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ISSN 1827-8817 90324

Visto che il mondo

di e h c a n cro

sta prendendo una direzione delirante è il caso di assumere un punto di vista delirante

9 771827 881004

Jean Baudrillard

QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA

di Ferdinando Adornato

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Franceschini: è incostituzionale

Eppure il piano casa era un’idea Pd

MAGGIORANZA DIVISA

Fini lo ha detto chiaramente: siamo in competizione con la Lega. La risposta di Bossi è arrivata subito: alle province e ai comuni del Nord vogliamo solo candidati leghisti. Ma non dovrebbero governare insieme?

di Gianfranco Polillo el licenziare il provvedimento sulla casa, il governo ha fatto propria, modificandola, un’idea contenuta nel documento elaborato dal fu leader del Pd Walter Veltroni. In polemica con le proposte, avanzate dalla maggioranza, l’opposizione suggeriva di distribuire ai comuni parte delle risorse del Fas – il fondo per le aree sottoutilizzate – per consentire loro di realizzare opere di manutenzione straordinaria sul proprio territorio. Non era una buona idea. s eg u e a pa gi n a 1 0

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La memoria di un protagonista

Quelle bombe sulla Serbia di dieci anni fa di Mario Arpino e vicende del Kosovo, trascurate dai media in questi ultimi anni di calma apparente, ma spesso attizzate da saltuari scoppi di intolleranza, dopo la dichiarazione unilaterale di indipendenza ritornano agli onori della cronaca. Le difficoltà di colloquio tra la missione Onu, le forze militari, quelle di polizia e la duplice realtà etnica locale certamente non aiutano. Dieci anni fa, nella notte del 24 marzo 1999, su Serbia, Montenegro e Kosovo si scatenava la potenza di fuoco di Allied Force.

L

s eg u e a pa gi n a 1 2

Il viaggio travisato dai media

Solo l’Africa vuole ascoltare Benedetto XVI? di Luigi Accattoli aro direttore, la missione africana di Papa Benedetto – che è durata una settimana, tra il Camerun e in Angola, e si è chiusa proprio ieri – gli ha guadagnato due volte le prime pagine dei media internazionali, con titoli sui preservativi in funzione anti-aids e sull’aborto. Malgrado le parole chiare del pontefice, non ha mai ottenuto che l’attenzione del mondo fosse data ai mali dell’Africa e agli appelli per il riscatto venuti dall’uomo vestito di bianco.

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Alleati in guerra alle pagine 2 e 3

Il governo Usa presenta un piano da 100 miliardi di dollari per lavare i titoli tossici

Obama “ripulisce” le banche E intanto è scontro tra Italia e Europa sul debito pubblico di Alessandro D’Amato

Parla Giacomo Vaciago

ROMA. L’economia mondiale viaggia sulla direttrice Wa-

Le scorrettezze di Almunia

shington-Bruxelles. Passando per Milano. Negli Usa, il ministro del Tesoro ha presentato un nuovo piano per “ripulire”(a spese dello Stato) i titoli tossici che ingessano le banche. Investimento: 100 miliardi di dollari; e le Borse applaudono. Evidentemente, i mercati finanziari finalmente sentono che Obama vuole intervenire per coprire i loro (ex) giochi sporchi. Nell’Unione europea, il ministro del tesoro Joaquim Almunia ha confermato che i conti italiani sono a rischio deficit, anche se ha smentito ci siano rischi immediati per l’accoppiata Italia-Grecia.Anzi, non è nemmeno detto che quella formata da Italia e Grecia sia una coppia propriamente detta. E Milano ringrazia. Ieri il governatore lombardo Roberto Fomigoni ha inviato a pranzo Tremonti e una nutrita truppa di imprenditori lombardi (Marcegaglia in testa). Obiettivo manifesto: discutere della crisi. Obiettivo reale: mediare fra Confindustria e governo. Obiettivo secondario: dar vita a un altro Pdl, il Partito della Lombardia.

lle dichiarazioni “preoccupate” di Joaquin Almunia, per Paesi come l’Italia e la Grecia, ha tentato di mettere riparo la portavoce della Commissione, accusando la stampa italiana di averle riportate in modo «tendenzioso e non responsabile».

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CON I QUADERNI)

• ANNO XIV •

NUMERO

58 •

di Franco Insardà

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WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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pagina 2 • 24 marzo 2009

Scontri. Il Carroccio vuole propri candidati (al posto di quelli concordati con An e FI) alle Province di Brescia, Lecco, Lodi e Monza

La piccola vendetta lombarda Fini li ha sfidati: «Entriamo nel Pdl per contrastare i leghisti». E loro rispondono: «Al Nord votiamo solo presidenti e sindaci padani» di Errico Novi

ROMA. La si potrebbe definire una guerra a bassa intensità, parallela alla polemica tra Lega e Pdl sui grandi temi dell’immigrazione o del futuro di Malpensa. È il conflitto che attraversa ormai da oltre due mesi la maggioranza e che riguarda la presenza sul territorio, quindi anche le candidature per le amministrative di giugno. Non si è mai verificato negli ultimi anni che il Carroccio assumesse un profilo così ruvido nelle trattative con gli alleati. A poco più di due mesi dal voto amministrativo che, contestualmente alle elezioni europee, interesserà 63 province e una trentina di comuni capoluogo non c’è ancora un accordo di massima. L’ultimo messaggio di Umberto Bossi è al contempo rassicurante e ambiguo: «Ci fidiamo di Berlusconi, con lui risolveremo tutto». È ambivalente, la frase, perché non indica il prezzo: non è chiara stavolta la linea di confine tra le ambizioni della Lega e la salvaguardia dell’alleanza. Resta anzi il forte sospetto che il punto d’incontro risulterà alla fine assai spostato sul versante padano. E che in ogni caso la stretta di mano tra il Cavaliere e il Senatùr non potrà generare un alone abbastanza persuasivo: in molte località periferiche i leghisti faranno come meglio credono, senza pagare dazio alcuno. Si materializza insomma il peggior incubo evocato da Ignazio La Russa al congresso di scioglimento di An: «Non possiamo essere sempre noi a fare un passetto di lato». Il discorso può valere forse per battaglie estreme come quella dei medici-spia, non rispetto alle mire espansionitiche del Carroccio sul territorio. Tra le prospettive più preoccupanti per l’ormai disciolto partito finiano c’è l’avanzata degli uomini di Bossi verso sud. Con la presentazione di liste della Lega anche nelle regioni centro-meridionali, sindaci e dirigenti locali che fino all’altro ieri

Sono troppe le anime e le ambizioni divergenti nel centrodestra

Macché pensiero unico È una babele di idee di Riccardo Paradisi utti nel nuovo partito, senza correnti, perchè il Pdl non sarà mai il partito del pensiero unico». L’essenza del discorso di Gianfranco Fini al congresso di scioglimento di An al succo è questa. Una prospettiva che non scommette sull’arroccamento ma sull’egemonia politica da costruire nel Pdl. Accettando, per ora, la leadership indiscussa di Berlusconi e il dato di fatto di un’alleanza che tutta l’intendenza di An e Forza Italia, a cominciare dai due leader degli ex partiti del centrodestra, definisce solida e collaudata.

«T

Strategia accettata da tutti dentro Alleanza nazionale come garantisce il sindaco di Roma Gianni Alemanno che smentisce le voci che vogliono i militanti di An contrari alla nascita della nuova formazione: «Io ho fatto i congressi locali e non si è levata una sola voce di dissenso. Certo, ci sono state perplessità legittime e voglia di verificare, ma sicuramente non voci di dissenso». Voci di dissenso, è vero, ce ne sono state poche anche al congresso di scioglimento di An alla nuova Fiera di Roma. Però sono stati molti gli applausi per Roberto Menia l’unico dissidente dell’evento che ha indicato più rischi che occasioni nella fusione di An nel Pdl. E non sono stati pochi nemmeno i cenni di assenso della platea al discorso del sottosegretario alla Giustizia Alfredo Mantovano, componente di quella consulta cattolica che An aveva sciolto mesi fa e che ha cominciato il suo intervento ricordando il caso di Eluana Englaro e la battaglia per la vita ingaggiata dal presidente del Consiglio e da tutti i ministri del governo. Ma non dal presidente della Camera, che nel

suo discorso ha fatto per tre volte appello alla laicità del nuovo Pdl. È vero, Fini ha ricevuto 42 applausi durante il suo lungo e articolato discorso, come registrano le cronache più fedeli, ma la platea si stava anche alzando in piedi quando Maurizio Gasparri ha ricordato che è lecito criticare il presidente della Repubblica quando è il caso di farlo e quando Ignazio La Russa ha promesso che An sarà la destra del Pdl. Promessa smentita poi da Fini. Ed è vero che tutta An come ultimo appunto da mettere nella futura agenda politica ha accolto il programma di sfidare la Lega ma poi i rappresentanti di An nel nord sanno bene cosa significa il corpo a corpo con il Carroccio sul territorio. Alfredo Mantica, sottosegretario agli Esteri di vecchia scuola romualdiana e punto di riferimento della destra in Lombardia cerca una mediazione e indica una strategia: si tratta convincere il Pdl in generale e Berlusconi in particolare ad avere con la Lega un rapporto più dialettico.

Non è necessario inseguire sempre Bossi sulle sue fughe in avanti misurandosi con il ringhiometro. Ma Mantica sa anche che il nord rischia di essere regalato alla Lega se il baricentro del Pdl si sposta troppo al sud e si dimenticano partite come l’Expo e Malpensa per esempio. Preoccupazioni legittime visto che alle prossime europee in Veneto e Lombardia il Carroccio potrebbe diventare il primo partito con percentuali vicine al 30 per cento. Preparandosi a sbarcare in grande stile anche in Piemonte. Berlusconi queste cose le sa per questo si tiene buono Bossi e lo rassicura nei suoi incontri settimanali del lunedì. Con mezza Forza Italia che però rumoreggia e pressa Tremonti per dislocare maggiori fondi al sud, dove si rischiano di perdere i voti nel confronto con An. Insomma sotto l’unanimità ufficiale che domenica scorsa si è registrata alla nuova Fiera di Roma – e che sarà replicata domenica prossima nel congresso di fondazione del Pdl – un coro di solisti continuerà a cantare la sua canzone. Altro che pensiero unico.

facevano riferimento a via della Scrofa rischiano di trovarsi in difficoltà. I loro temi forti coincidono spesso con quelli dei lumbard. Con la differenza che il partito di Bossi ha un linguaggio più diretto e riconoscibile. Ieri il deputato padano Marco Rondini ha annunciato la presenza del simbolo di Alberto da Giussano in tutte le circoscrizioni abruzzesi: «Non si capisce come mai un consigliere regionale in Abruzzo percepisca un’indennità superiore di quella di un suo collega lombardo: combattiamo le nostre battaglie anche in funzione del federalismo fiscale che porterà una maggiore responsabilizzazione dei livelli amministrativi locali, con la possibilità di commissariamento per gli enti in deficit finanziario».

Resta un’incognita: lo stesso Bossi dichiara realisticamente che anche la presentazione del simbolo leghista al Centro-Sud farà parte della trattativa con Berlusconi. L’ultima parola dovrebbe arrivare tra una decina di giorni, quando sarà ormai alle spalle sia il voto di Montecitorio sul federalismo sia il congresso fondativo del Pdl. Appare improbabile però che il lavoro già portato avanti da diversi luogotenenti del Senatùr possa andare in fumo. Certo è che il Carroccio si presenterà anche nella circoscrizione meridionale e nelle isole per le Europee. A sentire il plenipotenziario leghista per il Lazio, il senatore Piergiorgio Stiffoni, non dovrebbero esserci improvvisi contrordini neanche per Province e Comuni: «In molte località correremo da soli con il nostro candidato. Proporremo un nostro presidente anche per la Provincia di Latina». Non solo. «Ci sarà un candidato sindaco sostenuto solo dalla Lega in città importanti come Aprilia, Sabaudia, Cisterna: in molti ci seguono, suscitiamo grande interesse e soprattutto attiriamo ottimi candidati, pronti a sposare il nostro metodo in termini di lotta alla mala amministrazione e agli sprechi. Vuole un esempio? Ma com’è possibile che al Latina si pensa a un sistema tranviario già fallito a Padova e costosissimo?». Eppure sono progetti intrapresi da amministrazioni di centrodestra. «E allora?», ribatte imperturbabile Stiffoni: «Noi siamo la Lega Nord, lo stesso Berlusconi ha consigliato ai suoi di ‘fare come quelli della Lega’, perché è un lombardo e sa come governiamo noi». La Lombardia, appunto. Teatro del conflitto più aspro: non piace ai lumbard il nome proposto dal Pdl (in particolare da Mariastella Gelmini) per la Provincia di Brescia, quello di Giuseppe Romele. Ci sono molte perplessità, da parte di Giancarlo Giorgetti e Matteo Salvini, anche per i candidati di Monza e Lecco, che gli accordi preliminari tra Forza Italia e An avevano assegnato ai finiani. Ci sono dubbi anche sul forzista in corsa per Lodi, permangono le fibrillazioni in Veneto, regione in cui ormai il Carroccio è accreditato di percentuali da brivido, di poco inferiori al 40 per cento: a Padova i dirigenti della Liga spingono per la corsa solitaria, che un dato già acquisito a Vittorio Veneto e in altri comuni del Trevigiano. In un autentico labirinto si è trasformata anche la contesa per individua-


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Sergio Divina: «Dopo la fusione, per loro le cose si complicano»

«La vera competizione sarà tra An e FI» di Irene Trentin ROMA. «C’è un fronte dentro An che non ha digerito la fusione». Sergio Divina, ex liberale confluito nelle fila del Carroccio, con cui ha corso e perso alle elezioni provinciali di Trento con il sostegno di Pdl, La Destra e la Fiamma tricolore, è d’accordo con le dichiarazioni di Roberto Calderoli. «Noi attraiamo i voti di centrosinistra che a Berlusconi e a Fini non andranno mai», aveva detto il ministro della Semplificazione, all’indomani del congresso dello scioglimento di An. «È proprio così – conferma il senatore trentino – l’ho potuto verificare di persona». Il ministro Calderoli ha detto che la Lega si prepara a intercettare i voti dei delusi di An… Questo succede già da un po’ di tempo. Quando mi sono candidato alle scorse elezioni provinciali di Trento ho potuto verificare di persona come la mia lista abbia avuto il supporto significativo del centrodestra e soprattutto di An. C’è un fronte dentro il Pdl che non ha digerito la fusione. La struttura più semplice del Carroccio, adesson che c’è un unico interlocutore, può essere un punto di forza? Dopo la fusione i percorsi del Pdl si complicano. Con due classi dirigenti adesso è certamente più difficile verificare le proposte con la base. Dovranno fare i conti con una dialettica sicuramente più articolata che rischia di scontentare più elettori. Ma noi siamo persone consapevoli e serie, ci auguriamo di doverci rapportare con alleati robusti, con cui al limite possiamo anche scontrarci. Vi preoccupano le frecciate sugli immigrati di Fini e La Russa all’ultimo congresso di An? Vuol dire che ci sarà una sana competizione. Siamo leali e non ci aspettiamo favori, meglio giocarsi fino in fondo l’opportunità di queste elezioni. D’altra parte siamo noi il partito che per primo si rifà alle vere emergenze del Paese, è inutile farci concorrenza sul nostro stesso terreno. Voi però siete in grado d’intercettare anche i voti di parte della sinistra… La nostra carta vincente è proprio il forte rapporto con il territorio. Siamo un partito popolare perché siamo molto attenti a tenere un continuo collegamento con il nostro elettorato. E nello stesso tempo riteniamo fondamentale l’econo-

mia del nostro Paese. Per questo ci vota anche la gente delle fabbriche. Con la nascita del Pdl, la vostra collocazione politica è sempre la stessa? Il termine trasversale non ci piace. Ci definiamo il più vecchio partito popolare. Stiamo conducendo una battaglia storica per la modernizzazione del Paese, per rendere più efficace la spesa pubblica, vogliamo migliorare il rapporto tra le istituzioni e i cittadini, rispondere ai bisogni reali della nostra gente. E il federalismo è la nostra riposta concreta. Stiamo conducendo la battaglia del secolo per mantenere l’identità del nostro popolo. Il voto sul federalismo in arrivo alla Camera raccoglierà consensi imprevedibili come quello dell’Idv e un’astensione pesante da parte dei democratici. Siamo contenti perché la legge sul federalismo sarà approvata dopo un lungo dibattito nelle commissioni proprio perché si è voluto che fosse l’esito di un ampio dibattito, di un processo democratico. L’astensione del Pd è un grande risultato. Se ci votasse, rischierebbe di perdere la propria identità, di confondere ancora di più l’elettorato. Abbiamo assistito a una grande partecipazione di parlamentari, ma anche di ministri. Credo che siamo riusciti ad ottenere un testo largamente condiviso. La Lega alle prossime amministrative in molti casi si presenterà da sola per poi accordarsi al ballottaggio… Credo sia inutile presentarsi da soli nei Comuni dove non c’è il ballottaggio. In molti altri casi, ci presenteremo da soli con nomi forti del nostro partito e poi si vedrà… La presenza sempre più forte del vostro partito al Centro e al Sud potrebbe far perdere al Pdl i voti di An? Ci stiamo organizzando da mesi nel Centro e al Sud per rispondere a una richiesta della gente, che è stufa di una politica vecchia di anni che non porta da nessuna parte. E il fatto che stiamo raccogliendo anche qui simpatie e adesioni significa che la strada che abbiamo intrapreso è quella giusta. Ci sta dicendo che siete diventati un partito nazionale? Lo siamo a tutti gli effetti. Rappresentiamo il terzo partito, significa che partecipiamo a pieno titolo alla vita del nostro Paese.

Per le elezioni amministrative, in molti casi andremo da soli presentando i nomi forti del nostro partito e poi si vedrà…

re un competitor unitario a Reggio Emilia, dove il Senatùr vorrebbe schierare il suo presidente federale, Angelo Alessandri.

In attesa del chiarimento finale BerlusconiBossi le incognite permangono anche in Piemonte, per esempio alla Provincia di Verbania, dove Forza Italia si sono già accordate su Massimo Nobili, mentre il Carroccio nasconde le proprie carte e ipotizza di schierare l’avvocato Paolo Marchiori. Autonomi dappertutto, ovunque inclini ad assecondare quel privilegio particolare, quella franchigia da sempre riconosciuta ai leghisti da Silvio Berlusconi, salvo improvvise frenate del Cavaliere laddove le pretese del Carroccio diventano eccessive. E a questo potrebbe sommarsi, con effetti imprevedibili, la campagna meridionale. Giovanni Fava, deputato di Mantova che il Senatùr ha eletto a coordinatore di tutta l’operazione Sud, spiega che «l’obiettivo è prendere consensi nell’area del non voto: in ogni caso non c’è l’idea di diventare un partito nazionale, per adesso». Per adesso, appunto.

Dall’alto, Umberto Bossi, Roberto Maroni, una manifestazione della Lega davanti a Palazzo Chigi e Roberto Calderoli: i vertici leghisti si stanno preparando a sostenere la sfida degli ex di An. A destra, il deputato del Carroccio Sergio Divina. A sinistra, il presidente della Camera, Gianfranco Fini


economia

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Reazioni. Ma la portavoce della Commissione europea Amelia Torres precisa: «Le dichiarazioni del Commissario Ue riportate male dalla stampa italiana»

Una faccia una razza? Almunia ripercorre vecchi luoghi comuni su Italia e Grecia. Ma Vaciago: «L’Ue non deve dare le pagelle agli Stati» di Franco Insardà

ROMA. Le preoccupazioni di Joaquin Almunia per i conti pubblici di Italia e Grecia hanno scatenato una bagarre che ha costretto la portavoce della Commissione europea, Amelia Torres, a precisare che le dichiarazioni del commissario Ue agli Affari economici, sono state riportate dalla stampa italiana: «In modo “tendenzioso e non responsabile”. I mercati sono sufficientemente nervosi per non aggiungere altro nervosismo». La prima replica ad Almunia è giunta dal presidente di Confindustria:

«Non mi pare che possiamo essere paragonati alla Grecia, alla Lettonia, all’Ungheria. È vero che l’Italia ha un debito pubblico alto - ha sottolineato Emma Marcegaglia - ma dall’altra parte ha anche un tasso di risparmio delle famiglie che in Europa non ha eguali». Non è della stessa opinione Emma Bonino che dai microfoni di Radio Radicale ha in qualche modo condiviso le dichiarazioni del commissario europeo per gli Affari economici: «Da settimane poniamo l’accento sul fatto che la situazione italiana non è affatto brillante e che anzi il gigantesco debito pubblico provoca tutta una serie di problemi che Almunia ben descrive. Le misure prese sono limitate dal debito pubblico, sono tardive, senza toccare il problema di fondo degli ammortizzatori sociali insieme con l’innalzamento dell’età pensionabile». Anche il presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri, non ha risparmiato critiche alle dichiarazioni del Commissario europeo: «Non possiamo augurarci altro se non che

Zapatero sappia valorizzare Almunia di più in patria, attribuendogli un incarico interno e magari lasciando che in Europa lavorino persone in grado di dare un contributo più incisivo, positivo e concreto per superare la crisi internazionale». L’economista Giacomo Vaciago, ordinario di Politica economica e direttore del-

Abbiamo molti più punti di forza rispetto all’economia greca, si tratta di due realtà non comparabili. Il paragone non regge neanche con la Spagna

l’Istituto di Economia e Finanza nell’Università Cattolica di Milano ha una posizione simile a quella di Gasparri: «A Bruxelles sono scaduti e scadenti e fanno pasticci». Professore lei, quindi, non è d’accordo con Almunia? La confusione è grande e dovrebbe essere proibito agli uomini di governo di aumentarla. L’Europa ha la possibilità di favorire giochi cooperativi, guai se dà le pagelle. Non deve esserci la serie A e la serie B, altrimenti è meglio andare tutti a casa. Lo scopo dell’Europa non è quello di fare la gara per stabilire chi è il mi-

gliore, ma è quello di fare squadra. Non è una competizione, ma è una unione. La Commissione doveva proporre un piano contro la crisi dopo il fallimento di Lehman Brothers e non lasciare l’iniziativa a Sarkozy. Finora non è stato così? Purtroppo no. Sarebbe ora che Almunia vada a casa e ci resti. All’insegna del patto di stabilità, è entrato nel ruolo di stabilire i buoni e i cattivi, ma la stupidaggine del patto di stabilità, come fu definita da Prodi, sarebbe ora di dimenticarla. Perché? Un conto sono i giochi cooperativi per aiutare i Paesi in difficoltà, altra cosa sono le procedure d’infrazione. In questi anni abbiamo visto soltanto la caricatura dell’Europa che volevamo. La Commissione è il governo dei governi, non è un’istituzione che dà le pagelle. Almunia, poi, si è così abituato a sculacciare i Paesi che lo fa anche quando dorme... Può reggere il parallelo tra Italia e Grecia? Ovviamente no, perché noi abbiamo molti più punti di forza rispetto all’economia greca. Si tratta di due realtà non comparabili. L’anno scorso il premier spagnolo Zapatero parlava di un sorpasso della Spagna sull’Italia, poi si è sgonfiata la bolla ed è stato chiarissmo a tutti che noi eravamo molto più avanti. Che valore hanno queste graduatorie? Se non hanno un fondamento

scientifico lasciano il tempo che trovano. Così come non condividevo il sorpasso della Spagna, adesso sono convinto, a maggior ragione, che non è vero che siamo come la Grecia. È d’accordo con la Marcegaglia che il tasso di risparmio delle famiglie italiane non ha eguali? Non bisogna mai spiegare i problemi nuovi con le costanti. L’Italia da sempre ha punti dei forza, ma anche dei difetti. Il debito del Tesoro è in buona parte nelle mani dei risparmiatori a differenza di quello americano che ha creditori in tutto il mondo, Cina in testa. A fronte di questo non bisogna dimenticare le carenze della

Il Governatore invita a pranzo Tremonti e gli imprenditori milanesi e annunicia: arrivano i fondi

Il Pdl di Formigoni? Il Partito della Lombardia di Andrea Ottieri

MILANO. Ieri è nato un altro Pdl, il Partito della Lombardia. Che non è la Lega, ovviamente, e nemmeno quello di Berlusconi, ma quello che si è riunito, a pranzo, dal governatore Roberto Formigoni. Da un lato del tavolo c’era il ministro Tremonti e dall’altro un gruppo agguerrito di imprenditori: il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, il presidente di Bpm, Roberto Mazzotta, Marco Tronchetti Provera per Pirelli, Gaetano Micciché, responsabile area corporate di Intesa Sanpaolo, Giuseppe Guzzetti di Fonda-

zione Cariplo, il numero uno di Mediolanum, Ennio Doris, il presidente del Consiglio di gestione di A2A, Giuliano Zuccoli, Pietro Guindani di Vodafone, Salvatore Ligresti di Fon-Sai e il presidente della Camera di Commercio di Milano, Carlo Sangalli. A capotavola, appunto, Formigoni, mente politica dell’operazione.

Del resto, i risultati sono stati più politici che sostanziali. Almeno a sentire quello che ha dichiarato il Governatore dopo il pranzo: «Il nostro sistema ha dimostra-

to grande compattezza. Siamo più forti se siamo uniti e remiamo tutti nella stessa direzione. Il clima che ho riscontrato è quello di persone che guardano con realismo ad una situazione difficile ma che sanno di poterla fronteggiare. L’importante è essere coesi, compatti, consapevoli della pesantezza della crisi ma al tempo stesso della nostra forza. È volontà di tutti far sì che questa crisi, che è stata della finanza e dell’economia, non diventi anche crisi sociale». Parole generiche, dunque, ma che testimoniano forse l’ini-


economia

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A sorpresa, le entrate fiscali sono cresciute dell’8%

Gli italiani fanno pace con le tasse di Francesco Pacifico

ROMA. Baluardo della politica eco-

pubblica amministrazione. Abbiamo, però, un sistema con una capacità di resistenza superiore rispetto agli altri che avrà la sua importanza quando arriverà la ripresa. La ripresa non può essere, però, soltanto italiana? Da un punto di vista macroeconomico da soli non ripartiamo, occorre uno sforzo comune europeo e Bruxelles avrebbe dovuto e potrebbe fare di più. Sotto il profilo microeconomico le nostre virtù ci aiuteranno a ripartire. La vera mina vagante, allora, è l’Europa dell’Est? Partivano da un’arretratezza che ha permesso loro di crescere moltissimo anche con i nostri ca-

pitali. Oggi stanno soffrendo perché quando c’è una crisi a livello globale gli ultimi hanno la peggio. I Paesi che avevano puntato tutto sull’integrazione europea sono in difficoltà per il crollo degli ordini, come le nostre imprese che avevano investito lì. Il ministro del Tesoro di Obama, Timothy Geithner, ha predisposto delle misure per gli asset velenosi, non sarebbe il caso di farlo in Europa? L’Inghilterra ha adottato un provvedimento del genere, ma nel resto d’Europa, l’Italia in testa, mi sembra che non ce ne sia bisogno. Non abbiamo i portafogli pieni di titoli tossici come gli Stati Uniti.

zio di un progetto forte: che sia un’alleanza tra Formigoni e Tremonti? Il braccio di ferro tra il ministro e il sindaco di Milano Letizia Moratti sulla gestione dell’Expo (finito con l’allontanamento di Paolo Glisenti, candidato forte della Moratti) pare andare in questa direzione. Comunque, dal pranzo è arrivata anche qualche indicazione concreta: entro il 31 marzo prossimo alle Regioni dovrebbero arrivare gli 8 miliardi per gli ammortizzatori sociali che sono stati stanziati con l’accordo della Conferenza Stato-Regioni. Lo ha annunciato proprio il presidente della Lombardia: «Ho sollecitato Tremonti - ha spiegato Formigoni - a chiudere l’accordo questa settimana, in modo che ci siano i trasferimenti entro il 31 marzo, cioè martedì della prossima settimana». Del resto la Conferenza StatoRegioni in cui si parlerà delle modalità

Sopra, Giulio Tremonti. A destra, l’Agenzia delle Entrate. Nella pagina a fianco: sopra, l’economista Giacomo Vaciago; sotto, il commissario economico dell’Unione europea Almunia

per il trasferimento dei finanziamenti è fissata proprio per domani.

Dal canto proprio, prima del pranzo, Confindustria era tornata a chiedere provvedimenti immediati contro la crisi: «Stiamo aspettando i soldi veri - aveva spiegato Emma Marcegaglia, parlando ieri mattina durante gli stati generali di Confindustria Lombardia - vogliamo lo stanziamento di 1,5 miliardi di liquidità, vera e spendibile, sul fondo di garanzia, che hanno chiesto tutti gli imprenditori. In queste ore si sta scrivendo un emendamento, noi abbiamo bisogno di poche cose urgenti che diventino realtà immediatamente, provvedimenti che siano sentiti nei prossimi giorni». Più chiaro di così! Ma allora: è proprio un caso che la prima risposta sia arrivata un paio d’ore dopo, dal ministro Tremonti e con il viatico di Formigoni?

nomica del duo Visco-PadoaSchioppa, la lotta all’evasione si conferma centrale anche per il governo di centrodestra. Non a caso ieri il direttore dell’Agenzia delle Entrate, Attilio Befera, ha vantato i risultati record raggiunti nel 2008: «La riscossione legata alla complessiva attività di contrasto degli inadempimenti dei contribuenti è stata pari a 6,9 miliardi di euro, l’8 per cento in più rispetto al 2007». Di questi, 3,3 miliardi (+3 per cento) sono arrivati dai ruoli e 3,6 miliardi (+13) dai versamenti diretti. Di per sé, questi dati non bastano per capire se il risultato record è dovuto alla stretta voluto da Vincenzo Visco nel 2006 con un milione di ispezione o a un approccio più conciliante dimostrato dalla gestione Tremonti, che tra gli altri interventi, oppure alle nuove regole sulle rateizzazioni degli arretrati. A questa domanda non ha voluto risponde Befera: «È un risultato record mai conseguito. Semplicemente abbiamo deciso di far parlare i numeri, facendo così chiarezza».

pere cosa pensa Dario Franceschini, che da settimana attacca il governo accusandolo di aver abbandonato la lotta all’evasione fiscale», aggiunge Maurizio Lupi. L’attività di accertamento in senso stretto ha portato nelle casse dello dell’erario 3,6 miliardi di euro, il 28 per cento in più rispetto al 2007, anno nel quale il riscosso è stato pari a 2,9 miliardi. In aumento, a quota 645mila, gli accertamenti su imposte dirette, Iva e Irap:+ 29 per cento rispetto al 2007, quando erano stati pari a poco meno di 500 mila.

Più che sui meriti degli inquilini di via XX Settembre, Befera si è soffermato su quanto sia attuale il problema del sommerso: «Nel 2008 l’azione di contrasto si è ulteriormente consolidata rispetto al passato sia per volumi sia per quantità». Infatti c’è ancorà tanto da fare. Come nota il direttore della Cgia di Mestre, Giuseppe Bertolussi, «essere riusciti ad aumentare il recupero dell’evasione di 8 punti percentuali rispetto al 2007 è sicuramente un ottimo risultato. Tuttavia sono circa 100 i miliardi di euro di imposte evase ogni anno che sfuggono, secondo tutti i principali istituti di ricerca fiscale, al fisco italiano. Averne recuperati solo 6,9 miliardi, vuol dire che solo il 6,9 per cento è stato scovato». La speranza è non cambiare marcia per il prossimo anno:l’obiettivo è recuperare 7,2 miliardi di euro nel 2009. Ha spiegato Befera: «Ci aspettiamo risultati ancora più record rispetto a quelli del 2008. E diventa ancora più determinante nei momenti di crisi, come quello attuale, quando la concorrenza sleale rischia di essere un fattore che taglia fuori dal mercato le imprese sane». Sempre ieri l’Agenzia ha annunciato che per gli studi di settore ci sarà «un forte incremento qualitativo dell’attività di controllo nei confronti delle imprese di grandi e medie dimensioni». Nota Stefano Fassina: «Prima il governo annuncia di voler abbassare gli indici, quindi Befera paventa regole più rigide per chi non paga. La verità è che si vuole rintrodurre una minimum fax mascherata».

Secondo l’Agenzia delle entrate, nell’anno passato la lotta all’evasione ha fruttato quasi 7 miliardi di euro: «Nel 2009 andrà meglio»

Stefano Fassina, già consulente di Visco a piazza Mastai e oggi responsabile delle politiche sulla finanza pubblica del Pd, accusa il governo Berlusconi «di volersi appropriare del lavoro di Prodi. I risultati annunciati oggi dalla Agenzia delle entrate sono dovuti al milione di accertamenti lanciati da Visco, a una migliore riorganizzazione dell’agenzia e alla focalizzazione dei controlli su determinati target di contribuenti». Sulla decisione di Tremonti di limitare gli strumenti di tracciabilità sui pagamenti e sul tentativo di coinvolgere i Comuni negli accertamenti, Fassina commenta: «Ci sarà un calo delle riscossioni nel 2009. Questo governo ha impresso un’inversione di marcia, ha persino abolito i controlli dell’Agenzia delle entrate sulle compensazioni Iva». Non accetta lezioni invece il centrodestra. «I buoni dati sulla lotta all’evasione da una parte e la progettualità del piano casa dall’altra sono le due facce della buona medaglia dell’azione economica del governo», nota Daniele Capezzone. «Ci piacerebbe sa-


diario

pagina 6 • 24 marzo 2009

Crollo di entrate per Berlusconi Pubblicati i redditi dei politici: ci sono due senatori nullatenenti di Francesco Capozza

ROMA. Il più ricco dei parlamentari è sempre Silvio Berlusconi ma i dati relativi alle dichiarazioni dei redditi dei parlamentari, presentate nel 2008 e relative al 2007, riservano qualche sorpresa. Una su tutte: il vistoso calo nelle entrate del premier, il cui reddito relativo al 2007 si è ridotto di 10 volte passando dai 139.245.570 del 2006 a 14.532.538 del 2007. Al secondo posto della classifica dei leader politici più ricchi si piazza poi Walter Veltroni con 477.778 euro dichiarati. Il leader politico con il reddito più basso risulta invece il presidente della Camera Gianfranco Fini con 105.633 euro, più o meno la metà di quanto ha dichiarato il leader del Pd Dario Franceschini con 220.419 euro. Ha un reddito inferiore a Franceschini il leader dell’Udc Pier

Ferdinando Casini che ha dichiarato 142.130 euro, superando di poco il reddito del leader del Carroccio Umberto Bossi che ha dichiarato 134.450 euro. Più alte le entrate del leader dell’Italia dei valori Antonio Di Pietro che si attesta su 218.080 euro.

Nel dettaglio, il bollettino delle dichiarazioni patrimoniali, mostra poi che il premier ha pagato un’imposta lorda di 6.242.161 euro e una a credito di 399.169 euro, che possiede a Milano 5 appartamenti, due ad uso abitazione, due box, la comproprietà al 50% di un altro appartamento e la proprietà di un terreno ad Antigua. Per quanto riguarda i beni mobili, il premier è proprietario di una Mercedes 600 Sel del 1992, di una Audi A6 del 2006

titoli, alla Banca Popolare di Sondrio alla Banca Agricola Mantovana e alla Banca Arner Italia Spa. Ben più ricchi dei leader politici sono i membri del governo. Dopo il presidente del Consiglio, infatti, vengono il ministro dell’Economia Giulio Tremonti con oltre 4 milioni e mezzo di euro (derivanti, però, dal fatto che Tremonti nel 2007 era tornato a fare l’avvocato fiscalista) e il sottosegretario all presidenza del Consiglio, Gianni Letta, che dichiara 1 milione e 150 mila euro. l’ultimo della lista è l’inquilino della Farnesina, Franco Frattini, con un reddito pari a zero. Almeno per il fisco italiano: Frattini, infatti, nel 2007 era vicepresidente della Commissione europea e ha pagato le tasse in Belgio.

La stravaganza, invece, è che due senatori risultanto arddirittura nullatenenti. Si tratta delle senatrici Barbara Contini del Pdl e dell’eletta all’estero, nella circoscrizione America latina, Mirella Giai (Udc-Svp-Autonomie), che nel 2008 non denunciano nessun reddito. La seconda, residente in Argentina, ha comunque dichiarato 4.136 euro in spese elettorali. Smpre in tema di «poveri», reddito basso per Bruno Alicata, avvocato civilista del Pdl, che nel 2007 ha dichiarato soli 7.291 euro, più un appartamento a Siracusa. Alicata segnala anche la sua presenza nel Cda di Ato rifiuti di Siracusa. Sotto i 30 mila euro poi gli imponibili di due leghisti: Armando Valli (15.879) e Giovanni Torri (26.389). Entrambi hanno una casa di proprietà: il primo a Lezzeno (Como), il secondo non indica la località del fabbricato civile.

Nel 2007 il premier ha guadagnato “solo” 14 milioni contro i 139 dell’anno prima. Veltroni, con i suoi libri, doppia Franceschini e di tre imbarcazioni: il San Maurizio, del 1977, il Principessa vai via, del 1965 e il Magnum 70 del 1990. Il presidente del Consiglio risulta inoltre proprietario di 5.174.000 azioni della Dolcedrago, 4.294.342 azioni della Fininvest, 2.548.000 azioni della Holding Italiana Prima Spa, 2.199.600 azioni della Holding Italiana Seconda Spa, 1.193.400 della Holding Italiana Terza e 1.144.000 azioni della Holding Italiana Ottava oltre a 200 azioni della Banca Popolare di Sviluppo, un deposito amministrato dalla Banca di Sondrio di 896.000 azioni e 3 depositi gestiti direttamente dalle banche che provvedono autonomamente all’acquisto e alla vendita di

Nel 2005 l’aereo tunisino, rimasto senza benzina, cadde in mare davanti a Palermo: morirono 16 persone

Condannati i piloti della tragedia dell’Atr72 di Guglielmo Malagodi

PALERMO. Si è concluso con 7 condanne per 62 anni di carcere complessivamente e due assoluzioni il processo per l’incidente dell’ATR 72 della Tuninter precipitato il 6 agosto del 2005 nel mare di Palermo al largo di Capo Gallo. Nel diastro morirono 16 persone e altre 23 rimasero ferite. La sentenza è stata emessa dal Gup di Palermo,Vittorio Anania, dopo tre ore di camera di consiglio. Gli imputati condannati, tutti tunisini, sono il comandante Chafik Gharby e il pilota Ali Kebaier, entrambi condannati a 10 anni di reclusione, la pena più pesante, il direttore generale della Tuninter Moncef Zouari e il direttore tecnico Zoueir Chetouane, che hanno avuto 9 anni ciascuno, il responsabile del reparto di manutenzione Siala Zouehir, il meccanico Nebil Chaed e il responsabile della squadra manutenzioni Rhouma Bal Haj (8 anni ciascuno). Assolti invece i capisquadra manutenzione Fouad

Rouissi e Lofti Ben Jemia. Nessuno di loro era presente in aula.

Il 6 agosto del 2005 l’Atr 72 della Tuninter era decollato da Bari diretto nella città di Djerba in Tunisia, e meno di mezz’ora dopo precipitò nel mare di Palermo al largo di Capo Gallo. Morirono Enrico Fallacara, Maria Grazia Derenato, Paola Di Ciaula, Giuseppe Francesco Scarnera, Anna Maria Palmisano, Anto-

Dieci anni al capitano, nove ai responsabili della manutenzione della Tunintair: usarono un pezzo di ricambio sbagliato nella Capurso, Barbara Baldacci, Isabella Ruta, Elisabetta Acquaro e la figlia Chiara di 4 anni, Rosa Santoro, Carmela Amoruso, Raffaele Ditano e Francesco Cafagno, tutti pugliesi, e due membri tunisini dell’equipagio, Moez Bouguerra, capo cabina e Harbaoui Chokri, meccanico di bordo. Secondo la rico-

struzione dell’accusa, l’aereo cadde perché non era stato calcolato bene il livello del kerosene contenuto nei serbatoi, a causa della sostituzione dell’indicatore del carburante nel quadro comandi di bordo. Per accelerare i tempi, come pezzo di ricambio fu utilizzato un modello destinato all’Atr 42, che segnalava un livello di carburante superiore a quello effettivo. Dopo una complessa perizia, l’accusa aveva chiamato in causa anche il direttore generale della compagnia, il direttore tecnico e il responsabile del reparto di manutenzione. I pm avevano sostenuto anche che il disastro si sarebbe potuto evitare se il pilota, invece di decidere di effettuare la manovra di ammaraggio che causò la spaccatura della fusoliera, avesse sfruttato le correnti d’aria per raggiungere l’aeroporto di Punta Raisi. La quasi totalità delle vittime era stata risarcita dalla compagnia con una cifre di 30mila euro ciascuna, ragione per la quale il rapppresentante di una sola di esse si era costituita parte civile al processo.


diario

24 marzo 2009 • pagina 7

L’annuncio di un importante centro di ricerca britannico

L’Antitrust contro le suonerie trasformate in abbonamenti

«Sangue dalle cellule staminali embrionali»

Multe per 2 milioni ai gestori telefonici

LONDRA. Un gruppo di ricercatori britannici ritiene di poter arrivare in breve tempo alla produzione di quantità illimitate di sangue umano, ricavato in laboratorio da cellule staminali, libero da agenti patogeni da destinare alle trasfusioni. Lo scrive l’Indipendent nella sua edizione online. Una ricerca su più vasta scala dovrebbe essere annunciata questa settimana - scrive il giornale - e dovrebbe portare entro tre anni alla trasfusione su volontari del primo «sangue sintetico» ricavato da cellule staminali di embrioni. Questo potrebbe aiutare a salvare la vita a molte persone, dalle vittime di incidenti stradali ai soldati sui campi di battaglia, rivoluzionando il settore fondamentale delle trasfusioni di sangue. Gli scienziati faranno test su embrioni umani rimasti inutilizzati da trattamenti di fecondazione in vitro, alla ricerca di quelli geneticamente predisposti per svilupparsi nel gruppo sanguigno «0-negativo», il più raro, ma anche quello compatibile con ogni altro gruppo, che può cioè essere dato a chiunque senza pericolo di rigetto. L’obiettivo è quello di stimolare le cellule staminali dell’embrione a svilupparsi in globuli rossi portatori di ossigeno per trasfusioni d’emergenza. Il sangue

ROMA. Oltre due milioni di mul-

Il Pd (spaccato) non vota il federalismo. Forse Tra i malumori, oggi l’annuncio dell’astensione di Marco Palombi

ROMA. Doveva essere astensione e alla fine probabilmente astensione sarà, anche se per l’ufficializzazione dell’atteggiamento che il Pd terrà sul federalismo fiscale alla Camera bisognerà aspettare la riunione del gruppo che si terrà stamattina. Il non voto, come si ricorderà, è la via scelta dal segretario Franceschini che pure, raccontano a via del Nazareno, a un certo punto era perfino propenso a votare sì, giuste le suggestioni che gli arrivavano da parecchi ambienti del partito a iniziare dai “leghisti democratici”come il varesino Marantelli o da un lettiano eretico, e peraltro pugliese, come Boccia. Perfino la Velina Rossa, agenzia quotidiana di area dalemiana, aveva invitato il leader a scegliere la via del sì invece della mezza misura dell’astensione, il “nì degasperiano”che “non è mai servito a produrre il cambiamento”. Il fronte del sì vuole giocarsi la partita sui decreti delegati, pensa di essere in grado di influire sul governo e che la battaglia vera alla fine si giocherà sullo Statuto delle autonomie, cioè il testo di riforma costituzionale in cui si deciderà quale ente locale ha quali competenze: il ddl, cioè che ridisegnerà davvero l’assetto istituzionale della Repubblica (per Calderoli la bozza sarà pronta entro aprile, dopo che il federalismo fiscale sarà stato approvato definitivamente): «Certo che questo sì al Sud inizialmente lo pagheremo in termini di consenso – spiegava ad esempio Boccia qualche giorno fa – come è probabile che al Nord non guadagneremo niente, ma dobbiamo avere il coraggio di partecipare a questa riforma, anche perché la maggioranza ha accolto buona parte dei nostri emendamenti».

sonoramente cazziato i parlamentari proprio sull’acquiescenza ai progetti della Lega.

Altro segnale forte è stata l’uscita, durissima, della presidente del Piemonte Mercedes Bresso, che mercoledì scorso ha spedito una lettera a Franceschini chiedendogli di votare no al ddl Calderoli che è «una presa in giro nei confronti dei cittadini e dei territori». Presa di posizione a cui il segretario ha risposto con una lettera aperta sul Corsera che ribadiva ancora le ragioni del “nì”. I due ieri hanno avuto un incontro a margine della direzione del Pd sulle Europee e ne sono riemersi sostanzialmente ciascuno sulla propria sponda del fiume: «Anche Franceschini si è convinto che è una pessima legge – ha spiegato Bresso – e che il massimo che si può fare è l’astensione critica», cioè non votare no ma solo dopo aver detto in aula «punto per punto tutto quello che non va, in modo da sottolineare che noi pure siamo federalisti, ma che su questo federalismo non vogliamo metterci la faccia». La linea del non voto è data per scontata anche da Michele Emiliano, sindaco di Bari e segretario pugliese del partito: «Ci asterremo, ma deve essere chiaro che per il Sud questa è una scelta subita, non condivisa». In realtà il gruppo alla Camera sceglierà stamani a maggioranza e quelli che chiederanno di votare no dovrebbero essere almeno qualche decina: una minoranza, ma non l’amarcord di qualche nostalgico della Cassa del Mezzogiorno. Da segnalare, ma questo sì è un caso singolo, la posizione dell’ex Dl Pierluigi Mantini, deciso fautore del no, che ha annunciato che potrebbe anche uscire dal gruppo se il Pd sceglierà ancora l’astensione. A complicare la questione, infine, c’è pure il cosiddetto Piano casa del governo, che interviene pesantemente sulle competenze delle regioni in materia di edilizia ed è stato bocciato in coro dai governatori di centrosinistra (ad eccezione di quello delle Marche Gian Mario Spacca): come si fa a parlare di federalismo, ha chiosato ieri Bresso, «quando si propone una cosa come il decreto sull’edilizia che è una minaccia per i territori?».

È la via scelta da Franceschini che pure, raccontano a via del Nazareno, a un certo punto era perfino propenso a votare sì

artificiale così ottenuto sarebbe privo di qualsiasi rischio di presenza di virus come quello dell’Hiv o dell’epatite.

«Non è un boato, questa volta si tratta di una notizia seria e il gruppo che sta dietro al progetto è altrettanto serio»: così il professor Carlo Alberto Redi, direttore scientifico della Fondazione IRCCS del Policlinico San Matteo di Pavia, commenta la notizia. Del resto, sottolinea Redi, le capacità di differenziazione dei progenitori ematopoietici in vitro sono ben conosciute e i tempi sono maturi per la creazione di un vero e proprio sangue, anche se il termine artificiale non è il più idoneo.

Nonostante il fervore dei pasdaran del voto favorevole però, e a dispetto anche dell’orientamento simpatetico del segretario, il fronte del no al federalismo fiscale nel Pd s’è andato ingrossando nel corso delle settimane anche grazie al confronto coi territori che – al contrario di quanto si potrebbe pensare – sono fortemente critici col ddl anche al Nord: la scorsa settimana persino a Lecco, Lombardia profonda, iscritti e simpatizzanti del Pd in assemblea pubblica hanno

ta per pratiche commerciali scorrette nella vendita di suonerie, loghi, contenuti multimediali. Che tradotto significa: ti vendo la suoneria, ma ti faccio pagare un abbonamento che si aggrappa alla tua sim e settimanalmente ti trattiene un po’ di soldi. Perciò l’Antitrust ha multato otto società che vendono le suonerie per i cellulari per un totale di 2,2 milioni di euro. Le multate sono: Telecom Italia con 640 mila euro; Vodafone 560 mila; Wind 480 mila; Buongiorno 115 mila; Dada 125 mila; Zed 95 mila; H3G 155 mila e Zeng 55 mila euro. Secondo l’Antitrust le società andavano sanzionate «perché i messaggi non chiarivano adeguatamente che richiedendo il servizio non si scaricava la singola suoneria, ma si sottoscriveva un abbonamento con una ”decurtazione” settimanale della scheda telefonica. Ugualmente poco chiara era l’indicazione dei costi e difficile la disattivazione del servizio». L’Autorità ha considerato responsabili anche le società di «telefonia mobile che, nei singoli casi, avevano interessi economici nell’offerta dei servizi e avevano collaborato nella definizione dei servizi e autorizzato i messaggi ritenuti ingannevoli dall’Autorità». Il Codacons plaude alle multe dell’Antitrust: «Il fenomeno delle suonerie muove in Italia un giro d’affari pari a circa 800 milioni di euro all’anno». Secondo un’altra associazione di consumatori (Adoc-Associazione per la difesa e l’orientamento dei consumatori) il giro d’affari delle suonerie è di 300 milioni di euro all’anno.


economia

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Crisi finanziaria. Saranno utilizzati 75-100 miliardi del Tarp. Ma l’obiettivo è arrivare a un programma da 1000 miliardi

Obama “lava” le banche Geithner presenta il suo piano per gli asset tossici. E Wall Street vola di Alessandro D’Amato segue dalla prima L’amministrazione americana annuncia un nuovo piano per smaltire gli asset tossici delle banche che utilizzerà da 75 a 100 miliardi di dollari attingendo ai 700 miliardi di dollari del Troubled Asset Relief Program (Tarp) lanciato lo scorso anno, dando al governo un “potere d’acquisto” di 500 miliardi di dollari che potrebbe raddoppiare «nel corso del tempo» attraverso la possibilità anche per i privati di partecipare all’operazione che dovrebbe servire a rilevare tutti gli asset “avariati”finora ancora nei bilanci delle banche. Un ente rileverà i prestiti a rischio, con l’aiuto dei privati; poi, è prevista la nascita di una serie di fondi a partnership mista che rileveranno gli asset tossici; infine, ci sarà un ampliamento di impieghi per l’organismo preposto ad aiutare il credito al consumo e le piccole imprese. Il Tesoro ha intenzione di assumere dei manager che possano fare da collettori dei denari privati: l’o-

biettivo è quello di far arrivare l’importo del programma a mille miliardi di dollari.

«Il nostro obiettivo è quello di un sistema più forte che possa fornire il credito necessario alla ripresa e che assicuri che non ci troveremo più in una crisi finanziaria come questa. Ci stiamo muovendo rapidamente per raggiungere questi obiettivi», ha spiegato il segretario al Tesoro Timothy Geithner, sulle pagine del Wall Street Journal, introducendo il piano. «La gravità della crisi scrive Geithner - e la profonda arrabbiatura pubblica richiedono che ogni decisione assunta sia valutata e pensata e superi il test più serio: e cioè se riuscirà o meno a far tornare il sistema finanziario a girare attraverso la concessione di credito alle famiglie e alle imprese, e a prevenire nuove crisi. Il Public-Private Investment Program è meglio per i contribuenti americani rispetto ad avere un governo che da solo e direttamente acquisti

asset delle banche. Il nostro approccio porta a una condivisione del rischio con il settore privato, e sviluppa concorrenza nella determinazione del prezzo per l’acquisto degli asset tossici. Limitarsi a sperare che le banche nel tempo fossero riuscite a risolvere il problema di questi asset avrebbe prolungato la crisi sulla scia della precedente esperienza giapponese».

L’annuncio è stato preso bene dalle Borse mondiali, e in particolare da Wall Street, che ha aperto in forte rialzo. Ma si è beccato una reprimenda eccellente, quella del premio Nobel dell’Economia Paul Krugman, che giorno dopo giorno assume toni sempre più duri contro l’Amministrazione Usa. Krugman non esclude che gli asset tossici valgano più di quanto si pensi adesso, ma giudica il piano Geithner confuso, macchinoso, probabilmente inutile e non legato al mercato. «Se il valore degli asset sale - scrive l’economista - gli investitori ne

Un ente rileverà i prestiti a rischio con l’aiuto dei privati. Poi è prevista la nascita di una serie di fondi a partnership mista. La Casa Bianca: «No alla maxi-tassa sui bonus per i manager Aig» approfittano; ma se cala possono lasciar perdere. Ciò non significa far lavorare i mercati, ma è soltanto un modo indiretto e mascherato di sovvenzionare l’acquisto di asset tossici».

In un’intervista a Bloomberg Television, il direttore del Consiglio economico nazionale Lawrence Summers ha dichiarato che si sente gratificato dalla reazione dei mercati, e ha anche precisato che gli investitori che

parteciperanno al piano per l’acquisto di asset tossici non saranno sottoposti a limiti nei compensi. Secondo Summers «a nessuno è stato chiesto di fare il cavaliere bianco», ha precisato Summers, e poi si è detto «sorpreso» dalle critiche di Krugman: «Gli investitori saranno interessati e impazienti a partecipare al programma. Una volta tornati alla normalità, non ci sarà bisogno di un ruolo pubblico nei mercati». Nel frattem-

Gli editoriali critici del “New York Times” e la rabbia dei blogger progressisti: nervi tesi tra Barack e la sua base

Krugman guida la “rivolta”contro il presidente di Andrea Mancia na giornata storta può capitare a tutti. Ma quella che è toccata a Barack Obama sabato scorso sarà difficile da dimenticare. Coccolato dai mezzi d’informazione fin dal suo esordio sulla scena politica nazionale, il presidente americano sembra aver perso - nelle ultime settimane - una parte dell’appeal esercitato nei confronti dei media e, in genere, delle élite che hanno contribuito alla sua storica elezione. Nello stesso giorno (sabato, appunto), Obama è stato oggetto di tre editoriali, molto critici, pubblicati dal New York Times, il giornale che più di ogni altro, durante la campagna elettorale, si era distinto per la sua incrollabile ortodossia obamista. Il tutto mentre, su Internet, un

U

altro commentatore del Nyt, il recente premio Nobel per l’economia Paul Krugman, scriveva sul suo visitatissimo blog che il piano di salvataggio delle banche annunciato dal ministro del Tesoro, Tim Geithner, era quasi certamente destinato a fallire. Un concetto ripreso e approfondito ieri da Krugman, sempre nella pagina degli editoriali del New York Times.

Soltanto “fuoco amico”? O un segnale che qualcosa, nei rapporti tra Obama e la sua constituency naturale, non funziona più come prima? E quale è il ruolo del criticatissimo Geithner in tutta la vicenda? Ieri Markos Moulitsas, fondatore di Daily Kos, e “guru”della sinistra progressive, scriveva su Twitter (la piattaforma di mi-

cro-blogging) che «Geithner sta iniziando ad assomigliare al Rumsfeld di Obama».

Un paragone blasfemo, per chi ritiene che il primo ministro della Difesa di Bush fosse l’incarnazione del Male sulla terra, ma anche l’indizio di un malessere profondo che serpeggia nel mondo della sinistra americana. Ieri Krugman scriveva esplicitamente del «senso di disperazione» che lo coglie quando analizza il piano di Geithner. «Il ministro del Tesoro spiega l’economista liberal - ha persuaso il presidente Obama a riciclare le politiche ideate dall’amministrazione Bush, in particolare il piano “cash for trash” proposto e poi abbandonato sei mesi fa da Henry Paulson». Come aveva scritto un

paio di giorni prima sul suo blog, insomma, Krugman è convinto che abbiano vinto «le idee degli zombie». «È come prosegue - se il presidente fosse determinato a confermare la crescente percezione di inadeguatezza sua e del suo team economico». Una percezione che potrebbe presto prosciugare il suo «capitale politico».

E se Krugman è «disperato», Thomas Friedman - un altro degli obamiani della prima ora - accusa addirittura la Casa Bianca di aver perso la sua capacità di «leadership ispirata», che è un po’ come dire a Berlusconi che non più in grado di raccontare barzellette. Secondo Friedman, «Obama ha perso una grande opportunità con lo scandalo dei bonus Aig», per-


economia

24 marzo 2009 • pagina 9

L’esplosione della spesa federale mette in pericolo i conti pubblici

Gli Stati Uniti rischiano un lento declino “europeo” di Mario Seminerio a scorsa settimana è stata resa nota l’analisi preliminare del bilancio federale elaborata dal Congressional Budget Office (Cbo). Da esse si evince che quest’anno il deficit federale raggiungerà i 1800 miliardi di dollari, portando il rapporto tra deficit federale e pil nel 2009 ad un impressionante 13 per cento. Maastricht non è una ridente cittadina sul Potomac. Il problema vero, tuttavia, è quanto accadrà ai conti pubblici quando l’economia sarà tornata a girare a livelli di pieno impiego. Quest’anno, per effetto dello stimolo obamiano e di un’economia in pessime condizioni, il gettito fiscale dovrebbe crollare al 15,4 per cento del Pil.

L

po, c’è da notare che anche il Public-Private Investment Program ha una buona percentuale di rischio di non riuscita: il Tesoro vuole spingere con un prestito a tasso agevolato gli investitori a entrare nel fondo, e questo dovrebbe stimolarli a entrare. Ma è chiaro che il rischio sarà commisurato alla percentuale di “tossicità”di ogni asset, altrimenti nessun privato si arrischierebbe ad entrare.

Ecco quindi che il problema si fa più complesso, e la jointventure pubblica e privata potrebbe significare che, alla fine, i titoli che si riveleranno cartastraccia saranno quelli che prenderà in carico il Tesoro. Il ché - invece di affidarsi alla reazione scomposta del Congresso - avrebbe dovuto chiedere ai manager (naturalmente in diretta televisiva) di rinunciare spontaneamente ai loro premi milionari.

Una tesi surreale, ma non come l’inizio dell’ultimo editoriale di Maureen Down (sempre obamiana, sempre sul Nyt), che immagina uno spot che avrebbe potuto far vincere le elezioni a John McCain: Barack Obama che coltiva rucola organica (“arugola”, per l’America radical chic) nei giardini della Casa Bianca. Una fantasia superata dalla realtà, dopo le rivelazioni botaniche della first lady Michelle, pronta a costringere tutta la famiglia a mangiare verdura «che lo vogliano o no», che spinge la Dowd a chiedersi se «nello studio ovale non ci sia capitato l’Obama sbagliato». Anche in questo caso, note di colore a parte, l’accusa principale mossa nei confronti di Obama è quella di essersi lasciato con-

Nella foto in alto, il ministro del Tesoro statunitense Timothy Geithner. A destra, Barack Obama. Nella pagina a sinistra, il premio Nobel per l’economia, Paul Krugman tutto, a danno del contribuente. Intanto, il presidente Barack Obama si è detto contrario alla proposta - che sta riscuotendo ampio consenso nel Congresso - di punire con una maxi-tassa i manager del colosso assicurativo Aig che hanno ricevuto i controversi bonus ricavati da soldi pubblici. In un’intervista alla Cbs, Obama ha definito la tassa non costituzionale e ha aggiunto di non voler «governare con la rabbia».

vincere da Geithner («nato e cresciuto repubblicano») a «coccolare l’élite di Wall Street». Meglio il decisionismo vegetariano di Michelle, insomma, rispetto alla debolezza dimostrata da Barack nei confronti degli “avidi capitalisti”. Il senso della “grande ribellione” della sinistra nei confronti di Obama e della sua politica economica, a ben guardare, è tutto qui. Il presidente ha fatto campagna elettorale sostenendo, almeno in teoria, le ragioni di Main Street contro quelle di Wall Street. E oggi, secondo i suoi neo-detrattori, si è arreso al nemico senza neppure combattere.“Inventato” dai media, invocato dalla sinistra ed eletto sull’onda di una rivolta populista, oggi Obama sembra in grande difficoltà, nella gestione della crisi economica, proprio con i suoi alleati naturali. Intanto, per dirla con Krugman, il tempo passa inesorabile al ritmo di «600mila posti di lavoro persi ogni mese». E il capitale politico inizia a scarseggiare.

Nel 2012, quando i dati del Cbo prevedono che l’economia tornerà ad una crescita di trend, quel dato dovrebbe tornare al valore storicamente normale, compreso tra il 18 ed il 19 per cento del Pil. Riguardo la spesa, per effetto dei vari salvataggi iniettati nel sistema e dell’operare degli stabilizzatori automatici, la spesa federale toccherà nel 2009 il 28 per cento del Pil, livello mai visto dalla Seconda Guerra Mondiale. Al materializzarsi della ripresa, parte di quella spesa in eccesso verrà meno, ma non sarà completamente riassorbita. Secondo il Cbo, infatti, nel 2019 l’incidenza sul Pil della spesa federale sarà ancora superiore al 23 per cento. In quell’anno, la spesa sarà di oltre 5000 miliardi di dollari annui; oltre il 56 per cento della quale per entitlements, e ben il 16 per cento, cioè 800 miliardi di dollari, sarà destinata a pagare interessi sul debito. Un importo che, da solo, eccede tutto quello che il governo federale spendeva fino al 1983. Ai cinesi piacendo, s’intende. È vero che le proiezioni di bilancio sono un esercizio puramente teorico, ma rappresentano comunque lo scenario al momento più probabile, quello con cui misurarsi anche e soprattutto sul piano politico, e un rapporto deficit/Pil che anche al pieno impiego non scende mai sotto il 4 per cento è un enorme problema politico, come confermato anche da Peter Orszag, responsabile del bilancio dell’Amministrazione Obama, ed ex direttore del Cbo. A ciò si aggiunge che le previsioni di crescita del pil elaborate dalla Casa Bianca appaiono mediamente più ottimistiche sia di quelle del Cbo che di centri studi indipendenti, e questo tende a sovrastimare il gettito fiscale. Come già accaduto per il pacchetto di stimolo, il rischio è quello di uno stallo al Congresso, con repubblicani e i democratici che sono su posizioni di conservatorismo fiscale (i cosiddetti Blue Dog Democrats) alleati in una minoranza di blocco che finirebbe col logorare l’azione della Casa Bianca, soprattutto su temi sensibili come la riforma della sanità. In altri termini, gli americani stanno facendo un mutuo su un futuro che si preannuncia tossico. E anche un po’“italiano”, con una montagna di debito ed una spesa pubblica completamente ingessata, inutilizzabile a fini anticiclici e di redistribuzione, destinata a spiazzare gli investi-

Per effetto dei vari salvataggi iniettati nel sistema e dell’operare degli stabilizzatori automatici, le uscite toccheranno nel 2009 il 28% del Pil, un livello mai raggiunto nel dopoguerra menti privati (quando l’attuale buco di pil verrà meno) ed ipotecare pesantemente lo sviluppo della produttività.

Considerata l’altra grande incognita che grava sull’economia statunitense, l’azione della Fed volta a sbloccare i mercati del credito attraverso una spregiudicata (e mai sperimentata prima) manovra di espansione estrema del bilancio della banca centrale, il rischio è quello di produrre una ripresa strutturalmente fragile, simile a quelle che da lustri caratterizzano le economia europee occidentali.


panorama

pagina 10 • 24 marzo 2009

Decreti. Anche il Pd lanciò una proposta simile, ma ora il governo punta tutto sull’attivismo delle famiglie

Sulla casa, Berlusconi copia Veltroni di Gianfranco Polillo segue dalla prima Quei fondi, tutt’altro che illimitati, avrebbero consentito di migliorare l’arredo urbano. Ma sottratto risorse alle grandi infrastrutture. I risultati sarebbero stati paradossali: comuni forse più belli, certama mente più isolati dalla mancanza di assi attrezzati in grado di unificare l’intero territorio nazionale. Anche per questo è assai strano che ora il segretario del Pd se ne esca con la sua dichiarazione di guerra: «Il piano casa è incostituzionale, ci opporremo con ogni mezzo».

Anche perché, la vecchia proposta di Veltroni aveva, comunque, qualcosa di buono. Avrebbe dato al sistema delle piccole imprese una boccata d’ossigeno: un mag-

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

gior fatturato e una maggiore occupazione. È su questo che ha fatto levo il governo con il suo progetto. Saranno, infatti, le famiglie – la cui ricchezza finanziaria è ancora forse l’unico punto di forza dell’Italia – a migliorare la propria abitazione. Ad investire su se stessi: certi che, nel tempo, il ritorno econo-

L’incentivo a cambiare una casa, divenuta troppo piccola per le esigenze familiari, diminuirà notevolmente. Si preferirà pertanto, conservare, la casa paterna e compensare l’esigenza di mobilità, ricorrendo ai normali mezzi di locomozione. Che in Italia – si pensi ai trasporti urbani – non sono proprio una benedizione. Il

Eppure in prospettiva bisognerebbe immaginare una completa riforma del mercato immobiliare senza balzelli e con forme diverse di tassazione mico – visti i prezzi delle abitazioni – compenserà abbondantemente il sacrificio iniziale. Con questa decisione il Governo prende quindi due piccioni con una fava. Soddisfa i grandi players. Estende i benefici ai piccoli, facendo leva su un moltiplicatore del reddito particolarmente elevato. Visto che si tratta di un’attività a bassissimo contenuto di importazioni.Tutto bene, quindi? Il limite di questa azione si vedrà nel più lungo periodo. Dare ai singoli la possibilità di aumentare il proprio spazio abitativo, renderà il mercato immobiliare italiano ancora più statico.

relativo trasferimento di valore dell’immobile avverrà, inoltre, come già capita oggi, prevalentemente per mortis causa. Queste semplici considerazioni dovrebbero portare, in prospettiva – quando la crisi, almeno speriamo, sarà solo un ricordo – ad un cambiamento di prospettiva. Dovremmo allora occuparci di favorire un uso razionale dello spazio abitativo, tassando i consumi inutilmente opulenti. Non si tratta di reintrodurre l’Ici, ma di avere una politica fiscale volta a rendere più dinamico il mercato immobiliare. Una politica che colpisca non la casa in quanto tale, ma standard edilizi

– l’esempio più tipico è quello una sola persona che occupa centinaia di metri quadri nei centri storici – che vanno ben oltre gli spazi vitali. Per carità: è giusto cercare di vivere il più comodamente possibile. Ma è altrettanto giusto che questo lusso sia adeguatamente tassato. In compenso la compravendita delle case dovrebbe essere completamente liberalizzata, non addossando alle controparti inutili balzelli. Da un punto di vista economico, l’operazione sarebbe neutrale: parte del plus valore collegato al lusso sarebbe prelevato annualmente, anziché colpire tutti, in un’unica soluzione, al momento del trasferimento della proprietà.

Qual è la scelta più razionale? Basta guardarsi intorno. Quanto risparmieremo in termini di minor inquinamento, di intasamento urbano e di costi energetici se, trasferendoci per ridurre i tempi di percorrenza quotidiani, fosse più facile vendere la vecchia e comprare una nuova abitazione? La risposta è evidente. Lo è meno in tempi di crisi, come questi. Ma è bene non smarrire, comunque, il senso della prospettiva.

Il comico dà spettacolo al processo e chiede la chiusura della Consob

Alla Parmalat va in scena l’azionista Grillo eppe Grillo può essere simpatico o antipatico. Magari prima della sua “conversione politica” vi stava simpatico, ora invece vi sta un po’ sulle scatole e farebbe bene a fare solo il comico e basta. Può darsi che sia questo il vostro pensiero in merito e tutto sommato - chi vi può dare torto? Tuttavia, bisogna pur riconoscere che ciò che Grillo ha detto ieri in qualità di testimone al processo Parmalat è condivisibile da tutti, sia che vi stia simpatico sia che vi stia sul groppone: «Dei debiti Parmalat tutti sapevano, tranne i risparmiatori».

B

Del resto, c’è anche la controprova: se i risparmiatori avessero saputo, non ci sarebbe stato il Grande Crac e nessuno, soprattutto i risparmiatori truffati, avrebbe pianto sul latte e i soldi versati a fiumi. Invece, il Grande Crac c’è stato, tutti piangono sul latte e i soldi versati e, soprattutto, chi poteva intervenire ed evitare la raccolta di soldi dalle tasche dei piccoli e medi risparmiatori se ne è stato a guardare - come le note stelle - le stalle. Proprio qui è il punto: prima di entrare in aula Beppe Grillo ha criticato la Consob e la Borsa, secondo lui responsabili dei mancati controlli

che sono alla base del disastro finanziario del 2003. «Bisogna chiudere la Consob - ha detto il comico genovese - negli Stati Uniti se fai una cosa così ti becchi venticinque anni di carcere». Secondo Grillo «bisogna risarcire le mucche», cioè i risparmiatori che sono stati munti a dovere, goccia dopo goccia. La storia raccontata da Grillo è disarmante nella sua semplicità. Il comico ha spiegato di essere venuto a conoscenza dei debiti dell’azienda da Domenico Barili, ex direttore generale della multinazionale di Collecchio. Lo ha conosciuto nel 1997-98 quando venne invitato a Montecarlo per seguire il gran premio di Formula 1 dai box sponsorizzati dalla Parmalat. Durante una cena nel 2001, alla fine del suo spettacolo al palasport Bruno Raschi, Grillo parlò con

Barili che gli fece la confessione: un’azienda con 13mila miliardi di lire di debiti in un’economia normale sarebbe già fallita da tempo. «Non fu una battuta scherzosa – ricorda ai giudici Grillo – mi raccontava cose serie, era spontaneo e sincero. Ricordo con precisione la frase sul fallimento». Grillo ha anche detto di aver “indagato” su quel debito controllando il sito web della Banca d’Italia. Non solo trovò conferme alle parole di Barili, ma si accorse che l’azienda di Collecchio non era neanche la peggiore: «La Fiat ha il doppio dei debiti di Parmalat mentre Telecom arriva addirittura al triplo».

Insomma, il racconto di Grillo ieri in tribunale è stato forse più esilarante dei suoi spettacoli in teatro e in tv. Una

situazione tragicomica: tutti sapevano, Parmalat sapeva, Callisto Tanzi sapeva, i controllori sapevano, ma i risparmiatori non sapevano nulla e si fidavano ad occhi chiusi di un’azienda famosa e presente sulle corse della Formula 1. “Nel mio spettacolo mettevo in ridicolo che dal latte si potesse costruire un’azienda come la Coca Cola”. In fondo, i risparmiatori non si sono fidati proprio di questo? La Parmalat come la Coca Cola. Tutto in apparenza normale e liscio come la Coca Cola. Poi il Grande Crac. E il dottor Barili? I suoi difensori hanno commentato al termine dell’udienza: «Grillo ha provveduto direttamente a scagionare il caso Grillo». E il presidente del tribunale è intervenuto per sottolineare il contesto in cui è avvenuta la conversazione fra il comico genovese e il dottor Barili, una chiacchierata fra amici a cena dopo lo spettacolo, nel corso della quale Beppe Grillo ha parlato in generale della sua campagna di critica nei confronti delle grandi aziende. Come dire: una chiacchierata tra amici per farsi quattro risate davanti a una buona bottiglia di vino. Eppure, da che mondo è mondo, la verità si dice quando si scherza. In vino veritas.


panorama

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Polemiche. SI è chiuso ieri il viaggio di Benedetto XVI in Camerun e in Angola: i media internazionali lo hanno travisato

Soltanto l’Africa ha orecchie per il Papa? di Luigi Accattoli segue dalla prima Gli appelli c’erano – e ora li richiamerò – come c’era l’Africa con folle che sono arrivate al milione della messa di Luanda, ma i responsabili della grande comunicazione hanno scelto di tenerli bassi in coerenza con due convincimenti pigri e partigiani: che l’Africa sia notizia triste e che il Papa interessi quando confligge con la libertà sessuale dell’Occidente ma non quando ne condanna la “cupidigia” che affama i poveri del mondo.

Benedetto è andato nel Camerun e in Angola anche perché – come ha detto domenica all’angelus – «gli uomini e le donne di ogni parte del mondo volgano i loro occhi all’Africa” così “assetata di giustizia e di pace». Ma questo risultato non l’ha ottenuto. Si può dire che ogni giorno il Papa abbia parlato dei cristiani che laggiù si fanno alleati dei più derelitti. Ha ricordato “la scelta dei poveri” compiuta dal Sinodo africano del 1994 ed ha affermato con solennità a Luanda – davanti alle autorità dello Stato e al Corpo diploma-

Sui giornali e nelle tv si è parlato solo di aborto e preservativi, ma nelle parole del pontefice c’era soprattutto il dolore per povertà e violenza tico – che «la Chiesa la troverete sempre accanto ai più poveri di questo continente». Alla comunità internazionale ha posto come “urgente” questo insieme di interventi: «Coordinamento degli sforzi per affrontare la questione dei cambiamenti climatici, piena e giusta realizza-

zione degli impegni per lo sviluppo indicati dal Doha round, realizzazione della promessa dei Paesi sviluppati di destinare lo 0,7 % del loro PIL agli aiuti per lo sviluppo».

Oltre alle parole così esigenti del Papa, i media disponeva-

no del documento preparatorio del Sinodo africano che si terrà in Vaticano il prossimo ottobre (pone a programma della Chiesa africana “la riconciliazione, la giustizia e la pace”), che Benedetto ha consegnato ai vescovi giovedì e nel quale per esempio si incontra questa denuncia delle multinazionali: «Continuano a invadere gradualmente il continente per appropriarsi delle risorse naturali. Schiacciano le compagnie locali, acquistano migliaia d’ettari espropriando le popolazioni delle loro terre, con la complicità dei dirigenti africani. Recano danno all’ambiente e deturpano il creato che ispira la nostra pace e il nostro benessere, e con cui le popolazioni vivono in armonia». Rilevante è stato anche l’appoggio dato dal Papa agli episcopati nella loro azione di denuncia della corruzione dei governanti: «Di fronte al dolore o alla violenza, alla povertà o alla fame, alla corruzione o all’abuso di potere, un cristiano non può mai rimanere in silenzio» ha detto il primo giorno arrivando a Yaoundè. In quella stessa occasione ha pronunciato parole che dovrebbe-

ro inquietarci, se avessimo il cuore per udirle: che oggi «l’Africa soffre sproporzionalmente: un numero crescente di suoi abitanti finisce preda della fame, della povertà e della malattia» e ciò avviene anche a motivo dello “scompiglio finanziario” che ha la sua origine e i suoi responsabili nei paesi del benessere.

Altrettanto forti sono stati i moniti che il Papa ha rivolto agli africani, in particolare nell’omelia di domenica, quando ha evocato le “nuvole del male” che hanno “ottenebrato anche l’Africa”. Dei mali che gli africani infliggono a se stessi ha tracciato questa elencazione biblica: «Pensiamo al flagello della guerra, ai frutti feroci del tribalismo e delle rivalità etniche, alla cupidigia che corrompe il cuore dell’uomo, riduce in schiavitù i poveri e priva le generazioni future delle risorse di cui hanno bisogno per creare una società più solidale e più giusta». Essendo stato 16 volte in Africa con Papa Wojtyla, credo di poter concludere che di più Benedetto XVI non poteva dire. Né poteva trovare meno ascolto nel vasto mondo.

Identità. Come i rampolli di An, idee chiare e denti affilati, si preparano a entrare nel “Partito degli italiani”

I diktat di Azione giovani al Pdl di Antonella Giuli

ROMA. «Non ci faremo mai dettare l’agenda da nessuno, né da Fini né da Berlusconi». I giovani di An, all’indomani dello scioglimento del partito, mettono subito le cose in chiaro. Perché magari non sapranno quando e come fare il congresso nazionale di Ag (ma ci sarà eccome, assicurano), però almeno sull’identità e sull’autonomia dell’organizzazione, anzi, delle diverse organizzazioni che provengono dai bei tempi del FdG e del Fuan, ecco su questo le idee le hanno Per chiarissime. chiacchierare sul futuro della meglio gioventù d’Italia chiamiamo Michele Pigliucci di anni 27, almeno 10 di militanza alle spalle e oggi presidente nazionale di Azione studentesca, sigla-costola di Azione giovani che An creò anni fa per aggregare i ragazzi nelle scuole.

mandato scaduto da circa un paio d’anni, nessuno ha ancora oggi chiesto il congresso per rimpiazzarla. Ma non si tratta in questo caso della sindrome del cesarismo che pende sul nome di Berlusconi, semplicemente Pigliucci tiene a chiarire che «l’operato di Giorgia è stato ed è talmente prezioso che finora nessuno, nessuno, ha mai pensato fosse necessario congedarla». Co-

Michele Pigliucci, 27 anni, delfino della Meloni alla reggenza di Ag: «Rimarremo di destra. Né Fini né Berlusconi detteranno la nostra agenda»

C’è chi, dentro An, considera Pigliucci il candidato più probabile (e più forte) a prendere in un futuro neanche troppo lontano il ruolo del ministro Giorgia Meloni, non al ministero naturalmente, ma alla guida di Ag, di cui la Meloni è a tutt’oggi il reggente indiscusso. Indiscusso perché, a

me entrerà dunque questo assai coeso gruppo nella più allargata famiglia del Pdl? «Ci entrerà forte del proprio bagaglio culturale, militante e identitario. Perché i giovani di Forza Italia, con i quali avvieremo a breve un tavolo di concertazione per arrivare a un programma comune e condiviso, portano sicuramente un contributo umano importante, ma diciamo pure le cose come stanno: la tradizione e la storia che abbiamo noialtri beh, francamente… davvero non teme confronti». E con il simbolo come la mettete? «Personalmente non sono un affezionato della Fiaccola in

senso stretto. O meglio, non nel senso nostalgico che spesso nasce intorno a certi simboli. Dirò di più: la considero così carica di significato che addirittura me lo auguro che non venga utilizzata nel Pdl».

Circolano voci contrarie, che anzi vorrebbero la possibilità di usare la Fiaccola come merce di scambio sul probabile nome della nuova sigla giovanile. «“Giovani della libertà”? Boh, può darsi, le ipotesi sono ancora al vaglio. Ma ripeto, non ci facciamo dettare l’agenda e le regole da nessuno, né da Berlusconi né da Fini». Che domenica ha detto che il Pdl non sarà un partito di destra... «Noi saremo sempre orgogliosamente di destra. Diventare un partito nazionale non può e non deve cozzare con una simile connotazione». Avrete anche voi un 30% di rappresentatività dando ai giovani azzurri il 70%? «Non accadrà mai». E chi sarà il vostro capo, Fini o Berlusconi? «Giorgia Meloni».


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il paginone

segue dalla prima AAllied Force era il nome in codice dell’operazione aerea con cui la Nato si riprometteva di punire Milosevic e far cessare la violenza dei suoi paramilitari e della polizia sulle popolazioni kosovare di etnia albanese e rom. Da allora tanti avvenimenti sono accaduti - attacco all’America, cacciata del governo dei Talebani, guerra in Iraq ed eventi conseguenti, di nuovo Afghanistan, poi Libano e Israele, attacco contro Hamas a Gaza ed altro ancora - da far sembrare l’inizio del 1999 un tempo assai remoto. Eppure, quel tempo è così fresco nella mia memoria, vicino anche nei particolari. Succede così, credo, quando si vivono gli eventi in diretta, e l’effetto può continuare per anni. Ero allora ai primi giorni di esperienza quale Capo di Stato Maggiore della Difesa, poco più di un mese dopo quasi quattro anni al vertice dell’Aeronautica. Per effetto di una nuova legge, ero anche comandante operativo delle nostre Forze Armate. Ricordo che il 15 febbraio 1999 il ministro nell’affidarmi l’incarico, mi augurava buona fortuna, non dimenticando di rammentarmi che avrei avuto di fronte un periodo complesso, complicato e difficile. Il senatore Scognamiglio aveva ragione, e io lo sapevo. Tante questioni importanti erano da tempo sul tappeto, all’interno o sui tavoli internazionali, ed altre ancora erano nell’aria. A tutto avremmo dovuto far fronte con un governo sorretto da una maggioranza precaria, spesso minacciato al suo stesso interno e, sul piano militare, con uno strumento turbato dal treno in corsa di una ristrutturazione profonda.

Al castello di Rambuillet i colloqui si arenano Sul piano della politica estera, era in atto il braccio di ferro tra Milosevic ed il resto dell’ Occidente. Seguivamo ora per ora l’andamento dei colloqui attraverso i resoconti lampo stilati dalla bravissima Laura Mirachian, ministro plenipotenziario, e da un nostro ufficiale inviato quale consulente militare. Ma nel castello gli eventi andavano male e, pur tra saltuari sprazzi di speranza, c’era già nell’aria la cupa ineluttabilità della guerra. La conferma, se pur ce ne fosse stato bisogno, veniva da un colloquio personale con il generale Wesley K. Clark, passato a salutarmi in Via XX Settembre. Dopo l’esperienza con l’operazione Deliberate Force sulla Bosnia, dove, attraverso l’alternanza di attacchi aerei limitati e azione diplomatica si era giunti agli accordi di Dayton, si era radicata nella Nato la convinzione che la stessa tattica avrebbe funzionato an-

Il 24 marzo del 1999 la Nato bombardava la Serbia. Il Capo di Stat

Quelle bombe d

di Mario Arpi che con i serbi. Lo stesso Clark mi era sembrato convinto che, dopo una prima serie di attacchi efficaci e mirati, Milosevic sarebbe tornato al tavolo delle trattative con

scambio di opinioni a Carlo Scognamiglio.

La campagna aerea Conoscevo nel dettaglio la pianificazione della campa-

Dopo l’esperienza in Bosnia, dove l’alternanza di attacchi aerei e diplomazia aveva portato agli accordi di Dayton, la Nato era convinta che la stessa tattica avrebbe funzionato con i serbi più miti consigli. Personalmente ero di parere diverso. Nato sul confine orientale, sapevo bene che la Serbia non è la Bosnia, e quale fosse per i nazionalisti serbi la valenza del Kosovo. Ricordo di aver espresso le mie perplessità, ma senza incidere in alcun modo sulle convinzioni di Clark, e di aver riferito subito dopo questo

gna aerea, ma le esperienze precedenti in Iraq mi dicevano che, se non fosse andato ad effetto il primo colpo, difficilmente si sarebbe potuto mantenere il fasamento e i tempi previsti. Intanto passavano i giorni. Secondo i piani, oltre trecento velivoli erano già schierati sulle nostre basi, Javier Solana, aveva avuto dal Nac/Dpc (Consiglio Atlantico)

una cambiale in bianco ed aveva già predisposto l’Act Order, l’ordine di attacco, che a Rambuillet pendeva sulle teste dei delegati come una spada di Damocle. Intimidazioni inutili, perché gli eventi comunque precipitarono. Ricordo le predisposizioni per il piano nazionale di difesa aerea al sud, l’infittirsi degli accordi logistici con gli alleati, che richiedevano sforzi sempre maggiori, l’attività dei reparti della nostra Aeronautica, senza sosta per impossibilità di avvicendare i piloti dei Tornado per la terza volta in combattimento in questo dopoguerra, l’iniziazione degli AV.8 Plus della Marina, le visite alla Brigata Garibaldi, schierata in assetto di guerra a Katlanovo, in Macedonia, appena a sud del confine, accampata per lunghe settimane su siti diradati, ma pronta a


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Le date

Settantasette giorni di raid aerei e trattative

to Maggiore italiano era Mario Arpino. Che ricorda per noi

di dieci anni fa

no muovere. E poi le lunghe file di profughi a Kukes e a Morini, gli ospedali, le visite ai campi di sfollati in Albania e in Macedonia, i lunghi colloqui, anche notturni, con il Presidente della Repubblica, i meeting ministeriali, gli aggiornamenti continui con il generale Orofino, capo del Comando Operativo di Vertice interforze, e con l’ammiraglio Pianigiani, capo del Reparto

all’opposizione, ha retto bene nonostante il “turismo di guerra” a Belgrado di alcuni noti personaggi, il successo personale del Presidente del Consiglio D’Alema al summit del cinquantenario della Nato a Washington, il discorso un po’ difficile ma ingegnoso di Carlo Scognamiglio sulla “difesa integrata”, l’angoscia per l’ingresso o meno delle unità terrestri, i problemi delle bombe

Al di là della questione umanitaria, oggi è ancora prematuro stabilire se l’operazione Allied Force sia stata un successo politico-strategico di lungo termine, o solamente una vittoria militare informazioni e Sicurezza dello Stato Maggiore. Chi non si ricorda, di quei giorni, i problemi esistenziali del nostro governo, che poi, anche grazie

in Adriatico, i danni collaterali… Se per me tutto questo richiedeva continue corse a Bruxelles, relazioni in Parlamento e colloqui giornalieri in

Foto grande, un’immagine di profughi kosovari nel campo di Kukes. A sinistra: Javier Solana, allora segretario generale Nato; l’ex presidente Usa Bill Clinton con il gen. Jumper, comandante delle forze aeree americane in Europa; Slobodan Milosevic, allora presidente della Federazione Jugoslava; il Capo di Stato Maggiore Mario Arpino (a destra) assieme al gen. Wesley Clark, responsabile militare della Nato; Ibrahim Rugova, leader dell’ala moderata degli albanesi del Kosovo

24 marzo C’è il primo attacco nella notte; piovono bombe dell’Alleanza su Pristina e Belgrado. Obiettivo primario: colpire le postazioni militari di Milosevic. 25 marzo La Jugoslavia rompe le relazioni diplomatiche con Usa, Gran Bretagna, Germania e Francia. 27 marzo I profughi kosovari scappano a migliaia, fuggono da Milosevic che ha ordinato la “pulizia etnica”. Si ammassano ai confini di Macedonia, Albania e Montenegro. 31 marzo Tre soldati Usa sono catturati dai serbi. 1 aprile Incontro tra Milosevic e il leader kosovaro Rugova. 3 aprile Primo bombardamento del centro di Belgrado. Intanto Milosevic ordina di incendiare villaggi, città e case del Kosovo. La Nato mostra le immagini aeree della devastazione. 9 aprile Il segretario Onu Kofi Annan propone un piano in 5 punti; appoggiato dalla Nato ma respinto da Belgrado. 14 aprile Eltsin nomina Chernomyrdin suo rappresentante speciale a Belgrado. 17 aprile Avvio dell’operazione umanitaria Allied Harbour in Albania. 22 aprile Colpita la residenza di Milosevic. 23 aprile Bombardata la sede tv di Belgrado, 10 morti. L’Ue adotta un embargo petrolifero contro la Jugoslavia. 28 aprile Il vice primo ministro jugoslavo Draskovic viene rimosso per dichiarazioni favorevoli a forza Onu nel Kosovo. 2 maggio Liberati i tre soldati Usa. 5 maggio Belgrado autorizza il trasferimento di Rugova a Roma. 6 maggio Il G8 adotta un piano per una risoluzione da far approvare al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. 8 maggio Colpita l’ambasciata cinese a Belgrado. 13 maggio Bombe Nato su un accampamento di profughi kosovari, 87 morti. L’Alleanza giustifica l’errore (non sarà l’unico) dicendo che erano “scudi umani”. 17 maggio Il presidente finlandese Martti Ahtisaari (premio Nobel per la pace nel 2008) diviene mediatore della Ue per il Kosovo. 27 maggio Il Tribunale penale internazionale accusa Milosevic di crimini di guerra e contro l’umanità. 28 maggio Belgrado accetta i principi contenuti nel piano del G8. 3 giugno Missione positiva di Chernomyrdin a Belgrado. Il parlamento serbo approva la proposta di pace. 6 giugno I colloqui sulle modalità di ritiro delle forze rischiano la rottura. 8 giugno I ministri degli Esteri del G8 trovano un accordo sui vari passi da fare per giungere alla pace. 9 giugno Viene firmato l’accordo di pace. 1 aprile 2001 Milosevic viene arrestato e trasferito all’Aja. 11 marzo 2006 Milosevic muore per presunto arresto cardiaco.

conferenza criptata con i comandanti alleati, significava anche rispondere alle magistrature ordinarie locali che inquisivano su tutto, ottenere approvazioni politiche sulla parola ed in tempo reale, necessità di spiegare a chi non capiva, di tenere a bada chi aveva capito troppo e di fare opera di convincimento su chi dubitava. Notte in bianco, trascorsa al telefono, per una quasi-crisi con i francesi ai margini del summit europeo di Colonia, disputa sanata grazie ad un nostro intervento sugli obiettivi da battere all’alba del giorno dopo. Poi, finalmente, il 13 giugno la Garibaldi entra incruentemente in Kosovo.

È stato vero successo? Ecco, questo è il film che le nuove vicende del Kosovo mi riportano alla mente. Al di là della questione umanitaria che ha originato la guerra, forse oggi è ancora prematuro stabilire se l’operazione Allied Force sia stata un successo politico-strategico di lungo

termine, o solamente una vittoria militare. Sono storie di guerra, di cultura e di costume, e non sempre e non per tutte il ricordo è qualcosa di gradevole. Dopo la guerra, sono stato perfino processato - e assolto - da un tribunale penale ordinario con l’accusa di “tentata strage colposa”. Non credo che agli altri miei colleghi della Nato sia mai capitato qualcosa di simile. Però, penso anche che l’esperienza del Kosovo e, prima ancora, tutte le altre, dal Golfo al Libano, dalla Somalia al Mozambico, e, poi Timor, l’Afghanistan e l’Eritrea, e poi l’Iraq e ancora il Libano, siano tutte vicende che, sommessamente, stiano contribuendo a migliorare il modo di intendere, di vedere e di sentire degli italiani. Forse, è presto per esserne certi, ma ad una concezione ancora provinciale della nostra politica, sta lentamente subentrando la consapevolezza che questi contributi, certamente onerosi, a volte dolorosi, alla fine ci premino con nuova dignità e ci collochino tra coloro che effettivamente si impegnano per un mondo migliore. E, lo dico sottovoce, può anche darsi che, alla distanza, restituiscano le forze armate all’affetto ed alla considerazione degli italiani.


mondo

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Diplomazie. Feluche al lavoro per ricucire gli strappi sul Tibet mentre l’Occidente si mette in fila per parlare con la Cina

Divorzio alla cinese Al G20 di Londra Hu Jintao snobba Sarkozy e porta il dragone tra i grandi del mondo di Vincenzo Faccioli Pintozzi l G20 di Londra, che si apre fra una settimana nella capitale britannica, avrà senza alcun dubbio due grandi protagonisti: la crisi finanziaria internazionale e la Cina. Si tratta di due fattori con cui gli attuali leader mondiali non hanno ancora fatto i conti in maniera esaustiva: il primo per motivi tecnici, il secondo per motivi temporali. La crisi, infatti, ha colpito il mondo con una forza che affonda le sue radici all’inizio del secolo scorso e ha una dimensione tale che la rende sconosciuta ai grandi del

I

tuare in Gran Bretagna, resa pubblica ieri, ha il sapore di un’udienza concessa, più che di un equo incontro fra leader. Ovviamente, la grande aspettativa viene dal faccia a faccia fra Hu e il nuovo presidente degli Stati Uniti, che insieme dovranno discutere di conti aperti da tempo e di nuove alleanze per onorarle.

Ma la prova più evidente del carattere reale della partecipazione del leader cinese viene dal grande escluso dal mazzo: Nicolas Sarkozy, che raggiun-

La prima grande rupture fra i due governi è avvenuta alle Olimpiadi del 2008, quando l’Eliseo decise di onorare il Dalai Lama nonostante le proteste ufficiali del dragone e il boicottaggio mondo. Le risposte avanzate fino ad ora per cercare di arginarla si sono dimostrate deboli e frammentarie. Il dragone asiatico, invece, si è chiuso per decenni in sé stesso e ha ignorato il resto del pianeta, un isolazionismo voluto che ha utilizzato per costruire una realtà politica ed economica tale da non poter più essere ignorata da nessuno.

Se a questo si aggiunge il fatto che nell’ombra (vera o presunta) Pechino ha passato il suo tempo libero ad acquistare i buoni del Tesoro americano e buona parte del debito estero europeo, si arriva a capire quanto il meeting inglese produrrà alleanze - ed equilibri geopolitici - mai visti prima sullo scenario internazionale. Il governo cinese, discreto per natura ed eredità culturale, non usa i toni tipici a cui sono abituati gli osservatori occidentali per rivendicare il suo nuovo ruolo nel mondo. Pur potendo a ragione annunciare in grande stile il suo ingresso nel club delle grandi nazioni, preferisce mantenere un profilo basso e procedere come se nulla si stia profilando all’orizzonte. Ma neanche il più abile discepolo di Confucio sarebbe in grado di mantenere il silenzio su sconvolgimenti di questa natura, e la lista degli incontri che il presidente Hu Jintao intende effet-

ge così la tanto attesa rupture annunciata in campagna elettorale. Il problema è che questa non avviene in campo economico o sociale ma in politica estera, dove la Francia - terra di grandeur e di malriposte attese - sembra non riuscire più a conseguire risultati all’altezza delle aspettative. L’annuncio ufficiale che cancella l’incontro fra l’inquilino dell’Eliseo e il presidente della Repubblica popolare cinese ha, in tempi di crisi, un sapore estremamente amaro. Nel momento in cui tutto il mondo guarda alla Cina come alla risorsa estrema per salvare il salvabile in campo finanziario, Parigi rischia di perdere il treno più ambito per una questione antica.

L’unica consolazione è che la motivazione alla base di questo schiaffo è nobile: il Tibet, terra martoriata proprio dalle truppe cinesi, che Parigi ha più volte difeso in maniera pubblica nonostante i ripetuti avvertimenti di Pechino. Il vice ministro cinese degli Esteri, He Yafei, è stato abbastanza chiaro: «Auspichiamo che la Francia possa intraprendere delle azioni concrete per rispondere esplicitamente e positivamente ai grandi timori della Cina, affinché le relazioni sino-francesi possano andare nella giusta direzione». Nessun cenno di scuse all’Eliseo per lo sgarbo commesso, né

un tentativo di addolcire la pillola. Parlando ai giornalisti, He ha chiarito che la decisione nasce dall’atteggiamento dei francesi rispetto al Tibet e al leader indiscusso della regione, quel Dalai Lama che Pechino cerca in tutti i modi di tenere frenato nell’esilio di Dharamsala.Tanto che il Sud Africa, obbediente ai diktat del nuovo padrone mondiale, non ha concesso il visto al leader buddista che chiedeva di poter svolgere nel Paese un ciclo di conferenze.

Un atteggiamento che i francesi non hanno tenuto, onorando il premio Nobel per la Pace in diverse occasioni e rispondendo picche alle richieste dell’ambasciatore cinese a Parigi. Dopo tre richieste disattese, il governo cinese ha ritenuto che fosse giunto il momento per dare un segnale forte alla comunità internazionale e alla popolazione interna: alle minacce sono seguite i fatti, e Hu non incontrerà Sarkozy. D’altra parte c’era da aspettarselo, dopo le proteste della popolazione cinese per l’atteggiamento dell’Eliseo alla vigilia delle grandi Olimpiadi della scorsa estate. Ricevendo il Dalai Lama a due settimane dall’inizio dei Giochi, il presidente francese aveva voluto dare un segnale forte al dragone: va bene l’ingresso fra i grandi, ma si deve dialogare sui diritti umani e sulla situazione del Tibet. La reazione era stata spaventosa. Subito dopo l’incontro, alla televisione di Stato, il solito vice ministro He Yafei aveva ammonito severamente i transalpini: «Sollecitiamo la Francia ad avere chiare priorità riguardo alle relazioni bilaterali e agli interessi dei due popoli... al fine di capire a pieno il danno alle relazioni tra Cina e Unione Europea creato dall’incontro tra Sarkozy e il Dalai Lama». Da parte sua, l’agenzia di stampa governativa Xinhua - la “Nuova Cina”, unica fonte ufficiale di notizie - aveva pubblicato un sondaggio di opinione condotto dal quotidiano Tempi globali su 64mila cittadini cinesi. Il 98 per cento di loro si era espresso a sostegno della decisione di Pechino di rinviare il

Il presidente francese Nicolas Sarkozy abbraccia il suo omologo cinese Hu Jintao. La Francia vanta 44 anni di rapporti ottimi con la Cina. Sotto, Obama. Nella pagina a fianco, giovani monaci


mondo

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Un giovane lama “si suicida” e scatena la rivolta dei compagni

Nuovi arresti in Tibet Monaci in rivolta di Massimo Fazzi a rivolta tibetana contro la presenza cinese sembra impossibile da fermare. Nonostante una campagna di arresti, torture e intimidazioni, infatti, i monaci buddisti continuano a guidare la protesta popolare nei confronti dello strapotere cinese nella regione. E a manifestare a favore e in memoria del Dalai Lama in esilio in India. È di due giorni fa la notizia che la polizia cinese ha arrestato un centinaio di monaci buddisti, ma la cosa che colpisce è che la notizia sia stata riportata e confermata dalla Xinhua, l’agenzia governativa di Pechino. Non si è riuscito, quindi, a bloccare la fuga di notizie dalla regione. Gli arresti sono la risposta delle autorità alla protesta inscenata da circa duemila monaci e cittadini la sera del 21 marzo davanti alla stazione di polizia a Lajong nella contea di Machu, nel Qinghai tibetano, per la morte del monaco Tashi Sangpo, forse suicidatosi per sfuggire alla tortura. Tashi, 28 anni, era residente nel locale monastero di Raja: arrestato dalla polizia il 20 marzo, insieme ad altri sei monaci, era colpevole di aver esposto la bandiera del Tibet. Un crimine che la Repubblica popolare cinese definisce “alto tradimento” e punisce con almeno cinque anni di riabilitazione tramite il lavoro. In pratica, i lavori forzati.

L

suicidio del monaco Tashi Sangpo - dice all’agenzia AsiaNews Urgen Tenzin, direttore del Tibetan Centre for Human Rigths and Democracy - è indicativo della brutalità dei funzionari cinesi.Tashi Sangpo, che ha dispiegato la bandiera tibetana sul monastero, è stato condotto in un centro di detenzione, dove la tortura è un metodo che sfida tutte le norme e i regolamento sul trattamento dei detenuti». «Speriamo - aggiunge - che il suicidio di questo monaco non si risolva solo in critiche della comunità internazionale, che deve rendersi

Tashi Sangpo, 28 anni, si sarebbe gettato nel Fiume Giallo per sfuggire, dopo l’arresto, alle torture della polizia

Pechino ha accumulato negli ultimi anni buoni del Tesoro americano e gran parte del debito estero europeo. Ora è arrivato il momento di riscuotere i debiti, o concedere nuovo credito vertice tra Europa e Cina in risposta all’annunciato incontro tra Sarkozy e il Dalai Lama. Appena 1.325 persone avevano votato «no» alla decisione. Non solo. Un altro sondaggio condotto a luglio tra un numero ancora più grande di cinesi, ben 170mila, verificava che l’89 per cento degli intervistati era contrario alla presenza di Sarkozy alle Olimpiadi di Pechino. Il capo di Stato francese aveva detto che avrebbe partecipato alla cerimonia di apertura dei Giochi solo se Pechino avesse fatto passi avanti nel dialogo politico con i rappresentanti del Dalai Lama.

Il governo cinese ha considerato questa presenza condizionata come un insulto, un essere messo sotto giudizio come un Paese di terzo ordine. E non ha gradito, né dimenticato. Quali saranno i veri strascichi di questa vicenda? Quanto il mancato incontro fra i due capi di Stato potrà influire sull’economia d’Oltralpe? La risposta è meno scontata di quanto si pensi. A differenza della Germania, che

batte su Pechino per i diritti umani ma può contare su una presenza poderosa in territorio cinese, la Francia non ha crediti da riscuotere.

L’interscambio economico e la bilancia commerciale pendono evidentemente a favore della Cina, che esporta in territorio francese (soprattutto materiali tessili), ma non è un mercato favorevole alle merci europee. Va considerato, certo, l’impatto positivo che potrebbe ricavarsi Sarkozy: difensore del Tibet, amico del Dalai Lama, pronto a perdere qualcosa in campo economico per non abbassare la bandiera alzata sul campo dei diritti umani. Ma visti gli scioperi massicci che paralizzano Parigi e le altre grandi città francesi, e il calo di popolarità del nuovo Napoleone, si tratta di una mossa quanto meno azzardata. Certo, la diplomazia ha sempre fatto (e continuerà a fare) miracoli, in ambiti come questo. Il rischio è che non capisca il nuovo padrone, che stavolta viene da lontano e da Oriente.

Alcuni testimoni oculari hanno visto Tashi correre fuori dalla stazione di polizia e saltare nella acque del fiume Machu (Fiume Giallo, per i cinesi). La forte corrente lo ha subito trascinato via e non se ne hanno altre notizie. Secondo il gruppo Free Tibet, che da anni lotta per l’autonomia del “tetto del mondo”, nella zona c’è una grande tensione dopo che il 19 marzo i monaci di Raja hanno issato una bandiera nazionale del Tibet sopra la sala di preghiera. Il giorno dopo la polizia ha rimosso la bandiera con la forza e il 20 marzo ha arrestato i sette monaci, con l’accusa di avere issato una bandiera “separatista”. Lo stesso 21 marzo, duemila monaci e cittadini hanno a lungo protestato davanti alla stazione di polizia, accusando gli agenti di aver spinto Tashi alla morte: il monaco si sarebbe gettato nel fiume per sfuggire alle percosse e alle torture. Hanno lanciato pietre e malmenato almeno un funzionario. L’agenzia Xinhua riferisce che in seguito la polizia ha arrestato almeno 95 monaci coinvolti nella protesta e sta cercando gli altri. Nonostante le imponenti misure di sicurezza imposte da Pechino da oltre un mese, nella regione crescono la tensione e gli incidenti. Fonti locali dicono che ci sono arresti ogni giorno e che da febbraio ci sono stati almeno 60 fermi nel solo Sichuan tibetano. «Il

conto della insicurezza della situazione dei monaci e delle monache nei monasteri e anche di tutti i tibetani in Tibet».

Preoccupazione per le “serie conseguenze” che la manifestazione potrebbe avere per i tibetani della contea di Machu è stata espressa anche da Stephanie Brigden, direttrice di Free Tibet: «Con il Tibet bloccato e tenuto fuori dalla vista del mondo, la Cina può impunemente agire contro i manifestanti. Free Tibet è profondamente preoccupato per la sicurezza futura di tutti i tibetani della zona».


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Libano. Morto in un’esplosione a Sidone Kamal Medhat. Abu Mazen: «È un’azione terroristica»

Un attentato uccide numero 2 dell’Olp di Luisa Arezzo lmeno quattro persone, tra cui il numero due dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina in Libano, Kamal Medhat, sono state uccise in un’esplosione a Miye Miye, un campo profughi situato nel Sud del Paese. Secondo quanto riferisce la tv araba al Jazeera, l’esponente di Fatah, meglio noto come Kamal Maji, è rimasto vittima dello scoppio di un ordigno, saltato in aria al passaggio della sua vettura nei pressi di Sidone. Nell’attentato sono morti anche due suoi accompagnatori, uno dei quali era Akram Daher, il responsabile dello sport per l’Olp. La bomba è stata azionata quando il politico palestinese si trovava a bordo della sua auto nel percorso compreso tra l’ultimo posto di blocco libanese e il primo gestito dai palestinesi che consente l’ingresso nel campo profughi. Medhat, che è stato capo dei servizi segreti palestinesi, di recente era riuscito a salvarsi da un altro attentato, puntando il dito contro un esponente salafita del campo profughi di Ain al-Halwa, noto per dare ospitalità a uomini vicini all’organizzazione terroristica al Qaeda. Secondo la testimonianza, giunta dalla Cisgiordania, del fratello di Medhat, quest’ultimo era impegnato «nel comitato di riconciliazione fra le fazioni» pale-

A

stinesi in Libano. L’attentato è avvenuto a poche ore dalla fine della conferenza dei ministri degli interni arabi riuniti nel centro di Beirut per discutere delle misure comuni anti-terrorismo.

Secondo le ricostruzioni degli inquirenti, un ordigno - e non un’autobomba come inizialmente riportato - posto sul ciglio della strada nei pressi dell’ingresso del campo profughi di Miye Miye è esploso al passaggio dell’auto sulla quale era a bordo Medhat, esponente di Fatah, il partito del presidente palestinese Mahmud Abbas (Abu Mazen) e principale componente del-

convoglio è precipitata nel cratere scavato dall’esplosione. Zaki ha subito invitato i membri di Fatah a mantenere «i nervi saldi e l’autocontrollo», mentre i soldati dell’esercito libanese, attestati fuori dal campo come impone un accordo libano-palestinese del 1969, hanno circondato il luogo dell’attentato, pochi chilometri lontano dall’altro campo profughi di Sidone, Ayn al-Hilwe, il più affollato dei 12 campi sparsi nel Paese e controllati da milizie palestinesi rivali. Due membri di Fatah erano rimasti uccisi sabato scorso proprio a Miye Miye durante scontri armati tra miliziani. Da dicembre e gennaio scorsi, in concomitanza con la guerra di Gaza, le tensioni erano inoltre tornate a salire tra il partito di Mahmud Abbas e le fazioni islamiche radicali. Osama Hamdan, rappresentante locale di Hamas, ha condannato l’uccisione di Medhat, affermando che «il crimine favorisce Israele». Abbas Zaki gli ha fatto eco, sostenendo che «chi ci guadagna da questo assassinio è il nemico sionista». Anche Mahmud Abbas ha condannato come un «atto terroristico». Il campo di Miye Miye, teatro dell’esplosione, è stato aperto nel 1954 e attualmente conta circa 5mila rifugiati, secondo le stime dell’Unrwa. «È uno dei pochi siti dove sono rappresentate tutte le fazioni palestinesi», osserva l’inviata di Al Jazeera, Rula Amin, sottolineando che qui la tensione è salita dopo la rottura tra Hamas e Fatah.

Medhat, che è stato capo dei servizi segreti palestinesi, di recente era riuscito a salvarsi da un altro agguato l’Olp. Medhat era appena uscito dal campo dove aveva accompagnato il leader dell’Olp in Libano Abbas Zaki in visita a Miye Miye, situato alla periferia orientale di Sidone, 40 km a sud di Beirut. Citando fonti anonime, la tv locale Lbc ha riferito che Zaki, diretto superiore di Medhat, era uscito dal campo solo dieci minuti prima dell’esplosione, ipotizzando che l’obiettivo dell’attentato potesse essere in realtà lo stesso Zaki. La deflagrazione ha devastato la Mercedes nera sulla quale viaggiava Medhat, catapultandola in un vicino fossato, mentre l’altra auto del

Medioriente. Dopo 33 anni un presidente della repubblica di Ankara visita l’Iraq. E solleva il problema curdo. Il leader Talabani lo ascolta

E Baghdad lancia un monito al Pkk di Etienne Pramotton l presidente turco Abdullah Gul è partito ieri pomeriggio per una visita ufficiale in Iraq, la prima di un presidente turco da 33 anni a questa parte. Un segnale che in Medioriente qualcosa di diverso si muove e si sente rispetto ai vaniloqui dei dittatori di turno o delle minacce di marca iraniana.

I

Due anime del mondo islamico tornano a dialogare, quantomeno si incontrano. Da una parte una democrazia islamica, la Turchia, che è riuscita nel tempo e con qualche difficoltà ad avvicinarsi agli standard occidentali del buon governo. Dall’altra, l’Iraq che ha vissuto le lacrime e il sangue della dittatura e della conquista - tramite Washington - di una propria indipendenza politica. E oggi vorrebbe mettersi sulla strada per poter un giorno affermare di avercela fatta. L’ultimo capo di Stato turco a recarsi in Iraq fu, nel 1976, l’allora presidente Farhi Koroturk, che incontrò il suo collega Ahmed Hassan alBakr. Tre anni dopo sarebbe stato Saddam Hussein a prenderne il posto. Nel corso della sua visita a Baghdad, Gul avrà colloqui con il collega iracheno Jalal Talebani, già incontrato a

Istanbul lo scorso 17 marzo, a margine del quinto Forum mondiale dell’Acqua. E il legame fra Turchia e Iraq è molto forte seguendo il corso dell’acqua. Basti pensare alle grandi opere idriche e alle dighe sul Tigri (Dicle) e l’Eufrate (Fyriat) in Anatolia. Infrastrutture civili che hanno molto ridotto la portata in territorio iracheno e siriano dei due fiumi. Un opera monumentale quella del cosiddetto progetto Gap, che conta 8 dighe per imbrigliare il corso del Tigri e ben 14 che ostacolano il deflusso dell’Eufrate, con 19 centrali idroelettriche e, per finire, i 48 milioni di metri contenuti nell’invaso Ataturk. Le autorità di Baghdad avrebbero voluto che Gul si recasse anche nelle città di Erbil e Kirkuk, nel Nord del Paese, e a Najaf nella regione meridionale, ma la sua visita è stata limitata alla sola capitale irachena per motivi di sicurezza.

e della lotta al Partito curdo dei lavoratori (Pkk) che in Turchia è fuori legge. Uno dei suoi leader è il famoso Ocalan, protagonista qualche anno fa di un affaire fra Roma e Ankara, ora in carcere. Gul ha sollecitato i massimi dirigenti iracheni a smantellare le basi da cui i guerriglieri indipendentisti curdi del Pkk nel Nord dell’Iraq lanciano attacchi contro la Turchia. I risultati delle

Nel mirino le basi da cui i guerriglieri indipendentisti lanciano attacchi contro il governo di Istanbul

Durante il suo soggiorno, ha spiegato la tv turca, il leader di Ankara intende discutere della cooperazione economica tra i due Paesi, del tema dell’energia

pressioni (attesi) sono stati immediatamente visibili: o il Pkk «depone le armi o se ne deve andare dal nostro territorio», ha detto il presidente Jalal Talabani, che è curdo, in una conferenza stampa accanto all’ospite turco. Domani la discussione proseguirà. In agenda c’è l’incontro con il primo ministro Nuri al Maliki. E nonostante non sia prevista una visita alla capitale della regione autonoma curda, con il presidente della regione, Nejirvan Barzani, il presidente turco avrà un incontro a Baghdad.


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24 marzo 2009 • pagina 17

Afghanistan. La nuova strategia Usa prevede il depotenziamento di Karzai, mentre la diplomazia scalda i motori per il vertice dell’Aja

Avviso di sfratto dalla Casa Bianca di Pierre Chiartano arzai non ci sta, per quel che vale ormai la sua posizione. L’imposizione di un primo ministro per edulcorare il potere dell’attuale presidente rischia di essere vista come una mossa di stampo coloniale. Nonostante la figura prescelta sia naturalmente un afgano. E il presidente in carica non avrebbe alcuna intenzione di privarsi delle facoltà che, al momento, la Costituzione gli attribuisce. La scorsa settimana ha accusato un non meglio precisato governo straniero - che ha tutta l’aria di essere quello degli Usa - di voler indebolire il governo centrale di Kabul: «Non è il loro lavoro - ha protestato il presidente. L’Afghanistan non sarà mai uno Stato fantoccio».

K

Dichiarazioni che sembrano più dirette all’interno che all’esterno del Paese. Nel frattempo la diplomazia turca è impegnata a preparare un nuovo incontro tra il leader afgano e quello pachistano Asif Ali Zardari, che dovrebbe svolgersi il primo aprile, prima della riunione della Nato prevista in Turchia il 3 e 4 aprile. Lo ha reso noto il quotidiano Today’s Zaman, secondo cui il vertice dovrebbe tenersi prima di quello dell’Alleanza - in occasione del quale saranno prese decisioni sul processo di stabilizzazione in Afghanistan - e della visita del presidente Usa, Barack

IL PERSONAGGIO

Obama, in Turchia prevista per il 6 aprile. Il summit rientra nel progetto di Ankara di riavvicinare Pakistan e Afghanistan rilanciando l’iniziativa denominata «Dichiarazione di Ankara» avviata nel 2007. Un primo vertice trilaterale si era svolto quell’anno nella capitale turca, dietro invito dell’allora presidente Ahmet Necdet Sezer e vi avevano preso parte Karzai e il presidente pachistano dell’epoca Pervez Musharraf. Fu proprio al termine di quell’incontro che venne firmata la «Dichiarazione di Ankara». Il primo documento siglato tra Pakistan e Afghanistan, che tende a rinsaldare i rapporti tra i due Paesi e prevede un patto di non ingerenza interna. E proprio ieri si è parlato A Bruxelles della nuova strategia per l’Afghanistan. Lo ha fatto l’inviato speciale degli Usa, Richard Holbrooke, nell’incontro con il segretario generale della Nato e i 26 ambasciatori alleati. Holbrooke, che nei giorni scorsi aveva già avuto colloqui informali con gli alleati, cerca anche l’appoggio della Ue per aumentare le forze di polizia, «corrotte e inadeguate» secondo l’inviato Usa. Si tratta dell’ultimo giro di colloqui prima della conferenza internazionale sull’Afghanistan, in programma la prossima settimana all’Aja. Nei giorni

scorsi l’inviato speciale della Clinton aveva sottolineato la necessità di coinvolgere Iran e Cina per risolvere la crisi afgana, e di mettere il Pakistan al centro della strategia internazionale per sconfiggere i talebani.

Anche il presidente Barack Obama ha dichiarato che gli Stati Uniti devono avere una «strategia d’uscita» per quel Paese, nonostante l’intensificazione dell’impegno militare, diplomatico ed economico. «Ciò che stiamo cercando di ottenere è una strategia globale», ha affermato domenica Obama in un’in-

Il presidente afgano protesta contro il progetto di “affiancargli” un primo ministro. «No a uno Stato fantoccio» tervista alla trasmissione televisiva della Cbs, 60 Minutes. «Deve esserci una strategia d’uscita - ha sottolineato il leader della Casa Bianca -, ci deve essere la sensazione che non si tratti di un impegno perpetuo, senza fine». Le dichiarazioni di Obama giungono proprio in vista della presentazione della nuovo piano che gli Stati Uniti adotteranno in Afghanistan. È un approccio che prevede non solo un maggiore sforzo militare contro i talebani, ma anche un impegno più intenso a livello diplomatico.

Richard Falk. Da professore di Princeton a relatore speciale dell’Onu sui diritti umani nei Territori occupati. Con un obiettivo: “incastrare” Israele

Un dossier sui crimini di guerra di Gerusalemme di Antonio Picasso ra l’Onu e Israele è difficile che ci sia armonia. Specie dopo un conflitto come quello che ha messo a ferro e fuoco la Striscia di Gaza nemmeno tre mesi fa. Fin dai tempi della Guerra dei sei giorni nel 1967, il Palazzo di Vetro ha emesso svariate risoluzioni, sia da parte dell’Assemblea Generale che del Consiglio di Sicurezza, che chiedevano formalmente a Israele il ritiro delle sue truppe dai territori palestinesi, oppure da quelli egiziani, giordani e siriani. Richieste sempre disattese. Di conseguenza, il tentativo della Commissione delle Nazioni Unite per i Diritti Umani di porre in stato d’accusa Israele per crimini di guerra era, in un certo senso, previsto. Alla guida degli osservatori del Palazzo di Vetro c’è Richard Falk, il professore di Princeton che più volte ha puntato il dito nei confronti delle politiche “segregazioniste e razziste” che tutti i governi israeliani avrebbero adottato nei confronti dei palestinesi. Famoso di Falk fu, appena due anni fa, il parallelo tra l’Olocausto e il “genocidio”dei palestinesi di cui sarebbe responsabile Israele. Accuse di fuoco, quelle di allora, che portarono il governo Olmert a bollare Falk come un antisemita. Oggi però il contenzioso che si sta delineando sembra più complesso per la coincidenza dell’iniziativa di Falk con l’inchiesta del quotidiano israeliano Haaretz, relativa al sospetto che Tsahal abbia usato metodi “disumani” durante il conflitto. In particolare, Tsahal non sarebbe stato clemente nei confronti della popolazione civile, an-

no all’inizio di “Piombo fuso”, cioè di limitarsi a neutralizzare la capacità militare di Hamas, ma che d’altra parte non è perseguibile come crimine dal diritto internazionale.

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Appena due anni fa, Falk paragonò l’Olocausto al “genocidio” dei palestinesi di cui sarebbe responsabile Tsahal che quando era consapevole di colpire obiettivi non militari. Tuttavia, se le accuse fossero fondate - cosa che lo Stato Maggiore israeliano ha già negato - si tratterebbe di un caso di violenze ingiustificate contro la popolazione civile. Certamente un fattore negativo, che confuta gli obiettivi resi pubblici dal ministero della Difesa israelia-

Ma Falk vorrebbe andare oltre. La sua intenzione di creare una commissione di inchiesta ad hoc ha l’obiettivo di concentrarsi sulle cause del conflitto e su come questo sia scoppiato. Vuole capire se il 26 dicembre, data di inizio dei raid, Israele non avesse alternative. La missione di Falk è già di per sé capziosa, in quanto Israele ha più volte giustificato il suo operato sostenendo che fosse stato Hamas, non solo a non rispettare i termini della tregua, ma nemmeno a volerla rinnovare a metà dicembre. Il lancio di razzi da Gaza su Ashkelon e Sderot, infatti, ha rappresentato il casus belli formale secondo cui Israele si è sentito uno Stato minacciato e attaccato e quindi costretto ad entrare in azione. In realtà, è difficile mettere in scacco il governo Olmert se questo ha carte simili da giocare. L’unica possibilità, di conseguenza, è l’inchiesta di Haaretz. Questa è vero che non fa minimamente luce su quanto sta cercando Falk, d’altra parte è il solo elemento di discontinuità rispetto al passato. In precedenza, infatti, i media israeliani si erano limitati a criticare la conduzione di conflitti in termini molto generalistici. Mentre questa è un’inchiesta sul campo che ha una capacità di indirizzo dell’opinione pubblica nazionale e straniera molto più invasiva. Resta da capire se sia presentabile in sede di diritto istituzionale.


cultura

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Critici ritrovati. «In un’opera d’arte non esistono personaggi, ma stati d’animo dello scrittore». Ritorno alla lezione dello storico della letteratura italiana

Elogio di un polemico Fedeltà al ruolo dello studioso, acutezza di analisi, partecipazione civile: l’eredità di Luigi Russo di Filippo Maria Battaglia logio della polemica non sarà forse la sua opera critica più significativa ma, a quasi cinquant’anni dalla morte del suo autore, è forse destinata a essere ricordata come una delle più rappresentative. Luigi Russo (1892-1961) è stato uno degli storici della letteratura italiana più noti del secolo scorso. Ha scritto almeno due raccolte di saggi (Giovanni Verga, Ritratti e disegni storici) che per ampiezza e profondità di analisi potrebbero essere ripubblicati ex novo ancora oggi, e ancora oggi possono suscitare lo stesso impatto di mezzo secolo fa. E soprattutto non ha mai concepito la riflessione e la meditazione teorica separata dall’impegno civile. Un orientamento, questo, che – come ha scritto Edoardo Esposito – ricollega la sua opera con quella di Francesco De Sanctis, sulla linea di uno storicismo di cui Benedetto Croce e Antonio Gramsci costituiscono gli altri indispensabili punti di riferimento.

E

rato ai contenuti della sua critica. Iniziamo dal saggio sui Personaggi dei Promessi Sposi (Laterza, 1952), rielaborato da un corso di lezioni tenuto all’Università di Pisa tra il 1934 e il 1935.

Con una vena di compiacimento, Russo scrive: «Il lettore dotto sa della mia esistenza teorica alla ricostruzione esistenziale, per dir così, del per-

La sua opera è collegata a quello storicismo di cui Croce e Gramsci costituiscono gli altri indispensabili punti di riferimento

in alcuni lavori del Donandoni, del Momigliano, dello Zottoli, per citare gli studiosi meglio e più suggestivamente specializzati in questo genere di ricerche. Ma al di là della ricostruzione storica psicologica dei personaggi di un’opera d’arte, come monadi, aventi valore per se stessi, c’è la ricostruzione dei motivi lirici o oratori di un qualche romanzo incentrati in un personaggio. Il personaggio è un pretesto lirico per il poeta, il personaggio può essere benissimo un analogo pretesto critico per lo storico; invero quello che importa è che, attraverso di esso, si persegua la ricerca dei motivi che lievitano in un’opera d’arte e di quel personaggio può essere il complesso portatore».

Qui, il discorso di Russo si fa ancora più penetrante e apsonaggio di un’opera d’arte, profondito grazie a un parallepoiché in un’opera d’arte e di lo significativo, che avrebbe ripoesia non esistono personag- guardato un altro dei nodi cengi, ma stati d’animo lirici o ora- trali della sua opera: «Avviene tori dello scrittore; non ci sono in questo campo quello che è protagonisti, ma protagonista avvenuto nel campo dei generi vera e unica è la fantasia del letterari: noi possiamo combatPiù di ogni altro, è il filosofo poeta e dell’artista». tere il genere letterario come liberale a influenzare il critico Aggiungendo, più avanti, che la categoria filosofica, obbediente siciliano, sebbene proprio Rus- ricostruzione dei personaggi «è a sue leggi aristoteliche e pseuso nel corso dei suoi studi po- una vocazione della critica ro- do-aristoteliche interne e viaglemizzerà sempre più aspra- mantica, che, attraverso il gran- giante in questa sua dommatimente con l’autore della Storia de esempio del De Sanctis, si è ca astrattezza per i secoli della d’Europa nel secolo XIX. Dun- perpetuata fino ai nostri tempi letteratura, ma siamo legittimaque, Russo «critico mimente trasportati a litante». Ed infatti studiare un qualche nell’Elogio della polegenere letterario nella mica lo studioso di sua formazione storica, in un determinato Delia contesta radicalLuigi Russo, nato a Delia il 29 novembre del 1892, è periodo». mente la turris eburstato un critico letterario italiano. Frequentato il liceo nea assai cara a gramSarà questo uno dei a Caltanissetta, divenne allievo della Scuola Normamatici e formalisti, riterreni di maggiore le Superiore tra il 1910 e 1914. Successivamente prese prendendo così una lescontro e polemica parte alla prima guerra mondiale, verso la quale nuzione di De Sanctis e con il «maestro» Betrì un «ingenuo entusiasmo» per suoi risvolti patriotnedetto Croce: l’esiaccompagnando la tici ai fini del completamento dell’unificazione terrigenza cioè di uno sua opera con toriale italiana. Nell’immediato dopo«storicismo integrauna vivacissiguerra assunse la cattedra di Italiano e le», in grado di acma discussioLatino al Collegio Militare della Nuncompagnare «l’indine dei princiziatella a Napoli. Giunse con grande cecazione di un’assoluta pali problemi lerità la pubblicazione della sua tesi di e astorica poesia con politici e molaurea su Metastasio nel 1915, ma l’inciil riconoscimento derali del suo pit della sua carriera si ha nel 1920: angli elementi storicatempo. Ma la no in cui esce il “Saggio su Verga”. Lo mente determinati di lezione della scrittore siciliano resterà sempre il princui si sostanzia». Di storico della cipale oggetto di interesse di Russo, tanto una poetica – come ha letteratura che nel 1952, nel volume “Il tramonto del fatto notare Esposito – italiana non letterato”, troviamo un intervento su intesa come generale si fermò di certo qui. “Verga poeta della povera gente”. Morì a Marina di mitologia umana di Messo a fuoco il metoPietrasanta il 14 agosto 1961. uno scrittore e quindi do, occorre forse dare profondamente radiuno sguardo più accu-

A fianco, un disegno di Michelangelo Pace. In basso a sinistra, uno scatto del critico della letteratura italiana Luigi Russo e, sotto, lo scrittore siciliano Giovanni Verga. Nella pagina a fianco, la copertina di un’antica edizione de “I Promessi Sposi” e un’immagine dell’autore del romanzo, Alessandro Manzoni

l’autore

cata nel suo essere uomo nel tempo. Così, nelle pagine iniziali del saggio sui Promessi Sposi, Russo ribadirà di non credere «al valore teorico ed esistenziale delle persone di un’opera d’arte», censurando una «inclinazione realistico - psicologica della critica» che ha finito col prestare a tali personaggi una consistenza di vita quasi indipendente dall’opera d’arte in cui furono concepiti: «Don Abbondio, don Rodrigo, Perpetua,

Agnese, fra Cristoforo, don Ferrante, donna Prassede, diventano tipi del nostro mondo quotidiano, persone di nostra conoscenza, idoli polemici ed affettivi della nostra fantasia. Senza dubbio questa trasfigurazione realistica delle personae di una favola è il migliore omaggio che si possa rendere alla creazione di uno scrittore; è una specie di enfatico riconoscimento della saldezza della sua creazione fantastica: non ombre ma uomini certi, non


cultura

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conosciuto il geniale fastidio di una chiassosa celebrità: principe d’arte ha l’aria di un esule della fama nell’ammirazione alta, ma fredda, del pubblico letterato. È passato lasciando ai suoi contemporanei un retaggio di arte; essi se ne sono lodati, ma con modi così frettolosi che potevano parere persino di insofferenza, senza troppo discutere, senza troppo favoleggiare sul liberale e modesto donatore. La critica non ha esitato a dare il battesimo di grande allo scrittore, ma ha calato subito il velo su cotesta grandezza coronata».

Un rapporto difficile, nato però anche da un’altra ragione:

ma il dramma senza catastrofe e l’andirivieni dubbioso e raffinatamente patetico delle passioni e della fantasie del critico». Inevitabile che a questa seduzione l’opera di Verga non abbocchi dato che assegna al critico «l’unico, semplice e difficile compito di fare pura di critica di poesia». Punto di partenza dell’opera, l’inquadramento storico della narrazione verghiana nel panorama della moderna letteratura europea. Per Russo,Verga è esponente di un «romanticismo provinciale», nato con l’obiettivo di rendere più concreti i motivi del cosiddetto «romanticismo nazionale», che avevano trovato

Lo studio nel quale lo spessore del critico si manifesta meglio è quello su Giovanni Verga. Tutt’oggi, la più completa e approfondita monografia «si sa che gran parte della critica moderna è essenzialmente critica moderna autobiografica; bisogna riconoscere che non la sola letteratura artistica, ma anche quella che appare catafratta di concetti e di sillogismi, è una letteratura di confessioni e di sensazioni. Da Thovez a Serra, quella che più interessa nelle loro pagine non è il giudizio su questo o su quel poeta,

fantasmi labili ma tipi immortali uscirebbero da questo misterioso antro della sua fantasia apolinnea». Sennonché, avverte il critico, se da un lato, così facendo, valorizziamo il capolavoro dell’autore, dall’altro finiamo presto col dimenticarci di lui: «L’opera d’arte non ci sta più dinnanzi come opera d’arte, ma essa è come disciolta ed obliterata in una nuova esperienza di vita; è diventata un semplice pretesto della nostra passione».

Lo studio nel quale l’abilità e lo spessore critico di Luigi Russo trovano forse la loro migliore manifestazione resta però quello su Giovanni Verga. Pubblicato per la prima volta nel 1919 dall’editore partenopeo Ricciardi, è a tutt’oggi la più completa e approfondita monografia sull’autore dei Malavoglia. Negli anni Venti del secolo scorso,Verga è lo probabilmente scrittore più dimenticato dalla critica. Certo, ha autorevoli estimatori (su tutti, Benedetto Croce e Renato Serra), ma viene comunque ricordato come un

«non emozionante esempio di “verismo”» e relegato alla celebrazioni di rito. Lo studio di Russo – ha scritto acutamente Ferdinando Giannessi – ha così anche il merito di soffocare le volubilità commemorative che facilmente si sarebbero ridotte a una sorta di giubilazione. È lo stesso studioso ad ammetterlo, in premessa alla ristampa del suo lavoro (Laterza, 1954): «Giovanni Verga è stato uno scrittore che non ha

in Manzoni il loro più significativo e autorevole rappresentante italiano. Il riferimento all’autore dei Promessi sposi diventa così il metodo di valutazione e di raffronto nelle argomentazioni del saggio. Mentre lo scrittore milanese è mosso da ideali storico-politici, Verga è un uomo di età post-risorgimentale: «Estraneo alla foga dei primi romantici, scruta il proprio mondo nella chiusa intimità delle passioni individuali: il suo dramma – nota Giannessi – è di ispirazione liricamente desolata e così egli rappresenta la voce del suo tempo, allo stesso modo che Manzoni aveva rappresentato quella del suo con accenti di epica esortazione».

L ’a t t i v i t à d i c r i t i c a letteraria di Russo non si fermerà però qui. Almeno altre due esperienze meritano un cenno: la creazione della rivista Belfagor, destinata a incarnare più di ogni altra opera il binomio critica-impegno civile portato avanti dallo studioso siciliano; e la raccolta di saggi Ritratti e disegni storici, pubblicata da Laterza nel 1937 con il sottotitolo “Da Machiavelli a Carducci”, che non ha paragoni sia per la vastità degli interventi raccolti sia per la sintesi mirabile con cui – facendo propri gli insegnamenti di Croce – indagherà su ogni singolo autore ed opera, aldilà degli schemi rigidissimi di certi studiosi. Fedeltà al ruolo del critico, acutezza di analisi, partecipazione civile: l’eredità di Luigi Russo è tutta qui. Ed è una eredità che, in buona parte, può tornare ancora utile nel dibattito culturale contemporaneo.


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cultura

Ritratti. A maggio nelle sale ”Soffocare”, secondo film tratto da un romanzo di uno scrittore di culto, irriverente e complesso

Il tragico circo di Palahniuk di Francesco Lo Dico

A lato, lo scrittore di origini russe Chuck Palahniuk. Nato a Pasco il 21 febbraio del 1962, si è laureato all’università dell’Oregon. Accolto dalla critica come il nuovo Don De Lillo, è giunto alla notorietà in seguito al successo di Fight Club, suo secondo romanzo scritto rabbiosamente a causa del rifiuto opposto al primo lavoro, Invisible monsters, poi pubblicato in tutto il mondo

mmaginate un hellzapoppin’di spietata lucidità, uniteci l’idea di un Freud anfetaminico, e un progetto di scrittura capace di far comprare libri persino a quelli che li avevano usati come zeppe dopo il primo capoverso del Fermo e Lucia. Il risultato è Chuck Palahniuk, autore pluridecorato di Fight Club, a maggio nelle sale con Soffocare, secondo film tratto da un suo romanzo.

I

Americano di seconda generazione, dei nonni ucraini, Paul e Nick, ha preso il cognome. Dell’America il senso dello show, e dell’Europa quello tragico. Di padre russo e madre francese, questo irriverente cittadino di Vancouver nato nel 1962, inizia a scrivere a sei anni. Tormentato dai grotteschi racconti familiari, non può essere altrimenti. Il padre gli racconta fosche leggende sui nonni, storie di corna e di vendetta a tratti inverosimili. O bersele, o affogare. Chuck impara a mettere su carta le sue bugie, e finisce col trovare le sue verità. Il risultato è il primo romanzo, Invisible monsters. Respinto al mittente da un pugno di editori nel ’92, e conteso da decine nel ’99. In mezzo ci sono i bicipiti oleosi di Brad Pitt. La versione cinematografica di Fight Club fa flop nelle sale e boom nei dvd, e il romanzo omonimo, pubblicato tre anni prima, diventa di culto. Il grande schermo identifica le funamboliche abilità narrative di Chuck, le spericolatezze lessicali in equilibrio tra il rutto e il verso sacro, la continua frammentazione dei punti di vista e della logica spazio-temporale. E insieme, inaugura il paradosso interpretativo dei suoi romanzi. Alle folle piace per il ritmo incalzante, per il gioco ripetuto di ellissi e cut, flashback e ritrovati narrativi post-moderni. Esalta il suo ammiccante inseguimento della baracconata e della frase a sensazione piantata nel delirio. Ai critici piace per l’enfasi sarcastica. Teatro dell’assurdo e situazioni limite che corrodono l’impero mediatico con dosi massicce dei suoi stessi veleni. Mitridate, o capo circense. Greco classico o just a businessman. L’equivoco si pone subito. Il successo lo annienta. La risposta la fornisce lui stesso. Nel suo libro meno noto e meno bello, La scimmia pensa la scimmia fa, Palahniuk spiega che «ciascuno di noi vive un

rapporto di amore-odio con gli altri, tendendo ciclicamente a isolarsi con i propri possedimenti e nei propri spazi, e a cercare di farsi accettare nel tessuto sociale attraverso ogni possibile meccanismo offerto dal mondo». Ogni meccanismo possibile, forzato fino all’impossibile. O meglio, fino alle più impossibili delle realtà che è capace di offrire questo mondo. L’assurda vio-

lo stesso individuo. Possono presentarsi come doppio (Fight Club), come donna angelicata (Soffocare),come guida estetica a caccia dello spirito (Invisible monsters) ma sono sempre in lotta nello stesso individuo come principi tragici. Catarsi e perdizione. Fuori e dentro le regole, anarchici fuori perché moralisti dentro, i personaggi di Palahniuk sono eroi bislacchi.

L’unica vera scelta di libertà, per i buffi protagonisti delle sue storie è, il sacrificio. Il desiderio di essere quello che non volevano per sottrarsi al gioco e sparigliare le carte dell’epos lenza di Tyler Darden, fondatore di un club delle botte che straripa in golpe massonico, il club di venerande bagasce e fantasiosi figuri che annegano nel sesso le proprie paure in Soffocare, le allucinazioni di una setta in overdose mistica in Survivor. Situazioni limite, nient’affatto irreali. Psicoterapie per disperati, elettroshock per anime fredde come transistor. «Endorfine che soffocano il dolore», sentenzia lo scrittore americano. Nei suoi racconti ci sono sempre i sommersi e i salvati, mai divisi, a sgomitare nel-

Ma come gli eroi veri, quelli superciliosi, tentano sempre di scansare l’amaro calice. Di scartare il precipizio tragico con una capriola nella parodia. Non ci riescono mai, alla fine. Si ride di gusto, delle loro vicende. Poi però arriva la frase nera nella ridda di voci festanti. Un pezzo di filosofia take away che però ti si incolla in bocca come le più laute vivande. Perché alla fine di quell’helter skelter con cui dribblano la paura, per i personaggi di Palahniuk arriva sempre il momento di

prendere atto. In ciò che di più estremo scelgono di essere, non c’è che la costrizione di ciò che la società vuole che siano. Sono semplici codici a barre di confezioni ipervitaminiche stampigliati da qualcun altro a tavolino. «Siamo solo prodotti», dice Shannon McFarland, top model deturpata da un terribile incidente in Invisible monsters.

L’unica vera scelta di libertà, per questi buffi umani inscatolati come sardine, è il sacrificio. Il desiderio di essere quello che non volevano per sottrarsi al gioco e sparigliare le carte. Guarigione come straniamento. Sfuggire alla prassi dell’acclamazione, con uno scarto che riconduce a se stessi e taglia fuori dal mondo che li ha creati. Proprio come gli eroi con i cosiddetti. Irritante, burbanzoso, visionario. Chuck Palahniuk è il campione dell’audience e il suo assassino. Ha l’intento di scrivere cose «in grado di cambiare se stesso». Noi ci accontentiamo, come spiega Juarroz, di trovare nelle sue storie qualcosa che ci riguarda. Quella grande festa, al centro del vuoto, che ci ossessiona da sempre.


sport entile Zlatan Ibrahimovic, mi permetto di scriverle in quanto timoroso di incontrarla dal vivo e ricevere qualcuna delle sue risposte tipo quelle profferite ieri al povero Massimiliano Nebuloni di Sky. L’ho visto, io come tanti italiani incollati alla tv, avanzare trepidamente verso di lei per proclamarla uomo-partita, come è abitudine del network a fine incontro.

di Manchester, aveva detto di essersi abituato di più a quelli di Mino Raiola, il suo procuratore che di questi tempi ogni anno arriva a Milano per chiedere un ritocco all’ingaggio. La faccenda si fa epidemica, allora.

G

Lo so, o almeno lo immagino: lei era ancora afflitto da un remoto mal di pancia per il Pallone d’Oro finito nelle mani di Cristiano Ronaldo, lo stesso Ronaldo che qualche giorno fa ha inflitto l’ennesima eliminazione in Champions all’Inter e, di conseguenza, un riacutizzarsi del malanno, ma non solo per lei, credo anche per i tanti interisti che l’hanno vista abulicamente giocare all’Old Trafford senza che almeno una volta nella vita potesse essere decisivo in Europa. Certo, nel continente con la Svezia va bene, come ha sottolineato con certa asprezza al collega di cui sopra. E sempre a lui, forse proprio per i dolori sofferti alla pancia negli ultimi giorni, alla domanda su possibili passi falsi in campionato della sua squadra ha risposto di non saper bene «chi si aspetta che facciamo cagate». I crampi, poi, devono esser stati insopportabili, se è giunto a dichiarare di essere in preda a un nuovo attacco di mal di pancia solo perché vedeva il Nebuloni e doveva sottostare alla sua intervista. «A domanda stupida, risposta stupida», ha concluso

24 marzo 2009 • pagina 21

Gli antieroi della domenica. Lettera aperta a un campione (di nervosismo)

Caro Ibra, sei proprio una punta di peso di Francesco Napoli con l’esterrefatto giornalista televisivo, lui sì, sicuramente colto da malore all’intestino. E ha un bel difenderlo il suo Mou che ha sottilmente spiegato la differenza tra le sue prestazioni in Italia e quelle in Europa con un sofisma: «Sapete qual è la differenza fra Ibrahimovic italiano e Ibrahimovic europeo? Dieci centimetri. Se la traversa dell’Old Trafford fosse stata dieci centimetri più alta la palla sarebbe andata in porta, saremmo andati all’intervallo

Alcune immagini di Zlatan Ibrahimovic, che con una doppietta contro la Reggina, domenica ha raggiunto Marco Di Vaio in vetta alla classifica dei capocannonieri di quest’anno con 19 reti. Celebre per i suoi colpi ispirati al taekwondo, è nazionale svedese di origine serba

Abulico all’Old Trafford, dove l’Inter è uscita dalla Champions, incerto sul suo futuro e sui programmi societari: il giocatore è a un bivio sull’1-1, sarebbe stata tutta un’altra partita e non mi avreste chiesto se ero preoccupato di Ibrahimovic che non segna in Europa».Verrebbe da rispondere con un autentico filosofo della pedata, Vujadin Boskov: «rigore è quando arbitro fischia» e, nel caso, «gol è quando palla entra in rete».

Volevo poi informarla, se non lo sa ancora, che di qualche mal di pancia forse è preda anche il suo presidente maximo da quando lei ha messo le mani avanti: «Sono concentrato sullo scudetto, lo voglio vincere. Per il prossimo anno vedremo. In tutti i sensi. Oggi non posso sciogliere i dubbi dei tifosi riguardo alla mia permanenza qui». Mi scuserà, gentile Ibra, sia l’improvvisa confidenza nel chiamarla Ibra e sia il ricordarle le sue parole. Lo faccio per quanti si fossero solo ora messi in ascolto del mal di pancia più cronico mai visto. Massimo Moratti, nel commentare i suoi mal di pancia dopo la sconfitta

Ma Ibra come sta ora? Domenica contro la Reggina, ultima in classifica e ormai a un passo dalla retrocessione, a un certo punto ha dato l’impressione che in fondo era anche un po’ sopravvalutato. Continuava a giocare sulle punte, a girare intorno senza gran costrutto. Poi all’improvviso, come un pigro e solitario panda al risveglio primaverile dei sensi, si è fatto largo con passi degni di un quick step dalla Carlucci il sabato sera (Guillermo Mariotto le avrebbe dato 10) ed è arrivato felpato al limite dell’area di rigore della Reggina. Un tocco morbido, invece dell’attesa sassata, e voilà, il gioco è fatto: 3-0 per l’Inter e tutti a casa. Questo piace di lei. Gol numero 19, primo posto in classifica cannonieri, 3 partite al bigmatch con la Juventus e cospicuo vantaggio (+7) invariato sui rivali. Se dovesse vincere anche quest’anno, sarebbe il suo sesto scudetto consecutivo conquistato in campo (Ajax, 2 con la Juve e 3 con l’Inter). Mi paiono queste le migliori cure per i suoi mal di pancia. Ha talento da vendere e sarà anche per la grazia dei tocchi alla taekwondo che sa mettere a segno – chiedere a Frey della Fiorentina – ; sarà perché conserva il passaporto della sua nazione d’origine, quella Bosnia che tanto avrebbe bisogno di lei per un riscatto anche attraverso lo sport; sarà perché in una delle sue prime partite in Svezia, ancora bambino, porta la sua squadra da uno 04 pesante a un glorioso 8-5 segnando 8 reti (e che mal di pancia collettivo per i suoi avversari); sarà per quella faccia da schiaffi, ma un bel Pallone d’Oro se lo merita per davvero. Però, si riguardi, gentile Zlatan, sarà meglio per tutti, anche per Nebuloni. E non pensi ad altro che a giocare come sa, in Italia e in Europa, con l’Inter ( o con chi sceglierà) e con la Svezia. Cordialmente. P.S. Forse le interesserà sapere che ho parlato con Bonimba (al secolo Roberto Boninsegna), che di bomber se ne intende. La stima tanto e dice che lei «può fare quello che Messi fa, ma Messi non può fare ciò che fa lei». Direi un motivo in meno per i suoi mal di pancia.


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dal ”New York Times” del 23/03/2009

Papa Africa di Barry Bearak anuel Domingos Bento, un anziano contadino di 62 anni, con una gamba paralizzata, aveva viaggiato per 50 miglia, dalla provincia sperduta dell’Angola, per arrivare nella capitale. La notte aveva dormito sotto un lenzuolo, giusto per ripararsi dalla pioggia. Da fervente cattolico non voleva arrivare in ritardo all’appuntamento con il Papa. Benedetto XVI avrebbe officiato la Messa, nel suo ultimo giorno del primo viaggio in Africa. Anche se con l’aiuto di una stampella, il signor Bento non si era fidato di avventurarsi in mezzo alla folla festante, che si era assiepata vicino ad un largo spiazzo polveroso, nei pressi di una fabbrica di cemento. Quando il Santo Padre finalmente è arrivato il contadino era ancora lontano, in grado di osservare solo la parte superiore della “papamobile”. Giusto un lampo di luce che riflette dei raggi solari, così forti e potenti in Africa. Ma i suoi occhi riuscivano lo stesso a venarsi d’emozione. «Questo è il momento più bello della mia vita», aveva affermato, completamente rapito dalla presenza del Pontefice. Non importava quanto distante fosse da lui. Domenica, il Papa ha avuto il pubblico più numeroso della sua visita africana di due tappe. Una stima fatta dal Vaticano, con l’aiuto delle autorità locali, ha parlato di circa un milione di persone accorse all’appuntamento con Benedetto XVI. Forse una stima per eccesso. Ma non ci sono dubbi che la folla fosse immensa, piena di fervore religioso in cerca d’espressione. Una passione spirituale difficile da trattenere. Infatti sabato c’erano stati degli infrotuni, con vittime e feriti, davanti ai cancelli dello stadio sportivo, dove il Pontefice, qualche ora dopo, avrebbe presieduto un raduno giovanile. «Noi li affidiamo a Gesù in modo che possa accoglierli nel suo regno» è stato l’omaggio del Pontefice alle due povere vit-

M

time, fatto il giorno dopo. Una di queste aveva guidato la catechesi di Sao Pedro, una parrocchia di un quartiere povero, con una cattedrale che assomiglia poco a come dovrebbe essere i luoghi di culto. Infatti il Papa più volte, sia nella tappa in Camerun che poi in quella in Angola, si è lamentato delle condizioni di miseria in cui viene tenuto l’intero Continente. Nella funzione domenicale è stato ancora più preciso, parlando del «male della guerra, delle nefaste conseguenze del tribalismo, dei conflitti etnici, dell’avidità che corrompe il cuore degli esseri umani, che schiavizza i poveri e toglie il futuro alle nuove generazioni». L’Africa è senz’altro il continente con la popolazione cattolica a più alto tenore di crescita demografica. L’Angola, ricco di giacimenti petroliferi, è stata una scelta logica per la visita vaticana, non solo perché la maggior parte della popolazione è di fede cattolica, ma perché ha subito una delle peggiori piaghe del continente. I colonizzatori portoghesi portarono il cattolicesimo durante il XV secolo e i missionari che sono continuati ad arrivare sulle navi mercantili, fecero ben poco per interferire con il fiorente mercato degli schiavi verso le Americhe. Una volta conquistata l’indipendenza politica nel 1975, c’è stata una lunga e interminabile guerra civile durata circa 27 anni. La pace poi ha portato prosperità solo per le classi dominanti. L’economia con un Pil in crescita a due cifre – per il petrolio e l’estrazione dei diamanti – ha influenzato troppo lentamente, oppure per nien-

te, le condizioni di vita della popolazione. Gli indici di corruzione stabiliti da Trasparency international mettono l’Angola nella classifica dei peggiori: al 158mo posto su 180. «Quanto buio c’è in tante parti del mondo» ha enunciato domenica Benedetto XVI, mentre i grandi schermi preparati per l’occasione non hanno funzionato come avrebbero dovuto.Tra la folla molti portavano una maglietta con l’effige di Gesù e del Papa. Joaquime Andre, un ventiduenne avventista del Settimo giorno (protestante, ndr) con un abbigliamento che celebrava Bob Marley, pur disdegnando le magliette sull’evento, però affermava: «Amo il Papa. Egli è Dio sulla terra». Comprendendo subito che quest’affermazione poteva lasciar adito a una non corretta interpretazione teologica, si correggeva subito. «Voglio dire che il Papa appare come il padre di tutti. E io sono solo orgoglioso di essere qui vicino a lui». La funzione è durata più di due ore e questo evento ha lasciato traccia nel cuore di chi era presente. I tanti fedeli hanno visto la figura del Papa dissolversi tra le grida festanti dei bambini e la polvere di in un torrido pomeriggio africano.

L’IMMAGINE

Carceri:recuperiamo gli ex istituti mandamentali ubicati nei comuni sedi di Pretura Da più parti si parla di emergenza delle carceri italiane, perché sono insufficienti a contenere l’enorme numero di reclusi. C’è chi adombra che l’agitazione sfrenata del problema serva a giustificare un altro indulto o altre forme di depenalizzazioni o pene alternative. Non mi addentro nelle ipotesi delle soluzioni accennate per semplici ragioni di servizio. Mi permetto di suggerire un censimento e un recupero delle centinaia di ex carceri mandamentali che sorgevano in tutti i comuni sedi di Pretura che sono sicuramente un migliaio. Quasi sicuramente si potrebbero recuperare almeno un centinaio di edifici che potrebbero ospitare i detenuti per pene minori e anche quelli condannati ad un regime di semilibertà. Per quanto riguarda, invece, il personale carcerario si potrebbe fare come per il passato, affidando il compito alle municipalità.

Luigi Celebre

EMERGENZA RANDAGISMO: SERVE L’ANAGRAFE CANINA Per la tragedia provocata dai cani randagi, non ci sono vocaboli idonei per descriverne compiutamente la drammaticità. Non indulgerò nella moda della ricerca delle responsabilità per non invadere la sfera delle competenze delle autorità a ciò proposte. Dalle prime dichiarazioni di politici e di esperti abbiamo appreso che vi sono 1600 comuni che disattendono la legge che prevede un servizio di cattura dei cani randagi e la costruzione di canili e che vi sono 600.000 cani randagi. Da ciò si ricava che il problema è molto grave e costituisce una vera emergenza. Non mi pare che le poche sterilizzazioni costituiscano la soluzione perché servono a ridurre la proliferazione ma non eliminano l’ag-

gressità. In considerazione della scarsità delle richieste di adozione, quasi sicuramente nemmeno i canili sono la soluzione. È stata redatta l’anagrafe dei cani necessaria per poter risalire ai proprietari che li abbandonano e che incrementano con il loro pessimo comportamento il randagismo? Il problema ha anche un costo enorme perché 600.000 cani ricoverati in canili privati alla tariffa minima di 5 euro al giorno costano tre milioni di euro giornalieri, che in un anno ammontano ad oltre un miliardo di euro. Se moltiplichiamo il costo per la vita media dei cani, raggiungiamo il costo di tre ponti sullo Stretto di Messina. Sarei curioso di sapere quanto spendono le istituzioni per l’assistenza ai senza tetto.

L.C.

Faccia da… frigo! A chi lo saluta, sorride. Ma guai a lasciarlo solo, s’innervosisce e mette pure il broncio! Eh sì Jeremiah, un “faccione” virtuale creato al computer e qui proiettato su un telone, non sa parlare ma reagisce agli stimoli che lo circondano. Per la gioia di Richard Bowden, il suo inventore, che lo considera un primo passo verso nuove forme di interazione con i nostri apparecchi elettronici

DECISIONISMO E PRUDENZA In politica il decisionismo non sempre può considerarsi una virtù e solo rare volte può rivelarsi utile trovare unanimi consensi. In politica bisogna essere molto prudenti sia perché nessuno ha il dono dell’infallibilità ed anche perché è bene non dimenticare la ricerca del consenso. La voglia di apparire migliore e decisionista, gigante e

primo attore dinanzi una platea di nani e di comparse può giocare brutti capovolgimenti di umore popolare. Quando non vengono raggiunti gli obiettivi promessi con i proclami, i consensi cominciano a scendere, prima lentamente e successivamente c’è il rischio di un ruzzolone. E di ruzzoloni ve ne sono stati non pochi ed anche illustri. In un Paese come il nostro vi è l’a-

bitudine ad una pacifica e rassegnata sopportazione ma vi è il rischio di indomabili ribellioni. La ricerca del consenso dovrebbe essere una costante per i politici, i quali per conoscere i bisogni del popolo non dovrebbero fidarsi molto dei sondaggi, ma scendere tra la gente per ascoltarla. È una visione un po’ romantica la mia?

Lettera firmata


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Sia fresca e colorita, e si goda la primavera! Mia cara Sonicka, da quanto tempo non le ho più scritto e quante volte ho pensato a lei in questo periodo! Il «corso degli eventi» qualche volta mi toglie perfino la voglia di scrivere. Se adesso si potesse stare insieme e, a spasso per i campi, chiacchierare de omnibus rebus, sarebbe un bene, ma per il momento non c’è questa prospettiva. La mia protesta è stata respinta con dettagliata descrizione della mia malvagità e incorreggibilità, e una richiesta almeno di un breve permesso, uguale. Quindi devo aspettare finché non avremo vinto tutto il mondo. Sonjusa, quando per un certo tempo non ho sue notizie, vivo nella sensazione che lei svolazzi laggiù solitaria, inquieta, cupa e disperata come una foglia al vento, staccata dall’albero, e mi fa molto male. Si guardi intorno, adesso comincia di nuovo la primavera, le giornate si vanno facendo così chiare e lunghe, e nei campi c’è sicuramente già tanto da vedere e da udire! Esca molto, il cielo adesso è tanto interessante e vario con le nuvole che corrono inquiete, la terra calcarea, ancora nuda, deve essere bella con queste variazioni di luce. Guardi tutto a sazietà anche per me... Sia fresca e colorita, e si goda la primavera: la prossima la passeremo insieme. Rosa Luxemburg a Sonicka

ACCADDE OGGI

COMPLIMENTI Caro Direttore, ho apprezzato le pagine che liberal ha dedicato a Chiara Lubich, nel numero del 21 marzo. E sono molto grata per la bella recensione di Maurizio Schoepflin al mio libro Chiara Lubich. La sua eredità.Una caro saluto a te e alla redazione.

Franca Zambonini

TESTAMENTO BIOLOGICO Come si fa a prevedere quale sarà la propria volontà di vivere o meno quando ci si troverà ammalati e disperati? L’attaccamento alla vita dispone di molte forme, spesso non prevedibili e anche il desiderio di morte può assumere aspetti impensabili. In presenza di una tragedia personale nella quale giocano affetti, amore, e persino interessi, consapevolezza della realtà, ricordi del passato, un insieme di sentimenti che nessuno dall’esterno è in grado di giudicare, nemmeno il soggetto può prevedere e non è certo una norma di legge che risolve tutto. Non può essere il Parlamento a dirci quando possiamo morire. Non sempre la morte che ci raggiunge è totale e la legge vorrebbe completarla con la possibilità di interruzione della vita, senza un comune, diffusissimo sentire popolare. E poi non è il Parlamento che lo impone, se mai lo potrà interpretare quando vi sarà questa comune opinione, quasi una consuetudine che per ora non c’è. Nel 1998 Forzatti staccò il respiratore alla moglie da tempo in coma irreversibile. Processato, la giustizia lo ha assolto e la sentenza è passata in giudicato. Nessuno ha potuto

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)

24 marzo 1973 Viene pubblicato The Dark Side of the Moon, l’album più venduto dei Pink Floyd che vanta 723 settimane di presenza nella top 200 Usa 1976 Argentina: forze militari depongono il presidente Isabel Perón 1980 L’arcivescovo di El Salvador, Oscar Romero, viene ucciso mentre celebra una messa 1983 Negli Stati Uniti muore il primo uomo al quale è stato impiantato un cuore artificiale (dopo 112 giorni dal trapianto) 1998 A Jonesboro in Arkansas, due ragazzi di 11 e 13 anni sparano sugli studenti della “Westside Middle School”: quattro studenti ed una insegnante rimangono uccisi 1999 Jugoslavia: inizio dei bombardamenti da parte delle forze Nato 2001 Farebbe la sua ultima apparizione il sedicente crononauta John Titor 2003 Viene mostrato il controverso video in cui si vedono cadaveri dei soldati americani e i prigionieri Usa interrogati in Iraq

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

dubitare della correttezza di questa decisione, come del comportamento del marito che non aveva altro interesse se non quello di evitare ulteriori inutili sofferenze alla moglie che amava. Ogni caso, seppur analogo, ha una sua storia diversa e inquadrarle tutte in una norma è estremamente pericoloso. Aspettiamo che si crei un’opinione pubblica molto più diffusa, sia in un senso o nell’altro, infatti abbiamo visto come il recente caso di Eluana abbia diviso profondamente l’opinione pubblica. Non si può fare frettolosamente una norma che incide sulla vita solo per far contento un partito. Capisco che la politica voglia sempre il primato su tutto, ma via… non esageriamo.

Angelo Rossi

L’USO DELLA CULTURA Il ministro Renato Brunetta incrementerà anche il folklore delle vignette che lo riportano con la spada in mano, ma ciò che succede spesso nelle Università maggiori, da un po’ di tempo a questa parte, non è definibile con i toni occasionali di un evento normale. La destra è intervenuta sulla cultura scolastica in un momento in cui si tiravano le somme di anni e anni di discrepanze sul tipo e le modalità dell’insegnamento. Se si è cercato di cambiare le cose, e lo si è fatto anche in modo da non renderle eterne, non è un problema del ministro, bensì la conseguenza di gestioni e programmi condizionati e discutibili, utili più al disorientamento che alla formazione ideale.

LE TIGRI E LA VECCHIA LOCOMOTIVA John Kennet Galbraith è stato anche un uomo dotato di un raro senso dell’umorismo. Una delle espressioni che spesso amava utilizzare è quella secondo la quale gli economisti sono «le uniche persone capaci di prevedere con assoluta precisione il… passato». L’economia è una galassia per certi versi ancora non totalmente esplorata e le variabili costituite da dati macroeconomici spesso surrettizi confondono le acque. Esistono però dei piccoli grandi segnali che spesso non riusciamo a spiegare ma che danno il senso di un possibile cambiamento. Un esempio lampante è costituito dalla mancata firma del protocollo di Kyoto, non solo da parte degli Usa ma soprattutto da parte di Paesi come India e Cina che già oggi esprimono una enorme forza industriale difficilmente quantificabile e la cui economia è sicuramente “reale”. Non firmare il “Protocollo” significa quindi non accettare regole ma soprattutto limitazioni alla propria capacità produttiva. Gli scenari mondiali vedono da una parte gli Usa in evidente affanno, dall’altra, giovani ed aggressive new economies che operano in un regime di totale deregulation e che riversano all’interno di un contesto economico sempre più in crisi di liquidità, una mole di risorse volte alla acquisizione di tutto ciò che serve loro per entrare dalla porta principale nei ricchi mercati occidentali. Non è un caso quindi che l’indiana Tata acquisti marchi storici come Jaguar e Land Rover, così come non è un caso che gruppi d’acquisto cinesi e coreani detengano quote di maggioranza di importanti fondi di investimento. I segnali di un certo tipo di anomalie erano perciò evidenti e il confronto era sotto gli occhi di tutti. La piena e consolidata adesione di una parte del mondo produttivo ad un sistema di regole di mercato e di garanzie sociali, contrapposta ad un neo-industrialismo selvaggio è una realtà ormai acquisita. Non credo che sarà facile uscire da una empasse così evidente ma ritengo inevitabile, ridiscutere tutta una serie di posizioni di “sistema” che abbiamo dato per acquisite e che oggi rappresentano un evidente freno per le nostre economie. Onofrio Giuliano C I R C O L O LI B E R A L CE R I G N O L A

APPUNTAMENTI MARZO 2009 VENERDÌ 27 - NAPOLI, ORE 15.30 CAFFÈ GAMBRINUS Inaugurazione Circoli liberal città di Napoli. VENERDÌ 27 - PAGANI (SA) ORE 18 Inaugurazione Circolo liberal città di Pagani. VENERDÌ 27 - CASERTA, ORE 20 GRAND HOTEL VANVITELLI - CENA MEETING Presentazione manifesto dei “liberi e forti” per la Provincia di Caserta con il coordinatore regionale Massimo Golino, il presidente Ferdinando Adornato, i parlamentari e i dirigenti dell’Udc della Campania. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

Lettera firmata

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

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PAGINAVENTIQUATTRO

Recessione. In Italia i giochi (tra rischi e puntate) sono la terza «industria», per fatturato, dopo Eni e Fiat

La scommessa non va mai in di Giorgia Fargion

ROMA. L’illusione è quella di riscattare le difficoltà di una vita. Trovare la botta di fortuna che svolti l’esistenza. O magari solo una piccola vincita per qualche spesa in più. Così, a fronte di una crisi economica che ha spezzato i consumi in quasi tutti i settori, cresce in Italia la febbre del gioco d’azzardo. Investire nel superfluo, nell’incerto, in un momento di magra è una contraddizione. O forse una speranza. Ad ogni modo i numeri parlano chiaro: 30 milioni – secondo l’Eurispes – gli italiani che ogni giorno rincorrono la sorte. Una vera e propria industria dei desideri che ha fabbricato nel 2008, circa 40 miliardi di euro. Più del doppio rispetto al 2003. E si stima che nel 2009 il fatturato aumenterà ancora, fino a raggiungere i 50 miliardi di euro. Secondo i dati dell’Aams (Amministrazione Autonoma Monopoli di Stato) l’Italia detiene poi il record mondiale per spesa procapite destinata al gioco. Nel 2007 aveva raggiunto i 500 euro, 800 nel 2008. Italiani, insomma, popolo di giocatori.

L’idea del gioco a premi - ossia di un’attività competitiva che abbia a che fare con una serie di abilità predittive, divinatorie e numerologiche - costituisce un fenomeno diffuso fin dall’antichità. Sono due le tipologie. Le lotterie, nelle varie forme e regolamenti, che non prevedono alcuna abilità o scelta da parte del giocatore, ma solo un ricorso alla casualità dell’estrazione. E le scommesse, giochi di ordine numerologico o sportivo, che prevedono invece un’azione più o meno ragionata. Qui il giocatore formula ipotesi ed elabora strategie. In entrambi i casi la puntata sul futuro ha un suo fascino irresistibile. Compilare la schedina, acquistare un biglietto o giocare i numeri, significa tentare di indovinare lo svolgimento degli eventi. Avanzare la pretesa di dominare la realtà. In Italia, è il lotto il gioco più antico. Era già diffuso a Genova nel 1500. Più recenti invece quelle tipologie che hanno unito l’antico spirito del gioco a premi alla passione per gli eventi sportivi. Nel maggio 1946, su proposta della Sisal, prende l’avvio il fortunatissimo concorso legato alle partite di calcio - l’attuale Totocalcio - con il nome di «Schedina Sisal». Nel 1948 arriva anche il Totip, legato invece alle corse dei cavalli. E negli anni a seguire nascono il Gratta e Vinci, il Totogol, il Totosei e il diffusissimo Superenalotto, che

CRISI garantiscono nuovi introiti per l’erario. Oggi il dato più impressionante è che in Italia l’industria del gioco si posiziona al terzo posto, dopo Eni e Fiat, in termini di fatturato prodotto. L’ Eurispes spiega che vanno alla grande

Ma insieme all’entusiasmo di scommettitori e gestori cresce anche l’ansia di sociologi e psicologi. Il gioco a volte si trasforma in una vera e propria patologia: si manifesta in forme compulsive che portano a bruciare interi patrimoni familiari. Il 3% dei giocatori nel nostro paese ha problemi di dipendenza. I malati di “ludopatia”, nell’atto della scommessa, della puntata, provano infatti un’estasi simile a quella indotta da stupefacenti come alcool e droga. Senza contare poi le complicazioni ulteriori che potrebbero derivarne, come l’indebitamento con gli usurai. E secondo alcuni ci sarebbero anche conseguenze sullo sviluppo economico e sociale.

Il giro d’affari del 2009 sarà ancora una volta in crescita: si prevede che gli italiani investiranno in questo settore 50 miliardi di euro. La nuova frontiera è rappresentata dalle «Newslot» che hanno sostituito le macchine da videopoker soprattutto gli apparecchi da intrattenimento, le cosiddette “Newslot”, che hanno rimpiazzato i vecchi video-poker. Per queste macchine il totale delle entrate è cresciuto di quasi 47 volte dal 2003 ad oggi, passando da 367 a 17.282 milioni di euro, circa il 45% delle entrate complessive del totale dei giochi. A seguire, le lotterie (7.611 milioni di euro) e il lotto (5.348 milioni di euro).

Il de naro investito nel gioco non viene speso in beni o servizi che generano sviluppo economico, ma dirottato su risorse che non producono innovazione. L’aumento della domanda nel settore dell’azzardo ha quindi l’effetto di contrarre altre forme di sviluppo e di consumo. Insomma, per molti, una smania che va frenata. Sarebbe il caso dire, “Rien ne va plus!”.


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