ISSN 1827-8817 90603
La violenza può avere
di e h c a n cro
un effetto sulle nature servili, ma certo non sugli spiriti che sono indipendenti
9 771827 881004
Benjamin Jonson
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA
di Ferdinando Adornato
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Le celebrazioni per il 2 giugno
Tanti applausi a Napolitano (ma solo pochi gli danno retta) di Franco Insardà utti plaudono al discorso pronunciato dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, per «la costruzione di un’Italia coesa, prospera e solidale», ma nei fatti quest’appello sembra cadere nel vuoto. Sarà il clima di una campagna elettorale infinita che s’infiamma ancora di più con l’avvicinarsi della chiamata alle urne, sarà il “vizietto” italico di divedersi su tutto, sarà la tensione per le difficoltà economiche, ma di coesione se ne vede davvera poca. E soprattutto la posizione di Napolitano, al di là delle dichiarazioni ufficiali, non sembra aver molti seguaci, fatta eccezione per Pier Ferdinando Casini e Gianfranco Fini. L’attuale presidente della Camera e il suo predecessore hanno evidenziato la necessità di superare polemiche e divisioni e mirare a realizzare le riforme che servono al Paese per superare la fase di stallo nella quale si trova.
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TIANANMEN VENT’ANNI DOPO…
Una proposta alle opposizioni
Ma Udc e Pd vogliono costruire un’alternativa a Berlusconi?
Una storia ancora P aperta
di Savino Pezzotta
remesso che anch’io, pur nella mia breve esperienza parlamentare, considero il Parlamento eccessivamente numeroso e necessario di una revisione dei regolamenti, senza pregiudiziali di merito vorrei avanzare alcune riflessioni in relazione alla proposta portata avanti in questi giorni dal Presidente del Consiglio. La riduzione del numero dei parlamentari dovrebbe rispondere a criteri di efficienza e di contenimento dei costi. Non sembra siano questi però gli obiettivi di Berlusconi, bensì una poco convincente visione della democrazia e del rapporto tra i diversi organi istituzionali. Non è un caso che nella sua proposta ci sia un vero e proprio attacco al ruolo del Parlamento, tale da ipotizzare una sorta di plebiscito da attuare con la raccolta di firme su una proposta di legge popolare. È chiaro che cerca di cogliere le repulsioni che oggi circolano nei confronti della politica e in particolare dei politici. La proposta quindi si colloca sul versante del populismo e dell’antipolitica per raggiungere obiettivi politici molto chiari. Può sembrare questo un modo di operare contraddittorio, ma è sicuramente in grado di condensare attenzioni. E poi ancora una volta gioca con un certo vantaggio un gioco scelto da lui.
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Sono tutti ancora nelle mani dei pirati
Quei marinai del Buccaneer dimenticati dall’Italia
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di Luisa Arezzo a 52 giorni dieci marinai italiani e sei stranieri dell’equipaggio del Buccaneer, il rimorchiatore di un armatore ravennate sequestrato al largo del Golfo di Aden il 13 aprile scorso, sono nelle mani dei pirati somali. Da oltre 4 mesi e mezzo, Eugenio Vagni, un operatore italiano della Croce Rossa, è nelle mani dei guerriglieri islamici di Abu Sayaff nelle Filippine. In entrambi i casi, vista la delicatezza delle trattative, la Farnesina ha imposto una sorta di silenzio stampa per evitare errori diplomatici. Un riserbo comprensibile, ma che se portato all’eccesso (come in questo caso) rischia di far dimenticare all’opinione pubblica la gravissima situazione che i nostri connazionali stanno vivendo. E questo, amplificato anche dall’anniversario della Festa della Repubblica, è difficile da digerire. «Ma qualcuno si ricorda di loro?» si chiede «furibondo e arrabbiatissimo» Giorgio Blandina, presidente del Collegio nazionale capitani di lungo corso.
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Trovati i frammenti dell’aereo dei misteri
OTTO PAGINE SPECIALI Le memorie dei testimoni di quel giorno. Il testo della lettera aperta delle madri delle vittime a Hu Jintao. La cronaca di una battaglia sempre drammatica tra il regime di Pechino e il movimento per la libertà.
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MERCOLEDÌ 3 GIUGNO 2009 • EURO 1,00 (10,00
Dopo un’altra giornata di drammatiche ricerche, sembra siano stati identificati al largo del Senegal i resti dell’Airbus caduto mentre era in volo da Rio de Janeiro a Parigi.
di Nicola Accardo a pagina 8
da pagina 10 CON I QUADERNI)
• ANNO XIV •
NUMERO
108 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
mondo
pagina 2 • 3 giugno 2009
Sequestri. In mano ai rapitori da 52 giorni, gli ostaggi dei pirati sono allo stremo. La Farnesina ripete: siamo in trattativa. Ma nulla si muove
Salvate il Buccaneer
Silenzio anche sulla sorte di Eugenio Vagni, l’operatore della Cri nelle mani dei guerriglieri islamici di Abu Sayaff, nelle Filippine di Luisa Arezzo
Dall’Abruzzo alla Sicilia: sono sei le regioni che aspettano notizie
Che incalza:«Possibile che nessuno faccia nulla, che nessuno ne parli?». La pensano allo stesso modo anche i familiari degli ostaggi: consapevoli che in questi due mesi oltre a non fare passi avanti nelle trattative, solo in una manciata di occasioni la stampa nazionale si è ricordata di loro, hanno organizzato una fiaccolata a Torre del Greco (alla cui Capitaneria di porto sono registrati 3 dei rapiti) per «sensibilizzare le autorità italiane». «Viviamo nell’angoscia e nella solitudine più totale, in attesa di una telefonata che ci possa dare speranza e serenità». Telefonata che non solo non arriva, ma si trasforma in un incubo se a farla è il comdandante della nave, Mario Iarlori, che proprio ieri ha lanciato il suo ultimo, drammatico appello dalle colonne del Corriere della Sera: «Ci stiamo ammalando; molti qui soffrono di depressione e qualcuno di cuore. Non ci sono medicine. Per favore liberateci, altrimenti chiederemo noi stessi che ci ammazzino. Anche loro sono nervosi e ogni tanto sparano. È appena successo. Una pallottola mi ha sfiorato la testa. Non ce la facciamo più e vogliamo andare a casa».
Ma la loro richiesta sembra ancora lontana dal poter essere esaudita. La Farnesina, fin dall’inizio, al riguardo è stata esplicita: «Sì alla trattativa a oltranza e nessun blitz, se non come ultima, estrema opzione». Da quasi due mesi, la risposta è sempre questa. E ieri sia il governo somalo che le autorità del Puntland, dove la nave è ormeggiata, hanno consi-
Chi sono i 10 italiani nelle mani dei ribelli Due abruzzesi, due pugliesi, tre campani, un laziale, un siciliano e un marchigiano. Da queste regioni provengono i 10 membri dell’equipaggio del Buccaneer (gli altri 6 sono rumeni e croati) in ostaggio dei pirati nel Golfo di Aden. Al comando del rimorchiatore, Mario Iarlori, 51 anni, abruzzese di Chieti e iscritto alla Capitaneria di porto di Ortona, così come Tommaso Cavuto, secondo ufficiale di macchina, che a Ortona vive. Ore di angoscia anche a Molfetta, in provincia di Bari, da dove vengono Ignazio Angione, direttore di macchina e Filomeno Troino, cuoco, entrambi iscritti alla Capitaneria di Porto di Molfetta.
gliato di non cambiare rotta ed evitare il blitz, come invece hanno fatto, e con successo, sia gli Usa che i francesi nelle scorse settimane. «In questi attacchi - ha detto il premier somalo Omar Abdirashid Ali Sharmarke - c’era una netta preponderanza di ostaggi rispetto ai pirati. Nel caso del Buccaneer, invece, rispetto ai 16 ostaggi ci sono almeno una ventina di pirati. Rischio troppo alto per l’e-
Parla la moglie del comandante
Caro Frattini, basta aspettare. È arrivata l’ora di agire
quipaggio». Resta però un’anomalia che dovrebbe giocare a nostro favore e che invece sembra paralizzarci ancora di più: infatti, a differenza di Eugenio Vagni, che viene continuamente spostato nella foresta impedendo di sapere la sua esatta collocazione, nel caso del Buccaneer sappiamo praticamente tutto. E questo dovrebbe incidere sul tradizionale modus operandi dei negoziatori. Pri-
a voce di suo marito, il comandante del Buccaneer Mario Iarlori, sequestrato dai pirati somali l’11 aprile scorso, sua moglie l’ha sentita sul sito del Corriere della sera. Nessuno l’aveva avvisata di quella drammatica telefonata. Ma lei, la voce tremula ma mai incline al pianto né tantomeno alla disperazione, non ha voglia di fare polemiche, è solo molto preoccupata. Sente che la situazione sta sfuggendo di mano ed è sull’orlo di un precipizio. Conosce le inflessioni di suo marito, e le sono bastate quelle poche, drammatiche parole: «Liberateci. Siamo inguaiati, stiamo male. Salvateci altrimenti chiederemo a loro (i pirati, ndr) di spararci», per capire che
L
Tutti marinai semplici e registrati alla Capitaneria di porto di Torre del Greco, invece, i tre connazionali campani del Buccaneer. Si tratta di Vincenzo Montella, Giovanni Vollaro e Bernardo Borrelli. Da Itri, in provincia di Latina, arriva invece Mario Albano, primo ufficiale di coperta, iscritto alla Capitaneria di Porto di Gaeta. Tutti loro sono incollati al telefono in attesa di notizie. Così come i familiari dei due marinai Pasquale Mulone, iscritto alla Capitaneria di Porto di Mazara del Vallo (Trapani) e Filippo Speziali, iscritto alla Capitaneria di Porto di San Benedetto del Tronto (Ascoli Piceno).
mo, in questo sequestro, non c’è alcuna incognita su dove si trovino gli ostaggi e i loro sequestratori: la posizione del Buccaneer, grazie ai satelliti puntati sul Golfo di Aden, è perfettamente nota alle autorità italiane e straniere che operano nell’area. Secondo: il rimorchiatore ha apparati che consentono un contatto diretto tra i rapitori e i negoziatori e se una mail parte dal Buccaneer (come
la forbice temporale a disposizione del nostro ministero degli Esteri si sta assottigliando e che l’equipaggio di quel rimorchiatore maledetto sta cedendo al logorio dei nervi e della disperazione. Signora Iarlori, lei ha fiducia nell’operato del governo per le trattative con i rapitori? Ho sempre avuto fiducia nella Farnesina, ma adesso ho paura. Lo ho sentito fuori di sé, la sua voce era stravolta. Il tempo non sta giocando a nostro favore. Quante volte ha potuto parlare con suo marito da quando è stato rapito dai pirati? Alcune volte, ma all’inizio del sequestro di più. Adesso è molto tempo che non rie-
quella che il primo giorno ha dato l’allarme) non c’è dubbio che il mittente siano i rapitori degli italiani. Di sicuro niente millantatori. Ma se tutto ciò rende lo scenario meno complesso, non per questo la soluzione della vicenda è più semplice. La fregata della marina militare italiana, Maestrale, con 220 uomini a bordo, intanto, è pronta ad ogni evenienza e si trova sul posto, insieme alle unità di diversi altri Paesi Ue che partecipano alla missione antipirateria Atalanta. E in caso di blitz farebbe la sua parte. Ma allo stato attuale non vi è alcuna ipotesi di intervento.
Il nostro governo, come dichiarato dal ministro Frattini al Question Time della Camera del 22 aprile scorso, «continua a restare in contatto con il primo ministro somalo e il presidente della regione autonoma del Puntland che a loro volta hanno attivato i ministri degli Interni e della sicurezza nazionale i quali si sono adoperati per aprire nostri canali di comunicazione con i sequestratori». Una maniera forse un pò contorta per dire che la diplomazia lavora ma non ha ancora cavato un ragno dal buco. Oltretutto il governo del Puntland rifiuta la mediazione di Mogadiscio e non ha detto “pio” davanti all’esorbitante riscatto richiesto dai rapitori per la liberazione dei marinai “parcheggiati” nel porto di Lasqorev: 30 milioni di dollari. Questa la cifra con cui si sono aperti i negoziati.Trattative che continuano, anche qui nel silenzio, per liberare Eugenio Vagni, l’operatore della Croce rossa che dal 15 gennaio è nella mani del gruppo separatista e terrorista
sco a parlargli. La Farnesina la tiene al corrente degli sviluppi? Sì, ma in generale. Mi dice che stanno ancora bene, che stanno lavorando al problema. Però mai un dettaglio, una informazione. Ma ci mancherebbe, io capisco la necessità del riserbo, è che adesso è giunta l’ora di fare qualcosa per liberarli. Le sembra che la situazione stia peggiorando? Assolutamente sì, ed è sempre più grave. Si percepisce anche in assenza di parole. Ormai sono passati tanti giorni, l’equipaggio è stanchissimo. Mio marito - nelle poche occasioni in cui ho potuto sentirlo
mondo
3 giugno 2009 • pagina 3
La risposta del governo secondo Margherita Boniver e Alfredo Mantica
«Stiamo negoziando ma la Somalia è un caos» di Riccardo Paradisi ugenio Vagni, l’operatore italiano della Croce Rossa Internazionale rapito il 15 gennaio scorso nelle Filippine dai ribelli di Abu Sayyaf, è in buona salute, anche se le sue condizioni sono molto difficili, fanno trapelare fonti governative. I suoi due colleghi, la filippina Mary Jean Lacaba e lo svizzero Andreas Notter, rapiti con lui, sono stati liberati, presumibilmente dietro pagamento di un riscatto, rispettivamente il 2 aprile e il 10 aprile scorso. Le mine antiuomo piazzate dai guerriglieri islamici e il coinvolgimento di militari stranieri – sostiene il ministro dell’Interno filippino Ronaldo Puno – ostacolano la sua liberazione.
E
di Abu Sayyaf nelle Filippine. Accertato che le sue condizioni di salute non sono buone (soffre di ernia e avrebbe bisogno di un intervento chirurgico, di domenica scorsa l’ultimo contatto con la famiglia) e che il governo italiano preme su quello di Manila affinché non si svolgano nelle zone dove si trova operazioni militari che potrebbero mettere seriamente a rischio la sua vita, tutto il resto sono solo chiacchere. Anche perché le trattative vere e proprie con il gruppo di Abu Sayyaf è la Croce Rossa di Ginevra a condurle, certo non facilitando il compito del governo italiano e dei nostri servizi segreti. La Croce Rossa, come accade quasi sempre quando i rapiti sono suoi operatori, chiede la più ampia autonomia e non consente agli Stati di interferire. Lo stesso è avvenuto per i compagni di Vagni liberati più di un mese fa. Ma vuoi per le interferenze di un’importante associazione, vuoi per l’impossibilità di avere un referente istituzionale certo - queste le obiezioni della Farnesina - 11 italiani restano nel limbo del sequestro. E sulla loro sorte cala il silenzio.
in alto, un pirata con armi e radiotrasmittente e sotto il barchino d’ordinanza capace di beffare tutte le marine internazionali. Sotto, il sottosegretario agli Esteri Mantica e a sinistra il Buccaneer
- era calmo, misurato. Adesso non più. Vorrebbe che la Farnesina la rassicurasse di più? Vorrei che la Farnesina cercasse di fare qualcosa in tempi brevi. Da quando sono nelle mani dei sequestratori le cose sono andate sempre peggio. Ripeto, io ho la massima fiducia, ma non ho nemmeno alternative. E adesso è l’ora di passare ai fatti. Lei è in contatto con le famiglie del resto dell’equipaggio? Sì, ci sentiamo più o meno regolarmente. E loro condividono la sua fretta e preoccupazione per questa attesa avvolta dal silenzio? Sì. E siamo tutti d’accordo.
Anche i dieci marinai italiani del Buccaneer sequestrati in Somalia dai pirati nel Golfo di Aden sono in buone condizioni, per quanto possa essere buona la condizione di chi è sequestrato in una nave – dice la Farnesina – ma sul quando e sul come della loro liberazione niente di nuovo. Il governo assicura che i negoziati continuano e che il loro successo potrebbe essere inversamente proporzionale al rumore che si fa intorno a quest’ultimo episodio di pirateria che ha coinvolto degli italiani. Eppure l’interesse a sapere qualcosa di più, a partire dai famigliari dei rapiti, è forte. Soprattutto dopo l’ultimo appello del comandante Mario Iarloi, lanciato dalla Buccaneer: «Stiamo male, liberateci altrimenti chiederemo a loro di spararci. Ci stiamo ammalando. Molti soffrono di depressione e qualcuno di cuore. Non ci sono medicine. Stiamo facendo sei ore dentro la plancia senza aria condizionata, beviamo acqua bollita e mangiamo riso e pane che ci cucina il cuoco». Sono due casi diversi il rapimento Vagni e il sequestro del Buccaneer. Nel primo caso – come dice a liberal Margherita Boniver, Inviato speciale per le emergenze umanitarie del ministero degli Esteri – esiste un governo, quello filippino, con cui è possibile avere un rapporto univoco, tenersi informati, esercitare pressioni. Nel caso del Buccaneer siamo di fronte a un Paese come la Somalia dove il territorio è conteso da più gruppi di potere e dove è davvero difficilissimo scegliersi un’interlocutore unico con cui relazionarsi». Chi si è occupato per primo del caso Vagni e chi se ne continua a occupare in prima linea è la Croce Rossa Internazionale che ha nelle Filippine entrature importanti e come organismo umanitario un’agibilità maggiore per muoversi. Ma il governo italiano
– fa capire Boniver, che peraltro mantiene un’assoluta discrezione sulla vicenda – sta affiancando le operazioni di negoziato, con un costante monitoraggio della situazione. La Boniver ribadisce però che la strada da perseguire di fronte ai sequestri «Non può essere quella del pagamento di riscatti da parte del governo italiano, un cedimento che incoraggerebbe la pratica dei rapimenti». Un’occasione imminente per mettere meglio a fuoco il caso del Buccaneer invece sarà il convegno internazionale sulla pirateria che si terrà i prossimi 10 e 11 giugno a Roma. Convegno a cui parteciperà anche il governo somalo che controlla Mogadiscio, quello riconosciuto dalle autorità internazionali. «Sarà un’occasione per fare di nuovo il punto della situazione – dice a liberal il sottosegretario agli Esteri Alfredo Mantica – anche se è il governo del Puntland, lo stato semi-autonomo della Somalia da cui sono partiti i ”pescatori” che hanno sequestrato il Buccaneer, a controllare il porto dove è ferma la nave sequestrata». E il governo del Puntland, ricorda Mantica, chiede azioni di forza per sbloccare la situazione: «Una soluzione – dice Mantica – assolutamente lontana dalle intenzioni del governo italiano, per i rischi altissimi che comporta, malgrado nel porto di sia attraccata una nave della nostra marina militare eventualmente pronta all’azione. Ma c’è anche una richiesta da parte dei pirati di due milioni e mezzo di dollari – conferma Mantica – che però è anch’essa difficilmente assolvibile visto che non si sa chi dovrebbe pagare e a chi».
La pirateria alimenta anche la guerra civile somala. I pirati hanno portato nel Paese 80 milioni di dollari attraverso l’indotto dei riscatti
Insomma molti sforzi della Farnesina vengono impiegati per mediare tra governo somalo, ribelli e bande locali in un contesto che assomiglia a una partita di shanghai, dove ogni bastoncino che viene toccato potrebbe scuotere pericolosamente gli altri. Anche perchè non è chiaro chi c’è dietro la pirateria che infesta le acque tra loYemen e la Somalia, chi fornisce ai corsari armi e tecnologie sofisticate per le loro scorrerie. Si può pensare, come è stato ipotizzato, a un’influenza molto forte della Cina che ha una presenza massiccia nel Corno d’Africa. Ma la pirateria potrebbe essere alimentata anche dagli attori della guerra civile somala. I pirati del resto hanno portato in Somalia 80 milioni di dollari attraverso gli indotti dei riscatti ottenuti con le azioni corsare e i sequestri. E nel 2009 il numero dei rapimenti è già aumentato. «Il fatto che sia così difficile intervenire dopo un sequestro da parte dei pirati – dice ancora Mantica – dovrebbe incoraggiare una vasta azione preventiva. Non si vogliono i contractor a bordo perchè si dice che le petroliere non hanno capacità di difesa e hanno una possibilità di manovra molto inferiore a quella dei barchini. C’è però anche la soluzione di chiudere l’equipaggio nella sala macchine in attesa dell’arrivo dei soccorsi, che è la tecnica con cui gli americani combattono la pirateria. Certo è che una soluzione va trovata». Anche per non ritrovarsi a negoziare mesi per liberare italiani rapiti nel mondo.
politica
pagina 4 • 3 giugno 2009
Proposte. Compito dell’Udc e del Pd è dare nuova identità politica a quanti non si riconoscono nelle “gabbie” di oggi
Senza alternativa? Per battere Berlusconi occorre ridisegnare l’area moderata: non più conservatori ma riformisti di Savino Pezzotta segue dalla prima Così mi resta il dubbio che avanzare proposte in merito come ha fatto il Pd faccia il gioco del proponente senza cambiare l’esito della partita.
disponibilità potesse avere più possibilità di corrompere i più di seicento giurati.
Ogni persona porta nell’agone politico la propria personalità e la sua formazione. Il sottoscritto continua a pensare e a leggere la realtà con gli schemi che ha assunto durante gli anni
ticolata difficilmente semplificabile. In una democrazia governare è più complicato perché le Assemblee non rappresentano singoli interessi ma la sovranità popolare. In questi ultimi anni le leggi elettorali a impronta maggioritaria e propensione bipartitica hanno accentuato l’importanza delle leaderships sminuendo il senso della sovranità popolare. Oggi i capi contano più di ieri, purtroppo. Le Assemblee legislative non possono essere né troppo ristrette né troppo ampie. Come vogliono ragione e buon senso, serve una via mediana. Se sono troppo piccole, non riescono a rappresentare l’articolazione sempre più complessa delle nostre società in cui l’unificante nozione di popolo si è rovesciata in quella complicata di moltitudine. Se troppo ampie, non riescono a svolgere efficacemente la funzione deliberativa. L’attività politica e di rappresentanza sono per loro natura complesse e faticano ad assumere la semplificazione, qualità propria delle attività esecutive e gestionali.
La riduzione del numero dei Parlamentari a prima vista può sembrare PIER FERDINANDO CASINI cosa buona e da perseguire, ma L’Udc deve manteniamo impegnarsi una certa prua recuperare denza evidenquanti non tutti ziando alcune si riconoscono controindicazionella vecchia ni per favorire sinistra giudizi e valutae perciò, zioni alternative. come diceva Un parlamento Indro eccessivamente Montanelli, ristretto dà l’isi rifugiano nel dea di una decentrodestra mocrazia degli ottimati, questione che ha accompagnato la democrazia fin dell’impegno sindacale. Chi è dal suo sorgere e che ha sem- stato abituato a comandare sotpre avuto in sospetto la di- toposti e stipendiati fa più fatimensione popolare. Già Cice- ca a confrontarsi con larghe e rone nel De Repubblica conce- composite assemblee come de al popolo una libertà suffi- quelle parlamentari, attraverciente a tenerlo contento, non sate da una molteplicità d’inte- In questi giorni si è adombrauna partecipazione reale. Di- ressi, di attenzioni, di esigenze ta l’idea di un’incombente svolchiara infatti che è dovere del e speranze che rispondono alla ta autoritaria. Io non lo penso. Senato preservare e accresce- nazione e non a un singolo in- Credo invece che sia in atto un re la libertà e gli interessi del dividuo. Il Parlamento risponde mutamento sotterraneo ma popolo, ma questo è compito a volontà diverse da quelle di concreto della costituzione mada assolvere con discrezione un “capo”, di un amministratore teriale del paese. Ma di questo dello stesso Senato. I senatori delegato e può infastidire chi si non si discute e si preferisce inerano generalmente ricchissi- è abituato nel corso della vita e seguire Berlusconi sul suo terremi per cui tendevano a proteg- con successo a modalità più no invece che suscitare alternagere gli interessi del loro ceto semplici. Pur nella complessità, tive visioni di governo. E il Paee per questo il Senato non do- un’impresa richiede pratiche di se sente che non esiste una creveva essere molto ampio. dibile alternativa IL PARLAMENTO Si può tuttavia osservare che di governo. Le meno sono le persone che opposizioni sono È giusto compongono le Assemblee, molto composite rivedere minore è la dialettica e, tenue divise non peri regolamenti to conto che la natura degli ché composte da e il numero uomini è sempre corruttibile, partiti diversi ma dei parlmentari, perché composte diventa più semplice trovare i ma occorre modi per condizionarli, arruoda partiti alternaricordare che larli e meno costoso metterli tivi. Il problema è meno sono d’accordo sui propri interessi. a mio parere conle persone che Da sempre i numeri ristretti centrato su due compongono delle classi dirigenti hanno forze: il Pd e le Assemblee consentito il formarsi di olil’Udc. Non sottoe minore garchie o di “signorie”. Lo savaluto il peso che è la dialettica pevano bene gli ateniesi che, l’Idv sta assucome ha ricordato in un recenmendo, ma sta te articolo Nadia Urbinati, purtroppo occu2500 anni fa avevano istituito governo molto più semplici di pando uno spazio di rappresengiurie popolari molto numero- quelle di uno Stato, che per sua tanza che non è di Governo. Il se per evitare che chi aveva natura è realtà complessa e ar- problema del governo sta inve-
ce in capo all’Unione di Centro stra. Qui sta la responsabilità e al Pd per dare risposta e rap- maggiore dell’Unione di Centro, presentanza ai ceti moderati. che però fatica ancora a darsi Un tempo i moderati erano con- un volto nuovo. siderati “ventre molle” che non ama fare scelte decise. Siamo Il Pd deve avere il coraggio di ancora convinti che sia così? definire cosa vuole essere. SoCredo che molte cose siano no convinto che non ci sarà cambiate nel noDARIO FRANCESCHINI stro Paese e che certi stereotipi Il Pd deve avere non servano più. il coraggio Oggi il moderato di definire è figura complesche cosa vuole sa e molto lontaessere; na dalla consercon la certezza vazione e dall’acche in Italia quiescenza; svolnon può esserci ge ruoli e funziodemocrazia ni importanti neldell’alternanza l’economia, nel negando commercio, nelle l’esistenza professioni; si didella sinistra stingue dalla destra e dalla sinistra e dubita delle posizioni centriste che si fonda- una democrazia dell’alternanno sulla nostalgia; è alla ricerca za se in Italia si continuerà a di una rappresentanza realmen- negare l’esistenza della sinite riformatrice in grado di assi- stra. Una sinistra diversa da curagli le condizioni di vita, di quella del passato, più attenta lavoro e di proprietà che con fa- alle trasformazioni sociali e detica ha conquistato; non è alieno gli individui, capace di elaboraalle problematiche sociali che re una nuova proposta di sinivorrebbe inquadrate in un per- stra che non può essere, come corso di soluzione e non di assi- avvenuto in questi anni, un instenza; sovente è cattolico e ve- seguimento delle proposizioni de la religione come elemento di destra un poco più temperaessenziale di coesione sociale. te sul piano sociale. Ci si stupiQuest’area è in cerca di una rap- sce che gli operai non votino presentanza ma poiché diffida più a sinistra perché non si è della sinistra si rifugia “monta- forse compreso che ormai le nellianamente” nel centro de- persone (e pertanto gli operai)
politica
3 giugno 2009 • pagina 5
Formica: «Il pensiero unico è letale». Pellicani: «Dal ’94 solo improvvisazioni»
«Con questa politica Italia a rischio asfissia» di Errico Novi
ROMA. È possibile o no un destino migliore per il dibattito pubblico italiano? Si resterà imprigionati nella litania elusiva del berlusconismo e dei suoi nemici o ci sarà una rappresentanza alternativa per i moderati, più coerente con l’effettiva geografia politica del Paese? Al quesito che fa da premessa all’analisi di Savino Pezzotta rispondono due conoscitori profondi del costume politico nazionale, accomunati dall’ascendenza socialista, seppure maturata lungo strade diverse: l’ex ministro delle Finanze Rino Formica e l’ex direttore di Mondoperaio Luciano Pellicani. Ci sono limiti strutturali, convengono entrambi, ma ciascuno individua i più gravi in modo diverso. L’autore dell’insostituibile locuzione «nani e ballerine» parla di «schieramenti inidentificabili» per «programmi e visioni». E sarebbe questa indifferenziazione l’origine di tutti i mali del presente.
hanno settorializzato i loro interessi. Per le questioni del lavoro possono essere inscritti al sindacato; per gli altri problemi guardano a chi rappresenta interessi settoriali e quindi differenziano il loro voto in conformità a interessi ben precisi. Quello che fino ad ora la sinistra non è riuscita a offrire è la composizione del mosaico degli interessi diversi.
Sia per l’area dei nuovi moderati che per quella della sinistra nuova molto si giocherà sul terreno dell’economia e sulle proposte per uscire dalla crisi senza fratture sociali irreversibili. Bisogna tenere conto che il malessere sociale è in crescita e non è detto che esso si rovesci contro il centro destra. Resto convinto che l’alternanza diventerà realtà concreta se dalle prossime elezioni uscirà in modo visibile una rappresentanza autonoma dei nuovi moderati e una vera e nuova idea di sinistra di cui nessuno possa rimproverare i detriti del comunismo. In caso contrario il centro destra continuerà a mantenere - magari forzosamente - il consenso. Pensare di sconfiggerlo attendendo, sperando e spingendo perché Berlusconi frani da sé o con l’accentuazione bipartitica del modello bipolare, è una illusione da cui la politica italiana deve liberarsi in fretta per poter tornare a una democrazia dell’alternanza.
Silvio Berlusconi (in alto) da tempo ormai ripete che sente la necessità di ridurre drasticamente il numero dei parlamentari. In realtà, dietro alla proposta del premier sembra esserci una visione poco convincente della democrazia e del rapporto fra istituzioni. In basso, Rino Formica e Luciano Pellicani
Tanto per cominciare, dice Formica, i soggetti politici che oggi occupano la scena «non si possono distinguere nemmeno dal punto di vista dei comportamenti: vizi e virtù paiono egualmente distribuiti». Ma non è questo il punto. «Il problema è la sovrapponibilità delle idee e delle proposte. Diciamo che in questi anni è passata una linea, con l’abiura delle ideologie e l’affermazione del pensiero unico. Il che però vuol dire che la soluzione dei problemi si è ridotta a soluzione del quotidiano. Il 90 per cento delle questioni non ha due soluzioni ma una soltanto. E questo finisce spesso per rendere debole l’apporto dell’opposizione». Dietro l’angolo c’è un rischio evidente, se si segue il ragionamento dell’ex ministro socialista, «quello dell’atrofia: il corpo del Paese così finirà per non reagire più alle grandi questioni di prospettiva. Proprio perché ogni problema è ordinato alla rinfusa, secondo il principio della soluzione pragmatica del quotidiano, appunto». Cosa è successo? Qualcosa che è al di là della superficie, resa opaca dalla contrapposizione tra berlusconiani e antiberlusconiani: c’è stata «l’abrogazione di tutte le differenze forzate che avevano accompagnato la storia di questo Paese per cinquant’anni: ma la cultura dell’alternativa», osserva Formica, «si basa sulla convergenza rispetto alle grandi questioni, che poi lascia spazio a modi diversi di promuovere il bene comune». Abituata a dividersi su tutto ma in modo coatto, la politica
italiana non sarebbe più in grado di offrire soluzioni distinguibili tra loro.
Ma se il nodo riguarda la capacità di innovare, c’è poco da stare allegri, secondo Luciano Pellicani. Il professore di Sociologia politica della Luiss è sconcertato «dal livello della classe dirigente che in questi anni è letteralmente precipitato. Il confronto con gli anni Settanta e Ottanta sarebbe impietoso. A sinistra innanzitutto, ma non solo. Basti pensare ad An: a parte le prese di posizione di Gianfranco Fini non resta nulla. Certi vuoti che già adesso si osservano tra un po’ faranno venire le vertigini». Una parte dell’analisi si avvicina a quella di Rino Formica: «C’è stato il collasso di una classe politica a cui si è risposto con improvvisazioni. Lo è evidentemente Forza Italia, ma anche il vecchio Pci si è trovato senza le parole giuste: la sinistra conosceva perfettamente il linguaggio dell’opposizione arcigna, adesso è chiamata a un ruolo diverso e si scopre impreparata». Da qui il vuoto, che è certo un’assenza di leader: «Berlusconi lo è, al Pd ne servirebbe uno. Certo è che adesso l’opposizione sembra caotica e vuota, tanto da destare legittime preoccupazioni: quando alla maggioranza viene meno il pungolo di avversari forti è la democrazia a risentirne».
«Politica ridotta a gestire il quotidiano», dice l’ex ministro. Il politologo: «Paurosa mancanza di leader, soprattutto a sinistra»
La degenerazione più pericolosa secondo Pellicani è quella che può derivare dalla propaganda leghista «peraltro fondata su presupposti a volte sono incontestabili, come l’incapacità nel gestire le risorse da parte di certe regioni meridionali: non tutte, perché in Puglia è diverso, ma Campania e Calabria…». Come mettere l’unità del Paese al riparo dall’assalto lumbard? Secondo Pellicani servirebbe «una ridefinizione dell’attuale maggioranza, con l’ingresso dell’Udc che la libererebbe del ricatto di Bossi». C’è un’Italia moderata che vota per Berlusconi senza troppa convinzione e che potrebbe riconoscersi più agevolmente in un soggetto di centro: l’ex direttore di Mondoperaio, da questo punto di vista, riconosce in pieno le ragioni di Savino Pezzotta: «A spiegarci cos’è il Carroccio ci aveva già pensato Bobbio: è un estremismo di centro, i suoi elettori provengono da categorie sociali per loro natura moderate ma finiscono per sposare posizioni estremiste». Perché la Lega trova gioco facile nel fare leva sulle paure, a cominciare dalla sicurezza: ma secondo Pellicani la rappresentanza più coerente dell’elettorato moderato, che in fondo dà forza al Carroccio, dovrebbe essere assicurata dai moderati autentici, ossia dall’Udc «che potrebbe entrare nell’attuale maggioranza e liberarla così dal ricatto di Bossi: Casini è un leader di quella stessa Italia che vota Berlusconi», secondo il politologo e sociologo di origini napoletane. Che simmetricamente rimpiange il rifiuto del Pd di recuperare qualsivoglia elemento della tradizione socialista «con l’atteggiamento schizofrenico di chi è nell’internazionale socialista in Europa e considera indegno quello stesso aggettivo in Italia».
diario
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Nessuno ascolta Napolitano Nelle celebrazioni per la festa della Repubblica nuovi richiami su riforme e coesione di Franco Insardà segue dalla prima In occasione della discussione sul federalismo fiscale, e di fronte a non poche polemiche, Gianfranco Fini sottolineò che «c’è invece davanti a noi il compito di costruire e difendere la nazione, come comunità politica aperta e pluralistica che valorizza il ruolo delle autonomie». Una posizione che dovrebbe essere di per sé condivisibile, ma che in alcune occasioni ha destato il sospetto che fosse sostenuta soltanto in chiave antiberlusconiana.
Discorso diverso va fatto per il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini. In più occasioni ha ribadito l’idea che ha il suo partito del concetto di unità nazionale. Emblematico, al riguardo, quanto dettò ai giornalisti in occasione della visita del 25 aprile in Abruzzo:«Essere qui con il presidente del Consiglio, per un leader dell’opposizione, vuol dire che il Paese va avanti prendendosi per mano. E che non c’è spazio per le divisioni». Da settimane, invece, l’opinione pubblica pare impegnata soltanto nel discutere degli affari privati della famiglia Berlusconi. Per non parlare dei relativi contorni di veline e bodyguard e del continuo rimpallarsi di accuse tra maggioranza e opposizione. Tanto che all’estero il Paese sembra diviso tra fan e oppositori del Cavaliere, tutti angosciati dai possibili effetti che Noemi e le sue “omologhe” potranno avere sui son-
daggi e sull’immagine del premier. Intanto i terremotati abruzzesi protestano e si preoccupano giustamente del loro futuro, la spazzatura ritorna nelle strade della Campania e fa la sua prima apparizione in quelle di Palermo, e il Pdl, fortissimo nei sondaggi, non riesce a gestire i suoi uomini in Sicilia. Se questa è coesione...
L’Italia, secondo i desiderata del capo dello Stato, dovrebbe ritrovare quell’unità manifestata di fronte alla «drammatica emergenza del terremoto, nel celebrare il 25 aprile, giorno della Liberazione dal na-
le davvero poco per «semplificare la vita a se stesso e agli italiani». Come ha sottolineato il leader dell’Udc, c’è più di un sospetto che il premier abbia «interesse a dividere il Paese più che a unirlo». E non soltanto perché il denunciare forti campagne di odio è sempre stata un’arma impareggiabile per crearsi (o recuperare) consenso in prossimità di una scadenza elettorale. In questi giorni ci si interroga se davvero l’Italia sia un Paese a rischio implosione. Se si va verso uno squilibrio tra i tre poteri fondamentali di uno Stato democratico. In verità la domanda da porsi è più semplice e meno ridondante: ci sono le condizioni e la volontà di far partire quella stagione delle riforme che tutti auspicano? A questo interrogativo il governo risponde sempre in modo generico: promette di farle ma aspetta tempi e condizioni migliori e ridicolizza chi ricorda la necessità di cambiamenti.
Solo Casini e Fini sono pronti al dialogo. Pdl e Pd preferiscono litigare sul Noemi-gate e Berlusconi parla di «intrigo internazionale» zifascismo, del ritorno alla pace, alla liberta\u0300 e all’indipendenza, nel rendere omaggio alle vittime del terrorismo, delle stragi, della violenza politica di ogni colore, nel ricordare con gratitudine gli eroici magistrati e appartenenti alle forze di polizia caduti nella lotta contro la mafia. Sono stati altrettanti segni di unita\u0300 del Paese attorno a valori di democrazia e di solidarieta\u0300 propri della nostra Costituzione». Tutti valori che ci hanno unito e fatto sentire italiani. Purtroppo, come ha commentato ieri Pier Ferdinando Casini, la solidarietà per i problemi reali delle famiglie italiane «lasciate sole davanti alla crisi» è stata sopraffatta dai pettegolezzi e dalle polemiche. Pochezze che avrebbero potuto essere bloccate se Berlusconi avesse risposto alle domande, che da giorni si fanno molti. Perché ci vuo-
Allo stesso modo, ieri, appena gli esponenti di questo bipolarismo meccanico avevano terminato di riconoscersi nelle parole di Napolitano, maggioranza e opposizione hanno ripreso a lanciarsi accuse sulle campagne giornalistiche che stigmatizzano le passioni del premier. Il quale, per non essere da meno, ha “svilito il clima”sostenendo che dietro le calunnie a suo carico c’è una macchinazione internazionale. L’invito alla coesione nazionale non è nuovo. Il presidente Napolitano lo ha rivolto in più di un’occasione. Ma finora non ha ottenuto i risultati sperati. Tanto che verrebbe da pensare: repetita iuvant o non iuvant?
Eurostat stima che quasi 21 milioni di uomini e donne in 27 paesi, di cui quasi 15 nella zona euro, sono senza lavoro
Disoccupazione al 9,2% in Europa: è record di Andrea Ottieri
BRUXELLES. Come era nelle previsioni con l’espandersi della crisi economica arriva l’esplosione della disoccupazione in Europa. Nell’area dell’euro ad aprile era al 9,2%, in netta crescita rispetto all’8,9% di marzo, al valore più alto dal settembre 1999. Un anno fa, nell’aprile 2008, il dato era al 7,3%. Secondo i dati destagionalizzati diffusi oggi da Eurostat, nell’Europa a ventisette la disoccupazione di aprile era all’8,6%, in salita sull’8,4% di marzo ed al valore più alto dal gennaio 2006. Ad aprile 2008 la rilevazione era del 6,8%. Eurostat stima che 20,825 milioni di uomini e donne in 27 paesi, di cui 14,579 milioni nella zona euro, erano disoccupati nel mese di aprile 2009. Rispetto a marzo, il numero di disoccupati è aumentato di 556.000 nei 27 e di 396.000 nella zona euro. Rispetto all’aprile 2008, il tasso di disoccupazione è salito di 4,653 milioni nei 27 e di 3,100 milioni
nella zona euro.Tra gli Stati membri per cui i dati sono disponibili (non l’Italia), i tassi di disoccupazione più bassi sono stati registrati nei Paesi Bassi (3,0%) e Austria (4,2%), e i tassi più elevati in Spagna (18,1%), Lettonia (17,4%) e Lituania (16,8%).
del ministero del Lavoro, i disoccupati in Spagna sono oggi 3,2 milioni. Le cifre dell’Istituto nazionale statistiche (Ine) a fine aprile indicavano, invece, che i disoccupati erano oltre 4 milioni (il 17,365 della popolazione attiva, il doppio della media Ue).
Intanto, il ministero del Lavoro di Madrid ha reso noto che a maggio la Spagna ha registrato, per la prima volta
Tornando ai dati Eurostat, tra aprile 2008 e aprile 2009, il tasso di disoccupazione per gli uomini è passato dal 6,6% all’8,9% nella zona euro e dal 6,3% all’8,6% nella Ue27. Il tasso di disoccupazione femminile è passato dall’8,2% al 9,4% nella zona euro e dal 7,3% all’8,5% nella Ue27. Nel mese di aprile 2009, il tasso di disoccupazione giovanile (sotto i 25 anni) è stato del 18,5% nella zona euro e del 18,7% nella Ue27. Nel mese di aprile 2008 era del 14,7% in entrambe le zone. Il tasso più basso è stato osservato in Olanda (6,0%), e i tassi più elevati e in Spagna (36,2%) e Lettonia (29,2% nel primo trimestre del 2009). Nel mese di aprile 2009, il tasso di disoccupazione era pari all’8,9% negli Stati Uniti.
Ma la Spagna a maggio inverte la tendenza: per la prima volta dall’inizio della crisi il numero dei senza lavoro è diminuito da oltre un anno, una battuta d’arresto nella crescita della disoccupazione. Il calo è stato dello 0,68% del numero dei disoccupati (24.741 in meno) rispetto al mese precedente; l’ultima diminuzione si era verificata nel marzo del 2008. Da allora le cifre della disoccupazione erano in crescita costante. Secondo i dati
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3 giugno 2009 • pagina 7
La Protezione civile: «La discarica non basta»
Protestano i Radicali: al via anche lo sciopero della fame
Ancora roghi a Palermo: militari contro l’immondizia?
Emma Bonino occupa gli studi Rai: «Ci ignorate»
PALERMO. Dopo una settimana
ROMA. Nuova, clamorosa prote-
di di sciopero dei lavoratori dell’Amia, a Palermo è ripresa la raccolta dei rifiuti. Ma per tornare alla normalità ci vorranno alcuni giorni, e non si fermano gli incendi di cassonetti e spazzatura. I vigili del fuoco sono dovuti intervenire più volte sia in periferia che in centro, per domare le fiamme di oltre cento roghi. Intanto, in città si è tenuto un vertice in prefettura al termine del quale il sottosegretario per l’emergenza, Guido Bertolaso, ha assicurato che entro sette giorni la situazione tornerà alla normalità. Ieri mattina due diciassettenni sono stati prima inseguiti, poi fermati e denunciati dalla Polizia mentre, vicino al porticciolo dell’Acquasanta, stavano appiccando il fuoco a un cumulo di spazzatura.
sta dei radicali contro il “silenzio”che accompagna in Rai la loro lista in lizza per le prossime elezioni europee: al termine della registrazione dello spazio di comunicazione politica, Emma Bonino ha comunicato la sua decisione di iniziare un’occupazione non violenta dello studio Rai. «Insieme a 50 tra parlamentari, dirigenti e militanti radicali - ha spiegato Emma Bonino - abbiamo iniziato uno sciopero della sete per chiedere conto alla Rai del mancato rispetto delle delibere dell’Autorità garante per le comunicazioni. Nonostante l’intervento del presidente Zavoli, i
Peugeot manda segnali (timidi) a Marchionne I francesi non escludono «alleanze o avvicinamenti» di Francesco Pacifico
ROMA. Tre mesi fa suo cugino Christian PeuMa, al di là dei proclami pubblici (siamo in campagna elettorale) e senza considerare l’aut aut del presidente del Consiglio che ha già spiegato che dopo le elezioni risolverà personalmente il problema, la Protezione civile sicialiana, per voce del suo capo Salvo Cocina ha lancianto un allarme molto concreto: «La discarica di Bellolampo ha difficoltà a ricevere una tale quantità di spazzatura. Ci servono nuovi macchinari,
geot aveva sbattuto la porta in faccia a Sergio Marchionne. Psa «è indipendente. E tale vuole restare», aveva spiegato in un’intervista al Giornale. Ieri – di fronte a un risiko dell’auto ormai frenetico – il presidente del consiglio di sorveglianza del colosso transalpino, Thierry Peugeot ha ribaltato le strategie sulle alleanze finora seguite. E mandato segnali a Torino. L’azionista della casa del Leone conferma che fondamentale resta l’indipendenza del marchio, ma aggiunge «che la famiglia non è del tutto contraria a prendere in esame certe alleanze o avvicinamenti».
Tradotto, si valuterà qualsiasi ipotesi a patto di ottenere la maggioranza relativa del nuovo gruppo. «Un azionista di riferimento con il 30 per cento», ha aggiunto monsieur Peugeot, «è una caratteristica importante per Psa». Queste parole potrebbero essere musica per gli Agnelli, che a dispetto delle dichiarazioni semiufficiali non hanno ancora chiarito se considerano l’auto ancora il loro core business o se finiranno per diversificare la tanta liquidità in Exor. Al momento non sono previsti viaggi di Marchionne in Francia, dove la Fiat vende soltanto 15mila vetture (2mila in più rispetto al 2008). Nei mesi scorsi il manager avrebbe poi stigmatizzato la differenze di vedute sul futuro dell’azienda tra gli azionisti Peugeot e la prima linea del management transalpino. Eppure guardare al colosso di Oltralpe così come a nomi del lusso come Bmw e Mercedes è quasi naturale per il manager italocanadese, se vorrà costituire una piattaforma produttiva da 6 milioni di veicoli all’anno. Prima di riaffacciarsi in Europa, però, Marchionne deve vagliare un altro dossier. «Prioritaria nella sua strategia è la conquista degli asset di General motors», nota Giuseppe Volpato, ordinario di economia e gestione delle imprese all’università Ca’ Foscari di Venezia. Gli sherpa di Fiat negli Stati Uniti continuano a lavorare su questo progetto, ben sapendo
che – come dimostra il caso Opel – il colosso di Detroit non intende fare alcuno sconto. «Ma recuperare la produzione di Gm in America Latina permetterebbe alla Fiat di consolidarsi in mercati ricchi come quello brasiliano e conquistarne altri strategici, oltre a distanziare il suo concorrente naturale,Volkswagen». Il pallino è ancora in America, dove Marchionne sarà sempre più di casa. Anche perché c’è da implementare la fusione con Chrysler, che parte ufficialmente – come ha stabilito ieri il tribunale fallimentare di New York – da giovedì prossimo. Per non parlare del lancio Oltreoceano delle Alfa o della 500, che proprio a New York ha visto il suo battesimo alle celebrazioni per la festa della Repubblica. «Sia per Peugeot, che è abbastanza ferma in questa fase, sia per il Lingotto, servono accordi verdi per tagliare i costi, non avvicinamenti. Che potrebbero andare bene per Bmw o Mercedes che devono differenziare la loro gamma e puntare sulle piccole per abbassare le loro emissioni di CO2», aggiunge Volpato. Va da sè che una Fiat che già oggi produce 4 milioni di vetture sarebbe un partner non facile per una Psa che di auto ne costruisce 3,5 milioni. Soprattutto per i disegni egemonici dei transalpini, che nei mesi scorsi avevano posto come prima condizione il trasferimento della newco a Parigi.
Accordo con Fiat soltanto conquistando il controllo della Newco. Torino però guarda alle attività di Gm in Sud America
al momento c’è solo una moto pala, che è insufficiente per gestire i materiali in arrivo da Palermo». Così, per affrontare l’emergenza si prospetta anche l’uso dei militari, vero deus-exmachina, in questi casi. «I militari italiani sono pronti a intervenire per l’emergenza rifiuti a Palermo ma il loro impiego non può essere un’abitudine» ha spiegato il ministro della Difesa, Ignazio La Russa. Ma per il momento non è stato ancora deciso in via ufficiale come e quando impiegare i soldati per ripulire Palermo. Sono già pronti 150 soldati del Genio, ma La Russa ha insistito: «Invito le autorità civili a ricorrere ai militari solo quando è veramente indispensabile».
Eppoi c’è da fare i conti con il governo francese, che nei mesi scorsi ha garantito linee di credito agevolate a Psa per 6,5 miliardi di euro. Una fusione con Torino comporterebbe forti esuberi ed è difficile che l’Eliseo li accetti, visto che ha vincolato gli aiuti al mantenimento degli stabilimenti produttivi. Non resta che aspettare. Anche perché Marchionne dovrà soffermarsi sul fronte italiano. La prossima settimana vedrà governo e sindacati per discutere della produzione domestica del Lingotto, che è destinata a calare di quasi il 20 per cento. Quindi ci sono da spegnere le proteste a Melfi, unico impianto veramente produttivo da noi del gruppo Fiat.
vertici della Rai sembrano voler continuare nella vera e propria truffa compiuta ai danni dei cittadini italiani, del loro diritto a essere informati».
Dunque Emma Bonino, capolista della Lista Bonino-Pannella alle europee è in sciopero totale della fame e della sete dalla mezzanotte di ieri. Nel comunicato che annuncia la duplice, clamorosa iniziativa di protesta, si legge: «Mentre ci prepariamo in queste ore a nuove azioni legali, anche sul versante della giustizia penale, ho deciso di non abbandonare gli studi della Rai, di non lasciare la sede di questa azienda fino a quando non saranno realizzate - ripeto, “realizzate”, non genericamente garantite, magari “a babbo morto” per dopo le elezioni azioni di immediata riparazione e interruzione dell’attentato ai diritti civili e politici dei cittadini». Il comunicato continua dicendo: «Diffidando preventivamente fin d’ora chi vorrà parlare di “protesta radicale per la visibilità in TV”, visto che di tutta evidenza di qualcosa di più grave e serio si tratta, mi auguro che i “Grossi” Leader politici di questo Paese non vorranno continuare ad essere protagonisti e complici di quanto sta accadendo. Per quanto ci riguarda, continuiamo a dar corpo a una sete di verità e legalità che è, sempre più, anche quella del popolo italiano».
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Tragedie del cielo. Dopo un’altra giornata di ricerche sono state trovate tracce del velivolo nel quale sono morti dieci italiani
L’airbus del mistero È ufficiale: identificati al largo del Senegal i resti dell’aereo caduto nell’Atlantico di Nicola Accardo
PARIGI. Si chiama “pot au noir” (vaso nero) quella zona intertropicale dove si stanno svolgendo le ricerche dell’Airbus A330-200 scomparso nei cieli tra il Brasile e il Senegal lunedì mattina con 228 persone a bordo tra cui dieci italiani. Si tratta una zona di bassa pressione nei pressi dell’equatore attraversata da venti freddi e caldi che causano fortissime turbolenze, zona di calme e di colpi di vento improvvisi che si trova in Atlantico attorno alla linea dell’Equatore. Ieri mattina un aereo brasiliano ha avvistato rottami di aereo a 650 chilometri a nordest dell’isola di Fernando de Norohna, tra cui un sedile delle tracce di kerosene. Nella notte «elementi luminosi» nelle acque a 1300 chilometri dall’omonimo arcipelago erano stati individuati da un aereo della compagnia di linea brasiliana Tam. Il pot au noir resta nero anche per le ricerche, finora senza un esito concreto perché il numero di serie dell’aereo non è stato individuato sui rottami. In quella zona, a mille chilometri dalle coste del Brasile e a duemila da quelle del Senegal si adoperano intere flotte marine ed aeree: sei aerei, due elicotteri e tre navi dal Brasile, un
aereo militare con squadra di salvataggio americani, tre navi e due aerei militari francesi. Questi ultimi sono dotati di canotti e salvagente, come se ci fosse ancora qualche speranza di trovare qualcuno che nuota in mare. «Bisogna continuare a cercare», diceva ieri mattina il colonnello brasiliano Jorge Amaral, che non ha voluto da-
Come per Ustica un inchiesta è stata aperta dal parquet di Parigi, come annunciato dal ministro dei trasporti Jean-Louis Borloo: gli esperti del Bureau delle inchieste sugli incidenti «non credono che un semplice fulmine, che in fondo è un qualcosa di classico in aeronautica, abbiamo causato la sparizione del velivolo», ha spiegato il mi-
L’avvistamento in una zona di bassa pressione nei pressi dell’Equatore attraversata da venti freddi e caldi che causano fortissime turbolenze, area di calme e colpi di vento improvvisi re conferma dell’identità dell’aereo nonostante il ritrovamento dei rottami. Il mistero dell’aereo fulminato, esploso, precipitato per oscure ragioni, ricorda il dramma di Ustica, e un aereo che l’Italia sta ancora cercando: «È stato un evento improvviso: sembra essere sparito nel nulla. Sembra ciò che accadde al Dc 9 dell’Itavia al largo di Ustica: anche quell’aereo sparì nel nulla improvvisamente», ha commentato il giudice Rosario Priore che ha indagato sulla scomparsa dell’aereo esploso il 27 giugno del 1980 con a bordo 81 persone e probabilmente abbattuto da un missile.
nistro. «Deve esserci stata davvero una successione di eventi straordinaria per spiegare o tentare di spiegare questa situazione». «Sembra una perdita di controllo del velivolo legata a tutta una serie di fenomeni», ha aggiunto il segretario di stato Dominique Bussereau. «Non possiamo escludere nulla finché non avremo elementi certi». Neppure l’idea dell’attentato, dunque. Secondo il ministro della Difesa Herve Morin, non si può «escludere che si sia trattata di un’azione terroristica perché questa è la minaccia principale per le democrazie occidentali», anche se al momento non c’è alcun elemento
che «consenta di avvalorare» questa ipotesi.
Intanto Air France ha inviato una squadra di psicologi anche a Rio de Janeiro, per aiutare i parenti delle vittime che, secondo Guillaume Denoix de SaintMarc, portavoce dell’associazione delle vittime del DC 10 UTA (volo tra Brazzaville e Parigi esploso nel 1989 facendo 170 morti), «possono ancora serbare una piccola speranza». Sono però già iniziati il lutto e le commemorazioni: un minuto di silenzio è stato osservato all’Open di tennis di Francia alle porte di Parigi, domani pomeriggio alle 16 si terrà una messa solenne a Notre Dame in presenza del presidente della Repubblica Nicolas Sarkozy. Una preghiera che assume caratteri interreligiosi: anche la grande Moschea di Parigi osserverà il raccoglimento oggi alle 14.
«L’ho saputo all’ora di pranzo, nel pomeriggio ero già sull’aereo. Il nostro è un mestiere folle, ci lamentiamo, ma nei momenti di difficoltà teniamo duro, uniti». Henry (lo chiamiamo così per garantire il suo anonimato), parigino, steward di Air France da parecchi anni, era a Città del Messico quando ha saputo della tragedia. Nel pomeriggio ha ripreso l’aereo, di servizio su un altro volo intercontinentale per Parigi. «La rotta Rio de Janeiro-Parigi l’ho fatta una decina di volte. Su quel volo c’erano dei colleghi con cui ho volato in diverse occasioni. Ad ogni tragedia aerea per noi è uno choc, non tutti riescono a superarlo». Henry parla a nome della sua categoria, «il personale di bordo commerciale»: «Può capitare a chiunque di noi, domani, tra una settimana, tra un mese. Il pericolo fa parte del nostro mestiere. Ie-
Le trappole del linguaggio tecnico per capire le dinamiche di un disastro aereo
La fiera degli errori (e delle incognite) di Pierre Chiartano ind aloft», cat (clear air turbolence), troposfera, sono termini comuni in gergo aeronautico, che sembrano presi dalle pagine dei racconti del barone di Munchausen. Ma così non è. Spesso non conoscerli induce in errore gli operatori dell’informazione, nella fretta di cucinare notizie da sparare in pagina o nei notiziari. Si alimenta il mistero con la scarsa conoscenza di alcuni aspetti tecnici. Chi legge – più di chi scrive – non è tenuto a sapere tutto e così la carta stampata, ogni tanto, si popola di “perle”. Lunedì è stata la volta del volo Air France, con il tragico carico
«W
di vittime e le voci che si rincorrevano impreziosite da “inesattezze” di varia natura. Facciamo un breve elenco. L’errore più frequente è quello di confondere il controllo del traffico aereo con la copertura radar. Anche senza l’ausilio di questa dotazione i centri Ats (Air traffic service) sono in grado di gestire e controllare un volo con il cosiddetto controllo procedurale. Cioè verifiche cadenzate – dal tempo o dal riferimento geografico – lungo la rotta. Sull’Atlantico è difficile trovare radioassistenze, anche se su rotte trafficate esistono navi radio-faro. C’è anche il gps, dove esiste copertura. «È scomparso dai radar»
a 190 miglia dalle coste brasiliane: significava solo che lo sfortunato volo dell’Airbus 330 era uscito dalla portata del rilevamento elettromagnetico, non che fosse già caduto in mare. Altra perla: «la quota in rottaera di 35mila piedi – poco più di 10mila metri – il comandante poteva volare sopra qualsiasi formazione nuvolosa pericolosa», cioè con forte attività di correnti verticali: la cosiddetta turbolenza. Errore, perché sull’Equatore, la parte d’atmosfera interessata da fenomeni meteo (i tecnici la chiamano troposfera) è maggiore. Segue l’andamento della crosta terrestre, schiacciata ai poli, più spessa lungo la
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LE NOSTRE VITTIME
«È stato un evento improvviso: sembra sparito nel nulla, come accadde al Dc 9 dell’Itavia al largo di Ustica: anche quell’aereo sparì improvvisamente», ha detto Rosario Priore ri non è stato facile salire sull’aereo, ma un discorso del comandante è bastato per rincuorarci. Poi c’è l’immagine che dobbiamo dare ai passeggeri: dobbiamo restare calmi e trasmettere sicurezza». Quella tra Rio de Janeiro e Parigi è una rotta come tutte le altre: «Dappertutto sopra gli oceani si attraversano temporali e burrasche, i piloti le vedono e riescono ad evitarle. Non ho mai avuto una sensazione di pericolo particolare su quella rotta. La più grossa turbolenza l’ho vissuta sopra la Cina, quando dei passeggeri hanno lasciato dei buchi sul soffitto talmente hanno sbattuto forte la testa».
Il crash di un A330 è lo sgretolamento di un punto fermo, di una sicurezza mai messa in dubbio:«Quell’aereo, è il nostro aereo, quello su cui saliamo tutti i giorni. Pensavamo fosse indistruttibile, le ali sono capaci di un movimento verticale di 7 metri quando va incontro a una turbolenza». Inutile chiedere a Henry se ha ancora voglia di volare: «È il mio mestiere», spiega. Ma aggiunge: «Ora sono in vacanza, capita a fagiolo». Qualcosa cambierà lo stesso: «Ho deciso di non volare più con mia moglie (che è hostess). Abbiamo un bambino piccolo è così saremo più tranquilli».
sua circonferenza. In Italia, che si trova ad una latitudine media, è di circa 12mila metri.Lì, proprio dove volava l’Airbus è di 15mila metri il limite dove trovare cattive condizioni meteo. Ancora sull’ipotesi di un cedimento strutturale da turbolenza – giustificato anche dal rilevamento automatico di una decompressione esplosiva, inviato via satellite alla compagnia – qualche giornale dichiarava «c’era il radar meteo a bordo». Cioé l’equipaggio era in grado di evitare tempeste e le micidiali «linee di groppo», quando due fronti freddi si scontrano e producono cumuli nembi al cui interno si scatenano forze da cui è utile stare alla larga. Qualsiasi pilota abbia mai usato quegli aggeggi sa bene che hanno un utilizzo limitato e non possono mai sostituire il cosiddetto meteo-briefing che un equipaggio fa prima del volo. Quella zona equatoriale è famosa per i repentini
Giovanni Batista Lenzi, 58 anni, era sposato e padre di due figlie. Già sindaco di Samone (Trento), dove risiedeva. Dal 2003 era consigliere regionale. Era presidente della prima Commissione del Consiglio della Provincia autonoma di Trento e membro della Consulta emigrazione. Luigi Zortea, 66 anni, sposato e padre di due figli, era stato sindaco di Canal San Bovo (Trento). Negli anni ’90 ideò l’incentivo di natalità e di nuzialità per frenare lo spopolamento nel Vanoi. Rino Zandonai, 60 anni, di Villa Lagarina (Trento), sposato e padre di due figlie, dal 1991 era direttore della Associazione Trentini nel Mondo. Alexander Paulitsch, 35 anni, consulente aziendale di San Candido (Bolzano). Georg Lercher, 34 anni, imprenditore del settore del legno con un azienda che fornisce i cantieri edili, anche lui di San Candido (Bolzano). Georg Martiner, 25 anni, di origine brasiliana, in tenera eta’ era stato adottato da una famiglia di Ortisei, da poco tempo trasferita a Bolzano. Il viaggio in Brasile lo aveva intrapreso per un ritorno nella sua terra di origine. Claudia degli Esposti, 56 anni, di Bologna. Enzo Canaletti, 50 anni, residente al Lido di Venezia. Era primo maresciallo presso la caserma di Malcontenta del Reggimento Lagunari Serenissima. Angela Cristina de Oliveira Silva (moglie di Enzo Canaletti), 51 anni, era nata a Rio de Janeiro. Agostino Cordioli, 73 anni, originario di Nogarole Rocca (Verona), ma risiedeva da molti anni a Villafranca.
cambi di tempo e la forte turbolenza. Inoltre il climate change ha sostanzialmente modificato il comportamento di molti fenomeni meteo, rendendoli meno prevedibili e più intensi. Guasto tecnico o errore del pilota? Spesso è questa l’alternativa posta sui giornali. Sbagliata, perché un incidente aeronautico ac-
perizia dei piloti – serve un allineamento dei pianeti. Insomma serve la vera ”sfiga”. Tant’è che volare è ancora il sistema più sicuro per spostarsi. Poi qualche giornalista, in vena di exploit tecnici, ha tirato in ballo la «cat». Si tratta della «turbolenza in aria chiara», cioè non in mezzo a una tempesta. È un problema serio e ha provocato numerosi incidenti. Certo, ma solo in fase d’atterraggio o decollo, quando l’aereo è vicino al suolo. Tirarla in ballo per la vicenda del volo Air France, c’entra come i cavoli a merenda. In tutta questa vicenda c’è un argomento di cui poco si parla e sono le limitazioni strutturali operative degli Airbus. «Aerei fra i più moderni e sicuri», scrivono tutti. Ed è vero. Se però parli con i piloti di tutte le compagnie aree che hanno avuto l’occasione di addestrarsi su quei mezzi e anche, ad esempio, sui Boeing, la storia che rac-
Traduzioni sbagliate e termini tecnici usati a sproposito spesso danno un’immagine distorta della realtà di questi tragici eventi cade sempre per una sovrapposizione e una concomitanza di entrambi i fattori. I sistemi di bordo sono ridondanti. C’è sempre un apparato di riserva, a volte anche due. L’errore umano è mitigato dalle procedure di volo, sempre improntate a doppi e tripli controlli, effettuati da almeno due membri dell’equipaggio. Perché ci sia un incidente – fatte salve le condizioni di navigabilità dell’aereo e la
contano è un po’ diversa. Niente di scandaloso. Però gli aerei francesi, che fanno meraviglie a livello di prestazioni aerodinamiche e hanno un avionica – altro termine tecnico per chiamare l’elettronica di bordo – sopportano meno gli “stress”strutturali. Ad esempio le virate con accelerazioni positive (load acceleration limits o G load) hanno limiti più bassi della media. Quando un aereo che viaggia a 800 chilometri all’ora incrocia una corrente verticale è come un auto che prende una buca. Le forze in campo si sommano alla velocità. Se come si è letto ieri su di un quotidiano, un aereo dovesse impattare una «venti verticali a 300 chilometri all’ora», anche un 747 andrebbe in tanti pezzi. In questo caso, è stata la traduzione dall’inglese a ingannare il giornalista. «Wind aloft» il vento in quota orizzontale, si è trasformato in una «buca» profondissima. Anche per la comprensione dei lettori.
Tiananmen vent’anni dopo
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l movimento democratico del 1989 è partito in Cina e si è diffuso per l’intero mondo comunista. I regimi socialisti dell’ex Urss e dell’Europa sono collassati, e nuove democrazie hanno preso il potere in molti Paesi. Il mondo è cambiato, nonostante i comunisti siano ancora al potere in Cina, Corea del Nord, Cuba e Vietnam. Questo movimento democratico è nato in realtà nel 1978, con degli alti e bassi che sono durati circa dieci anni e che hanno raggiunto il loro massimo storico nel 1989, quando è stato brutalmente distrutto dal governo cinese. Alla fine del 1978, infatti, il Partito comunista cinese si ritrovò ad affrontare una lunghissima lotta interna per il potere. I suoi leader erano concentrati sulla questione, e davano molta meno attenzione a quello che succedeva nel Paese. Moltissime persone, che durante gli anni più duri della repressione maoista non avevano avuto modo di far sentire la loro voce, si radunarono a Pechino per affiggere le loro lamentele sui muri della città, raccontando le loro sofferenze. Un muro lungo circa 200 metri a Xidan, vicino alla piazza Tiananmen, era divenuto subito uno dei più ambiti per queste affissioni: si trattava dei mattoni noti in seguito come Muro della Democrazia. Dopo la Rivoluzione Culturale, molti giovani cinesi hanno iniziato a riflettere su quella che all’epoca era la società cinese, e a chiedersi se non fosse il caso di cambiare il sistema politico nazionale. Molto presto, quelle idee e le riflessioni che generarono vennero attaccate sul Muro della Democrazia. L’allora presidente Deng Xiaoping, al centro della lotta interna per il potere, stava usando “’opinione pubblica per sconfiggere il suo nemico principale, Hua Guofeng, erede designato di Mao Zedong. L’argomento principale usato da Deng riguardava il futuro delle riforme politiche ed economiche decise dal
I
Le memorie del creatore del Muro della Democrazia, che racconta la Cina di ieri e quella di oggi Lo scatto più famoso della repressione studentesca avvenuta a piazza Tiananmen il 4 giugno del 1989. Lo studente tiene in mano una borsa di plastica e cerca di fermare i carri armati
4 GIUGNO 1989 IIll ggiornoo cchhee cambbiiòò iill m mo on nddoo Ma la nostra battaglia non è ancora finita di Wei Jingsheng Grande Timoniere. Praticamente tutti i tazebao affissi sul Muro sostenevano Deng nella decisione di cambiare quelle politiche. D’altronde, i pensieri e le prospettive dei giovani del Muro andavano molto oltre quelle di Deng: si sosteneva infatti che soltanto un sistema democratico avrebbe potuto modernizzare la Cina, incanalandone lo sviluppo nel giusto binario. Alcuni dei più moderati sostenevano che il sistema comunista doveva essere costretto all’evoluzione senza
fratture. Ma nessuno credeva possibile che, senza democrazia, si sarebbero potute risolvere le problematiche legate alla politica e alla società. Il mio articolo - La quinta modernizzazione, la democrazia ebbe un impatto enorme, e presto divenne la summa dei pensieri attaccati sul Muro. Il testo venne copiato a mano e diffuso per tutta la nazione, rendendo noto a tutti il Muro e mettendo la questione democratica al centro del dibattito pubblico. Dopo tutto, a quel
tempo immaginare una democrazia al posto di un totalitarismo monopartitico era da folli. La democrazia pluralista rappresentava un’idea che Deng, e alcuni fra i più estremisti nella leadership, non potevano tollerare. La loro ideologia di vita e tutti i benefici che erano riusciti ad ottenere derivavano proprio dal sistema comunista. Il fatto poi che questi giovani, e le loro idee, fossero estremamente ben accetti dalla popolazione rendeva il governo ancora meno tollerante nei nostri
Tiananmen vent’anni dopo
L’attualità della memoria La memoria è lo strumento con cui l’uomo incanala all’interno della sua consapevolezza i fatti salienti della propria esperienza di vita. Per questo è importante, oggi più che mai, ricordare il sacrificio e lo scontro cui si sono sottoposti dei giovani - per la maggior parte senza nome - che sono morti in nome di ideali che tutti noi siamo chiamati a condividere. Per quanto i fatti di Tiananmen sembrino sbiaditi e lontani, per quanto la Cina abbia cambiato volto e accumulato fortuna, non sarebbe giusto pensare a quegli avvenimenti come a un qualcosa di sorpassato. La cronaca contemporanea dell’Impero di Mezzo ci ricorda quasi quotidianamente quanto quella richiesta di democrazia e libertà sia necessaria ancora oggi, nonostante il nuovo volto del Partito.
Q uel li di pi azz a non erano eroi, ma giovani patrioti innamorati del loro Paese. Convinti che la Cina avesse le carte in regola per sedere fra i grandi del mondo a pieno diritto. Il loro sangue ha concimato questa crescita: l’omaggio che gli rendono i loro compagni dimostra che non sono, e non saranno, dimenticati.
confronti. Di conseguenza, appena Deng ottenne la sua vittoria intera, la prima cosa che fece fu demolire il Muro. Avendo sentore di quanto stava per accadere, scrissi un articolo in cui sostenevo la natura dittatoriale del nuovo presidente. Alla fine del marzo 1979, tre giorni dopo la pubblicazione di quel testo, venni arrestato: il primo a finire in galera per aver chiesto democrazia alla Cina.
Subito dopo questi avvenimenti, la leadership comunista prese una serie di misure atte a rimuovere dalla memoria popolare ogni riferimento al nostro movimento. Ma fallirono. Il Muro non era più lì, ma il suo significato camminava all’interno del cuore dei cinesi: nelle università, nelle fabbriche e in alcuni casi persino all’interno del Partito. Durante il corso degli anni Ottanta, il movimento democratico riprese forza. La richiesta di un nuovo movimento politico cresceva non soltanto fra gli intellettuali, ma anche fra i politici. E questa novità ebbe l’effetto di isolare i conservatori, guidati da Deng, che promuovevano una riforma «economica ma non politica». Per aver sostenuto che molti problemi economici derivavano proprio dal sistema politico, molti dei riformatori politici - fra cui Hu Yaobang e Zhao Ziyang - incontrarono una durissima resistenza dai loro compagni. Eppure, questi pochi illuminati sapevano di avere il sostegno popolare; lo sapeva anche Deng, che iniziò a stringere i suoi legami con i militari nel tentativo di rafforzare la propria posizione. Un professore di nome Fang Lizhi divenne molto famoso in tutta la Cina per la richiesta di
democrazia fatta nell’indel verno 1988. Insieme ad alcuni intellettuali di spicco della capitale, il professore scrisse una lettera a Deng in cui chiedeva riforme politiche e il rilascio mio e di tutti gli altri prigionieri politici. Questo atto scatenò una serie di richieste a cascata, soprattutto all’interno dei campus universitari. Persino alcune sezioni del Partito iniziaro-
“
Oggi non esiste più la Cina di 20 anni fa: i dissidenti hanno più mezzi per farsi sentire. Con il loro coraggio, le vittime ci danno la forza per continuare questa battaglia
”
no a interrogarsi sul contenuto della lettera: fonti autorevoli confermano uno scontro pesantissimo avvenuto all’epoca fra Hu Yaobang, allora segretario del Partito poi costretto alle dimissioni, e Li Peng, all’epoca premier e capofila dei conservatori. Poco dopo questo scontro, Hu morì per un attacco cardiaco; questo evento scatenò il dolore e la rabbia della popolazione di tutta la Cina. Gli studenti iniziarono a sfilare per le strade chiedendo di ricordare la memoria di Hu, arrivando a scontrarsi con la polizia militare. Milioni di persone scesero in piazza per protestare: a Pechino presero il
controllo studenti e cittadini comuni, rendendo la città più sicura che mai. Prima del movimento democratico, la popolazione non parlava di politica: temeva di essere arrestati e condannati dal governo. Una volta ottenuto il diritto di parola, moltissimi iniziarono a scambiarsi opinioni, arrivando a comprendere che queste erano simili e diffuse.Incoraggiati dalle idee del professor Fang, alcuni chiesero di nuovo il mio rilascio dal monumento centrale di piazza Tiananmen. Ma altri dissero che ero un controrivoluzionario, e che il mio rilascio sarebbe stato dannoso. Stessa sorte per tre giovani della provincia dell’Hunan, che tirarono delle uova contro il ritratto di Mao Zedong che campeggia sulla piazza [la testimonianza di uno dei tre, Lu Ducheng, si trova a pagina 15 ndr]. Gli studenti temevano che questo gesto avrebbe nuociuto alla loro causa, dato che molti ancora amavano sinceramente il Grande Timoniere.
Per questo, dopo un incontro e una votazione, decisero di arrestare i tre giovani e consegnarli alla polizia: persino dopo il massacro, i tre sono stati considerati “troppo aggressivi” e hanno pagato in galera per il loro gesto.Tutto questo, che sembra una contraddizione, avvenne perché alcuni fra i leader studenteschi speravano in una cooperazione con i riformisti del Partito, guidato da Zhao Zhiyang. Si pensava che Deng avrebbe presto ceduto il potere, e che il nuovo leader avrebbe lanciato la tanto attesa riforma politica. Dopo alcuni giorni, la natura della protesta cambiò: non si chiedevano più soltanto riforme, ma si era arrivati a domandare l’allontanamento dei conservatori dalla vita politica cinese. Allo stesso tempo, operai e contadini si unirono agli studenti in rivolta. I cartelli cambiavano continuamente: per la prima volta in decenni di storia, la popolazione vedeva cosa pensavano gli altri e aggiornava, confrontandole, le proprie idee. Proprio questo motivo ha convinto altre centinaia di persone a unirsi alla protesta: la possibilità di esprimersi liberamente, senza paura di ritorsioni o timori di sorta. Il cambiamento colpì persino i mezzi di comunicazione: anche se tutti controllati di fatto dalla politica, alcuni iniziaro-
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no a esprimere idee non ortodosse, anche se non apertamente contrarie al Partito. In una situazione normale, Deng e la sua cricca di conservatori avrebbero ceduto il potere in obbedienza all’evidente volere popolare. Invece, questi comunisti di vecchia data - forti del controllo sull’esercito - non mollarono.
Dal loro punto di vista era in corso un colpo di Stato, che andava domato con i vecchi metodi. I carriarmati e i soldati furono inviati in piazza a sparare sui dimostranti, che vennero massacrati. I riformisti guidati da Zhao fecero il possibile, senza però appoggiare apertamente i dimostranti. Avevano paura anche loro di perdere il potere, e di assistere alla fine che pochi mesi dopo sarebbe stata riservata all’Unione Sovietica. Hanno lasciato i soldati liberi di massacrare la popolazione nelle strade di Pechino. Quello cinese non era un esercito composto da professionisti: ai soldati veniva detto di «ubbidire al Partito e combattere per il popolo». Ma anche così, l’ordine di uccidere civili venne preso male: Deng dovette faticare molto per convincere i suoi uomini. Moltissimi generali si rifiutarono di dare l’ordine finale: Xu Qinxian, capo del 38esimo Reggimento e generale d’armata, venne arrestato per non aver voluto sparare sui suoi concittadini. Insieme a lui vennero allontanati i generali Zhang Aiping e Hong Xuezhi e il ministro della Difesa, Qin Jiwei. Eppure, nessuno riuscì a fermare Deng. Lo stesso avvenne sul campo: moltissimi soldati fuggirono per non sparare contro gli studenti, e lo stesso fecero i loro comandanti. Eppure, gente senza scrupoli e affamata di potere non ebbe le stesse remore. Il risultato è noto: Deng vinse la sua battaglia, il movimento democratico - che avrebbe potuto cambiare il fato della Cina fallì, e la vita di migliaia di civili venne stroncata. Eppure, il coraggio e l’esempio dei cinesi ha fornito la spinta necessaria ai popoli sovietici ed europei, che con le loro rivoluzioni hanno cambiato il mondo. Il massacro di Pechino ha mostrato al mondo la vera natura del regime totalitaristico comunista, sottolineando come sia il Partito il vero ostacolo alla modernizzazione in senso totale della Cina. Eppure, una speranza esiste ancora. Quella di oggi non è la Cina di venti anni fa, e i democratici hanno più mezzi per far sentire la loro voce. Con il loro coraggio e la loro testimonianza, i morti di Tiananmen ci danno la forza per continuare la nostra battaglia.
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uest’anno si celebra il ventesimo anniversario del massacro del quattro giugno. Come gruppo di cittadine cinesi che in quella tragedia hanno perso i propri cari, e con i nostri cuori stretti in profondo cordoglio, vogliamo rivolgere la seguente dichiarazione tanto ai nostri concittadini in patria ed all’estero quanto a tutti gli individui virtuosi e di buon animo nel mondo.
Q
Tra il 3 ed il 4 giugno 1989, un massacro su larga scala di pacifici dimostranti e residenti si verificò a Pechino, capitale della Repubblica Popolare Cinese; un massacro ordinato dalle autorità governative e posto in essere dalle forze militari. Migliaia di civili furono feriti o uccisi nel corso di questp bagno di sangue. I maggiori responsabili di questa cruenta tragedia sono: l’ex Presidente della Commissione Militare Centrale del Partito Comunista Cinese (Pcc), Deng Xiaoping; l’ex Primo Ministro della Repubblica Popolare Cinese, Li Peng; L’ex Presidente della Repubblica Popolare Cinese, Yang Shangkun;
l’Uomo, nella Convenzione internazionale sui diritti civili e politici ed in altre convenzioni siglate in seno alle Nazioni Unite, non solo noi riteniamo che quell’azione militare rappresentò una palese violazione dei dettami costituzionali del nostro Paese e di tutti gli impegni assunti come Stato sovrano a livello internazionale al fine di vigilare sul rispetto dei diritti umani, ma riteniamo anche che il persistente disprezzo dei diritti umani e delle libertà civili costituiscano un oltraggio nei confronti dell’umanità. In Prigioniero dello Stato: il diario segreto del primo ministro Zhao Ziyang, memoriale basato su registrazioni audio dell’ex Segretario Generale del PCC, Zhao Ziyang afferma: «Non volevo diventare un Segretario Generale che apre il fuoco sulla gente». Ciò dimostra come al tempo le opinioni di Zhao divergessero ampiamente da quelle di Deng e Li su questioni quali la gestione globale del movimento studentesco, o sulla scelta tra perseguire una soluzione pacifica o una soluzione militare. Alla fine, Zhao ne uscì sconfitto. Oggi, persone di
Il testo della lettera aperta che le “madri di Tiananmen” (il gruppo che riunisce i familiari delle vittime del massacro) hanno scritto al governo di Pechino per chiedere il varo di una commissione d’inchiesta sul 4 giugno
Signor Hu Jintao,
Noi mamme l’ex sindaco di Pechino, Chen Xitong; e l’ex Segretario del Partito di Pechino, Li Ximing. Alcuni tra questi sono deceduti. Altri hanno lasciato i propri incarichi. Ma Li Peng, che è ancora vivo, non fu solo parte in causa nelle decisioni di alto livello che portarono a tale massacro, ma venne incaricato direttamente di compierlo. Fu proprio la legge marziale voluta da Li Peng a determinare l’eccidio su larga scala dei pacifici abitanti di Pechino da parte dei reparti d’emergenza. Come tutti sanno, tra l’aprile ed il giugno 1989 non vi fu alcuna insurrezione armata o sommossa nel distretto di Pechino; ciononostante il governo mobilitò parecchie centinaia di migliaia di soldati per irrompere nella capitale e massacrare pacifici dimostranti e residenti: un chiaro abuso di potere da parte delle forze armate. In virtù delle disposizioni contro le violazioni a danno della libertà personale dei cittadini contenute nella Costituzione della Repubblica Popolare Cinese; in virtù dei fondamentali diritti umani, quali la dignità ed il valore di ogni individuo, sanciti dalla Carta delle Nazioni Unite; e in conformità con gli standard internazionali sulla tutela dei diritti umani riaffermati nella Dichiarazione Universale dei Diritti del-
vari settori della società civile serbano le più disparate interpretazioni dei fatti del giugno 1989. Ma la percezione alla base di quanto avvenuto al tempo non è cambiata; né è cambiata la percezione dell’essenza della tragedia. Essa rimane un sanguinoso massacro di civili inermi.
“
Siamo alla mercè di una classe dominante prodotta dai privilegi fondati sul potere. Questa élite detiene il controllo di tutte le risorse nazionali e decide le opportunità e l’esistenza di tutta la nazione
”
Come comunità delle vittime della tragedia del quattro giugno, nel corso dei vent’anni successivi al massacro abbiamo deciso di profondere tutte le nostre energie e di non esimerci da sforzo alcuno al fine di individuare, uno dopo l’altro, ogni singolo individuo
perito in tali tristi circostanze. Allo stato attuale, siamo riusciti ad identificare 195 persone. Il numero di persone sinora identificato non può rappresentare né la maggioranza né la cifra complessiva delle vittime. A quanti non siamo ancora riusciti ad identificare porgiamo le nostre più sentite scuse ed il nostro rimorso. Ci sentiamo profondamente turbati nel sapere che per vent’anni i loro parenti sono stati preda del tormento, del dolore e della solitudine, impossibilitati a ricevere assistenza umanitaria e cure da persone all’interno e al di fuori del proprio paese. Con la presente dichiarazione intendiamo quindi rivolgere un accorato appello a quanti siano in grado di fornire informazioni sulla tragedia: per favore, forniteci indizi sulle vittime, anche i più insignificanti. Non possiamo permettere che una negligenza di un attimo si traduca in un eterno oblio.
Negli anni immediatamente successivi alla tragedia, il Segretario Generale del Pcc Jiang Zemin dichiarò categoricamente: «Se al tempo non avessimo adottato misure severe, non avremmo potuto garantire la stabilità di cui oggi godiamo. Fatti in principio negativi si sono alla lunga rivelati forieri di situazioni positive». I
maggiori esponenti politici odierni hanno smesso di rievocare le parole “quattro giugno”, relegando tale espressione al rango di impronunciabile tabù: la Cina si ritrova alla mercè di una classe dominante prodotto della cospirazione ordita dal capitale e dai privilegi fondati sul potere. Questa élite detiene il controllo di tutte le risorse nazionali ed allocano le opportunità e l’esistenza di una nazione intera; essa si cura esclusivamente del profitto, e rifiuta categoricamente di discutere del “quattro giugno”. Dopo vent’anni di insabbiamenti e raggiri, le autorità governative hanno trasformato l’intera società in un guscio vuoto di squisita bellezza all’interno del quale albergano l’ostentazione, l’indifferenza, la gratificazione istantanea; e la depravazione, la mancanza di equità, di giustizia, di onestà, di vergogna, di riverenza, di rimorso, di tolleranza, di responsabilità, di compassione e di affetto... C’è un solo punto fondamentale a cui al Pcc importa tener fede: la determinazione nel non perdere il proprio
potere assoluto. I nostri dirigenti parlano apertamente di diritti umani, di libertà, di democrazia, di istituzioni operanti all’interno dei vincoli della legalità; ma, come illusionisti, usano questi argomenti come esche al solo scopo di guadagnare immeritato credito. Essi non sono preparati a muovere concessione alcuna ad un’evoluzione del panorama politico sull’esempio dei sistemi democratici occidentali, e cioè regimi di democrazia parlamentare in cui vige la competizione multipartitica. In special modo, essi non consentiranno mai ad un’opposizione politica di lanciare una sfida alla dittatura del Partito Comunista. Nei vent’anni appena trascorsi, i fatti del quattro giugno hanno segnato uno spartiacque nella storia e nella politica della Cina contemporanea.
Sulla base delle considerazioni di cui sopra, nel corso degli ultimi dieci anni abbiamo ripetutamente inviato lettere al Congresso Nazionale del Popolo per esprimere le seguenti considerazioni.
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dolorose sono state nostre maestre: vogliamo giustizia per i defunti, ma non chiediamo l’elemosina a coloro che ora siedono al potere. Le“riabilitazioni”ed i“proscioglimenti” utilizzati nel passato dalle autorità comuniste non costituiscono altro che un ritorno ai metodi dell’era imperiale. Per vari decenni il Pcc ha ripetutamente condotto campagne ed epurazioni politiche, seguite da puntuali“riabilitazioni”e“proscioglimenti”, riuscendo in seguito a far sì che i cosiddetti “riabilitati” porgessero i propri ringraziamenti al “meraviglioso” e “potente”Pcc, come se si stessero inchinando di fronte al trono imperiale. Possiamo fare assegnamento solo su noi stessi se vogliamo difendere e lottare per i diritti e la dignità che ci appartengono, così come per i diritti e la dignità dei nostri defunti. Non possiamo dipendere dalla carità altrui.
di piangere liberamente i propri cari; 3) La fine delle intercettazioni e delle confische delle donazioni umanitarie provenienti dalla Cina e dall’estero, e la restituzione di tutte quelle somme di denaro congelate dal governo; 4) Nello spirito dell’umanitarismo, la possibilità che i ministeri governativi forniscano aiuto alle vittime che versano in condizioni di estrema indigenza affinché queste possano trovare impiego e garantirsi il sostentamento, senza pretendere contropartite politiche in cambio dell’assistenza; 5) l’eliminazione di tutte le discriminazioni politiche nei confronti degli invalidi vittime del quattro giugno e la richiesta che ad essi venga riservato lo stesso trattamento delle altre persone diversamente abili per questioni quali la partecipazione alla vita di comunità, le tutele sociali, ecc...
Al fine di pervenire ad un’equa e ragionevole composizione della questione del quattro giugno, abbiamo sempre ritenuto di doverci attenere ai principi della pace, della razionalità, della democrazia e dello stato di diritto. Il Congresso Nazionale del Popolo dovrebbe istruire dei procedimenti legali ed inoltrare una mozione
Dal 1997, abbiamo scongiurato il Comitato Permanente del Congresso Nazionale del Popolo di modificare il proprio atteggiamento di noncuranza nei riguardi dell’opinione pubblica, impegnandosi in un dialogo sincero e diretto. In occasione del decimo anniversario di quei tragici eventi, abbiamo deciso di co-
smo per la comunicazione. Riteniamo che i tempi siano ormai maturi per l’avvio di un dialogo fruttuoso e che i leader governativi debbano facilitarne lo svolgimento dimostrando un’adeguata apertura mentale e la volontà di accettarne le conseguenze.
Nei vent’anni appena trascorsi, il modo in cui le democrazie occidentali hanno affrontato il massacro del quattro giugno si è espresso innanzitutto in sanzioni e boicottaggi, per poi trasformarsi in negoziati “privati” con gli esponenti cinesi. Nel corso degli ultimi anni, mentre l’economia cinese conosceva un autentico boom e la sua posizione nello scenario internazionale assumeva un rilievo sempre maggiore, alcuni Paesi hanno ricercato l’appoggio della Cina per affrontare importanti questioni globali, prima fra tutte l’attuale crisi finanziaria. In tali circostanze, si sono altresì verificati sottili modifiche d’atteggiamento per ciò che concerne gli incidenti del quattro giugno. Nei vent’anni appena trascorsi, non ci siamo lasciate sfuggire una sola opportunità, malgrado il rischio di intimidazioni e repressioni da parte delle autorità, per orientare i riflettori dei media
pretendiamo… La sanguinosa tragedia perpetrata nel 1989 in piazza Tienanmen non fu un’azione inappropriata del governo, ma un crimine governativo commesso nei confronti del popolo. Di conseguenza, i fatti del quattro giugno devono essere sottoposti ad una nuova analisi. Il problema connesso all’eredità spirituale di quel tragico giorno non può essere gestito a seconda del volere di singoli esponenti politici, incuranti del proprio ruolo, e non può essere affrontato sull’onda delle cosiddette “riabilitazioni” e “proscioglimenti” successivi ad ogni movimento politico del passato. A tal fine, desideriamo reiterare le seguenti tre richieste: 1) Che il Comitato Permanente del Congresso Nazionale del Popolo crei una commissione d’inchiesta ad hoc sui fatti del quattro giugno con il compito di condurre indagini indipendenti e prive di condizionamenti esterni sulle cause della vicenda e divulgarne successivamente le conclusioni all’intero paese, ivi compresi i nomi e le cifre di quanti perirono in quelle
tragiche circostanze; 2) Che dia incarico ai dicasteri competenti di inviare un resoconto di quanto accaduto ai parenti di ogni singola vittima conformemente con le procedure ufficiali (il Comitato Permanente del Congresso Nazionale del Popolo dovrebbe altresì redigere le bozza e successivamente adottare una “legge per il risarcimento delle vittime del quattro giugno” ed elargire alle vittime ed ai loro parenti un appropriato indennizzo a norma di legge); 3) Che il Comitato dia ordine all’Ufficio di Procura di presentare il caso ed investigare sul massacro del quattro giugno, al fine di accertarne le responsabilità penali e perseguire i responsabili in conformità con le procedure legali. I punti di cui sopra possono essere sintetizzati con tre parole: Verità, Ricompensa, Responsabilità. Il motivo per cui nelle nostre tre richieste non abbiamo fatto menzione alcuna della“riabilitazione” delle vittime del quattro giugno risiede nel fatto che, in quanto gruppo di cittadine, le esperienze
straordinaria al fine sottoporre i fatti del quattro giugno alla discussione e successiva pronuncia da parte dell’Assemblea Generale Onu, affinché si possa giungere ad un accordo sui punti all’ordine del giorno. Usare una sentenza per sintetizzare una posizione: utilizziamo metodi legali per risolvere problemi politici. Riteniamo che l’applicazione di corrette procedure legislative e giudiziarie costituisca l’unico modo per rendere giustizia alle vittime del quattro giugno. In ogni caso, questioni come queste non possono essere risolte dal giorno alla notte. Per rompere l’impasse, nel 2006 suggerimmo di adottare delle linee guida: affrontare in primis le problematiche minori per poi passare a quelle più spinose. Attenendosi a queste linee guida, i punti su cui risulta più difficile pervenire ad un consenso unanime avrebbero potuto essere temporaneamente accantonati, e le questioni relative ai basilari diritti delle vittime ed ai loro interessi personali avrebbero potuto trovare quanto prima soluzione.Tali problemi comprendono: 1) La rimozione di tutti i controlli e restrizioni personali imposti alle vittime del quattro giugno ed alle loro famiglie; 2) Il diritto per le famiglie dei defunti
stituire il “Gruppo di dialogo per le vittime del quattro giugno” e inoltrare un appello per un’equa ed imparziale risoluzione della questione mediante l’apertura di negoziati e l’avvio di un dialogo fondati sui principi democratici e dello stato di diritto. Nel 2006 affermammo che il dialogo
“
La tragedia non fu un’azione inappropriata del governo, ma un crimine governativo commesso nei confronti del popolo. E l’eredità di quel giorno non può essere gestita a seconda del volere di singoli esponenti politici
”
avrebbe dovuto essere aperto e tra pari, senza requisiti preliminari, e che non avremmo appoggiato le cosiddette “risoluzioni amministrative”e gli accordi privati che violano i principi dello stato di diritto. Nel 2008 abbiamo appositamente suggerito al governo di creare un meccani-
stranieri sulla vicenda e senza esitazione continuare a parlarne, continuare a scriverne, facendo tutto quanto in nostro potere al fine di rivelare al mondo la verità riguardo al massacro. Nel passato richieste di questo tipo hanno sortito effetti positivi. Tuttavia, questi vent’anni si sono rivelati molto lunghi ed impegnativi per quante tra noi hanno dovuto sopportare la perdita degli amati cari. Con il trascorrere del tempo e delle stagioni, le cose rimangono ma le persone non sono più le stesse. Ciò che un tempo rappresentava la verità nella sua smagliante nitidezza si è offuscato in misura tale da aver smarrito i propri connotati più distintivi. L’utilitarismo ed il pragmatismo hanno preso il posto dell’idealismo e della passione dei tempi andati. La Cina non ha fatto progressi nel proprio cammino verso la libertà, la democrazia e la tutela dei diritti umani, ma ha anzi fatto passi indietro. Siamo profondamente addolorati per il fatto che il popolo cinese abbia ancora una volta perduto una storica occasione per determinare una pacifica trasformazione in senso democratico. Perché la Cina si sta ancora amaramente divincolando in questo pantano vecchio di secoli?
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Tiananmen vent’anni dopo
L’UOMO CHE HA IMBRATTATO DI VERNICE IL RITRATTO DI MAO ZEDONG
«Così Wang fermò i Tank» L di Lu Ducheng
a memoria più dolorosa di questi 20 anni è il ricordo di quel giovane operaio che da solo sfida il corteo dei carri armati a Pechino. La sua immagine ha fatto il giro del mondo e tutti la conoscono, ma quasi nessuno sa qual è la sua sorte. Si chiamava Wang Weiming e non sappiamo se sia vivo o morto. Mi auguro sempre che qualcuno si mobiliti e si venga a sapere la verità su di lui, anche se è difficile perché quella immagine non fa vedere il suo volto. Da questo punto di vista io e i miei due amici che abbiamo imbrattato il ritratto di Mao siamo stati più fortunati: le nostre facce erano conosciute dai media di tutto il mondo e così, dopo che ci hanno arrestato, la comunità internazionale ha fatto pressione per la nostra liberazione e siamo usciti vivi dal lager. Un altro fatto che mi impressiona è la facilità con cui la gente dimentica tutti questi morti: tutti gli studenti, ma anche la popolazione di Pechino, gente semplice, operai, contadini che aiutavano gli studenti. Essi sono dei veri eroi e bisogna dichiarare il massacro del 4 giugno un crimine contro l’umanità, non “un problema interno”, come lo definisce il Partito. Il movimento democratico dell’89 forse non aveva le idee molto chiare su cosa fare, ma ha permesso la nascita di istanze democratiche che durano ancora oggi in Cina. In più, io credo che il mondo intero dovrebbe essere riconoscente ai giovani di Tiananmen: il massacro del 4 giugno ha provocato i grandi cambiamenti nell’Europa dell’est e la caduta del Muro di Berlino; esso ha svolto un ruolo di spinta, che ha facilitato il cambiamento. A guardare la Cina dopo 20 anni, si resta sorpresi dei cambia-
menti, ma essi sono soltanto apparenti. Certo l’economia mostra tutto il potere che ha il Partito comunista, la loro capacità di governare e organizzare il Paese, ma esso continua a resistere alla libertà e alla democrazia, proprio come 20 anni fa. E se si guarda all’economia ci si accorge di quanto essa sia debole. Infatti il gigante che sembra essersi levato sfrutta la manodopera a basso costo e apre i suoi mercati solo nella misura in cui può rafforzare se stesso. La Cina in economia non usa le regole di tutti, ma fa un gioco economico che è molto simile a una guerra: seduce i Paesi occidentali, li mette uno contro l’altro, vincendoli: prima il Giappone, poi gli Stati Uniti, ecc… Il metodo cinese ricorda molto quello delle guerre nel Periodo Primavera - Autunno (770 al 221 a.C.) o del periodo del primo imperatore Qin Shi Huang. Tutti pensano che la Cina sia cambiata solo perché ha trasformato l’economia, ma il suo disegno rimane lo stesso: la salvaguardia del potere del Partito e l’estensione del suo dominio. Se in Cina non finisce l’egemonia del Partito, non c’è vero cambiamento. Mi auguro che la comunità internazionale non perda d’occhio la Cina: solo se si risolve la questione cinese, allora ci sarà la pace nel mondo. Faccio presente che il Partito comunista cinese sostiene la dittatura della Corea del Nord, il Vietnam, il Venezuela, il Sudan, il Pakistan e quindi è collegato anche con il fondamentalismo islamico. Per la democrazia in Cina dobbiamo impegnarci tutti. Ho messo in opera un sito web dal titolo “L’ultimo muro di Berlino”. Spero che questo ultimo muro – il comunismo cinese – cada al più presto. Solo così ci sarà la possibilità di pace nel mondo.
IL PRESIDENTE DELLA DUI HUA, CHE LAVORA PER LIBERARE I DISSIDENTI
«Io, avvocato dei ribelli» Q di John Kamm
uando si è verificata la repressione di piazza Tiananmen, ero il vice presidente regionale di una grande azienda su scala multinazionale. Inoltre, ricoprivo un ruolo al vertice della Camera di Commercio americana a Hong Kong. Oggi guido una Fondazione che lavora per garantire il miglior trattamento possibile dei detenuti nelle carceri cinesi e cerca di ottenere il rilascio di coloro che sono stati arrestati ingiustamente. Il catalizzatore della mia vita è stata proprio piazza Tiananmen, e i fatti che sono avvenuti lì oramai venti anni fa. Per un testimone oculare, la Storia è sempre una storia personale. Ho lavorato sui casi di circa duecento detenuti, in galera per fatti relativi agli avvenimenti del 1989. Soltanto un piccolo numero di questi è ancora in prigione, ma coloro che sono stati rilasciati non sono oggi realmente liberi. Vivono nell’ombra del pregiudizio e della discriminazione in ogni cosa fanno. Secondo i dati della Fondazione Dui Hua, circa trenta persone sono ancora in galera per i fatti relativi alle agitazioni politiche della Primavera del 1989. La posizione espressa dalla leadership comunista cinese non è cambiata. Non c’è nessun motivo per pensare che verrà cambiato il verdetto ufficiale sulle prote-
ste di Tiananmen: per Pechino, si tratta di una “ribellione contro-rivoluzionaria”. Oltre tutto, il governo sostiene - e in questo senso conta su un fortissimo sostegno popolare - che la clamorosa crescita economica della Cina negli ultimi venti anni non sarebbe stata possibile senza la repressione dei moti del 1989. La nostra
Fondazione agisce nella tradizione classica di rispetto per i diritti umani, che prevede attenzione per la ricerca e per la difesa, tenendo sempre l’attenzione puntata sull’individuo e tenendone sempre vivo il nome continuando con frequenza a citarlo. Cerchiamo sempre di essere bilanciati, nei nostri comunicati, riportando i fatti come lo conosciamo ed evitando ogni generalizzazione. Dove possibi-
le, partiamo dalla conoscenza delle leggi e dei regolamenti cinesi. La cosa più importante che ho ottenuto, in questi venti anni di lavoro, è stata di rispettare quei dirigenti cinesi che sono come noi interessati a migliorare la situazione dei diritti umani. Soltanto quando mostri rispetto la tua controparte ti mostrerà rispetto. Io non ho veramente idea di come sarà la democrazia cinese, quando alla fine arriverà. Sono certo che seguirà una sua propria strada, sviluppandosi su canali indipendenti. Quello che mi interessa veramente è il rispetto per i diritti umani e lo stato di diritto. In Cina abbiamo visto un certo progresso in questi campi (penso ad esempio alla rapida riduzione del numero delle condanne a morte) ma anche dei seri ostacoli, come la situazione del Tibet e quella del Xinjiang. Noi vediamo con preoccupazione l’emergenza in corso, dove una classe di avvocati combatte con lo Stato per difendere le persone che vengono arrestate nel corso di casi politici e viene avversata dal governo, che cerca in tutti i modi di fermarli. La vera urgenza, la necessità più sentita dalla Cina contemporanea è la richiesta di giustizia, la fine della corruzione e il rispetto dei diritti umani di base. In questo senso, lo spirito di Tiananmen non è morto.
Tiananmen vent’anni dopo
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IL PARLAMENTARE DEL TERRITORIO CHE HA ASSISTITO ALLA REPRESSIONE
«L’eredità vive con Charta 08» M di Lee Cheuk-yan
olte persone mi chiedono: perché ricordare ancora il 4 giugno? In fondo la Cina è cambiata. A guardare la Cina di oggi si vede in effetti un progresso strabiliante, ma soltanto in campo economico. Solo in questo ambito si può dire che ci sono molti successi, con una crescita del Pil che per molto tempo è stata sul 10 percento ogni anno. Ma il modo in cui il Partito comunista tratta la sua gente non è cambiato per nulla. Anche sul lato della corruzione non è cambiato nulla. L’unica cosa che è cambiata rispetto a 20 anni fa sono le dimensioni della corruzione. E la gente continua ad essere adirata contro questa corruzione, come 20 anni fa. Sugli aspetti della libertà, dunque, nulla è cambiato ancora. Non vi era libertà di espressione allora, e ancora oggi il governo blocca le opinioni differenti, manca la libertà di parola e di associazione. Basta guardare a come ha arrestato e bloccato tutti i firmatari di Carta 08. Non appena essi sentono che le opinioni possono essere una minaccia al Partito comunista, subito le sopprimono. Così hanno arrestato Liu Xiaobo; durante le Olimpiadi hanno arrestato Hu Jia e altri dissidenti, il cui crimine è solo quello di sostenere il di-
ritto della gente. Per questo è davvero amaro sentire che dovremmo dimenticare il 4 giugno «perché la Cina è ormai cambiata». Quest’anno non è solo il ventesimo anniversario del massacro di Tiananmen. Sono anche i 90 anni dal movimento del 4 Maggio. Anch’essi studenti, chiedevano allora che
la Cina venisse riformata con la “scienza” e la “democrazia”. Dopo 90 anni, forse la Cina ha acquisito la scienza, ma dov’è la democrazia? Nella storia della Cina c’è una richiesta di democrazia lunga decenni e ancora oggi non abbiamo democrazia, né diritti umani, né libertà.Quei giorni di 20 anni fa sono stati uno dei periodi più dolorosi della mia vita: vedere i giovani
uccisi, i feriti trasportati in bicicletta, o caricati sulle spalle, i pianti… Proprio in quei giorni io ero andato a Pechino a portare i soldi che avevamo raccolto a sostegno del movimento. Sono arrivato lì proprio alla fine di maggio. Ho potuto assistere alle prime schermaglie fra l’esercito, i carri armati e la popolazione. Ero andato insieme ad alcuni studenti di Hong Kong, ma ci siamo persi di vista. Ho cercato negli ospedali per vedere di trovarli e alla fine per fortuna li ho trovati: feriti, ma vivi. Oggi i leader sono sempre preoccupati che possa succedere qualcosa contro di loro. E penso che siano molto preoccupati per la corruzione galoppante. Un fenomeno di tali dimensioni, che va avanti da decenni, crea tanto risentimento e rivolte. È ovvio, noi non vogliamo un altro Tiananmen. Vorremmo che il governo risponda in positivo alle rivolte, incontrando il popolo e varando delle riforme politiche. In Cina il desiderio di cambiare è molto forte; il governo deve decidere cosa fare e rispondere alla società civile. Magari non attueranno subito una piena democrazia, ma almeno cominceranno a fare dei passi. E con questo eviterà un altro massacro.
IL LEADER STUDENTESCO CHE PENSAVA DI CAMBIARE IL MONDO INTERO
«I miei nove anni di galera» W di Wang Dan
Una riproduzione della “dea della democrazia”, la grande statua in gesso eretta dagli studenti nella parte centrale di piazza Tiananmen durante i due mesi della protesta anti-corruzione e pro-democrazia
ang Dan, nei primi giorni del giugno 1989, era nella lista dei venti agitatori più pericolosi della Cina. Nonostante fosse soltanto una matricola, guidava infatti con coraggio la protesta degli studenti in piazza Tiananmen. Per il suo impegno nella richiesta per la democrazia e contro la corruzione ha passato nove anni in una galera della provincia del Liaoning, da dove è uscito grazie alle pressioni internazionali. Ottenuta la cittadinanza americana, si è laureato ad Harvard; oggi è associato all’università di Oxford, da dove continua la sua battaglia a favore della democrazia. La sua storia è emblematica: accettato nella prestigiosa università Normale della capitale, ha deciso di guidare la protesta di Tiananmen in nome di un bene superiore all’economia o alla carriera. La foto a fianco ne ha segnato, nel bene e nel male, la storia. Di quel periodo dice: «Abbiamo perso molto, ma allo stesso tempo abbiamo anche guadagnato molto. Ogni volta che ripenso a quel periodo mi sento orgoglioso». Nel suo primo discorso pubblico, quello del 27 aprile del 1989, aveva detto: «Siamo venuti qui per riprendere il potere dalle mani di quel gruppo di anziani corrotti che ce lo hanno tolto.Vogliamo avere democrazia e libertà». Proprio quella prima dimostrazione, per Wang, è il momento saliente della sua storia: «C’erano cartelli dappertutto. Era la prima dimostrazione politica non autorizzata mai verificatasi nella storia della Repubblica popolare cinese. È stata la prima volta in cui il nostro popolo ha parlato con la sua vera voce». Il giorno dopo questo primo intervento, il Quotidiano del Popolo - aveva definito l’incontro «un piano ben congegnato, teso a portare un sovvertimento sociale
nel Paese e rigettare il sistema socialista». Proprio questo articolo, diffuso nelle università, aveva convinto 50mila studenti a scendere in piazza. Wang ricorda: «Fra di noi c’erano ovviamente molte differenze, così come c’erano delle differenze nella leadership del Partito comunista. Ma eravamo euforici, pensavamo di poter cambiare veramente le cose. Il massacro ha distrutto tutto». Il governo attuale della Cina, secondo il dissidente, «è ancora più conservatore di quello dell’epoca. Nel 1989, almeno, abbiamo avuto leader come Hu Yaobang e Zhao Ziyang, che sono stati cacciati proprio perché tentavano di cambiare le cose. Quelli di oggi non hanno alcuna intenzione di cambiare nulla, e usano la crescita economica per distrarre l’opinione pubblica dalle richieste, ancora attuali, del nostro movimento». Questo, tuttavia, non ferma Wang e il suo desiderio di giustizia: il neo-professore è ancora in contatto con molti dei vecchi compagni d’arme. Questo è possibile «perché il governo cinese ha sempre meno controllo sulla sua popolazione. Grazie anche all’avvento di Internet, una nuova società civile sta emergendo nell’Impero di Mezzo». Per le celebrazioni di questo anniversario, spera che «tutto il Paese si vesta di bianco, il colore tradizionale del lutto, per ricordare degnamente le migliaia di vittime che hanno perso la vita per tutti noi durante la repressione del governo». Per quanto lo riguarda, Wang è ottimista: «Ho imparato, giusto venti anni fa, ad essere ottimista e a saper essere ottimista mentre affronto le difficoltà. Proprio per questo, non ho problemi a dire che spero di poter tornare presto in Cina. Anzi, penso che il mio ritorno avverrà prima del previsto, molto presto».
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Tiananmen vent’anni dopo
Dissidenti arrestati o fatti sparire, internet e telefoni muti. La ricetta del governo cinese per l’anniversario del massacro peggiore
Pechino colpisce ancora di Vincenzo Faccioli Pintozzi gni anno, un macabro balletto di arresti e sparizioni colpisce la già sparuta comunità di dissidenti che vivono all’interno del grande impero cinese. Mentre si avvicina l’appuntamento cruciale del 4 giugno, quando il mondo ricorda la strage di Tiananmen, gli eredi di Mao fanno di tutto per evitare che i protagonisti dell’epoca si mettano in contatto con gli odiati e temuti media occidentali. Il diktat che corre fra i quadri del Partito predica l’oblio come balsamo lenitivo di ogni preoccupazione. Oltre a far sparire i testimoni degli eventi di piazza e mettere il silenziatore a ogni mezzo di comunicazione, in primis l’odiatissimo internet, la polizia viene costretta agli straordinari nella speranza di braccare i pochi reporter stranieri autorizzati a vivere nel Paese. Quest’anno, che segna il ventesimo anniversario della sanguinosa repressione del movimento anti-corruzione e pro-democrazia orchestrato da studenti e operai cinesi, la mano delle autorità si è
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fatta più dura e precisa. Un ex detenuto per la rivolta di Tiananmen è stato arrestato ieri, mentre decine di altri attivisti sono stati sottoposti al regime di arresti domiciliari nel timore di nuove manifestazioni per i 20 anni della repressione delle proteste studentesche.
Wu Gaoxing, che ha già trascorso due anni in prigione per aver guidato la protesta nella provincia orientale dello Zhejiang in concomitanza con i fatti di Pechino del giugno 1989, è stato portato via dalla polizia sabato scorso. Secondo Chen Longde, attivista per i diritti umani, Wu aveva da poco indirizzato una lettera al presidente cinese Hu Jintao per chiedere il risarcimento per quanti furono incarcerati dopo i fatti del 4 giugno di venti anni fa. Lo stesso Chen è stato in prigione per tre anni ed è tra i sottoscrittori della missiva insieme ad altri tre ex detenuti. Licenziati dalle aziende in cui lavoravano, privati dell’assistenza sanitaria, i dissidenti di Tiananmen denunciano di es-
sere stati “derubati della loro esistenza”. Intanto a Pechino Ding Zilin, una donna di 72 anni il cui figlio fu ucciso nella rivolta, ha rivelato che le autorità le hanno chiesto di lasciare la città in vista dell’anniversario,
Come ogni anno, testimoni dell’epoca e leader democratici “spariscono” a ridosso degli appuntamenti importanti. La Cina pensa di riuscire così a far dimenticare le colpe del suo passato. Tentativo fallito ma di essersi rifiutata. Ding ha poi fatto perdere le sue tracce: l’ex professoressa universitaria guida le “Madri di Tiananmen”, un gruppo di familiari delle vittime di cui riportiamo l’appello completo a pagina 12.
Nella provincia sudoccidentale di Guizhou un altro attivista, Chen Xi, ha denunciato di essere stato messo agli arresti domiciliari: allo stesso tempo è stato nascosto anche Jiang Qisheng, condannato a 4 anni di carcere nel 1999 per aver cercato di mobilitare la popolazione nella commemorazione delle vittime della repressione. Ma la lista non si ferma qui: Bao Tong, segretario personale e amico stretto dell’ex segretario comunista Zhao Ziyang – poi epurato per la sua ferma volontà contraria all’intervento militare – è sparito nel nulla. Il figlio dice che è stato «convinto ad allontanarsi dalla capitale in questi giorni».
Da giorni ad Hong Kong è stato pubblicato il libro delle memorie di Zhao Ziyang. Il libro - in inglese e in cinese - è già esaurito e molti pensano che sia questo un altro motivo alla base della detenzione di Bao. Tutto questo interesse sulla storia e sulle responsabilità di Pechino e il massacro accrescerà la partecipazione alla ve-
glia che ogni anno ad Hong Kong si tiene la sera del 4 giugno nel Victoria Park.Secondo il vescovo emerito del Territorio, il cardinale Joseph Zen Zekiun, «É veramente triste che siano passati 20 anni e la tragedia non sia stata ancora riconosciuta dal governo come un errore e un crimine. Lo stesso Deng Xiaoping se ne è presa la responsabilità, quando nei giorni successivi al massacro si è recato in prima persona a congratularsi con i soldati. È stato lui che ha dato l’ordine. Ma ora Deng è morto da tanto tempo: è possibile che dopo tanti anni non si possa fare chiarezza e giustizia su ciò che è successo, senza aver paura di una persona morta da tempo?». La richiesta del porporato è retorica: la Cina sembra non voler cambiare attitudine riguardo al suo modo di approccio alla questione democratica, e dimostra sempre di più di preferire la censura al dialogo. Un atteggiamento inutile già venti anni fa: i morti di Tiananmen non sono dimenticati, e Pechino ne paga ancora il prezzo.
Tiananmen vent’anni dopo
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Il direttore di AsiaNews analizza l’impatto della repressione sull’Impero
La speranza per il futuro? Libertà religiosa e diritti di Bernardo Cervellera l 4 giugno dell’89 ha cambiato la mia vita. Mi trovavo a Beirut per salutare alcuni amici cristiani e musulmani prima di andare in missione in India, quando le immagini dei carri armati e dei cadaveri sanguinanti dei giovani di Tiananmen ci sono giunte al mattino immergendoci nel silenzio inebetito e nella vergogna di essere uomini. Per settimane giovani da Pechino, Shanghai, Xian, Wuhan Canton avevano sostato nella piazza più grande del mondo, sostenuti dalla popolazione di Pechino e attendendo un’apertura e il dialogo con la leadership per cancellare la corruzione dal Partito. E invece, la notte fra il 3 e il 4 giugno di 20 anni fa, l’esercito “per la liberazione del Popolo” è intervenuto coi carri armati a “liberare” la piazza occupata da studenti e operai indifesi. Centinaia, se non migliaia sono stati uccisi quella notte nella piazza e nelle vie adiacenti. Almeno 20mila persone sono state arrestate nei giorni seguenti, mettendo fine al “sogno della democrazia”. Pochi mesi dopo ero a Jiangmen, una città sul Fiume delle Perle, nel sud della Cina. La sera, lungo il fiume, migliaia di giovani passeggiavano tristi e in silenzio alla fioca luce di lampade all’acetilene. È nato così il mio desiderio di poter lavorare per i giovani cinesi e ho chiesto ai miei superiori di essere mandato in Cina. Da allora il popolo cinese è divenuto il mio popolo di adozione. Il 4 giugno ’89 ha cambiato anche il mondo. Di lì a poco le diverse dittature dell’Est Europa sono cadute una ad una, lasciando spazio alla democrazia. Queste transizioni non sono state violente: il mondo era orripilato ancora dal sangue di Tiananmen e nessuno avrebbe potuto sopportare un altro massacro. I giovani cinesi si erano sacrificati per l’Europa e per il mondo. Il 4 giugno ’89 ha cambiato la Cina. Dal massacro di Tiananmen il Partito comunista cinese non è stato più visto come il gruppo che ha liberato e unito il Paese, ma come il covo di una oligarchia che domina il suo stesso popolo per i suoi vantaggi. In quegli anni le iscrizioni al Partito sono diminuite fino al 70 percento. Da allora, il Partito ha fatto di tutto per cancellare la memoria del massacro. La stessa accelerazione delle riforme lanciata da Deng Xiaoping nel ’92 era un tentativo di rendere “ricchi e gloriosi”i cinesi così che il benessere ingoiasse il ricordo di quella notte di sangue e il popolo tornasse ad onorare l’imperatore garante di stabilità e benessere. Deng e Jiang Zemin sono arrivati perfino a giustificare il massacro come “un male minore”, il prezzo pagato per garantire la “stabilità”e raggiungere lo sviluppo economico che ne è seguito. Ma questo enorme sviluppo economico, che ha reso la Cina la terza (forse anche la seconda) potenza al mondo, porta ancora le ferite della mancanza di democrazia ed è imbevuta fino alla nausea di corruzione, i problemi che i giovani di Tiananmen volevano af-
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Dall’alto: Deng Xiaoping e Zhao Ziyang. Il primo era presidente cinese durante le manifestazioni studentesche; il secondo, all’epoca segretario del Partito Comunista, cercò in tutti i modi di evitare il massacro dei manifestanti inermi. In basso, Mao Zedong e l’Anp. A destra, padre Bernardo Cervellera. Nella pagina a fianco, la veglia del 4 giugno a Hong Kong
frontare. Quanto più i leader attuali predicano la “società armoniosa”, tanto più ci si accorge dell’enorme divario fra i 150 milioni di ricchi e l’esercito di 900 milioni di poveri; della miseria delle campagne, dove i contadini non hanno sanità, scuole o terre.
L’arbitrio del Partito permette infatti espropri di case e terreni, licenziamenti senza aiuti, sfruttamenti di manodopera a bassissimo costo. L’aria irrespirabile delle città, grazie all’industrializzazione selvaggia porta alla morte almeno 400 mila persone l’anno, un massacro ecologico che nessuno può discutere e criticare. A 20 anni dal massacro la Cina è certo più forte, ma solo in apparenza. In realtà, essa è invece infinitamente più debole. Questo spiega perché, invece di affrontare il passato e aprire al dialogo sul presente, ogni anno, all’arrivo del 4 giugno, il silenzio è di norma, i dissidenti vengono arrestati e i controlli aumentati. Eppure ogni anno i genitori che hanno avuto i figli falcidiati dall’esercito, domandano al Partito di conoscere la verità sul bagno di sangue, su chi ha dato l’ordine, sul perché. Raccolti in un’associazione chiamata “Madri di Tiananmen”essi esigono che il Partito cambi la definizione di “controrivoluzionari” data ai loro figli defunti, per chiamarli invece “eroi” e “patrioti” perché, essi dicono, stavano lavorando per il bene del popolo cinese. Ma a queste Madri di Tiananmen si sono ormai uniti operai licenziati, contadini sfrattati dalle terre, intellettuali che vogliono parlare di democrazia, avvocati che difendono i diritti dei poveri. Secondo il Ministero cinese della sicurezza le rivolte sociali sono oltre 80 mila all’anno. La memoria del passato serve a non ripetere gli errori nel futuro. Purtroppo non volendo affrontare la verità su Tiananmen, la Cina sembra dirigersi in modi molto pericolosi verso una ripetizione amplificata di quel massacro. In una verifica del cammino di questi 20 anni, vale la pena anche mettere in luce il legame fra movimento democratico e libertà religiosa. Nei primi anni dopo l’89, il braccio di ferro fra i dissidenti e il Partito è rimasto troppe volte a livello di rivendicazione economica o di particolare libertà individuale. Ma ormai in Cina si diffonde sempre più una cultura che mette al centro la persona e i suoi diritti inalienabili, valorizzando il potere dello Stato, ma non la sua dittatura autoritaria. Per questo salto è stato importante per alcuni dissidenti proprio l’esilio all’estero, il contatto con comunità cristiane occidentali, o la ricerca religiosa all’interno della Cina. Personalità come Gao Zhisheng, Han Dongfang, Hu Jia hanno scoperto la fede cristiana come la base del valore assoluto della persona, come la forza della loro dissidenza e della difesa dei diritti umani. Questo innesto fra impegno civile e libertà religiosa è uno dei frutti che fa più sperare per il presente e il futuro della Cina.
Quanto più i leader attuali predicano la “società armoniosa”, tanto più ci si accorge dell’enorme divario fra i 150 milioni di ricchi e l’esercito di 900 milioni di poveri. Un problema che i giovani dell’89 volevano risolvere
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Esercito, cittadini, ospedali, giovani e vecchi: ieri il Paese ha simulato un attacco missilistico. Libano e Siria in stato d’allerta
Israele ore 11: prove generali di guerra di Michael Sfaradi
TEL AVIV. Più che volere la pace Israele sta preparando la difesa della popolazione civile; questo è il senso della più importante esercitazione che sia mai stata organizzata nei 61 anni della storia della nazione, giochi di guerra che sono scattati il 30 maggio scorso. Si è voluto artificialmente creare uno scenario che vede lo Stato ebraico sotto un massiccio attacco missilistico con testate convenzionali e con operazioni di soccorso e recupero feriti alle quali sono stati interessati gli appositi enti di civili e militari. Nei primi giorni dell’esercitazione soltanto alcune basi dell’esercito, certi ospedali e diversi ospizi, sono stati coinvolti al programma, e a orari prestabili si è provveduto allo spostamento dei degenti all’interno dei rifugi dove si è continuato a prestare i servizi sanitari in una simulazione di stato di emergenza. Il momento più importante però si è avuto alle 11 di ieri mattina, quando ogni persona residente in Israele ha dovuto interrompere il normale ritmo della vita per calarsi in una situazione virtuale di estremo pericolo. Anche se tutto era programmato e le istruzioni sul comportamento da tenere sono state ripetute fino alla noia, nel momento in cui il suono baritonale delle sirene ha echeggiato nei cieli il nervosismo misto ad ansia ha creato notevoli disagi
soprattutto nelle persone anziane e nei più giovani. La parte più importante dell’esercitazione, cioè testare in quanto tempo la maggior parte della popolazione poteva mettersi al riparo è stata, stando ai resoconti del ministero degli interni, un vero successo anche se non si potrà mai prevedere cosa succederebbe nel caso di una condizione di pericolo reale. In passato ci furono degli addestramenti simili a quelli in atto, servivano però a testare l’effettivo funzionamento dei sistemi d’allarme e lo stato di funzionalità dei rifugi.
Quello che comunque lascia
I gestori telefonici hanno testato uno squillo speciale che annuncia l’attacco e un sistema di sms per indicare alla popolazione il rifugio più vicino
sconcertati è che mai era stata richiesta la partecipazione della popolazione, nemmeno alle vigilie delle due guerre del golfo contro l’Iraq di Saddam Hussein. Si è trattato dunque di una vera e propria mobilitazione per preparare la gente ad affrontare una situazione non così lontana come si vorrebbe far credere. C’è stata anche la sperimentazione delle nuove tecnologie applicate alla sicurezza, i gestori israeliani di telefonia mobile, ad esempio, hanno creato una centrale in collegamento con il ministero degli interni e da lì riescono ad avvertire i loro clienti e quando scatta uno stato di allarme i normali telefonini diventano una sorta di ”guida verso la salvezza” perché nel momento in cui ci si trova in una
Mentre Obama insiste sulla soluzione “due popoli, due Stati” e scatena l’ira dei coloni
Lieberman cerca un alleato a Mosca di Antonio Picasso l viaggio a Mosca del ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Liebermann, mette in luce come il governo Netaniyahu sia disposto a riavviare i negoziati per il processo di pace. L’incontro con il suo omologo russo, Sergej Lavrov, è un gesto di apertura. Il capo della diplomazia russa è appena tornato da una visita a Damasco, dove ha stretto la mano al leader di Hamas, Khaled Meshal. Questo significa che Israele valuta positivamente coloro che si adoperano per la realizzazione dei negoziati anche con quei soggetti più intransigenti quali il movimento islamico. Tuttavia, confrontando quanto dichiarato dal presidente Obama nella sua intervista alla Bbc con le criticità emerse dal summit del Cremlino, si evidenzia la sostanziale differenza tra l’agenda statunitense e israeliana. Obama, assumendo una posizione più imparziale di Bush, insiste sulla necessità di realizzare quel progetto di“due popoli, due Stati”presentato più volte nel corso degli ultimi anni. Per questo è necessario che, da un lato,
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i palestinesi rinuncino a quel diritto al ritorno in una eventuale e futura Palestina indipendente reclamato dai profughi e dai figli di questi ultimi. Israele, dal canto suo, dovrebbe rivedere la propria posizione in merito agli insediamenti nel West Bank. Per Netaniyahu questo significherebbe mettere in discussione una politica demografica che coinvolge quasi mezzo milione
zi, l’intenzione del suo premier di autorizzare la costruzione di altre 46mila abitazioni rappresenta un ostacolo al piano Obama. Lo conferma il fatto che durante il summit Lavrov-Liebermann siano state trattate altre questioni. Il capo della diplomazia israeliana, infatti, ha dichiarato la disponibilità del suo governo a confrontarsi con l’Arabia Saudita e con gli altri Paesi del Golfo persico. L’obiettivo è arrivare a un riconoscimento diplomatico reciproco. Si è parlato poi della Siria e dell’eventualità di aprire negoziati diretti anche con questa. Tutti punti importanti, la cui realizzazione andrebbe a vantaggio del processo di pace. Ma resta il fatto che è la “questione palestinese”la vera priorità. E con essa gli insediamenti dei coloni, la possibile convivenza delle due comunità e il problema di Gerusalemme, eletta capitale sia dagli israeliani che dai palestinesi. Ma di questo a Mosca non si è parlato.
Secondo le stime, la crescita annua degli abitanti nelle colonie è pari a 5,6%, contro quella nazionale dell’1,8% di abitanti e finalizzata all’incremento della popolazione israeliana, in parallelo con l’aumento di quella palestinese. Secondo gli ultimi dati, la crescita media annua degli abitanti nelle colonie è pari a 5,6%, contro quella nazionale dell’1,8%. E dunque il governo israeliano continua a dimostrarsi inflessibile. La questione degli insediamenti resta un nodo da sciogliere. An-
zona interessata a un’emergenza squillano come fosse una normale chiamata ma al momento che si risponde si sente il suono delle sirene e subito dopo arrivano messaggi Sms che, in diretta, danno indicazioni e informazioni che riguardano specificatamente la zona in cui ognuno si trova. Ad esempio come arrivare al rifugio più vicino o quale strada usare per allontanarsi e verso dove. Negli attimi di grande tensione avere delle indicazioni precise aiuta anche a superare il panico.
Si possono usare diverse chiavi di lettura per capire cosa effettivamente ci sia dietro questa mossa dai contorni decisamente forti, e l’importanza di tutto ciò in un momento politico delicato come quello che stiamo vivendo lo si può misurare dal fatto che le nazioni confinanti, Libano, Siria, Giordania ed Egitto, guardano con estrema attenzione quello che accade in Israele al punto che, nonostante le assicurazioni da parte del governo di Gerusalemme sulla non intenzione di aprire fronti di guerra, il Libano e la Siria hanno messo i loro eserciti in stato di massima allerta. Questo ha fatto scivolare sensibilmente quella che doveva essere una situazione virtuale verso una realtà che tutti sperano non debba mai accadere perché, come un domino, anche le truppe israeliane di stanza ai confini sono state messe in stato di pre allerta fino alla fine delle esercitazioni che è programmata per il 5 giugno 2009. Ora speriamo soltanto che il nervosismo non causi qualche scontro al confine. A dispetto dell’ottimismo ostentato da coloro che ancora cercano di dialogare con chi sta mettendo in serio pericolo la pace e la stabilità mondiale è chiaro che, dietro le quinte di questa esercitazione, ci sono emergenze reali che il governo di Gerusalemme a dispetto dell’immobilità del mondo intero non ignora. In Israele si è sempre guardato con scetticismo alle prese di posizione occidentali, le cui diplomazie sono rese impotenti dai legacci imposti dal ricatto petrolifero e non solo, e che adottano così “la politica dello struzzo” minimizzando il pericolo rappresentato dall’estremismo islamico. Anche se c’è chi si è ormai abituato all’idea che l’Iran nucleare è una situazione inevitabile, Israele (e le esercitazioni in atto ne sono la prova), manda un messaggio al mondo, un messaggio che dice: «Se non cambiate la vostra politica anche voi sarete presto costretti a preparare la vostra difesa».
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3 giugno 2009 • pagina 19
Blitz «particolarmente cruento» dell’esercito pachistano
Gran Bretagna: non si placa lo scandalo sul governo
Subito liberi i settantuno studenti rapiti dai talebani
Rimborsi falsi Jacqui Smith verso le dimissioni
ISLAMABAD. È durata soltanto qualche ora in Pakistan l’angoscia dei familiari di decine di studenti sequestrati ieri con i loro insegnanti, in una vicenda dai contorni ancora non del tutto chiari avvenuta fra le montagne del Waziristan, al confine con l’Afghanistan. Un portavoce militare ad Islamabad ha infatti assicurato ieri che 79 persone - tutti i membri del gruppo meno uno - sono stati liberati dai rapitori, probabilmente un gruppo di talebani radicali che ha la sua base nel Waziristan settentrionale e che stava cercando di trasferirli a sud. Dopo le prime notizie che menzionavano l’ipotesi di un sequestro addirittura di 400 studenti fra i 15 ed i 25 anni e di un gruppo di insegnanti del Ramzak Cadet College, le autorità hanno precisato che i rapiti erano in realtà solo 80 (71 studenti e nove professori).
LONDRA. Jacqui Smith, mini-
C o m un q ue e f f e t t i v a m e nt e circa 540 persone fra studenti e corpo docente, ha detto il portavoce, avevano lasciato ieri l’istituto di istruzione gestito dall’esercito pachistano per l’inizio delle vacanze estive e stavano dirigendosi da Ramzak a Bannu, principale località dell’omonimo distretto. All’altezza di Bakkakhel il convoglio è stato bloccato da uomini pesante-
Il delfino di Kim Jong-il ha 25 anni. È suo figlio È Kim Jong-Un. Presto la Corea del Nord gli giurerà fedeltà di Maurizio Stefanini lla fine, dunque, è saltato fuori il perché di tanta effervescenza missilistica e nucleare da parte del regime di Pyongyang. Molto semplicemente, si doveva celebrare la nomina a successore del figlio di Kim Jon-il, Kim Jong-Un, e nel contempo rafforzare il suo potere: forse anche distrarre un po’ l’attenzione internazionale dal movimento in corso. A quanto hanno riferito i media sud-coreani, informati da parlamentari che erano stati a loro volta imbeccati dai servizi di Seul, l’uomo forte nord-coreano avrebbe reso nota la sua decisione subito dopo il test nucleare del 25 maggio, informandone i vertici dell’esercito, i leader dell’Assemblea Suprema del Popolo, il governo e le ambasciate. I nordcoreani devono ora giurare fedeltà al successore e, secondo il quotidiano sudcoreano Dong-a Ilbo, viene già fatta cantare una canzone in sua lode. Kim Jong-il, 67 anni, era già andato al potere con una successione dinastica nel 1994 dopo la morte di suo padre Kim Ilsung, primo ministro dal 1948 al 1972, e poi presidente. Formalmente, però, non una successione piena. Nel 1998 la Costituzione nord-coreana ha infatti proclamato Kim Ilsung “presidente della repubblica eterno”. Sono tuttora i discorsi registrati del “Presidente Eterno” ad aprire tutti gli appuntamenti ufficiali più importanti, e Kim Jong-il è il numero uno solo per essere subentrato al padre in tre cariche accessorie: presidente della Commissione nazionale di difesa della Repubblica democratica popolare di Corea, comandante supremo dell’Esercito popolare coreano e segretario generale del Partito dei Lavoratori di Corea. E sono quelle le cariche che Kim Jong-il lascerà in eredità.
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porto della Repubblica Dominicana: per sua stessa ammissione, nell’intento di visitare il parco Disneyland di Tokyo. Espulso in Cina come un qualunque clandestino, da allora sarebbe caduto in disgrazia e dal 2003 vive in Cina. Dal momento che la secondogenita Kim Sul-song, 35 ani, non è presa in considerazione in quanto femmina, a quel punto l’erede designato sarebbe dovuto essere il 28enne Kim Jong-chul, terzogenito.
Ma i suoi studi in un collegio svizzero hanno reso anche lui pericolosamente esposto alle sirene del consumismo occidentale: nel 1994 da studente fu fotografato con una zazzera da hippy; nel 2006 è stato individuato in Germania, dove era andato sotto falso nome per vedere i mondiali e assistere a un concerto del suo idolo Eric Clapton; e lo stesso Clapton è stato da lui invitato in Corea del Nord per il 2009. Varie testimonianze riferiscono dunque dei dubbi paterni. Insomma, da tempi i nord-coreanologi scommettevano sul 25enne Kim Jong-Un: appassionato dello sci, fluente in inglese, tedesco e francese, è figlio della terza moglie di Kim, la ballerina di origine giapponese Ko Yong Hi, morta nel 2004 per un tumore al seno. E sarebbe quello che al padre assomiglia di più, anche di carattere. Il problema era nella giovane età. Ma visti i suoi gravi problemi di salute Kim Jong-il ha deciso infine di accelerare i tempi, cercando nel contempo di lanciare robusti avvertimenti a chi pensasse di poter contare sulla giovane età dell’erede per possibili colpi di mano. La Corra del Nord ha già una riserva di almeno un migliaio di missili, Nodong, Bm-25 e Taepodong-1: questi ultimi almeno un centinaio, e con gettate comprese tra i 1300 e i 2493 chilometri. In grado quindi di raggiungere con facilità Giappone, Russia e Cina. Più il Taepodong-2, testato per la prima volta il 4 luglio del 2005, e che con i suoi 6mila chilometri di gittata può arrivare a colpire il territorio Usa. Adesso, dopo aver testato una seconda bomba atomica, il regime starebbe per testare un nuovo missile in grado di raggiungere il territorio Usa.
Appassionato dello sci, fluente in inglese, tedesco e francese, è figlio della terza moglie di Kim, la ballerina Ko Yong Hi
mente armati, con ogni probabilità dei miliziani talebani) che hanno costretto una parte degli studenti e degli insegnanti a seguirli verso Marwat Canal. A questo punto l’esercito, intuendo la direzione presa dai sequestratori, ha inviato un reparto che li ha intercettati nell’area di Guryum, 20 chilometri ad est du Razmak. «Tutti i cadetti meno uno - ha annunciato il generale pachistano Athar Abbas sono stati liberati alle 5 di oggi e sono sani e salvi». Per i talebani, insomma, si tratta di una nuova sconfitta, dopo la disfatta subita nella valle dello Swat. Per altro, a quanto pare la liberazione degli studenti è avvenuta al termine di uno scontro cruento.
stro degli affari Interni del Regno Unito, sarebbe sul punto di dimettersi sull’onda dello scandalo dei rimborsi falsi che ha travolto il Parlamento. La titolare dell’Interno è finita sotto accusa per aver fatto pagare ai contribuenti due film porno per il marito e la casa della sorella. Un portavoce dell’ufficio della Smith ha dichiarato di non poter né smentire né confermare la notizia. La sensazione prevalente è che Gordon Brown procederà a un rimpasto dei ministri per dare respiro al suo governo una volta passata la tornata elettorale, che si preannuncia disastrosa per il New Labour già in crisi di consensi. Indiscrezioni riportate dalla stam-
Tra i quattro figli che Kim Jong-il ha avuto da tre donne diverse, il primogenito è il 38enne Kim Jong-am, che infatti fu a lungo favorito dal padre. Ma il primo maggio del 2001 fu arrestato all’aeroporto giapponese di Narita mentre cercava di entrare con un falso passa-
pa britannica lasciano intendere che il sacrificio della Smith permetterebbe a Gordon Brown, sempre più in disgrazia, di spostare agli Interni il suo uomo di fiducia, il Cancelliere dello Scacchiere Alistair Darling. Quest’ultimo oltre ad avere accumulato una serie di gaffe clamorose ha anche chiesto il rimborso spese per una casa privata mentre risiedeva come tutti i ministri delle Finanze britannici al numero 11 di Downing Street. Dal governo le voci sono state definite «semplici speculazioni indegne di un commento».
Jacqui Smith era finita nel ciclone dello scandalo sui rimborsi spese gonfiati da alcuni parlamentari inglesi, per aver inserito anche la casa della sorella tra le spese, facendola passare per la propria seconda abitazione. Ma soprattuto per un’altra nota spesa a carico del contribuente: i film porno a pagamento guardati dal marito. A rivelare lo scandalo, ancora una volta, un giornale: il Daily Express. Jacqui Smith aveva detto di essere ”furiosa” per questi film di cui non sapeva nulla e che erano stati visti quando lei non era in casa. Così, si era detta pronta a pagare le 67 sterline (circa 70 euro) per i servizi di «pay per view» inseriti «per errore» nella nota spese.
cultura
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Duelli. Come sempre, l’Esposizione ai Giardini di Castello divide artisti e critica. Quest’anno, poi, è in programma anche una vera e propria ”antibiennale”
La battaglia di Venezia Apre la Biennale Arte, preceduta da mille polemiche: siamo ancora fermi allo scontro tra figurativi e astrattisti di Massimo Tosti a oggi Venezia si riappropria di un ruolo che le è congeniale: quello di capitale mondiale dell’Arte. Con le prime vernici si apre (per i critici e gli invitati) la 53° edizione della Biennale (che al pubblico domenica prossima): un appuntamento fisso (con qualche interruzione, quando tuonavano le armi) dall’ormai lontanissimo 1895. In quell’epoca remota trionfavano gli impressionisti e i post-impressionisti; si gettavano le basi (protagonisti, più o meno consapevoli,Van Gogh, Ensor e Munch) dell’espressionismo; il Doganiere Rousseau scandalizzava i benpensanti con le sue opere ingenue e rivoluzionarie; i critici teorizzavano l’avvento dell’Art Nouveau; Picasso era ancora un giovanotto. A Parigi impazzava la Belle Époque e nessuno (neppure gli artisti che – per definizione – hanno antenne sensibilissime che li rendono capaci di anticipare i tempi) immaginava che di lì a poco il mondo intero sarebbe stato travolto da un conflitto di proporzioni spaventose.
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Oggi – 114 anni dopo – siamo angosciati da una crisi economica globale che ha spazzato via molte certezze, mettendo in ginocchio gli ottimisti. L’arte dovrebbe interpretare questa stagione, ma nessuno (neppure gli studiosi più accreditati) è in grado di prevedere con ragionevole certezza quali saranno gli indirizzi prossimi venturi della pittura e, più in generale, delle arti figurative che si sono arricchite di nuove espressioni come i video, le fotografie (più o meno contaminate), le installazioni multimediali con il virtuale e il digitale. Ebbene, si vedrà tutto questo, e ancora di più, nei luoghi deputati della Biennale, e in quelli estranei (o concorrenti) alla grande esposizione ufficiale. Fra Biennale e Fuorbiennale, tra Giardini e Arsenale, sono 77 i padiglioni da visitare, con le opere di oltre 90 artisti stranieri. Gli italiani hanno uno spazio a parte, e due curatori scelti dal ministro dei Beni culturali, come prevede lo statuto della Biennale. Ci sarà poi un nuovo spazio nel Museo a Punta della Dogana del magnate francese Francois Pinault (proprietario da qualche tempo di palazzo Grassi) che si è avvalso degli allestimenti dell’architetto Giapponese Tadao Ando. A Punta della Dogana si inaugura la mostra di uno dei più celebrati artisti contemporanei, Bruce Nauman, intitolata “Mapping the studio” (lo
L’eccessivo clamore per una copia sbiadita delle mostre d’un tempo
Molto inchiostro per nulla di Marco Vallora l vero “vizio”, abbiamo il coraggio di ammetterlo e di auto-accusarci per primi, è quello di non resistere comunque alla tentazione frenetica, che prende tutti i giornali e mass media nell’imminenza della Biennale (proprio come una prima alla Scala) di anticipar-so tutto-io, di arrivare prima degli altri, di “bruciare” la concorrenza, con illazioni e invenzioni, per parlarne comunque tassativamente e insensatamente “prima” che gli eventi fioriscano.
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star benissimo al bivio, con gambe falcate, a fare il tiro della fune. E divertiamoci un po’, se il nichi-sindaco heideggeriano, in questo gran bailamme di “Fare Mondi”, scontento di Bondi, abbondi in contro-Biennali, organizzandosi la sua mostrina a sé, nell’altra sua casa di Ca’ Pesaro, già abituata ai refusés (ma al tempo di Barbanintini, i nomi erano per lo più quelli di Martini e Casorati, di Gino Rossi e Cavaglieri... possiamo dire bei tempi?). Già, la formula di Birnbaum: “fare mondi”, che pare un’eco un po’ più stanca di quelle ben più efficaci di Szeeman, risulta alla fine un po’ rischiosa, e lapalisse, tautologica: perché è ovvio che anche il peggior pittore della domenica, nel momento in cui s’accinge a pittare la mogliera, è convinto di “fare un mondo”, nuovo e tutto suo. Se no si sparerebbe o deporrebbe il pennello.
Sarà duro attendere sorprese in quell’enclave “politico-ministeriale” che negli anni è divenuto il Padiglione Italia
Di quell’enclave politicoministeriale, che è divenuto il Padiglione Italia (se lo meritano i ferventi nazionalisti che per anni hanno protestato quel buco antisciovinista) si sa già fin troppo e bastano i nomi annunciati a dire tutto. Sarà duro sorprese, attender conoscendo i nomi in lizza: figurarsi, spolverando dalla vetusta Transavanguardia al post-prometgiovanotto tente! Quello che si potrebbe auspicare è che, trattandosi uno d’una Biennale, dovrebbe sforzarsi di preparare qualcosa di più d’un semplice stand da fiera d’arte bi-focal-regionale, con una miscela un po’ arlecchinesca d’artisti di bottega, a cui s’è già dedicata qui e là vita durante una mostra. Così è inevitabile che se a destra squillan figurativi e rètro, a sinistra gli suonan un po’ di trombette sfiatate, a colpi di Vascellari e Mori e Favelli, con Sissi e i suoi cordami, che potrebbe stesso titolo di un lavoro storico di Nauman). Pinault, che si è già guadagnato il soprannome di “nuovo Doge di Venezia”, promette scintille: «L’immenso privilegio che Venezia mi ha concesso affidandomi la realizzazione di un centro
Se poi invece lo dobbiamo intendere in senso più heideggeriano-hoelderliniano, di “apertura dei mondi”, ma siamo sicuri che Lodola, con i suoi specchietti (inutile dire per le allodole) o Sissi coi suoi cordami, alcuni guru scoppiati delle vetero avanguardie o i recuperati Rehberger and C., ma “facciano” e realizzino poi, ogni volta, dei mondi così epocali? Staremo a vedere, comunque, con il massimo della disponibilità e senza prevenzione alcuna. d’arte contemporanea in un luogo simbolico quale è Punta della Dogana - ha detto - comporta una responsabilità formidabile: quella di raccogliere in questa città l’eredità di coloro che non hanno mai esitato a scardinare le tradizioni e
trasgredire le mode per garantire libertà di parola all’arte del loro tempo.
L’idea di “scardinare” non appartiene soltanto a lui. La Biennale “scardina” da tantissimi anni (e non farà eccezione in questo 53° appuntamento). Sono passati più di trent’anni da quando Alberto Sordi (ne Le vacanze intelligenti) prese garbatamente in giro l’ermetismo di certe opere (totalmente incomprensibili per molti visitatori) con la scena nella quale sua moglie, la fruttarola romana Augusta Proietti (interpretata da Anna Longhi) veniva scambiata per un “capolavoro”, stravaccata su una sedia in un padiglione espositivo per riposarsi dalle fatiche di una giornata particolarmente intensa. C’è da scommettere che anche nei prossimi quattro mesi e mezzo (la rassegna chiuderà i battenti il 22 novembre) molti visitatori resteranno interdetti davanti alle opere indecifrabili nel loro minimalismo degli artisti invitati alla rassegna. Un capitolo a parte merita il Padiglione Italia, al centro di polemiche
cultura
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di sale. Gli artisti non devono voltarsi indietro e – par di capire – i visitatori non devono farsi attrarre dalle lusinghe nostalgiche offerte dai “due Beatrice” nel Padiglione italiano della Biennale dove – sostiene Farronato – sono state operate “scelte conservatrici” e “spesso figurative”.
Il figurativo al quale accenna il curatore di Ca’ Pesaro è rappresentato (probabilmente) da Sandro Chia, artista di punta della Transavanguardia (uno dei pochi movimenti artistici italiani degli ultimi decenni che abbia superato i confini nazionali, trovando ospitalità nei maggiori musei del mondo). La Secessione, invece, richiama nel titolo le esposizioni alternative ospitate un secolo fa (sempre a Ca’ Pesaro) con la presenza di artisti che criticavano l’accademismo della Biennale di allora. Il sindaco di Venezia, Massimo Cacciari (vicepresidente della Biennale per statuto) ha offerto la sua benedizione anche ai “secessionisti”, precisando però di non aver messo bocca (e addirittura di ignorare) le scelte operate da Farronato. Messa in questi termini, l’apparente ambiguità delle sue scelte, si risolve soltanto nel desiderio di dare spazio a tutti, ampliando gli orizzonti culturali di quanti si recheranno nella città lagunare nei prossimi mesi per una full immersion nell’arte contemporanea.
roventi già da parecchie settimane. I due curatori scelti da Sandro Bondi (Luca Beatrice e Beatrice Buscaroli) hanno seguito per la loro rassegna (intitolata Collaudi) una linea giudicata “tradizionalista” dal cenacolo dei critici à la page. Si sono preoccupati (in contrasto con la moda corrente che pone al centro del giudizio la concettualità dell’espressione artistica più dell’immagine) di dare spazio ad opere di artisti meritevoli, puntando sulla qualità delle loro rappresentazioni più che sul valore della loro ricerca e quindi sullo scalpore che possono suscitare. E sullo specifico italiano dell’arte, enfatizzato dall’occasione offerta dalla ricorrenza del centenario del futurismo. «Abbiamo ragionato spiega uno dei due curatori, Luca Beatrice - sulla necessità di limitarci a un’idea forte di itaconsidelianità, rando l’arte come un episodio collocabile all’interno di una rete più complessa, accanto ad altri aspetti in cui eccelle da sempre la nostra creatività: musica, cinema, letteratura, design. Non un
Nelle foto, in senso orario: Bruce Nauman, tra i più celebrati artisti contemporanei; Beatrice Buscaroli, curatrice del Padiglione italiano; Sandro Chia, artista di punta della Transavanguardia; Daniel Birnbaum, tra i curatori della Biennale; Luca Beatrice, insieme con Beatrice Buscaroli curatore del Padiglione italiano “mondo a parte”, come ci è stato erroneamente attribuito, ma un mondo finito, delineato, indifferente ai dettami dell’“international style”. Un’Italia cui forse, prima o poi, toccherà fare i conti con il multiculturalismo e la perdita di radici e valori, ma che per adesso tende a esprimere
Titanic, vestita da gran soirée, imperterrita, continua a suonare».
Fuori di metafore, Collaudi bada all’estetica, troppo spesso bandita dall’arte contemporanea. E si presta a un gioco vecchio come il Novevcento (anzi, quasi come la Biennale) e solo in Italia ormai ancora in vita: la battaglia tra astrattisti e figurativi! Questo spiega perché è stata organizzata una con-
Gli strali si concentrano sul Padiglione Italia, dove i curatori porteranno «opere particolarmente tradizionali» ispirate al futurismo. Cento anni dopo ancora un’identità chiara, fiera, precisa, dove si incontrano tragico e comico, decadenza e visioni future, eleganza e fatalismo, tecnologia e provincialismo. Fosse anche naufragio, è la bellezza del naufragio: l’orchestra del
trobiennale (a Ca’ Pesaro) intitolata Secessione, affidata a un giovane curatore, Milovan Farronato, che si intitola Non voltarti adesso! Don’t Look Now!. Il titolo è una citazione biblica. Fu Lot (raccogliendo l’ordine del Signore) a invitare i suoi familiari a non voltarsi indietro verso le rovine di Sodoma: soltanto la moglie non resistette alla tentazione e si trasformò in una statua
Il tema della Biennale di quest’anno è nella frase «Fare mondi», declinata e tradotta nelle tante lingue degli artisti presenti. Il curatore Daniel Birnbaum (svedese di nascita e tedesco di adozione, giudicato universalmente come uno degli studiosi più seri e preparati dell’arte contemporanea) non è stato contestato da nessuno: ha dato ampio spazio ai pittori-non pittori, ma si è lasciato anche sfuggire qualche dichiarazione temeraria sulla necessità di tornare a riflettere sui linguaggi più tradizionali come la pittura, il disegno e la scultura. Per ora gli è andata bene, ma non è escluso che – a Biennale aperta – i guru della critica militante lo mettano sulla graticola per le sue pericolose nostalgie. È anche vero che la globalizzazione (entrata in scena anche in questo campo con le opportunità offerte da Internet che mette chiunque in condizione di informarsi sulle nuove correnti e crearsi un proprio giudizio sugli artisti, senza un rapporto di subordinazione alle scelte di chi allestisce mostre, gallerie e padiglioni) ha portato una ventata di democrazia riducendo lo strapotere dei santoni della critica. Da domenica si aprono i fuochi d’artificio. Ce ne sarà di spazio per nuove polemiche e confronti sulle magnifiche sorti e progressive dei nuovi Raffaello e Caravaggio (senza pennello, ma con la macchina fotografica in tasca e le idee più balzane) o, viceversa, sulla deriva denunciata da Romeo Proietti, un uomo di buonsenso, di professione fruttarolo.
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da ”Le Figaro” del 01/06/2009
Le spine e le rose di Obama di Marc Henry l governo Netanyahu è recalcitrante rispetto alle pressioni americane. Washington vorrebbe uno stop deciso alla crescita degli insediamenti. Gerusalemme risponde «no» e i suoi ministri non nascondono le critiche all’alleato americano. I rapporti tra Benjamin Netanyahu e Barack Obama stanno virando verso il peggio. Il primo Ministro, che ha varato il suo governo solo un paio di mesi fa, è oggi impegnato in una lotta di potere con Washington.
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Per la prima volta dopo molti anni i ministri d’Israele osano criticare apertamente il presidente americano. In privato, gli elementi più vicini al governo, citano gli organi di stampa che accusano direttamente il nuovo inquilino della Casa Bianca di avere assunto una posizione «filopalestinese» e che vorrebbe addirittura far cadere il governo di destra di Netanyahu. La querelle sugli insediamenti in Cisgiordania continua ad essere alimentata. «Deve essere chiaro che questo governo non ha alcuna intenzione di congelare la situazione delle colonie legali in Giudea-Samaria», aveva annunciato, domenica, il ministro dei Trasporti, Israel Katz, che svolge il ruolo di portavoce di Netanyahu. Israel ha risposto con un «no» categorico alle pressioni americane per un arresto totale della colonizzazione. Come prima mossa Netanyahu ha agito come se alla Casa Bianca ci fosse ancora George Bush, proponendo di smantellare una ventina di colonie illegali fondate da gruppi di estrema destra. In cambio, il primo ministro, spera che Obama possa fare come il suo predecessore, accettando che si continuino a costruire case nelle 120 colonie legali. Per soddisfare la «naturale crescita» degli insediamenti, abitati
da circa 280mila coloni in Cisgiordania. Ma Barack Obama ha cambiato completamente le regole del vecchio gioco. E ora chiede il congelamento totale, senza distinzione tra insediamenti «legali», «illegali» o «selvaggi». «Si tratta di una misura discriminatoria che ricorda molto quelle imposte dal Faraone al popolo ebraico», ha affermata Daniel Herschkovitz, a capo di una formazione politica di estrema destra, facendo riferimento al racconto biblico. «Si tratta di una posizione ingiustificata che equivale ad uno sfratto», ha dichiarato, indignato, il ministro degli Interni, Elie Yishai, leader del partito ultraortodosso Shas.
Ci sono molti timori per il discorso che Obama farà al Cairo. I responsabili israeliani hanno sollevato anche un secondo problema come altrettanto grave. Accusano l’attuale presidente americano di non voler rispettare gli impegni presi da George Bush in una missiva diretta ad Ariel Sharon nel 2004, quando era ancora primo ministro. In questa lettera l’ex presidente Usa asseriva che sarebbe stato «irrealistico» aspettarsi da Israele l’evacuazione dei grandi insediamenti già stabiliti nelle colonie, nel quadro di un accordo di pace con i palestinesi. Molti israeliani davano per scontato che l’America avesse accettato l’idea che le zone dove la stragrande maggioranza della popolazione era israeliana venissero annesse al territorio della nazione ebraica. Nel tentativo di convincere la nuova amministrazione Obama, Ehud Barak, ha comin-
ciato, lunedì, una visita statunitense. L’attuale leader dei laburisti e ministro della Difesa, si è recato a Washington a tre giorni da un importante discorso che Obama terrà al Cairo e che sarà rivolto al mondo arabo e islamico. «Temiamo che in questa occasione – a nostre spese – il presidente Usa voglia riconciliarsi col mondo musulmano che Bush aveva allontanato», ha affermato off record un rappresentante del governo di Gerusalemme.
Sembra proprio fosse sbagliata la certezza in cui confidava Netanyahu, dopo la sua elezione, di essere in una posizione di vantaggio per gestire i rapporti strategici con gli Stati Uniti. Da sempre considerati uno dei privilegi della diplomazia d’Israele. Un fatto ancora più preoccupante, visto che sarebbe lui il leader a dover cercare appoggi a Washington per ottenere sanzioni più severe contro il programma nucleare iraniano. Considerato il pericolo numero uno per la sicurezza dello Stato d’Isreale.
L’IMMAGINE
Per non subire i revisionismi storici dei nipoti di Stalin, si abolisca l’inutile farsa del 25 aprile Il mito della Liberazione dell’Italia da parte dei partigiani rossi è una leggenda metropolitana. Se l’Italia è rimasta un Paese libero, lo si deve in primis all’intervento degli alleati, in infima parte ai partigiani, ma soprattutto alle“circostanze fortuite”della storia. Se la spartizione del bottino di guerra di Yalta avesse deciso diversamente, anche l’Italia avrebbe subito la medesima infausta sorte dell’Europa dell’est. I partigiani rossi avrebbero preferito che l’Italia cadesse sotto le grinfie dell’Urss. Dovettero accontentarsi dell’annessione dell’Istria e della Dalmazia da parte dei colleghi partigiani rossi titini. Per fortuna, il fato, o più probabilmente la mano di Dio, decise altrimenti. Circa l’operato dei “liberatori”a guerra finita, basti leggere i libri di Gianpaolo Pansa per avere una pallida idea di quali efferatezze furono capaci. Non solo ammazzarono per odio o vendetta, centinaia di colleghi di brigata “bianchi”o non filo sovietici, ma anche migliaia di inermi civili, rei di “simpatie”fasciste.
Gianni Toffali - Verona
MIGRANTI AL CONTRARIO La Gelmini fa scuola. Non intesa come istruzione, naturalmente. Per la ministra fare scuola significa inaugurare un trend, uno stile. Fare tendenza, insomma. Ecco la prova. Insegno in un liceo di Napoli e, durante i recenti consigli delle classi finali, il preside ci ha comunicato l’iscrizione di un cospicuo numero di privatisti per i prossimi esami di stato. Fin qui nulla di singolare. La stranezza sta nel fatto che tutti gli aspiranti provengono da Udine. Un travaso lungo 850 km, da un istituto privato a una scuola statale, complice l’amministrazione scolastica pubblica. A fare da battistrada la ministra Gelmini che ha chiesto “asilo” a Reggio Calabria per acquisire quella abilitazione alla professione di avvocato che diffi-
cilmente avrebbe conseguito nei paraggi della sua Brescia. Strano Paese il nostro. Luogo di traffici e traffichini. Di immigrazione clandestina che viaggia da sud a nord sui barconi dei disperati. Ma anche di istruzione truffaldina che viaggia da nord a sud su eurostar e mercedes con figli di papà che non sanno nulla ma hanno troppo. Cosa ne pensa il partito verde rancore di questa inspiegabile attrazione per la terra terrona? Vale anche per questi migranti al contrario il principio del respingimento tout court?
Gianfranco Pignatelli
LE BANCHE SONO COLPEVOLI DELLO SCOMPENSO MONDIALE Obama è inciampato in uno dei suoi errori, non la sua politica decisa e eclettica, che ha lasciato
Dolce far niente Contrariamente a quello che si potrebbe pensare questi non sono buffi conigli con la coda. I viscacia della foto, infatti, sono dei roditori della famiglia dei cincillà, che vivono sui monti di Cile Perù. Mentre i conigli non sono roditori ma appartengono all’ordine dei laghiformi. I viscascia amano il comfort e sono molto pigri. Quando non dormono se ne stanno sdraiati al sole a sonnecchiare e a spulciarsi a vicenda
perplessi anche molti democratici, pur nella sua inequivocabile necessità come Guantalamo e la Sanità, ma per il suo affondo nei temi etici che negli Usa hanno una eco di massa particolare. L’aborto in particolare era una delle questioni che Bush aveva gestito da conservatore puro, ma che anche nella fase peggiore del suo incarico, non ha destato uno scon-
tento in grado di metterne in gioco la poltrona. L’America oltretutto possiede nella ricerca genetica molte più possibilità di un Paese come il nostro, per cui il coefficiente amplificativo delle conseguenze è più alto. La cosa più grave forse per Barak è proprio l’essersi troppo spostato sul fronte personale delle decisioni, perché il suo stesso politiK bureau ha
bloccato la diffusione delle foto del carcere inquisito e la sua posizione tra i due fuochi non è facile. Adesso l’unica cosa che lo può aiutare è il sostegno del suo partito, che nel Paese, dove è partita la crisi globale, non ha fatto nulla di concreto nei confronti della colpevolezza bancaria che è alla base di uno scompenso mondiale.
B.R.
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
La vostra poesia è grandiosa e viva
DIFFONDIAMO I VALORI DEL “MANIFESTO PER UNA NUOVA ITALIA” I Circoli Liberal si impegneranno a stimolare il dibattito politico in questi tempi di nichilismo, disaffezione e indifferenza verso la politica, contro il voto-delega in bianco ad un Parlamento di nominati: altro che Prima Repubblica! Continueremo quindi la battaglia per il mantenimento delle preferenze e altre battaglie faremo in difesa della civiltà di questo Paese. Siamo delusi da questo centrodestra e vogliamo diffondere i valori del “Manifesto per una nuova Italia” presentato a Todi e in particolare: la difesa della vita e della famiglia e una politica contro il calo demografico, una nuova cultura del lavoro, liberalizzazioni e un nuovo patto fiscale, una sanità e una scuola con meno politica e più efficienza, il criterio meritocratico in tutti i settori e contro una politica dei troppi compromessi e inciuci. Più risorse alle forze dell’ordine per una migliore sicurezza del cittadino, un piano energetico nazionale che stimoli la ricerca e dia impulso a nuove fonti di energia per lasciare ai nostri figli un mondo più pulito e più libe-
Amo i vostri versi con tutto il cuore, cara signorina Barret, e la mia non vuol essere una lettera di complimenti improvvisata; qualunque cosa sia, non è subitaneo e ovvio riconoscimento della vostra bravura, e qui si ponga fine, con garbo e naturalezza, alla questione: dal giorno in cui ho letto le vostre poesie, mi viene da ridere a ricordare che ho pensato e ripensato a ciò che sarei stato in grado di dirvi sul loro effetto su di me - perché in un primo accesso di gioia ho pensato che questa volta avrei smesso l’abitudine al piacere puramente passivo, quando davvero provo piacere e avrei giustificato appieno la mia ammirazione - magari, come si fa tra artisti leali, tentando addirittura di trovare dei difetti e di darvi qualche piccolo aiuto di cui andar fiero per sempre. Ma nulla ne viene... tanto mi è entrata dentro, divenendo parte di me, questa vostra poesia grandiosa e viva, di cui ogni fiore ha messo radici ed è sbocciato... cosa ben diversa dall’essere steso, essiccato e pressato, tenuto in gran conto e riposto in un libro col suo bel numero d’ordine in alto e in basso, chiuso e messo via... e il libro, per di più, definito «un florilegio»! Robert Browning a Elizabeth B. Barrett
ACCADDE OGGI
RIDIAMO AI GIOVANI LA VOGLIA DI SPERARE NEL FUTURO «Considerate la vostra semenza». Per semenza intendiamo l’origine e la vocazione di ognuno: capire da dove si viene è passo fondamentale per meglio affrontare il percorso che abbiamo davanti a noi. Il richiamo alle nostre radici cristiane e quindi ai valori della vita, della persona, della famiglia oggi, a ridosso delle elezioni europee, si fa ancora più urgente. Ricordiamo che l’Europa ha rifiutato di inserire nella sua Carta Costituzionale il richiamo alle radici cristiane; rifiutare, se non addirittura vergognarsi delle proprie origini e degli insegnamenti su cui un intero continente si è sempre basato, rappresenta il primo ma importante segnale di fallimento di un’intera civiltà. Del resto il nostro Continente non è nuovo a queste situazioni; già con la Rivoluzione Francese sono state gettate le basi per creare una società in cui non vi fosse alcun riferimento religioso. Questa sorta di “Cristofobia”, che dilaga ai giorni nostri come durante la rivoluzione francese, sta però portando sempre più a una perdita di senso, ad un degrado culturale della nostra società che si concretizza in gesti estremi e pieni di violenza. Tutti abbiamo ben presenti i filmati su Youtube in cui giovanissimi ragazzi si facevano riprendere mentre pestavano loro coetanei. Nella società delle super tecnologie, del tutto è possibile, agli esseri umani è data la facoltà di utilizzare questi strumenti “liberamente”, senza censure,
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
3 giugno 1994 Peter Serkin, pianista termina di registrare a Manhattan le Variazioni Goldberg per l’etichetta discografica BMG classics 1995 Inizia il Viaggio Pastorale di papa Giovanni Paolo II in Belgio 1996 Giro d’Italia: la 16esima tappa si conclude a Losanna.Vince Gontchenkov 1997 Su Evolution viene pubblicato “Sciovinismo umano e progresso evolutivo” di Richard Dawkins, presente anche nella sua raccolta Il cappellano del Diavolo 1998 A Eschede, tra Monaco e Amburgo, il Treno ad alta velocità ICE 884 Wilhelm Conrad Röntgen deraglia e colpisce un pilone a 200 km/h: 101 morti e 88 feriti 2000 Nasce il movimento politico Lista Di Pietro-Italia dei Valori, ad opera di Antonio Di Pietro 2001 Alejandro Toledo, del partito “Perù possibile” è eletto presidente 2002 Vengono emessi 34 miliardi di Dhana, valuta fittizia dell’inesistente Repubblica della Terra
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
senza limiti. Ma la decisione di usare gli strumenti a nostra disposizione per fare del bene oppure per fini totalmente opposti passa senza ombra di dubbio da una formazione culturale che si pone ex ante all’azione da intraprendere. Dobbiamo avere il coraggio, noi giovani, di iniziare, proprio come suggerito dal Cardinal Bagnasco in occasione dell’assemblea dei vescovi italiani, una vera e propria “rivoluzione” culturale che si ponga in antitesi rispetto «alla cultura che instilla in loro la convinzione che nulla di grande, bello, nobile ci sia da perseguire nella vita, ma che ci si debba accontentare di un “qui ed ora”, di obiettivi di basso profilo, di una navigazione di piccolo cabotaggio, perché vano è puntare la prua verso il mare aperto». Rivoluzione che consiste nel ridare ai giovani la voglia di sperare nel futuro, che ridia loro lo slancio per ripartire, giorno dopo giorno, con nuovo sfide, sempre più alte e sempre più importanti; sfide che stimolino la loro cultura, la loro intelligenza e che rinnovino in loro il rispetto alla vita. Questo però sarà possibile solo se famiglia, università, politica … uniranno i loro sforzi. Nelle famiglie bisogna tornare a dare grandi ideali ai figli, si deve abbandonare la cultura nichilista che ha portato ad avere spiriti inerti e privi di slanci. I genitori devono tornare a rivestire il loro ruolo con maggiore e rinnovata autorità, dismettendo i panni dell’ amico-genitore.
ro, come sta cercando di fare il presidente Obama negli Stati Uniti, privilegiando il dialogo alla forza. Ci impegneremo, inoltre, nel rafforzamento di un’area di centro, liberale e cristiana, verso il Partito della Nazione, recentemente auspicato anche dai Liberal. Un movimento che possa comprendere tutti i moderati, laici e cattolici, per trovare finalmente un punto di incontro che vada oltre le vecchie logiche di contrapposizione degli attuali schieramenti, nello sforzo di risolvere i grandi problemi del futuro attraverso un’ottica diversa. Ugo Rizzi C O O R D I N A T O R E CI R C O L I LI B E R A L PR O V I N C I A D I CR E M O N A
APPUNTAMENTI GIUGNO 2009 VENERDÌ 19, ROMA, ORE 11 PALAZZO FERRAJOLI - PIAZZA COLONNA Riunione nazionale dei Coordinatori Regionali e Provinciali e dei Presidenti Comunali dei Circoli liberal. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
Simone Malnati Segretario Movimento Giovanile Udc Provincia di Varese
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
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PAGINAVENTIQUATTRO Personaggi. Firenze celebra Giovanni Battista Giorgini, primo stilista
Il dandy toscano che trasformò l’autarchia in di Marco Ferrari
a moda italiana, così come la conosciamo noi, sfilate, modelle, divi del cinema, ricchi premi e cotillon, nacque il 12 febbraio 1951 a Firenze nella casa del marchese Giovan Battista Giorgini detto “Bista”. Si chiamò hollywoodianamente “First Italian High Fashion Show”. E fu un successo immediato e insperato sia per immagine che per ordinativi. L’anno successivo, in luglio, il “Bista” tentò l’impossibile: accorpare lo stile italiano ai fasti del Rinascimento. E ci riuscì facendo sfilare le modelle nella Sala Bianca di Palazzo Pitti diventata poi per trent’anni lo scenario ideale e incomparabile della grande moda.
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Per ricordare Giorgini (Forte dei Marmi 1898 – Firenze 1971), il Comune di Firenze ha raccolto l’invito del nipote, Neri Fadigati, presidente dell’archivio fotografico “G. B. Giorgini”, di apporre una targa ricordo all’ingresso del palazzo di famiglia, Villa Torrigiani, in via dei Serragli. Alla cerimonia, questa mattina, interverranno anche le grandi firme delle sartorie del tempo, tra cui Capucci, Gherardini, Gucci, Ferragamo e Beppe Modenese, presidente onorario della Camera della Moda. E ci sarà anche Laudomia Pucci a ricordare il padre Emilio, indomito e indimenticabile nobile difensore della fiorentinità. «Il marchese Giovanni Battista Giorgini riuscì in un’impresa che Mussolini non era riuscito a fare agli inizi degli anni Trenta» ha scritto Guido Vergani, giornalista e storico del costume. In un discorso a Milano nel 1930 il Duce invocò la moda autarchica, ma i sarti italiani non raccolsero in suo appello, preferendo andare a comprare i carta-modelli a Parigi. Sino alla fine degli anni quaranta non esisteva un’industria dell’abbigliamento italiano. La quasi totalità degli abiti (90% nel 1946, 83% nel 1955) erano fatti su misura da migliaia e migliaia di sartorie artigiane disperse in ogni paese della Penisola. Accettarono la sfida della mitica sfilata nove sartorie italiane, Simonetta, le sorelle Fontana, Fabiani, Schuberth, Marucelli, Carosa di Roma, Veneziani, Ruberasco e Vanna di Milano.Tutte confessarono a Giorgini il timore di urtare le maison parigine ma, alla fine, confidando nella
presenza dei buyer americani portarono a Firenze il meglio delle loro invenzioni.
Giorgini era riuscito a trascinare a quel defilè casalingo i migliori compratori d’oltreoceano, una trentina di persone tra le quali Julia Trissel della Bergdorf Goodman, ancora oggi il più importante negozio di New York, Stella Hanania della Magnin, Henry Morgan da Montreal. Ed aveva convinto tre firme del giornalismo di grido a presenziare all’evento: Elsa Robiola di“Bellezza”, Vera Rosi di “Novità” e Elisa Massai di “Women’s Wear”. Il tutto condito dalla particolarità del luogo – una villa in pieno centro storico, in Oltrarno, - un ambiente con interni intatti, cibi toscani e il ballo finale a cui venne invitata la nobiltà fiorentina a cui fu chiesto di vestire abiti ispirati a Maddalena Strozzi. Giorgini, figlio di una nobile casata lucchese, imparentata anche con Alessandro Manzoni e Massimo D’Azeglio,
MADE IN ITALY fu il primo “esploratore” economico negli Stati Uniti dove si recò già negli anni venti. Un’esperienza interrotta prima della crisi del ’29 e poi dal fascismo. Ma quando gli alleati arrivarono alle porte di Firenze, nella città divisa in due dall’Arno, sistemarono il loro quartier generale proprio nella casa fuori porta di Giorgini, a Bellosguardo, approfittando dell’ospitalità e della conoscenza della lingua inglese del proprieta-
gendo altri sarti come Emilio Pucci, Gatzline, Avorio, Bertoli e la Tessitrice di Capri. E il suo atelier cominciò ad essere frequentato da tanti divi tra i quali Alfred Hitchcock. Alla moda femminile aggiunse poi la moda maschile, l’intimo, l’infanzia e scoprì nuovi talenti come Capucci, Irene Galitzine, Krizia,Valentino. Così, gli importatori americani andarono oltre l’artigianato di paglia, la pelletteria e le ceramiche aggiungendo nel paniere degli acquisti tailleur, completi, maglioni, scarpe. E Giorgini divenne l’uomo che, con disinvoltura e una bella dose di invenzione, riuscì per primo a fare concorrenza ai sofisticati atelier parigini. Al resto pensò Firenze, il suo fascino, la sua eleganza e la possibilità di sfilare nella Sala Bianca di Palazzo Pitti dove, fino al 1965, con l’inseparabile marchese Gianni Ghini, successivamente socio in affari, lanciò in passerella il “Made in Italy” riuscendo a trasformare l’alta moda in prêt-à-porter. Se oggi griffe italiane come Armani, Versace, Cavalli, Dolce&Gabbana, Ferragamo hanno decine e decine di negozi sparsi per il mondo, molto di deve proprio a quel dandy toscano che seppe arrivare al cuore, anzi ai portafogli, degli americani.
Nel 1951, con una sfilata nella sua villa sulle colline fiorentine di fatto inventò il mito della moda. Questa mattina, il Comune ricorda quell’evento storico, chiamando a raccolta tutti i protagonisti dello stile italiano, da Capucci a Gherardini a Gucci rio. Le porte degli States si riaprono subito per lui e nel ’47 organizzò la mostra ”Italy at work” al Museo di Arte Moderna di Chicago riconquistando così i rapporti con i grandi compratori.
Il nobile toscano era dunque conscio delle potenzialità della moda italiana e delle possibilità di accedere al mercato americano, il principale del pianeta, non intaccato dalle distruzioni belliche. Del resto le sorelle Fontana avevano realizzato nel 1949 il vestito da sposa di Linda Christian per il fantastico matrimonio con Tyrone Powell mentre “Harper’s Bazaar” parlava delle belle invenzioni di Emilio Pucci. Così, dopo la prima “collettiva”, Giorgini andò avanti coinvol-