrotico» – Ottieri aggiungeva: «Certo, sono vittima del pensiero ambivalente che pensa tutto e il contrario di tutto. E anche il filosofo può pensare tutto e il contrario di tutto». Allo stesso modo, ogni suo libro può essere considerato come glossa di ogni altro suo libro; e il libro ancora non scritto è già dentro le domande senza pronta risposta del libro scritto.
Due versi che stanno in un poemetto di intenso lavorio psichico e di commovente elaborazione emotiva, Storia del psi nel centenario della nascita, dicono: «Il troppo capire non è ammesso / dagli adulti dediti alle cose», che è un altro modo di prendere con una formula il «pensiero ambivalente». Dunque: il sintomo dei versi e della prosa (ancora una convivenza degli opposti) può forse eleggere a propria figura il nodo: e coloro che frequentano libri al confine tra letteratura e clinica sanno l’argomento esser stato praticato in famosi libretti di Ronald Laing (Nodi, Mi ami?). Ma la messa in primo piano della figura del nodo in stretta relazione con il sintomo è in uno degli ultimi seminari di Jacques Lacan, il Seminario XXIII, leggendo il quale
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solo ci si rammarica che il momento attoriale, recitativo, di Lacan abbia preso il sopravvento, lasciando al posto dell’argomentazione poco più che una suggestione. Ma questa suggestione agisce: il nodo è la figura non solo dell’intrecciarsi, ma del rincorrersi degli opposti. Ma se in Il palazzo e il pazzo Ottieri chiede: «Scusi, posso essere un caso letterario, / invece di un caso clinico?», a questa domanda bisognerà non solo rispondere ma dar seguito. È più di un indizio retorico, per esempio, che le parole e i concetti che vi corrispondono si ricorrano circolarmente: nel Palazzo: «Ricordo che quando / tremo, non deliro, / quando deliro / non tremo»; e poi: «Deliravo? Era comodo delirio pensare / che avessi il tremens, / che deliravo il delirio?»; e, infine: «il perseguitato / non vuole esser perseguitato / senza accorgersene. / Vuole sentirsi più perseguitato / di quanto lo possano perseguitare, / per non essere impreparato /alla massima persecuzione. / È il suo modo di Volersi Bene» (nel Palazzo: «Aveva la psicanalista / e lo psichiatra, coppia dannata, / riproduzione del doppio / che ha il paziente in testa»).
Nonostante – o proprio perché – nell’Infermiera di Pisa si abbia a che fare con «l’organicista antifreudiano Cassano, / l’americano», sarà opportuno un po’ di Freud. Nel saggio su Il perturbante c’è un punto evidenziato in corsivo da Freud stesso: «La conclusione, che suona paradossale, è che molte cose che sarebbero perturbanti se accadessero nella vita non sono perturbanti
nella poesia e che d’altra parte nella poesia, per ottenere effetti perturbanti, esistono una quantità di mezzi di cui la vita non può disporre». Il perturbante, aveva sottolineato Freud all’inizio del suo saggio, è piuttosto ignorato dall’estetica; ma, anche in campo medico, la delineazione del concetto è difficoltosa, perché «la sensibilità verso questa qualità del sentire è sollecitata in maniera diversissima da individuo a individuo». Ottieri, con le sue cadenze e il suo inconcludibile prosimetron, sembra rimescolare le carte al tavolo del perturbante, talmente
ne. Non si ferma in nessun momento accertabile e riferibile con altre parole che non siano quelle delle cadenze stesse: irriassumibile e solo citabile, ma così intricata che anche solo tagliarne un punto è impresa ardua: intanto perché la somma algebrica dei versi permette a ciascun verso di diramarsi infinitamente negli altri; poi perché le cadenze non edificano significato, ma alludono a un sentimento ulteriore e nascosto delle cose e degli accadimenti. È poesia di pura dépense. Come dépense è “quella” malattia: «Tre erano gli addetti / all’impazzita lancetta dell’umore, / disturbo da curare / senza che avvenga la penosa mutazione dell’Io» (Infermiera). La risposta clinica è basata sulla chimica e sull’utile: «A Pisa si solve prima l’umore, / poscia, di buon umore, il problema. / Disturbo dell’umore è la follia. / In Pisa si lavora intorno all’umore, / alle più friabili lancette / e mutevoli del mondo. / Sei tutto, umore, / bilancino del mondo». E l’umore dipende «dall’alchimia americana»; l’«effetto Cassano» muta «l’umore / con cui sono pensati i pensieri»; così il litio «è miracoloso / come la pietra filosofale»: e «io mi affido al sale, / però mi lasci dubitare». Questo scrivere dispendioso fino allo spreco nel suo moto centrifugo, osservato più da vicino si mostra di forma rovesciata: un sistema di accumulo e centripeto, teso a un paradosso che tutto sostiene: stabilizzare la provvisorietà dell’Io perché, illusoriamente, quella provvisorietà è il modo unico che permette all’Io di consistere. Ma quale è l’energia che permette al moto di essere tale e permette alla poesia di Ottieri di essere dinamica, mobile, prensile eppure immediatamente e irrimediabilmente dispersa? Ogni increspatura sul pelo dell’acqua che è la quieta esistenza porta turbamento; qualunque cosa: giacché all’origine altro non po-
Nel “Pensiero perverso” la malattia è per Ottieri universo escludente ed esclusivo per la relazione in prosa e per i ritmi in «cadenza» prossime sono vita e poesia. Comunque, in Freud, quale punto di partenza, viene assunto che «il perturbante è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare».
La provvisorietà della quale Ottieri parla nelle sue cadenze e che è il vero, benché indecifrato, protagonista del suo pensiero, è accadimento nel presente: ma il presente si configura tra sdoppiamento, provvisorietà e turbamento proprio perché intossicato dal passato – oppresso dal rigurgito del passato percepito come «cattivo». Di più, per stare a un altro punto cardine del pensiero novecentesco, la poesia di Ottieri non conosce utile: in ciò è dispendiosa fino alla dissipazio-
trebbe essere se non assoluta immobilità, immobilità protetta, medicamentosa, forzosa. Il pensiero che sorregge tale movimento è tuttavia pensiero fermo, ritratto – nel suo nucleo essenziale – su se stesso. Eppure di disponibilità a ogni turbamento, a farsi riplasmare, soprattutto quando percosso dalla sfera dell’eros. Il turbamento erotico arriva sovraccarico, come le esperienze emotive, in genere, nei luoghi a circolazione chiusa; così tutto ciò che latamente sembra connotato dalla femminilità viene percepito con tratti deformati e, sopravvalutato, diventa appetibile; purché sappia attrarre la memoria di qualche situazione simile occorsa in passato, simulando una continuità. Così l’«infermiera di Pisa», della qua-
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le «s’ignorava come avesse abbandoni / che cosa mugolasse nell’amore»: «Gli bastava vederla, ignara, curvarsi, / albero dinoccolato, ossuto e molle / […] / Non avea petto, né pancia, né sedere, / piallata sciacquava nella veste blu, / albero fronzuto solo di ricci neri, / d’occhi di naso, di bocca. / […] / Attendeva che l’infermiera di Pisa / slacciasse il grembiule, / aprisse la veste, / scoprisse i misteriosi seni, / forieri di misteriose terre. / […] / col suo magro e casto / culetto a
Sopra, Mario Tobino. Sotto, Ottiero Ottieri e, nella pagina a fianco, Jack Nicholson nella pellicola “Qualcuno volò sul nido del cuculo”
Il convegno e la mostra a Palazzo Ducale di Lucca La Fondazione Mario Tobino inaugura le celebrazioni del centenario della nascita dello scrittore toscano con la mostra “Il turbamento curato” e il convegno “Il turbamento e la scrittura”, che si terranno oggi e domani a Palazzo Ducale di Lucca. Al convegno, tra gli altri, interverranno come relatori Beatrice Alfonzetti, Antonella Anedda, Alfonso Berardinelli, Eugenio Borgna, Claudia Carmina, Marosia Castaldi, Milo De Angelis, Primo De Vecchis, Salvatore Ferlita, Roberto Gigliucci, Raffele Manica, Graziella Magherini, Camilla Miglio, Guido Padano, Adolfo Pazzagli, Domenica Perrone, Katia Rossi e Michele Zappella.
segreti scatti». E così il ricordo di circostanza trascorsa da lei si attiva: «Come un colpo / di fucile traversò la ruminazione del vecchio / l’idea dell’amante di Roma, / bionda. / Avea le cosce lunghe, / i seni a coppa. / Una terrificante libidine / lancinava il paziente / al ricordo di colei che nuda / faceva il ponte all’indietro. / Le ficcava il membro da retro. / L’alto barrire / s’udia nelle vicine stanze». E Cassano: «Non ti farai mica / ora che sei quasi a cavallo / scompensare dalle donne?». Allora il vecchio: «Professore, tutta la mia vita / è travagliata a morte dalle donne», ché «Tutte le donne che avea nel cervello / componevano una leggiadra, dannata / ghirlanda»: e la fotomodella della ricca Milano si congiunge con «una nana toscana / con la sottana alle magrissime cosce». E così via. Se si guarda alla sintassi di Ottieri, ci si accorge che ha una sua frenetica pacatezza: non scavalca nessun ordine naturale, ma il procedimento di accumulo la rende costipata, come volendo assumere contemporaneamente tutti i punti di vista o il maggior numero possibile di punti di vista. Ciò congiura all’instabilità dell’Io, e insieme fa l’Io prismatico; ma le luci che passano e gemmano da questo prisma, entrando e uscendo, nutrendosene, s’intrecciano con le luci fuori del prisma: si incontrano e scontrano, e si intrecciano con quel nucleo originario e profondo, con l’Io provvisorio; provvisorio per la sua stessa capacità di aderire a tutti gli altri punti di vista. Sicché solo è possibile un referto dialogico, una scena che, per non smarrire nulla di sé, si dispone alla dispersione.
Tutte le voci di questa scena sono riportate a una sola voce, ma si identificano dal loro tema e dall’impostazione del tema, dalla diversa disponibilità o aggressività, dal gusto ora del paradosso ora del sarcasmo. E voci lontane sono sorelle («Egli aveva sempre ritenuto / che lo spirito guerrier che rugge / entro il Foscolo, fosse ansia. / Voleva chiederlo / al professore di italiano della Normale. / L’ombre, il crepuscolo, la notte / sono amici del bipolare, / che annaspa la mattina»). In genere la messa in discussione, la volontà di contestazione, risulta appartenere alla voce d’origine («Sapeva che anticapitalisti pervicaci / consideravano la sua malattia / una rivolta schiacciata, / confinata nelle cliniche. / Non si inorgogliva. Era incerto. / […] / Venne dall’America la DEP / malattia mentale unificata. / Venne ricca di sigle / Che piacevano all’imperialismo / Che aveva sempre fretta»). Così la rappresentazione è su una scena, ma in piena soggettività. Soggettività di quale soggetto? È questo il punto; e con ciò si dovrebbe concludere, se non si fosse di nuovo all’inizio, perché perfino il fantasma che acquieta l’anima «dieci volte al giorno / cangia».
in edicola il secondo numero del 2008
I QUADERNI DI LIBERAL Alla fine dell’anno nero del mercato e delle borse, la risposta agli interrogativi più urgenti della nostra epoca • Dio ci salvi dal New Deal • L’enigma delle banche • Paradosso! Più Stato e più mercato • Pinocchio a Wall Street • La crisi non è di sistema • La vera chance dell’Europa • Il capitalismo di massa • Meno figli meno sviluppo • Cronaca di un disastro annunciato
Giuliano Cazzola, Enrico Cisnetto, Pierre Chiartano, Giancarlo Galli, Jacques Garello, Ettore Gotti Tedeschi, Carlo Pelanda, Michele Salvati, Carlo Secchi
spettacoli
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Cinema. “Australia” di Baz Luhrmann supera la prova del primo weekend
La “musa” Kidman nella terra dei canguri di Pietro Salvatori i sono progetti che racchiudono in sé un’aura di mistero, personaggi che sarebbe meglio non scomodare dallo scaffale della letteratura o della storia per trasferirli sul proscenio di un film. Come non pensare a Don Chisciotte, contro il quale hanno combattuto vanamente autori del calibro di Orson Welles, che mai riuscì a portare in porto uno dei suoi progetti più ambiziosi, e di Terry Gilliam, il visionario regista di Brazil che inutilmente provò ad imprimere sulla pellicola le gesta del cavaliere della Mancha. O ad Alessandro Magno, il cui sogno di impero universale si frantumò alle porte dell’India, proprio come le velleità di gloria e di incasso di Oliver Stone, stroncato dalla critica e privato della benevolenza del pubblico per il suo Alexander, e quelle di Baz Luhrmann, il cui progetto di portare sullo schermo il proprio condottiero macedone donandogli le fattezze di Leonardo Di Caprio è naufragato di fronte ad una lunghissima serie di inconvenienti di produzione.
C
getto su Alessandro Magno, il genio controverso del regista nato e cresciuto nel paese dei canguri lo si è potuto ammirare sul grande schermo solamente tre volte. Tanti sono i film che, dal 1992, anno di esordio con Ballroom - Gara di ballo, Luhrmann ha messo in scena. Dopo il musical del ‘92, la notorietà è arrivata con Romeo+Giulietta, film che, ancor prima di Titanic, lanciò un giovane Di Caprio e valse al regista una nomination all’Oscar per miglior scenografia. E ancora una storia d’amore come Romeo+Giulietta, e al contempo un musical come Ballroom, ha consacrato il regista come uno degli autori più eccentrici e sognatori del cinema odier-
grande stile per un regista eccentrico, capace di creare attorno a sé un’aura di mistero e di fascino fuori dalla norma, che decide di parlare della sua terra, vera protagonista sin dal titolo di una nuova, grande, storia d’amore.
Ritorna la musa Kidman, affiancata questa volta da Hugh Jackman, australiano anche lui, dopo il gran rifiuto di Heat Ledger di sostituire Russel Crowe, inizialmente protagonista del progetto, poi abbandonato per dissidi con i produttori della Fox, preferendogli il fatale set di The Dark Knight. Il primo elemento, questo, di una lavorazione non semplice, costata oltre 130 milioni di dollari, prolungatasi per la richiesta fatta al regista dalla Fox stessa di modificare in senso positivo il finale, dopo che alcune proiezioni di prova erano andate preoccupantemente male, al costo di spostarne l’uscita mondiale di due settimane. Lieto fine assicurato, dunque, per un film che risucchia il proprio pubblico nel buio della sala per quasi tre ore, finendo e riniziando almeno un paio di volte, a testimonianza dell’enorme quantità di materiale di lavorazione e di spunti narrativi utilizzati, sufficienti per costruirci sopra almeno un paio di storie diverse e, si potrebbe aggiungere, probabilmente più efficaci di quella che poi si dipana effettivamente sullo schermo. «La reazione in Australia non è stata ottima da parte della critica - conferma Luhrmann, dicendosi orgoglioso di essere riuscito a raccontare una parte poco conosciuta della storia australiana, indipendentemente se l’incasso riuscirà o meno a ripianare le enormi spese sostenute - Molto meglio ci hanno trattato i critici americani: il New York Times non mi aveva mai recensito bene come questa volta». Australia ha così superato la prova del primo weekend negli States, anche se a fatica, incassando “solo”15 milioni di dollari, cifra che non basta a garantire rosee aspettative per il consuntivo finale. Vedremo dunque se il vecchio continente saprà correre in soccorso al blasone di Luhrmann e alle casse della Fox.
Negli Stati Uniti ha incassato 15 milioni di dollari. Il regista: «Il New York Times non mi aveva mai recensito bene come questa volta»
A destra, l’attrice Nicole Kidman, protagonista dell’ultimo film di Baz Luhrmann “Australia”. Sopra, alcune immagini della pellicola appena uscita negli Stati Uniti e di prossima uscita in Europa
Allo stesso modo ci sono terre la cui storia è foriera di epicità e mistero, luoghi per lungo tempo sconosciuti al mondo civile, come la “terra australis incognita”, come gli inglesi chiamarono per la prima volta l’odierna Austrialia nel 1625, prima di renderla sede di un vasto sistema di colonie penali nel secolo successivo, facendola così diventare terra di incontro e di scontro tra due culture, quella sacra e misterica degli aborigeni e quella razionale, spesso sprezzante, degli inglesi. Vi sono infine registi che si figurano di volta in volta progetti così immaginifici e che attraversano fasi realizzative così dense e complesse, da creare ogni volta suggestioni, suscitare clamori, far sorgere naturali e impazienti attese. Mettete insieme questi tre elementi e avrete una vaga idea del perché il nuovo film di Baz Luhrmann, Australia, per l’appunto, in uscita il 16 gennaio nelle sale italiane, suscita tanta curiosità e affascina fan adoranti di tutto il mondo. A causa del fallimento del pro-
no. Stiamo parlando di Moulin Rouge, datato 2001, che si è aggiudicato due statuette e tre Golden Globes, raccontando attraverso uno stile surreale e anticonvenzionale la splendida storia di Satine e Christian, rispettivamente interpretati da Nicole Kidman ed Ewan McGregor. Tre film in oltre 26 anni, un record negativo quasi degno di Terence Malick. Ed ora un ritorno in
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dal ”Wall Street Journal” del 03/12/2008
Cura dimagrante per Google di Jessica Vascellaro e Scott Morrison l gigante di internet, Google, incomincia a fare i conti con la crisi. Dopo la comparsa di Hulu, il sito di Cbs che fa concorrenza al neoacquisto YouTube, arrivano le prime cattive notizie anche nel settore dove tradizionalmente si sono sempre costruiti i fatturati. La meraviglia di Silicon valley incomincia a tagliare fringe benefit e programmi di sviluppo. Basta pasti gratis ai dipendenti e servizio lavanderia, tanto per mandare un segnale che i tempi sono cambiati, più che per far quadrare i conti. I guadagni sono calati drasticamente nell’ultimo anno.
I
Il programma Google CheckOut, un sistema di pagamento online - tipo PayPal - e Google Tv Ads che vende spazi pubblicitari, pare non stiano funzionando come avrebbero dovuto. Non generano entrate sufficienti. Il titolo della compagnia al Nasdaq è passato, in un solo anno, dai 741.1 dollari ai 275 della scorsa settimana. Quindi l’azienda delle meraviglie sta imboccando il sentiero della recessione, come l’intera economia americana. «Non è più il tempo in cui mettavamo 20 dipendenti al servizio di un ingegnere, per sviluppare un’iniziativa sperimentale», la confessione di Eric Schmidt, responsabile esecutivo della società, «quando il ciclo economico positivo riprenderà, saremo in grado di sostenere di nuovo le idee brillanti». Il mese scorso la mannaia era caduta su di un altro progetto di gestione e riorganizzazione dei risultati del motore di ricerca, SearchMash. Questo mese invece sarà la volta di Lively, il mondo virtuale di Google, che dovrà aspettare tempi migliori oper dare libero sfogo agli avatar della rete. Insomma si
vuole tornare al cosiddetto core business e alle sue dirette applicazioni nel settore commerciale. Si è deciso anche di riempire di pubblicità servizi che prima ne erano sprovvisti, come Google Finance e News service. Comunque si parla sempre di un rallentamento della crescita, ma sempre di crescita si tratta. Siamo lontani dal più 92 per cento del 2005, ma nell’ultimo quadrimestre dell’anno si è sempre raggiunto un ragguardevole più 31 per cento. Schmidt sta pensando come ottimizzare le risorse umane e i dipendenti notano «quanto sia oggi più facile trovare un posto nel sempre affollatissimo parcheggio aziendale». Una riduzione «significativa» dei quasi 10 mila contratti di lavoro è in cantiere, ma restano ancora segreti settori e i tempi della cura dimagrante. È stato rinforzato la branca della gestione finanziaria: in soldoni, si taglieranno i rami secchi e si rinforzeranno i settori più remunerativi. Anche qui parliamo sempre di riduzione, rispetto ad una politica di assunzioni a briglie sciolte. Nel 2007 si era passati a soli 877 nuovi contratti, contro i 1.300 del periodo precedente. Parrebbe la fine della filosofia aziendale che lanciava progetti a 360 gradi, anche se il management si è affrettato a rassicurare che così non è.
Qualche “grave” segnale è stato però notato: nella sede newyorkese si è cancellato il tradizionale tè del pomeriggio. Anche nel campo dei margini di profitto a Google si erano abituati male, a luglio del 2006 era del 72 per cento rispetto al fat-
turato di 14 miliardi di dollari. Un anno dopo era “calato” al 55 per cento. Troppe assunzioni inutili si era detto. Comunque la crisi aveva creato aspettative nel settore pubblicitario, ci si aspettava una fuga in massa dalle costosissime reclame televisive, proprio verso il web. La torta su internet ammonta a 5,9 miliardi di dollari. Quest’anno l’aumento tra il secondo e il terzo quadrimestre è però stato solo del 2 per cento.
Sono scattati subito i campanelli d’allarme per Google. In effetti ad essere maggiormente colpiti sono stati gli investimenti pubblicitari del settore finanziario, molto diffusi in rete, come quelli immobiliari, dei mutui-casa o dei finanziamenti per l’acquisto di auto. Si è attuata anche un ridimensionamento degli uffici e delle sedi, specialmente quelle collegate alle grandi università, per evitare sovrapposizioni e duplicazioni di progetti. Una politica di ridimensionamento che sta già producendo dei risultati, se comparata con le difficoltà in cui versano i diretti concorrenti Yahoo ed eBay.
L’IMMAGINE
Bravo Presidente Napolitano, ma con chi li cambiamo gli amministratori? Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nella visita alla sua Napoli ha avuto parole di forte condanna morale e civile nei confronti della classe politica campana e del Mezzogiorno. Bravo Presidente! Se non c’è una severa autocritica e un concreto ricambio degli amministratori locali e dei rappresentanti politici il Sud non può legittimamente chiedere attenzioni e investimenti da parte dello Stato. In particolare, in Campania è da 15 anni che le cose non vanno per il verso giusto e ora si è anche giunti al suicidio politico con la morte dell’assessore comunale Giorgio Nugnes. È da tempo, da molto tempo, che in Campania si sarebbe dovuto nuovamente votare. Se Bassolino e il sindaco Iervolino avessero rassegnato le dimissioni, Nugnes oggi sarebbe vivo. Tuttavia, quando si invoca il ricambio non si sa bene con chi ricambiare gli attuali amministratori e politici. Questo è il vero dramma del nostro Mezzogiorno che esprime la peggiore classe amministrativa d’Europa. Senza distinzione di colore politico.
Osvaldo Mannini
SEMIPRESIDENZIALISMO Il continuo ricorso al voto di fiducia su molte leggi presentate priva il Parlamento del potere di modifica e di correzione che possono essere, e spesso sono, migliorative. L’uso continuo al voto di fiducia, al quale è ricorso anche il Presidente del governo, più che una voglia di dare un’accelerata alla soluzione dei problemi rivela una non omogeneità della maggioranza. In una democrazia rispettosa dei ruoli il ricorso al voto di fiducia dovrebbe essere un fatto eccezionale per provvedere ad emergenze improvvise e non una costante. Mi sovviene, in relazione ai voti di fiducia, il ricorso alle “delibere con i poteri del consiglio”che facevano ai tempi delle amministrazioni comunali precedenti al sindaco eletto diret-
tamente dal popolo, tutte le volte che le maggioranze tendevano a sfaldarsi. In questo modo ritardavano la caduta delle amministrazioni. Ma a parte queste considerazioni, a me pare che la mancanza o riduzione del dibattito parlamentare con il voto di fiducia provochi, di fatto, una sostanziale modifica dei poteri istituzionali con la trasformazione del sistema da Repubblica parlamentare a Repubblica semipresidenziale, nelle quali la figura del Presidente del governo riveste una importanza maggiore e preminente rispetto alle presidenze parlamentari. Non credo si tratti di un problema di poco conto sul quale forse sarebbe opportuno provocare un convegno di costituzionalisti.
Luigi Celebre
Paradisi naturali tutelati dall’Unesco È uno dei Paesi più poveri del mondo la Guinea Bissau nell’Africa occidentale. È ricca però di fiumi che l’attraversano in lungo e in largo per poi tuffarsi nell’Atlantico, portando con sé tonnellate di fango e detriti che “sporcano” l’acqua, come si nota in questa foto (i colori chiari e scuri distinugono le diverse correnti). L’ accumulo dei detriti ha dato origine, nel corso dei secoli, agli isolotti sparsi vicino alle foci PISTE CICLABILI PRIMA CITYBIKE DOPO Belle le nuove Citybike. Di recente ne ho visto scaricare un’intera vagonata. Ma possibile che nessuno ricordi che fine fecero le biciclette gialle messe anni fa a disposizione dei milanesi? Quanto tempo passerà prima di vedere le colonnine rovinate, le bici cannibalizzate, abbandonate in qualche angolo della
città o caricate su un’auto e portate via? Non è chiaro, ormai, che non siamo in Svizzera o in Svezia e che il rispetto per le cose pubbliche è ridotto a minimi storici? Inoltre dove andranno tutti questi nuovi ciclisti senza piste ciclabili? Non sarebbe stato meglio investire prima nelle pisti ciclabili e poi nel bike sharing?
Chiara Dilani – Milano
APPELLO AGLI EVASORI La social card verrà data a chi non percepisce reddito o a chi dichiara un reddito molto basso. Quindi anche agli evasori che dichiareranno poco o nulla. Se fossi in loro mi vergognerei a utilizzare questa carta al supermercato. Evasori, se avete una coscienza, regalate questa carta a chi ne ha bisogno.
Daniela Zocca
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog LETTERA DALLA STORIA
Questa passione è diventata il cruccio della mia vita Signora, Voi mi portate alla disperazione. Mi accusate più volte di mancare di delicatezza, come se, in bocca vostra, questa accusa fosse cosa da nulla. Chi mi avrebbe detto, quando mi separavo da voi a Milano, che la prima lettera che mi avreste scritto sarebbe cominciata con signore e che mi avreste accusato di mancanza di delicatezza? Ah! Signora, com’è facile per l’uomo che non ha passioni comportarsi sempre in modo misurato e prudente. Anch’io, quando riesco ad ascoltarmi, credo di non mancare di discrezione; ma sono dominato da una passione funesta che non mi consente più di essere padrone delle mie azioni. Mi ero giurato di imbarcarmi o quantomeno di non vedervi più, e di non scrivervi; una forza più possente di tutte le mie risoluzioni mi ha trascinato nei luoghi in cui eravate. Questa passione è diventata ormai il grande cruccio della mia vita. Tutti gli interessi, tutte le considerazioni impallidiscono di fronte a essa. Il bisogno funesto di vedervi mi trasporta, mi domina, mi travolge. Ci sono momenti in cui, se occorresse uccidere per vedervi, diventerei assassino. Ho avuto soltanto tre passioni nella vita: l’ambizione, dal 1800 al 1811, l’amore per una donna che mi ha ingannato dal 1811 al 1818, e, da un anno in qua, questa passione che mi domina e cresce senza posa. Stendhal a Matilde Viscontini
ACCADDE OGGI
“TAGLIAMO” I DEPUTATI Non capisco a cosa servano 512 deputati, soprattutto quelli che ricordano di essere parlamentari solo per i privilegi. Tagliamoli, dimezziamoli ed eviteremo sprechi inutili.
Giuseppe Ferro
POSTI PRENOTATI SU CARROZZE FANTASMA Un guasto di una carrozza in composizione a un eurostar può capitare. Ma che Trenitalia sul treno 9752 da Bari a Milano continui ad assegnare prenotazioni sulla vettura di prima classe n. 1 o n. 2 e che una delle due risulti inesistente mi appare il massimo dell’inefficienza. Mi è capitato per ben tre volte questa disavventura nel giro di tre settimane. L’imbarazzato capotreno, al povero viaggiatore cui è stata sottratta la carrozza prenotata, assegna un posto che, strada facendo, viene rivendicato da un utente che con scontrino alla mano dice «guardi che quel posto è mio». E giù discussioni tra i fregati da Trenitalia. Cosa aspetta Trenitalia a eliminare le prenotazioni dal sistema informatico delle biglietterie? Credo che sarebbe più dignitoso.
Giovanni Mele
CARCERE E LIBERTÀ Il carcere deve rieducare il detenuto ma non può diseducare chi dal carcere sta fuori. Che idea possono farsi le persone comuni quando l’ordinamento premia la buona condotta elargendo sconti esagerati? Un’idea di ingiustizia. Si parla di semilibertà, è vero.
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
5 dicembre 1932 Il fisico tedesco Albert Einstein ottiene un visto per gli Usa 1933 Fine del proibizionismo: lo Utah diventa il 36° Stato a ratificare il XII emendamento, facendo raggiungere la quota dei 3/4 necessaria a farlo entrare in vigore 1934 Le truppe italiane attaccano Wal Wal in Etiopia 1936 La Federazione socialista delle Repubbliche sovietiche formata da Armenia, Georgia e Azerbaigian entra a far parte dell’Urss 1955 I sindacati statunitensi, American federation of labor e Congress of industrial organizations, decidono di fondersi e formare l’Afl-Cio 1964 Guerra del Vietnam: per l’eroismo mostrato in battaglia, il capitano Roger Donlon riceve la prima medaglia d’onore della guerra 1970 Dario Fo mette in scena per la prima volta Morte accidentale di un anarchico 1978 L’Unione Sovietica firma il trattato d’amicizia con il governo comunista dell’Afghanistan
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Francesco Rositano, Enrico Singer, Susanna Turco Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio,
Ma è un premio che non si dà a chi ha sterminato il padre e la madre (vedi il caso di Pietro Maso) Il prossimo anno quest’uomo sarà inserito nella comunità, grazie ai servizi sociali. Non ci siamo proprio. La pena e il premio realizzano un buon progetto di reinserimento nella società, a patto che pena e premio siano proporzionati.
Gina Del Vecchio
UNA SCELTA INFELICE Sono un meccanico motorista e ho una Multipla a metano ma in futuro non ne acquisterò altre. I motivi? Difficoltà nel reperire il metano sulle autostrade. Presenza di distributori praticamente nulla. Pochi, insufficienti e mal raggiungibili quelli sulla viabilità normale, con orari di chiusura “strani”. Ci sono zone completamente scoperte. Il prezzo, poi, in tre anni è raddoppiato e ora è di 95 centesimi al kg (ma cambia di regione in regione). Inoltre ogni 4-5 anni bisogna sostituire le bombole con una spesa di circa 500 euro. Senza contare il peso in più e le mediocri prestazioni specie in salita, i problemi dell’avviamento a causa del freddo in inverno, con deterioramenti di batterie e motorini di avviamento. A conti fatti, per avere un minimo di guadagno da questa fonte energetica un automobilista medio dovrebbe percorrere più di 50.000 km all’anno. Ne vale la pena? Meglio il gpl oppure i diesel di ultima generazione che al di sotto dei 130 kh hanno dei consumi ridicoli.
dai circoli liberal
LA CLASSE POLITICA ANNASPA Potremmo definire con questo titolo quello che è lo stato attuale della situazione politica nel Mezzogiorno d’Italia.Tra vecchio che resiste e nuovo che stenta a decollare possiamo sicuramente dire che si annaspa. Non si costruiscono piani infrastrutturali interregionali, non si progettano piani di delocalizzazione d’impresa per dare fiato all’economia. Molte delle iniziative che vengono attuate e promosse sono spesso slegate dal territorio, planano sulla testa delle persone e non incontrano le problematiche che il territorio realmente vive. Bisognerebbe rilanciare un nuovo piano creditizio per la promozione della microimpresa nel Mezzogiorno d’Italia. Pensare a politiche sociali inclusive, rilanciare gli investimenti nei servizi sociali, nelle infrastrutture, nella promozione d’impresa. È necessario costruire delle politiche economiche che prevedano buoni investimenti, senza continuare a spendere e spandere secondo l’uso e la consuetudine della “casta”. Non si devono dimenticare quei percorsi culturali mirati alla formazione di nuove classi di amministratori locali e di manager: questa è una delle nuove chiavi di volta per fare restare nel Mezzogiorno i neo-laureati e per dare qualità ad un territorio nella sua rappresentatività. Investire in sapere dovrebbe essere una costante delle pubbliche amministrazioni e invece questo non accade, salvo rarissimi casi. Il futuro di un territorio si misura attraverso la costanza di saper creare occasioni, di saper sfruttare idee, progetti e nuove opportunità. Il Mezzogiorno, invece, è ancora vittima di politiche nazionali radicate in vuote politiche economiche che stanno continuando ad impoverire un’area che necessiterebbe invece di reali mutamenti economici. Basti pensare all’ingente mole di milioni di euro che stanno arrivando per gli investimenti relativi alle energie rinnovabili: né il territorio né i cittadini riescono a trarre alcuna forma di vantaggio da ciò, sia in termini occupazionali che in termini di defiscalizzazione delle imposte locali. Anche nel primo decennio degli anni 2000 il Sud soffre dell’assenza di una seria programmazione strutturale per lo sviluppo. Un vero peccato se si pensa in termini moderati, un vero sacrilegio contro tutte le leggi naturali se si pensa che ogni area, ogni territorio deve avere una giusta e pari dignità. Il Sud deve e può crescere, anche se alcune problematiche dipendono da noi meridionali, a volte distratti a volte rassegnati. È dunque necessario osare per crescere e mutare al meglio, vincendo la rassegnazione. Luigi Ruberto C I R C O L O LI B E R A L MO N T I DA U N I
APPUNTAMENTI LA RIUNIONE NAZIONALE DEI CIRCOLI LIBERAL DI VENERDÌ 12 DICEMBRE SLITTA A VENERDÌ 16 GENNAIO 2009 ROMA - PALAZZO FERRAJOLI - ORE 11
ATTIVAZIONI IL COORDINAMENTO REGIONALE DELLA CAMPANIA VERSO LA COSTITUENTE DI CENTRO HA ATTIVATO IL NUMERO VERDE PER LE ADESIONI: 800910529
Guglielmo – Parma
Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
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