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ISSN 1827-8817 90610

Lo sapevi, peccare

di e h c a n cro

non significa fare il male: non fare il bene, questo significa peccare

9 771827 881004

Pier Paolo Pasolini

QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA

di Ferdinando Adornato

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Da Ratzinger a Fisichella: un libro a più mani curato da Vian, rilegge la storia di Pio XII

Chi ha incastrato papa Pacelli? di Andrea Riccardi l pontificato di Pio XII abbraccia un periodo storico drammatico. La chiesa cattolica è sconvolta dalla II Guerra mondiale, provata dalla Guerra fredda e dai regimi comunisti. In quegli anni tragici, i responsabili vaticani si chiedevano che spazio restasse al cristianesimo, almeno in alcune parti del mondo. Durante la guerra, si aveva in Vaticano la netta sensazione che l’«ordine nuovo» nazista, se vittorioso, si sarebbe risolto in un duro attacco alla chiesa, per lasciare sopravvivere un cristianesimo mutilato. Dopo la guerra, le comunità cattoliche nei paesi comunisti erano languenti sotto la persecuzione. I problemi non mancavano nemmeno in Europa occidentale. Le società mostravano sintomi di crisi a livello di comportamenti collettivi e di adesione ai modelli proposti dalla chiesa.

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a p ag in a 12

Biennale, il catalogo dell’«auto-elogio»

Come è potuto succedere che il leader di una grande chance di modernizzazione dell’Italia si sia ridotto a una sorta di controfigura di Bossi, con il Pdl ormai prigioniero della Lega

Il dramma di Berlusconi

un uomo solo senza comando da pagina 2 a 7

di Angelo Crespi a pagina 20

Perché la Corte non fermerà Marchionne

Anche la storia (oltre a Obama) sta con la Fiat di Carlo Lottieri l blocco della cessione di Chrysler a Fiat (uno stop solo temporaneo, beninteso, stando a quello che si può intuire) decretato lunedì scorso dalla Corte Suprema degli Usa risponde a logiche puntuali, connesse a ben precisi diritti di specifici creditori che hanno avviato una procedura contro l’intera operazione, chiedendo di congelare l’intera operazione. In tutto ciò vi sono una serie di technicalities che sono proprie del diritto societario americano, riguardanti soprattutto la protezione dei creditori più senior, ma è fuori discussione che tale vicenda va anche letta all’interno di un quadro più ampio.Tanto più che non è difficile riconoscere varie somiglianze con quanto avvenne ottant’anni fa, in tempi di New Deal.

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Da oggi il tiranno libico è in Italia: incontrerà Napolitano e Berlusconi

Gheddafi, lo scandalo del camping La sua tenda piantata al centro di Roma, come fosse un re di Luisa Arezzo

Ritratto di un dittatore dai mille volti

Il golpista di successo

uhammar Gheddafi ce l’ha fatta. Il leader libico al potere dal 1969, l’ex-pariah della comunità internazionale che il presidente americano Ronald Reagan definì un “cane pazzo”, dopo aver ricevuto la conferma del ritorno della Libia nel salotto buono della comunità internazionale conquistando la presidenza dell’Unione Africana, sbarca oggi a Roma per restarci tre giorni. Per accamparsi, con la sua tenda beduina, a Villa Pamphili. In Francia, un anno e mezzo fa, gli era andata meglio: era nel parco di palazzo Marigny, la residenza attigua all’Eliseo dove vengono alloggiati gli ospiti di maggior riguardo. Ma a Parigi, nonostante i fasti riservatigli da Sarkozy, l’accoglienza da divo fece precipitare il gradimento del presidente dal 55 al 52 per cento.

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L’11 giugno del 1970 è a Tripoli il segretario di Stato Usa William Rogers, per trattare la richiesta di ritiro della base americana. Il ventottenne colonnello Muhammar Gheddafi, ha appena concluso un golpe che il primo settembre 1969 ha destituito il re Idris I. È così che comincia la storia di un dittatore assai longevo. a pa gi na 8

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se g ue a p ag i na 10 seg2009 ue a pa•giEnURO a 9 1,00 (10,00 MERCOLEDÌ 10 GIUGNO

di Maurizio Stefanini

CON I QUADERNI)

• ANNO XIV •

NUMERO

113 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


speciale / elezioni

pagina 2 • 10 giugno 2009

Parabole. 1994-2009: nella storia la spiegazione del trasferimento di “coalition power” dal premier alla Lega

Il Cavaliere di Bossi

Nel 2001, il capolavoro di Berlusconi: essere il federatore di forze diverse Oggi, azzerati gli alleati del passato, è diventato ostaggio del Carroccio di Errico Novi

R OMA . Nell’affannosa ricerca del peccato originale, i gerarchi del Pdl non sono riusciti a risalire oltre il congresso fondativo. Troppo dannunziano e veloce perché potesse nascerne un partito vero, dicono: l’analisi è ferma lì, a una palingenesi che basterà a rimettere le cose a posto, a ridimensionare le pretese della Lega. Se non fosse riduttivo, d’altra parte, Gianfranco Fini non avrebbe ragione di infrangere ancora una volta la quiete di Arcore, dove Bossi ha strappato a Berlusconi il no al referendum, e annunciare che lui «voterà convinto a favore dei quesiti». Un modo per dire che l’unica via d’uscita è in un governo diverso, senza la Lega. O forse per segnare il gol della bandiera ricordando che è proprio l’esclusiva concessa a Bossi ad aver disarmato lo stesso Cavaliere. E in effetti sembra così: la strada che oggi porta Silvio Berlusconi, per la prima volta dal ’94, ad apparire come il numero due della coalizione, offuscato com’è dall’ombra del Senatùr, è più tortuosa. Parte da lontano, paradossalmente da uno straordinario capolavoro politico realizzato quasi dieci anni fa. E che adesso sembra irrimediabilmente perduto. Si può obiettare che le Amministrative hanno riaggiustato l’immagine di un Cavaliere deluso dal voto. È vero. Ma cosa sarà d’ora in poi la maggioranza, se non un bipartito in cui è il Carroccio a dettare puntualmente le condizioni, a imporre i contenuti che il Pdl non sembra nemmeno in grado di elaborare? E davvero si è arrivati a questo perché la fusione Forza Italia-An è ancora troppo calda per apprezzarne la lucentezza? È il caso appunto di risalire a una decina di anni fa. Al 2000, quando Berlusconi riesce a recuperare il rapporto con la Lega, convince i lumbard e il loro capo ad archiviare la stagione secessionista. Mette così insieme i voti del vecchio pentapartito con quelli che lo straordinario fiuto del Senatùr sa intercettare. In più il Cavaliere raccoglie i frutti della costituzionalizzazione dell’ex Msi, da lui incoraggiata in tempi insospettabili. Da questo rassemblement moderato e movimentista presentato come Casa delle libertà nasce la vittoria del 2001. Un’opera dell’ingegno politico o forse

E adesso cancelliamo il premio di maggioranza di Franco Insardà rchiviate la Europee, ora l’agenda politica italiana propone il referendum del 21 giugno. Un appuntamento che si sta trascinando da un anno e che giorno dopo giorno perde qualsiasi appeal. Il de profundis è stato recitato la scorsa notte ad Arcore durante l’incontro tra Silvio Berlusconi e Umberto Bossi. Il non contrariare l’alleato, da sempre fermo oppositore del referendum, e l’esito delle Europee hanno spinto il Cavaliere ad accantonare la tentazione di dare un’accelerata decisa al bipartitismo. Ed è una rinuncia non da poco, visto che l’ormai improbabile approvazione dei quesiti referendari favorirebbe il sistema da sempre sognato da Berlusconi. Ma anche questa volta stanno prevalendo gli interessi del Senatùr. Il quale avrebbe presentato al presidente del Consiglio un ragionamento semplice semplice: occuparsi adesso della legge elettorale metterebbe a rischio le riforme. E il ricordo del referendum sulla Devolution è ancora vivo sia ad Arcore sia a Gemonio.

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Le riforme prima di tutto, quindi. E ci sarebbe da rallegrarsene se non fosse che quello che interessa al centrodestra è soltanto un accordo di basso profilo sul fisco federale. Non certo interventi strutturali più radicali come l’innalzamento delle pensioni o le liberalizzazioni. Anche perché il centrodestra dimentica che il Paese restituito dalle urne ha espresso chiaramente una bocciatura al bipartitismo. Una legge elettorale senza premio di maggioranza non può far altro che bene al quadro politico delineato già dalle politiche del 2008 con cinque raggruppamenti ben identificati: Pdl, Pd, Lega, Italia dei Valori e Udc, ai quali va aggiunta tutta l’area della sinistra che si è frantumata e che potrebbe riunirsi. Senza la costrizione della coalizione la dialettica delle alleanze potrebbe esse-

re libera di esprimersi al meglio. Il Pdl potrebbe confrontarsi con l’Udc senza lo spauracchio e gli aut-aut della Lega, e la stessa cosa potrebbe succedere con il Pd, eventualmente svincolato dai dipietristi. Se passasse il referendum sulla legge elettorale, aumenterebbe il peso di chi urla. Avremmo un bipartitismo forzato con le coalizioni costrette a riconventirsi in grandi contenitori, nei quali i vecchi schieramenti, trasformati in correnti, continuerebbero la loro opera di ricatto. Immaginate che cosa succederebbe al Pd se, dopo aver assemblato anime opposte tra loro, fosse costretto a imbarcare il giustizialista Antonio Di Pietro e il libertario post comunista Nichi Vendola. Per non parlare del Pdl, che dovrebbe far convivere i rappresentanti del Carroccio e i campioni dell’interesse nazionale di An. Uno dei promotori del referendum , Mario Segni, ieri lamentava «le continue risse all’interno delle coalizioni». Ma se passasse il suo schema, lo scontro sarebbe la regola nei megapartiti che, gioco forza, dovrebbero formarsi per tentare di ottenere la vittoria e il premio di maggioranza. Allo stesso modo il professor Giovanni Guzzetta, in una conferenza stampa indetta simbolicamente alla Bocca della Verità sempre ieri a Roma, ha sottolineato che dopo le Europee sarebbe «tornato lo spettro dell’ingovernabilità con Di Pietro che ricatta il Pd e Bossi che ricatta il Pdl». Ma la sua cura è peggiore del male, perché il virus è il premio di maggioranza. Che va abolito non trasferito ai partiti maggiori.

Bisogna restituire ai partiti la libertà di confrontarsi e dialogare, senza alcun timore. Quel timore che per Silvio Berlusconi si trasforma nell’ossessione di essere lasciato solo e di perdere le elezioni. Il premier in questi casi ci fa venire alla mente la barzelletta, che lui certamente conoscerà, del cliente che si rivolge all’avvocato per essere tutelato in un procedimento. Il legale, rileggendo il ricorso preparato, dice: «Qua li freghiamo, qui ti fregano...». Berlusconi fa proprio così. Se vince le elezioni dichiara di aver ottenuto il risultato da solo, se perde è perché gli alleati lo hanno abbandonato. Dalla serie, abbiamo vinto o avete perso?

un’intuizione, degna comunque di un De Gasperi della nuova Repubblica.

Da una parte il clima di contrapposizione estrema alimentato dall’irrisolta tensione tra politica e giustizia nasconde all’occhio di molti il valore dell’operazione. Dall’altra c’è il limite di un percorso ancora da completare, da arricchire con gli elementi costitutivi della politica. La democrazia interna ai partiti, innanzitutto, e nello specifico a Forza Italia. I primi anni Duemila sono quelli in cui Berlusconi scopre la contraddizione dell’assetto burocratico, della struttura articolata ma un po’ rigida che Claudio Scajola, da coordinatore del movimento, ha disegnato. Dai dubbi deriva il passaggio di consegne tra l’ex ministro dell’Interno e il duo Bondi-Cicchitto. Dovrebbe essere lo stampo dell’involucro definitivo: un’organizzazione partecipata ma leggera, leaderistica ma radicata tra la gente. E invece è l’eterna promessa che non si realizza. Servirebbe la sollecitazione diretta del fondatore che non arriva. Perché a questo punto – e siamo nel 2004, al passaggio più complicato e faticoso del secondo governo Berlusconi – si pone un’alternativa, un bivio, per il Cavaliere: articolare appunto una formazione politica vera, non più sostenuta dal solo slancio pionieristico, e creare così il presupposto perché il centrodestra sopravviva al suo inventore; oppure cedere all’idea più seducente, quella per cui tutto può reggersi solo sul genio e il carisma del capo. Berlusconi opta per la seconda possibilità. O meglio, in una fase iniziale preferisce tenere accesa la prima, senza riuscire a coltivarla fino in fondo, oppresso com’è anche dalla freddezza interessata dei poteri forti. E in questa giungla fatta di tranelli, ma in fondo anche di realtà politica quotidiana, si arriva al voto del 2006. La vittoria mancata per un soffio è uno spartiacque. Riemerge la consolidata sfiducia di Silvio nei suoi colonnelli. Mette in campo per questo Marcello Dell’Utri con i suoi circoli, salvo affidare poi il dossier a Michela Brambilla. Intanto si convince sempre più che tutta la costruzione politica realizzata negli anni ha senso solo finché sussiste il suo carisma, il suo ineguagliabile talento nelle campagne elettorali. Così decide di incendiare tutto il resto. Prima l’alleanza con l’Udc, messo fuori dalla coalizione per le Politiche del 2008. Quindi An, fatta sciogliere in un partito unico privo di contenuti. Resta solo la Lega, unico alleato riconosciuto. È una deformazione sostanziale della Casa delle libertà messa in piedi nel 2001, perché vengono meno puntelli essenziali, come la dialettica modera-


speciale / elezioni

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La fondazione del presidente della Camera: «Pdl succube dei leghisti»

E Fini riapre lo scontro sul referendum di Francesco Capozza

ROMA. È ricominciata la sfida Berlusconi-Fini. Oggetto della nuova contesa: il referendum. «Voglio essere il De Gasperi di un’ Italia moderna», ha detto il premier non più di un mese fa, quando “quota 40” appariva un obiettivo elettorale raggiungibile, e che avrebbe fatto del Pdl un partito forte come solo la Dc degli anni Cinquanta. Ma Berlusconi sa bene che a far saltare il suo progetto non è stata l’opposizione, o la stampa straniera, o un complotto internazionale, ma «la mia signora», esattamente in questi termini ha sospirato avant’ieri, sintetizzando il crescendo polemico iniziato sulla candidatura delle presunte “veline”, e culminato nel caso Noemi Letizia, la ragazza di Casoria che lo chiama “papi”. La novità è che il premier vuol porre rimedio a questo deficit. Ed è proprio quanto Fini si attende. Raccontano che il presidente della Camera abbia chiamato il premier, e le sollecitazioni che sono giunte a Berlusconi nella serata di lunedì attraverso una nota della fondazione Farefuturo riflettono il pensiero del co-fondatore del Pdl. Fini auspica che il partito «nasca davvero», che dietro il leader ci sia «una struttura legittimata e visibile», perchè quella struttura «gli potrebbe tornare molto utile» così recita la nota «per contenere l’offensiva leghista e il malcontento del Sud emerso dall’astensione». «Non basta - prosegue la nota della fondazione vicina al pensiero finiano - che Berlusconi si occupi personalmente del caso Sicilia se poi non c’è un gruppo dirigente che sappia reggere altri eventuali casi».

stro Fitto. Ma sono i “triumviri” del Pdl il bersaglio dell’attacco di Fini Farefuturo, dato che «al vertice del partito non pare abbiano colto il problema». «E la cosa è grave». Insomma, il presidente della Camera ha spronato per l’ennesima volta il Cavaliere, confidando in un cambio di passo nel partito e nel governo, dove un Pdl «senza preciso profilo» ha svolto una politica «fotocopia di quella fatta dalla Lega». Ma, come si diceva all’inizio, le divergenze tra il governo e la presidenza della Camera - che a dire il vero sembravano essersi sopite dopo l’incontro della scorsa settimana tra Fini e Berlusconi - si sono arricchite ieri di un nuovo elemento. L’accordo tra Umberto Bossi e il presidente del Consiglio per non votare il referendum non è piaciuto all’inquilino di Montecitorio che intervistato in tal senso ha specificato: «Io andrò a votare il referendum e voterò sì e spero che gli italiani facciano altrettanto».

«Voterò sì, convinto. E inviterò i cittadini a fare altrettanto»: così l’ex leader di An disobbedisce all’accordo

ta dei centristi e il pungolo della destra. Gianfranco Fini scopre troppo tardi che il Pdl ha bisogno non solo di uno statuto ma di un sostegno identitario vero, capace di distinguersi da quello leghista.

Senza quei due puntelli, la costruzione non è più la stessa, appunto: la Lega non ha più bilanciamenti, certo non può esserlo la componente forzista alla quale non si è data una forma partito. Così oggi Silvio deve rispondere solo a Bossi. Non può dirgli di no, perché non può giocare di sponda con altri interlocutori: non può farlo con Casini, come avveniva nella fase precedente, e neppure con Fini, ridotto a isolata sentinella istituzionale. Ha infranto la perfezione ingegneristica dell’alleanza ricomposta nel 2001, il capolavoro sul quale si reggeva tutto. E oggi più che un uomo solo al comando, come si era convinto di dover essere dopo la sconfitta del 2006, Berlusconi appare come un uomo solo senza comando. Il numero due di una coalizione in cui Umberto Bossi indica di fatto ogni passaggio cruciale, dalla tempistica delle riforme (come il comunicato diffuso ieri mattina da Palazzo Chigi fa intendere con chiarezza) alle strategie sul futuro del Paese (con il federalismo fiscale) e al governo delle regioni, baluardo inespugnabile per Berlusconi dal momento in cui fosse consegnato alla Lega. Oggi il premier è privo di un sostegno interno, cioè di un partito, in grado di reggere il confronto. E difficilmente le buone intenzioni dei colonnelli, o la solitaria ostinazione di Fini, basteranno a rimettere le cose al loro posto.

Qui accanto, il presidente del comitato promotore del referendum, Giovanni Guzzetta. A sinistra, Gianfranco Fini: ha annunciato che andrà a votare sì al referendum del 21 giugno prossimo, malgrado l’altra sera Berlusconi e Bossi (in alto) si siano accordati per far fallire la consultazione, non solo facendo campagna contraria ma anche invitando gli elettori a non ritirare la scheda al seggio elettorale

Non c’è dubbio che il presidente della Camera critichi il premier per una politica di governo a “trazione leghista”, che ha dato al Carroccio una forte affermazione elettorale. E non c’è dubbio che Fini chieda maggiore attenzione verso il Sud dove si avverte un senso «di crescente insoddisfazione». E il Mezzogiorno entrerà nell’agenda di governo, «bisognerà dare visibilità alla nostra azione in questa area del Paese», ha detto il mini-

Dal «voto sì al referendum», al «non darò alcun sostegno alla consultazione». La retromarcia di Silvio Berlusconi è arrivata all’indomani della valanga di voti presi dalla Lega alle elezioni. E non ha sorpreso. Con il peso del Carroccio cresciuto a dismisura, non è un caso, infatti, che il premier si sia affrettato a sfilarsi da una partita che Bossi vede come il fumo negli occhi. Quel referendum che punta al bipartitismo e che relegherebbe la Lega (e i partiti “minori” in generale) nell’angolo dell’irrilevanza politica. Così, se prima delle elezioni Berlusconi si era detto favorevole al quesito, oggi, davanti all’avanzata della “marea verde” frena. Irata la reazione dei referendari. «Bossi ricatta e Berlusconi segue - ha spiegato il presidente del comitato promotore Giovanni Guzzetta -. Sono passate 24 ore dalle elezioni ed è evidente che Bossi ha già chiesto un posto in più in Rai, due Regioni e la rinuncia al referendum». Quanto all’opportunità di procedere a una riforma costituzionale e della legge elettorale che vanificherebbero il referendum, Guzzetta è lapidario: «Sono trent’anni che dicono che vogliono fare la riforma costituzionale, chissà perché se ne ricordano sempre prima dei referendum».


speciale / elezioni

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Ostaggi. «Il Cavaliere paga il fatto di aver creato la soglia psicologica del 40%»: parla il politologo Stefano Folli

Il pericolo “anatra zoppa” «Sì, ora Berlusconi rischia davvero di essere prigioniero in casa» di Francesco Lo Dico on c’è alcun dubbio: i risultati di queste elezioni attribuiscono alla Lega un potere vincolante mai così stringente come oggi. A dispetto delle dichiarazioni distensive che i lumbard si sono premurati di recapitare all’indirizzo del premier dopo il voto, il Carroccio condizionerà d’ora in poi le scelte politiche di questo governo con maggiore decisione. Incassato il boom di consensi, le cene dei leghisti alla villa di Arcore smetteranno di essere semplici conviti rituali. Bossi e i suoi siederanno alla tavola del presidente del Consiglio con la ferma consapevolezza di poter dettare l’agenda del Cavaliere, e che il Cavaliere non è nelle condizioni di potere rifiutarsi». Stefano Folli, firma di punta de Il Sole 24 Ore, prefigura così il nuovo scenario entro cui si muoverà l’esecutivo, scosso dall’exploit della Lega nell’ultima tornata elettorale. Che cosa cambierà adesso, nei rapporti tra Berlusconi e il Carroccio? Nonostante la prudenza delle prime ore, le intenzioni della Lega sono abbastanza evidenti dalle parole del ministro Calderoli. Ha fatto sapere che i voti si pesano ma non si contano. E visto che il Carroccio esce dalle elezioni carico di nuove preferenze, è pronto a riaccendere il motore delle riforme e ripartire di slancio lungo la via maestra del federalismo. Il nuovo equilibrio è stato sancito da Bossi e Berlusconi con lo stop imposto al referendum. Il premier, che in passato aveva nicchiato su questo tema, adesso è stato costretto a sciogliere le apparenti riserve. E non va dimenticato che i lumbard reclameranno due regioni al Nord. Probabilmente ne otterranno soltanto una, ma rimane il dato che hanno alzato l’asticella e pretendono ancora più spazio. Una recrudescenza, che darà al presidente del Consiglio più di qualche mal di testa. Ci spieghi meglio. Se il Cavaliere avesse raggiunto la soglia psicologica del 40 per cento, e l’avesse sfondata come si augurava e ripeteva, si sarebbe smarcato dagli alleati e avrebbe giocato la sua partita in magnifi-

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ca solitudine, da protagonista assoluto. Gli esiti del voto invece impongono uno stop definitivo al diritto di decidere per virtù carismatica. La mole ingigantita della Lega peserà sulle spalle del premier come un macigno, costringendolo a un ruolo di mediazione e pacificazione che è lontano dalla sua indole votata alla leadership, e insofferente alle interferenze. Senza contare che all’interno del Pdl crescerà il malcontento e riaffioreranno malumori di vecchia data. Il vecchio discorso di un partito inesistente, non radicato sul territorio? Quello di rinsaldare le radici del partito sul territorio è un tipico argomento usato da tutti come una foglia di fico, ogni volta che i risultati deludono le attese. Il vero problema territoriale del Pdl è un altro e l’ha sollevato Gianfranco Fini tramite la sua Fondazione Farefuturo. All’indomani dell’affer-

Il Carroccio ha riacceso il motore delle riforme e riparte di slancio lungo la via maestra del federalismo. Tutto questo peserà sulle spalle del premier come un macigno

mazione della Lega, molti aennini vicini al presidente della Camera guardano con spavento a un’ulteriore ”nordizzazione” dell’esecutivo, a scapito del Mezzogiorno. Un processo che, d’altra parte, si è innescato da tempo. Il pensiero corre alla giunta Lombardo. Esattamente. Stretto nella morsa nordista della Lega, Berlusconi subirà il pressing di quanti lo hanno messo sull’avviso al Sud. C’è il rischio concreto che la crescita della Lega produca una frattura insanabile con il Meridione, e che questo, già attraversato da qualche tempo da venti di tempesta, allontani gli elettori del Sud

da un Pdl ad alto tasso di leghismo. E poi va aggiunto che i cittadini hanno bocciato chiaramente il tentativo del bipolarismo di trasformarsi in bipartitismo. Altro elemento che nel Pdl come nel Pd, non sarà certo sottovalutato. Torneranno di moda le alleanze? In questo momento è difficile avvertire nelle dichiarazioni estemporanee i segnali precisi di una strategia. Si tratta piuttosto di rezioni viscerali, personalistiche, che servono a riscuotere crediti e sondare il terreno sulle tracce di possibili alleanze interne. Ad ogni modo, prima di ogni scelta, Pd e Pdl dovranno accettare senza remore il verdetto espresso dagli italiani: se il bipolarismo è stato finora digerito o tollerato, il bipartitismo non sembra affatto gradito. Per ragioni diverse, Pd e Pdl sono i grandi delusi di queste elezioni. In diverse misure e proporzioni, le due compagini che puntavano a diventare i punti di riferimento del Paese, si trovano a dover fare i conti con un inequivocabile appannamento. Il disagio e il malessere diffuso tra gli italiani, si è riversato nelle ali estreme dei due poli, percepite come componenti più combattive e decise dei loro poli di attrazione. Italia dei Valori e Lega attraggono l’elettorato per motivi in fondo simili: sono le compagini che intercettano con più efficacia gli stati d’animo prevalenti tra gli scontenti. Diverso il caso dell’Unione di Centro di Casini, che ha raccolto i voti moderati di chi è scontento del duopolio e della bagarre gossippara, e cerca una soluzione ai mali del Paese nella pacata fermezza di chi non strepita. Ci sono in Italia sei aree politiche di voto, dicono le ultime elezioni. È arrivato il momento di una riforma della legge elettorale? In questi giorni si è dato grande risalto sulla stampa ai lusinghieri risultati della giovane Deborah Serracchiani in Friuli. È la misura di quanto disperato bisogno di novità covi in questo Paese. Tutti, in modo indistinto, sentono una drammatica esigenza di ricambio e rigenerazione. La gente è stufa di veti e balletti calati dall’alto dalla partitocrazia. C’è troppo vecchiume e tanta estenuazione, latitano le idee e i progetti nuovi. Una legge elettorale non basterà di certo.


speciale / elezioni Qui accanto, Gianfranco Fini, presidente della Camera (nella foto sotto). In basso il ministro Roberto Calderoli e il leader dei centristi Pier Ferdinando Casini

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Un intervento nel dibattito aperto da liberal

Caro Casini, tocca a te aprire la strada alla Terza Repubblica

aro Direttore, cota – ci sono, sì, ma vanme siano andate no interpretati. Sappiale elezioni lo mo bene che per archispiega meglio di viare in via definitiva ogni commento la decila disastrosa Seconda sione presa ieri da Silvio Repubblica nella quale Berlusconi di lasciare viviamo da un quindiandare al suo destino il cennio, occorre che si referendum elettorale. determini contemporaUn disimpegno impostoneamente tanto la digli dalla Lega – probabilsgregazione del Pd – il mente la migliore, o coche significa la diversa munque una delle poche riallocazione delle sue buone decisioni tra le componenti moderate tante che in questi anni – quanto l’implosione Bossi lo ha «costretto» a del Pdl, o meglio l’eprendere – alla luce del clissi politica del suo risultato politico della unico motivo di esiconsultazione europea e stenza, Berlusconi. Ora amministrativa. Risultail voto ha contribuito to che finora è stato anaalla realizzazione di di Enrico Cisnetto lizzato solamente sotto il queste due condizioni, profilo degli scostamenti ma in maniera non percentuali, sia rispetto alle precedenti elezioni – sufficiente. Il centrosinistra era già a pezzi, e sarebcosa che ha fatto il centrodestra, per dimostrare una be bastata la discesa sotto la soglia psicologica del performance vincente – sia nei confronti delle 25% per dargli il colpo di grazia. Ma così non è staaspettative, analisi praticata dal centrosinistra per to, e adesso sarà ancora lunga e tortuosa la strada avvantaggiarsi della paradossale illusione ottica verso il chiarimento politico. che il voto ha prodotto, poichè l’ostenSul fronte opposto, il Governo esce tazione berlusconiana di obiettivi pledalla consultazione con il baricentro biscitari per lui e di un’implosione per politico ancor più spostato verso la i suoi avversari ha fatto il capolavoro Lega di quanto già non fosse, e la ridi trasformare il suo quasi pareggio in nuncia del premier all’arma del refeuna sconfitta e la sconfitta altrui in rendum – che pure, se passasse, gli una mezza vittoria. consegnerebbe le chiavi di una sucMa c’è un altro, e politicamente più cessiva vittoria in solitario, premessa indispensabile non solo per salire al significativo, modo di analizzare l’esiColle, ma per farlo con poteri “presito delle urne: quello di contare i voti, denziali” – ne è la clamorosa confercome già ieri ha fatto liberal. Se ne deduce che il Pdl ha perso 2 milioni e 850 ma. Ma questo ci dice anche a quale mila voti, il Pd 4,1 milioni (senza confilm assisteremo nei prossimi mesi: tare il “peso” dei Radicali, che pure Bossi chiederà e Berlusconi concequesta volta da soli hanno preso 740 derà, in uno schema che costringerà il mila voti), e viceversa la Lega Governo a non fare molte ha incrementato il bottino di scelte (dall’abolizione delle 100 mila voti e Di Pietro di province alla riforma delle 850 mila. E non si faccia l’opensioni passando per le biezione che per gran parte si mancate liberalizzazioni) e a tratta di astenuti: a casa mia farne alcune sbagliate (fedel’astensione, specie quella ralismo fiscale), ma che connon cronica, è una precisa sentirà – recessione permetscelta politica. Che in questo tendo – quell’effetto di trascicaso ha colpito prevalentenamento della legislatura cui mente Berlusconi, cui evidengià abbiamo assistito tra il temente sono mancati i con2001 e il 2006. sensi di chi non voleva passare dall’altra parte ma questa volta non se l’è sentita Naturalmente, questo doppio processo propedi confermargli il voto (o gli ha voluto mandare un deutico alla nascita della Terza Repubblica può e deve essere favorito dalle “forze terze”. In primis avvertimento). l’Udc, che ha conseguito un ottimo risultato se si raEd è proprio in quest’ottica che è corretto dire non giona in termini di pericolo di asfissia bipolare, ma solo che l’illusione bipartitica è crollata, ma che an- che si conferma ancora insufficiente se si guarda ad che il bipolarismo ha preso un brutto colpo, visto un obiettivo più articolato. Dunque, mi aspetto da che il sistema ormai si articola in sei diverse aree Casini non solo il rilancio del progetto del “Partito politiche: le cinque che anche questa volta hanno della Nazione” – che deve significare qualcosa di superato la soglia di sbarramento – a proposito, molto di più dell’allargamento dell’Udc a qualche visto che funziona vediamo di adottarla in una esponente più o meno qualificato della società civicompiuta modalità elettorale di proporzionale alla le e di molto diverso dal pur comprensibile desidetedesca – e la sinistra-sinistra, che “valendo” com- rio di riunire i cattolici democratici italiani – ma l’aplessivamente tra il 6% e il 7% è ragionevole pensa- pertura di un grande dibattito politico e programre che prima o poi troverà modo di superare le sue matico sul futuro del Paese in un mondo che la cridivisioni. Altro che semplificazione forzata, altro si economico-finanziaria sta cambiando profondache presidenzialismo strisciante, altro che elezioni mente. Così come mi aspetto dai laici non laicisti – anticipate per spianare la strada del Quirinale al socialisti, repubblicani, liberali: dove siete? – un sussulto per trovare rinnovare ragioni di azione poCavaliere. litica, in un’ottica di pragmatica composizione delle Detto questo, i «segnali di Terza Repubblica» di differenze con le sensibilità cattoliche. Insomma, cui ha parlato sempre ieri liberal – espressione che caro Direttore, la Terza Repubblica è un po’ come la è musica alle mie orecchie di direttore di «www.ter- ripresa economica: si avvicina ma è ancora lontana. zarepubblica.it», quotidiano online di Società Aper- Proviamo, tutti insieme, ad accorciare le distanze.

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Ecco che cosa succederà nei prossimi mesi: Bossi chiederà e Berlusconi concederà. Seguendo uno schema che costringerà il governo a non fare molte scelte urgenti


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speciale / elezioni

Crolli. La sinistra spera di risvegliarsi (fra due settimane) dal vero e proprio incubo di questa tornata amministrativa

La linea gotica del Pd

Traballano anche le antiche roccaforti, da Bologna a Firenze. E così D’Alema guida la rincorsa a Casini per i ballottaggi di Marco Palombi

ROMA. «Aspettiamo i ballottaggi». La linea ufficiale del Pd prima di ammettere la valanga berlusconian-leghista che li ha travolti alle amministrative e scannarsi come da tradizione è questa. «Siamo andati di merda», sintetizza invece un parlamentare toscano di lungo corso che non aderisce alla moratoria delle coltellate alla schiena chiesta da Dario Franceschini.

Lo spostamento a destra dell’elettorato non è in questione, il ridimensionamento del progetto del Pd nemmeno: superato dal Pdl in Umbria e nelle Marche, in flessione drammatica in Emilia e Toscana, a rischio sparizione sotto l’arco alpino, in crisi d’identità nel Mezzogiorno. La depressione e la rabbia del corpaccione democratico è palpabile fin dalle facce. Invece: «Sono molto fiducioso», dice Massimo D’Alema uscendo da un capannello di giornalisti per andare a chiacchierare con Pier Ferdinando Casini nel cortile interno della Camera. I due hanno confabulato a lungo e al termine D’Alema ha dispensato sorrisi a tutti: «Sui ballottaggi sono molto fiducio» si è limitato a dire. Parole che per un sottile stratega come lui significano poco o nulla. «Siamo in campagna elettorale: me ne torno in giro per l’Italia» ha chiosato l’impegnatissimo D’Alema. Non risponde alle domande e sorride, invece, Dario Franceschini alla buvette prima di scambiare due battute con Lorenzo Cesa. I numeri, però, sono quelli e tutti li conoscono: una carrettata di giunte che passano al centrodestra e tutti i ballottaggi in amministrazioni di centrosinistra. In sintesi, Pdl e Lega si portano a casa 26 province (ne avevano 9), il Pd ne ottiene quattordici (partivano dalla stratosferica quota 50): e tra le 15 giunte che passano di mano al primo turno ci sono anche sconfitte dolorose come Napoli o la rossa Piacenza.Tra un paio di settimane si decidono quindi le sorti di 22 province – tra cui Torino, Milano e Venezia – e l’esito dei ballottaggi per il Pd farà davvero la differenza tra vivere e morire: a suo tempo, nel pieno dello scorso aprile, il mese più berlusconiano dacché il Cavaliere è nell’arena, a via del Nazareno si diceva che la soglia di sopravvivenza era fissata a quota 30 amministrazioni. Chissà oggi. Il dato territoriale poi non è meno importante dei numeri. In Lombardia, ad esempio, Pdl e Lega hanno fatto “cappotto” con otto province su 9 vinte al primo turno e quella di Milano che va al ballottaggio con Podestà in largo vantaggio sul presidente uscente Penati; in Piemonte ribaltone per Cuneo, Novara, Biella e VerbanoCusio-Ossola, mentre a Torino si va allo spareggio; in Veneto il centrodestra strappa Padova; in Abruzzo Chieti, Pescara e Teramo, in Puglia la nuova Barletta-AndriaTrani e Bari (ballottaggi a Lecce, Brindisi e Taranto), in Campania Salerno, Avellino e

La Sicilia premia l’autonomia (e la giunta)

Lombardo cerca l’Udc, non il Pdl di Ruggiero Capone

PALERMO. Con una forbice tra il 15 e il 23 per cento, l’Mpa di Raffaele Lombardo s’è confermato un partito radicato in Sicilia. «I suoi uomini erano indesiderati in tutti i partiti, dall’Udc al Pdl passando per il Pd – sostiene un ben informato – e lui li ha candidati».

Lombardo è fatto così, ama dimostrarsi bastian contrario. Con lo stesso spirito, e nemmeno una ventina di giorni fa, il governatore siciliano mandava a casa gli assessori della sua giunta. «Questa casa va rasa al suolo e ricostruita», dichiarava senza mezzi termini. L’uomo è stato eletto governatore, un annetto fa, col 65 per cento dei voti. Oggi in molti si chiedono se per questa congerie di scaramucce si possa definitivamente sfasciare una giunta e poi tornare alle urne. «Più che di congiure parlerei di disfide – torna a bomba la fonte – come si litiga così ci si riappacifica. Berlusconi non vuole che in Sicilia si torni alle urne, ringalluzzendo gli appetiti di sinistre, amici di Orlando e combriccole varie». Così, dopo una sequela di dispetti, sgarbi, e veleni tra Pdl, Udc ed Mpa, ora da ambienti romani potrebbe partire la proposta di riconciliazione. «La prima cosa che deve fare è mettere in piedi le ragioni di una coalizione», suggerisce Totò Cuffaro, vice coordinatore nazionale dell’Udc, «Lombardo deve ripristinare assolutamente le ragioni dell’alleanza. Lui non ha tenuto insieme la coalizione perché ha piegato le istituzioni ai suoi fini elettorali. Questa coalizione è nata perché lui governi ed in questo anno Lombardo ha fermato tutto, dalla macchina amministrativa ai lavori pubblici». L’Udc è già disponibile a un tavolo per la governabilità della regione. In perfetta sintonia anche Gianfranco

Rotondi della Democrazia cristiana per le autonomie. Anche le altre formazioni che si richiamano allo Scudo crociato considerano che un tavolo di trattativa per la governabilità siciliana potrebbe riuscire dove gli ambienti romani hanno fallito, e cioè ricomporre tutti gli eredi della Balena bianca per una prassi amministrativa, governare la Sicilia. Al Centro, l’idea di salvare Lombardo piace. Di diverso avviso i notabili siciliani del Pdl. Il presidente del Senato, Renato Schifani, ed il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, non se la sentono proprio di sedersi attorno ad un tavolo con Lombardo. I due big del Pdl hanno un conto aperto (e personale) con il governatore siculo che, per dimostrare all’Isola il suo sommo potere, come era in uso durante il Regno di Napoli ha personalmente depennato sia Schifani che Alfano dalla cena in onore del presidente della Repubblica in visita a Palermo. «Napolitano aveva chiesto pochi intimi», commentava sornione il Lombardo.

Di Lombardo si sa che ambisce a una pace duratura, poiché l’Assemblea regionale siciliana è controllata dal Pdl. Così capita che anche se Lombardo facesse una nuova giunta con Udc, Dc di Rotondi ed altre sigle, avrebbe sempre contro il Consiglio regionale. Da un anno a questa parte sono state varate circa 40 leggi regionali, tutte d’iniziativa assembleare. Nemmeno una leggina governativa è riuscita a passare. Si tratta d’una guerra nata su offese, sgarri, affronti. Per Schifani è una questione d’onore, e terrà il punto finché Berlusconi non consiglierà «fate pace con Lombardo e dialogate con l’Udc, Cuffaro è un amico».

Napoli (per la prima volta da quando, sedici anni fa, il viceré Bassolino è assurto al trono). Nelle regioni rosse del centro Italia il centrosinistra tiene – ma il Pd perde voti comunque - con l’eccezione di Piacenza, la città di Pierluigi Bersani, e i ballottaggi a Prato e Arezzo. Insomma «l’entità appenninica» non è più solo una battuta velenosa di Giulio Tremonti, ma una realtà assodata: fuori dalle regioni rosse sono schiaffoni più o meno dappertutto.

Alle comunali, infatti, non è andata meglio: dei trenta capoluoghi nove vanno al centrodestra, cinque al centrosinistra (tutte roccaforti: Modena, Reggio Emilia, Livorno, Perugia e Pesaro) e sedici - tutti democratici - al ballottaggio. La situazione precedente era 26 a 4 per il centrosinistra. Pure gli spareggi, peraltro, hanno una loro precisa valenza simbolica perché si svolgono in luoghi chiave della geografia politica del Pd: Firenze e Prato in Toscana, Bologna, Ferrara (la città di Franceschini) e Forlì in Emilia Romagna, Ancona e Ascoli nelle Marche, la Bari di Michele Emiliano e la Potenza simbolo del potente e spregiudicato Pd lucano. Per evitare la debacle totale e pareggiare almeno il risultato del Pdl, i democratici ora devono passare le prossime due settimane pancia a terra: perdere uno dei comuni simbolo, su tutti Firenze (dove anche Domenici era andato al ballottaggio) e Bologna, darebbe a questa tornata elettorale il sapore della sconfitta epocale. «C’è poco da brindare – ha sintetizzato Enrico Letta - Coi ballottaggi ci giochiamo il futuro». Al di là della mazzata, infatti, l’analisi pur frettolosa dei risultati elettorali sta scavando sotto traccia nel corpo stesso del partito: da tempo la vocazione maggioritaria non è più all’ordine del giorno, ma l’attuale trend psico-elettorale sembra mettere in crisi la stessa centralità dei democratici, la loro capacità di aggregare un’alternativa di governo. Non è un problema di flussi di voto, perché l’elettorato di centrosinistra in Italia s’attesta ancora senza sforzi bel oltre il 40% del totale, solo che nessuno sa come strutturarlo in una forma politica funzionante. Fallito il tentativo di cannibalizzare i cespugli, crollato nell’ignominia quello della sacra armata anti-Cavaliere, il Pd sembra ora diviso tra la tentazione di un ritorno al passato – il rapporto con la Sinistra di Vendola, i cantori passati con disinvoltura dal bipartitismo al neo-ulivismo alla Chiamparino, i nostalgici dell’Unione come Parisi e la Bindi –, una generica ansia di rinnovamento generazionale, quanti guardano alla saldatura al centro con l’Udc e i dispersi sul fronte russo, che si dibattono in un difficile giorno per giorno senza meta né direzione. Le idee chiare, invece, pare avercele il filo leghista Penati che ieri ha pontificato: «Non sarà mai più consentito a nessu-


speciale / elezioni

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Ballottaggi: il Partito democratico rivede le alleanze a sinistra

La Rifondazione di Franceschini di Antonio Funiciello

ROMA. Pur non volendo sottovalutare l’infelice risultato delle europee, la vera novità per il Pd è il brusco ridimensionamento subito nel turno amministrativo. Non è difatti la prima volta che il centrosinistra va sotto al centrodestra su scala nazionale. È, viceversa, inedita non soltanto la concomitanza con una sconfitta tanto secca nel rinnovo di amministrazioni locali, ma anche il ridimensionamento in sé della presa del centrosinistra nel governo locale di province e comuni. Solo nelle elezioni regionali del 2000 si riscontrò una simile affermazione del centrodestra. La debacle del 2000 costò la presidenza del Consiglio dei ministri a D’Alema e assurse a viatico per la vittoria del 2001 di Berlusconi. Eppure riguardava l’elezione di Presidenti regionali. È, invece, dalle amministrative del ’93 che il centrosinistra governa stabilmente la maggioranza delle province e dei comuni italiani. Un trend confermato di elezione in elezione, chiunque fosse l’inquilino di Palazzo Chigi.

tuale segretario del Pd, ma soprattutto perché la mancata vittoria al primo turno, indurrà il Pd ad allearsi nuovamente con Rifondazione, dal cui abbraccio si era sottratto e in seguito al restauro del quale si determinerà uno scoramento di quell’elettorato moderato che credeva ormai definitivamente separati Pd e Rc.

La sconfitta del centrosinistra sancisce il definitivo esaurimento di quella spinta propulsiva nel governo delle amministrazioni locali inaugurata, quindici anni fa, dalla prima stagione dei sindaci. Correva l’anno 1993 e quella fase fu senz’altro un importante elemento istitutivo della cosiddetta seconda repubblica e non solo dal lato del vincente fronte progressista. Essa rappresentò indirettamente anche l’occasione per la discesa in campo di Berlusconi, con la dichiarazione di voto a favore di Fini contro Rutelli. La fine del mito del bravo amministratore di sinistra fa i conti sicuramente con insuccessi amministrativi, specialmente al Sud, mentre al Nord è determinata dal maggiore radicamento del centrodestra prodotto dall’intelligente investimento della Lega nella formazione di una classe dirigente preparata e appassionata. Il Pd ha pochissimo tempo per provare a sostituire qualcosa a quel mito poiché, dopo cinque mesi di interregno congressuale, si ritroverà immediatamente in campagna elettorale per elezioni regionali difficilissime. L’esito nel voto di giugno s’incarica così di ribaltare i rapporti di forza anche nella mappa del governo regionale.

La débacle nelle amministrative chiude una lunga stagione di intese. E le regionali del 2011 sono troppo vicine per cambiare tutto

no, Franceschini o altri, di ignorare i messaggi del territorio. Non si vince con una politica dei palazzi e dei salotti». Il presidente uscente ha poi ricordato che «molti di noi avevano posto il tema della questione settentrionale e io stesso non ho mai sottovalutato temi come l’immigrazione, la sicurezza o i clandestini. Ma sono stato liquidato come un leghista di sinistra. Io perà ho imparato negli anni a leggere i segnali del territorio».Troavre una mediazione fra tutt queste anime sarà difficile. Ed ecco perché questa sconfitta sembra quasi sia stata accolta con soddisfazione, come una di quelle battute che nel gergo comico americano si chiamano “porta a casa”, quelle cioè che capisci andando a casa dopo lo spettacolo: quando a via del Nazareno si renderanno conto di cosa vuol dire, però, saranno già impegnati a sterilizzare la discussione congressuale.

Qui sopra, quattro candidati democratici al ballottaggio. In alto, Flavio Delbono e Matteo Renzi, in corsa per la poltrona di sindaco a Bologna e a Firenze. Sotto, Michele Emiliano (sindaco uscente di Bari) e Filippo Penati (presidente uscente della provincia di Milano). A destra, Dario Franceschini. A sinistra, Raffaele Lombardo

Il Pd coi suoi alleati amministrava fino a domenica scorsa 50 delle 59 province al rinnovo (3 erano di nuova istituzione). Pdl e Lega passano oggi da 9 a 26, lasciandone al centrosinistra 14, che potranno al massimo diventare 24 dopo ballottaggi che ne consegneranno altre 12 al centrodestra. Per uno score finale di 38 a 24 per Berlusconi. Nei 30 comuni capoluogo, da 26 a 4 per PD e alleati, si passa a 9 a 4 per Pdl e Lega, con un assai probabile risultato finale post ballottaggi di 20 a 10 per Berlusconi. Un vero e proprio ribaltamento del rapporto di forze in campo, con un cambiamento radicale della mappa del potere locale. Se si aggiunge che la consultazione ha riguardato la quasi totalità di province e comuni delle regioni rosse, si comprende meglio la portata dell’evento. Nelle quali regioni pure si è assistito ad una certa tenuta del Pd, ma a prezzi molto cari. Persa al primo turno la provincia di Piacenza (città dell’aspirante leader democratico Bersani, a cui era collegato lo sconfitto presidente provinciale uscente), il caso Ferrara è, in tal senso emblematico, più degli stessi grandi capoluoghi regionali di Firenze e Bologna. Non soltanto perché Ferrara è la città dell’at-


il personaggio

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Gheddafi. Dal colpo di stato del ’69 al “pentimento” del 2004: ritratto dell’uomo che governa la Libia da trent’anni

Il golpista di successo Finto amico dell’Occidente, nemico del suo popolo: chi è il satrapo che l’Italia accoglie con tutti gli onori di Maurizio Stefanini 11 giugno del 1970 è a Tripoli il segretario di Stato Usa William Rogers, per trattare la richiesta di ritiro della base americana. Non però con il 28enne colonnello Muhammar Gheddafi, capo del golpe che il primo settembre 1969 ha destituito il re Idris I, che preferisce in principio restare fuori. Ma mentre i colloqui tirano per le lunghe e fuori dal palazzo la folla inveisce, a un certo punto irrompe nella sala: divisa kaki da combattimento, mano sul pistolone sfilato a metà della fondina. Con un gesto che gli è ancora tipico quando discute, appoggia un piede sulla sedia mentre si tiene il mento con un palmo, e parla.

L’

«Rogers - dice - io non so proprio che cosa lei stia cercando di trattare. Da questo momento lei ha tre ore di tempo per dirmi, con esattezza, quante settimane vi servono per sbaraccare e andarvene. Una settimana o due? Quanto? Naturalmente, ci pagherete l’affitto della terra dal ’54 a oggi, l’energia elettrica che avete consumato, l’acqua, le bollette del telefono, tutto per 16 anni. Intendiamoci: partono gli uomini, non le armi. Armi, aerei, carri armati, missili, apparecchiature se volete prenderli ce li pagate al prezzo di oggi e come se fossero nuovi di fabbrica. Qualcosa in contrario? Perché se c’è qualcosa in contrario lo dico al popolo, qui sotto, in piazza. E ci pensa il popolo a persuadervi». Trentaquattro anni dopo, ancora Gheddafi è al potere, ma invece di esigere il ritiro americano a forza di tumulti popolari è lui che si è invece piegato a rinunciare alle armi di distruzione di massa che la Libia stava approntando: in particolare la bomba atomica, ma anche l’iprite e il gas nervino dell’impianto di Rabta e forse anche armi batteriologiche. È la seconda resa agli angloamericani, dopo che nel 1999 ha accettato di consegnare alla magistratura scozzese i due indiziati della strage di Lockerbie. E quando il 7 ottobre è Berlusconi il primo leader straniero a venire in visita dopo la fine dell’ostracismo, un terzo gesto Gheddafi lo fa verso l’Italia: cancellando quella “giornata della vendetta” che commemorava la sconfitta delle nostre truppe coloniali avvenuta a Sciara Sciat il 24 ottobre 1911, e permettendo perfino di tornare in visita ad alcuni dei 20mila nostri connazionali da lui espulsi il 21 luglio 1970, assieme a 40mila ebrei. Pure l’Italia è il megafono attraverso il quale spiega al mondo la sua evoluzione, quando il 6 dicembre riceve a Tripoli l’équipe Rai di Giovanni Minoli. Con sorpresa dopo aver attraversato una città dal traffico caotico la troupe passa la triplice cinta di mura che circonda la resi-

denza ufficiale, e scopre un piccolo angolo di deserto riprodotto sullo sfondo delle rovine del palazzo presidenziale distrutto dal bombardamento Usa del 15 aprile 1986.

Tra palme e cammelli un gruppo di tende, in cui trascorre la vita il rais. Solo lì sotto riesce infatti a dormire tranquillo, anche se forse non le fa più spostare ogni notte di qualche centinaio di chilometri, come al tempo dell’altra famosa intervista a Oriana Fallaci. Altro cambiamento: Gheddafi non si presenta più in divisa ma in una bizzarra camicetta chiara decorata da mappe dell’Africa in marrone. Perché nel frattempo l’indefesso propugnatore dell’unità araba ha pure deciso che il panarabismo è una chimera, è uscito dalla Lega Araba si è dedicato all’altra causa dell’unità africana, di cui ha assunto la presidenza pochi mesi fa. Il vecchio panislamista dice pure che se l’Unione Europea ammetterà la Turchia tra i suoi Stati membri «avrà fatto entrare il cavallo di Troia di Bin Laden». E si vanta di aver fatto vincere le elezioni a George W. Bush: «alla decisione della Libia di rinuncia-

In effetti, dal punto di vista formale lui non ha oggi alcuna carica, se non quelle onorifiche di “Leader Fraterno e Guida della Rivoluzione” e “Guida della Grande Rivoluzione del Primo Settembre della Jamahiriya. Socialista Popolare Araba Libica». Jamahiriya è appunto un neologismo creato dallo stesso Gheddafi modificando il normale jumhuriya,“repubblica”, in modo da fargli significare qualcosa tipo “Stato delle masse”. L’uno e l’altro titolo lui li traduce in questi termini: «Sono l’incaricato di mobilitare il popolo a esercitare

Dopo essere stato un convinto sostenitore del panarabismo, è uscito dalla Lega Araba per dedicarsi alla causa dell’unità africana. Oggi consiglia alla Ue di non ammettere la Turchia re al suo programma nucleare deve almeno il 50% di successo della sua campagna elettorale». Insomma, è il suo il vero “Islam moderato”: «né reazionario, né terrorista». Chiama alla sorveglianza contro i «regimi teocratici tipo i Taleban», e dichiara addirittura di sentirsi cittadino di quell’Italia cui per tanti anni ha continuato a rimproverare il passato imperialista e a rivendicare i danni di guerra, appellandosi proprio alle leggi sulla cittadinanza ai libici concesse dall’amministrazione coloniale. «Potrei candidarmi alle elezioni», annuncia ridendo. Anche ora dice però di parlare in nome del popolo. Anzi, dice che è il popolo il vero sovrano in Libia. «Se io fossi al potere sarei già finito da tanto tempo. Il potere l’ho consegnato al popolo libico nel 1977.

il potere senza rappresentanza». Anzi, dice che se entrasse veramente in politica in Italia, lo farebbe per «consegnare anche al popolo italiano il potere», attraverso il sistema di democrazia diretta per congressi del popolo e comitati di base previsto da suo “Libretto Verde”. Gheddafi è anche il primo antesignano di quella che sarà negli anni a venire l’agitazione integralista. Bandisce infatti l’alcool, chiude i casinò e i locali notturni, fa sparire i caratteri latini dalle insegne, fa vietare perfino l’insegnamento della lingue straniere nelle scuole. Fonte del diritto è proclamata la Sharia, anche se in seguito ci si renderà conto che il raís la interpreta a modo suo, escludendovi in particolare tutti quei “detti” attribuiti dalla tradizione al Profeta e che però non

Risk, un numero sul colonnello Insieme all’articolo di Maurizio Stefanini che pubblichiamo in queste pagine, nell’ultimo numero del bimestrale “Risk” hanno scritto: Gennaro Malgieri, Enrico Singer, Roberto Cajati, Andrea Nativi, Andrea Margelletti, Antonio Picasso, Davide Urso, John R. Bolton, Michele Marchi, Giovanni Gasparini, Emanuele Ottolenghi, Riccardo Gefter Wondrich, Mario Arpino, Virgilio Ilari. stanno nel corpus del Corano. All’unità islamica Gheddafi esorta comunque nei suoi primi appelli radio. Dopo che nel corso del primo anno di potere aveva proceduto alla chiusura delle basi militari straniere, alla nazionalizzazione delle imprese e alla cacciata di italiani e ebrei il 27 dicembre 1970, Gheddafi sottoscrive col presidente egiziano Nasser e col sudanese Nimeiry, una Carta di Tripoli per la creazione di una federazione tra i tre Stati. In seguito tenta nel 1971 la Federazione delle Repubbliche Arabe con Egitto e Siria; nel 1972 un progetto di integrazione bilaterale con l’Egitto; nel 1974 una Repubblica Araba Islamica con la Tunisia; nel 1981 un’unione con il Ciad; nel 1984 una federazione col Marocco: tutti progetti finiti l’uno peggio dell’altro. Con l’Egitto ci sarà addirittura una mini-guerra in cui aerei egiziani bombarderanno una base libica.

Un’altra mini-guerra di confine ci sarà tra Libia e Tunisia. Un vero e proprio Vietnam libico sarà la guerra in cui si impantanerà in Ciad tra 1980 e 1987 un corpo di spedizione mandato in appoggio ai seguaci di Goukouni Oueddei in rivolta contro il re-


il personaggio

Oggi l’incontro con Napolitano e Berlusconi

Lo scandalo del camping di Luisa Arezzo segue dalla prima E far desiderare a Bernard Kouchner che i cinque giorni sul territorio francese terminassero il più in fretta possibile. A risvegliare la coscienza nazionale, in quell’occasione, non fu un membro dell’opposizione, ma un sottosegretario con delega ai diritti umani del gabinetto Sarkozy: Rama Yade. Che infrangendo la solidarietà governativa parlò fuori dai denti. Ricordando che Gheddafi «continua a giustificare il terrorismo» e che «la Francia non è uno zerbino sul quale un dirigente, terrorista o meno, possa venire a pulirsi i piedi del sangue dei suoi misfatti». L’incidente provocò non pochi guai all’elegantissima politica francesce, da allora caduta in una sorta di cono d’ombra. E dunque speriamo (anche se temiamo che non sia così) che sia per questo tatticissimo motivo che nessuna voce del governo italiano si sia dissociata dal trattamento che il governo Berlusconi sta riservando al leader libico. Mu‘ammar Abu- Minyar alQadhdha-fi, per tutti semplicemenete“il Colonnello”, oggi incontra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il premier Berlusconi e il

ministro degli Esteri Frattini. Ma la sua agenda è fitta fitta di appuntamenti: domani parlerà al Senato - un privilegio concesso fino ad oggi soltanto a due persone: il re di Spagna Juan Carlos (rappresentante di un Paese dalla democrazia consolidata) e Kofi Annan, all’epoca ancora segretario generale dell’Onu. Poi terrà una lectio magistralis alla Sapienza (dove l’Onda è sul piede di guerra) e infine venerdì - dopo aver ricevuto anche una laurea honoris causa dall’ateneo di Sassari accolto dalla ministra Mara Carfagna, incontrerà 700 donne italiane all’Auditorium. Incontro contro cui si schiera un drappello di donne capitanate dall’astrofisica Margherita Hack che senza tanti giri di parole chiariscono di non voler ascoltare un uomo che «avalla continui rastrellamenti, deportazioni di migranti, campi di concentramento in cui uomini e donne subiscono violenze e soprusi continui». Ma gli affari sono affari, si sa. E la stipula dell’accordo italo-libico è un affare che garantisce a Gheddafi la costruzione di opere infrastrutturali per 250 milioni di dollari annui, fondi che saranno gestiti direttamente dal governo italiano.

gime filo-francese di Hissène Habré. A un altro disastro andrà incontro nel marzo 1979 il corpo di spedizione inviato in Uganda a sostenere il regime di Idi Amin Dada contro l’invasione dell’esercito tanzaniano aiutato da milizie di esuli. E andrà male anche il confronto diretto con gli Stati Uniti nel Golfo della Sirte, culminato col già citato bombardamento aereo di Tripoli e Bengasi del 14 aprile 1986 e nell’abbattimento di due Mig libici nel gennaio 1989. Ma il rapporto degli americani con Gheddafi, in fondo, è speculare a quello di Gheddafi con gli italiani: un’ossessione che diventa quasi odio-amore. Gli italiani, in particolare, dopo averli cacciati come coloni il raís li richiamherà subito come tecnici e imprenditori, mantenendo il nostro Paese come suo primo partner commerciale. Già nel 1972 l’Eni dà vita a una società mista col governo libico, la nostra tecnologia fornisce alla Libia non solo impianti petrolchimici, ingegneria del territorio e macchinari ma perfino armamenti, nel 1976 Gheddafi acquista il 10% delle azioni Fiat, dando alla società torinese una straordinaria iniezione di fiducia e capitali in un momento difficile, e già nel 1978 si è ricostituita una comunità di 16mila italiani che è tornata a essere la seconda del Continente dopo quella sudafricana. Il 1978 è anche l’anno in cui va a Tripoli il presidente del Consiglio Andreotti, proprio con il fine dichiarato di convincere Gheddafi sulla bontà degli Accordi di Camp David. Anche gli americani all’inizio hanno continuato a puntare sulla Libia, perfino dopo la sommossa contro Rogers. Per la mentalità dell’amministrazione Nixon, in fondo, un regime musulmano è comunque anticomunista, Gheddafi non manca infatti di fare dichiarazione antisovietiche, specie in occasione di quella guerra indo-pakistana del 1971 in cui Mosca ha preso le parti di New Delhi contro il Paese islamico, e all’indomani del trattato tra Mosca e Bagdad del 1972. Inoltre Gheddafi appoggia l’espulsione dei consiglieri sovietici decisa dal presidente egiziano Sadat in quello stesso 1972, e ancora nel novembre di quell’anno un editoriale dell’Observer definisce Gheddafi «il più grande flagello del comunismo internazionale dopo Foster Dulles». Poi i rapporti peggiorano, anche per il riavvicinamento tra Tripoli e Mosca, che specie dopo la visita di Gheddafi del 1976 e i suoi abbracci con Breznev inizia a fornirgli materiale bellico. Sotto Carter le tensioni iniziano a venire alla luce. E quando Reagan va al potere, il colonnello è un comodo obiettivo per un’Amministrazione che vuole mostrare i muscoli dopo le umiliazioni degli ultimo decennio, ma scegliendosi avversari non troppo ostici. E Gheddafi è un “cattivo” stravagante e antipatico quasi in modo cinematografico, ma tutto

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sommato isolato e alla testa di uno staterello di non oltre i 2 milioni di abitanti. Ovviamente, nel suo tentativo di essere amica a entrambi i contendenti, l’Italia si trova in mezzo. Da una parte, nel suo territorio i servizi segreti libici attaccano e uccidono in quantità gli esuli: una risposta del regime alla sfida interna che dopo i moti studenteschi del 1976, le purghe di intellettuali del 1977 e la fallita rivolta militare di Tobruk del 1980 ha portato nel triennio 1980-83 a vari tentativi di golpe. Anzi, ci sono 23 pescatori di Mazara del Vallo che sono arrestati e detenuti a Tripoli con l’accusa di essere sconfinati nelle acque territoriali libiche, in cambio della cui liberazione Gheddafi chiede ai nostri servizi gli indirizzi di questi dissidenti, per poterli più facilmente raggiungere. Dall’altra, nel giugno 1980 c’è il misterioso episodio di Ustica, in cui un aereo di linea italiano cade in uno scenario che molte ricostruzioni hanno ricostruito come un tentativo di attacco di caccia francesi e americani a un aereo con a bordo Gheddafi, per il quale il velivolo della Itavia sarebbe stato scambiato. Nell’agosto 1981 due aerei libici sono poi abbattuti dagli Usa nel Golfo della Sirte; tra 1981 e 1982 la Libia è colpita da un’offensiva sui mercati petroliferi; e nel marzo del 1982 è soggetta a embargo. Che Gheddafi abbia risposto a colpi di attacchi terroristici è stato ormai lui a confessarlo, anche se forse non è farina del suo sacco tutto quello che gli è stato attribuito.

Nel marzo 1986, comunque, gli americani rispondono con un’esercitazione aereo-navale nel Golfo della Sirte, in acque che loro considerano internazionali e Gheddafi invece libiche. E il 15 aprile, dopo i tre morti in un attentato a una discoteca di Berlino Ovest frequentata da soldati

1989 c’è un attentato a un aereo francese in volo sul Niger per cui nel 1999 un tribunale francese condannerà sei libici. Inoltre ci sono le uccisioni di oppositori in varie capitali europee: nel 1984 a Londra è una poliziotta britannica a essere colpita a morte da un colpo di arma da fuoco partito dall’ambasciata libica contro un raduno di oppositori. Nel dossier vi è poi il traffico di armi Usa che la Libia svolge in particolare negli anni ’70. E le azioni di gruppi terroristi sponsorizzati dalla Libia: Ira, Eta, Abu Nidal, Armata Rossa Giapponese, Fronte Rivoluzionario Unito della Sierra Leone, ribelli islamici filippini. Anche se dopo il suo “ravvedimento”Gheddafi userà la sua influenza con questi ultimi per mediare la liberazione di ostaggi. Qualcuno ritiene il pentimento di Gheddafi conseguenza dell’embargo Usa, qualcun altro apprezza la sua capacità di comprendere i nuovi scenari aperti dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica e dalla Guerra del Kuwait, ma altri pensano piuttosto alla sua crescente contrapposizione all’integralismo islamico, di cui pure è stato antesignano, e che finisce per creare un’inopinata convergenza di interessi tra lui e gli americani. Già dal 1981, va ricordato, una commissione teologica riunita alla Mecca aveva definito “anti-islamica e apostata”l’interpretazione del Corano contenuta nel suo Libretto Verde. «Tagliate loro la testa e gettatela nella strada come quella di un lupo, di una volpe, di uno scorpione», dice lui degli integralisti, «più pericolosi dell’aids, del cancro e della tubercolosi» per il tentato golpe del 1993 e i moti del 1996. Il processo non è lineare, visto che nel 1992 il governo libico finisce sotto un nuovo embargo, questa volta Onu, per aver rifiutato di consegnare i due sospetti della strage di Lockerbie, mentre nel 1993 è an-

Messa tra parentesi la sommossa contro il consolato italiano per la maglietta del ministro Calderoli, l’accordo di riconciliazione è stato siglato. Ma i clandestini continuano a partire statunitensi e attribuita ai servizi di Gheddafi, c’è l’attacco aereo alla Libia in cui anche la residenza di Gheddafi è distrutta, sua moglie ferita e una sua figlia adottiva uccisa. Clamoroso ma innocuo è il susseguente lancio di due missili libici Scud-B sull’isola italiana di Lampedusa. Ma in quello stesso 1986 i libici sono accusati di aver “acquistato” un ostaggio americano in Libano che poi morirà nelle loro mani, e di un attentato all’ambasciata Usa in Togo. Nel 1988 due agenti libici compiono il famoso e già citato attentato di Lockerbie, con 270 morti, tra cui 200 americani. Sempre nel 1988 agenti libici compiono attentati a librerie Usa in Colombia, Perù e Costa Rica. Nel 1989 sono presi a Chicago agenti libici che si preparano a colpire aerei con missili. Nel

nunciato l’allestimento dell’impianto per la produzione di armi chimiche di Tardunah. Ma nel 1999, come si è ricordato, i due imputati di Lockerbie sono infine estradati, dopo l’11 settembre 2001 Gheddafi sostiene il diritto degli americani a attaccare il regime dei Taleban, e infine arriva la già citata riammissione nella comunità internazionale del 2004. Certo, però, che la Libia continua a non fare la minima apertura all’interno. Quanto all’Italia, messa tra parentesi anche la sommossa contro il nostro consolato per la maglietta del ministro Calderoli con una vignetta anti-islamica danese, l’accordo di riconciliazione è stato infine portato a termine, e la Venere di Cirene restituita. Però dalle coste libiche i clandestini continuano a partire.


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Al Lingotto si aspetta in settimana la decisione del giudice Ginsburg che ha bloccato il deal con Chrysler

Marchionne assicura: «Restiamo in America» di Francesco Pacifico

ROMA. Sergio Marchionne manda a dire che, dall’America, «non ce ne andremo mai». Eppure al Lingotto stanno sul chi vive, aspettando con trepidazione la decisione della Corte suprema che ha congelato la cessione di Chrysler a Fiat. Che – seppure a livello cautelativo – ha finito per mettere in forse il modello di concordato con i debitori imposto dalla Casa Bianca per rilanciare il settore automobilistico americano. Il giudice Ruth Bader Ginsburg, che ieri ha sospeso la

per una sentenza rapida, i legali della controparte frenano sulla direzione contraria: «Il rischio di un ritiro di Fiat», si legge in una loro nota, «non fornisce più il presupposto per sveltire i tempi della procedura».

In verità, dietro l’ottimismo di Marchionne ci sarebbe un ragionamento molto (forse troppo) semplice: se la Ginsburg avesse voluto prendere le parti dei fondi dell’Indiana, avrebbe deciso immediatamente a loro favore. Senza contare

I ritardi americani si riflettono sulla produzione in Italia. Si spera in Scajola. Che però è più debole dopo lo scontro con Tremonti sul ddl Sviluppo vendita, potrebbe decidere già oggi come tra un mese sul ricorso presentato dai fondi pensioni dell’Indiana, per tutelare i creditori obbligazionali verso la casa di Detroit che perderanno circa 5 miliardi di dollari. Perché se da Torino si preme

l’appoggio della Casa Bianca, delle Unions (che hanno “votato” Obama) e dei maggiori istituti bancari del Paese, che non vogliono vedere rallentare il processo di turn around che si è accollato lo Stato. Così a Torino ipotizzano che la

decisione del giudice Ginsburg possa arrivare a fine settimana. Anche perché ulteriori ritardi a un deal che deve partire entro lunedì prossimo finirebbero per riaprire vecchie crepe, che Marchionne sperava di aver chiuso. A rischio, innanzittutto,

l’affidabilità finanziaria del Lingotto, basilare per portare a termine gli ambiziosi piani di espansione all’estero. Il riconoscimento all’istanza dei fondi dell’Indiana alimenterebbe le posizioni di dissenso verso l’operazione, che aumen-

Il conflitto con la Corte suprema sul caso Fiat ricorda le sfide degli anni Trenta in pieno New Deal

La storia è dalla parte di Obama di Carlo Lottieri segue dalla prima

preludio a quanto potrebbe succedere quando si entrerà nel vivo del più ampio e complicato affare che riguarda la General Motors (a partire dalla stessa Opel).

Dinanzi alle operazioni “welfariste” del New Deal degli anni Trenta, infatti, la Corte Suprema esercitò una seria resistenza, dato che quell’espansione del potere pubblico federale non era compatibile con la lettera né con lo spirito della Costituzione. Il braccio di ferro durò qualche anno e poi il diritto positivo venne a manifestare quella che (ahimé) è la sua vera natura, adeguandosi ai nuovi tempi e alle ragioni della forza.

Non sorprende, allora, che anche stavolta il massiccio interventismo statale allestito dall’amministrazione per far fronte alla crisi stia suscitando qualche resistenze nei custodi del Testo di Filadelfia, ma bisogna pure aggiungere che l’esito del conflitto tra Franklyn Delano Roosevelt e i giudici supremi può ammaestrare su quanto potrebbe succedere anche stavolta: autorizza ragionevoli congetture e ipotesi tendenzialmente favorevoli ai desiderata del presidente Barack Obama. C’è però un serio problema di tempi. Già la sospensione fissata ora mette in difficoltà l’intera operazione della Fiat, che probabilmente non si avvarrà della facoltà di ritirarsi dall’acquisto se la fusione sarà ancora indefinita il prossimo 15 giugno, ma che di sicuro vede aprirsi un altro (e forse imprevisto) fronte all’indomani della delusione tedesca. Per giunta, è l’in-

In linea generale bisogna ricordare che le logiche della pianificazione economia sono insofferenti al diritto e, in particolare, a quelle regole del diritto civile che sono poste a tutela di proprietari, azionisti, creditori e via dicendo. Il dirigismo economico implica una realtà totalmente plasmabile e manipolabile, ed è per questo che le operazioni “all’europea” lanciate dai democratici giunti alla Casa Bianca trovano oggi qualche ostacolo sulla loro strada. C’è un’America liberale e arroccata nella tutela di taluni principi che malsopporta una Presidenza che oggi gestisce banche e industrie automobilistiche senza troppo guardare ai diritti di questo o quello. Non è detto che questa resistenza riesca a bloccare la nuova politica economica, però è senza dubbio chiaro che con questa realtà ora Obama dovrà fare seriamente i conti.

C’è un’America arroccata nella tutela di taluni principi che malsopporta una Presidenza che oggi gestisce banche e industrie senza farsi scrupoli tero progetto dirigista della nuova amministrazione di Washington che a questo punto potrebbe essere ripensato, perché nella prospettiva di Obama e dei suoi il rischio maggiore è che questo “stop”in merito alla cessione di Chrysler sia solo il

tano sia tra i Repubblicani sia tra i Democratici. Il presidente Obama ha investito per Chrysler e Gm circa 60 miliardi senza evitare le rispettive liquidazioni. Ha privilegiato ed equiparato i creditori finanziari rispetto a obbligazionisti e lavoratori. Ha esteso i fondi anticrisi, previsti in un primo tempo soltanto per le banche, alle case automobilistiche. Va da sé che, con una sentenza a sfavore per Fiat, l’amministrazione ne uscirebbe in termini di consenso alquanto malconcia. Come ha riportato il New York Times, fonti della Casa Bianca si sono mostrate ottimiste su questa faccenda. Eppure, ricorda sempre il quotidiano della Grande Mela, non soltanto Obama dovrebbe fare i conti con circa 50mila disoccupati in più (i dipendenti della “piccola” di Detroit), ma potrebbe vedere a rischio il più delicato fallimento pilotato di Gm. Per questo è stato gradito il chiarimento di Fiat, che ha annunciato di restare in America anche se lunedì prossimo non sarà ufficializzata l’intesa con Chrysler. Parole che sono state apprezzate alla Casa Bianca e che sono servite a evitare un tonfo di proporzioni bibliche a Piazza Affari: il titolo ha subito un calo tutto sommato contenuto: -1,73 per cento.

In questo clima diventa più complessa da gestire la situazione italiana. E non soltanto sul versante del mantenimento degli impianti. Preoccupa la mancata inversione di tendenza per il mercato italiano dell’auto dopo gli incentivi, che frena le invece positive immatricolazioni Fiat. Al riguardo Daniele Chiari, responsabile prodotto, ha fatto sapere che «a marzo 2009 abbiamo registrato circa 3 volte gli ordini di metano che avevamo registrato a marzo 2008». E preoccupano gli alti costi del lavoro nella produzione nazionale. Al riguardo i governatori delle regioni che ospitano Fiat si riuniranno, convocati dalla piemontese Mercedes Bresso, per studiare una strategia. Va da sé che oltre, a rimodulare i loro aiuti finanziari, l’obiettivo è fare pressioni su Claudio Scajola. Il ministro sta lavorando per convocare al più presto il Lingotto e i sindacati, ma difficilmente potrà mettere sul tavolo risorse fresche per salvare gli stabilimenti. I soldi, si sa dovrebbe darglieli Giulio Tremonti, il quale proprio ieri ha bocciato 34 norme del disegno di legge sviluppo scritto dal collega, dicendo che manca la copertura.


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10 giugno 2009 • pagina 11

Nuovo presidente il piemontese Ferruccio Dardanello

Si va verso il voto di fiducia per il decreto sulla ricostruzione

Unioncamere, ira delle imprese per la bocciatura di Mondello

Contrasti fra Tremonti e Bertolaso sul terremoto

ROMA. Ribaltone con non pochi strascichi ai vertici di Unioncamere. Ferruccio Dardanello ha infatti strappato la poltrona al presidente uscente Andrea Mondello. E la cosa ha creato l’ennesima frattura tra i grandi elettori dei due: il mondo di Confcommercio e quello di Confindustria.

ROMA. Sono iniziate ieri le operazioni di scavo nei cantieri che ospiteranno gli edifici del piano C.A.S.E, i complessi antisismici sostenibili e ecocompatibili che dovranno accogliere circa 13 mila sfollati del terremoto dello scorso 6 aprile. Ma ciò che fa discutere in queste ore in Abruzzo è la predisposizione di un’ulteriore ordinanza (anch’essa firmata dal presidente del Consiglio lo scorso 6 giugno) che revoca i benefici fiscali inizialmente riconosciuti dal ministero dell’Economia a tutti i comuni della regione, anche quelli fuori del cosiddetto cratere: già nel mirino con l’accusa di non aver perorato a sufficienza le ragioni del comune escluso dalla lista dei 49 colpiti dal sisma,

A quanto pare, decisiva per la vittoria di Dardanello l’alleanza tra i rappresentanti delle camere di commercio vicini a Carlo Sangalli, degli artigiani e dell’agricoltura. Con il fronte delle partite Iva che ha rivendicato per sé questa nomina dopo la gestione di un rappresentante del mondo dell’industria. Il mondo dell’impresa non l’ha presa bene se Marco Venturi, presidente dell’ente di Caltanissetta, ha dichiarato: «Confindustria, insieme alle altre Associazioni che condividono le esigenze di rinnovamento del Sistema camerale, hanno votato compatte Andrea Mondello per il rinnovo della Presidenza di Unioncamere, in quanto persona la cui grande integrità morale è stata evidenziata in questi anni di lavoro». Per poi concludere: «Purtroppo sono prevalse logiche clientelari che non favoriranno il rilancio di Unioncamere in un’ottica di efficienza e di reale sostegno del mondo produttivo».

Il neoeletto, che è presidente della camera di commercio di Cuneo e dell’Unioncamere Piemonte, non ha voluto aggiungere benzina sul fuoco. «Ringrazio tutti i colleghi», la sua prima dichiarazione, «che hanno avuto fiducia in me. Tutti insieme continueremo a impegnarci per lo sviluppo delle nostre imprese ed il rafforzamento del Sistema Paese». E non è mancato «un ringraziamento particolare al mio predecessore, Andrea Mondello, al quale va la mia stima ed amicizia». Lo stesso Mondello di rimando ha promesso di «continuare a lavorare con spirito di collaborazione e grande coesione all’interno delle nostre Camere».

Solidarietà e diritti Le emergenze della Cei «La società non chiuda gli occhi di fronte ai bisogni» di Guglielmo Malagodi

ROMA. Uguaglianza sul lavoro, uguaglianza di fronte ai diritti basilari dell’uomo: sono le due direttrici del documento finale della 59ma Assemblea della Conferenza episcopale italiana. La crisi economica e le ricette per contrastarla sono state al centro del dibattito e su questo tema le tesi dei vescovi hanno avuto molta risonanza: «il termine “esubero”non tiene nel debito conto un tessuto sociale che va sfilacciandosi, a motivo delle disuguaglianze che aumentano invece di diminuire». Per questo, «i vescovi italiani si associano al richiamo fatto dal cardinale presidente, Angelo Bagnasco, a non sottovalutare la crisi occupazionale in corso come si trattasse di alleggerire la nave di futile zavorra». «Nessuno ignora - si legge poi nel comunicato - il pesante impatto della sfavorevole congiuntura economica internazionale, di cui non si riesce a cogliere ancora esattamente la portata, né si intende minimizzare l’impegno profuso da chi detiene l’autorità». Per la Cei, però, «resta evidente che i costi del difficile momento presente ricadono in misura prevalente sulle fasce più deboli della popolazione». I vescovi, inoltre, hanno «preso positivamente atto delle molteplici iniziative promosse nei mesi passati in tutta Italia dalle diocesi e dalle Conferenze episcopali regionali per fronteggiare le difficoltà del mondo del lavoro». Il Fondo di garanzia della Cei per le famiglie in difficoltà costituisce «un ulteriore e corale seme di speranza». La colletta del 31 maggio scorso, per i vescovi, «è stata indice di una spiccata sensibilità che non deve spegnersi».

cato: la prima consiste «nell’impedire che i figli di Paesi poveri siano costretti ad abbandonare la loro terra, a costo di pericoli gravissimi, pur di trovare una speranza di vita, attraverso la ripresa e l’incremento di politiche di aiuto verso i Paesi maggiormente svantaggiati». La seconda risposta, per la Cei, sta nell’interculturalità, cioè nel «favorire l’effettiva integrazione di quanti giungono dall’estero, evitando il formarsi di gruppi chiusi e preparando“patti di cittadinanza” che trasformino questa drammatica emergenza in un’opportunità per tutti». Tutto questo - sottolinea la Cei - «è possibile se si tiene conto della tradizionale disponibilità degli italiani - memori del loro passato di emigranti ad accogliere l’altro e a integrarlo nel tessuto sociale». In quest’ottica va la raccomandazione ufficiale della Cei per istituire un Osservatorio nazionale specializzato per monitorare ed interpretare il fenomeno. E parallelamente arriva anche la richiesta alle parrocchie di diventare «luogo di integrazione sociale».

I vescovi italiani, infine, si sono ritrovati nelle affermazioni iniziali del presidente, il cardinal Angelo Bagnasco, che disegnavano una Chiesa interessata ad «ampliare i punti di incontro» ma non incline ad usare «l’ideale della fede in vista di un potere». «Chiamati in causa non solo da inediti problemi economici e sociali, ma anche in ricorrenti questioni bioetiche», i vescovi italiani riconfermano «una netta presa di distanza» da quelle visioni che vorrebbero ridurre la Chiesa ad «agenzia umanitaria, chiamata a farsi carico delle patologie della società a irrilevante rispetto alla fisiologia della convivenza sociale». E rigettano anche un modello di Chiesa privo di «connessioni antropologiche» e «incapace di offrire il proprio apporto specifico all’edificazione della città dell’uomo». In questa ottica, anche in materia di «emergenza educativa» tema centrale dell’assemblea di quest’anno, la Cei ha voluto proporre «un atteggiamento positivo e non allarmistico in continuità con il passato sebbene in un contesto culturale e sociale mutato».

Il comunicato dell’Assemblea sottolinea che il tessuto sociale si «sfilaccia a causa delle disuguaglianze che aumentano»

C’è, poi, un secondo terreno di analisi e di intervento – come abbiamo detto – nel comunicato finale dell’Assemblea. Ed è quello che riguarda i diritti umani dei migranti. In materia di immigrazione, per la Cei, «una risposta dettata dalle sole esigenze di ordine pubblico - che è comunque necessario garantire in un corretto rapporto tra diritti e doveri - risulta insufficiente, se non ci si interroga sulle cause profonde di un simile fenomeno». Due le «azioni convergenti e irrinunciabili» indicate nel comuni-

il sindaco di Sulmona Fabio Federico e 7 consiglieri hanno annunciato l’uscita dal Pdl. A tenere banco in queste ore è l’atteggiamento del governo in cui si confrontano nettamente due posizioni: la prima, perorata dal ministro dell’Economia che chiede la blindatura del provvedimento che deve essere convertito entro il 28 giugno, l’altra perorata dal commissario Bertolaso e da palazzo Chigi, più aperta rispetto a eventuali modifiche. Al Senato questa seconda linea - che aveva voluto mettere nero su bianco la garanzia totale della ricostruzione da parte dello Stato - era prevalsa, nonostante le resistenze di via XX settembre..

Ora si chiede a Giulio Tremonti di allargare ancora i cordoni della borsa con la conferma della sospensione dei benefici fiscali per tutta la regione. O l’estensione degli interventi agli edifici pubblici nei comuni fuori del cratere, previsione quest’ultima, cancellata all’ultimo momento al Senato dove era stata bocciata (nonostante l’emendamento fosse stato presentato dal governo) per mancanza di copertura finanziaria. Come finirà? L’ipotesi della fiducia circola da giorni, anche se i tempi tecnici per l’approvazione del decreto non sono proibitivi.


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Un saggio dello storico della Chiesa sulla controversa figura di Pio XII, riletta da l pontificato di Pio XII abbraccia un periodo storico drammatico. La chiesa cattolica è sconvolta dalla II Guerra mondiale, provata dalla Guerra fredda e dai regimi comunisti. In quegli anni tragici, i responsabili vaticani si chiedevano che spazio restasse al cristianesimo, almeno in alcune parti del mondo. Durante la guerra, si aveva in Vaticano la netta sensazione che l’«ordine nuovo» nazista, se vittorioso, si sarebbe risolto in un duro attacco alla chiesa, per lasciare sopravvivere un cristianesimo mutilato. Dopo la guerra, le comunità cattoliche nei paesi comunisti erano languenti sotto la persecuzione. I problemi non mancavano nemmeno in Europa occidentale. Le società, investite dalla crescita economica, mostravano sintomi di crisi a livello di comportamenti collettivi e di adesione ai modelli proposti dalla chiesa. Le difficoltà del cattolicesimo latino-americano spingevano la Santa Sede a profonde ristrutturazioni delle varie chiese. Intanto la chiesa nelle terre coloniali richiedeva rapidi aggiornamenti perché stava per finire il colonialismo, nel quadro del quale si era sviluppata l’opera missionaria tra Ottocento e Novecento. Infine, la divisione dell’Europa in due, con la guerra fredda, mutila un continente decisivo nella missione della chiesa nel mondo. Affrontare gli anni in cui fu papa Eugenio Pacelli è studiare la transizione più profonda del Novecento. Chi vuole ricordare quel periodo, la vicenda di Pio XII e della sua chiesa, trova a disposizione un’abbondante saggistica e storiografia. Papa Pacelli è un pontefice che ha fatto molto discutere. La discussione è concentrata in particolare attorno alla questione dei cosiddetti silenzi sullo sterminio degli ebrei e sulle atrocità naziste. Ne è emersa, anche al di là della storiografia, un’immagine di Pio

I

Chi ha incastr XII come diplomatico, chiuso al dolore della storia, prigioniero di procedure ecclesiastiche, ossessionato dalla lotta al comunismo. I suoi anni sono essenziali per capire il cattolicesimo novecentesco, senza lasciarsi imprigionare da una logica giustizialista o, al contrario, difensiva. La storia deve fare il suo lavoro. Con il passare del tempo, anche se i drammi non sbiadiscono, si acquista maggiore capacità di comprendere, mentre si può accedere a più ampia documentazione. IL PAPA DELLA GUERRA La prima grande transizione da affrontare è lo scenario turbinoso dell’incipiente guerra mondiale. Pio XII ha un profilo internazionale, una nota capacità diplomatica e di governo. Ma la situazione è difficilissima per la chiesa, che non vuole rassegnarsi alla guerra. Nei primi mesi di pontificato, il papa si concentra sullo scenario internazionale servendosi del fragile strumento della diplomazia vaticana. Viene eletto il 2 marzo 1939 e il 15 marzo le truppe tedesche invadono la Cecoslovacchia.Tenta di evitare il conflitto. Con gli accordi Molotov-Ribbentrop appare chiaro che non

parte o dall’altra. Grandi dolori e atrocità sembravano reclamare una partecipazione più marcata del papa. Pio XII lanciò un vibrante appello - al cui testo collaborò Montini - nell’agosto 1939: «Nulla è perduto con la pace. Tutto può esserlo con la guerra». Questa è la visione del papa: evitare che il conflitto si allarghi, favorire una pace negoziata, umanizzare la guerra e rappresentare, come chiesa, uno spazio di asilo e di umanità tra la barbarie della lotta. Il papa non cede alle pressioni naziste per benedire la lotta dell’Asse come una crociata antibolscevica. Non intende, d’altra parte, assumere una posizione vicina agli Alleati. Con gli anni, affluiscono in Vaticano informazioni sulle atrocità naziste, a cominciare dalla Polonia. Ma Pio XII si attiene alla «dottrina» dell’imparzialità, già elaborata da Benedetto XV. È nota la polemica sui «silenzi» di Pio XII, in particolare sullo sterminio degli ebrei. Negli anni Sessanta si registra un netto cambiamento del giudizio su Pio XII in senso negativo, anche se la propaganda sovietica, intellettuali francesi come Mauriac, alcuni settori polacchi da tempo accusavano papa Pacelli di complicità o remissività verso il

Sono essenziali gli anni in cui vive Pio XII per capire il cattolicesimo del ’900, senza lasciarsi imprigionare da una logica giustizialista o difensiva. La storia deve poter fare il suo lavoro si può scongiurarlo. Allora il papa sceglie un obiettivo più limitato: evitare l’ingresso dell’Italia in guerra. Compie una visita al re d’Italia al Quirinale alla fine del 1939, dieci anni dopo la firma dei patti del Laterano: è la prima volta che un papa ritorna nell’antica dimora pontificia. Mussolini non partecipa all’evento ed è segno tangibile che il tentativo di Pio XII non ha effetto. (…) Pio XII guidò la curia molto da vicino, essendo - come notò un diplomatico americano - segretario di Stato di se stesso, dando centralità alla segreteria di Stato. Scrupoloso, riservato, delicato, finanche timido, era pervaso dal senso di responsabilità del suo ministero. Chi lo conosceva notò una profonda trasformazione nell’uomo con l’elezione al pontificato. Le più diverse pressioni si esercitavano sulla Santa Sede, perché si schierasse nel conflitto da una

nazismo. Il fatto sorprendente è anche che Pio XII ebbe consapevolezza del suo silenzio: «Mi chiese», scrive nel 1941 l’allora monsignor Roncalli nei suoi diari dopo un colloquio con il papa, «se il suo silenzio circa il contegno del nazismo non è giudicato male». Infatti Pio XII, nei suoi interventi, richiamò principi generali, applicandoli alla situazione, ma non operò condanne. (…) In un’Europa dominata dai tedeschi, Pio XII era consapevole della fragilità del cattolicesimo a fronte della propaganda e della repressione: «Nelle file stesse dei fedeli, erano fin troppo accecati dai loro pregiudizi o sedotti dalla speranza di vantaggi politici» afferma nel 1945. Il papa voleva evitare ulteriori persecuzioni e percepiva le debolezze dei cattolici tedeschi. Questa situazione da una parte, le pressioni sul Vaticano (sino alla minaccia di de-

A sinistra un’immagine di Eugenio Pacelli, papa con il nome di Pio XII. Sopra, il pontefice nel corso di un’udienza privata. In basso, la copertina del libro a lui dedicato da Vian portazione del papa) dall’altra, ponevano seri dubbi sul fatto che Pio XII avrebbe potuto continuare liberamente il suo ministero. Il papa, mantenendo il riserbo, voleva che la chiesa restasse come spazio di umanità nel cuore della guerra. Qui si inserisce l’attività in soccorso alle popolazioni colpite dalla guerra, di asilo ai prigionieri e ai ricercati (in particolare a Roma con l’opera di nascondimento di ebrei e ricercati dai nazifascisti). (…) Il Vaticano era isolato durante il conflitto. I rapporti erano assenti con l’Urss, difficili con la Germania e l’Italia, protocollari con i britannici. Pur in assenza di relazioni diplomatiche, Roosevelt era interessato alla Santa Sede. Durante tutto il pontificato, gli Stati Uniti sono infatti un interlocutore decisivo. L’azione della Santa Sede non ebbe successo da un punto di vista diplomatico, ma il papa, specie sul finire del conflitto, sentì sorgere molta attenzione attorno a lui. Per questo moltiplicò i contatti con i visitatori e soprattutto gli interventi pubblici. (…) La presenza cattolica mostra, dopo la guerra, una nuova vitalità anche sul piano politico, con


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a voci autorevoli nel nuovo libro curato dal direttore de L’Osservatore Romano, Giovanni Maria Vian

rato Papa Pacelli? di Andrea Riccardi

Belgrado rompe le relazioni diplomatiche a causa della creazione cardinalizia di Stepinac, arcivescovo di Zagabria. I contatti della Santa Sede con gli episcopati dell’Est sono scarsi e difficili. In Vaticano si era convinti che i sovietici avessero un disegno distruttivo del cattolicesimo, mirante prima di tutto a «nazionalizzare» le chiese. (…) C’è infatti una volontà di perseguitare il cattolicesimo e di controllarne la vita infiltrandone le strutture. L’OCCIDENTE E IL SUD DEL MONDO Pio XII non manca di ammonire l’occidente sul pericolo comunista, registrando con preoccupazione l’affermazione dei

la fedeltà, ma quelli alla mobilitazione dei cattolici e a una pastorale più incisiva. Pio XII vuole, con i suoi costanti inviti alla mobilitazione, che la chiesa sia movimento nella società, con un’azione missionaria incisiva. Pio XII guida la chiesa attraverso il mondo comunista e quello occidentale, coeso attorno alla leadership americana. (…) Contemporaneamente intende rafforzare l’azione della chiesa nel Sud del mondo. (...) Il papa è consapevole della debolezza della chiesa nel mondo coloniale di fronte ai nazionalismi, al comunismo e all’Islam. Per questo intende «indigenizzare» le chiese locali e rafforzare l’impegno missionario. Il volto della sua chiesa non vuol essere legato al vecchio regime coloniale,

Il pontefice assume su di sé contraddizioni, ricerca di nuove piste, responsabilità di dare impulso e risposte, prefigurandosi anche come profeta. Sembra drammatico nell’assumere tanti compiti Da Ratzinger a Fisichella, da Israel a Bertone: tutti i saggi del libro

La parola alla difesa on si riesce a comprendere come un pontefice apprezzato persino da Golda Meir sia oggi nell’occhio del ciclone per la sua posizione sullo sterminio ebraico negli anni drammatici che hanno preceduto e seguito la Seconda guerra mondiale. È questo, in sintesi, il filo rosso che lega gli interventi di peso che il direttore de L’Osservatore Romano, Giovanni Maria Vian, riunisce in uno splendido libro edito da Marsilio: In difesa di Pio XII, Le ragioni della storia (Venezia, 2009, pp. 168, 13 euro). Il testo viene presentato oggi all’Istituto Luigi Sturzo di Roma dall’autore, Anna Foa, Giorgio Israel, Paolo Mieli e Roberto Pertici. Più che un’analisi unica si tratta di un sapiente collage di interventi - pubblicati sul giornale della Santa Sede negli scorsi mesi - arricchiti da una prefazione del direttore Vian. Le firme sono tutte di prestigio: enedetto XVI, il segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone, Andrea Riccardi, Paolo Mieli, Rino Fisichella, Gianfranco Ravasi e Saul Israel. Il testo analizza dai diversi punti di vista l’affaire che nell’ultimo decennio ha gonfiato la leggenda nera sul “papa di Hitler”, una tesi che - sottolinea Riccardi nel testo che proponiamo a lato per gentile concessione dell’editore Marsilio - si smonta man mano che vengono pubblicati i documenti degli archivi storici, del Vaticano e dei Paesi belligeranti. Una lettura obbligata per chi vuole e vorrà parlare con senso storico di Pacelli e del suo ruolo.

N

i partiti di ispirazione cristiana in Europa occidentale. Ma pesa sulla chiesa l’occupazione sovietica nel cuore dell’Europa, con i regimi comunisti in Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia, Iugoslavia, Albania, Romania e Bulgaria, oltre all’incorporazio-

ne dei paesi baltici nell’Urss. La persecuzione è pesante. La Santa Sede vorrebbe tenere aperte le rappresentanze diplomatiche nell’Est, ma non lo consentono i regimi comunisti. L’ultima è chiusa in Romania nel 1950. Due anni dopo, il governo di

partiti comunisti (ed esprimendo contrarietà alla collaborazione governativa con essi). Il papa, però, è attento a non confondere la causa della chiesa con quella politica dell’occidente. Da qui origina qualche sua perplessità sull’adesione dell’Italia all’alleanza Atlantica. In occidente la chiesa rappresenta una grande forza religiosa e sociale, che si esprime con organizzazioni e movimenti di massa. Una delle posizioni politiche più originali di Pio XII è il sostegno all’unificazione europea. È consapevole che l’Europa unita non sarà solo cattolica e comprenderà evangelici e laici, ma è convinto che le ragioni della pace e della lotta al comunismo militino per unire gli europei. Il papa indica nel cristianesimo l’humus connettivo del continente e incoraggia i dirigenti cattolici a impegnarsi nel progetto europeo. (…) Tuttavia, proprio nel mondo occidentale, la chiesa di papa Pacelli registra segnali di crisi, legata alle trasformazioni indotte dallo sviluppo. Un elemento di difficoltà è la persistente forza del comunismo, rivelatrice della lontananza del mondo operaio dalla chiesa. (…) Nel mondo occidentale si avverte una crisi incipiente, di fronte a cui Pio XII moltiplica non solo gli inviti al-

ma attento alle istanze dei «popoli nuovi». (…) C’è in Pio XII la consapevolezza che i cattolici dell’America Latina sono sottoposti a nuove sfide sociali e politiche, con il proporsi di un’alternativa rivoluzionaria. Per questo il papa insiste che il cattolicesimo del continente si attrezzi a tempi nuovi, sia a livello di azione pastorale che di impegno sociale. UN PAPA PROFETA La chiesa di Pio XII sente di dover essere presente nella società, perché per il papa la radice dei mali moderni è l’assenza di un radicamento del mondo in Dio stesso. (...) È convinta (...) di dover proporre una via di civiltà cristiana. La chiesa non è legata a civiltà del passato né a una sola civiltà, non è «inerte nel segreto dei suoi templi», ma cammina guidata dalla «legge vitale», dice il papa, «di continuo adattamento ». Pio XII discute di tutto e lo fa per mostrare che niente è estraneo alla chiesa. Lo evidenzia, per esempio, il vasto capitolo sulla vita, il corpo, la salute, le cure, la riduzione della sofferenza (dove ci furono posizioni innovative). Il papa assume su di sé contraddizioni, ricerca di nuove piste, responsabilità di dare impulso e risposte, prefigurandosi non solo come dottore ma anche come profeta. C’è qualcosa di drammatico nell’assunzione diretta

di tanti compiti. Il senso drammatico viene accresciuto dalla percezione della crisi con la persecuzione, la secolarizzazione, le «cose nuove». Desideroso di adattare e cambiare, ma preoccupato della portata dei cambiamenti, il papa traccia lui stesso la linea, moltiplicando iniziative e interventi. Vuole rispondere ai problemi aperti. La percezione di Pio XII sullo stato della chiesa fu drammatica soprattutto nei suoi ultimi anni, segnati dalla malattia. La guerra fu un periodo difficilissimo, ma il lungo dopoguerra fu di una complessità inedita. La sua eredità umana e dottrinale è stata quella di un papa che si è confrontato con la complessità del mondo contemporaneo alla luce della tradizione, animato dall’ansia di raggiungere la gente. Alla fine del suo pontificato, il bilancio era difficile. (…) Il cattolicesimo, dal dopoguerra, è chiamato a farsi movimento nella società per comunicare il suo messaggio. Negli ultimi anni i problemi - la situazione dell’Est o la crisi in occidente lo spingono a sottolineare con forza come solo l’aiuto di Dio possa liberare dalle difficoltà. Per un futuro migliore «è necessario rimuovere la pietra tombale con cui si sono voluti chiudere nel sepolcro la verità e il bene: occorre far risorgere Gesù» dichiara. Il papa conclude con l’invocazione: «L’umanità non ha la forza di rimuovere la pietra che essa stessa ha fabbricato, cercando di impedire il tuo ritorno. Manda il tuo angelo, o Signore, e fà che la nostra notte si illumini come il giorno». C’è nel papa il senso che la chiesa poco risponda agli appelli e alla missione. A Pasqua del 1957 egli parla di un «viandante smarrito», «sommerso nell’ombra, ombra quasi di morte»: come ridestare la vita? «Pare che ogni sforzo sia inutile», «la via non si ritrova, le parole si perdono nell’infuriare della procella». L’ottimismo moderno è infondato: «Non è vero che la scienza, la tecnica e l’organizzazione sono divenute spesso fonte di terrore per gli uomini?». Alcuni cristiani hanno tradito. In mezzo alla notte spira un senso cupo. A questo punto il discorso si fa invocazione. È il senso di fine e vanità che caratterizza sempre ogni grande stagione di governo, in cui però l’appello alla fede si fa più forte. Nelle parole del suo testamento si legge la fibra spirituale di un uomo, tenace e fragile, che ha vissuto un periodo tanto travagliato. Pio XII scrive: «La consapevolezza delle deficienze, delle manchevolezze, delle colpe commesse durante un così lungo pontificato e in un’epoca così grave ha reso più chiara alla mia mente la mia insufficienza e indegnità».


il paginone

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I nuovi documenti dell’Archivio segreto vaticano svelano le istruzioni di Pio XII contro la guerra e i nazisti

Il silenzio dell’innocente

Le omissioni di Pacelli servirono a evitare mali maggiori per la comunità ebraica di Vincenzo Faccioli Pintozzi el romano pontefice «cui sibi nomen imposuit» Pio XII abbiamo sentito parlare molto. La sua figura è stata tratteggiata come introversa, cupa, troppo tollerante, a volte persino in spirito di delirio. I romanzetti che fanno da cornice letteraria al periodo della seconda Guerra mondiale lo citano spesso, sempre a sproposito: passa alla storia quel testo che lo vuole quasi desideroso di essere rapito dai nazisti per immolarsi in un delirio di martirio. Ora, il volume curato da Giovanni Maria Vian In difesa di Pio XII. Le ragioni della storia cerca di rimettere mano a leggende agiografiche e documenti reali per ridare lustro a una delle figure più bistrattate del Novecento. Si passa dall’ottimo arazzo storico ricostruito da Andrea Riccardi - che spiega l’ambiente in cui Pacelli ebbe a operare - alle memorie toccanti di Saul Israel. Che scrive: «Tutto era qui [nel convento cattolico in cui era rifugiato ndr] come nella Yeshivà e, come nella sala della nonna, vi spirava la medesima armonia, ravvisavo le medesime parvenze. come era mai possibile ritrovare tanta somiglianza di atteggiamenti e di accenti, che evocavano identici affetti e identiche reazioni spirituali, a tanta distanza di tempo e in tanta apparentediversità di esperienze? Perfino quel crocefisso, di cui scorgevo le linee al di sopra del letto, si confondeva intimamente con tutte quelle immagini e veniva avvolto nella medesima atmosfera di famiglia dalla quale

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scaturiva l’ombra di nonna Esmeralda. Forse era per la presenza di quella Bibbia scritta con quei caratteri la cui forma era direttamente e naturalmente associata alla preghiera, alla mia preghiera che era così simile nel tono e nell’inflessione a quella dei frati. dalle mie labbra uscì spontanea l’invocazione che, fin dai tempi più remoti della nostra storia, i padri dei nostri padri, tutti quelli che

hanno creduto, che hanno avuto come scolpita nella carne e fusa nel sangue la fede del Dio Unico di misericordia e di verità, hanno sempre pronunciata con animo commosso, nel momento in cui il martirio spreme la preghiera dall’animo del popolo come il frantoio spreme l’olio dall’oliva. Questa invocazione la pronunciai nella lingua sacra, davanti al crocefisso, avendo presenti nella fantasia

Ravasi: «Ha sempre lavorato per la civiltà cristiana» Sopra, a sinistra: Golda Meir, primo ministro di Israele negli anni Cinquanta, e Ingrid Bergman che la interpreta in “Una donna di nome Golda”. In basso a sinistra e nella pagina a fianco, due immagini di Pio XII. Nella spalla, la storica Anna Foa

ei documenti papali è rarissimo l’uso del vocabolo stesso «cultura». (…) Ciò che domina è, invece, la categoria «civiltà», soprattutto con la specificazione «cristiana». Non è poi il caso di notare che l’insegnamento dedicato ai temi culturali esige una necessaria contestualizzazione: la bufera bellica, prima, l’imponente incidenza del comunismo sull’Europa e la secolarizzazione del dopoguerra, poi, spingono l’analisi e le proposte di Pio XII lungo percorsi netti, con una marcata operazione di definizione del suo progetto culturale secondo una rigorosa e, ai nostri occhi, talora anche rigida, unità intellettuale, destinata a riverberarsi nella disciplina ecclesiale e nelle opzioni politiche. La struttura capitale di base è, dunque, il concetto di «civiltà cristiana». Essa ha trasfigurato e alimentato l’occidente, come si dichiara nella prima enciclica, la Summi pontificatus. (…)«Le tradizioni cristiane, più volte secolari, di cui si sono nutriti i popoli», rivelano la fecondità culturale del messaggio evangelico e questo tema, giunti verso il tramonto del tragico conflitto mondiale e di fronte al panorama di rovine materiali e morali da esso generato, diverrà l’esplicito contenuto del radiomessaggio «per la civiltà cristiana» del 1° settembre 1944. La tentazione di accantonare, anzi di far tacere «l’eco di quella eredità cristiana», è forte: «alcuni giungono a dimenticare questo patrimonio prezioso, a trascurarlo, perfino a ripudiarlo; ma il fatto di quella successione ereditaria rimane». Un patrimonio che non soffoca né stinge gli elementi positivi delle varie culture nazionali, ma li armonizza ed esalta, facendoli convergere verso il cuore della legge morale e del rispetto della dignità della persona umana. Anzi, i valori evangelici sono l’anima stessa per un autentico sviluppo sociale generale.

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le immagini dei miei morti: Shemáh Israél Adonáy Elohénu, Adonáy Ehád [Ascolta Israele, il Signore è il nostro dio, il Signore è unico ndr]».

Il ricordo, che come tutti gli altri interventi è apparso nei mesi scorsi su L’Osservatore Romano, vuole forse sottolineare l’intervento delle migliaia di istituzioni cattoliche in

un palcoscenico e da lì ripartire, assolutamente stravolta. Questo accadde il 20 febbraio 1963 quando, al Freie Volksbühne di Berlino, andò in scena il dramma di Rolf Hochhuth Der Stellvertreter (Il vicario). Da lì prese di fatto il via una leggenda nera che ha accompagnato la storiografia mondiale fino a oggi, alimentando una campagna di odio nei confronti di Pio

Scrive Mieli nel libro curato da Vian: «A volte la storia può arrivare su un palcoscenico e da lì ripartire, assolutamente stravolta. È il caso de “Il Vicario”, che ha lanciato la leggenda del papa nero» favore della minoranza ebraica perseguitata dalle leggi razziali inglobate nel corpus giuridico italiano dal regime fascista. Ma quello che colpisce di più è la vicinanza religiosa e spirituale che l’autore tratteggia, un modo come un altro per scoprire il Dio unico anche lontano dalla sinagoga. Andando oltre i fondamentali ricordi personali dei sopravvissuti, che da anni aiutano la comprensione della Storia e danno un tessuto organico a quelli che - altrimenti rimarrebbero dati e fredde statistiche, il libro curato da Vian analizza la nascita della “leggenda nera” che vuole Pacelli fiancheggiatore dei nazisti. Scrive Paolo Mieli: «Qualche volta la storia può arrivare su

XII, additato addirittura come un “ignobile criminale”e tacciato di filonazismo per i suoi “silenzi” sulla Shoah. Anche dall’interno del mondo cattolico. A mezzo secolo dalla morte di papa Pacelli la leggenda nera del “papa di Hitler” è ancora viva sulle pagine dei giornali e più in generale su tutti i media. (...) Il primo a parlare delle titubanze di Pio XII nei confronti di fascismo e nazismo fu il cattolico Emmanuel Mounier che, quattro mesi prima dell’inizio del conflitto nel maggio del 1939, rimproverò garbatamente il silenzio che, a suo dire, metteva in imbarazzo migliaia di cuori: quello di Pio XII in merito all’aggressione italiana all’Albania. Della stessa natura fu il se-


il paginone Fisichella: «Un Papa moderno, pronto e aperto alla scienza»

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L’opinione della docente Anna Foa sul ruolo della Chiesa e del pontefice

«Personalità complessa Ora parli la Storia» di Massimo Fazzi

apertura di Pio XII al confronto con la scienza potrebbe essere il punto di partenza per verificare quanto egli sia stato a pieno titolo un papa moderno, capace cioè di comprendere il tempo che era chiamato a vivere e di offrire agli uomini suoi contemporanei le risposte necessarie per essere non spettatori passivi, ma protagonisti della loro storia. In primo luogo, è interessante soffermarsi sull’impulso che egli diede al rinnovamento degli studi biblici. Pio XII seguì direttamente e con passione gli sforzi per avere una comprensione più adeguata e coerente dei libri sacri, a cui dedicò un’enciclica, la Divino afflante Spiritu, che rimane memorabile per la lungimiranza delle prospettive tracciate. Certamente un forte e determinante influsso su di lui lo svolse il suo confessore Augustin Bea, gesuita tedesco. (…) In questo contesto merita una particolare attenzione l’enciclica, con la quale Pio XII mostrò un grande coraggio teologico e pastorale: infatti, il papa permise agli studiosi cattolici di recuperare in pochi decenni lo svantaggio accumulato nei confronti dell’esegesi biblica protestante. L’enciclica (…) deve essere considerata come un insegnamento che aiutò a superare diversi ostacoli all’interno della chiesa, svolgendo un ruolo di autentico traino per il progresso degli studi scritturistici e per un incremento nella lettura della Bibbia. Per molti versi, in ambito cattolico era diffuso un radicato scetticismo nei confronti del metodo storico-critico; non sempre le motivazioni erano di ordine scientifico e i ricordi delle tesi moderniste ancora persistevano presso molti. con questa enciclica Pio XII dimostrò una prima ufficiale e considerevole apertura da parte del magistero nei confronti dei nuovi metodi con cui studiare il testo sacro.

L’

condo indice puntato contro papa Pacelli da parte di un altro intellettuale cattolico francese, François Mauriac, che nel 1951 lamentò, nella prefazione a un libro di Léon Poliakov, che gli ebrei perseguitati non avessero avuto il conforto di sentire dal papa condanne con parole nette e chiare per la “crocifissione di innumerevoli fratelli nel Signore”».

Una doppia natura, dunque, alla base di quello che rimane

uno dei più impenetrabili misteri del sanguinoso conflitto mondiale. Che, come suggerisce la storica Anna Foa nell’intervista che pubblichiamo a fianco, dovrebbe essere lasciate nelle mani dei cultori della memoria condivisa. Gli storici hanno ora, cinquant’anni dopo la morte del papa Pacelli, gli strumenti per dare un’impronta chiara a quanto avvenuto. E fermare una volta per tutte le leggende che accompagnano Pio XII da troppo tempo.

na personalità complessa, che ha cambiato profondamente la Chiesa e la società in cui ha vissuto. È questo il giudizio su Pio XII espresso a liberal da Anna Foa, professoressa di Storia moderna presso l’Università La Sapienza di Roma e storica del Rinascimento. La docente, che presenta oggi il libro curato da Giovanni Maria Vian all’Istituto Luigi Sturzo della capitale, tratteggia un pontefice su cui sono fiorite «leggende nere, ma anche rosa» da parte del mondo ebraico e cattolico, una figura su cui «si dovrà ragionare con gli strumenti della storia». Professoressa Foa, anche alla luce del bel libro curato da Giovanni Maria Vian cosa pensa di Pio XII e ovviamente del ruolo che ebbe negli anni precedenti e successivi al secondo conflitto mondiale? Io penso che sia sicuramente una figura molto complessa, che in qualche modo rappresenta la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra. Dopo di lui la Chiesa è profondamente cambiata: quella di Pacelli è una figura che esula da qualunque leggenda agiografica, in un senso o in un altro. Un pontefice importante, e questo risulta chiaramente dalle cose che si sono dette ultimamente, un papa che risalta non soltanto per il ruolo che ha avuto negli anni della guerra, ma anche in quelli successivi. Quando si sarebbe dovuto dare inizio a una revisione di quello che era stato l’anti-giudaismo nella crescita dell’anti-semitismo, Pacelli ha avuto un ruolo sicuramente controverso. Quindi sono sbagliate le semplificazioni delle leggende nere sul suo conto, così come quelle delle leggende rosa. Alcuni degli scritti nel libro ricordano le parola di Golda Meir e quelle del Gran Rabbino di Gerusalemme dopo la morte di Pio XII. Parole, se non di lode, quanto meno di gratitudine… Certamente. Ci sono state molte prese di posizione da parte ebraica alla fine della guerra, e negli anni successivi, riguardo questo papa. Del resto, sia il saggio di Riccardi presente in questo libro che il suo bel libro L’inverno più lungo, sul ruolo della Chiesa durante l’occupazione nazista di Roma, hanno messo in luce quello che è stato fatto dai cattolici a favore non soltanto degli ebrei ma anche di tanti altri, come i soldati renitenti alla leva. Era un periodo, si dice, in cui mezza Roma nascondeva l’altra metà. Io continuo a pensare - non essen-

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do un’autrice del libro - che i riconoscimenti e il ruolo effettivo di salvataggio effettuato dalla Chiesa non esauriscano tutto il problema. Questo è un problema che riguarda la costruzione di una memoria successiva: tutte le cose che dice Vian, come anche Paolo Mieli, riguardo al ruolo dei cattolici e la genesi della leggenda nera di Pio XII sono cose vere: ed è un bene che vengano sottolineate in un clima storico più disteso. Ma resta il fatto che non basta vedere quello che la Chiesa ha fatto per salvare gli ebrei per dare un giudizio globale sui cosiddetti silenzi della stessa. Un termine usato dallo stesso Pio XII, che si riferiva proprio a lui. Nel recente viaggio in Israele di Benedetto XVI, non si sono fermate le polemiche sulla targa dedicata a papa Macelli nel museo dello Yad Vashem… Diciamo che le ha messe da parte. Speriamo persino che le rimuova, come una cosa non essenziale. Credo che la targa non sia giusta, così come ritengo esacerbate le polemiche al riguardo. In questo senso ritegno che il volume di Vian rappresenti un passo importante per la risistemazione storica di Pio XII. Sarebbe possibile la creazione di una sorta di Commissione storica interreligiosa per dare una risposta alla questione, una volta per tutte? Io questo non lo so. So che ci sono ancora tensioni e stati d’animo esacerbati non soltanto da parte ebraica. Ci sono valutazioni molto apologetiche e agiografiche da parte cattolica: spero che si intraprenda questa strada già iniziata, che guarda con occhio storico alle vicende del pontefice e che analizza anche il modo in cui queste leggende si sono formate. Per far riemergere la realtà storica in tutta la sua complessità e in tutte le sue contraddizioni. Tornando al viaggio di Benedetto XVI in Israele, si dice che sia stato troppo duro con il governo ebraico e comunque di impronta diversa rispetto a quella di Giovanni Paolo II. Secondo lei il giudizio è corretto? Si tratta di un’esagerazione. Anche il modo in cui i due pontefici si sono messi di fronte a Israele e al Muro corrispondono a due sensibilità diverse e, forse, anche a due momenti diversi. Quello di Giovanni Paolo II era il momento in cui la Chiesa chiedeva perdono, faceva mea culpa davanti al mondo ebraico. Questo è un momento diverso. Credo che in linea di massima questa visita sia stata largamente positiva.

Per la professoressa, «sono troppe le leggende, nere e rosa, fiorite su quel periodo. Se si vuole la verità, si devono evitare agiografie e condanne categoriche. Bisogna far parlare le carte»


mondo

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Difesa. Raddoppiate in dieci anni le spese militari mondiali. Un volume d’affari pari al 3% del Pil globale e a 155 euro pro capite

Ci siamo tanto armati Un rapporto del Sipri svela chi spende di più: Stati Uniti, Cina e Francia in testa. Italia ottava di Stranamore a quanto è divertente leggere il contenuto dell’annuale rapporto del Sipri sullo stato della sicurezza, della proliferazione e della spesa per gli armamenti nel mondo! Divertente? Si, non si può definire altrimenti un documento nel quale si sostiene, molto seriamente, che l’Italia spende per la difesa 40,6 miliardi di dollari, una cifra che la colloca, sempre secondo il Sipri, nientemeno che all’8° posto nel ranking mondiale, subito dietro ai 7 grandi. Al ministero della Difesa farebbero i salti di gioia se davvero disponessero di una cifra del genere. La realtà però è ben diversa, solo che i particolarissimi sistemi di calcolo adottati dal blasonato ente svedese distorcono, abbastanza volutamente, la realtà, classificando come spesa militare quello che con la difesa ha ben poco a che fare. Però se si tratta di valutare la spesa per la difesa di un

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Paese come la Cina o la Russia ecco che il Sipri funziona in senso inverso e infatti la Cina risulta spendere appena 85 miliardi di dollari, la Russia solo 59. Strano vero? Specie considerando che la Cina ha appena 2,2 milioni di soldati e che i dati ufficiali di Pechino non includono né la spesa per la ricerca e lo sviluppo militare né quella

prendendoli come oro colato) cifre del genere dovrebbero far venire qualche dubbio. Andando a verificare si scopre infatti che lo stesso Sipri spiega che la classifica mondiale dei cattivoni che spendono e spandono in armi ed affini usa come valuta di riferimento il dollaro, traducendo in dollari le cifre in valuta locale. Sempre il Sipri dice che se

Le uscite di Washington rappresentano il 40% del totale, trainate dai conflitti in Iraq e Afghanistan, che da soli hanno richiesto un costo supplementare di 903 miliardi per l’acquisizione di armamenti. Dettagli, no?

Ora a qualunque lettore (no, non chiediamo un simile sforzo ai giornalisti, specie quelli italiani, verificare le notizie, approfondire, confrontare i dati non è più di moda e infatti hanno pubblicato i numeri del Sipri

i dati nazionali fossero convertiti basandosi sul prodotto interno lordo e sulle parità di potere d’acquisto i risultati sarebbero diversi. Beh non fatevi venire il mal di testa… in pratica questo vuol dire, per esempio, che la Russia passerebbe dal quinto al terzo posto, dopo Stati Uniti e Cina, che al quarto posto sali-

rebbe l’India e che l’Arabia Saudita andrebbe al sesto, dietro la Gran Bretagna. Anche solo con questa piccola correzione l’Italia scivolerebbe subito al 10° posto. Ma di questo nelle cronache dei grandi media nazionali non troverete cenno. Ma il punto è che l’Italia non spende affatto 40, 6 miliardi di dollari. Il bilancio del-

la Difesa del 2008 ammonta a 21,1 miliardi di euro. Convertendo in dollari non si arriva a 30 miliardi. E allora? Beh il Sipri mette nel calderone anche le spese per la sicurezza interna, le spese per le missioni di pace, la difesa civile e altro. Senza contare che il bilancio della Difesa italiano è da sempre “bugiardo”: ad

Tutte le rotte (e i committenti) del traffico illegale. Un giro di miliardi che vale il 20% di quello ufficiale

Come ti rifornisco i guerriglieri di Pietro Batacchi ifficile quantificarne l’entità e le dimensioni. Ma secondo l’Onu e diversi istituti di ricerca internazionali il mercato clandestino di armi muove miliardi di dollari l’anno. Almeno un 20% del valore del mercato legale. Di questa realtà si sa molto poco, se non che rappresenta una voragine che oltre a macinare dollari su dollari aggira embarghi, viola regole e rifornisce i peggiori dittatori e i più spietati gruppi di guerriglia di tutto il mondo. È una galassia inestricabile attorno alla quale ruotano contrabbandieri, intermediari, faccendieri, mafie e pezzi di Stato.Tanti segmenti di diversa origine che non hanno ideologie, né preferenze politiche e che sono accumunati solo dal business. Storicamente uno dei fattori che ha favorito la crescita e il consolidamento del mercato clandestino di armi è stato la caduta dell’Urss. Al momento del suo collasso, nel 1991, molte aree del sistema internazionale si ritrovarono improvvisamente fuori controllo. Accadde così nei Balcani ma anche in Africa e in Medio Oriente, dove in poco tempo si acce-

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sero drammatici conflitti etnici e identitari. Un fenomeno inevitabilmente accompagnato dalla vertiginosa crescita della domanda di armi. Soprattutto di armi leggere e portatili, più semplici da trafficare e far passare attraverso le strette maglie degli embarghi.

Il crollo dell’Urss, oltre che delle cause geopolitiche, creò i presupposti materiali anche per l’alimentazione di quegli stessi conflitti. Grazie a un enorme arsenale lasciato improvvisamente incustodito ed alla mercè di chiunque nel clima da “tutti a casa” che regnava in quel periodo. Decine e decine di depositi in Bielorussia, Ucraina e in tutte le altre repubbliche ex sovietiche, dai quali venne trafugato di tutto. Nella sola Ucraina, si calcola che tra il 1992 ed il 1998 siano sparite armi per un valore di ben 32 miliardi di dollari. Un sacco a tutti gli effetti, favorito da complicità politiche ad altissimo livello, a cominciare probabilmente da quella dell’ex presidente, nonché ex padre/padrone Kuchma, e da uno stuolo di militari e appartenenti ai servi-

zi segreti ex-sovietici improvvisamente trovatisi senza stipendi e prospettive. Così è stato per il più grande e leggendario di tutti, quel Viktor Bout, attualmente sotto processo in Thailandia e grande ispiratore del fortunatissimo film con Nicolas Cage Lord of War. Dell’uomo, soprannominato “Mercante di Morte”, non si sa con certezza neanche l’origine. C’è chi dice che sia tagiko e chi ucraino o turkmeno. Sicuramente, la sua è stata la rete più importante dell’intero circuito clandestino legato al traffico di armi. I suoi clienti sono stati i più svariati: dal sanguinario Fronte rivoluzionario unito (Ruf) della Sierra Leone, al suo protettore Charles Taylor (ex presidente della Liberia), ai guerriglieri dell’Unita angolana di Savimbi, alle milizie genocidare ruandesi degli Hutu Interahamwe ai separatisti islamici filippini da poco sgominati. Dopo anni di vero potentato - propretario di

varie compagnie aeree (di cui beneficiò anche l’Onu) e navali che servivano ai suoi traffici - arrivò l’11 settembre e con la strage delle Torri gemelle anche per il potentissimo Bout si presentarono i primi guai. Troppo forti i suoi legami con i talebani, con il servizio segreto pachistano e persino con la stessa al Qaeda, perché l’uomo non finisse nel mirino della comunità internazionale. Gli americani iniziarono a dargli la caccia e nel 2002, nel 2004 furono bloccati i beni a lui riconducibili e l’Onu mise ufficialmente le sue compagnie sulla lista nera. A marzo dell’anno scorso, l’arresto. L’uomo è adesso a giudizio per essere estradato


mondo In apertura, una parata militare cinese durante le esercitazioni alla base militare di Xuchang. In basso a destra un centro di smistamento armi nello Xi’an, mentre a sinistra un soldato cinese insegna a un militare indiano a usare un fucile a Belgaum, in India, durante un’operazione antiterrorismo tenutasi dopo gli attacchi di Mumbai dell’anno scorso. Il documento dell’Istitutio di Stoccolma, presentato lunedì, commenta: «La crisi finanziaria globale non ha ancora avuto un impatto sui redditi, sui profitti e sugli ordini arretrati delle maggiori industrie militari» esempio include i fondi per i Carabinieri, 5,3 miliardi di euro nel 2008 e quelli per le pensioni e funzioni esterne, altri 350 milioni di euro o giù di li.

La funzione difesa propriamente detta vale appena 15,4 miliardi di euro, meno dell’1% del Pil. E anche aggiungendo i

fondi per la ricerca e sviluppo e alcuni grandi programmi di acquisizione, a carico del ministero per lo Sviluppo economico e di quello per la Ricerca, con qualche spicciolo per i Trasporti, si arriva al massimo a 17, 18 miliardi. Cifre molto lontane da quelle contenute nelle tabelle e nelle classifiche del rapporto

negli Usa dove lo attende un altro processo per cospirazione e traffico internazionale di armi. La sua rete può essere considerata solo uno dei tanti network che hanno alimentato ed alimentano tutt’ora il contrabbando internazionale di armi. Ma ben più fiorente di questo, e ben più radicato, c’è un altro mercato, che favorisce la vendita di armi in tutto il mondo in barba e regole e normative internazionali, ovvero il cosiddetto mercato grigio. Un grande calderone in cui rientrano regimi autoritari, apparati più

I carichi giungono in Siria facendo scalo all’aeroporto di Damasco e da qui entrano in Libano via terra attraverso il confine o, addirittura, proseguono sempre in aereo fino all’aeroporto di Beirut, dove vengono prese in consegna dai “logistici” di Hezbollah. Non a caso il movimento sciita scatenò la guerra contro il governo Siniora lo scorso maggio, proprio quando questo decise di rimuovere un suo uomo a capo della sicurezza dello scalo. Il traffico verso Hamas e la Striscia di Gaza è invece più complicato a causa dello strettissimo controllo che gli israeliani esercitano su tutte le vie d’accesso alla Striscia. Le armi partono dal porto iraniano di Bandar Abbas su navi cargo.

Con la caduta dell’ex Urss prima e la disgregazione dei Balcani poi, si sono aperte le porte di un immenso arsenale che rifornisce, ancora oggi, tutti i terroristi del pianeta o meno deviati e proto-stati di recente costituzione, non considerabile come semplice contrabbando proprio perché politicamente motivato e condotto da soggetti statuali. L’Iran è uno degli attori principali e più attivi di questo“secondo” mercato. Le armi iraniane alimentano diverse guerriglie in Medio Oriente e vanno a finire soprattutto negli arsenali di Hezbollah e Hamas. Ai guerriglieri libanesi arrivano attraverso l’alleato siriano grazie ad un sistema molto semplice.

svedese. Che ci auguriamo abbiamo sviluppato analisi più credibili analizzando la spesa militare degli altri Paesi. In realtà è lecito dubitarne, perché, ad esempio, il rapporto regala dati altrettanto sorprendenti se si va a scorrere l’elenco dei “mercanti di morte”, le più importanti industrie produttrici di armamen-

Entrano nel Golfo di Aden e si dirigono verso il porto eritreo di Assab o quello sudanese di Port Sudan. Qui vengono scaricate ed indirizzate su autocarri verso il sud dell’Egitto. Una volta in Egitto, sono nuovamente caricate su navi di piccole dimensioni gestite da gang di trafficanti e trasferite nel Sinai dove la loro custodia passa alle tribù beduine che controllano la penisola e trasportate infine a Gaza attraverso i famosi tunnel del corridoio Philadelphia. Su ogni stazione del tragitto vigilano però gli uomini del-

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ti. La classifica del Sipri considera le prime 100 società, escluse quelle cinesi (ti pareva!). È abbastanza naturale che ci siano 6 società americane nella top ten, con una società britannica, una paneuroepa, Eads, una francese e l’Italiana Finmeccanica, accreditata al 9° posto. Il Sipri spiega però che 44 società statunitensi si aggiudicano il 61% del valore delle armi vendute dai 100 nomi in classifica. L’Europa occidentale, con altre 32 società, ha una quota del 31%. Il resto, ovvero un misero 7%, è appannaggio di Israele, Russia e Giappone. Ma pensa un po! Peccato che Israele sia in realtà uno dei top producer/exporter mondiali, che il Giappone non possa vendere alcunché di militare, lo proibisce la Costituzione e quindi produce solo per esigenze nazionali, spendendo moltissimo per acquistare pochissimo, a causa di scelte strategiche nazionali che prevedono una produzione minima costante di ogni tipo di sistema d’arma principale. E la Russia? Certo che Putin ci resterà male a leggere le cifre del

venduto armi per appena 8,2 miliardi di dollari, comprese quelle destinate alle forze armate di Mosca. Però la Russia è il quarto esportatore mondiale di armi, tra il 2004-2008 ed ha una quota del 25%! Lo dice il Sipri.

Evidentemente Mosca vende davvero armi a prezzi d’affezione. Ma non ditelo a cinesi, indiani, venezuelani, che staccano assegni miliardari quando arrivano le fatture timbrate Cremlino. Insomma, diciamo pure che se si vuole comprendere la situazione del mercato mondiale degli armamenti e della spesa militare è meglio utilizzare studi che si basino un po’ meno sui dati ufficiali e un po’ di più su stime intelligence. Ce ne sono diversi, a partire dal report annuale dell’Istituto di Studi Strategici di Londra, tanto per restare in Europa. Anche perché scorrendo il rapporto Sipri si conferma quello che i gli avversari/concorrenti dell’occidente sostengono da tempo: il mondo occidentale è formato da fessi, che credono alle favole, raccon-

Pechino, con 84,9 miliardi di dollari, si classifica al secondo posto, superando Francia (65,74 miliardi) e Gran Bretagna (65,35 miliardi). Ma facendo qualche calcolo, al terzo posto c’è la Russia Sipri: già, quando era presidente della Russia Zio Valdimir si era dato un gran daffare per riordinare l’industria nazionale degli armamenti, creare grandi conglomerati, imporre fusioni e promuovere l’export militare in ogni modo. Però nessuna azienda russa è nella top ten. Non solo, nel 2007 la Russia avrebbe

l’unità Al Qods, l’unità per le operazioni all’estero dei Pasdaran. Lo scorso gennaio, proprio nel bel mezzo dell’operazione Piombo Fuso, pare che l’Aviazione israeliana abbia condotto un raid in territorio sudanese contro una colonna di autocarri che probabilmente trasportava i temibili razzi iraniani Faj-3 (in grado di raggiungere Tel Aviv dalla Striscia). La colonna sarebbe stata distrutta e nel raid sarebbero morte una quarantina di persone. La vicenda comunque resta ancora oggi avvolta dal mistero. Come del resto misterioso è un altro presunto raid che, nel mese di febbraio, avrebbe affondato una nave cargo iraniana diretta in Sudan, anche questo addebitato all’Aviazione con la stella di Davide. L’unica cosa sicura è che il complesso sistema messo in piedi dagli iraniani per rifornire Hamas è entrato negli ultimi tempi in crisi a causa dell’accordo tra Israele e Stati Uniti stipulato alla fine del conflitto a Gaza. Un accordo che ha esteso i controlli effettuati dalla task force antipirateria americana attiva nel Golfo di Aden anche ai cargo sospetti provenienti dalle acque irania-

tano (spesso) la verità, si legano le mani senza che nessuno glielo possa imporre e non si rendono conto che queste sono pericolose “debolezze”. Non per niente il rapporto Sipri, i suoi dati, le sue classifiche, è da giorni la notizia top di Al Jazeera: ma a Stoccolma si sono chiesti come mai?

ne. Ma l’Iran non è il solo stato ad essere coinvolto in questo mercato grigio. Ci sono l’Eritrea ed il Sudan come abbiamo visto. Ma anche entità “proto statuali”come la Transnistria o lo stesso Kosovo. La Transnistria ha nei profitti del traffico di armi l’unica, o quasi, fonte di entrata e ormai da tempo sul suo territorio opera un connubio perverso tra classe dirigente, mafia e trafficanti. La stessa cosa, seppur in misura meno istituzionalizzata, avviene in Kosovo dove diversi membri dell’ex Uck che oggi ricoprono incarichi istituzionali sono legati a traffici di ogni tipo. Armi, ma non solo: droga, sigarette e persino organi.


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Ue verso un Barroso bis pieno d’insidie All’indomani delle elezioni si cerca una maggioranza nel negoziato sul presidente di Sergio Cantone

BRUXELLES. A urne europee ancora calde l’Europa istituzionale non perde tempo, la parola d’ordine è procedere a tappe forzate a tutte le nomine con o senza trattato di Lisbona. E così Josè Manuel Barroso ha incassato l’invito della presidenza del consiglio Ue e del primo ministro ceco Fischer, di succedere a sè stesso. Il portoghese si è detto “onorato della proposta”. Ora il suo nome sarà discusso il prossimo 18 giugno al vertice dei capi di stato e di governo dell’Unione europea. In caso di accordo dei ventisette Barroso sarebbe presidente designato. È probabile che ciò accada dato che non sembra esserci governo Ue che sia ostile al presidente lusitano. E un indizio preciso è in questo senso il sostegno che gli ha dato il primo ministro svedese Frederik Reinfeldt, presidente Ue per sei mesi dal prossimo primo luglio. In visita a Bruxelles il premier scandinavo ha detto: «non mi sembra ci siano candidati alternativi possibili. Oltrettutto abbiamo bisogno di un presidente della Commissione che sia operativo al più presto possibile perchè bisogna lavorare sodo sulle misure anti-cambio climatico e contro la crisi economica». Come dire: chi meglio del presidente uscente conosce il funzionamento della Commissio-

IL PERSONAGGIO

ne? L’esperienza giustifica la scelta di Barroso, ma allo stesso tempo fa piazza pulita dei puristi che chiedevano un ritardo nella nomina del capo dell’esecutivo brussellese in attese dell’approvazione del trattato di Lisbona. Scopo ufficiale della richiesta: fare la tripletta, nominando presidente del Consiglio, ministro degli Esteri e presidente della Commissione in un botto solo; scopo reale: far fuori Barroso tout court. Già perché uil portoghese conta anche parecchi nemici.

E la trappola potrebbe venire tesa al Parlamento europeo, presidente e commissari devono infatti essere approvati dalla maggioranza dell’eurocamera. E il teatrale leader dei verdi europei Daniel Cohn-Bendit, forte di un successo elettorale senza

de qualità per gli intergovernativi. E Reinfeldt, da buon primo ministro svedese, dice: «le critiche che vengono mosse a Barroso sono di non fare quello che l’Unione non è previsto faccia, quello che è competenza esclusiva degli Stati nazionali. Ma questo non è un difetto». E a pensarla così sono anche gli Stati membri. Ma per Daniel Gros, direttore del Centro per gli studi di politica europea, la principale macchia di Barroso è di non avere avuto il nerbo di proporre un piano di salvataggio bancario su scala europea e di convincere la Germania ad accettarlo: «avrebbe dovuto insistere, la Germania in fondo non voleva nemmeno l’unione monetaria, ma poi l’ha adottata ed è nato l’Euro. E fu un’operazione ben più difficile di un soccorso creditizio». E la Commissione ha perso una grande occasione per brillare di luce propria. La questione economico-finanziaria è importante anche per la futura presidenza svedese, Reinfeld ha chiesto una non meglio precisata «azione comune europea contro la crisi». Il Partito popolare europeo, grande vincitore delle elezioni, vuole un secondo mandato per Barroso, il capo gruppo all’eurocamera, il francese Daul, ha posto le condizioni: «José-Manuel dovrà accettare i principi cardine dell’economia sociale di mercato». Per Reinfeldt la nuova economia sociale di mercato passo attraverso la rivoluzione verde e la lotta contro il cambio climatico. Il cavallo di battaglia di Barroso è stato proprio il pacchetto energia clima. Insomma, non fa una grinza, ma nessuno ha ancora detto se a pagare gli investimenti sarà l’Unione o gli Stati membri. Barroso forse lo sa.

Cavalli di battaglia della eventuale riconferma sarebbero la rivoluzione verde e la lotta contro il cambiamento climatico precedenti in Francia, vuole a tutti i costi la testa di Barroso. L’ex leader sessantottardo franco-tedesco è infatti diventato il punto di riferimento della sinistra transalpina in sfacelo. L’idea di Cohn-Bendit è infatti di creare un fronte di centro-sinistra anti Barroso. È accusato di non avere saputo imporre agli Stati membri una forte volontà comunitaria, fino a diventare il valletto dei governi nazionali. Insomma, la colpa di Barroso sarebbe stata quella di avere accettato il cambiamento della natura della Commissione: da esecutivo comunitario a segretariato generale del Consiglio. Colpa senz’altro grave per i federalisti, ma gran-

Paul Louis Arslanian. Direttore della Bea, è responsabile sicurezza di milioni di passaggeri. E indaga sulle cause del disastro aereo Air France

L’uomo chiave della tragedia AF447 di Pierre Chiartano i chiama Bureau d’Enquetes et Analyses (Bea) si occupa di incidenti aerei e, in generale, della sicurezza aerea in Francia. Chi lo dirige in questi giorni, dopo il disastro del volo Air France 447 scomparso nell’Atlantico, lavora sotto pressione. Paul Louis Arslanian è il suo nome, che tradisce forse un’antica origine armena. Da ieri, ha un problema in più, dopo che anche il sindacato dei piloti francesi è sceso sul piede di guerra. Hanno chiesto la sostituzione su tutti gli Airbus 330 e 340 di almeno due dei tubi di Pitot che servono per misurare la velocità all’aria. Arsalanian si trova tra l’incudine e il martello di una delle aziende aeronautiche più importanti d’Europa, con una forte connotazione francese, e un’opinione pubblica assetata di verità. In un panorama che vede da tempo il settore, per lunghi anni in crescita, vivere una stagnazione senza precedenti in seguito alla crisi mondiale. Deve fare il suo mestiere, ma dalle sue risposte potrebbe dipendere anche il futuro di Airbus, visto che notizie d’agenzia davano ieri, in congelamento alcuni ordini sul nuovissimo A 380. Un conflitto tra interessi e verità che spesso vede soccombere la seconda. Ha già bacchettato Air France, per non aver sostituito i tubi di Pitot, come raccomandato dalla casa costruttrice. Anche se tutta questa enfasi su un particolare importante, ma non capitale per spiegare l’incidente, alimenta la sensazione che si cerchi di buttare in pasto ai media una spiegazione

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L’ex pilota, è molto preoccupato per il contenuto dei messaggi automatici emessi dal volo scomparso nell’Atlantico

alla volta. Sperando che qualcuno abbocchi. E mai come in questo caso si sono sentite tante “fesserie” dai «venti verticali a 300 chilometri orari» alla «grandine grossa come palle di cannone» a 10mila metri quota! Sospetta anche la fretta con cui si è comunicata la possibilità che le scatole nere si siano distaccate dall’emettitore radio che ne permetterebbe la localizzazione. Un compito non facile quello del direttore del Bea. Responsabile per la sicurezza di milioni di passeggeri che ogni anno solcano i cieli francesi o volano con vettori transalpini. Arslanian è preoccupato per il contenuto dei messaggi automatici emessi dal volo AF447. Si parla di problemi seri ai computer che gestiscono i sistemi e i comandi volo. Sugli Airbus la figura del pilota è stata marginalizzata dall’elettronica. Una scelta industriale che ragionava sul fatto che, spesso, è l’azione umana a provocare incidenti. Ora, ogni azione del pilota, non è più diretta, ma è filtrata da un processore molto sofisticato, dal cui funzionamento potrebbe dipendere la vita di equipaggio e passeggeri. Sono macchine con grandi capacità di carico, bassi consumi, ma tra i piloti non godono di una fama eccelsa. Gioielli tecnologici, grandi prestazioni, rispetto di ogni normativa strutturale, ma problemi ce ne sono. L’incidente sull’Atlantico potrebbe essere la prima finestra sui limiti di questa nuova generazione di aerei. E Arslanian è lì in prima linea, per combattere tra verità e interessi.


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10 giugno 2009 • pagina 19

Cade l’impunità delle multinazionali. Tremano Chevron ed Exxon Mobil

Il premier israeliano risponderà da Bar-Ilan. Hamas attende

Ken Saro-Wiwa: Shell paga milioni di dollari. Evitato il processo

Obama:uno Stato palestinese entro due anni. Netanhyau replica

NEW YORK. Quattordici anni do-

GERUSALEMME. L’atteso piano di pace per il Medio Oriente di Barack Obama prevede la costituzione di uno Stato palestinese entro due anni. È quanto scrive la stampa israeliana citando il quotidiano arabo stampato a Londra al-Sharq al-Awsat. Il progetto è stato presentato a Benjamin Netanyahu direttamente dal presidente americano durante l’incontro alla Casa Bianca il 18 maggio scorso. Lunedì, riporta lo Yedioth Ahronoth, il premier israeliano ha telefonato a Obama anticipandogli il contenuto dell’atteso discorso di replica che terrà la prossima settimana all’università di Bar-llan. Il premier chiarirà «al popolo israeliano e al mondo che Israele non è con-

po la morte dello scrittore e attivista Ken Saro-Wiwa, il colosso petrolifero anglo-olandese Shell ha accettato di pagare 15 milioni e mezzo di dollari per evitare di comparire in un imbarazzante e clamoroso processo. La compagnia petrolifera era perseguita dal 1995 per complicità con l’exregime militare nigeriano per quel che riguarda l’esecuzione di otto civili, che si opponevano ai suoi metodi di estrazione del petrolio. Tra le vittime lo scrittore e attivista ambientalista Ken SaroWiva. L’accordo rappresenta una tappa storica. Con l’implicita ammissione di responsabilità della Shell, dicono giuristi e attivisti per i diritti umani, cade l’impunità di fatto delle grandi multinazionali e molti altri contenziosi potrebbero riaprirsi in tutto il mondo. La compagnia angloolandese, com’è naturale, minimizza. Il gigante anglo-olandese ha dichiarato di aver acettato di regolare la faccenda per aiutare il ”processo di riconciliazione”, mentre continua a operare in Nigeria, pur negando qualsiasi implicazione nella morte del poeta Ken Saro-Wiwa e di altri cinque attivisti dei diritti dell’uomo e della protezione dell’ambiente, che avevano manifestato nella regione di Ogoni, nel sud della Nigeria. «Penso che mio padre sarebbe felice di questo risultato», ha detto

Obama parla di ripresa ma c’è poco da stare allegri Cresce la disoccupazione negli Usa e sfiora il 9,4% di Alessandro D’Amato l dato è preoccupante, la riflessione forse ancora di più. Il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti è di nuovo salito in maggio al 9,4% dall’8,9% di aprile, e anche qui si è battuto un altro record: si tratta del livello più alto dall’agosto del 1983. Ma c’è qualcosa su cui sperare, perlomeno ufficialmente: gli analisti si aspettavano un rialzo più contenuto, al 9,2%. Il rapporto del governo contiene tuttavia anche un dato positivo: nel mese sono stati persi 345mila impieghi, meno dei 520mila attesi dagli analisti. Il comparto manifatturiero, nel complesso, ha perso nel mese 156mila impieghi.

I

Con la performance di maggio, la serie consecutiva in cui si è registrata una perdita di impieghi è salita a 17 mesi, eguagliando il record stabilito nella recessione del 1981-1982. Il salto in alto del tasso di disoccupazione conferma che - pur aspettandosi tutti un rallentamento o un blocco della recessione entro giugno - il mercato del lavoro sarebbe comunque in una situazione di grande difficoltà ancora per molto tempo. I numeri, secondo gli economisti, sono destinati a peggiorare: il tasso di disoccupazione è previsto in salita al 10% nell’arco dei prossimi mesi ma non manca chi, come Nouriel Rubini, ritiene che l’apice sia piuttosto da collocare attorno all’11%, con pesanti conseguenze in termini di default su prestiti e mutui e di propensione ai consumi.

lativo al settore non agricolo è un dato migliore di quanto ufficialmente previsto: 345mila posti, contro gli oltre 400mila del mese precedente e il mezzo milione che ci si aspettava. In più, si tratta della perdita occupazionale più contenuta dal settembre 2008. Dunque un valore apparentemente incoraggiante, per quanto con segno ancora negativo, e tale da accreditare l’ipotesi de “il peggio è alle spalle” o de “la recessione è finita”. E comunque in grado di supportare ancora l’intonazione positiva dei mercati azionari. Anche se si sa che i dati di questo tipo sono più indicatori differiti che reali di quella che sembra essere una congiuntura in lieve ripresa, o per lo meno che ha finito di crollare.

Ma c’è anche chi non la pensa così. In primo luogo, chi fa notare che è il numero totale - 6 milioni di posti di lavoro persi dall’inizio della crisi - a spaventare soprattutto, e a rendere questa fase del ciclo economico così unica e, già per questo, così pericolosa. In secondo luogo, c’è anche chi osserva che i dati “non ufficiali”, ovvero le statistiche non governative, disegnano una realtà ben più tragica di quella che appare dai comunicati non ufficiali. Dove la disoccupazione reale, in verità sarebbe alle stelle e avrebbe toccato già quota 20%, con più di mezzo milione di posti di lavoro persi a maggio. In più, c’è da notare anche altro, e lo fa Jeff Frankels, membro del Dating Committee del National Bureau of Economic Research. Il quale mette in relazione il numero di ore lavorate con gli occupati, visto che il numero di ore aumenta - grazie agli straordinari - o diminuisce in modo dipendente dal ciclo economico. Guardando ai dati, ci si accorge che le ore lavorate sono calate ulteriormente nell’ultimo periodo, raggiungendo un minimo che non si vedeva dal 1964. Da questo consegue che non c’è molto da essere ottimisti per il calo inferiore alle attese dell’ultimo periodo. Anzi: dati alla mano, la situazione sta ancora una volta peggiorando.

I dati parlano chiaro: le ore lavorate sono calate nell’ultimo periodo, raggiungendo un minimo che non si vedeva dal 1964

in un’intervista telefonica dalla sua abitazione di Londra il figlio dello scrittore Ken Saro-Wiwa Jr., 40 anni: «il fatto che la Shell sia stata costretta a patteggiare per noi è una chiara vittoria». Ken Saro-Wiwa e altri otto attivisti vennero impiccati il 10 novembre 1995 al termine di un processo farsa. Fondatore del Movimento per la sopravvivenza del popolo Ogoni (Mosop), Saro-Wiwa si batteva da anni contro i danni ambientali causati dalle attività petrolifere della Shell nella regione dell’Ogoniland, nel sud della Nigeria, riuscendo a mobilitare migliaia di persone, a bloccare la produzione di greggio della Shell e a minare il sistema di corruzione e autoritarismo su cui si reggeva il regime di Abacha.

Includendo nel totale dei senza lavoro anche quanti hanno contratti part-time o occasionali, la percentuale degli americani senza lavoro è salita in maggio al 16,4% dal 15,8% di aprile. A livello di settore, in maggio il comparto produttivo ha perso 225mila impieghi con un calo di 156mila unità per il solo reparto manifatturiero. In calo anche il settore costruzioni (meno 59mila unità) e quello dei servizi (meno 120mila). Ha continuato invece ad assumere il settore sanitario che ha aggiunto 44mila addetti. Da notare anche che quello re-

traria alla pace e che fa proprio la posizione di Obama anche se allo stesso tempo intende tutelare i propri interessi, in particolare la propria sicurezza». Lo hanno chiarito fonti vicine a Netanyahu secondo cui il premier anche in questa occasione non citerà la soluzione “due popoli, due stati”e tenterà di minimizzare la controversia sugli insediamenti israeliani in Cisgiordania e sottolineare la volontà di smantellare solo gli avamposti illegali. Oltre alle resistenze israeliane l’altro ostacolo al processo di pace è la divisione tra Hamas e Fatah. Per questo l’Egitto ha rafforzato l’impegno per raggiungere alla riconciliazione tra le due fazioni rivali e ha convocato per il 17 giugno al Cairo un incontro urgente dei ministri degli Esteri della Lega Araba. Centrale resta il ruolo di mediatore del ministro della Sicurezza e capo dei servizi segreti, Omar Suleiman, che ieri ha ricevuto al Cairo il capo dell’ufficio politico di Hamas, Khaled Meshaal. Quest’ultimo ha preannunciato che dopo il discorso di Netnayahu illustrerà pubblicamente la “nuova politica di Hamas” alla luce dell’appello alla riconciliazione di Obama tra gli Usa e il mondo musulmano del 4 giugno scorso.


cultura

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a quando l’opera d’arte è diventata qualcosa di diverso da quello che la gente comune indica come arte, da quando l’opera d’arte non è più visibile in sé ma ha bisogno di spiegazioni, le parole dei critici sono diventate di pari passo magniloquenti e subdole. D’altronde un tempo la critica d’arte, si pensi al Vasari, si limitava alla biografia dell’artista, avendo le opere per loro conto già sufficiente forza espressiva. E come succede per le barzellette, spiegare un’opera d’arte è alquanto penoso: o si capisce, o non si capisce. Certo, il dato cambia quando l’opera è espressamente prodotta per non essere capita, o per non comunicare nulla, o al limite per comunicare l’impossibilità di comunicare, cosa tipica nell’arte contemporanea che spesso preferisce la sociologia all’estetica. In questo caso, il lavoro del critico quanto più è necessario quanto più è ridicolo.

D

Prove ne abbiamo a iosa anche in questa Biennale 2009, nella quale il curatore Daniel Birnbaum, non avendo la forza né il destino del rivoluzionario, si è adagiato placidamente nel mainstream. E poi, si sarà chiesto, perché cercare il bello e il sensato in controtendenza alla moda, mettendosi in opposizione al mondo dell’arte contemporanea mondiale, quando si possono suscitare gli ooooohhhhhh di approvazione di tante signore chic solo spargendo a terra quattro sassi insensati. Così nel doppio tomo del catalogo della Biennale, troviamo esempi illuminanti dello scarto tra parola e opera, tra quanto vediamo e quanto il critico ci dice che l’artista avrebbe voluto significare o non significare, essendo le opere di fatto mute. Prendiamo per esempio Norbert Weber co-curator del padiglione della Lettonia: «Eveline Deicmane ha preparato un’opera che intende raccontare una storia e che di fatto ci offre soltanto la presentazione della storia, ponendo delle domande: quanta energia è necessaria per sopravvivere a un freddo inverno? Che genere di suono si sente? È un respiro pesante? È prodotto dallo scricchiolare della neve o dall’affilatura di coltelli? A che velocità deve ruotare il pignone per consentire alla ruota maggiore di una trasmissione di generare velocità sufficiente a regolare

Biennale. L’incontrollabile (e incomprensibile) “leggerezza” del catalogo critico

Venezia e i traduttor de’ traduttor dell’Arte di Angelo Crespi un giradischi? Per quanto tempo si riesce a far rotolare una palla di neve, prima che diventi talmente grossa da eccedere la capacità delle persone di spingerla ulteriormente?». Pensando che un tempo l’arte si interessava di Dio, dell’eternità, dell’uomo, ci incuriosiscono soprattutto le ultime due domande (sul giradischi e la palla di

spazi istituzionali di controllo e di punizione sono iscritti nel corpo, così come i suoi “prodotti” possono essere utilizzati come “materie prime” per delle contro-azioni angoscianti». Ebbene cosa espone il Todorovic? «Il suo progetto – continua Dimitrijevic soddisfatto – consiste nell’accumulo sistematico di capelli umani (fino a tre tonnel-

bio-scarto viene poi riciclato come materiale per realizzare delle coperte dall’aspetto neutrale che sono ammassate e messe a disposizione per essere esposte, utilizzate ed esaminate». Evviva. Per fortuna che la curator Kathrin Rhomberg del padiglione Ceco e Slovacco ci spiega che «se prendiamo il concetto di uno spostamento

Nel doppio tomo venduto alla mostra, troviamo esempi illuminanti dello scarto tra parola e opera, tra quanto vediamo e quanto l’esperto ci dice che l’artista avrebbe voluto significare o non, essendo le opere, di fatto, mute neve) che – crediamo – in Lettonia siano di cruciale urgenza. Non va meglio in Serbia, uno dei curator Branislvav Dimitrijevic parlando dell’artista Zoran Todorovic ci spiega che «i suoi progetti consistono nell’osservare e inscenare una forma di controllo bio-politico esplorando i modi in cui gli

late) raccolti per mesi in saloni di parrucchiere dove farsi tagliare i capelli è un atto volontario e motivato dal desiderio personale, e in istituzioni della Serbia (prigioni e caserme) in cui quest’atto costituisce una regola di disciplina». E cosa ci fa poi l’artista, ci chiediamo sempre più curiosi: «Questo

A fianco, un fanatico d’arte passeggia nei giardini della Biennale di Venezia. A sinistra e a destra, due immagini di alcune opere esposte. In alto, il direttore Daniel Birnbaum insieme con Yoko Ono

della prospettiva spaziale, temporale, emotiva e mentale e intendiamo questo termine come una condizione essenziale per la percezione, allora esso potrà forse essere usato per definire qualcosa che molte delle opere di Roman Ondàk hanno in comune». Cosa ha dunque realizzato l’Ondak??? Ha preso un

pezzo del giardino esterno al padiglione (alberi, cespugli, erba…) e lo ha rifatto all’interno del padiglione. Ebbene: «L’attraversamento di uno spazio artistico – insiste compunta la Rhomberg – e dunque di una zona di convenzioni mutate circa l’attenzione, la percezione e l’interpretazione, passerebbe quasi inosservato se non ci fosse questo ingabbiamento del Padiglione…». Geniale, no?

Alla fine dunque concordiamo con Justo Pastor Mellado, curator del padiglione del Cile, che a proposito dell’opera di Ivan Navarro finalmente ci illumina: «L’artista formula un meccanismo di enunciazione costruito su un triangolo referenziale: porta, sedia, video. La porta rimanda al confine di tutto ciò che è visibile e stabilisce le condizioni per una politica dello sguardo vasta e vertiginosa che si afferma come fuga della rappresentazione. La sedia, con i suoi tubi fluorescenti, riproduce la cavità ineffabile, la quale svela il bisogno di dimora sentito dal corpo ed è realizzata in modo da rappresentare la condizione del vuoto. Il video inscena un circuito di ripetizione letale». Boh. Ma così è. Ovviamente tutto questo e infinitamente di più è a disposizione di chi volesse consultare il duplice catalogo con occhio divertito al nonsense verbale dell’arte di oggi.


spettacoli

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Musica. “Sea of tears”, il nuovo omaggio al rock di Eilen Jewell. Che dopo la conquista degli Usa, tenta l’assalto alle hits europee

Sorpresa: riecco i favolosi anni ’60 di Valentina Gerace

Porta per gli States una ventata di rock’n’ roll a tutti gli amanti del genere che la seguono e a tutti coloro che sono incuriositi da una ventisettenne che con la sua voce riproduce alla perfezione una musica retrò, che riporta alla memoria i grandi padri della musica americana con il suo elegante country cashiano, il suo rock beatlesiano e rock’n’roll elvissiano. E una band che con riff orecchiabili e suoni anni ’60, swing, country un po’ old-faschion un po’ heavy rock ricrea un’atmosfera familiare, miscelando panormi a volte nostalgici e tristi, altre volte allegri, esplosivi, rendono ogni canzone senza tempo con estrema modernità e fascino.

e siete dei nostalgici della musica anni ’50-’60, di leggendarie icone rock come Elvis; se siete amanti delle ballate country vecchio stile e delle polverose schitarrate tipiche della musica d’oltre oceano, non potrete che innamorarvi di Eilen Jewell. Già Boundary county del 2006 e Letters from sinners and strangers del 2007 (deliziosi affreschi di suono americano dal gusto un po’ retrò) l’avevano resa un punto di riferimento nel mondo della musica country-rock statunitense degli ultimi anni.

S

Oggi l’artista originaria dell’Idaho e residente a Boston mette da parte violini, armonica, clarinetto e tutta quella strumentazione generalmente più rurale che caratterizzava il suo esordio in casa Signature Sounds per fare spazio al suo quartetto di musicisti che lavora con lei da quattro anni, e che con lei esaltano le radici blues e rock’n’ roll della musica americana. Le chitarre ficcanti e rigorosamente vintage di Jerry Miller evocano un mondo perduto all’alba della prima elettrificazione del rock‘n’ roll, quando sia la country music sia i bluesman si spostavano verso le città e scoprivano l’ebbrezza degli amplificatori. La sezione ritmica formata da Jason Beek alla batteria e Johnny Sciascia al contrabasso segue a ruota confezionando un nuovo disco, il terzo per la Jewell. In Sea of tears, in uscita dal 21 aprile 2009, Eilen trascina stancamente la sua voce sui miti di Billie Holliday, Emmilou Harris, Johnny Cash. Una dinamica combinazione di pop anni ’60, rock’n’ roll tradizionale, swing old fashion e country alla Johnny Cash riecheggia i lontani anni ’60, gli anni dei Beatles, dei Rolling Stones. Un’epoca in cui la musica era tutto. Una filosofia di vita. Il rock la colonna sonora della vita di qualsiasi persona, musicisti e non. Grazie a Sea of tears e alle composizioni della Jewell, l’immaginazione viaggia lontano. I testi toccano argomenti a volte anche tristi, raggiungendo persino il misterioso mondo della morte e della perdita. Una narrativa che fa del suo album un vero e pro“diario di prio blues”: impregnata di whiskey e malinconia tipica delle ballate country, incorniciate da ritmi

rock’n’roll e swing che quasi odorano dell’umido legno degli affollati saloon americani. Molta fantasia dunque è fondamentale per approcciarsi alle canzoni di Eilen. E sicuramente tanta passione per la vecchia musica. Quella che lei definisce “vera”a differenza della musica di oggi, commerciale, senza anima, senza futuro.

Sea of tears è una raccolta fuori moda, senza tempo, costruita con canzoni degne figlie del rock, della rivoluzione garage e della british invasion. Tutto ciò non perdendo quel sapore rustico dato dal traballare country di cover firmate Loretta Lynn, Johnny Kid and the Pirates e Them (The darkest day di Loretta Lynn, I’m Gonna Dress in Black, una perla della musica cantanta da Van Morrison quando era membro dei Them negli anni ’60 e una versione splendida dello standard inglese, Shakin’ oll over). Che l’atmosfera si sia fatta più flessuosa, elettrica, notturna lo si intuisce fin dall’inizio con Rain roll in, introduzione folk-rock dove

Dopo il successo di “Letters from sinners & strangers” del 2007, l’artista-fan dei sound vecchio stile realizza un album a metà tra Elvis Presley e Johnny Cash la passione Sixties è più che mai evidente. Tonalità sulle quali la band ricama riff di chitarra impastati nell’eco di quella stagione. La vetta è toccata proprio con Sea of tears, vibrante sfoggio dell’artista consolidato dal portamento soul di Fading memory e dalla lasciva ricca di swing Final hour, appiccicosa e attraente come poche. Qualche accento country noir più spiccato in Sweet rose e One od those days che fanno immaginare saloon affollati e tipici affreschi di vita americana di paese. Nowhere in no time è un altro passo verso la campagna mentre Cadeine arms abbassa le luci con una carezza. Se la critica musicale tenta sempre di dare un nome alla musica di un artista, inserirlo in una categoria e attribuirgli uno stile, questo non è

sempre possibile. Soprattutto per una musica come quelle della Jewell. I suoi tre album, come già detto, sono una sintesi omogenea di pop anni ’60, frasi jazzate, riff blues, ballate country da taverna, evocative e nostalgiche ballate che parlano d’amore.

Ma anche ritmi elvissiani che riportano il vero rock’n’roll in vita e fanno compiere viaggi mentali nel tempo. I miti di Eilen non sono tenuti segreti. La sua passione sono gli anni Sessanta, grandi pilastri della musica come Elvis, Johnny Cash, Emmylou Harris, Billie Holliday, e ancora gli Animals, i Kinks. E non vi è nulla nella musica che non li evochi momento per momento in ogni loro sfumatura. Dal 21 aprile, data dell’uscita di Sea of tears, Eilen gira gli States in lungo e in largo accompagnata da jerry Miller, Jhonny Sciascia e Jason Beek. La band ricrea negli stage in cui si esibisce un’atmosfera anni ’50-’60. Dal North Carolina al Vermount, da Boston alla California. Eilen Jewell non ha limiti geografici.

Nata e cresciuta in Idaho inizia a suonare il piano a soli sette anni e la chiatarra a tredici. Ascolta già Bob Dylan e Billie Holliday ancor prima di prendere uno strumento in mano e di raggiungere la consapevolezza che la musica stava scegliendo lei come compagna di viaggio. Frequenta il John College in Santa Fe ma mentre studia inizia già a esibirsi già nei bar e nei locali della città. Si trasferisce a Los Angelese e poi in Massacchussets nel 2003, dove inizia a comporre le sue prime canzoni e a lavorare al suo primo album Boundary county (2006), che contiene varie cover da Bob Dylan a Charlie Rich e è impreziosito dalla presenza di Alec Spiegleman al clarinetto e Daniel Kellar al banjo. Firma successivamente un contratto con la Signature Sounds Recors con cui registra il suo secondo album Letters from sinners and strangers (2007). La musica la porta a viaggiare e a farsi consocere. Ma Eilen deve vincere molte paure. Non ultima, quella grande paura di esibirsi e affrontare un pubblico. La soddisfazione della gente e l’amore che i suoi fan le mostrano la aiutano a vincere ogni timore e a darle energia e motivazione a esibirsi sempre più spesso e con maggior carisma e successo. Sebbene il suo sound vintage e tradizionale non sia ancora arrivato in Europa come meriterebbe, Eilen è oggi paragonata in America a grandi artiste come Lucinda Williams, Gillian Welch, Jolie Holland e the Be Good Tanyas. E Sea of tears rende certi che la fama di Eilen in Europa è solo una questione di tempo.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale

dal ”Washington Post” del 09/06/2009

Ora Obama difende la Cia di R. Jeffrey Smith ra l’amministrazione Obama difende la Cia. A proposito della divulgazione di documenti dell’era Bush, dei video tape che mostrano gli interrogatori di terroristi, avvenuti in luoghi di detenzione segreti, il governo ha affermato, davanti a un giudice federale, che la divulgazione di quel materiale potrebbe costituire un danno per la sicurezza nazionale. Oltre a diventare uno spot per il reclutamento di membri in al Qaeda.

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In una dichiarazione giurata, il direttore della Cia, Leon Panetta, ha difeso la classificazione segreta dei 92 documenti in questione, descrivendone i contenuti, la distruzione avvenuta a Langley nel 2005 di alcuni di questi, e il carattere di «informazioni operative sensibili» degli interrogatori. La divulgazione forzata di quelle informazioni, chiesta dall’American Civil liberty union (Aclu) «potrebbe causare dei gravi danni per la sicurezza nazionale, informando i nostri nemici su ciò che sapevamo su di loro e in alcuni casi di come abbiamo ottenuto le informazioni» ha contestato Panetta. Anche se la sua posizione è comunque in linea con quella precedente di divulgare notizie sui metodi usati dalla Cia durante l’amministrazione Bush. Rappresenta comunque una novità che l’Agenzia sia autorizzata a tenere segrete certe informazioni. Chi criticava l’ex presidente ha a lungo sperato che la divulgazione di questi dati potesse dimostrare la responsabilità personale di Bush nell’autorizzazione di azioni illegali e abusi. Solo il mese scorso, Obama aveva impedito la divulgazione – richiesta da organizzazioni no-profit – di foto sugli interrogatori fatti in prigioni militari. Panetta ha contestato il fatto che nessuno dei 65 do-

cumenti che la Aclu ha cercato di ottenere, tramite il Freedom of information act, dovrebbe essere reso pubblico. Il capo della Cia ha inoltre chiesto che un giudice federale tracci una tipologia legale distintiva fra i documenti rilasciati su istanza della Casa Bianca, poco tempo fa (quelli sui famosi interrogatori duri, tra cui il waterboarding, ndr) e i nuovi file. I distinguo di Panetta dicono che mentre i memoriali del Dipartimento della giustizia trattano dei metodi di interrogatorio «in astratto», per autorizzarne le tecniche e i limiti dell’utilizzo della forza, i documenti Cia sono dei verbali «di natura qualitativamente diversa», perché descrivono le tecniche come sono «realmente avvenute».

«La rivelazione di dettagli espliciti in specifici interrogatori» darebbe ad al Qaeda «mezzi di propaganda da utilizzare per il reclutamento e la raccolta di fondi». Il direttore dell’agenzia ha paragonato la pubblicazione di queste informazioni alla consegna al nemico «di munizioni già pronte all’uso». Durante una dichiarazione a porte chiuse. Jamel Jaffer presidente dell’Aclu si è detto dubbioso sulle affermazioni del presidente Obama, affermando che l’opinione pubblica ha diritto d’accesso a tutte le informazioni sulle azioni «illegali» o sugli «abusi» commessi. Il giudice federale ha comunque invitato la Cia a consegnare alcuni documenti in suo possesso, con tutte i dettagli che ha omesso, dopo aver rigettato le istanze di Langley. In totale sarebbero 580 i documenti richiesti dall’Aclu per il

2007. Tra il materiale descritto nella dichiarazione giurata di Panetta ci sarebbe anche la foto di Zayn al-Abidin Muhammed Hussein, meglio noto come Abu Zubaida, il primo detenuto considerato importante dall’agenzia. Sono stati consegnati anche tutti i rapporti legati alla distruzione dei video tape, con i pareri dei legali della Cia e tutte le email dove si chiedevano pareri sul valore degli interrogatori. Insomma un’agenzia passata sotto la lente.

E il direttore ha invocato la legge a tutela della privacy in caso di divulgazione dei nomi contenuti nelle dichiarazioni e nei documenti consegnati. Sottolineando che il motivo del suo intervento «non è spinto dal desiderio di evitare imbarazzo al governo o alla Cia, o per eliminare le prove di una condotta illegale». È solo il tentativo di evitare altri guai al Paese e proteggere ciò che per costituzione dovrebbe essere “segreto”.

L’IMMAGINE

Un provvedimento sparato a salve, un annuncio fatto e poi rimangiato Si potrebbe affiancare il Maestro degli Annunci a Mariastella Gelmini. Anonimo pittore l’uno, anonima ministra l’altra. Sono passati oltre tre mesi da quel 27 febbraio in cui il Consiglio dei ministri approvò i primi due regolamenti della riforma scolastica modello Gelmini. Da allora, il nulla. Della entrata in vigore, neanche un cenno. C’è il fondato sospetto che siano fermi alla Corte dei Conti per difetti di un certo rilievo di cui non è dato sapere alcunché. Visto che quei decreti riguardano il riordino del primo ciclo di istruzione e la razionalizzazione della rete scolastica (in una parola: i tagli) e danno copertura di legittimità ad una serie di amputazioni all’organico degli insegnanti, è chiaro a tutti che gli atti emanati nei mesi scorsi se non sono nulli, sono almeno a rischio ricorso. Un precedente recente è dato dalla circolare sulle iscrizioni che ha anticipato taluni aspetti specifici contenuti proprio nei regolamenti non ancora emanati. Un provvedimento sparato a salve, un annuncio fatto e poi rimangiato.

Maristella Curreli per i Comitati Insegnanti Precari

IL SINDACO ALEMANNO, UN FARO SULLA CITTÀ Una finale di calcio epica, Barcellona e Manchester al centro del mondo, o meglio nell’anfiteatro della città capitolina che un tempo dominava il globo: si temeva di tutto, dagli attentati alle risse, ma la gestione Alemanno ha retto più che bene, grazie al lavoro di prevenzione e di controllo che da tempo trova il sindaco proteso 24 ore su 24, come un faro sulla città. Immaginiamo cosa sarebbe successo in caso contrario e le accuse dell’opposizione che ne sarebbero conseguite, dal momento che l’unico programma della sinistra è il j’accuse. Non bisogna parlare solo degli eventi negativi, ma anche di quelli positivi, che dimostrano il buon go-

verno delle cose. Se si governa bene a livello locale, ne guadagna l’immagine del Paese intero. Pochi hanno rimarcato che sul tetto dell’Europa ci sta anche il campo di gioco, l’efficienza della sicurezza della nostra capitale, mai come adesso ottimale.

Bruno Russo

FRANCESCHINI FA RIMPIANGERE VELTRONI L’educazione rigida per quanto aspettata, rivendicata da un Franceschini con la bacchetta in mano, ha nel passato fatto paura a molti. Se poi per educazione ed esempi si intendono quelli paterni, a dare una risposta dovuta sono stati i figli del premier. A questo punto se la sinistra vuole rinnovarsi, dovrebbe richiedere le

Le Olimpiadi dell’aria Un ultimo volo di preparazione nei cieli d’Albania e anche questo parapendista sarà pronto per i World Air Games, i campionati mondiali dell’aria. I fuoriclasse di paracadutismo, deltaplano, parapendio e altre discipline aeree si sfideranno in esibizioni mozzafiato tra cui lanci da 600 metri d’altezza, acrobazie a suon di musica e atterraggi di precisione su piattaforme galleggianti

dimissioni di un leader che sta facendo rimpiangere Veltroni a molti, anche perché nelle uscite di quest’ultimo, almeno esisteva il tatto dell’interlocutore seppur arrabbiato e un poco più di cultura, morale e spirituale.

Gennaro Napoli

LA CHIESA SOSTIENE LA VITA DELLE FAMIGLIE Gli interventi della Santa Sede

non sono tanto di tipo economico o politico in senso stretto, né danno disturbo come tuona la sinistra. Essi vanno in direzione dell’interesse maggiore che la Chiesa ha: il sostegno alla vita delle famiglie. Ciò passa attraverso il lavoro e l’economia perché esse sono forze di pressione che pongono spesso in condizioni di tensione e di infelicità, che poi si rivolgono ed ormai è evidente,

contro se stessi e i propri cari. Il Papa ha spesso sottolineato la questione, invitando il governo e la politica in genere a non avere troppo in considerazione la valenza del denaro, ma l’induzione reale che esso esercita sul morale. Non so cosa di spirituale rimarrebbe se ciò non fosse presente come monito nella vita politica e sociale.

Salvatore Di Gennaro


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Spero che il suo tesoro fosse in cielo Ieri, mentre me ne stavo seduta alla finestra che guarda a nord, è entrato il funerale dentro al cancello aperto del cimitero; camminavano dietro ai resti della moglie del Giudice Dickinson che veniva accompagnata alla casa in cui sarebbe rimasta a lungo. Ha sopportato una lunga malattia, due o tre anni, senza un lamento. Si appoggiò in modo totale al braccio di Dio e lui non la abbandonò. Adesso se ne sta con i redenti, in cielo e con il Salvatore che lei, in rapporto alla capacità umana, ha amato così a lungo. In tutta sincerità, ti sono vicina, cara A. per la della tua amica. Anche se non l’ho mai vista, l’ho amata per quello che me ne hai detto e perché era amica tua. Sono vissuta nella speranza di incontrarla, una volta o l’altra, ma Dio ha voluto altrimenti e non la vedrò mai se non come spirito lassù. Non ricordo di averti mai sentita parlare delle sue opinini sulla religione ma spero che il suo tesoro fosse in cielo. Quale colpo per le speranze amorevoli dei suoi genitori e amici deve essere stata la sua morte prematura. Ho perso una sola amica più o meno della mia età e che la pensasse come me. Si chiamava Sophia Holland. Era troppo bella per il mondo e fu trapiantata dalla terra al cielo. Emily Dickinson a Abiah Root

IL MODELLO DELLE REGIONI ”ROSSE” CONTRO IL GOVERNO Il federalismo sta prendendo piede, almeno come ideale di autonomia. Capita così che le Regioni si scontrino con l’iniziativa del governo, rivendicando i loro spazi di competenza: è successo col “piano casa”, ammorbidito proprio ad opera degli enti locali e prima ancora ci sono state le prese di posizione del Piemonte e del Friuli sul caso Englaro. Ora pare il turno della Toscana, la cui giunta propone una legge denominata “Norme per l’accoglienza, l’integrazione partecipe e la tutela dei cittadini stranieri” che riconosce diritti sociali, civili, sanitari anche ai migranti non regolari. «In Toscana non faremo morire di fame nessuno, né per mancanza di cure o di un tetto», così si esprime il governo della Regione che parla di primato della persona e dell’uguaglianza come principio ispiratore. L’iniziativa tende all’integrazione, non nega il problema migratorio, proponendosi di tutelare l’intera cittadinanza facilitando la vita quotidiana e famigliare degli stranieri che vivono e lavorano regolarmente in Toscana. Lo spirito della legge tende a promuovere l’insegnamento dell’italiano e l’educazione civica, riserva un’attenzione particolare ai richiedenti asilo, ai minori, alle donne incinte, alle vittime di sfruttamento, ai detenuti.Tende a facilitare lo straniero nelle pratiche per il soggiorno, la cittadinanza e i servizi sociali. Gli oppositori politici attaccano dipingendo per la Toscana scenari da Bengodi della delinquenza, fomentando ancora paure e pregiudizi. Eppu-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)

ACCADDE OGGI

10 giugno 1940 Le forze tedesche guidate dal Generale Rommel raggiungono il Canale della Manica 1944 Seconda Guerra Mondiale: il principale bombardamento alleato su Trieste provoca 378 vittime 1947 La Saab produce la sua prima automobile 1956 XVI Olimpiade: a causa della quarantena sugli animali vigente in Australia, le gare di equitazione iniziano a Stoccolma 1967 Fine della Guerra dei Sei Giorni. 1968 A Roma l’Italia batte 2-0 la Jugoslavia e vince il suo primo (e finora unico) Campionato europeo di calcio 1977 James Earl Ray riesce ad evadere 1981 Alfredo Rampi, detto Alfredino, verso le ore 19:00 cade in un pozzo artesiano largo 30 cm e profondo 80 metri, nelle campagne della località di Vermicino 1987 Iniziano le operazioni di recupero del relitto del DC-9 esploso nei cieli di Ustica il 27 giugno 1980

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

re, la vicina Emilia-Romagna brilla per i risultati ottenuti nell’integrazione: Reggio Emilia è la terza città italiana per incidenza di popolazione immigrata ma può vantare servizi e mediatori interculturali presso ogni comunità straniera, iniziative di educazione alla multietnicità nelle scuole, centri informazione e salute con sportelli appositamente dedicati nelle Asl e negli uffici comunali. Lo stesso governatore Errani sottolinea come il modello di sviluppo dell’Emilia, rispetto ad esempio a quello del nord-est, ha visto un forte concorso dell’amministrazione pubblica, quindi della politica, capace di esprimere e sostenere idee e progetti che hanno inondato la regione di primati: lealtà fiscale da paese scandinavo, partecipazione alle elezioni oltre il 90%, indici di libertà economica tra i più alti, servizi per bambini, malati ed anziani di altissima qualità. In queste Regioni, mentre molti altri cianciano, si concretizza un futuro sempre a misura d’uomo, riuscendo, al contempo, a competere economicamente su standard eccellenti. Allora, mentre a Casoni di Romagna viene inaugurato il parco eolico più grande del Nord Italia, il Governo parla di nucleare e termovalorizzatori e mentre la Toscana, con la sua legge regionale, propone un esempio di come la politica, con un po’ di coraggio e impegno, possa affrontare i problemi senza “calare le brache” di fronte alle nuove sfide, la Lega, con le sue grossolane proposte, pare rappresentare più una sconfitta che un trionfo per la politica.

LE CONDIZIONI ECONOMICHE DEL MEZZOGIORNO D’ITALIA Le condizioni economiche tra il centro-nord e il Mezzogiorno restano sempre distanti. La Campania è la regione con il Pil procapite più basso (poco più di 13.700 euro per abitante nel 2008). A precederla, Calabria e Puglia (che non raggiungono i 14.000 euro per abitante) e la Sicilia che le supera di poco. Non meno preoccupante si presenta il quadro economico in Basilicata, che, a detta del rapporto di Banca d’Italia 2008, nei prossimi anni, se non si avverte un cambio di tendenza nella programmazione regionale, la situazione diventerà sempre più stagnante. Nel merito: il Potentino marcia ad una velocità di poco superiore rispetto al resto della regione. C’è un incremento del reddito prodotto dall’economia provinciale del 3,3% (dati 2008) a fronte di un andamento stazionario del 2007 (+1,0%). Il Materano, invece, viaggia col freno tirato, colpa soprattutto del bilancio fortemente negativo del polo salotto e dell’agricoltura (-9,3%), il cui apporto alla formazione del Pil è superiore di oltre 3 punti percentuali nella provincia di Matera, rispetto al resto della regione. A ridare respiro al Pil del Potentino ha contribuito la stazionarietà dell’attività industriale, che ha accusato un regresso rispetto all’anno precedente. Il Pil pro-capite, sempre nel Potentino, si è attestato a 18,6 mila euro nel 2008, il 72% circa del valore nazionale. Nella graduatoria delle 103 province italiane del Pil per abitante, Potenza occupa attualmente il 79esimo posto, dopo essere risalita al 78esimo nel 2007; in provincia di Matera siamo a quota 17,8 mila euro, circa il 4% in meno rispetto alla media regionale (la provincia è all’83esimo posto in Italia). Il dossier di Banca d’Italia rileva uno scarso dinamismo della base imprenditoriale nel Potentino. I tassi di natalità aziendale si attestano su valori storicamente bassi, accusando, inoltre, una lieve riduzione rispetto all’anno precedente (dal 6,5 al 6,3%). In aumento anche i tassi di mortalità (5,4%) dopo l’ impennata negativa registrata nel 2007. Nel Materano i tassi di mortalità aziendale sono passati dal 5,8 al 6,4%. Gli indici di natalità sono rimasti attestati al 6,9%. Secondo l’Istat gli occupati sono cresciuti dell’1,4% in linea con l’andamento medio nazionale e di un punto superiore rispetto alla media del Sud. L’incremento, però, ha interessato esclusivamente il lavoro dipendente (1,8 %) e, dato positivo, quello femminile. Gaetano Fierro C I R C O L I LI B E R A L BA S I L I C A T A

APPUNTAMENTI GIUGNO 2009 VENERDÌ 19, ROMA, ORE 11 PALAZZO FERRAJOLI - PIAZZA COLONNA Riunione nazionale dei Coordinatori Regionali e Provinciali e dei Presidenti Comunali dei Circoli liberal. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

Stefano Spillare

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma

Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1

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e di cronach

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30


PAGINAVENTIQUATTRO Eroi. A 60 anni dalla mitica Cuneo-Pinerolo

Un monumento italiano in fuga, di Paolo Ferretti a neve copre ancora il lago. Quest’anno ne è caduta in abbondanza e il sole di fine primavera ha appena cominciato a scioglierla. Le marmotte iniziano a uscire da un lunghissimo letargo solo ora. Spuntano da dietro i massi e corrono verso il confine. La Francia è poco distante. Dai 1996 metri del Colle della Maddalena, la raggiungi a piedi. Da Cuneo, la strada che sale su al passo, arrampicandosi lungo il versante italiano, si snoda all’interno della Valle Stura. Costeggia pendii coperti di alberi sradicati, trascinati in basso dalla forza delle valanghe che hanno colpito la zona negli ultimi mesi. Attraversa paesi di montagna, conosciuti più per un’acqua minerale e per aver dato i natali a Stefania Belmondo, che per un turismo invernale che non ha attecchito più di tanto da queste parti. Vinadio, Bersezio e Argentera sembrano rimasti fermi nel tempo. A sessant’anni fa, quando videro passare un gruppo di corridori che da Cuneo andavano verso Pinerolo, salendo su per la Maddalena, per il Vars e l’Izoard in Francia, per il Monginevro e il Sestriere una volta rientrati in Italia.

L

Era il 10 giugno del 1949, il giorno della diciassettesima tappa del 32°Giro d’Italia. Un Giro che di lì a poco, qualche chilometro dopo Argentera, ultimo agglomerato urbano prima del confine, sarebbe entrato nella storia, dando inizio alla leggenda dell’«uomo solo al comando». Lì, su un tornante che piega a destra, a poca distanza dal passo, Fausto Coppi diede il via a quella cavalcata solitaria di 192 chilometri che gli consentì di arrivare a Pinerolo con quasi dodici minuti di vantaggio su Bartali e di vincere il suo terzo Giro togliendo la maglia rosa a Leoni. Ma soprattutto, quell’azione, gli consentì di realizzare una delle più grandi imprese – per molti la più grande in assoluto – dell’intera storia del ciclismo, tenuto conto degli avversari del tempo – Bartali, Magni, Kubler, Koblet, tanto per citarne solo alcuni – e delle strade – sterrate, per la maggior parte – d’allora. Sessant’anni dopo, quel momento è stato ricordato. Sul muro che costeggia quel tornante, è stata scoperta una targa che rievoca l’attacco di Coppi. È stata inaugurata, poche settimane fa, nel giorno in cui il Giro ha riproposto la Cuneo-Pinerolo sia pure con un percorso completamente diverso, per problemi di viabilità. C’erano la figlia di Fausto, Marina, e uno dei protagonisti d’allora, Giancarlo Astrua. Ottantadue anni portati splendidamente, il 10 giugno del 1949 Astrua percorreva in bicicletta la stessa strada. Non c’era l’asfalto ma solo polvere e terriccio per di più bagnato dalla pioggia. Vide Coppi staccare tutti e sparire dietro i tornanti. In cima alla Maddalena passò terzo, a due minuti da Fau-

Il 1949 è l’anno in cui Fausto Coppi bissa la vittoria del Giro d’Italia con quella del Tour de France

FAUSTO COPPI sto. A Pinerolo arrivò sesto, a quasi venti minuti dal vincitore.

Un’inezia, considerando che l’ultimo tagliò il traguardo quando Coppi era già a cena in albergo. In quel Giro Astrua, piemontese di Graglia Biellese, risultò il migliore fra i giovani. Non avesse trovato davanti a sé quei mostri sacri, probabilmente in carriera avrebbe vinto molto di più. Si è dovuto, invece, accontentare delle briciole, magari da spartire insieme con Martini e Fornara. Ottimi corridori, relegati al ruolo di seconde linee, loro malgrado. Eppure, la soddisfazione di battere Coppi, almeno una volta e per di

ga, con le ferite della guerra ancora fresche. Un racconto che passa attraverso i titoli dei giornali d’allora, attraverso i resoconti dei grandi inviati del tempo, attraverso le testimonianze di chi, quella tappa, la pedalò da protagonista. Buzzati, Vergani, Fattori, Carlin, Nutrizio, Brera, Ambrosini esaltano e descrivono l’azione di Coppi e la resistenza di Bartali con pagine memorabili; Martini e Astrua, nel ruolo dei comprimari, Carrea, Milano e Corrieri in quello dei gregari fidati, ricordano, invece, la fatica di quel giorno, la partenza sotto la pioggia, le forature e gli incidenti meccanici, la paura e la tensione della vigilia unite al misterioso fascino dell’ignoto perché mai, prima d’allora, il Giro era passato su quella strada.

Una targa ricorda la fuga più importante della storia del ciclismo, quando il campionissimo fece una cavalcata solitaria di 192 chilometri arrivando poi al traguardo con quasi dodici minuti di vantaggio su Bartali, vincendo il suo terzo Giro più a cronometro, Astrua – terzo al Tour del’ 53 e quinto al Giro del ’54 - l’ ebbe. Successe a San Marino, nel Giro del 1951. Vinse la cronometro a suon di musica. L’ammiraglia della sua squadra, infatti, l’accompagnò diffondendo dall’altoparlante, lungo il percorso, la marcia dei bersaglieri grazie alla quale il corridore biellese riuscì a tenere alta la cadenza della pedalata.

L’aneddoto è raccontato nel libro CuneoPinerolo. «Il Giro sulle Alpi piemontesi a 60 anni dall’impresa di Coppi» (Edit Vallardi, 159 pagine, 25 euro) realizzato da Giuseppe Castelnovi con la collaborazione, tra gli altri, di Marco Pastonesi, Claudio Gregori e Gianni Romeo. Ricchissimo di fotografie, il volume ripercorre la storia di quel giorno del 1949 che, grazie all’impresa di Coppi, segnò la rinascita dello sport italiano, un mese dopo la scomparsa del Grande Torino a Super-

Fascino e mistero che non sarebbero stati più gli stessi, quindici anni dopo, quando Bitossi, nel 1964, su quello stesso percorso, partì all’inseguimento dell’ ombra di Coppi, andando a vincere dopo una fuga solitaria di 130 chilometri, nonostante il solito scompenso cardiaco in partenza e una crisi di fame sull’ultima salita. Fascino e mistero, completamente dimenticati, nel 1984, quando la volata vincente di Saronni, nonostante la scalata di cinque colli, fu il segno evidente di un ciclismo che non era più quello di trentatré anni prima. Anche il Giro che si è appena concluso, quello del centenario, avrebbe dovuto ripercorrere quella stessa frazione. Ma una frana sul versante francese della Maddalena, ha impedito il passaggio della carovana. Pinerolo che è a un tiro di schioppo da Cuneo, è stata raggiunta per vie alternative. E la tappa che avrebbe dovuto celebrare l’impresa di Coppi si è trasformata in qualcosa di profondamente diverso. E forse è stato meglio così. Perché il ciclismo del terzo millennio non ha nulla a che vedere con la leggenda.


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