ISSN 1827-8817 81223
Le idee chiare e precise
di e h c a n cro
sono le più pericolose, perché non si osa più cambiarle André Gide
9 771827 881004
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA
Per il portavoce del premier il progetto è solo rinviato
Presidenzialismo senza partiti, colpo di grazia alla democrazia di Errico Novi
ROMA. Nel vuoto di questa legislatura sentir parlare di presidenzialismo fa inevitabilmente molta impressione. Che bisogno c’è di aumentare la concentrazione di potere nelle mani del capo del governo se già adesso il rapporto tra il premier e i suoi ministri è sbilanciatissimo a favore del primo? Non c’è alcuna necessità, evidentemente. Così l’annuncio fatto da Silvio Berlusconi sabato scorso suggerisce l’idea di un ultimo, spietato colpo di grazia da assestare al sistema dei partiti. Si è passati da una legislatura in cui anche la più piccola espressione della maggioranza (anche un singolo senatore dissidente) era in grado di scardinare l’esecutivo ad un nuovo assetto in cui le formazioni politiche esistono sulla carta, più che nella pratica quotidiana. se gu e a p ag in a 11
Sacconi e Bonanni, la strana coppia
Settimana corta: un’idea vera o solo annuncio?
«E io sfido Ahmadinejad» alle pagine 2, 3, 4 e 5
La fotografia di un’Italia in grave difficoltà, prima dell’arrivo della crisi
Un Paese sempre più povero Secondo l’Istat il 25% delle famiglie non arriva a fine mese
di Carlo Lottieri prima vista, almeno, è difficile dare torto a Tito Boeri quando, sulla prima pagina de La Repubblica, prende per i fondelli il governo che, dopo aver deciso di prorogare la detassazione degli straordinari (favorendo, quindi, un allungamento dell’orario di lavoro), ora sembra intenzionato ad introdurre una settimana corta o meglio “cortissima”: di soli quattro giorni. È facile capire quale sia la ratio delle due scelte, in qualche modo tra loro contraddittorie. Con la detassazione degli straordinari, solo sei mesi fa la maggioranza di centro destra cercava di portare rimedio a quello che allora era giudicato un obiettivo fondamentale e anzi prioritario: aumentare il reddito dei lavoratori.
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se gu e a p ag in a 9
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
ESCLUSIVO / PARLA SHIRIN EBADI Il premio Nobel per la pace è stata ieri vittima di un grave episodio di intimidazione da parte della polizia di Teheran. In questa intervista racconta perché, sotto il velo delle donne e la repressione degli studenti, in Iran sta crescendo un’onda irresistibile di libertà. E chiede aiuto all’Occidente...
di Francesco Pacifico a pagina 8
Misura buona ma in contraddizione con quanto fatto finora dal governo
di Ferdinando Adornato
di Alessandro D’Amato
ROMA. Il 5,3% delle famiglie italiane
tre arriva la più grande crisi economica alla fine del 2007 ha dichiarato di avedal dopoguerra. L’indagine è stata effetre avuto «insufficienti risorse per l’actuato su un campione di 20.982 famiglie quisto di cibo». Il 25% delle famiglie (52.772 individui) rappresentativo della con tre figli ha avuto difficoltà ad arritotalità della popolazione residente in vare a fine mese, l’8,1% non ha soldi Italia. Le domande hanno riguardato i per le spese alimentari e il 25,3% ha redditi percepiti nel 2006 e le condizioni difficoltà a trovare soldi per l’abbigliadi vita nel 2007 su occupazione, difficoltà mento. Una famiglia su due ha guadaeconomiche e spese per la casa. I dati difgnato nel 2006 meno di 2mila euro al fusi sono stati appena consegnati dall’Imese, aumentano le persone impossistat ad Eurostat, non ci sono ancora quinL’Istat ha pubblicato il rapporto bilitate a far fronte alle spese mediche di parametri a livello europeo, ma l’Istitusulla distribuzione della ricchezza e al pagamento delle bollette. È una foto di ricerche sottolinea che nell’Europa in Italia: siamo diventati tutti tografia impietosa della povertà italiadei Quindici l’Italia è ancora un fanalino drammaticamente più poveri na in aumento, quella che emerge daldi coda. Sale infatti dal 14,6 al 15,4% il l’indagine 2006-2007 dell’Istat sulla dinumero delle famiglie che ha dichiarato stribuzione del reddito e le condizioni di vita nell’(ex?) Bel- di arrivare con molta difficoltà alla fine del mese. paese. Che si scopre più povero e meno assistito proprio mense g ue a p a gi na 6
seg2008 ue a pa•gE inURO a 9 1,00 (10,00 MARTEDÌ 23 DICEMBRE
CON I QUADERNI)
• ANNO XIII •
NUMERO
246 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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pagina 2 • 23 dicembre 2008
Libertà negate/1. Il suo Circolo di oppositori alla repressione è stato appena chiuso dal regime
«Sta nascendo un nuovo Iran» «Anche una parola può combattere la violenza e l’arroganza» Parla Shirin Ebadi, Nobel per la pace, censurata da Ahmadinejad di Bibi David stata un’operazione perfetta: forze dell’ordine ben mimetizzate da normali cittadini, un angolo di Teheran letteralmente isolato. Roba da far pensare - almeno qui da noi in Occidente - a un’azione di altissimo antiterrorismo. O magari un’operazione antimafia. E invece era solo una mossa in grande stile per mettere il bavaglio al «Circolo dei difensori dei diritti umani», associazione politica dell’avvocato Shirin Ebadi, sessantunenne, premio Nobel per la Pace nel 2003, sostanzialmente l’unica avversaria (politica) di Mahmoud Ahmadinejad. L’operazione è riuscita: il «Circolo dei difensori dei diritti umani» è stato chiuso, Shirin Ebadi è stata arrestata e poi rilasciata. Molti suo collaboratori sono ancora in carcere “per accertamenti”. «Ma l’unica strada possibile resta quella del dialogo dice la premio Nobel all’indomani dell’arresto e del rilascio e credo che Obama dovrebbe incontrare al più presto Ahmadinejad: parlare è l’unico modo per riannodare i fili del rapporto fra Usa e Iran». Lei, scrittrice - di cui in Italia sta per uscire , La gabbia d’oro, in anteprima mondiale, da Rizzoli - non ha mai smesso di combattere con le armi della politica: la parola - ripete - è più forte della violenza. Opinione quanto meno pericolosa, in luoghi come Teheran, come dimostrano lo spiegamento di forze d polizia e gli arresti di domenica. Signora Ebadi, lei in Iran è censurata. Non le è consentito di parlare in pubblico e i suoi articoli non vengono pubblicati: qual è il suo rapporto con il suo paese, oggi? Un rapporto controverso, naturalmente. Provo molta rabbia. Ma non ho nessuna voglia di rinunciare al mio paese. Anni fa ho raccontato in un libro, Il mio Iran, lo sbigottimento provato quando, nel 2000, un pomeriggio ho scoperto di essere presente nella lista dei condannati a morte dal regime di Teheran. L’amarezza che ho avvertito allora, quel sentore di un fantasma opaco e indefinito che stava, senza che lo sapessi, obnubilando la mia vita, mi ha atterrito. Sarebbe cambiato il mio rapporto con l’Iran? È questa la prima domanda ch mi sono po-
È
sta. È passato molto tempo prima che potessi darmi una risposta. Ma ora posso darla. No, quel rapporto non cambia e non cambierà. Nel suo libro, lei cita una frase del sociologio iraniano Alì Shariati: «Se non potete eliminare l’ingiustizia, almeno raccontatela a tutti». Ritiene davvero che la scrittura possa battersi contro le grandi ingiustizie dell’umanità? Certamente. Scrivere è un atto liberatorio per chi lo fa e un insegnamento, una strada trac-
ciata nella notte, come dicevano antichi testi persiani, per il lettore attento che vuol cercare nel libro qualcosa che parli di sé. Ciò che mi fa paura è il potere che hanno i regimi di censurare, di ridurre al mutismo, di mutilare la capacità espressiva delle persone. Con la scrittura, ma pure con la musica e l’arte, questo meccanismo si annulla. E chi racconta, come ci insegna tutta la tradizione arabo-musumana dalle Mille e una notte in poi, ha salva la vita.
In che misura la religione favorisce le dittature, in particolare in Iran? È ovvio che i dittatori, da sempre, hanno usato, strumentalizzandola, ogni religione per av-
L’Occidente si occupa solo della bomba, così non ci aiuta: il problema vero, oggi, è quello dei diritti umani calpestati
finora attente solo al problema del nucleare iraniano, e molto poco al dramma dei diritti umani calpestati dal regime. L’Iran, da questo punto di vista, ha viaggiato negli ultimi decenni verso l’abisso. L’Occidente deve comprendere il nostro tormento, salvare gli iraniani da questo regime, dal grande incubo. Quali progetti ha per il futuro? Oltre a continuare senza sosta la mia attività di scrittrice, vorrei organizzare un meeting di donne arabo-musulmane che abbia una risonanza globale e
valorare le loro teorie. In Iran, oggi, le donne senza chador, cioè senza velo islamico, le cosiddette «malviventi», vengono punite con condanne severissime, e due ragazzi che si amano e camminano per mano possono essere arrestati. Mi domando: cosa c’entra questo con l’Islam? Cosa l’Europa e gli Usa non hanno capito della realtà attuale dell’Iran? Purtroppo la politica americana, e quella europea, sono state
che arrivi a modificare la percezione della donna in Medio Oriente. Lasci che legga qualche riga del suo libro: «Esiste un inferno diverso da quello che immaginiamo, una tortura sottile, più sottile di quella provata subendo percosse o tormenti feroci, un’angoscia frustrante con minacce e insulti che si esauriscono in parole tremende. La possiamo chiamare tortura
“
”
“bianca”, ed è certo molto difficile da riconoscere. È fatta dalle stesse domande snervanti, ripetute all’infinito, dalla reclusione in una cella per anni interminabili che fanno perdere il senso stesso del tempo, fino ad annientare i ricordi e a far penetrare il vuoto, stravolgendo del tutto la coscienza di se tessi». E poi ancora, signora Ebadi, lei scrive: «Non capivo all’epoca cosa significasse essere rinchiusi in una cella di isolamento». Come cambia la vita dopo questa esperienza? Le sofferenze non necessariamente aiutano e tanto meno possono migliorare il carattere, rafforzare la personalità. A volte succede anzi che chi ha subito tali dolori e atrocità tenda poi a identificarsi col proprio carnefice ripetendo quella mentalità che un tempo lo stritolava. Oppure, e questo è quanto accade a troppi arabi che vivono sotto regimi totalitari, succede che chi ha patito eccessive sofferenze non sia più capace di guardare al mondo e al proprio futuro altro che con una ristrettezza di vedute che impedisce di cambiare. In entrambi i casi, si può dire che i persecutori abbiano inflitto una indelebile sconfitta alle loro vittime. Anch’io ho passato momenti di depressione, di stasi della mente dopo tante atrocità. Grazie però alle mie passioni, alle mie aspirazioni, alla mia volontà di credere, nonostante tutto, nel mio lavoro di avvocato, e nel sentire dal di dentro il pianto delle donne e la loro necessità di ribellione, ho vinto i condizionamenti del passato e, grazie alla scrittura, sono tornata a prima. E oggi, alla luce di quanto accaduto, posso battermi con la determinazione e l’entusiasmo di sempre. Qual’è il messaggio che vorrebbe trasmettere con il suo nuovo libro, La gabbia d’oro? Il libro è una storia dell’Iran raccontata attraverso una vicenda familiare. È un romanzo, ma non un gioco di fantasia. Racconto anzi una realtà che ho sperimentato da vicino, da vicinissimo. La famiglia di cui parlo mi invitava a cena quando ero bambina, in un Iran an-
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Drammatica la situazione dei diritti internazionali sanciti dall’Onu
Tutte le violazioni del regime di Teheran di Simone Carla ispetto dei diritti umani, piena libertà religiosa, stato di diritto. Sono le tre grandi utopie della popolazione iraniana, che dalla presa di potere del Grande Ayatollah Khomeini – avvenuta quasi trent’anni fa – vede sempre più limitata ogni forma di espressione. A questo stato di cose, che deriva da uno statalismo totalitario fondato su una durissima base religiosa, si aggiunge il nervosismo del regime iraniano. Questo, pressato da parte della comunità internazionale sulle questioni del nucleare e del rispetto dei diritti umani, continua a sfogarsi sulla popolazione e a tenere stretti i cordoni che ne regolano la vita quotidiana. Preoccupate che il diffuso malcontento popolare dia vita a sempre maggiori forme di protesta e manifestazioni anti-governative, infatti, le autorità iraniane portano avanti la loro campagna intimidatoria fatta di impiccagioni pubbliche, arresti di studenti, condanne capitali a donne e minorenni, chiusura di internet point che non rispettano i valori islamici.Tutto in nome di un controllo sempre più oppressivo, unica strada che può garantire a Teheran la tenuta del potere. Le notizie di impiccagioni, soprattutto quelle pubbliche, fanno parte della propaganda di regime per far desistere la popolazione dal partecipare a proteste di piazza o anche solo ad alzare la testa contro l’autorità costituita sia in famiglia che nella società.
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contro i luoghi di incontro e di flusso di informazioni dall’esterno: università ed internet point. Il colonello Nader Sarkari, agente delle Forze speciali statali (Ssf), ha reso noto all’agenzia ufficiale Irna che solo tra il 14 e il 15 dicembre 435 coffee shop sono stati perquisiti, 170 ammoniti e 23 persone sono state arrestate, di cui 11 sono donne.
Le accuse mosse dalla polizia speciale comprendono «l’uso di videogiochi immorali, foto oscene e la presenza di donne che indossano hijab impropri, sono tra le ragioni che hanno imposto l’applicazione di misure restrittive», ha detto Sarkari. La chiusura degli internet point coincide con una nuova ondata di oppressione verso le donne con il pretesto dell’abbigliamento improprio. Il problema più spinoso, tuttavia, riguarda coloro che vengono tenuti sotto osservazione per due motivi: religiosi e sessuali. I convertiti dall’islam, gli ahmadi [membri di una setta musulmana considerata eretica nda] e gli omosessuali sono nel mirino della polizia religiosa, che li braccano senza tregua per tutto il Paese. Di fatto, nonostante l’Iran dichiari di aderire ai principi delle Nazioni Unite sui diritti umani internazionali, gli appartenenti a queste categorie sono considerati illegali. Organizzazioni non governative e gruppi religiosi tengono costantemente sotto controllo la situazione, e non registrano miglioramenti di sorta da almeno due decenni (fatta salva la breve parentesi della presidenza Rafsanjani). Molto spesso, infatti, i membri dei gruppi a rischio non vengono condannati a morte, ma al carcere a vita. Dove vengono torturato per anni, senza alcuna speranza di un giusto processo o di una scarcerazione. Se non quando, oramai, è troppo tardi.
Il governo tiene sotto osservazione tutti coloro che non aderiscono ai principi religiosi e sessuali sanciti da Khomeini. Senza alcuno sconto
“
Oltre a continuare senza sosta la mia attività di scrittrice, vorrei organizzare un meeting di donne arabo-musulmane di risonanza globale
cora ignaro di ciò che sarebbe accaduto. Quelle cene rafforzavano amicizie tra sapori e profumi. Non c’era angoscia, in quelle sere, non s’avvertiva ancora il crollo di una società, la fine di un mondo. Ho voluto dire cosa accade quando, nella vita prima serena di una persona, in questo caso di un figlio, irrompe la confusione delirante imposta dalla dittatura, dagli inibitori della libertà. In quale dei personaggi del suo libro si riconosce di più? Nella Gabbia d’oro ci sono tre fratelli che emblematizzano la storia dell’Iran degli ultimi decenni. Uno è sedotto dai religiosi, dai mullah, l’altro resta fedele a un passato che volge al tramonto, simbolicamente rappresentato dallo Scià, e il terzo è un ribelle che crede nella possibilità di sovvertire i falsi poteri che regnano in Iran. La loro sorella rappresenta invece la donna iraniana, quella che non si limita a subire, che non cede ai subdo-
”
li ricatti di chi vuole inibirle perfino l’immaginazione, che riesce nonostante tutto a far sì che la sua immagine non sia degradata, umiliata, svilita come quella di troppe iraniane. In lei io mi riconosco. Lei è l’emblema di quelle donne che oggi, sotto il velo, nascondono una forza gigantesca e costruttiva, che vogliono cambiare. Sono dunque così, oggi, le donne dell’Iran? Non tutte, purtroppo. Alcune sono vittime di una religione strumentalizzata che mantiene un diritto di famiglia arcaico e che non esita a praticare, per esempio in caso di sospetto adulterio, addirittura la lapidazione. Molte donne, nel paese, hanno paura e cedono a questo pseudo-Islam. Molte però sono proprio come Parì, il personaggio di cui parlavo. E il fatto che in Iran adesso il 63 per cento degli studenti siano donne vuol dire moltissimo su quanto le cose sono cambiate. E di certo cambieranno ancora.
Pochi giorni fa, nel famigerato carcere Evin di Teheran, è avvenuta l’esecuzione di una giovane donna colpevole di essersi difesa dalle violenze inflittile dal marito. Rahele lo ha ucciso alcuni anni fa per mettere fine ad una vita di soprusi. La donna, madre di due figli di 5 e 3 anni, chiede alla suocera di perdonarla ed evitarle la morte. La legislazione iraniana, ispirata alla “legge del taglione”, consegna infatti nelle mani della famiglia della vittima la sorte di chi ha commesso volontariamente o involontariamente un omicidio. Ma Rahele per prima è una vittima, una vittima della violenza domestica praticata prevalentemente da parte dei mariti e dei padri contro le loro donne e figlie, nell’impunità. Lo scorso 11 dicembre, invece, la tv di Stato ha trasmesso le immagini dell’impiccagione di un detenuto ad una gru davanti ad una gran folla. La stessa emittente ha poi diffuso le immagini di altri tre condannati, impiccati ad un’impalcatura all’interno di un cortile della polizia, nella città nord-orientale di Bonjnourd. E non si può dimenticare l’orribile fine di un condannato a morte che - salvato per denaro dalla famiglia della vittima subito dopo essere stato impiccato - è morto dopo atroci dolori con la gola squarciata. L’usanza di filmare le esecuzioni capitali e diffonderle sui internet si è sviluppata solo negli ultimi due anni e secondo esperti è un chiaro segno del nervosismo che regna tra i mullah iraniani. La repressione si scatena anche
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Libertà negate/2. La radice antisemita del paese è antica e non è frutto solo di retorica: ecco perché il pericolo è reale
L’arsenale di Teheran Che cosa succederà se l’Iran avrà la bomba e se l’Occidente non lo fermerà prima di Emanuele Ottolenghi Pubblichiamo di seguito ampi stralci tratti dal secondo capitolo del nuovo libro di Emanuele Ottolenghi “La bomba iraniana” el corso degli ultimi anni, la copiosa retorica di vari esponenti del regime iraniano ha alimentato il timore che l’acquisizione di armi nucleari da parte della Repubblica islamica porterebbe a un loro uso per uno scopo ben preciso: la distruzione dello Stato d’Israele. Si tratta naturalmente soltanto di retorica, ma a essa hanno fatto seguito altre azioni ostili nei confronti d’Israele e di obiettivi israeliani ed ebraici all’estero. L’Iran intanto sostiene, foraggia, finanzia, addestra e sostanzialmente dirige Hezbollah in Libano. L’organizzazione sciita agisce per conto dell’Iran garantendogli un ruolo chiave nel conflitto arabo-israeliano.
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Essa opera oltre i confini dell’Iran – miliziani di Hezbollah sono stati impegnati nell’addestramento di milizie sciite in Iraq; Hezbollah ha delle cellule «addormentate» in Europa e Nord America; Hezbollah opera liberamente in America Latina. Inoltre l’Iran da anni cerca un legame diretto con organizzazioni palestinesi: la Jihad islamica palestinese risponde direttamente a Teheran, mentre Hamas è progressivamente scivolato nell’orbita iraniana. La bomba atomica modificherebbe profondamente questi teatri di conflitto. Come dice il filosofo francese André Glucksmann, l’Iran potrebbe infrangere il doppio tabù del XX secolo – mai più Auschwitz, mai più Hiroshima – acquisendo una bomba nucleare che lo renderebbe in grado di distruggere Israele. E la retorica ovviamente non aiuta. Il lettore avrà certamente familiarità con le ripetute affermazioni del presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, secondo cui Israele deve essere «eliminato dalle mappe». Forse non sa, però, che tali frasi – e altre esternazioni tipiche della retorica di Ahmadinejad – precedono la sua presidenza e sono comuni alla leadership iraniana, sia che si
(Lindau, 266 pagine, 16 euro) disponibile in questi giorni in libreria. Il volume spiega perché il Medio Oriente rischia il collasso.
tratti di conservatori considerati pragmatici come l’ex presidente Hashemi Rafsanjani, sia che si tratti di riformisti come l’ex presidente Mohammad Khatami.
L’ayatollah Ali Khamenei, inoltre, ha ripetutamente di-
Tutti i leader, dopo la rivoluzione del 1979, si sono trovati d’accordo su una sola strategia: la distruzione di Israele
chiarato la sua volontà di vedere sparire Israele. Nel dicembre 2000 egli affermò che «la posizione iraniana su questo disgustoso fenomeno è sempre stata chiara. Abbiamo ripetutamente detto che questo tumore dovrebbe essere rimosso dalla re-
gione». (…). Se si fa riferimento dunque alla struttura di potere iraniana, le dichiarazioni del Leader Supremo contano molto di più di quelle di un presidente particolarmente populista come Ahmadinejad, la cui permanenza al potere è limitata sia da impedimenti di tempo che istituzionali – Ahmadinejad potrebbe non essere rieletto alle prossime elezioni presidenziali del 2009, dopotutto. (…). Tale linguaggio, accompagnato dal volgare antisemitismo frequente nella retorica di regime e dall’ossessionante sostegno per il negazionismo dell’Olocausto, ovviamente alimenta i fondati timori israeliani che una bomba iraniana sarà non solo puntata ma anche prima o poi lanciata contro Israele. Questo scenario apocalittico può assumere due forme: la prima consiste in un attacco diretto contro Israele attraverso un lancio di missili dotati di testate nucleari e accompagnato e seguito da un attacco militare congiunto da parte di Hezbollah da nord e Hamas da sud. La seconda potrebbe invece affidarsi a Hezbollah per un attacco terroristico contro Israele – la bomba nella valigia insomma, che non causerebbe danni minori ma permetterebbe a Teheran di dirsi estraneo all’accaduto. Israele è munito di un sistema antimissile – il sistema Arrow – che ha raggiunto un buon livello di precisione nel bloccare missili balistici da grandi distanze. Non è detto, dunque, che un missile penetri lo scudo – ma anche un’esplosione nucleare a grandi altitudini che non colpisca i centri abitati israeliani scatenerebbe una risposta. E in ogni caso, Arrow non garantisce un’impenetrabilità al cento per cento. Se un missile sfuggisse alla rete tesa da Arrow – e ne basta uno – cadendo sull’area suburbana intorno a Tel Aviv – casa di tre dei sette milioni di abitanti d’Israele e nodo strategico dell’economia israeliana – l’esplosione causerebbe probabilmente decine di migliaia di morti, feriti e contaminati, con danni immen-
si all’infrastruttura e una paralisi del paese. Calcolare il danno naturalmente è una pura speculazione, dato che non sappiamo esattamente la potenza di una futura ipotetica bomba atomica iraniana, né possiamo determinare la precisione del missile o l’obiettivo designato. Ma questo
non ci impedisce di immaginare i risultati di un attacco.
Secondo il professor Anthony Cordesman, esperto di affari militari e strategici del Center for Strategic and International Studies di Washington e autore di uno studio sulle possibili
prima pagina tonnellate di tritolo). Presumendo che un ordigno di 20 KT possa raggiungere la meta – la zona metropolitana di Tel Aviv per esempio – Cordesman calcola che il risultato sarebbe di un minimo di 37.000 a un massimo di 132.000 vittime nelle prime 48 ore dall’esplosione. I metalli si vaporizzerebbero nel raggio di circa 600 metri dal punto d’impatto e si scioglierebbero nel primo chilometro. La plastica si scioglierebbe o prenderebbe fuoco nel raggio di quasi due chilometri. Ci potranno essere ustioni di terzo grado nel raggio di tre chilometri e mezzo. L’ellisse letale di radiazioni generata dall’esplosione può poi diffondersi rapidamente nelle ore successive all’impatto, raggiungendo fino a 60-100 chilometri di distanza senza ostacoli geografici – quindi sull’asse nord-sud lungo la costa. Nel caso di un attacco sulla zona costiera di Tel Aviv è verosimile che la nube radioattiva sarebbe in parte contenuta nella zona a est dell’aeroporto, dove la pianura costiera cede il posto ai rilievi collinari e montuosi. Ma si sposterebbe rapidamente verso sud e nord, anche a seconda delle condizioni climatiche – un vento da nord-est, per esempio, porterebbe la nube radioattiva rapidamente lungo la costa fino ai porti di Ashkelon e Ashdod e oltre, fino a Gaza, investendo altri 200.000 abitanti d’Israele prima di raggiungere l’oltre milione di palestinesi di Gaza.
conseguenze di un conflitto nucleare in Medio Oriente, l’Iran potrebbe realisticamente dotarsi di un arsenale di alcune dozzine di armi atomiche nei prossimi anni – armi di una potenza compresa tra i 20-30 e i 100 chilotoni (il chilotone è l’energia liberata da un’esplosione di 1000
Nella foto in basso, esercitazione missilistica in Iran. Nella pagina a fianco: sopra, il filosofo André Gluksmann e, sotto, il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad
Decine di migliaia di persone probabilmente morirebbero nelle settimane successive a causa dell’esposizione a radiazioni e per le ovvie conseguenze di un simile disastro sull’infrastruttura civile, sulla capacità degli ospedali di far fronte alla catastrofe e così via, tenendo oltretutto conto che l’infrastruttura israeliana non è in grado di offrire alla propria popolazione un rifugio protetto contro un attacco nucleare. (…). Naturalmente, nel caso di una decisione di attaccare Israele, l’Iran non lancerebbe un singolo missile a testata nucleare – proprio per l’esistenza di un funzionante sistema antimissile che neutralizzerebbe l’attacco ed esporrebbe il fianco iraniano a una devastante rappresaglia nucleare. Se l’Iran decidesse dunque di attaccare Israele, ci si può aspettare un lancio multiplo di testate nucleari sull’asse costiero Tel Aviv-Jaffa-Haifa. Moltiplicando l’effetto di un singolo impatto si possono prospettare tra un minimo di 200.000 a un massimo di quasi un milione di morti nelle prime tre settimane dal lancio. L’altra possibilità naturalmente è che l’Iran «presti» un ordigno nucleare, senza bisogno d’installarlo su un missile, a Hezbollah, subappaltando il compito di distruggere Israele a
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un commando suicida. Potrebbe avvenire via mare, con un gommone che, penetrate le difese marittime israeliane, si facesse esplodere nella baia di Haifa o a poche centinaia di metri dalla spiaggia di Tel Aviv. Il risultato non cambierebbe di molto e la possibilità di Teheran di negare ogni paternità sarebbe comunque limitata perché Israele riuscirebbe in fretta – rivendicazioni roboanti a parte dei soliti gruppi veri o presunti che se ne prenderanno la responsabilità – a risalire a chi ha prodotto il materiale fissile della bomba esplosa.
Non c’è dubbio che Israele, anche se colpito duramente, forse persino a morte, lancerebbe una dura rappresaglia contro l’Iran, probabilmente di natura non convenzionale, grazie anche al fatto che la marina israeliana ha in dotazione sottomarini presumibilmente armati di testate nucleari che le permetterebbero una «second-strike capability». Allo stesso tempo, è anche possibile
che, alla vista di un Israele in ginocchio, si risvegli l’entusiasmo nei paesi arabi per la riconquista della Palestina (ancorché contaminata…), cosa che potrebbe spingerli a infrangere i trattati di pace e il modus vivendi con Israele per sferrare il colpo di grazia allo Stato ebraico. In quel caso, un Israele colpito a morte difficilmente rischierebbe una guerra di difesa convenzionale, ricorrendo ad armi di distruzione di massa come strumento dissuasore oltre che per ritorsione contro l’Iran. (…). Se la dissuasione non funzionasse, Israele potrebbe quindi procedere a un ulteriore lancio contro paesi arabi come la Siria, tentati dal poter sfruttare la debolezza israeliana risultante dall’attacco iraniano. La regione potrebbe sprofondare rapidamente in un conflitto, ma anche un attacco israeliano né accompagnato né seguito dalla decisione dei governi arabi di sfruttare la destabilizzazione di Israele per dargli il colpo di grazia avrebbe conseguenze da non sottovalutare. Prima di tutto, Israele colpirebbe con tutta probabilità i siti e le installazioni nucleari iraniane. Israele ha già le capacità per far-
lo oggi con mezzi convenzionali, e potrebbe già decidere di colpire preventivamente questi obiettivi in Iran ricorrendo alla propria aviazione. Ma di fronte al paesaggio devastato delle sue città distrutte da un ordigno nucleare e la sopravvivenza stessa del paese e del popolo ebraico messa in dubbio, Israele opterà probabilmente per lanciare missili con testate non convenzionali contro decine di obiettivi in Iran, chiarendo al mondo intero che nessuno può colpirlo e sperare di sopravvivere: una rappresaglia contro un attacco nucleare sarebbe di simile tenore qualitativo. Nel vocabolario israeliano si tratta della cosiddetta «Opzione Sansone», in riferimento all’eroe biblico che, una volta catturato, non permise ai suoi nemici di sopravvivergli – muoia allora Sansone, con tutti i filistei!
Israele potrebbe dunque scegliere di colpire centri urbani come la capitale Teheran, Isfahan, Kormanshah, Mashad, Qom, Shiraz, Tabriz e Yazd, ma anche il reattore nucleare di Bushehr, il porto di Assaluyeh con le sue importanti raffinerie, il porto di Bandar Abbas e l’isola di Qaeshm, nel Golfo Persico, che ospitano importanti basi navali e istallazioni militari oltre che terminali petrolchimici. La distruzione di Bushehr, se accadesse dopo l’attivazione del suo reattore, prevista tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009, avrebbe come possibile risultato la formazione di un’immensa nube radioattiva che, a causa della configurazione geografica attorno al sito, si dirigerebbe in maniera pressoché certa verso sud-ovest, contaminando la sponda meridionale del Golfo e sterminando decine di migliaia di persone in Kuwait, Bahrein, Qatar, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita. La contaminazione del Golfo Persico a causa di una nube radioattiva non farebbe che aggravare l’effetto inevitabile di un attacco – e cioè la spirale dei prezzi petroliferi, che provocherebbero in pochi giorni una crisi economica mondiale senza precedenti. Comunque sia, una risposta israeliana all’aggressione nucleare iraniana ricorrerebbe all’arsenale nucleare, stimato in almeno 200 testate termonucleari, di una potenza variabile tra i 20 e i 100 chilotoni, e forse anche un megatone. Il ricorso a tali armi avrebbe effetti molto più devastanti sull’Iran che l’attacco iraniano su Israele – sia in termini relativi che assoluti. Israele potrebbe infliggere all’Iran perdite tra i 16 e i 28 milioni nelle prime tre settimane dalla risposta, devastando l’intera infrastruttura civile e militare del paese e lasciando l’Iran in rovina e con scarsissime possibilità di ripresa anche nel lungo periodo. Sarebbe la fine della civiltà persiana di cui gli iraniani vanno tanto orgogliosi.
politica
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Istat. Dati allarmanti sulla distribuzione dei redditi: una famiglia su quattro non arriva a fine mese
È ufficiale: siamo poveri di Alessandro D’Amato segue dalla prima L’istituto statistico rileva «segnali di disagio particolarmente marcati» al Sud e nelle isole, ed in particolare in Sicilia dove arriva al 10,1% il numero di nuclei con problemi di risorse. Ed è particolarmente significativo che nel 2006, le famiglie residenti in Italia hanno percepito un reddito netto, esclusi i fitti figurativi, pari in media a 28.552 euro, circa 2.379 euro al mese ma, a causa della distribuzione asimmetrica dei redditi, la maggioranza delle famiglie (61,8 per cento) ha conseguito un reddito infe-
riore all’importo medio. C’è anche da dire che le famiglie che vivono prevalentemente di reddito da lavoro autonomo affrontano minori situazioni di difficoltà rispetto a chi può contare prevalentemente su redditi da lavoro dipendente. Tuttavia, per le prime, si registra un aumento leggermente più sostenuto rispetto alla percezione soggettiva del rispondente circa le difficoltà ad arrivare alla fine del mese (dal 9% del del 2006 al 10, 4% del 2007.
Dal rapporto dell’istituto di ricerca si nota anche l’esistenza, o per meglio dire la reiterazione anche nel reddito del profondo divario territoriale tra settentrione e meridione: «Il reddito mediano delle famiglie che vivono nel Sud e nelle Isole è circa tre quarti del reddito delle famiglie residenti al Nord inoltre, i redditi delle famiglie residenti nel Sud e nelle Isole sono maggiormente concentrati nelle fasce di reddito più basse», dice il rapporto. La Sicilia è la regione dove si registrano i dati di reddito inferiori mentre la provincia di Bolzano e l’Emilia Romagna sono
le aree dove si registra un dato di reddito migliore. Nel Sud dunque non c’è solo una grande distanza dal Nord ma anche una maggiore distanza tra ricchi e poveri, quindi una maggiore necessità di recuperare la diseguaglianza tra famiglie a maggior reddito e famiglie a minor reddito rispetto al Nord. Nel nostro paese il 15,4% delle famiglie ha difficoltà ad arrivare a fine mese. Le situazioni più critiche sono nelle famiglie con tre o più figli minori, specie nel Sud, per gli anziani soli, specie donne con pensioni molto basse, e le famiglie mono-genitori, per lo più composte da madri sole, separate o divorziate o ve-
L’Istituto di statistica fotografa la situazione del 2007: le cose sono destinate a peggiorare già da quest’anno con l’acuirsi della crisi economica. E naturalmente il Sud sta molto peggio del Nord dove che registrano le maggiori difficoltà.
Ma anche nell’altra parte dello Stivale le cose non vanno bene. Nel Nord maggior disagio si registra in Piemonte (15,3%) e nel Centro, nel Lazio (15,4%). Ma è proprio in queste ultime due zone che si osserva «un più marcato aumento delle difficoltà rispetto all’anno precedente», rileva l’Istat, con un incremento dal 10,7% all’11,9% delle difficoltà delle famiglie settentrionali ad arrivare a fine mese e un aumento dal 6,8% al 9,3% di quelle del Centro, che non hanno soldi per le spese mediche e dall’11,3 al 14,1% per l’acquisto del vestiario. Le coppie senza fi-
Il segretario della Cgil chiede un “tavolo” contro l’emergenza
Epifani: di nuovo in piazza a marzo ROMA. Sì a strumenti di solidarietà a patto che «siano inseriti in un quadro di tutele che evitino il distacco dei lavoratori dai posti di lavoro, non escludano i lavoratori precari e non costituiscano una furbizia per evitare al soggetto pubblico di investire tutte le risorse necessarie». Così Guglielmo Epifani, parlando al direttivo della Cgil, entra nel dibatitto sull’impiego della settimana corta e l’utilizzo di contratti di solidarietà per fronteggiare la crisi occupazionale che sta seguendo alla fase recessiva dell’economia. «Ben venga l’avvio di un confronto con governo e imprese su tutte le forme di tutela, ed è bene che si sia passati da un’impostazione priva di senso che prevedeva la detassazione degli straordinari a questa nuova ottica», aggiunge ribadendo come servano «politiche di sostegno contro la crisi industriale, anche con strumenti parzialmente nuovi e soprattutto risor-
gli hanno minori difficoltà economiche rispetto alle tre tipologie più in affanno: famiglie con tre o più figli, anziani soli, che spesso sono donne, e famiglie con un solo genitore, anche in questo caso donne con figli. Durante il 2007 è anche cresciuta la polarizzazione tra i cittadini italiani: il Pil è cresciuto, ma si è registrata “una stasi dei consumi”che rientra nella stessa orbita del calo dei redditi e delle condizioni di vita. E l’Istat rileva che il 32,9% non è in grado di far fronte a una spesa imprevista di 700 euro. E Andrea Cutillo dell’Istat, in una dichiarazione rilasciata al sito del Sole 24 Ore, spiega anche che la si-
se più rilevanti». Poi, ha aggiunto che serve aprire subito, a gennaio, un tavolo di confronto con le parti sociali per affrontare la crisi. In caso, contrario, ha proposto alla Cgil un calendario di iniziative per sostenere le richieste e proseguire la mobilitazione che culminerà con una manifestazione a Roma per la fine di marzo. «È necessario avviare un tavolo sulla crisi perché in questa fase e con l’avvio del nuovo anno, quando fra gennaio ed aprile si manifesterà il picco negativo della crisi economica, bisognerà concentrarsi sulle modalità con le quali affrontare gli effetti di questa situazione».
tuazione può solo peggiorare: «Gli effetti della crisi finanziaria sull’economia reale - già fotografati da diversi indicatori in questo caso non c’entrano nulla. Dal 2008 ci si può soltanto attendere un peggioramento significativo».
Reazioni sono arrivate da politica e sindacati: «I dati Istat confermano un peggioramento sensibile della vita degli italiani e la cosa più preoccupante è che si riferiscono al 2007, prima che si sentano i riflessi della crisi economica in corso», commenta il segretario confederale della Uil, Antonio Foccillo. «La preoccupazione è per la crescita costante del fenomeno della povertà cui si aggiungono coloro i quali fanno fatica ad arrivare alla fine del mese, oltretutto la maggioranza vive nel Mezzogiorno. È ora di individuare i contenuti di un patto fra Governo, imprenditori e sindacati». Il Codacons è ancora più critico: «La priorità del Governo deve essere quella di aiutare le famiglie ad arrivare alla fine del mese ed in provvedimenti finora varati sono insufficienti, sia per gli scarsi stanziamenti finora effettuati sia perché riguardano solo 1 milione e 300.000 persone la social card ed 8 milioni di persone il bonus famiglia. In pratica il Governo sta aiutando, e poco, solo chi è ufficialmente sotto la soglia di povertà, dimenticando i ’quasi poverì che ormai sono 15 milioni di italiani».
in breve Caso De Magistris, decisione a gennaio Con le audizioni dei pm di Salerno e di Catanzaro svolte oggi a Palazzo dei Marescialli, la Prima Commissione del Csm ha chiuso la sua istruttoria sul caso De Magistris e lo scontro tra Procura scoppiato agli inizi di dicembre con il sequestro dell’inchiesta “Why not” disposta dai magistrati di Salerno e il contro sequestro emesso dalle toghe calabresi. Il 7 gennaio, conferma il presidente della Commissione Ugo Bergamo, ci sarà una riunione straordinaria al Csm per procedere con il deposito degli atti, e dunque, entro la fine del mese, ci saranno le decisioni da proporre al plenum, con gli eventuali trasferimenti di magistrati. «Abbiamo ritenuto di non svolgere più attività istruttoria - ha detto Bergamo - si è ormai in condizioni di prendere decisioni».
Crolla una casa, una vittima in Toscana È stata trovata morta sotto le macerie Sara Bencini, una delle tre persone rimaste coinvolte nell’esplosione avvenuta ieri mattina di una villetta a Ulignano, frazione del Comune di San Gemignano. La sorella di Sara, Sofia Bencini, 17 anni era stata estratta viva intorno alle 10.30 di ieri, un’ora dopo la deflagrazione. Intorno alle 12.30 era stata estratta viva anche la madre delle due ragazze, Serenella Innocenti, 53 anni. Le due sopravvissute hanno riportato varie ferite, ma non corrono pericolo di vita.
Anna Tarantola alla Banca d’Italia È la prima donna nella storia della Banca d’Italia ad entrare nel Direttorio. Anna Maria Tarantola, nominata dal Consiglio Superiore vicedirettore generale in sostituzione del dimissionario Antonio Finocchiaro, sale al vertice di Via Nazionale dopo aver gestito in prima linea, da responsabile della vigilanza, la crisi finanziaria che ha investito anche il sistema bancario italiano. Con la sua nomina, proposta dal Governatore Mario Draghi, si chiude definitivamente l’era Fazio.
società
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Vaticano. Nell’annuale discorso alla Curia romana, il pontefice riporta l’attenzione sulla sessualità
in breve
«Non giocate col gender. Dio ha creato uomini e donne»
La Corte Ue nega il ricorso su Englaro
di Massimo Fazzi
La Corte europea per i diritti dell’uomo ha respinto, giudicandolo “irricevibile”, il ricorso presentato da diverse associazioni italiane contro la sentenza della Corte d’appello di Milano che, già nel luglio scorso, aveva autorizzato la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale a Eluana Englaro, in coma vegetativo da 17 anni.
Ancora male le esportazioni
Dio che crea l’uomo e la donna: gli esseri umani non possono intromettersi in quella che è la base dell’umanità stessa, una base che la Chiesa ha il preciso dovere di difendere. Allo stesso tempo, bisogna rifuggire ogni tentativo di spettacolarizzare i momenti in cui la comunità cattolica si riunisce, tenendo sempre a mente che il Papa è «totalmente e solamente Vicario, non la star attorno alla quale ruota l’evento».
È
Alle porte del Natale, Benedetto XVI riporta l’attenzione sul tema della sessualità e della Creazione. E lo fa nel consueto discorso di auguri alla Curia romana, il tradizionale appuntamento nel quale - per consuetudine - i papi fanno una riflessione sulla vita della Chiesa nel corso dell’anno. La fede, dice il papa ai cardinali riuniti e ai membri della Curia e del Governatorato, «attribuisce all’uomo una responsabilità verso il creato, ma anche verso se stesso, per il suo dover essere in sintonia con il disegno dello Spirito creatore, che ha strutturato la materia “in modo intelligente”, rendendocela, così, comprensibile». Ed è proprio questo «Spirito che il Risorto ha donato agli apostoli e del quale è frutto la gioia, quella che dà vita allo spirito missionario della Chiesa, il quale non è altro che l’impulso di comunicare la gioia che ci è stata donata. E che le dà il compito di difendere la natura, ma anche l’uomo da se stesso, affermando la verità sul matrimonio tra un uomo e una donna». In pratica, contro il concetto di gender: quel concetto di sessualità «distorto, che in realtà si risolve in definitiva nella autoemancipazione dell’uomo dal creato e dal Creatore».
L’uomo, sottolinea ancora Benedetto XVI, «vuole farsi da solo e disporre sempre ed esclusivamente da solo ciò che lo riguarda. Ma in questo modo vive contro la verità, vive contro lo Spirito creatore». Non è quindi un comportamento deviato, ma proprio una forma di rigetto dell’atto supremo d’amore divino, quella Creazione che ha fatto l’uomo e la donna diversi dal regno animale. Quindi, ricorda il papa, «serve una sorta di ecologia dell’uomo. Le foreste tropicali meritano, sì, la nostra protezione ma non la merita meno l’uomo come creatura, nella quale è iscritto un messaggio che non significa contraddizione della nostra libertà, ma la sua condizione». L’anno che sta per concludersi, nelle parole del papa, ha fatto ricordare i 50 anni dalla morte di Pio XII e dell’elezione di Giovanni XXIII, i
stiano «le ferite sanguinanti della nostra religione». Un momento particolare del discorso viene dedicato dal papa all’ultima Giornata mondiale della gioventù – che si è svolta la scorsa estate in Australia, che per Benedetto XVI è stata «una festa della gioia, una gioia che infine ha coinvolto anche i riluttanti». Eppure, soprattutto in casi come questi, il monito papale è severo: «Qual è la natura di ciò che succede in una Gmg? Quali sono le forze che vi agiscono? Analisi in voga tendono a considerare queste giornate come una variante della moderna cultura giovanile, come una specie di festival rock modificato in senso ecclesiale con il Papa quale star».
Invece, il Papa è «totalmente e solamente Vicario, non la star attorno alla quale ruota l’evento, che non può vivere con o senza Dio ma soltanto in Sua funzione». Immancabile poi il ricordo del Sinodo dei Vescovi, convocato per discutere della Parola di Dio, che ha «una profonda connessione interiore» con le giornate australiane. Infatti, conclude Benedetto XVI, «con il tema ‘Spirito Santo’, che orientava le giornate in Australia e, in modo più nascosto, anche le settimane del Sinodo, si rende visibile tutta l’ampiezza della fede cristiana, un’ampiezza che dalla responsabilità per il creato e per l’esistenza dell’uomo in sintonia con la creazione conduce, attraverso i temi della Scrittura e della storia della salvezza, fino a Cristo e da lì alla comunità vivente della Chiesa, nei suoi ordini e responsabilità come anche nella sua vastità e libertà, che si esprime tanto nella molteplicità dei carismi quanto nell’immagine pentecostale della moltitudine delle lingue e delle culture».
Ricordando l’ultima Giornata mondiale della Gioventù, Benedetto XVI sottolinea: «Io sono soltanto un vicario, non la star attorno alla quale si deve far ruotare tutto l’evento» quaranta trascorsi dalla pubblicazione dell’enciclica Humanae vitae e i trenta dalla morte del suo autore, Paolo VI.
E ha permesso «di andare più indietro con la memoria, alla sera del 28 giugno quando, alla presenza del Patriarca ecumenico Bartolomeo I di Costantinopoli e di rappresentanti di molte altre Chiese e Comunità ecclesiali è stato inaugurato l’Anno Paolino». Un’inaugurazione ecumenica che rappresenta una svolta per il lavoro di unità dei cristiani “missione particolare” del vescovo di Roma, che più volte ha indicato proprio nelle fratture del mondo cri-
Nel mese di novembre il saldo commerciale con i paesi extra Ue è risultato negativo per 1.234 milioni di euro, in peggioramento rispetto al disavanzo di 575 milioni di euro registrato a novembre del 2007. Lo ha reso noto l’Istat, precisando che nello stesso mese gli scambi commerciali dell’Italia con i paesi extra Ue sono diminuiti dell’8,8 per cento per le esportazioni e del 3,6 per cento per le importazioni rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Rispetto al mese di ottobre 2008, al netto della stagionalità, a novembre, le esportazioni sono diminuite del 7,1 per cento e le importazioni del 2,2 per cento. Nel periodo gennaio-novembre 2008, rispetto allo stesso periodo del 2007, le esportazioni sono aumentate del 6,1 per cento e le importazioni del 10,5 per cento. Il saldo è stato negativo per 21.359 milioni di euro.
Bruno Vespa all’Opera di Roma Cambio della guardia al consiglio di amministrazione dell’Opera di Roma. A seguito delle dimissioni del Maestro Ennio Morricone, il Ministro per i Beni e le Attività Culturali Sandro Bondi ha nominato infatti il giornalista Bruno Vespa quale rappresentante del Ministero nel Consiglio di Amministrazione della Fondazione Teatro dell’Opera di Roma. Ne dà notizia una nota dello stesso Ministero. «Nel ringraziare il Maestro Morricone per il prezioso lavoro finora intrapreso - sottolinea la nota -, il Ministro augura ogni successo al dottor Vespa nell’incarico assunto». Insomma, l’uomo giusto al posto giusto.
economia
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Convergenze parallele. Il ministro del Welfare e il segretario della Cisl uniti dal “lavorare meno per lavorare tutti”
L’asse Sacconi-Bonanni Dopo aver chiesto a tutti più produttività ora i due rilanciano la cassa integrazione di Francesco Pacifico
ROMA. Fino a qualche settimana fa, soltanto ricordargli «il lavoro meno per lavoratore tutti», l’avrebbe fatto imbestialire. E stigmatizzare l’armamentario di «una stagione tutta diritti e niente doveri», quella del Sessantotto per intenderci, che per Maurizio Sacconi è «il male oscuro di questo Paese».
Raffaele Bonanni, nell’ultimo biennio, ha invece spesso parafrasato lo slogan di Pierre Carniti. Ma per dire: «Lavorare di più e guadagnare di più». E ora tocca proprio a loro due, al ministro del Lavoro e al leader della Cisl, introdurre la flessibilità dell’orario di lavoro e sperare così di evitare il boom di licenziamenti che l’Ocse come la Confindustria o la Cgil hanno profetizzato per il 2009.
A dirla tutta non è che la proposta di Bonanni subito ripresa da Sacconi (e a quanto pare anche da Silvio Berlusconi) sia una novità assolulta per il panorama italiano. Come ha ricordato Giuliano Cazzola, ex segretario confederale della Cgil e oggi parlamentare del Pdl, questa proposta «è innovativa in Germania, dove non esiste la cassa integrazione». Ma chi vuole importarla da noi «rischia di somigliare ai soliti inventori dell’acqua calda», perché in Italia sono nate la casa integrazione a rotazione e i contratti di solidarietà per questa funzione. Mentre l’integrazione al reddito è a carico dello Stato. Del resto lo stesso ministro ha confermato che «non servono interventi legislativi» ad hoc. Così l’interesse di tutti, più che sul provvedimento in sé, è sull’asse Sacconi-Bonanni, quello che scandisce la politica del lavoro in Italia, l’unica alleanza trasversale che regga in una legislatura che pure era nata all’insegna del dialogo (o dell’inciucio) tra Berlusconi e Veltroni.
Chiedere per credere a Renato Brunetta, il quale – ma in camera caritatis – spiega che l’amico Maurizio non l’ha difeso sull’equiparazione dell’età pensionistica tra uomini e donne, perché «ormai è Bonanni-dipendente». Chi sia a tirare le fila nella coppia non è facile da dire, fatto sta che il ministro del Lavoro e il leader della Cisl vantano un rapporto che si è trasformato poco a poco in amicizia. Un rapporto iniziato negli anni Ottanta, quando Sacconi era uscito da poco dalla sfera della Cgil e ispirava a De Michelis il decreto di San Valentino. E proprio quando la Cisl diventava con Pierre Carniti un avamposto del riformismo socialista. Un rapporto diventato dieci anni dopo amicizia
durante le faticose stesure del Patto per l’Italia e della legge Biagi, quando Sacconi era il motore politico-istituzionale dell’iniziativa e Bonanni il segretario confederale della Cisl delegato a occuparsi di mondo del lavoro. Da quel momento il ministro e il leader sindacale le hanno condivise tutte: il tentativo di riscrivere le regole del contratto nazionale e l’accordo del 1993 portando il peso della contrattazione a livello locale; il libro verde per introdurre in Italia quella flex security che le manca, partendo dai dettami della Biagi; la necessità di aumentare la dotazione degli ammortizzatori sociali; le possibilità garantite dagli “enti bilaterali”, dagli accordi tra imprese e sigle in ambito di assistenza come di formazione.
Perché sia Sacconi sia Bonanni sono convinti – e non a torto – che il maggiore gap del sistema italiano sia il calo progressivo della produttività: l’incapacità a superare il vecchio modello manifatturiero che pure resta il nerbo della nostra industria, la difficoltà a stimolare chi lavora e a renderlo partecipe nei processi aziendali. Per entrambi questa grande rivoluzione passa per il superamento del contratto nazionale e della sua rigidità: il grosso degli aumenti va deciso a livello territoriale o aziendale, dove è più facile rispondere alla domanda del mercato. Soltanto così si arriverà a quella che il ministro chiama «complicità tra lavoratore e azienda». Ma questo comporta una dura battaglia – di entrambi – con la Cgil, che gioco forza finisce per essere isolata in quest’asse. Così il primo passo diventa la defiscalizzazione degli straordinari aziendali, una sperimentazione che nella logica dei promotori dovrebbe anticipare a una più ampia detassazione degli aumenti concessi sul secondo livello. Ma ben presto questi progetti finiscono per essere rimodulati, se non rimangiati di fronte a un Sacconi che dichiara a Repubblica: «Lavorare anche meno, pur di lavorare tutti». Che dalla stessa testata lancia un duro
Riforma dei contratti, ammortizzatori sociali o salvataggio dell’Alitalia: non c’è misura che non sia stata condivisa tra via Veneto e via Po. Ma a farne le spese è stato Brunetta e i suoi attacchi agli statali monito alle imprese: «Dobbiamo evitare di dare vita a un sistema di self service per cassa integrazione che non può trasformarsi un un rubinetto sempre aperto. In questo modo l’azienda diventa “irresponsabile” e al primo segnale di crisi fugge dalle proprie responsabilità e taglia anche il suo capitale umano che, invece è il patrimonio fondamentale per rilanciarsi». E detto da uno che è storicamente vicino a viale dell’Astronomia, quanto meno la cosa fa molto pensare.
All’interno della maggioranza dicono che Maurizio Sacconi è molto cambiato con l’evolversi della crisi. Che teme davvero di trovarsi l’opposizione in piazza e le famiglie sul lastrico tanto da aver fatto in pubblico pericolosi paralleli con l’Argentina. Se a inizio legislatura sperava di coagulare la pattuglia socialista – lui, Tremonti, Brunetta e Frattini – e di farne il motore propulsivo del governo anche a costo di chiudere i conti con la Cgil, oggi consiglia a tutti di non acuire le tensioni sociali. Anche dando adito alla parte più conservatrice delle propo-
ste della Cisl. Proprio il rapporto con Bonanni viene visto con molto fastidio dai suoi alleati di governo. Non piace più lo stesso rapporto che fino a qualche settimana fa per la prima volta avera garantito al centrodestra – Tremonti in testa – una copertura sindacale. Che aveva finito per mettere all’angolo la fortezza Bastiani di Corso d’Italia. Non si sa quando e non si sa come, ma molti fanno datare questa inversione a U a quando Renato Brunetta ha intensificato i suoi attacchi contro i fannulloni e alzato il tiro sulla produttività del pubblico impiego. Un settore che è da sempre bacino d’iscrizioni e di potere per la confederazione di via Po.
Non che Sacconi abbia disconosciuto l’ex compagno socialista e corregionale, fatto sta che i loro rapporti sono diventati sempre più tesi. E qualche frizione – la proposta di congelare i licenziamenti – l’avrebbe creata anche con un alleato naturale come Giulio Tremonti. Il ministro dell’Economia, che è nel mirino per il suo attendismo, attende che la Ue gli dia il via libera sulla riprogramma-
economia
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Il senso di una proposta che può cambiare la funzione del sindacato
Settimana corta e lunga? Sì, per cambiare il lavoro di Carlo Lottieri segue dalla prima Se 36 o anche 40 ore non bastano ad assicurare un reddito dignitoso, ridurre gli oneri tributari sulle ore settimanali aggiuntive può da un lato incentivare una maggiore produttività, e al tempo stesso far crescere almeno un poco la busta-paga.
zione dei fondi europei, finora bottino delle Regioni. E con questi soldi spera anche di pagare il salato conto degli ammortizzatori sociali. Ma a quanto pare, ora Tremonti teme che i soldi conquistati con fatica finiscano per uno sconclusionato piano di cassa integrazione, che lascerà soltanto macerie. Per questo avrebbe imposto al collega di trovare misure per spingere imprese e lavoratori la produttività in cambio della conservazione dei posti di lavori.
La cosa tranquillizzerebbe Confindustria, che come ha chiarito ieri il suo vicepresidente Alberto Bombassei non vuole irrigidimenti. L’intervento di Tremonti spaventa la Cisl. Spiegano da via Po: «L’asse Bonanni-Sacconi è stato utile per limitare il peso della Cgil, ma adesso c’è il rischio di finire invischiati in partite politiche. Se con Prodi abbiamo fato quadrato sulla nostra indipendenza, perché ora dovremo fare il contrario».
Oggi il dibattito pubblico pare invece concentrarsi su altre urgenze e, in particolare, sul rischio (di cui già si intravvedono taluni sintomi) che la crisi finanziaria abbia per conseguenza un contrarsi dell’occupazione. Ecco allora che uno slogan rosso antico come «lavorare meno, lavorare tutti» può servire a contenere il numero degli esuberi. Non stupisce, per questa ragione, se dall’area dell’estrema sinistra (ormai extra-parlamentare) si levano commenti di soddisfazione per la proposta. A giudizio del nuovo segretario di Rifondazione comunista, Paolo Ferrero, tale soluzione «mantiene il rapporto di lavoro, riduce a tutti l’orario ed evita i licenziamenti». L’incoerenza denunciata da Boeri pare lampante, ma non necessariamente bisogna aspettarsi il peggio.Tutto sommato, non è ancora chiaro in quale progetto riformatore più generale questa idea di una settimana lavorativa breve andrà a inserirsi e, di conseguenza, quali saranno le conseguenze delle scelte che l’esecutivo si appresta ad adottare. Intenzione del ministro Maurizio Sacconi, che ha rilanciato una proposta da qualche tempo all’esame del governo tedesco guidato da Angela Merkel, sembra infatti quella di voler limitare – distribuendoli su una platea più vasta – i costi inevitabili che deriveranno dalla recessione. Invece che avere un milione o più di disoccupati, si punta ad averne un numero inferiore, anche se questo può significare che molti altri vedranno assottigliarsi le entrate e dovranno tirare un po’ la cinghia. In secondo luogo, questa ipotesi della settimana cortissima può essere un’occasione per affrontare un tema cruciale dell’economia italiana: la rigidità dei contratti. In questo senso, l’estrema sinistra di Ferrero e la stessa Cisl di Raffaele Bonanni forse dovrebbero attendere un poco prima di stappare le bottiglie di champagne. La necessità di far fronte a difficoltà fino a poco tempo fa imprevedibili potrebbe anche indurre il governo a lasciar negoziare sempre di più imprese e lavoratori, puntando su un modello di lavoro, di contratto e di relazioni industriali che eviti gabbie troppo rigide (tutte esattamente identiche dal Trentino alla Sicilia) e si sforzi di fare emergere ciò che più è adatto in ogni specifica realtà. Non solo in senso geografico, ma lasciando decidere in ogni settore e perfino in ogni fabbrica. Se le cose fossero così, e bisogna fare il possibile perché questa sia la strada che il governo imboccherà, allo-
ra non vi sarebbe alcuna contraddizione tra il favorire (dove è possibile) settimane lavorative più lunghe e permettere (dove è necessario, o comunque opportuno) soluzioni che portino a orari ridotti e “povertà condivise”.
In fondo, se il ministro Sacconi si orienterà in questo senso avrà il merito di riproporre – di fronte ai problemi urgentissimi della crisi in atto – quell’esigenza di liberare il mercato del lavoro che ogni economista (l’ultimo in ordine di tempo è stato Nouriel Roubini) indica essere il problema fondamentale che l’Italia deve risolvere se vuole iniziare a crescere davvero. A ben guardare, la sinistra che oggi esulta di fronte ad un governo di centrodestra che propone settimane ridotte dovrebbe tenere presente che la vecchia proposta del «lavorare meno, lavorare tutti» nasceva come schema da imporre all’intero Paese, attraverso contratti nazionali
La flessibilità sull’orario serve a risolvere i problemi di occupazione in tempi di crisi, ma può favorire l’idea di contratti volta a volta diversi a seconda delle realtà e dei problemi che obbligassero i lavoratori occupati a lavorare meno e in tal modo aprissero le porte dei cancelli delle fabbriche ad altri operai. È la vicenda, ben nota, delle 35 ore francesi. Ma qui si sta discutendo d’altro, come ha lasciato intendere lo stesso ministro Renato Brunetta. Per il responsabile della Funzione pubblica, in effetti, quella degli orari ridotti è solo «una delle modalità che normalmente si utilizza in momenti di crisi per distribuire risorse di welfare, per distribuire lavoro e occupazione, che diminuisce, tra un numero di gente più elevato, riducendo l’orario di lavoro, che sia giornaliero o settimanale, ed ovviamente anche il salario». Se le cose stessero in questa maniera, la settimana accorciata potrebbe essere un primo passo verso un’economia in cui il lavoro torni ad essere il risultato di un’intesa tra chi compra e chi offre lavoro, saltando l’intermediazione (interessata) di politici e responsabili sindacali. In una prospettiva del genere, ci sarebbe infatti spazio per la settimana striminzita “anti-crisi”ora ipotizzata così come per gli straordinari su cui con più forza insisteva il governo nei mesi scorsi. E ci sarebbe più libertà negoziale per tutti.
panorama
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Processi. L’assurda condanna a due anni del generale Bruno Stano per la tragedia di Nassiriya
L’equivoco degli italiani tra guerra e pace di Stranamore molti che hanno approcciato, con tanta, tanta prudenza, il verdetto di primo grado sulla strage di Nassiriya hanno accuratamente trascurato di affrontare il nodo cruciale di una vicenda giudiziaria surreale, degna di Bunuel. Il Generale di Divisione Bruno Stano, ex comandante delle forze italiane in Iraq nel 2003, è stato condannato a 2 anni… «per distruzione colposa di opere militari». «Opere militari»? Sì, l’opinione pubblica pensa che il processo riguardi una “colpa”ben più grave, ma… la figura di reato che la procura ha pescato dal codice militare penale di pace è l’unica che consente di inquadrare una fattispecie che logicamente andrebbe trattata, se mai, dal codice
I
IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
militare di guerra. Perché i“nostri”in Iraq erano andati a combattere una guerra. Lo stesso vale per i nostri contingenti in Afghanistan. E lo stesso potrebbe capitare in Libano o Kosovo. Però non sia mai, l’Italia conduce sempre e solo missioni di pace. Governi e parlamenti mandano in campo le truppe, le fanno magari anche sparare (solo i governi di centro-sinistra lasciano che si spari, quelli di destra sono più timidi), però non vogliono parlare di guerra e quindi, di leggi di guerra.
Accade
così
in teatro… e subito scatta una inchiesta, come se si fosse verificato un incidente sull’Autostrada del Sole. Ecco, tutto questo deve cessare. Si dica che le nostre sono missioni di guerra, si applichi il codice di guerra (che garantisce di più sia i nostri sia i civili stranieri) e lo si adegui alla realtà delle operazioni militari contemporanee. Quanto alla vicenda in specie… Tutti sanno perfettamente che base Maestrale era nel posto sbagliato,
che avevano autorità solo formale sui Carabinieri.
Il nodo da sciogliere è proprio questo: definire contenuto e scopo della missione, chi fa cosa e chi comanda. Il sistema militare non prevede, non può prevedere la democrazia o peggio ancora corpi separati. Perché è vero che il comandante risponde comunque per responsabilità oggettiva, nel bene e nel male, ma se non ha vera autorità di comando… di che risponde? Subito dopo Nassiriya a tutti fu dato l’ordine di… non subire perdite. Al diavolo il successo della missione. Quello che contava era non subire lutti che avrebbero creato un “caso”politico. E fu così che i nostri si chiusero nelle loro fortezze Bastiani, rese inespugnabili e non uscirono più. Tanto quel che contava era fare “ammuina”.Anche tutto questo deve finire. Se il governo decide di mandare i nostri soldati a svolgere missioni che hanno o possono avere natura “combat” bisogna assumersi le necessarie responsabilità politiche e impartire le conseguenti istruzioni tecniche e operative, forgiando i contingenti in modo adeguato. Altrimenti è meglio starsene a casa.
Se un mezzo militare si ribalta in area di scontri, in Italia scatta subito un’indagine, come se le missioni non comportassero dei rischi
che la procura (civile) di Roma ogni tanto istruisca un’inchiesta di “terrorismo” per gli atti, assolutamente di guerra, che vedono i nostri soldati oggetto di attacchi (attentati) in teatro di guerra (di pace) condotti dai combattenti nemici (terroristi). Ridicolo. Pensate se i tribunali penali civili americani dovessero aprire una inchiesta per le decine o centinaia di attacchi, riusciti o sventati, che ogni giorno avvengono in Iraq o Afghanistan. Ma l’Italia è il paese della ipocrisia giuridica. Ecco perché basta che un mezzo militare si ribalti
indifendibile, non difesa in modo adeguato e affidata a militari della Msu dei Carabinieri che non erano né armati, né preparati né addestrati per fronteggiare un attacco suicida militare. Carabinieri che agivano in sostanziale autonomia, per non dire in disaccordo, con i comandi dell’Esercito. Questo è il modello Msu. Se lo si vuole applicare, scelta politica e strategica, si corrono dei rischi. E se succede il patatarac poi non si fanno i processi. Men che meno ai comandanti del contingente
Il sindaco di Roma, in mancanza di meglio, lancia una singolare crociata alimentare
La rivoluzione culturale della «pajata» l sindaco di Roma, Gianni Alemanno, ipotizza o minaccia uno sciopero della fame alla rovescia. Obiettivo? Riabilitare la famosa “pajata”. Che cos’è? Piatto tipico romano a base di merda. Calmi, per piacere non andate in escandescenze. Non voglio mancare di rispetto a nessuno. Le cose stanno così: piatto buonissimo, ma a base di merda. Lo dice il più romano dei romani: Alberto Sordi nei panni del grande marchese del Grillo. La scena, forse, la ricorderete. Il marchese, buona forchetta, figlio di buona donna, gran puttaniere, porta la sua amante francese un’attrice di Parigi di passaggio nella Roma dei Papi - in una bettola per farle assaggiare qualcosa di veramente speciale. Ma non le dice di cosa si tratta: «Se te lo dico non magni più. Magna e poi te lo dico». Lei mangia e beve di gusto e poi insiste: «Buonissimo. Ora me lo puoi dire: che cos’è?». E il marchese: «Merda». Lei si schifa, ma poi non ci crede. E il marchese conferma: «Proprio merda». Magari potrà confermare anche il sindaco Alemanno, non meno romano di Albertone, ma di altra pasta.
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Gli intestini del vitellino saranno anche delicati, ma sono sempre intestini che in tutti gli esseri di questo mondo svolgono la stessa funzione che pur ci deve essere. Ma per la difesa delle inte-
riora del vitellino Alemanno è pronto a dare il “cattivo esempio” e ha ingurgitare “pajata” a volontà. Il sindaco non ha tutti i torti. La “pajata” è caduta da un po’ di tempo in fuorigioco per alcuni motivi: la “mucca pazza”, l’igiene, l’Unione Europea. Quando ci fu il fenomeno della “mucca pazza” la “fiorentina” quel grande e grosso bisteccone - fu la prima e più celebre vittima. Fu dichiarata fuorilegge e proprio Alemanno, che all’epoca era ministro dell’Agricoltura, si diede da fare per riportarla in tavola. Anzi, già che ci siamo, fui proprio io ad andare a trovarlo al ministero a Largo di Santa Susanna per intervistarlo e raccogliere la sua soddisfatta dichiarazione: «Presto si potrà nuovamente mangiare la fiorentina». Ma con la “pajata” le cose sono un po’ più difficili. Proprio gli intestini del vitellino sono considerati la parte più pericolosa della povera bestia. E
non sembra che si sia ancora escogitato un buon metodo di ripulitura. Vanno lavati e li lavano, ma proprio qui è il busillis: vanno lavati con l’ammoniaca, ma se si lavano troppo e con troppo scrupolo vi rimane l’ammoniaca; se invece vengono lavati poco vi rimane la “merda” di cui parlava giustamente il marchese del Grillo alla sua bella. Stando così le cose, non poteva mancare l’intervento dell’Unione Europea: la “pajata” è un piatto proibito. Ma per Alemanno l’epoca del proibizionismo anti-pajata deve finire, non ha più motivo di essere e se ancora permane è perché esiste una “pregiudizio culturale”.
Diciamo la verità: un buon piatto di “pajata” non ha mai fatto male a nessuno. Certo, va preparato bene, da mani esperte e ci vuole il pelo sullo stomaco, non uno stomaco delicato di quelli da trattarsi con Activia o Actimel. Ma, so-
prattutto, se si vuol mangiare la “pajata”perché non si dovrebbe? Esiste un diritto alla libertà di mangiare come si vuole e cosa si vuole. L’ingerenza dell’Unione Europea nei nostri piatti è contraria alle tradizioni e alla libertà di scelta. L’Europa dovrebbe essere qualcosa di più e di meglio di un menu politicamente corretto. Qui ha ragione Alemanno a definire il proibizionismo anti-pajata un “pregiudizio culturale”. Ma, avendo qualcos’altro da fare, ad esempio amministrare il Campidoglio, ha torto a minacciare di fare la “cena di disobbedienza civile”. A tale proposito, mi sovviene un altro film e un altro attore romano: Enrico Montesano. La storia è nota: Montesano è un vetturino che diventa amico del Papa e siccome è uno scommettitore incallito scommette con i suoi amici che si farà vedere con il Papa alla finestra. Vincerà. Ma prima di questa scommessa, le sue prodezze si giocavano a base di cene luculliane in cui scommetteva con il grandissimo Mario Carotenuto: «Scommettiamo che faccio fuori dieci vassoi di gnocchi?». Memorabile la scena in cui perde la scommessa per una sola forchettata. Le “cene di disobbedienza civile” di Alemanno hanno come modello le grandi abbuffate del vetturino amico del Papa alias Enrico Montesano. Manca, però, l’inarrivabile Carotenuto.
panorama
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Presidenzialismo. Bonaiuti rassicura: «Se ne parlerà dopo la crisi». Ma Berlusconi pensa davvero di “curare” così il sistema
Il colpo di grazia ai partiti? È solo rinviato di Errico Novi segue dalla prima Ieri Paolo Boniaiuti è intervenuto per attenuare l’effetto provocato dal Cavaliere. Ha accusato Walter Veltroni di strumentalizzare il discorso di sabato che, secondo il sottosegretario, riguarda solo il futuro: «Di presidenzialismo si potrà parlare quando sarà superata la crisi mondiale e se ci sarà l’accordo di tutti: questo ha detto Berlusconi rispondendo a una domanda». È una puntualizzazione che il Quirinale accoglie con molto sollievo. E che fa seguito ad almeno due risposte negative. Quella più strettamente politica, costituita dalla freddezza esibita da Giorgio Napolitano di fronte all’ipotesi di modifiche alla forma di governo – un gelo che ha attivato i consueti canali diplomatici tra il Colle e Palazzo Chigi – e dal malumore manifestato da Umberto Bossi. L’altro feedback che ha incoraggiato l’intervento di Bonaiuti è quello dei sondaggi: per quanto il premier possa godere in questo momento di una popolarità inavvicinabile, l’elettora-
Rafforzare i poteri del premier con un Parlamento già ridotto a ufficio bolli significherebbe archiviare la democrazia così com’è intesa nella Costituzione to non è per nulla disposto a lasciargli campo libero per questioni che non si riflettano più o meno direttamente sulla situazione economica. Così spingere sul rafforzamento dei poteri del premier finisce per produrre una inversamente proporzionale caduta dell’indice di gradimento.
È un paradosso nel quale Berlusconi non sembra intenzionato a rinchiudersi. Almeno per il momento. Perché le rassicurazioni di Bonaiuti non cancellano comunque il lavoro svolto nelle settimane precedenti soprattutto da Gaetano Quagliariello. È stato lui ad aver sottoposto al Cavaliere
due possibili ipotesi di elezione diretta: da una parte lo schema all’inglese, con la presidenza della Repubblica che resterebbe un organo costituzionale separato, dal peso assimilabile al significato simbolico attribuito dai britannici alla corona; dall’altra il modello francese in cui le figure di capo dello Stato e capo del governo coinciderebbero. A Palazzo Chigi dunque la questione è stata valutata in modo tutt’altro che superficiale. Non vuol dire che si sarebbe arrivati a un disegno di legge costituzionale nel giro di poche settimane, certo. E la reazione irritata della Lega elimina ogni dubbio.
Ma al di là del fatto che la componente ex aennina del Pdl trova molto interessante la prospettiva (ieri Gasparri ha detto che il presidenzialismo è prioritario per la destra, mentre secondo Nania il nuovo schema sarebbe utile a bilanciare il decentramento federalista) e che lo stesso Renato Schifani ha invitato a rimuovere il tabù sull’argomento, quello che conta è l’approccio con cui Berlusconi
proensa di rivitalizzare un sistema chiaramente debole. Vede il vuoto della dialettica politica: ma anziché cercare di colmarlo come sarebbe necessario ragiona come se fosse lui, con la sua leadership, l’unico in grado di puntellare il sistema. È fondatissima l’obiezione mossa da Pier Ferdinando Casini nell’intervista di ieri al Corriere della Sera: su questa strada si consolida il rapporto tra “re” e popolo, certo non la democrazia. Si può aggiungere che il presidenzialismo può essere anche uno strumento utilme al processo democratico, ma quando la vitalità delle forze politiche è tale da richiedere un sistema più adatto a gestirla. Adesso invece l’elezione diretta del premier servirebbe solo a dare il colpo di grazia a partiti già spenti, incapaci di generare dibattito e di conquistare autorevolezza. È una terapia pericolosissima, addirittura fatale. Non se ne avverte il bisogno, tanto più che con la nascita di un Pdl a bassissimo tasso di democrazia interna il quadro già oggi critico potrà solo aggravarsi.
Personaggi. Dalla rincorsa nei Ds del 2001 alle primarie del 2007: croncaca di una vita in salita
L’eterno candidato (mancato) Bersani di Antonio Funiciello
ROMA. «Io ho già detto che sono pronto a tutto. Dobbiamo prima rinnovare il nostro progetto politico. Poi decidere come dovrà riorganizzarsi il partito e chi sarà il leader. Serve una fase due». Sono parole di Pierluigi Bersani in un’intervista a Repubblica. Però non l’intervista di due giorni fa, ma quella del 13 giugno 2001 (sempre a Repubblica) in cui Bersani si candidava, o meglio: non escludeva la possibilità di candidarsi, alla segreteria dei Ds contro Piero Fassino. Viene in mente L’eterno marito di Dostoevskij, in cui il protagonista, in tutta la vita non fa che modulare e rimodulare la sua condizione di ”marito”. Così l’eterno candidato Bersani.
pagni: «Credevo nella mia candidatura, ma molti nei Ds non avrebbero capito» (11 luglio ’07). Si arriva così alla Direzione nazionale di venerdì scorso e all’ennesima disponibilità dell’eterno candidato, supportata dall’immancabile web group su Facebook «Quelli che vorrebbero Bersani segretario del Pd». Dalle parti del PD, sono in molti a stampare e archiviare l’ultima intervista di Bersani per conservarla nella cartellina a lui dedicata.
Dopo la delusione del 2001 (due settimane dopo l’intervista citata, Bersani annuncia «Con Fassino, per guidare i Ds»), nascono comunque gruppi di ascolto e piattaforme bloggers al grido ”E se dicessimo Bersani?”, in cui ci si divide tra chi lo vuole segretario diessino al posto di Fassino al congresso del 2005 e chi lo sogna candidato premier al posto di Prodi nel 2006. Né l’uno, né l’altro, racconta la cronaca. Passa un anno: l’appuntamento sono le primarie per scegliere il segretario del neonato Pd; titolo del Corriere «Bersani in campo: Pronto a correre da leader» (3 maggio ’07). Altro contrordine, com-
Dal 2001, la sequenza di annunci e smentite di discese in campo è già corposa e rappresenta ormai il viatico dello scetticismo che accompagna la ”minaccia” bersaniana alla leadership veltroniana. Se ai tempi dei Ds la necessità di fare un passo indietro era dettata a Bersani dalla logica del vecchio Pci per cui la rossa Emilia tiene la borsa (i quattrini) del partito, e tanto le deve bastare, oggi l’argomento è di altro genere. E Bersani, infatti, fatica da tempo ad accettare la subalternità a Veltroni, se già a fine marzo, a una settimana dalle elezioni di aprile, in un’intervista alla Stampa dichiarava: «La gente non ha an-
In Rete molti puntano su di lui come nuovo leader Ma i cattolici storcono il naso per il suo lungo passato da comunista dell’apparato emiliano
cora capito il cuore della campagna elettorale». Non proprio un colpo di remi nella direzione del segretario, insomma.
Detto ciò, il 2009 può essere l’anno del coronamento del sogno di Bersani? Difficile dirlo. E non solo perché sia difficile preventivare quale sarà il limite condiviso per l’emorragia elettorale a cui potrebbe andare incontro il Pd nelle amministrative e nelle europee della prossima primavera, a cui potrebbe seguire il cambio al vertice. In questo senso va forse interpretata l’idea di un Pd ”modello Avis” auspicato da Bersani, nel suo intervento in Direzione e nella intervista domenicale. La ragione principale che ostacola uno sbocco di questo tipo è tutta politica e riguarda gli equilibri interni tra i soci fondatori del Pd. La componente popolare non crede - ma è una convinzione diffusa anche in parte del mondo ex Ds - che l’ultima propaggine del Pci emiliano, perfettamente incarnata da Bersani, possa risultare efficace nell’azione di rilancio del progetto democratico. A questa analisi si aggiunge la sensazione che anche D’Alema, capo degli ex Ds, non creda che intorno al nome Bersani si possa costruire una maggioranza politica all’interno del Pd. Due ostacoli non da poco, che rafforzano la sensazione che l’eterno candidato Bersani sia destinato a restare tale.
il paginone
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Era uno degli uomini più determinati ma anche più divertenti della sua epoca. Le freddure e i modi di dire più celebri di Churchill sono ora raccolti in un volume Pubblichiamo qui di seguito alcune citazioni di Winston Churchill tratte dal libro“Il sorriso del bulldog”(liberilibri editore) curato da Dominique Enright, introdotto e tradotto da Pietro Di Muccio de Quattro «Troppo spesso l’uomo forte e taciturno è silenzioso perché non sa cosa dire, e viene ritenuto forte solo perché se ne sta zitto». * «Forse è meglio essere irresponsabili e giusti che responsabili e ingiusti». * «Essere onesti è una bella cosa, ma è anche molto importante essere nel giusto». * «Senza tradizione l’arte è come un gregge di pecore senza pastore. E senza innovazione è un cadavere». * «La gioventù è a favore della libertà e delle riforme, la maturità a favore di un giudizioso compromesso, la vecchiaia a favore della stabilità e della tranquillità». * «Se la civiltà degenera, la nostra morale scomparirà, ma le nostre massime rimarranno». * «Tutti hanno il loro momento, ma alcuni momenti durano più a lungo di altri». * «Nel mondo circolano un sacco di menzogne, e il peggio è che molte di esse sono vere». * «La guerra è per lo più una raccolta di errori madornali». * «Una nazione che dimentica il passato non ha futuro». * «Non collocare mai un principio così in alto da non poterlo abbassare a seconda delle circostanze». * «È sempre saggio guardare avanti, ma è difficile discernere più lontano di quanto puoi vedere». * «Non arriverai mai alla fine del viaggio, se ti fermi a lanciare un sasso a ogni cane che abbaia». * «Motivazioni virtuose, intralciate dalla pigrizia e dalla timidezza, non possono competere con un’agguerrita e risoluta malvagità». * «Le dispute peggiori nascono quando entrambi i contendenti hanno ugualmente torto e ragione». * «Scoprire e proclamare principî generali è sempre più facile
che applicarli». * «Non fidarti mai di un uomo senza un vizio che lo redima». * «È fantastico vedere quanto le persone riescano a conservare i segreti che non sono mai stati loro confidati». Questo commento riguarda il suo insuccesso nel venire informato dagli ufficiali superiori circa un’azione programmata, quando era corrispondente nella Guerra Boera. * «A volte la verità è talmente preziosa che deve essere protetta da una guardia del corpo di bugie». Churchill, che parlava alla conferenza di Teheran del 1943, si riferisce in particolare ai piani degli Alleati per invadere l’Europa. È il caso dell’operazione Overlord, nome in codice del vittorioso sbarco in Normandia del giugno 1944, accompagnata e sotto molti aspetti resa possibile da una serie di fantasiose e sorprendentemente efficaci azioni diversive, cioè “bugie”. * «Le difficoltà superate sono opportunità guadagnate». * «Mi rifiuto decisamente di essere imparziale come nel caso in cui mi trovassi tra i pompieri e l’incendio». (Mentre parlava alla Camera nel luglio del 1926, durante lo sciopero generale, e rispondeva a lamentele circa la sua parzialità nella conduzione della «British Gazette»). * «Beh, il principio mi sembra lo stesso. L’acqua continua a cadere giù». Churchill si era irritato perché gli avevano chiesto se le cascate del Niagara avevano lo stesso aspetto dell’ultima volta che le aveva viste. * «Se questa è una fortuna, certamente è ben mascherata». Si dice che Clementine avesse osservato come la sconfitta di Churchill alle elezioni nel 1945 poteva essere una fortuna travestita. Churchill non era d’accordo. * Agli inizi del 1945 vi fu uno scambio di corrispondenza tra il presidente Roosevelt e Churchill a proposito dell’ordine del giorno per la Conferenza di Yalta. Il Presidente americano non capiva il motivo per cui non avrebbe dovuto completare i piani per dare vita all’Organizzazione delle nazioni unite durante i sei giorni della conferenza. Churchill gli rispose: «Non vedo come sia possibile realizzare le nostre speranze per un’Organizza-
zione mondiale in soli sei giorni. Persino l’Onnipotente ne impiegò sette». * Nel corso di una visita a New York agli inizi degli anni Trenta, Churchill venne invitato ad assistere a una partita di football americano. Quando gli chiesero la sua opinione rispose: «Assomiglia un po’ al rugby. Ma per quale motivo si riuniscono così spesso per consultarsi?». * Nel maggio del 1955, un portavoce della Bbc prese le difese di un programma imminente, un dibattito dal titolo Cristianità contro ateismo, sottolineando come fosse «nostro dovere nei confronti della verità consentire a entrambe le correnti di partecipare al dibattito». «Immagino che se al tempo di Cristo fosse esistita la televisione», ribatté Churchill, «la Bbc avrebbe concesso lo stesso spazio a Giuda e a Gesù». * Un giorno, mentre era a colloquio con il severo direttore della Bbc, lord Reith, uno scozzese di alta statura, presbiteriano, dall’aspetto tetro, qualcuno sentì Churchill bofonchiare: «Chi mi salverà da queste Cime tempestose?». * Anche se giocava a golf, e probabilmente con piacere, Churchill non era ossessionato da quello sport. Una volta disse: «Il golf è come cercare una pillola di chinino in un pascolo». E in un’altra circostanza: «Il golf è un gioco in cui si cerca di colpire una pallina molto piccola per farla finire in una buca ancora
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Winston se tecnologia, che avrebbe fatto parte dell’università di Cambridge. Venne suggerito che il College fosse intitolato a Churchill. Quando Colville gli riferì questa proposta, la sua reazione non fu quella di chi si sente gratificato dal fatto di avere un monumento alla memoria mentre è ancora in vita, e che questo sorga proprio all’interno di una università quando lui, malgrado i molti titoli honoris causa e il cancellierato dell’università di Bristol, non aveva mai frequentato l’università: una reazione che dovette sembrare strana. Ma Colville insistette: «Quale monumento alla memoria può durare quanto un grande college universitario?». Dopo una pausa, Churchill rispose: «È molto carino da parte loro. E dovrei certamente essere compiaciuto. Dopo tutto, mi collocherebbero accanto al College della Trinità». Pur ansioso com’era di promuovere la scienza e la tecnologia, Churchill riteneva che la scienza fine a se stessa potesse essere pericolosa: «Gli scienziati dovrebbero essere a portata di mano, ma non al vertice». E, nel contesto della guerra, «i più recenti traguardi della scienza hanno un legame con la crudeltà dell’età della pietra», commentò in un discorso del marzo 1942. Osservò inoltre: «Ho sempre pensato che la sostituzione del cavallo con il motore a combustione interna fosse una pietra miliare molto deprimente nel
Nel mondo circolano un sacco di menzogne. E il peggio è che molte di esse sono vere più piccola, con un’attrezzatura del tutto inadatta allo scopo». * «Indubbiamente non è mai esistita un’armata che abbia marciato tanto quanto l’armata della scienza». Ma deluso dal relativo insuccesso del Regno Unito nel produrre lo stesso numero di scienziati e di tecnici degli Stati Uniti, poco dopo la fine del suo ultimo mandato come Primo ministro Churchill dichiarò che avrebbe cercato di fondare in Gran Bretagna l’equivalente del Massachusetts Institute of Technology. Il suo ex segretario Jock Colville e altri con lui si diedero subito da fare per raccogliere i fondi necessari alla fondazione di un nuovo college dedicato alla scienza e alla
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progresso dell’umanità». Ma disse anche: «Dovrebbe esistere un’agiologia della scienza medica, e dovremmo avere sul calendario giorni che commemorassero le grandi scoperte che sono state fatte per tutta l’umanità: un giorno di vacanza, un giorno di festa per commemorare sant’Anestesia, e il puro e casto sant’Antisettico; e se dovessi dare la mia preferenza, celebrerei santa Penicillina». La penicillina era stata usata per curare Churchill quando si era ammalato di polmonite nel 1943. Anche se, leggiamo nei diari di lord Moran, un’infezione da stafilococco contratta nel giugno del 1946 resistette ostinatamente alla penicillina. In questa circostanza Churchill osservò: «L’animaletto sembra aver contratto la mia stessa truculenza. È il suo momento di gloria». * «Quando devi uccidere una persona, non costa niente farlo con gentilezza», scrisse Churchill riferendosi alla forma cerimoniosa con cui era stata scritta la dichiarazione di guerra al Giappone l’8 dicembre 1941. Era opinione comune che il comportamento del Giappone (gli attacchi quasi simultanei alla base americana di Pearl Harbor e ai possedimenti inglesi e olandesi in Estremo Oriente, tra cui la Malesia e Hong Kong) richiedesse una risposta più aggressiva. * Churchill era un grande paladino della libertà in tutte le sue forme (purché fosse ragionevole, naturalmente), e riconosce-
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enza filtro va anche la libertà di essere sciocchi, soprattutto con le parole. «Quando si può parlare liberamente, è inevitabile che si facciano molti discorsi sciocchi». E durante un suo intervento alla Camera dei comuni nell’ottobre del 1943, elaborò questo stesso concetto dicendo: «Tutti sono favorevoli alla libertà di parola. Non passa giorno senza che venga esaltata, ma l’idea che se ne sono fatta alcune persone è che sono libere di dire tutto quello che vogliono, ma se qualcuno le contraddice, lo prendono per un oltraggio». * «Il signor Gladstone leggeva Omero per diletto. E ben gli stava, secondo me». * Quando gli chiesero di comprare una copia dell’ultimo best-seller (sembra si trattasse di Via col vento, pubblicato nel 1937), Churchill rispose con fare sentenzioso: «La regola vuole che, prima di comprare un libro appena uscito, si legga un testo classico». Ma si affrettò ad aggiungere: «Tuttavia, come autore, suggerisco che questa regola non venga seguìta troppo alla lettera». * «No, leggo soltanto per piacere o per interesse», si ritiene abbia risposto a lord Londonderry quando questi gli chiese se aveva letto il suo ultimo libro. * In un articolo sulla situazione
mondiale pubblicato nell’aprile del 1938 Churchill, sempre più preoccupato dalla mancanza di preparazione della Gran Bretagna contro la crescente minaccia tedesca, disse: «Non correremmo certo il rischio di trovarci nei guai se avessimo a disposizione mille o duemila moderni aerei in più... Come rispose l’uomo la cui suocera era morta in Brasile quando gli chiesero cosa voleva fosse fatto dei suoi resti mortali: “Imbalsamatela, crematela e seppellitela. Non correte rischi!”». * A proposito della pittura: «Preferisco i paesaggi. Un albero non si lamenta perché non gli ho reso giustizia». E: «Non pretendo di essere imparziale circa i colori. Mi rallegro per quelli brillanti, e sono sinceramente dispiaciuto per i poveri marroni».
* «Di una cosa sono certo: se iniziamo una disputa tra passato e presente, scopriremo di aver perso il futuro». * «Sono sicuro che gli errori del nostro tempo non verranno ripetuti; probabilmente faremo altri errori». Giugno 1944: alla Camera Churchill rispondeva all’appello a non ripetere gli errori commessi dopo la Prima guerra mondiale. * Nel periodo in cui le navi mercantili e i pescherecci alleati erano continuamente bersagliati dal fuoco tedesco, durante una trasmissione della Bbc Churchill rincuorò in qualche modo la nazione: «Sono lieto di comunicare che... la loro violenza di fuoco è decisamente superiore all’accuratezza della loro mira». * Quando gli chiesero come mai il segretario parlamentare privato di Lloyd Gorge, sir Philip Sassoon, avesse ottenuto tanti successi, Churchill rispose laconicamente: «Quando stai partendo per una destinazione sconosciuta è un’ottima idea quella di attaccare una carrozza ristorante in coda al treno». * Il suo cameriere personale, Norman McGowan, ricorda che, mentre indossava l’uniforme di lord Warden of the Cinque Ports durante una visita ufficiale, a Churchill cadde una delle spalline. Proseguì senza, ma più tardi fece notare a McGowan: «Per fortuna mi allaccio le bretelle da solo». * Durante gli ultimi anni di vita Churchill gradualmente si ritirò dalla vita pubblica, trascorrendo il tempo quietamente, a volte in Francia, a volte a Chartwell, dove andavano a trovarlo gli amici, coi quali giocava a carte o chiacchierava a lungo. Alcune volte si lamentava di non essere più capace di pensare a nulla di originale, ma altre si sorprendeva di se stesso venendosene fuori con qualche commento pungente e acuto. Nei suoi ultimi giorni, quando sembrava perso in un mondo tutto suo, a volte interveniva nella conversazione all’improvviso e a proposito. «So cosa si prova ad essere un ciocco da ardere: è restio a farsi consumare, ma alla fine è disposto a convincersene». Churchill pronunciò queste parole contemplando il caminetto acceso, poco prima di morire. * «Per fortuna l’esistenza non è poi così facile; altrimenti arriveremmo troppo rapidamente alla fine», scrisse Churchill in My Early Life (1930). E fece in modo di avere abbastanza cose da fare per riempire i suoi novant’anni di vita e non arrivare alla fine troppo rapidamente.
Di una cosa sono certo: se iniziamo una disputa tra passato e presente, scopriremo di aver perso il futuro
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* «Al mondo esistono uomini che traggono forza da disastri e rovine, allo stesso modo in cui altri si esaltano per il successo». * «Questo è uno di quei casi in cui i fatti superano l’immaginazione», commentò così in un discorso alla Camera dei comuni del maggio 1941 il lancio col paracadute di Rudolf Hess in Scozia.
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mondo
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Sondaggi. Pubblicata la classifica sui 50 uomini più potenti al mondo. L’opinione dei corrispondenti dall’Italia
Provinciale Newsweek Per una volta, il più noto dei vizi italiani ha contagiato il settimanale Usa di Pierre Chiartano l Newsweek non vuol essere da meno di Time magazine, che ogni anno sforna l’Uomo dell’anno. Una faccia da stampare su milioni di copertine e un marchio di fabbrica che fa vendere. Allora, il suo diretto concorrente ha prodotto la classifica dei 50 uomini più influenti del pianeta. Una sorta di mappa del potere, secondo i redattori del settimanale americano. Un sali-scendi del potere che non ha convinto molti. Spiccano le assenze degli italiani. L’onnipresente premier Silvio Berlusconi non c’è, ma ha i suoi difensori, che non credono agli elenchi di potere o popolarità.
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nel caotico traffico cittadino. Per rendere ancora più italiano il sondaggio-panettone. La parte trascendente della vita, espressa dalle figure dei capi religiosi sembra scomparsa, almeno scivolata a fondo classifica. Il Santo Padre in 37esima posizione fa gridare allo scandalo e al complotto luterano antipapista il presidente di Medusa film, Carlo Rossella (vedi intervista in spalla). Così come il Dalai Lama al 46esimo posto fa apparire il tutto come il segno di una riscossa in nome di Voltaire. Ma non è così: è solo una hit- parade a ridosso della vacanze natalizie.
Scontata la prima posizione per il presidente eletto degli Stati Uniti, Obama. Sorprende la Merkel, relegata in ottava posizione. Ma per tutti, il sondaggio è inutile e troppo auto-celebrativo L’unica a tenere alta la bandiera tricolore è Sonia Gandhi vedova – di origini piemontesi - del premier indiano assassinato dalle tigri Tamil. Per il resto poche donne. La prima in lista, Angela Merkel, è solo ottava dietro al primo ministro britannico Gordon Brown.
Abbiamo raggiunto alcuni rappresentanti della stampa estera in Italia: chi sul posto di lavoro, chi in movimento
Dennis Redmont, già presidente dell’Associazione stampa estera in Italia e fondatore di Ap.com, non conosceva il lavoro di NW ma ha commentato a liberal le prime tre posizioni: «La fine dell’anno è sempre un pretesto per fare le liste e Newsweek, che non può nominare l’uomo dell’anno come Time magazine, deve inventarsi una classifica. Hanno pescato dall’ovvietà, contrastando Time con la lista dei potenti. Non è
da prendere sul serio, perché non ha nessuna base statistica e non è un sondaggio. È frutto della mania delle liste. Il mondo in questi giorni ha messo il cartello chiuso per ferie – si spera – fino al 20 gennaio. Quando ci sarà l’insediamento del nuovo inquilino della Casa Bianca. Fino a quando il mondo non si sarà svegliato da questa lunga siesta non ci saranno notizie. A meno che non ci siano dei malintenzionati». E Sarkò prima della Merkel è credibile. «Meno male che c’era lui alla presidenza dell’Unione europea, ha pesato certamente di più, a mio avviso, durante questi sei mesi.Vedremo la prova del nove di questo potere nei prossimi sei, durante la presidenza della Repubblica ceca. Verificheremo così se è stata solo un’illusione ottica oppure se c’era della sostanza». Per l’Italia l’unico «onore» in questa classifica è la presenza di Sonia Gandhi. In India conta e il futuro della dinastia continua con il figlio.
Mario Biasetti, producer di Fox news è possibilista, almeno sul podio: «Why not? La cima della classifica può funzionare. Obama è la speranza, non solo per gli americani, ma credo per tutto il mondo. Il neopresidente degli Usa merita di essere il numero uno. Anche la seconda posizione occupata dalla Cina
ci può stare, è un Paese che va come il vento. Fra qualche anno potrebbe anche arrivare al primo posto. Nicolas Sarkozy, specialmente nei mesi di presidenza dell’Unione europea, ha bene operato, sì è sentito molto parlare di lui. Anche se qualche dubbio l’avrei tra lui e Angela Merkel». È solo ottava nella classifica di NW, ma «la cancelliera tedesca meriterebbe molto più del presidente francese di essere in quella posizione». E per il produttore di Fox news non è solo una questione di galanteria.
«La Germania è una potenza, non può essere lasciata fuori dall’Olimpo. La Merkel ha fatto un buon lavoro - anche se non proprio in questi giorni – per la Comunità europea, in un periodo come questo di crisi dove tutti tendono a fare i propri interessi». A propositi d’interessi e di «storia del potere», che fine ha fatto l’asse Parigi-Berlino: è davvero tramontato, in favore di nuove geometrie? «Oggi effettivamente sembrerebbe meno forte, se ne sente parlare di meno. Ma dobbiamo aspettare i tempi lunghi per valutare, non facciamoci prendere troppo dalle opinioni dei media... le nostre». Come volere dire non prendiamoci troppo
sul serio, per l’esperto vaticanista di Fox. Ma le donne, la classifica è ben compilata? «Sonia Gandhi, prima di Nancy Pelosi, non va bene. La Gandhi ha molto potere nel suo Paese, ma fuori dall’India ben poco. La Pelosi è la terza carica istituzionale americana, riflette un enorme potere. Dopo il governo c’è il Congresso che deve autorizzare le spese. Senza la sua approvazione la Casa bianca cosa fa? Anche se non gode in questo momento di buoni sondaggi, la Pelosi è alla testa di una istituzione forte». Insomma, Biasetti invertirebbe le posizioni fra Gandhi e Pelosi, anzi la metterebbe «molto più avanti».
Delusione per il ranking di Benedetto XVI. «Forse vediamo la religione come un mondo a parte. Non fa notizia. Tra Francia e Spagna ultimamente non arrivano segnali confortanti per il Vaticano. Cosa succede? È colpa di noi giornalisti se l’hanno messo così in basso? Forse, ma sono sicuro che non riflette il suo reale valore, che è grande, molto grande». Sarà una una rivolta volterriana, prodotta da un eccesso di fede emerso nell’ultimo decennio? «Sì, può darsi. Ma non dimentichiamoci che il Santo Padre rappresenta
mondo
più di un miliardo di cattolici. Anche i protestanti ascoltano ciò che dice il Papa. Non saranno d’accordo, ma lo ascoltano». Sui figli della scissione di Augusta, meglio noti come luterani,sentiremo commenti di altro tenore da parte italiana, da un giornalista elegante, ma piuttosto graffiante in questo caso: Carlo Rossella.
Salvatore Aloise, corrispondente di le Monde, invece ci vorrebbe ricordare che Roma è caput mundi, ma di acqua sotto il Tevere ne è passata moltissima da quando la frase fu coniata. «Quando si è in Italia, sembra che tutto giri intorno a Berlusconi. Poi ci si rende conto che così non è. È un atteggiamento molto provinciale, la scala d’importanza reale da peso ad altro, come in que-
In alto, da sinistra: Barack Obama, Hu Jintao, Nicolas Sarkozy, Gordon Brown e Angela Merkel. In basso, da sinistra: Vladimir Putin, Abdul Aziz al Saud, l’ayatollah Khameini, Kim Jong-il e il generale David Petraeus. Nel box, Carlo Rossella
sta classifica». Anche se al corrispondente del quotidiano trasalpino qualche perplessità nasce, vista l’uscita sotto Natale e la concorrenza con la rivista Time. Tutti d’accordo su questo tema particolare.
Nessun dubbio sulla meritatissima terza posizione di Sarkò davanti alla teutonica Angela. «La presidenza europea ha dato molta esposizione mediatica. Dalla crisi tra Georgia e Russia a quella economico-finanziaria. Anche questo conta». È proprio vero siamo nel mondo della comunicazione e il potere è anche semplicemente ciò che appare. Ma fra giornalisti ci si intende, quando si avvicina agosto e Natale, la prudenza è d’obbligo. «È solo un gioco». Andrew Davis , di Bloomberg, non vorrebbe entrare in argomento, ha posizioni ortodosse su argomenti delicati che preferisce non vengano rese note: «È una classifica divertente, ma poco reale. Le persone che cambiano la vita della altre persone, spesso sono nascoste». E i giornalisti che dovrebbero andare a scovarle sono sempre più pigri. E adesso è Natale.
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Per il presidente di Medusa film, è inutile una graduatoria del genere
«Un elenco di fesserie, sono i soliti antipapisti» colloquio con Carlo Rossella
ROMA. Carlo Rossella è arrabbiatissimo con Newsweek e con la sua lista degli uomini più potenti del mondo. «Niente di più prevedibile, banale e di parte», ci dice subito. «È giusto mettere Obama in cima, ma il Santo Padre al 37esimo mi sembra una grandissima cretinata. Preceduto da emeriti sconosciuti mi sembra una cosa terribile. Ho pensato: sono i soliti protestanti che odiano i cattolici e che si divertono a fare queste str......te».
Niente revanchismo volterriano per Rossella, ma un’operazione certamente più prosaica e meno nobile. «Sono cose che non stanno né in cielo né in terra... soprattutto non stanno in cielo». E l’ottavo posto conquistato della lady della politica tedesca? «Hanno messo la Merkel e non hanno messo Berlusconi che è presidente di un grandissimo Paese che fa parte del G8 . È un uomo che è non ascoltao, ma ascoltatissimo nei consessi internazionali. Non mi spiego perché non l’abbiano messo». Forse è stato vittima di un complotto internazionale o semplicemente di invidie? «Forse vendette, piccole meschinità. Mi sembra veramente una lista fatta da degli incompetenti. Che senso ha mettere un terrorista come bin Laden nella stessa lista dove c’è Benedetto XVI? No, insisto, proprio non ha senso. La potenza di Osama e quella del male. Come se per l’Italia avessimo messo il capo della Mafia. È la potenza sì, ma del diavolo». E l’evocazione dela massimo esponente del male ci da la cifra di quanto Rossella ”disprezzi” questa maniera di fare giornalsimo.
Poi il direttore consiglia di non prenderla sul serio. «È come la più bella di Lignano sabbia d’oro. Dove trovi quella col sedere o le tette più belle. Chi va su chi va giù». Ristabiliamo un ordine, faccia lei una classifica sullo stile politico. «Il Santo Padre in cima, poi Berlusconi - in Italia - Obama, la Merkel, Gordon Brown, Sarkozy, Putin, Hu Jantao, Sonia Ghandi, Lula». Putin non ci è sfuggito, ma dove esattamente? «Fra i primi. È un grande capo di Stato di un Paese molto potente. Non vedo perchè non metterlo».Vicino alla Merkel? «Sì, vicino alla Merkel». E cosa pensa dello sfilacciamento dell’asse Parigi-Berlino, su cui si è costruita l’Europa della ricostruzione postbellica? «Si è sfilacciato da tempo, non c’è grande simpatia fra Sarkozy e la Merkel. Per me ha ragione la cancelliera, mi piace molto. Così anche per il loro sistema politico e il federalismo. L’Europa è stata fondata da Francia, Germania e Italia poi dal Benelux. Quest’ultimo è in crisi. La Francia è in preda a un delirio d’onnipotenza. I due capi di Stato più realisti sono la Merkel e Berlusconi, che fa un grande lavoro di mediazione come al vertice di Trieste. Anche l’idea tedesca di ridurre la settimana lavorativa la trovo interessante. La cancelliera andava più su in classifica, sicuramente».
Vendette e piccole meschinità hanno prodotto una lista «fatta da incompetenti, prevedibile, banale e totalmente di parte». Parola di Rossella
E il leader più simpatico e quello il più attraente al femminile? «È facile, lo dicono tutti, è Berlusconi. Una donna che mi piace molto ed è al potere. Mi faccia pensare un attimo: Hillary Clinton». (p.ch.)
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mondo A lato, l’ingresso della sede della commissione europea a Bruxelles. In basso il suo presidente, José Manuel Barroso, nel mirino degli euroentusiasti, parte della stampa francese e della funzione pubblica europea. La sua colpa sarebbe quella di non aver proposto soluzioni anti-crisi economica autonome, rispetto alla volontà degli Stati membri
Scenari. Mentre Sarkozy chiude il vertice in Brasile, si discute sull’organismo. Che paga la crisi d’identità dell’Unione
Quale futuro per la commissione? di Sergio Cantone arà la commissione europea a fare le spese della crisi di identità dell’Ue. È l’aria che tira a Bruxelles nella transizione tra la presidenza semestrale francese e quella ceca, che inizierà l’1 di gennaio. Anche se silenziosa, è una lotta feroce che dura da almeno un decennio quella che oppone i sostenitori di una commissione ridotta al ruolo di segretariato tecnico del consiglio (gli stati membri) ai partigiani dell’equazione commissione eguale esecutivo comunitario. È un gioco al massacro che è costato all’Ue tre sconfitte referendarie in tre anni, in Francia, Olanda e Irlanda. I “no”alla costituzione e al trattato di Lisbona erano in parte una crisi di rigetto del “moloch burocratico europoide”, una commissione responsabile di tutti i mali: allargamento, liberismo selvaggio, depauperamento di campagne e industrie dovuto alla globalizzazione e uniformizzazione culturale a danno dello stato nazione. Da un punto vista legale, la commissione europea è guardiana dei trattati e ha un potere propositivo. Il paradosso è che il suo attuale presidente, José Manuel Barroso, si ritrova nel mirino degli euroentusiasti, parte della stampa francese e della funzione pubblica europea. La colpa di Barroso sarebbe
S
infatti quella di non aver proposto soluzioni anti-crisi economica autonome, rispetto alla volontà degli Stati membri.
È vero, la commissione non ha imposto i suoi diktat in materia di regole finanziarie e di “exit-strategies” dalla recessione, ma c’è solo da immaginarseli Sarkozy, Merkel, Gordon Brown e Berlusconi a fa-
landese a un nuovo referendum. Il rischio che l’Irlanda potesse perdere il suo commissario in una specie di lotteria negoziale era infatti uno degli argomenti utilizzati dallo schieramento contrario al trattato di Lisbona. L’argomento è controverso, per certi federalisti un commissario per Paese è cedere all’idea di un’Europa fondata esclusivamente sul ruolo degli stati nazione, gettando così alle ortiche la possibilità che esista un esecutivo europeo indipendente e sovrano. Per altri invece ciò legittima ancor di più la commissione agli occhi di tutti i cittadini europei. Quello che in realtà c’è dietro le quinte è la volontà da parte francese di far prevalere il ruolo dei grandi Paesi, rispetto ai piccoli. Infatti una commissione “light” metterebbe tutti gli stati su di un piano di eguaglianza indipendentemente dal numero dei loro abitanti. Ecco perchè qualche giorno fa il presidente francese Sarkozy ha detto: «La commissione senza un francese o un tedesco non avrebbe alcun senso e sarebbe imprudente liquidare il principio di un commissario per ogni stato membro». Per Piotr Kaczinski, ricercatore del think-tank Center for European Policy Studies di Bruxelles «Topolanek (il primo ministro ceco) potrebbe scoprire durante la sua presidenza dell’Ue, con grande sorpresa; quanto sia importante per Praga cercare un appoggio nella commissione europea». Chiosa poi Sarkozy: «I grandi Paesi non hanno più diritti dei piccoli, ma forse hanno più responsabilità».
Da un punto di vista legale, il consiglio guidato da Barroso è guardiano dei trattati e ha un potere propositivo.Alcuni lo vogliono segretariato, altri esecutivo dei 27 membri re quello che detta Barroso in campo economico. Il portoghese alla guida della commissione ha posto in essere il mandato che gli è stato conferito dagli stati membri al momento della sua investiture nel 2004. È un grattacapo istituzionale legato a doppio filo all’approvazione del trattato di Lisbona. L’accordo di Nizza prevede infatti che a partire dalla prossima commissione, nel 2009, il numero dei commissari venga ridotto a quindici, facendo cadere automaticamente il principio “uno stato membro, un commissario”. Questa parte del documento nizzardo era infatti ambiziosa e federalista, ma quasi surreale. Tantoché la costituzione prima e Lisbona ora, danno al consiglio la possibilità di reintrodurre un commissario per Paese, concetto ripresentato nelle offerte fatte a Dublino per ottenere il “sí”ir-
Questo riguarda la parte più controversa del trattato di Lisbona, quella forse meno citata, perchè più tecnica, e riguardante il processo decisionale nel consiglio dell’Ue, gli equilibri di potere tra stati membri, dove, in base alla popolazione, i Paesi possono esprimere
più, o meno voti. Ebbene, Lisbona toglie ai piccoli per dare ai grandi, rispetto al sistema attuale. Ecco perchè si era pensato di compensare il sacrificio dei soci minori con la possibilità di avere un commissario, chissà, a spese di Francia o Germania; Italia o Regno Unito; Spagna o Polonia. Certo la tendenza sembra andare verso un’Europa della nazioni, questa è stata la trovata di Sarkozy per vendere Lisbona, senza un secondo referendum, ai recalcitranti francesi e al primo ministro britannico Gordon Brown. I tentativi del “French lover” di ghermire Londra saranno il tormentone della presidenza ceca, soprattutto perchè Parigi prepara un colpaccio sulla difesa comune. Senza il tandem franco-britannico, in campo militare non si fa nulla.
E la commissione europea è lo spauracchio di ogni sudditto britannico timorato di Dio (il libero mercato), rispettoso della regina (la sterlina) e che abbia a cuore le sorti dell’Impero (la relazione privilegiata con gli Usa). La commissione è la versione odierna di “Boney”l’uomo nero che rappresentava Napoleone Bonaparte. In questo schema il ruolo di Barroso è fondamentale. Il lusitano vuole un secondo mandato alla presidenza della commissione, perciò non vuole disturbare gli stati membri che sono i suoi potenziali grandi elettori. Assecondare Sarkozy, rassicurare Merkel e Berlusconi e non infastidire Gordon Brown sarà la sua agenda politica dei prossimi sette mesi, quando a fine giugno il consiglio nominerà il presidente della commissione europea 20092014. Intanto però Barroso può intascare il successo del pacchetto climatico. Che si creda al cambio climatico o no il presidente (uomo di destra) ha fatto sua questa battaglia (altrimenti considerata di sinistra) quasi due anni fa, ottenendo l’appoggio convinto di Angela Merkel.
mondo
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Rituali. In un villaggio, 50 vedove picchiate e rasate per scacciare i demoni ccusate di essere streghe, e per questo picchiate a sangue e rasate a zero. È la punizione che gli abitanti di un villaggio dello Stato centro-orientale del Chhattisgarh hanno inflitto a 50 donne della zona. Un macabro rituale che si ripete ogni anno nella aree più povere dell’India ai danni di vedove e giovani donne non sposate. In un raro impeto legalitario, la polizia indiana ha reso pubblica la vicenda e ha già aperto le indagini, che porteranno a un’inchiesta penale. Secondo quanto riferito dagli agenti, gli assalitori hanno preso la decisione di punire le donne su consiglio di uno swami (un santone indù) locale: grazie al pestaggio, il villaggio si sarebbe purificato dagli spiriti maligni. Ancora più atroci le modalità di esecuzione del “rito purificatore”: nove giorni di cerimonie, violenze e invocazioni agli dei del villaggio. Il primo ministro dello Stato indiano, Raman Singh, ha condannato l’accaduto definendolo «disumano, deplorevole e vergognoso».
A
In India riparte la caccia alle streghe di Vincenzo Faccioli Pintozzi
Nessun pronunciamento da parte della stampa locale, fortemente influenzata dal partito d’opposizione del Bharatiya Janata: questo, composto da nazionalisti indù, è legato a doppio filo con diverse organizzazioni para-militari di ispirazione razzista, che predicano e mettono in pratica con la violenza il ritorno ai “vecchi riti” della religione indù. Fra questi, appunto, la caccia alle streghe per la purificazione e il rogo delle vedove sulla pira del marito defunto. Quello del Chhattisgarh non è purtroppo un caso isolato: in tutta l’India, il fenomeno della persecuzione delle “streghe” – il più delle volte donne che si ritrovano senza la protezione della famiglia – è ancora molto diffuso. Nell’intero Paese ogni anno sono trucidate diverse decine di donne indifese, che prima del supplizio vengono costrette a camminare lungo le strade completamente nude, mentre la folla le
Giovani donne, appartenenti a una delle tribù rurali del Chhattisgarh, lo Stato indiano dove si è consumata la caccia alle streghe. Sotto, un’incisione che spiega come punire le fattucchiere prende a calci, pugni e sassate. Si pensa in questo modo di far scappare i demoni che le “streghe” invocano sulla terra per punire i villaggi. Nel solo Chhattisgarh annualmente sono sottoposte a torture e pestaggi collettivi in media un centinaio di malcapitate.
Tre anni fa, le autorità centrali dell’Unione indiana – guidata dal partito laico del Congress – sono state costrette a emanare una “Legge sulla stregoneria” che prevede pene detentive fino a cinque anni per chi attacca una donna con lo scopo di
“purificarla”. Oltre all’attività legislativa, il governo ha dato vita a una campagna stampa di sensibilizzazione contro la violenza ai danni delle donne. Questa non ha avuto particolare fortuna, dato che nel sistema a caste della società indiana la donna è proprietà esclusiva del maschio della sua famiglia: che sia marito, padre o fratello non importa. Come in tanti altri casi, anche la legge contro la stregoneria è stata totalmente ignorata in molti degli Stati più regrediti del Paese. Particolarmente pesante la situazione del Chhattisgarh, che alle credenze
chhattisgarhi si sono separati per dar vita all’attuale Stato, grazie all’attuazione del Madhya Pradesh Reorganization Act.
Ma, facendo così, si sono condannati a un’auto-gestione per la quale non erano pronti. E hanno aperto la strada al Bjp, che è entrato nella politica statale dopo un primo quadriennio dominato dal Congress promettendo ai tribali un miglioramento delle condizioni generali di vita a prezzo di un ritorno all’induismo nazionalista. Non è un caso, infatti, che la caccia alle streghe sia iniziata dopo le consultazioni statali, che hanno visto una vittoria schiacciante dei nazionalisti. Proprio ieri sono entrati in carica ben undici ministri targati Bjp, davanti a 15mila sostenitori entusiasti che hanno urlato slogan contro «i nemici dell’India che si annidano nelle false fila dei progressisti». Fra i nuovi titolari dei dicasteri ci sono cinque membri delle minoranze, a voluta dimostrazione di come «il Bjp pensa alla popolazione indiana, e non dice così che poi non mette in pratica». Peccato, però, che nel discorso di insediamento i cinque tribali ministri abbiano puntato il dito contro «le streghe della nostra società, che aprono la strada agli spiriti maligni e ai nemici dell’India». E che vanno scacciate con i pestaggi.
Ogni anno, centinaia di donne sole vengono accusate di stregoneria e pestate a sangue, spesso dai loro stessi vicini di casa. Nell’impotenza del governo, che emana leggi ignorate da tutti popolari e al sistema a caste aggiunge un tasso di scolarizzazione bassissimo che non aiuta la popolazione a comprendere la situazione dei diritti civili e tanto meno la parità.
Le donne, poi, non hanno “socialmente diritto” all’istruzione e vengono mantenute nella completa dipendenza della famiglia. L’area dell’attuale Stato paga inoltre lo scotto di essere il più giovane dell’Unione. Prima della sua indipendenza, infatti, ha fatto parte del Madhya Pradesh sin dall’istituzione nel 1950. Il Chhattisgarh propriamente detto è stato creato il primo novembre del 2000, quando 16 distretti sud-orientali del Madhya Pradesh di lingua
in breve Domani a processo il “lanciatore di scarpe” anti-Bush Inizierà domani mattina il processo al giornalista iracheno che il 14 dicembre a Bagdad ha lanciato le sue scarpe contro il presidente americano George W. Bush durante una conferenza stampa. Lo ha annunciato il giudice istruttore incaricato del caso. «L’inchiesta è terminata e il fascicolo è stato trasmesso alla corte criminale centrale dell’Iraq. Si in svolgerà presenza dei media», ha detto il giudice Dhiya alKenani, aggiungendo che «non abbiamo modificato i capi d’accusa contro (il giornalista) Montazer alZaidi», che sarà giudicato per il reato di «aggressione contro capo di stato straniero durante una visita ufficiale». Rischia dai cinque ai 15 anni di reclusione.
Russia: arresti a manifestazione contro le tasse Manifestazioni di protesta non autorizzate si sono svolte ieri in diverse città della Russia per contestare l’aumento delle tasse sulle auto di importazione. In particolare a Vladivostok, nell’estremo oriente siberiano sull’oceano Pacifico, circa 500 persone sono scese in strada e sono state affrontate dalla polizia, alcuni reparti inviati direttamente da Mosca con un volo di 9.300 km dopo le proteste dello scorso fine settimana. Decine i manifestanti arrestati, mentre ai giornalisti è stato impedito di effettuare riprese. Arresti sono stati compiuti anche a Yuzhno-Sakhalinsk, mentre a Mosca e San Pietroburgo, riferisce l’Itar-Tass, non sono stati registrati incidenti.
Israele all’Onu: reagiremo ai razzi sparati da Gaza Israele ha notificato al segretario generale dell’Onu, Ban Ki-Moon, che risponderà al lancio di razzi dalla Striscia di Gaza dopo che è scaduto il cessate il fuoco con Hamas. La decisione è stata comunicata dall’ambasciatore al Palazzo di vetro, Gabriela Shalev, in una lettera a Ban. «Israele non esiterà a reagire militarmente, se necessario», ai razzi sparati dai miliziani dalla Striscia di Gaza.
cultura
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Investimenti. Quelli pubblici rappresentano soltanto lo 0,7% del Pil Ma anche i privati nel 2007 hanno raggiunto appena quota 0,53%
La “ricerca”dei fondi perduti Su innovazione e sviluppo l’Italia è ancora lontana dalla media delle imprese degli altri Paesi Ocse di Francesca Lippi on saranno certo i 31 miliardi di euro raccolti da Telethon a sbloccare la situazione di stallo nella quale vive la ricerca italiana. Lo Stato, si sa, investe certamente poco, ma di certo fa più di quanto facciano i privati. I dati a disposizione – non soltanto perché tengono fuori le fondazioni, perché enti pubblici di diritto privato – bocciano senz’appello il mondo delle imprese. Danno forma all’appello del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che a inizio mese ha ricordato quanto fosse critica la condizione della ricerca italiana e lo scarsissimo apporto che l’innovazione consegue sul prodotto interno lordo. Gli investimenti pubblici infatti rappresentano soltanto lo 0,7% del Pil, ovvero di poco sotto la media europea che non va oltre uno smilzo 0,8. Ma i numeri diventano ancora più preoccupanti – e acuiscono la distanza dall’Europa – se si guarda ai fondi destinati dalle nostre imprese alla “Ricerca & Sviluppo”: il Belpaese ha chiuso il 2007 con un imbarazzante 0,53% del Pil, contro una media comunitaria del 1,2, di per sé già poco soddisfacente.
N
Cina (94 miliardi). Fuori dal podio ma prime in Europa la Germania (59,2 miliardi), la Francia (38,9) e il Regno Unito (32,2), che precedono la Corea (28,3) e il Canada (20,8). Le risorse finanziarie impegnate nelle attività di R&S collocano, insomma, l’Italia nella fascia mediobassa dei Paesi industrializzati, molto lontano da quanto proposto a Lisbona come obiettivo della politica comunitaria tesa a fare dell’Unione la prima economia al mondo basata sulla conoscenza.
Sono altamente indicativi, poi, i dati che riguardano i brevetti: in questo campo il nostro Paese, storicamente riconosciuto come “un popolo d’inventori”, non occupa le prime posizioni: l’Italia copre solo l’1,56% del totale, decisamente dietro agli Stati Uniti con il loro 37,56, il Giappone (25,85), la Germania (13,82) e la Francia (4,54). Guardando poi a settori a maggiore valore aggiunto, nei mercati asiatici sono in rapido aumento i brevetti in alcuni settori come la farmaceutica e le biotecnologie, l’aerospaziale, l’elet-
ni concrete». Anche perché «il ruolo della ricerca è centrale quale motore dell’innovazione delle imprese e dunque dello sviluppo economico e sociale del Paese». Tanto da concludere che «l’innovazione è un elemento essenziale dello sviluppo delle imprese italiane, che non possono più competere nel mercato globale solo cercando di ridurre i costi». Proprio dal versante maggiormente più chiamato in causa, quelle delle imprese, Emma Marcegaglia ha sottolineato come la collaborazione tra ricerca pubblica e industria, sia «essenziale per lo sviluppo del Paese. Nel momento economico difficile in cui ci troviamo è ancora più importante investire in R&S e creare un ambiente favorevole ad investimenti privati. Bisogna agire con determinazione per individuare e valorizzare le competenze, pubbli-
Le risorse finanziarie impegnate nelle attività di R&S, circa 15 miliardi di euro, collocano il Belpaese nella fascia medio-bassa dei Paesi industrializzati
Il dato indica quindi che l’investimento è circa la metà dello sforzo complessivo nel comparto: chi pensa che questa è una tendenza incoraggiante, è decisamente fuori strada, visto che anche su questo fronte l’Italia si posiziona a distanza dalla media delle imprese degli altri Paesi Ocse, o di Cina e Israele. In più, l’investimento in R&S delle imprese mostra un sostanziale sbilanciamento in quanto è concentrato per più della metà (per il 54,9%) nel Nord-Ovest. La situazione quindi è ancora più grave rispetto ad altri Stati con cui il nostro Paese dovrebbe confrontarsi alla pari. Infatti, se si guardano i risultati di Israele con il 3,25% del Pil impegnato, la Svezia e la Finlandia con circa il 3 e la Germania con l’1,75, ci rendiamo subito conto dell’abisso fra il Belpaese e il resto dei Paesi sviluppati. In classifica, infatti, l’Italia è ferma al nono posto con un monte risorse pari a soltanto 15 miliardi di euro. Al primo posto della graduatoria, compaiono gli Usa con 312,5 miliardi di dollari stanziati per la ricerca (a parità di potere di acquisto). Seguono il Giappone (118 miliardi) e la
tronica e la nanotecnologie: la Cina dovrebbe addirittura scavalcare l’Europa, mentre l’India annuncia che raddoppierà il Pil da destinare in R&S al 2%.
In proporzione sono peggiori i numeri dei manufatti ad alta tecnologia esportati: l’Italia, che dovrebbe basare buona parte della sua economia proprio sull’industria manifatturiera, esporta solo l’8,6% sul totale dei Paesi Ocse, anni luce dietro a Irlanda (51,6), Ungheria (30,0), Stati Uniti (28,5) e Giappone (26,5). «L’insufficienza dei fondi non riguarda solo lo Stato, ma soprattutto l’impresa privata. È dunque necessario incentivare gli investimenti mediante la defiscalizzazione», ha notato il presidente del Cnr, Luciano Maiani, che da poco ha concordato con Confindustria un percorso per favorire la collaborazione reciproca su progetti specifici. Per affrontare al meglio questa fase, Maiani ha annunciato di voler «rendere il Cnr sempre più focalizzato ed efficiente, più attento al risultato delle ricerche e alle loro applicazio-
che e private, e metterle a sistema vincendo meccanismi burocratici che spesso agiscono da freno». Dello stesso avviso è Luigi Marino, presidente di Confcooperative. «Vanno individuate», ha spiegato, «nuove risorse per sostenere l’investimento degli investimenti che è quello della ricerca». Secondo Marino va rilanciata con forza la proposta di Confcooperative di «estendere la specificità fiscale delle cooperative a tutte le altre imprese: cioè tassare parzialmente gli utili da reinvestire in ricerca, in sviluppo, in innovazione». Quindi alla base dello sviluppo deve esserci una netta detassazione degli utili per la ricerca.
cultura
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Il successo dei progetti che legano la ricerca alle imprese
Una carta vincente? Le aziende spin-off di Manuela Arata l primo progetto italiano “La ricerca crea impresa” nasce nel 1998, nell’ambito dell’Infm, accorpato nel 2003 al Consiglio Nazionale delle Ricerche. Da allora la rete del Cnr ha prodotto oltre 40 società spin-off, alcune a partecipazione diretta dell’Ente, altre che utilizzano tecnologie Cnr coperte da brevetto, in settori come nanotecnologie, biomedicale, biotecnologie, ambiente, Ict, farmaceutico, microelettronica e telecomunicazioni.Tra le prime imprese costituite presso l’Ente la Li-tech di Roma, che opera nei settori della diagnostica oncologica e della chirurgia radio-guidata, producendo dispositivi scintigrafici a batteria per la localizzazione di tumori di piccole dimensioni e in grado di effettuare l’acquisizione di una immagine scintigrafica in soli 30 secondi. La Columbus Superconductors di Genova, in partnership con Asg, produce cavi superconduttori di ultimissima generazione realizzati in diboruro di magnesio, sfruttando un brevetto Cnr con applicazioni tecnologiche nell’imaging biomedico e nel trasporto dell’energia. Sempre tra i primi spin off dell’Ente, l’azienda Organ Spintronics di Bologna, che opera nel campo dell’elettronica e dell’optoelettronica, impiegando materiali semiconduttori organici nella spintronica. Le aziende spin-off sono utili per lo sviluppo tecnologico del territorio a vari livelli: qualificandolo mediante l’aggiunta di servizi e prodotti in settori ad alta tecnologia; evidenziandolo a livello internazionale; innovando il tessuto imprenditoriale ed investendo in attività di ricerca e sviluppo. Per un Ente di ricerca, poi, la creazione d’impresa ha molteplici vantaggi, perché garantisce visibilità, ritorni economici diretti e perché queste imprese diventano i brokers della nuova conoscenza sviluppata dal soggetto da cui sono scaturite, ampliandone le possibilità di partnership anche nell’ambito dei progetti europei.
I
Attualmente fra le facilitazioni per le industrie c’è il credito di imposta del 10% degli investimenti per le ricerche effettuate direttamente dalle imprese, che viene aumentato fino al 40 in caso di conduzione assieme a università o enti pubblici. L’unico limite è per aziende che operano per commessa: queste non hanno la possibilità di poter usufruire del credito d’imposta, nonostante questo possa contribuire a espandere l’attività di ricerca in Italia. Al riguardo Roberto Gradnik, vicepresidente per l’Europa di Serono, precisa che «da tempo chiediamo che, come è stato fatto in altri Paesi europei a partire dalla Francia, venga individuata una precisa tipologia di aziende da sviluppare e sostenere, attraverso incentivi finanziari e agevolazioni fiscali». Ma non basta. «Non si deve aver paura di concepire una visione alta delle proprie potenzialità», chiarisce con forza Marco Cantamessa, presidente di I3P (Incubatore imprese Innovative), il più grande centro italiano nato al Politecnico di Torino per la creazione di nuovi business in ambito universitario. «Un problema di molti è che ci si accontenta. Invece si deve osare: maturare un’esperienza imprenditoriale è importante, anche se non si riescono a raggiungere gli obiettivi iniziali». Infatti Cartamessa conclude consigliando di «darsi da fare, perché l’imprenditore non può essere un part time». L’I3P ha oramai dieci anni ed è un vero «incubatore universitario che serve come sbocco per ricercatori e studenti del Politecnico di Torino», e anche una sede per chi vuole inizia-
re nell’ambito dell’hi-tech rimanendo collegati all’ateneo. «Aiutiamo nella costituzione dell’impresa», dice il presidente, aggiungendo che i settori di maggiore interesse vanno dall’aerospaziale all’automazione, passando per la scienza dei materiali e le telecomunicazioni. Le imprese nate grazie a I3P recepiscono intorno al milione di euro annui e in più possono accedere agevolmente al credito bancario per via delle convenzioni stipulate fra l’ateneo e gli istituti e per il tasso agevolato di 100mila euro. Un altro possibile connubio fra industria e innovazione scientifica, è nei cosiddetti “spin-off”, cioè imprese che derivano da enti di ricerca e Università, per esempio la PharmaEste in campo farmaceutico o la Ngb Genetics, società che si occupa dello sviluppo di servizi innovativi basati sull’analisi del Dna, entrambe nate dall’università di Ferrara. Oppure è utile l’esperienza della Isomorph s.r.l. nel campo della robotica, nata nell’ambito dall’università di Udine.
Al riguardo Alberto Onetti, direttore del Cresit (Research centre for innovation ad life science management) dell’Università dell’Insumbris spiega: «Un limite dei nostri spinoff è che partono ponendosi traguardi estremamente modesti. Il che si traduce in imprese sottocapitalizzate». Il che genera «la cronica incapacità della ricerca di reperire competenze manageriali, indispensabili allo sviluppo imprenditoriale». Cioè, non si agisce come una vera e propria azienda.
Per questo il “nuovo” Cnr punta molto sulla formazione dei ricercatori, i quali debbono essere messi nelle condizione di individuare le opportunità e di sfruttarle, contando sul supporto di professionisti attraverso la società di servizi Rete Ventures oggi in fase di rilancio. Attraverso Rete il Cnr sta potenziando Quantica, la prima Società di Gestione Risparmi a capitale ridotto, costituita con l’obiettivo di finanziare “da vicino” le nuove imprese. Il venture capital tradizionale, infatti, di solito non è interessato ad affari inferiori ai cinque milioni di euro e quando fa un investimento pretende, giustamente, di governarlo. Attraverso Quantica il Cnr è invece in grado di garantire investimenti anche inferiori e di offrire ai ricercatori una capacità di governo sensibile e non prevaricante, che riesca appunto a rispettare l’intelligenza e la “delicatezza” della nuova impresa. Ci deve essere però da parte dei ricercatori una forte convinzione e la capacità di lanciare il cuore oltre l’ostacolo, cosa inevitabilmente difficile quando si utilizzano investimenti pubblici dei quali si assume la tutela. Uno dei rischi maggiori in un ente pubblico è quello che il processo di avvio venga soffocato dalla burocrazia: è quindi necessario passare dai controlli formali a un monitoraggio serio, gestendo sostanzialmente il problema del conflitto d’interessi, ma lasciando poi la briglia sciolta alle nuove imprese che debbono produrre reddito e posti di lavoro. Non è opportuno limitare il tempo che i ricercatori dedicano all’avvio dell’impresa, perché non è credibile che un’impresa di successo possa essere realizzata in part time, né si deve pensare che un segno negativo nei bilanci significhi necessariamente una perdita. Al Cnr abbiamo appena cominciato ma stiamo puntando decisamente in una nuova direzione, stiamo riscrivendo le regole per renderle semplici, flessibili e adattabili, facendo provvista di risorse finanziarie per aiutare i nostri spin-off a crescere e soprattutto creando una mentalità diversa, basata su un clima di fiducia, di incoraggiamento e di condivisione della strategia e degli obiettivi. Dopodiché è importante ricordare che queste nuove imprese si chiamano non a caso “spin-off”, quindi bene usare il volano dei fondi pubblici per la fase di start-up, bene ospitarle e proteggerle in fase di avvio (che in alcuni settori come le biotecnologie può essere anche lunga, tanto che in Germania l’incubazione dura anche fino ad otto anni), ma poi si debbono staccare e camminare con le loro gambe.
Il Cnr sta potenziando la prima Società di Gestione Risparmi a capitale ridotto, con l’obiettivo di finanziare “da vicino” le nuove industrie
Perché questo avvenga, però, è essenziale che l’Ente svolga bene il suo ruolo di “incubatore” attraverso il tutoraggio tecnico-scientifico, la messa a disposizione di attrezzature e competenze, l’aiuto a reperire capitali e ad acquisire visibilità e credibilità sul mercato. Ma questo non basta. Per creare una buona impresa sono determinanti svariati fattori: una buona idea; un business plan credibile, che è il vero biglietto da visita della nuova impresa; la conoscenza del mercato; il management convinto ed altamente formato; una “proprietà”, ovvero un brevetto forte e difendibile, nonché un know-how speciale; ed, essenzialmente, il capitale d’investimento.
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ha dichiarato subito a Los Angeles approdando alla locale squadra di soccer dei Galaxy, correva l’anno 2007, che non gli interessava diventare un attore, «sono troppo rigido» diceva di sé. E ti credo, da quando è che non giocava per intero una sana partita di calcio? Un bel po’, detto così a occhio. Ma lui, David Robert Joseph Beckham, in arte Spice Boy o anche Becks, qualche ruolo a Hollywood potrebbe certamente averlo. Il più adatto potrebbe essere in un remake del capolavoro anni Trenta L’uomo invisibile, nella versione calcistica del giocatore che non c’è. Potrebbe anche essergli sufficiente adottare il metodo già visto per Sognando Beckham, film molto apprezzabile peraltro, nel quale lui, per l’appunto, non c’è, ci sono solo le sue immagini di repertorio e due controfigure, carneadi del grande schermo, Andy Harmer e Gill Penny che hanno interpretato il fantastico duo Beckham-Victoria, sì quella delle Spice Girl che lo marca con la spietatezza di uno stopper d’altri tempi.
L’
«Non sa tirare di sinistro, non sa colpire di testa, non sa contrastare e non segna molti gol. A parte questo, per il resto è ok», parola di George Best sul
23 dicembre 2008 • pagina 21
Gli antieroi della domenica. Fotografia del neo-milanista David Beckham
The Spice “Becks” Boy Il calciatore inesistente di Francesco Napoli nostro Becks, ma la sua poteva essere invidia, diciamolo. Ora Beckham è approdato, dopo molto peregrinare, alla corte del Milan delle stelle, un po’
lui? Cattiveria pura e semplice, quasi gratuita, almeno stando alle dichiarazioni di prammatica che da Galliani a Ancelotti, da Pirlo a Ronaldinho, dal ma-
Sempre all’ombra della moglie Victoria, il giocatore «non sa tirare di sinistro, non sa colpire di testa, non sa contrastare e non segna molti gol. Per il resto, è ok», parola di George Best sbiadite in verità, eppure pimpante a stare all’ultima partita disputata con un sonante 5-1 rifilato all’ormai moribonda Udinese. Ma fa che i giocatori in campo hanno voluto dimostrare che se la possono cavare benissimo anche senza di
Sopra, il giocatore David Beckham con la moglie, l’ex Spice Girl Victoria. Sotto, il calciatore insieme al vicepresidente del Milan Galliani. Beckham giocherà con la maglia rossonera fino al prossimo marzo 2009
gazziniere a Gattuso hanno rilasciato in queste ultime ore. Un pensiero a “Ringhio” Gattuso: come era bello vederlo lì, a bordo campo, quasi lanciare moderno Toti (non Totti, attenzione. ma Enrico, anche lui romano ma 1882-1915) le sue stampelle oltre l’ostacolo del partèrre. Le inquadrature televisive sono state impietose, a dire il vero: mentre David Robert Joseph Beckham se ne stava seduto in poltronissima regale, al caldo della tribuna, con una mise non proprio da stadio, avvolto nel suo abito corsetto
in mikado di seta con cardigan di cachemire doppiato in tulle, mantello e l’inseparabile borsa di coccodrillo, Gattuso si dimenava nel freddo poco da basso ad altezza prato. Ai tifosi sulle gradinate Beckham ha riservato solo un «Ciao Milano, Forza Milan» in discreto italiano. Ecco che mi è tornata in mente un’altra immagine hollywoodiana, scene tratte da Il principe e il povero che con Natale ci sta sempre bene, anche se nessuno dei due, Gattuso e Beckham per intenderci, è tanto povero da passarsela male. Così bene ha fatto in mattinata Ringhio, intervistato sulle reti del suo Presidente, a mandare senza retorica un sincero e acca-
lorato saluto e augurio a coloro che stanno davvero nei guai. «Mi dicono che sto male, ma io me la cavo e poi torno a giocare – ha detto – non c’è di che preoccuparsi. Sono altri che non stanno proprio bene». Mi associo e mi sovvengono le uniche parole pronunciate con senso da Aldo Agroppi quando, a proposito di stress, affermava che attribuire a chiunque del circuito pallonaro problemi di questo tipo era una «str...» e che allora cosa dovevano dire i lavoratori delle fonderie di Piombino...
Si consolino ora gli stressati cuori rossoneri: a partire dalla ripresa post natalizia il centrocampo del Milan, certo già non ricco di fulmini di guerra, si potrà avvalere delle gesta pedatorie di David Robert Joseph Beckham. «È stato bello vedere i bambini che mi hanno consegnato la maglia, sentire l’affetto del pubblico, ma stasera mi sarebbe piaciuto soprattutto giocare». Così apparentemente emozionato durante la passarella pre-partita, succoso prologo al match Milan-Udinese a San Siro. A queste parole si è visto un Milan come mai in palla e, soprattutto, come mai così veloce. Una dimostrazione? Cattiveria pura e semplice, l’ho già detto. Fatto sta che bisogna pure capirlo questo ragazzo di Londra. Plurivincitore con il suo Manchester di campionati, coppe e Champions League; già meno vincente nella Liga con il Real Madrid, ci voleva Fabio Capello per portarlo alla vittoria; in fuorigioco palese da quando ha scelto gli Usa come sede delle sue attività di marketing e merchandising, a questo in realtà sembra essersi ridotto il marchio Beckham, ora cerca di far qualcosa nel Milan, la squadra dalla media anagrafica più alta forse nel mondo, e lui l’abbassa perfino. Ha un numero di presenze sui tabloid di tutto il globo probabilmente superiore a quello delle partite disputate fin qui e, soprattutto, continua a portarsi due nomignoli davvero ingrati, ragazzo delle Spice e il marchio di una birra. Lasciamolo stare, farà gli acquisti di Natale in Montenapoelone e poi, chissà, si ritirerà in qualche pub londinese a bere boccali su boccali, naturalmente non di quella che si porta dietro nel soprannome da anni. E canterà le sue gesta di una volta... in duo con Victoria, I suppose.
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale
dal ”New York Times” del 22/12/2008
Islam, donne con la testa per aria di Katherine Zoepf ulla “terra”per le donne islamiche i tempi si sono fatti difficili, il radicalismo e il tradizionalismo musulmano stanno tentando di rinchiudere la figura femminile nei vecchi recinti. Non rimane, per le giovani emancipate del mondo arabo, che gli spazi infiniti del cielo. Sì, proprio così, non è rimasta che la troposfera, perché vengano assicurati degli spazi di libertà per le donne. Sono le hostess di molte compagnie aree arabe, che dopo aver trovato una ragione di vita, indipendenza e autonomia, ora giudicano le società da cui provengono: Egitto, Arabia Saudita e altri Paesi del Golfo, dove risulta sempre più difficile, non solo conquistare nuovi “spazi”, ma anche semplicemente difendere le vecchie conquiste.
S
Con le loro divise grigie attillate e l’ala cucita sul petto, pensavano di essere le avanguardie di un mondo femminile in costante emancipazione, e in parte è così. Una di loro, Marwa Abdel Aziz Fathi, ha 22 anni, si è diplomata all’Etihad training Academy, dove le compagnie di linea degli Emirati arabi uniti addestrano il proprio personale di bordo. Stava studiando all’università quando lesse un annuncio, dove si cercava personale di cabina per compagnie con base nel Golfo. Un lavoro fantastico, visto che Fathi mai avrebbe pensato di andare a lavorare all’estero. «La mia famiglia ha pensato fossi pazza». Solo dieci anni fa trovare una giovane ragazza nubile che s’impegnasse fuori dal Paese d’origine era piuttosto raro». Dopo i primi flussi migratori formati da ragazzi, anche neolaureati, che andavano a cercare fortuna dei Paesi del Golfo, è arrivata anche l’altra metà del cielo. Gli assistenti di volo sono diventati così la faccia
pubblica di una nuova mobilità sociale all’interno del mondo arabo. Né più né meno di quanto successe in America e in Europa negli anni Cinquanta e Sessanta. Sono diventati, alla stessa maniera, oggetto di ansietà sociale e nuovo veicolo di emancipazione. Nonostante tutto però nel braccio femminile della foresteria, dove dormono le attendenti, ci sono tre guardie armate e un registro per gli ingressi e le uscite.
La divisa è completata da un leggero velo che dovrebbe ricordare lo hjiab, il velo che non nasconde il viso, portato dalle donne islamiche. Gli eventuali capelli biondi vengono accuratamente nascosti e mascherati. Le destinazioni più ambite, naturalmente sono posti come Sydney o Toronto, dove gli alberghi sono ottimi e la diaria giornaliera del personale più che generosa. Destinazioni come Khartoum, invece, sono a dir poco odiate. Più di quattro ore di volo, seguite da un rapido rifornimento, per poi ripartire subito col nuovo carico di passeggeri e finire la giornata nel dormitorio sorvegliato. La vita è quella di tutto il personale di volo, grandi apparenze, begli alberghi, ma pasti frugali a base di toast, pita, del salatissimo formaggio bulgaro, biscotti libanesi e altra roba che riempia lo stomaco, senza rovinare troppo la linea e incidere sul portafoglio. Le soap preferite, manco a dirlo, sono Sex and the city e Desperate Housewifes, una sorta di Bibbia per le nuove emancipate, forse anche un po’ sciovinista. Al femminile questa volta. Nonostante l’emigrazione degli ultimi 20 anni, Abu Dhabi rimane un posto con poca presenza femminile: ci sono 2,7 uomini per ogni donna. Comunque, secondo
il parere di molte ragazze che lavorano da qualche anno come hostess, la tipologia femminile le distingue in due categorie. La prima assomiglia a quella di una «suora volante». Dove la tradizione musulmana viene coltivata come una difesa rispetto alle tentazioni di una nuova vita. Anche se il tipo di impegni non facilita, ad esempio, la preghiera 5 volte al giorno durante il periodo del Ramadan.
La seconda, considera il lavoro solo per la libertà che può regalare – non sono molto interessate a volare - e di conseguenza i costumi personali risultano con ridotti freni inibitori. Certamente tutto questo, agli occhi delle famiglie, le rende poco adatte a un matrimonio. Forse sarebbe meglio dire poco attraenti per il maschio musulmano standard. Ma sembra che la figura della donna single incominci a prendere piede tanto da interessare studi sociologici, come quello dell’Università di Amman. I problemi cominciano quando queste “nuove donne” tornano a casa. Trovano una realtà non più digeribile.
L’IMMAGINE
Il presidenzialismo pensato e fatto su misura per Silvio Berlusconi Credo proprio che abbia ragione Pier Ferdinando Casini quando dice che Silvio Berlusconi vuole sbarazzarsi definitivamente dei partiti e privilegiare esclusivamente il rapporto tra il re e il suo popolo. La riforma presidenzialista proposta dal presidente del Consiglio nella conferenza stampa di fine anno è pensata e studiata su misura per lo stesso presidente del Consiglio. Coincide tutto: i modi, i tempi, i partiti, gli uomini. Lo scenario che il Cavaliere immagina è fin troppo scontato: finisce il governo, finisce la legislatura, finisce il mandato di Napolitano e Berlusconi è pronto per traslocare da Palazzo Chigi al Quirinale. Che sconforto. Le riforme fatte ad uso e consumo di se stesso. Non c’è nessun’altra spiegazione: né politica né istituzionale. Il presidenzialismo all’italiana è il presidenzialismo per il presidente. Probabilmente, benché si parli di prima, seconda e terza, non siamo mai usciti dalla prima Repubblica, con la differenza che la partitocrazia è diventata silviocrazia.
Dario Cirillo
I DATI SCIENTIFICI SMENTISCONO LA GELMINI Insegnare a leggere, scrivere e far di conto. Questo, e tanto altro, si chiedeva alla nostra scuola primaria. E, smentendo i diffamatori politici ed i loro zerbini mediatici, le elementari hanno risposto alla grande. Ecco gli ultimi dati. Nel rapporto Timss 2007 (Trend in international Mathematics and Science study), che misura le competenze in matematica e scienze degli alunni al quarto e all’ottavo anno di scolarità di 59 paesi distribuiti nei 5 continenti, la scuola elementare italiana consolida il suo primato internazionale. E non è tutto. Risultati identici arrivano dal Pirls 2006 del centro studi di Boston, che indaga sulla comprensione della lettura dei bambini al quarto anno di
scolarità. Performance ancor più lusinghiere se si considera che i nostri alunni hanno un’età media inferiore, di circa un anno, rispetto ai compagni degli altri paesi. Questo è quanto ha realizzato, dal 1990, il tanto deprecato modulo di tre insegnanti su due classi. Pluralità di metodo, conoscenze, competenze ed esperienze per una scuola di qualità.
Gianfranco Pignatelli
TRENO O AUTO? In occasione dell’avvio dell’Alta velocità, l’amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato ha dichiarato: «Non capisco perché in Italia l’unica cosa che deve costare poco sono i treni». Un biglietto per Venezia-Roma per 4 persone, in seconda classe costa 236 euro: per compiere lo stesso
Sento puzza di mine Peso “piuma” e olfatto prodigioso. Sono questi i superpoteri di alcuni topolini assoldati nell’esercito colombiano. La loro qualifica? Metal detector viventi. Incaricati di scovare col loro fiuto le circa 100mila mine ancora inesplose. Sembra che i coraggiosi roditori riescano a stanare il 96% degli ordigni e in totale sicurezza. Sono infatti molto leggeri e riescono a calpestare il terreno minato senza innescare esplosioni
percorso di circa 500 km in automobile, si spende meno della metà, 60 euro per il carburante e 30 di pedaggio autostradale. Credo che queste cifre parlino chiaro. E un sempre più massiccio ricorso ai mezzi privati è inevitabile se agli svantaggi che il mezzo pubblico comporta in termini di vincoli di orario, libertà di spo-
stamento nella località di destinazione, scarsa puntualità, poca pulizia, scioperi eccetera si associa anche la non convenienza economica.
Mauro Lunogli
PURO PROTAGONISMO Sembrerà ripetitivo, ma come cittadino napoletano rifletto a lun-
go sul perché il sindaco e il governatore della Regione non vogliano dimettersi. Qualsiasi risposta mi venga in mente non a niente a che fare con il bene dei cittadini. È solo puro e semplice protagonismo quello che anima queste persone, prive del minimo senso del dovere.
Bruno Russo
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog LETTERA DALLA STORIA
In una lotta senza gioia, sei la mia sola dolcezza Stanotte m’è giunta la tua seconda lettera. È dolce; ma non mi dice nulla di quello che fai a Roma, di quello che ti proponi, e nulla del ritorno. E sono passati dieci giorni: un tempo infinito per la mia tristezza. Mi dici che mi ami e che non concepisci più la vita senza di me. Ma come puoi, amandomi, infliggermi questo patimento? Come puoi, sapendo l’orrore della mia fatica quotidiana, lasciarmi solo e disperato? Tu sai che sei la mia sola dolcezza, in una lotta senza gioia, e giudichi un concerto, o una convenienza qualunque, più importante della mia anima. Ho sempre sperato che - in mezzo all’ardore divorante - si aprisse in te quella «divina pietà» che sola può medicare i miei mali. Stasera non ho voglia se non di perdere l’anima, tanto mi duole. Come, amandomi e sentendoti bruciare dai ricordi, puoi ancora tollerare l’assenza? Se io fossi libero, treverserei a nuoto il mare per venirti a cercare. Non ho pace, piccola. Non ho respiro. Il cielo è tutto rosato. È così primaverile che mi meraviglio di non udire lo stridio delle rondini. Dove sei? Che fai? Mi dimentichi, leggera tra la gente leggera. Chi sa come Roma è bella! E chi sa come tu sei bella! A quest’ora giungevi. Tutta la mia pena della giornata arida si scioglieva nei primi baci. Gabriele d’Annunzio a Luisa Baccara
ACCADDE OGGI
IN PENSIONE A 65 ANNI, UNA DECISIONE LOGICA È un’ottima decisione quella di mandare le donne in pensione almeno a 65 anni. Il motivo di tale scelta non è ideologico, ma strettamente finanziario. Non bisogna prendersela con Renato Brunetta. La realtà sociale che cambia non è generata solo dall’operare dei ministri. Se la società si modifica, i politici, se lungimiranti, intervengono con coraggio, anche se in modo antipopolare. La vita, grazie al progresso, è sempre più lunga e secondo le statistiche le donne vivono mediamente di più. Il motivo quindi non è neppure solo finanziario ma quasi naturale: si intende adottare una decisione che segue semplicemente la nostra evoluzione.
Angelo D’Angelo
IL POTERE “IN NOME DEL POPOLO” Ho attraversato 40 anni di politica, da elettore a modesto operatore al suo interno, senza mai una retribuzione, solo per passione. Da quando iniziai a oggi, mi sono sempre domandato: ci sarà un giorno in cui potrò votare questo o quel partito solo in base al programma, senza esere accusato di tradimento, ideologico, sociale o di classe? Mai mi è stato possibile: è anche qui il punto della crisi politica italiana.Votare Dc per evitare il Pci o votare Pdl per non avere l’ex Pci, è democrazia compiuta? La colpa, se colpa si può ravvisare, è della Dc di ieri, del Pdl di oggi o piuttosto del Pci, che ha cambiato cento sigle, portandosi sempre dietro e dentro un comunismo dalle mille facce e una sola identità: il potere
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
23 dicembre 1978 Disastro aereo a Punta Raisi. Un DC9 si schianta in mare: 108 morti 1979 Unità militari dell’Unione Sovietica occupano Kabul, la capitale dell’Afghanistan 1979 I dati della curva di luce di Metis rilevano la presenza di una luna attorno all’asteroide 9 Metis 1982 La Environmental Protection Agency raccomanda l’evacuazione di Times Beach (Missouri) a causa dei livelli pericolosi della contaminazione da diossina 1984 San Benedetto Val di Sambro: il rapido 904 Napoli - Milano, un treno carico di passeggeri, viene devastato dall’esplosione di una bomba. Al termine dei soccorsi si conteranno 15 morti e più di 100 feriti. L’attentato segna l’ingresso della mafia nel teatro dello stragismo di Stato 1987 Il Cnr registra il primo dominio internet italiano: cnr.it 1990 La Slovenia vota per secedere dalla Repubblica federale socialista di Jugoslavia
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Francesco Rositano, Enrico Singer, Susanna Turco Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio,
in nome del popolo, ma in mano a una casta, che sopravvive al tempo.
Leopoldo Guerrieri
UN CAVALIERATO NUOVO Incidenti per il pane quotidiano sono nella dura storia dell’uomo, ma non possono essere il caffè mattutino. Un fatto eclatante mi coinvolge emotivamente, ma mi colpisce meno, forse per mia devianza, dello stillicidio di tutti i giorni: tv, radio, giornali e autorità varie per una settimana si rotolano nel caso e nel frattempo “normalmente”, sparsi ovunque, ne muoiono altri dieci. “Farci l’osso”, atavica difesa mentale, non può divenire un “me ne frego della vita”. Come esperto di parte confindustriale, collaborai con un sindacalista alla stesura di un manuale per la sicurezza del mio comparto; ne uscirono delle norme di realistica attuazione, ma, con sconforto, ci dicevamo che difficilmente sarebbero state applicate, da una parte per i maggiori costi, e dall’altra per i controlli. Mi capita spesso di vedere nei cantieri, vivendo in una zona terremotata, l’assenza di regole anche banali e poco costose: il casco, la cintura di sicurezza, i guanti, le reti di protezione eccetera, il tutto sotto gli occhi delle varie autorità preposte ai controlli. Poi uno “scortadotato”, con voce impostata al tragico o al tribunizio, commemora, messa solenne, corone, marcia funebre e via così avanti un altro! Con la crisi, il lavoro nero inevitabilmente tornerà alla grande e con lui la mancanza di prevenzione.
Dino Mazzoleni
Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
dai circoli liberal
IL CENTRO ASSOPITO Il Paese è alla deriva. Da una parte la recessione, fallimenti a catena di piccole e medie imprese (a Pordenone uno ogni due giorni), le banche riducono il credito e si prevede un aumento della disoccupazione. Disoccupazione comunque sottostimata, perché i dati ufficiali includono sì dipendenti e precari che perdono il posto di lavoro, ma trascurano la miriade di piccole partite iva, artigiani, subfornitori, eccetera che non avranno più ordini nell’indotto. Quando si parla di precari si trascura che la condizione è tale anche per milioni di piccoli imprenditori, che in questi anni, per spirito di iniziativa, si sono arrangiati nell’inventarsi un’occupazione. Nessuno evidenzia il fatto che la politica fiscale di Tremonti è inqualificabile rispetto al programma elettorale. Sarà per necessità di cassa, visto il calo dei consumi e quindi dell’Iva, ma è del tutto evidente che nulla si è modificato nella sostanza rispetto al governo Prodi. Non è stato per esempio eliminata la norma che rende in gran parte indeducibili gli interessi che le piccole e medie imprese, di norma sottocapitalizzate, pagheranno alle banche. Il danno e la beffa. Da una parte subiscono la sproporzione in termini di forza contrattuale del credito bancario e dall’altra il fisco richiede di pagare le tasse anche sugli interessi pagati. L’interesse viene quindi colpito due volte dato che anche la banca paga le imposte sugli utili. E soprattutto il sistema degli studi di settore diventa pura violenza fiscale in un momento di congiuntura negativa generale se applicati in forma poco elastica perché bisogna far cassa. Delle conseguenze sociali per la distruzione di queste centinaia di migliaia di microattività prima o poi si discuterà in qualche salotto televisivo, ma con difficoltà visto che non è un elettorato normalmente di sinistra e la destra in realtà se ne vergogna. Ma ci saranno effetti politici. È gente che non è abituata ad andare in piazza, ma se lo fa le cose si complicano. Certo manca chi li rappresenti. E forse la Lega Nord non è detto che, essendo al governo, basti. È gente di centro, che in gran parte votava Dc ed è stata il vero argine anticomunista. Sono persone che non chiedono nulla se non di essere lasciati stare nel cercare il loro modo di essere felici rischiando di persona. Il che vuol dire anche lavorare la domenica se serve. Forse bisognerebbe abbandonare i toni morbidi e fare in modo che se ascolti un leader di centro si abbia una sensazione diversa dal torpore dell’escluso. Leri Pegolo CIRCOLO LIBERAL PORDENONE
APPUNTAMENTI VENERDÌ 16 GENNAIO 2009 ROMA - PALAZZO FERRAJOLI - ORE 11 RIUNIONE NAZIONALE DEI CIRCOLI LIBERAL
ATTIVAZIONI IL COORDINAMENTO REGIONALE DELLA CAMPANIA VERSO LA COSTITUENTE DI CENTRO HA ATTIVATO IL NUMERO VERDE PER LE ADESIONI: 800910529
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PAGINAVENTIQUATTRO Caos. Il prestigioso dizionario del college non fa riferimento alla fede
Sparisce da Oxford la storia
di Silvia Marchetti
n Gran Bretagna la politica del melting pot, vanto della cultura laburista, ha prodotto un altro stravolgimento: quello linguistico. Il vizio del multiculturalismo non risparmia nemmeno il prestigioso Oxford Junior Dictionary, la versione adattata per i bambini e da sempre bibbia scolastica del Paese. L’edizione di quest’anno ha infatti deciso di cambiare pelle: è stata completamente “stravolta” nei vocaboli ed è già scoppiata la polemica culturale tra i guru della lingua inglese (proiettati nel futuro) e i professori ancorati alla tradizione. Ma cosa c’è
I
INGLESE all’interno del multiculturalismo». Mutamenti genetici che devono, dunque, avere riflessi sulla lingua. Dall’altra parte, fanno barricata i professori che mettono in guardia contro ciò che definiscono «la morte dell’eredità cultural-religiosa inglese». Un fatto che colpisce ancora di più se si pensa che si tratta dell’Oxford Dictionary, la più vecchia istituzione linguistico-letteraria che da secoli forgia la lingua del Paese.
Ma soprattutto, il timore diffuso è che uno stravolgimento nei vocaboli influenzerà il bagaglio culturale delle future generazioni. Per capire l’impatto dell’operazione linguistica
ciclo delle stagioni. Oggi, invece, il processo di urbanizzazione ha reso antiquati i nomi di molti fiori, alberi e animali. Più che una revisione, sembra una tabula rasa. «Abbiamo una narrativa letteraria cristiana che ha forgiato la nostra tradizione per duemila anni. Relativizzarla e sostituirla è inaccettabile», attacca il professore Alan Smithers dell’Università di Buckingham. «La selezione dei nuovi vocaboli riflette le tendenze dell’infanzia odierna, che si allontana sempre più dalla fede attratta dai nuovi mondi dell’information technology». Non c’è dubbio infatti che l’anima dell’educazione scolastica sia proprio la natura di lingua che viene usata nelle classi, e un simile stravolgimento nei vocaboli non può che condizionare anche i contenuti che vengono insegnati. Certo, internet fa ormai parte delle nostre vite, ma cancellare il passato per fare posto al progresso pone molti interrogativi. I professori (almeno ora) possono contare sull’appoggio incondizionato dei genitori. Lisa Saunders, madre di quattro figli che si è andata a spulciare tutte le edizioni degli ultimi anni, dice al Daily Telegraph di essere «disgustata. Le prime parole sono state cancellate già dal 2003. La fede cristiana è parte fondante della nostra cultura, e togliere questi termini porterà alla fine dell’insegnamento religioso nelle scuole». Già, il problema maggiore è proprio questo: in un Paese dove il relativismo spirituale è più forte che altrove, rinunciare al linguaggio cristiano è un ulteriore sconfitta.
Eliminati “santo”, “Pentecoste” e “abbazia”, per fare posto a iPod, allegato e Mp3. Al posto di “impero” e “monarca” entrano “broadband” e “blog”. E nel Paese monta la polemica: secondo gli accademici, si sta rinunciando al patrimonio culturale nazionale
di così innovativo, rivoluzionario? Tutto: dalle pagine del voluminoso vocabolario junior sono state cancellate le parole relative alla religione cristiana e alla storia britannica per dare spazio a ciò che gli autori definiscono “i termini nuovi”, ossia tutti i neologismi che si rifanno al mondo di internet e dell’informatica. Insomma, sacrificare l’eredità culturale e la fede all’attualità. Il Regno Unito è spaccato in due. Da una parte, gli “scribi” di Oxford sostengono che i tempi sono cambiati e che perciò anche la lingua di tutti i giorni deve adattarsi per assimilare i concetti di multiculturalismo, multietnicità e globalizzazione. Gli editori sostengono che oggi l’Inghilterra è un «Paese all’avanguardia, moderno, dove convivono diverse fedi religiose, dove la gente va sempre meno in Chiesa e dove la nostra comprensione della religione è ormai
compiuta basta analizzare le parole cancellate. Iniziamo con quelle di natura religiosa. Al posto di abbazia (quella di Westminster è il simbolo del Paese), vescovo, cappella, altare, monastero, suora, salmo, pulpito, peccato e diavolo, sono stati inseriti broadband, blog, celebrità, allegato, Mp3. Addirittura le voci santo e Pentecoste sono state tolte per far spazio a bungee jumping. Parole legate alla storia inglese – impero, monarca – nonché alla campagna e alla tradizione contadina sono state anch’esse eliminate seguendo la stessa ottica “innovativa”: un tempo molte famiglie vivevano nelle zone rurali, a contatto con la natura e il
Perché oltre ad avere una funzione descrittiva, l’Oxford Junior Dictionary dovrebbe anche averne una prescrittiva, indicando non solo le parole in circolazione ma soprattutto quelle che dovrebbero essere usate. Il corretto uso della lingua, appunto. Sta di fatto che i paradossi di un’Inghilterra multietnica, imbevuta di relativismo, non finiscono qui. In una cittadina del sud a una signora è stato imposto di togliere le luci di natale, l’albero e il presepe che aveva allestito fuori casa in quanto simboli cristiani che potrebbero offendere i suoi vicini pakistani e cinesi.