2009_06_17

Page 1

90617

Se c’è qualcosa di peggio

di e h c a n cro

dell’indebolirsi dei grandi principi morali, è l’ irrigidirsi dei piccoli principi morali

9 771827 881004

Gilbert Keith Chesterton di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 17 GIUGNO 2009

“Caritas in veritate” verrà pubblicata a fine mese

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Il regime accetta di ricontare i voti, ma la tensione a Teheran resta altissima dopo gli omicidi della polizia e l’arresto del portavoce di Mousavi. E il mondo si domanda come andrà a finire…

È giallo sull’enciclica di Ratzinger: un forte attacco al capitalismo? di Vincenzo Faccioli Pintozzi a carità nella verità. Dopo la speranza salvifica e l’anima intrinsecamente caritatevole di Dio, sarà questo il tema e il titolo della terza enciclica di papa Benedetto XVI. Nella Caritas in veritate, infatti, il pontefice teologo affronta un testo economico-sociale che, da tempo in gestazione, dovrebbe contenere un attacco al capitalismo o quanto meno alle sue forme più spregiudicate. Il testo, dicono fonti informate, sarà firmato dal Papa il 29 giugno - festività dei ss. Pietro e Paolo - e diffuso all’inizio dell’estate. Quello che aggiungono coloro che si dicono a conoscenza della stesura aumenta la curiosità che sempre accompagna - fra cattolici e osservatori - la pubblicazione di un’enciclica.

L

Può vincere quest’uomo?

alle alle pagine pagine 2, 2, 3, 3, 44 ee 55

se gu e a p ag in a 12

Meglio non allontanarsi dalla “Centesimus Annus”

Cresce il livello di incertezza

La protesta arriva fino a Roma

L’avanzata di Bossi oltre la Padania

di Francesco Pacifico

di Franco Insardà

di Francesco D’Onofrio

di Michael Novak

ROMA. Per uscire dalla crisi econo-

li osservatori attendono febbrilmente la nuova “enciclica economica” di Benedetto XVI. Una simile attesa ricorda quella di quasi 20 anni fa, alla vigilia dell’uscita della molto pubblicizzata Centesimus Annus di Giovanni Paolo II. Anche allora, l’alveare della sinistra europea era dominato da un generale fermento, e si lasciava andare a fantasticherie sul fatto che il Papa si sarebbe collocato alla sinistra di Brandt e di tutti gli altri maggiori esponenti della sinistra europea. Wojtyla diede le istruzioni più a sostegno dell’iniziativa individuale e della persona umana di quanto mai fatto sino ad allora: «La principale ragione della ricchezza delle nazioni è la conoscenza, l’ingegno e le abilità».

mica «è essenziale ristabilire valori spirituali e morali, completamente assenti dalle determinazioni di soggetti finanziari ed economici», ha detto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Ma per non prolungare gli effetti della congiuntura, ha aggiunto più prosaicamente il governatore Mario Draghi, serve «considerare una strategia di uscita»: abbandonare «le politiche monetarie marcatamente espansionistiche», con le quali si è «fatto fronte all’emergenza». E che hanno fatto schizzare i debiti delle potenze occidentali.

ROMA. Erano più di mille quelli giunti dall’Abruzzo per la manifestazione a piazza Montecitorio e con loro i sindaci del cratere e il presidente della provincia. Tutti a chiedere che il decreto in votazione alla Camera prevedesse il rimborso anche per le seconde case e la gestione fosse affidata agli enti locali. Il sindaco de L’Aquila, Massimo Cialente, al termine di un incontro con Gianfranco Fini, non ha nascosto l’amarezza proprio per l’approvazione dell’articolo che non prevede le seconde case: «In questo momento ci sentiamo umiliati e traditi dal governo».

e elezioni Europee hanno registrato un significativo successo non solo elettorale della Lega Nord in regioni non tecnicamente e politicamente definibili come parti della “Padania”. Si tratta di un fenomeno di grande rilievo perché attiene ad una questione molto rilevante che concerne proprio l’affermazione ripetuta di identificazione della Lega Nord con la “Padania”. È dunque necessario cercare di capire cosa significa questo andar oltre la “Padania” da parte della Lega Nord.

se gu e a p ag in a 6

a p a gi na 7

s eg u e a pa gi n a 1 0

Lo strano caso Crisi, la sferzata Mille in piazza Cambia tutto di Herr Bockenforde, se la Lega di Draghi per il decreto erede di Marx Abruzzo diventa “italiana” e Napolitano e consigliere del Papa

G

L

se gu e a p ag in a 1 4

seg1,00 ue a (10,00 pagina 9CON EURO

I QUADERNI)

• ANNO XIV •

NUMERO

118 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


prima pagina

pagina 2 • 17 giugno 2009

Iran. Soli contro tutti, i rivoluzionari (che comunicano con Twitter) contano sulla stanchezza di tutto il popolo iraniano

Ipotesi su una rivoluzione C’era un patto tra Khamenei e Mousavi per introdurre maggiori libertà. Ma i mullah hanno bloccato tutto e falsato il voto. Ora può finire così... di Michael Ledeen er cominciare, la Bbc, a lungo considerata un megafono del regime dalla gran parte dei dissidenti iraniani, ritiene che un numero tra uno e due milioni di cittadini di Teheran abbiano manifestato contro il regime lunedì. Una numero considerevole. Possiamo quindi affermare che, almeno per il momento, le strade di Teheran siano invase da una folla di rivoluzionari. Abbiamo notizie di fenomeni analoghi anche a Tabriz e Isfahan,

P

sere nei guai (ed effettivamente non lo è). Probabilmente crede che, se condannasse la violenza e nonostante ciò il regime vincesse, diminuirebbe le sue possibilità di ottenere quel Grand Bargain che desidera con tanta avidità. Qualcuno potrebbe ricordargli che Ronald Reagan è stato inflessibile nelle sue critiche all’Unione Sovietica (“l’Impero del Male”), ma nonostante ciò senza venir meno ai patti, tra cui ricordiamo un disarmo di grandi proporzioni. Sarebbe

Gli iraniani sanno di essere isolati; non avranno alcun aiuto da noi, né tantomeno dalle Nazioni Unite o dagli europei. Ma, paradossalmente, questa mancanza di sostegno potrebbe sortire l’effetto di rafforzare la loro volontà. Che Dio li aiuti quindi la rivolta è nazionale. Da parte sua, il regime ha ordinato ai suoi sgherri (i Basij e alcuni Hezbollah espatriati) di aprire il fuoco sui manifestanti. Il Guardian, che vanta buoni reportage dall’Iran (mi dicono che negli ultimi dieci anni tre suoi corrispondenti sono stati espulsi dal Paese), sostiene che lunedì circa una dozzina di manifestanti sono stati uccisi. E le notizie delle brutali aggressioni subite in diverse città dagli studenti nei loro dormitori sono terrificanti, anche per lo standard degli ayatollah. I governi dei Paesi occidentali hanno espresso il loro sconcerto davanti a tanta violenza e Obama, col suo tipico stile narcisistico, si è detto «profondamente turbato», aggiungendo che la libertà di parola e così via sono valori universali che meritano di essere rispettati dai mullah. Avrei preferito una netta condanna che avesse sottolineato l’infamia dell’uccisione di manifestanti pacifici, ma almeno il presidente ha detto qualcosa. Probabilmente non crede di es-

meglio che affermasse i valori americani, sia perché è il nostro presidente (e quindi tenuto a parlare per tutti noi), sia perché far appello alla tenera sensibilità degli assassini di Teheran non sortirà alcuni risultato, se non quello di accrescere ulteriormente il loro disprezzo. Cosa succederà, ci si chiede? Questo non lo sa nessuno, neanche gli attori principali. Il regime ha dalla sua le armi, l’opposizione i numeri. La domanda è quindi se questi numeri possano essere organizzati in una forza disciplinata in grado di provocare la caduta del regime. Sì, so benissimo che sono annunciate state nuove elezioni, o un ballottaggio tra Mousavi e Ahmadinejad. Ma dubito che ciò accadrà: le decine di milioni di iraniani che rischiano la propria vita per opporsi a al regime, con ogni probabilità non si accontenteranno di un semplice ricambio. Inoltre i mullah sanno che, se dovessero perdere, la maggior parte di loro dovrà affrontare un breve e sgradevole futuro. Se questa forza

Ritratto della “Michelle Obama” della repubblica islamica

Ma la vera mente è sua moglie Zahra

ahra Rahnavard non è solo la moglie di Mir-Hossein Mousavi, ma la sua arma migliore. La prima vera First lady - comunque vadano le cose - dell’Iran dai tempi di Farah Diba. Cinquantotto anni, gli occhi poco truccati sotto il chador nero che copre solo i capelli, in campagna elettorale ha stupito tutti: prendendo la parola ai comizi del marito, lasciando intravedere il foulard firmato sotto il chador nero, mostrandosi mano nella mano con il marito, criticando le operazioni di polizia contro le ragazze“malvelate”.Tanto che il suo stile totalmente inedito l’ha già fatta ribattezzare dalla stampa riformista come la Michelle Obama della Repubblica islamica». Ma al di là delle etichette è indiscutibile la ventata di novità portata da questa donna con un dottorato in Scienze politiche, scultrice e già consigliera del presidente riformista Mohammad Khatami. E molti dei giovani, ovviamente tutte le donne, che oggi manifestano contro la rielezione del presidente Ahmadinejad non nascondono di aver scelto Mousavi perché affascinati dalla personalità della moglie.La sua, nonostante il corpo sia sempre coperto, è percepita come un’immagine agli antipodi rispetto alla consorte di Ahmadinejad, di cui a malapena di riescono a intravedere gli occhiali. Ma anche Khatami, che tanti entusiasmi aveva suscitato con le sue promesse di riforme, non aveva mai lasciato uno spazio simile a sua moglie. Zahra Rahnavard è passata dalla minigonna al velo quando, ventenne, incrociò uno degli ideologi della rivoluzione, il filosofo Ali Shariati. Oggi è soprattutto la moglie di Mousavi, ma negli anni Settanta era lei la più famosa tra i due. Se l’architetto ex premier è riuscito a riaccendere le speranze del popolo riformista orfano del presidente Khatami, non è per le sue promesse, ma per questa moglie straordinaria tanto per quel che pensa l’Occidente di una donna col chador, quanto a confronto con altre figure pubbliche dell’universo musulmano. «Io e Mousavi abbiamo le stesse idee sui diritti delle donne mette subito in chiaro -. Altrimenti non saremmo andati avanti per 40 anni di matrimonio ». Indipendente, provocatoria, un ego decisamente solido, per otto anni è stata rettore dell’Università femminile Al Zahra di Teheran, dove ha invitato a parlare - per prima - Shirin Ebadi, premio Nobel per la pace.

Z

disciplinata riesce a realizzarsi, il regime cadrà. In caso contrario sopravviverà. Ora, Mousavi è in grado di guidarla? Se qualcuno avesse detto, anche solo qualche giorno fa, che egli sarebbe stato alla testa di un movimento rivoluzionario nazio-

nale, lui stesso ne avrebbe riso. Pochissimi hanno previsto una situazione come questa, anche se rivendico di aver previsto che nessuna delle parti avrebbe accettato il verdetto ufficiale. Mousavi desidera davvero cambiare il sistema? Credo di sì e,

in ogni caso, credo che questa sia una domanda sbagliata. Non è un leader rivoluzionario, ma uno reso tale dal movimento natogli attorno. La vera rivoluzionaria è sua moglie Zahra Rahnavard.

E la vera domanda, la domanda chiave è: come mai il leader Supremo Ali Khamenei le ha permesso di divenire una figura così carismatica? Come ha potuto commettere un errore di tale portata? Eppure era evidente che l’esistenza di una donna simile era una minaccia diretta al cuore nero della Repubblica islamica, basata sulla rivoltante misoginia del suo fondatore, l’ayatollah Khomeini. Mesi fa mi è stato riferito che Khamenei e Mousavi avevano stretto un patto. Mousavi avrebbe corso per le elezioni, vinto, e lentamente introdotto maggiori libertà. Sul momento non ho dato credito a questa notzia, ma poi mi è sembrata sempre più plausibile. Quando Mousavi è stato chiamato durante la notte delle elezioni dal Ministero dell’ Interno, ciò faceva parte dell’accordo. Ma i mullah avevano già intravisto la loro fine, e hanno quindi utilizzato le armi a loro disposizione: menzogne e violenza. Alcuni hanno domandato perché mai Khamenei abbia delle cifre così evidentemente falsate per rieleggere Ahmadinejad, ma ciò denota scarsa conoscenza dei mullah, dal momento che per loro nessuna menzogna è sproporzionatamente grande. No, la vera domanda è perché mai sia stata data tanta libertà di azione a Zahara Rahnavard, e la vera risposta è che i mullah, Khamenei in testa, hanno commesso un errore madornale. Qualunque cosa accada, tutto ciò è irrilevante. L’unica cosa che conta è vincere o perdere. Qualunque sia stato il piano di Mousavi per trasformare gradualmente la Repubblica islamica, gli eventi sono stati più veloci, e adesso la questione è la sopravvivenza del sistema. Mousavi ha annunciato uno sciopero generale. Questa strategia è giusta, dal momento che deve dimostrare che la stragrande maggioranza degli iraniani desidera la fine del regime. Inoltre, i dissidenti devono dimostrare di non aver paura degli sgherri del governo. Mousavi ha affermato che useranno fiori e non fucili, poi-


prima pagina

17 giugno 2009 • pagina 3

Sarkozy: «Ci sono stati brogli pari all’intensità delle violenze»

Teheran, una fonte degli Interni: «Ahmadinejad ha preso solo il 12%» di Pierre Chiartano entre Sarkozy parla apertamente di brogli e c’è chi denuncia un «colpo di Stato». La piazza del riconfermato presidente scende in campo e i giornalisti stranieri vengono invece fatti uscire, confinati nei loro uffici di corrispondenza. L’Iran è diventato un mosaico privo di molte tessere, nonostante il web tenti di evitare la censura. Alle accuse di brogli di Mirhossein Mousavi, candidato riformista arrivato secondo, ieri si sarebbero aggiunti anche i numeri della truffa elettorale. Ciò spiega perché le dichiarazioni del Consiglio dei Guardiani per il riconteggio dei voti, non hanno convinto chi protesta nelle piazze.

M

L’elezione di Ahmadinejad è «un colpo di Stato» e la comunità internazionale «non deve riconoscere la sua legittimità». L’autrice del best seller Persepolis, Marjane Satrapi, ha chiesto ieri aiuto ai deputati Ue portando le prove di quello che ha definito «un golpe». Assieme al regista Mohsen Makhmalbaf, ha mostrato alla platea un documento del ministero dell’Interno iraniano che contiene il conteggio dei voti. Ad Ahmadinejad sarebbero andati 5.698.000 voti, mentre a Moussavi 19.075.723. «Con il 12 per cento dei voti, non il 62 per cento, come dicono i riché desidera annientare gli assassini armati, e non certo vincere una scontro a fuoco. Alcuni giornalisti riferiscono di membri della Guardia Rivoluzionaria che hanno disertato per unirsi ai dissidenti. Inoltre, una notizia riportata su un sito web iraniano afferma che 16 veterani delle Guardie Rivoluzionarie sono stati arrestati. È vero ed è molto importante, ma il regime ha a lungo diffidato di loro. I giovani rivoluzionari di fine anni Settanta adesso sono uomini di mezza età che non desiderano massacrare il loro

sultati ufficiali - ha aggiunto Satrapi riconoscere la legittimità di Ahmadinejad significherebbe ignorare il popolo iraniano». Mousavi ha invitato i suoi sostenitori a non andare alla manifestazione che era stata organizzata ieri. Per evitare che venisse in contatto con l’iniziativa pro Ahmadinejad, prevista nello stesso luogo, due ore prima. Anche se molte migliaia di sostenitori del candidato moderato, sono stati segnalati, nel pomeriggio, sul viale Vali Asr, davanti alla sede della tv di Stato, nel nord di Teheran. Il consiglio dei guardiani della rivoluzione pur ammettendo la possibilità di un riconteggio ha però respinto la richiesta dei riformisti di annullare il voto. La tv satellitare al Arabya riporta la dichiarazione del portavoce del massimo organo legislativo iraniano, Abbas Ali Kakodai che ha affermato: «in base alle leggi in vigore, la domanda dei candidati di annullare il voto non può essere presa in considerazione». Così ieri, mentre Ahamdinejad stringeva mani in Russia al vertice di Ekaterinenburg, c’è stata la reazione della piazza dei suoi supporter. Mentre le autorità iraniane decidevano di con-

prossimo. Ecco perché i mullah hanno dovuto importare assassini dall’estero (i circa 5mila Hezbollah, che, secondo Der Spiegel, sono stati introdotti nel paese da Libano e dalla Siria).

I dissidenti ci informano via Twitter di scontri con forze dell’ordine che non parlano farsi, e addirittura si vocifera di alcuni criminali inviati da Chavez. Nessuno può saperlo con certezza. L’altra grande minaccia al regime proviene dagli strati più alti del clero. Non è il caso di sorprendersi davanti alla de-

finare nei loro uffici i corrispondenti della stampa estera, vietando loro di «partecipare o coprire le manifestazioni che si tengono senza l’autorizzazione del ministero dell’Interno». Una fonte governativa ha detto alla France Presse che il provvedimento sarebbe diretto a garantire la sicurezza dei media stranieri, sottintendendo che la repressione potrebbe diventare ancora piu’dura. Intanto qualche speranza per rompere la morsa della censura arriva dalla rete. Dopo le informazioni arrivate grazie ai forum su Facebook e il suo oscuramento, il testimone sembra passato ai messaggeri di Twitter. Il servizio di microblogging Twitter – a cui è affidato il racconto delle proteste in Iran – ha rinviato la manutenzione programmata dopo le proteste della rete. Intanto la morsa del regime si stringe attorno all’opposizione. Prima dell’alba, ieri, sono stati portati via dalle loro abitazioni due noti esponenti riformisti, Saeed Hajjarian e Mohammad Ali Abtahi, considerati molto vicini all’ex presidente Mohammad Khatami. Dal fine settimana sono state arrestate in Iran quasi duecento persone, tra le quali va-

Marjane Satrapi ha chiesto ieri aiuto ai deputati Ue, portando le prove di quello che ha definito «un golpe»

nunce al regime espresse da alcuni anziani ayatollah: molti in passato si sono comportati allo stesso modo. Il processo è comunque agli inizi. Ma l’elemento chiave sono le persone. Stanno cominciando solo ora a comprendere la realtà della loro situazione. Quasi nessuno di loro avrebbe immaginato uno scontro con il regime appena due giorni dopo le elezioni , e pochi di loro si rendono conto di avere la possibilità di cambiare il mondo. Credo che con Mousavi ora comprendano tutto ciò (ovvero, sanno che o vin-

rie figure politiche, intellettuali, giornalisti di ispirazione riformista. Alcuni, come Mohammad Reza Khatami, fratello dell’ex presidente iraniano, sono stati successivamente rimessi in liberta. Altri rimangono in prigione, accusati di aver fomentato le proteste. Il presidente iraniano in carica, intanto, al vertice russo del gruppo di Shanghai, ha ostentatamente ignorato la crisi post-elettorale ed è tornato ad attaccare gli Usa, sostenendo che «l’epoca degli imperi è finita».

Forte la presa di posizione di Nicolas Sarkozy, che ha detto ieri che «l’ampiezza dei brogli» compiuti durante le elezioni è «proporzionale alla violenza della reazione» durante le manifestazioni, che hanno visto la morte di sette civili. Intanto Obama «turbato» ha chiamato un altro esperto per l’Iran. Dennis Ross, consigliere di politica mediorientale, vede ampliati i suoi poteri. Come ha scritto ieri il Washington Post, Ross lascia il dipartimento di Stato, dove è responsabile per il Golfo Persico e l’Asia sudorientale, per la Casa Bianca, dove si occuperà sempre più del dossier Iran. Il quotidiano il Riformista e Radio Radicale hanno invitato tutti a partecipare alla manifestazione «Per l’Iran» che si terrà oggi alle 18.30 a Roma in piazza Farnese.

ceranno, o saranno annientati). Resta da vedere se saranno in grado di istruire e dare ispirazione al movimento. Molto dipende dalla loro capacità di comunicare. Il regime ha condotto una guerra telematica contro i dissidenti chiudendo i siti web, Facebook e controllando i cellulari. Come molti sanno, lo strumento di comunicazione principale è Twitter, che in qualche modo continua a funzionare. E il caso di lodare Twitter per aver posticipato la manutenzione, permettendo così agli iraniani di continuare

a utilizzarlo. Avrei voluto che Google fosse stato altrettanto devoto alla causa della libertà. Non sappiamo chi vincerà. Gli iraniani sanno di essere soli; non otterranno alcuna forma di aiuto da noi, nè tantomeno dalle Nazioni Unite o dagli Europei. Ma, paradossalmente, questa mancanza di sostegno potrebbe sortire l’effetto di rafforzare la loro volontà. All’orizzonte non si scorgono mezzi corazzati. Se vinceranno, loro e i loro improbabili leader dovranno andare avanti da soli. Che Dio li aiuti.


prima pagina

pagina 4 • 17 giugno 2009

Polemiche. La più celebre dissidente islamica legge gli avvenimenti di Teheran alla luce del discorso di Obama al Cairo

L’errore della Casa Bianca Non esiste un estremismo teologico o ideologico distinto dall’islamismo: i cosiddetti moderati potranno vincere solo conquistando la nostra “libertà” di Ayan Hirsi Ali on è stato un pesce d’aprile. Quando Barack Obama ha incontrato la Regina Elisabetta a Buckingham Palace, le ha regalato un iPod. Al suo arrivo in Medioriente mi aspettavo che il presidente si presentasse carico di Kindle (il lettore di libri in formato digitale commercializzato da Amazon, ndr). Nell’incontro con il Re saudita Abdullah, Obama avrebbe potuto iniziare con una speciale selezione di testi. Il giorno seguente, quando il Presidente si è rivolto al mondo musulmano presso l’università di al-Azhar, ho immaginato il Presidente estrarre un altro Kindle come dono per Muhammed Sayyid Tantawy, il gran sceicco dell’università. Obama avrebbe potuto riservare un terzo Kindle per l’ambasciatore iraniano in Egitto (in quanto rappresentante dell’ayatollah, la suprema autorità per i musulmani sciiti), presente anch’egli al discorso del Presidente.

N

Al contrario del Commonwealth, la Umma, o comunità musulmana, non ha né un leader simbolico, né tantomeno un leader formale. Il sovrano saudita; il gran sceicco dell’università al-Azhar (il più grande e, agli occhi di molti studiosi musulmani, più prestigioso centro culturale del mondo islamico); e la leadership della Repubblica Islamica dell’Iran rivendicano in ugual misura il ruolo di veri rappresentanti del cuore e dell’anima della Umma. Non c’è differenza più grande di quella che oppone gli ideali fondativi americani a quelli islamici. Essi racchiudono delle differenze. Il sovrano è il protettore del sacro santuario dell’islam ed un leader politico. Il gran sceicco non esercita formalmente alcun potere politico, ma non costituisce un’esagerazione affermare che l’istituzione che egli rappresenta è una delle più autorevoli del mondo musulmano. E l’Iran non rivendica solamente un potere spirituale, ma persegue un dominio militare e politico, come dimostrano gli ultimi, tragici, eventi a Teheran. Il problema di chi dialoga con l’Islam rappresenta forse l’incubo peggiore per la diplomazia statunitense; e ciò non genera particolari espressioni d’encomio da parte di quanti hanno abilmente for-

giato le direttrici della politica estera a stelle e strisce. Simili aspetti infiammano il dibattito su un rapporto - quello tra Islam ed Occidente – ben più problematico di quanto gli estensori dei discorsi del presidente possano immaginare.

Come altri suoi predecessori alla Casa Bianca, Obama ha denunciato l’estremismo islamico senza associare l’islam con l’estremismo. Egli ha dichiarato con forza che l’America non è in guerra con l’islam e mai lo sarà; e ha infine invitato il mondo musulmano ad unire le forze con gli Stati Uniti per combattere l’estremismo con le unghie e con i denti. In ogni caso, l’estremismo islamico può essere letto in due modi. La prima interpretazione affonda le proprie radici nelle implicazioni per la politica estera statunitense: in altre parole, nel suo significato espansionista o jihadista. Stando alle promesse del presidente, gli attacchi in stile al Qaeda

condotti sul suolo statunitensi, tanto contro civili quanto contro interessi statunitensi produrranno una controffensiva quantomai decisa. Questa è sicuramente una posizione facile da prendere poiché quella statunitense è una posizione di autodifesa. Non è l’America ad essere in guerra con l’Islam; è l’Islam che ha dichiarato guerra all’America. La seconda interpretazione del termine “estremismo”, più volte utilizzato dal presidente, è un eufemismo dell’applicazione della legge islamica, o sharia, nei paesi musulmani. In tal modo, il presidente coltiva evidentemente la speranza di controbattere guadagnandosi così l’appoggio del mondo musulmano. Il corteggiamento iniziato con il suo discorso era infarcito di falsi elogi («...È stata l’innovazione nelle comunità islamiche a favorire lo sviluppo... della scrittura e della stampa»), finti principi comuni e ridicole promesse al fine di mettere a tacere gli stereotipi ne-

gativi sull’Islam in qualsiasi luogo essi si manifestino. Tutto ciò fa parte della retorica politica, ma non basta a determinare un’effettiva inversione di rotta. Quella di Obama è a mio parere la strategia sbagliata. Invece di fingere di credere che i musulmani abbiano inventato la stampa, il presidente dovrebbe porre di fronte agli occhi del mondo musulmano le principali conquiste della stampa occidentale. Ed in tal senso i Kindle potrebbero rivelarsi utili.

Ho provato ad immaginare Obama nell’atto di offrire al re, allo sceicco ed all’ayatollah un Kindle ciascuno che includesse al suo interno le motivazioni sollevate da Abraham Lincoln contro la schiavitù ed a favore dell’uguaglianza. Obama ha ricordato al mondo musulmano che «gli individui di colore in America hanno sofferto la frusta in quanto schiavi e l’umiliazione della segregazione. Ma non è stata la violenza a farci guadagnare la piena eguaglianza dei diritti; bensì una pacifica e determinata ostinazione nel rivendicare gli ideali che hanno costituito i pilastri fondativi degli Stati Uniti». In nessun altro luogo al mondo il fanatismo imperversa come nei paesi musulmani. Non c’è differenza più grande di quella tra i principi americani ed islamici per ciò che concerne i rispettivi ideali fondativi. Ed

è proprio sulla base di quegli ideali fondativi dell’Islam che al Qaeda ed altri esponenti del puritanesimo musulmano rivendicano l’applicazione integrale della sharia, della jihad e l’eterna sottomissione della donna. È proprio sulla base di quegli ideali fondativi degli Stati Uniti che i neri e le donne hanno combattuto – e hanno ottenuto – uguali diritti; e gli omosessuali ed i nuovi immigrati continuano a fare altrettanto. Aggiungerei le migliorie apportate da Thomas Jefferson al Nuovo Testamento. Il sovrano, lo sceicco e l’ayatollah hanno l’autorità di imporre l’osservanza di quei precetti coranici che non trovano ormai riscontro alcuno nel mondo moderno. Ad esempio, i decreti della legge islamica che rifiutano la ricerca scientifica ed impongono a tutti i musulmani di diffondere il messaggio dell’Islam. E naturalmente nessuna selezione di brani potrebbe dirsi completa senza una copia della Costituzione statunitense, evidenziando in special modo (cosa che un Kindle si può comodamente fare) quell’Ottavo Emendamento che vieta di fare ricorso a pene crudeli ed inusitate. Dulcis in fundo aggiungerei anche il discorso di insediamento di John F. Kennedy: «Che ogni nazione sappia, quantunque questa ci auguri ogni fortuna o ogni vessazione, che noi pagheremo ogni prezzo, sopporteremo ogni fardello, affronteremo ogni difficoltà, sosterremo ogni amico, combatteremo ogni nemico per assicurare la sopravvivenza ed il trionfo della libertà... A coloro che nelle capanne e nei villaggi di metà del mondo lottano per infrangere le catene di una diffusa miseria, promettiamo i nostri sforzi migliori per aiutarli a provvedere a se stessi, per tutto il tempo che sarà necessario... A quelle nazioni che


prima pagina

17 giugno 2009 • pagina 5

È da trent’anni che sbagliamo lettura sulle dinamiche del potere iraniano

Media e politica, tutti nella trappola di John R. Bolton a “democrazia” dell’Iran sotto la Rivoluzione Islamica del 1979 è una cosa meravigliosa, come hanno testimoniato le elezioni presidenziali del 12 giugno e le proteste che sono seguite. In primo luogo, potevano presentarsi solo i candidati vagliati e approvati dai mullah nel Consiglio dei Guardiani, in questo caso esattamente quattro candidati presidenziali su circa 500 che si erano iscritti. In secondo luogo, la carica più alta in Iran non è il presidente, piuttosto il leader supremo, attualmente l’Ayatollah Ali Khamenei. Terzo, i funzionari delle elezioni dell’Iran non sono indipendenti ma sono rigorosamente controllati dal leader supremo. Quarto, il corpo delle guardie islamiche rivoluzionarie e le altre forze di sicurezza sono sempre pronte, disponibili e in grado di preservare la sicurezza pubblica se il candidato “sbagliato” dovesse vincere o protestare per la sconfitta. E quinto, chiunque avesse vinto non avrebbe potuto cambiare i venti anni di campagna dell’Iran per acquistare armi nucleari né il suo ruolo come banchiere centrale per il terrorismo internazionale. Il leader supremo e l’Irgc controlla la politica nazionale ed estera dell’Iran, sia sotto presidenti “riformisti” come Seyed Mohammad Khatami (19972005) che sotto il presidente in carica “Mahmoud Ahmadinejad.

L

Obama ha promesso la creazione di un fondo al fine di sostenere lo sviluppo tecnologico nei paesi a maggioranza musulmana, per trasferire nuove idee in quei mercati e creare nuove occasioni d’impiego. Ma si rende egli conto del fatto che il trasferimento di idee potrebbe creare al Comitato per l’imposizione della virtù e l’interdizione del vizio in Arabia Saudita nuove opportunità per punire quelle idee giudicate non conformi ai precetti dell’Islam? In Arabia Saudita, quanto più scura è la pelle di un individuo, tanto più deprimenti sono le circostanze che ne hanno determinato il colore; per non parlare di quando l’individuo in questione è una donna. Poiché in Arabia Saudita, il nero è ancora ritenuto inferiore. Gli uomini e le donne condannati per adulterio, apostasia, tradimento ed altri “reati”vengono decapitati. Migliaia di donne marciscono nelle carceri saudite, in attesa di essere fustigate, o vengono fustigate quotidianamente per atti quali mescolarsi

Sarebbe stato più semplice se gli outsider da questa frana avessero compreso il dibattito tra il regime dei moderati e i fautori della linea dura in questo modo: i sostenitori della linea dura come Ahmadinejad vogliono continuare con i programmi di armamenti nucleari e missilistici dell’Iran e si vantano di voler «spazzare via Israele». Al contrario, i moderati vogliono continuare con i programmi di armamenti nucleari e missilistici dell’Iran ma rimangono in silenzio. Attenzione a non commettere errori, come hanno dimostrato le proteste post-elettorali: c’è un’enorme opposizione alla struttura di governo esistente in Iran, e in verità a tutta la rivoluzione islamica del 1979. I giovani (circa il 70% della popolazione) sono consapevoli che potrebbero avere una vita diversa se fossero liberati dalla severa regola clericale. I risentimenti economici sono numerosissimi, dopo trent’anni di cattiva amministrazione economica da parte dei teologi. Si sta diffondendo un malcontento etnico (solo il 50% della popolazione è persiana). Tuttavia, dare effetto a questo malcontento non è mai stato nelle carte nelle elezioni del 12 giugno, che avrebbero dovuto sostenere la Rivoluzione Islamica, non svenderla. Gli osservatori stranieri, compreso Obama, hanno combinato il malcontento nazionale con il processo di brogli elettorali e hanno semplicemente frainteso quello che stava realmente accadendo. Questo grave malinteso della realtà politica nell’Iran, inutile a dirsi, non promette bene per l’intera politica americana nei confronti delle minacce nucleari e terroristiche rappresentate dall’Iran. Infatti, con un attento sostegno dall’esterno, lo scandalo post-elettorale in Iran, col tempo, potrebbe crescere abbastanza per rovesciare la rivoluzione islamica del 1979 e sostituirla con un sistema di governo rappresentativo. Il risultato più positivo potrebbe venire da quello che lo sconfitto Mousavi ha chiamato «il tranello pericoloso» ovvero che gli iraniani – gli “occidentali” – si renderanno ora conto che non può esistere una vera democrazia fino a quando la rivoluzione islamica rimane al potere. Invece di continuare secondo le regole dettate dai mullah, gli iraniani lungo i confini devono capire che non è sufficiente solo cambiare le regole ma tutto il sistema, rovesciando la Rivoluzione e la sua sovrastruttura e creando istituzioni che realmente permettano l’insediamento di un governo rappresentativo. Questo sarebbe un “cambiamento” in cui potremmo credere.

Non può esistere una vera democrazia se la rivoluzione islamica rimane al potere. Non è sufficiente cambiare soltanto le regole, bisogna rovesciare il sistema

L’opposizione in piazza a Teheran. Nella pagina a fianco, Barack Obama a sinistra e Ayan Hirsi Ali destra. Qui a destra, Mir Hussein Mousavi potrebbero divenire nostre avversarie... Non dobbiamo tentarle con la nostra debolezza. Ché solo quando le nostre armi saranno assolutamente sufficienti, potremo essere assolutamente sicuri di non doverle mai impiegare. Non chiedetevi cosa l’America può fare per voi, ma cosa noi tutti possiamo fare per assicurare libertà all’uomo». Senza menzionare la donna.

Le notizie riportate incessantemente in maniera non corretta sulle lotte tra “moderati” e “fautori della linea dura” all’interno della Rivoluzione Islamica del 1979 continueranno, perché abbandonarle adesso significherebbe ammettere la povertà intellettuale di tre decenni di giornalismo occidentale.

con gli uomini, indossare abbigliamento inappropriato, fornicazione e relazioni virtuali intrecciate attraverso internet o i telefoni cellulari. La promozione dell’alfabetizzazione per le donne, obiettivo per il quale il presidente vorrebbe fornire un sostanziale aiuto, rappresenta una nobile causa. Ma, a meno di un’abrogazione delle leggi della sharia, sempre più donne si ritroveranno a doversi piegare alla frusta piuttosto che avanzare professionalmente. Obama ha promesso di ospitare un vertice tra gli imprenditori dei paesi a maggioranza musulmana «al fine di capire come possiamo rendere più solidi i legami tra i leader del mercato, le fondazioni e gli imprenditori del sociale negli Stati Uniti e nei paesi musulmani in tutto il mondo». Auspico che il Presidente ospiti un vertice di lettura in cui noi possiamo veramente «dirci l’un l’altro nel modo più franco possibile ciò che serbiamo nei nostri cuori e che troppo spesso pronunciamo solo dietro porte chiuse». Per troppi di noi nati nell’alveo dell’Islam, il pronunciare queste frasi apertamente potrebbe significare la prigione; o peggio ancora il cimitero.

Alcuni giornalisti creduloni non hanno colto questo aspetto, in parte perché hanno passato buona parte del loro tempo a parlare con gli iraniani della classe media o con espatriati iraniani che la pensavano come loro, piuttosto di intraprendere un duro lavoro investigativo per capire cosa stava realmente accadendo. Forse questi giornalisti non hanno mai seguito le elezioni a Chicago. Alcuni commentatori avevano previsto che il discorso di Obama al Cairo del 4 giugno sarebbe andato a vantaggio dei “moderati”iraniani, e alcuni paragonarono la moglie di Mousavi a Michelle Obama. Anche Obama, auto-referenziale come sempre, ha citato il suo discorso del Cairo come anticipatore della “possibilità di cambiare” per l’Iran. Ebbene, ci sono ovviamente due possibilità. Una è che Ahmadinejad ha preso il 63%, la seconda è che ha rubato l’elezione a Mousavi o almeno si è procurato un’ampia garanzia di successo. L’Associated Press è stata la prima ad aver scritto che Ahmadinejad si stava avviando verso una «sorpresa vertiginosa». La Reuters allora ha scritto che «la dimensione della sua vittoria alla prima tornata elettorale aveva stordito il suo principale rivale, Mir Hossein Mousavi». In effetti, di sbalorditivo c’è che i mass media occidentali siano caduti nel tranello.


diario

pagina 6 • 17 giugno 2009

Aumenta il pessimismo e anche Draghi chiede un’exit strategy dalle politiche espansive

Valori, la ricetta anticrisi di Napolitano di Francesco Pacifico segue dalla prima A dispetto dell’ottimismo di qualche settimana fa, i governi e le istituzioni finanziarie mondiali – come dimostrano le parole di Napolitano e di Draghi – vedono sempre più lontana la ripresa. E si interrogano sulla validità delle misure anticicliche messe in campo. Misure che per qualcuno potrebbero ridursi a uno spreco di danaro se non saranno accompagnate da riforme strutturali e da modifiche alle regole sui controlli.

Gli accordi sui famosi legaly standard slittano al G20 di Pittsburgh di settembre. Negli Usa riparte l’edilizia residenziale, ma crolla del 13,4 per cento

la produzione industriale. A Milano le banche – fortemente attaccate da Antonio Catricalà – spingono l’indice Ftse-Mib sotto dello 0,91 per cento, in controtendenza rispetto al resto d’Europa. Gli indicatori sono discordanti così come le soluzioni proposte. Proprio per questo Giorgio Napolitano ha plaudito all’allargamento del G8, perché «è evidente che non basta un’intesa tra pochi grandi Paesi industrializzati. In era globale la crisi che ha investito il mondo si

chiere centrale ha ingrossato le file di quanti chiedono un’exit strategy per uscire dalle politiche di emergenza. E si è scagliato contro «politiche di bilancio eccessivamente espansionistiche» nonché «all’attuale orientamento delle politiche monetarie per mantenere l’ancoraggio delle aspettative di inflazione». Altrimenti saranno un miraggio la stabilità dei prezzi e quella finanziaria. Draghi sa bene che «i tempi non sono ancora maturi», ma già ora si deve discutere su co-

Nei governi e nelle istituzioni finanziarie cresce il timore che le misure messe in atto siano inutili e che finiscano soltanto per appesantire i deficit può superare con uno sforzo congiunto che riunisca le energie di tutti i Paesi coinvolti». Ma parlare di sforzo congiunto è complesso in questa fase, viste le distanze tra Washington e l’Europa. In questo dibattito è entrato a gambe tese Mario Draghi, governatore di Bankitalia e soprattutto presidente del Financial Stability Board: dal “Wirtschaftstag 2009”il ban-

me superare gli aiuti alle banche o applicare «i cambiamenti nei sistemi di remunerazione nelle istituzioni finanziarie». Ma non tutti la pensano così. Emblematico al riguardo che Ewald Nowotny, l’economista austriaco e componente del consiglio direttivo della Bce, esca allo scoperto e chieda all’Eurotower di non abbandonare la politica di taglio dei tassi.

Che bocci così platealmente la richiesta della Germania di alzare il costo del danaro. «Una exit strategy è prematura, la crisi è ancora in corso», dice.

In questo clima Giulio Tremonti deve scrivere la Finanziaria: promette che non metterà le mani nelle tasche degli italiani e studia la riedizione dello scudo fiscale e della “Tremonti”sugli utili reinvestiti. Sul primo versante, e per mettere le mani su un decimo di un tesoretto complessivo da 550 miliardi di euro, si studia un’aliquota fiscale intorno al 10 per cento. Che dovrebbe però alzarsi notevolmente sui capitali emersi ma non rientrati dall’estero. La Tremonti Ter invece dovrebbe lanciare un sistema di deduzione e detrazioni abbastanza ampio, anche per aiutare le imprese vittime dei ritardi di pagamenti dalla Pa. Ma è difficile che il ministro riesca a frenare le richieste di misure espansionistiche. Anche perché, come ha ricordato ieri Famiglia Cristiana, «soltanto la Chiesa (con il Fondo Cei da 30 milioni, ndr) trova soldi per la famiglia» .

Giustizia. I magistrati di Roma: «C’era sempre una persona titolata a usufruire del collegamento»

Voli di Stato, richiesta l’archiviazione di Francesco Capozza

ROMA. Richiesta di archiviazione per Silvio Berlusconi e atti trasferiti al tribunale dei Ministri. È questa la decisione della procura di Roma in merito all’inchiesta sui voli di Stato che ha visto il presidente del Consiglio iscritto nel registro degli indagati per abuso d’ufficio. La richiesta di archiviazione, sulla quale si dovrà pronunciare il tribunale dei Ministri, è stata motivata dalla procura in base alla circostanza secondo la quale sui sei voli di Stato su cui avevano viaggiato gli ospiti di Silvio Berlusconi verso Villa Certosa, c’era sempre una personalità titolata a fruire del collegamento aereo. A firmare la richiesta, i pubblici ministeri Simona Maisto, Giuseppe Saieva e Ilaria Calò, il procuratore aggiunto Achille Toro e il procuratore capo di Roma Giovanni Ferrara. L’inchiesta, ricordiamolo, era nata a proposito dei trasferimenti aerei da e per Villa Certosa, concessa - come testimoniato dalle foto - anche a personaggi come il cantante Mariano Apicella. La richiesta di archiviazione è stata anche motivata da una consolidata giurisprudenza e in particolare da una sentenza della Corte Costituzionale che su una analoga fattispecie non ravvisò né profili di rilevanza penale, né danni

erariali. In pratica, nonostante l’ospitalità data a estranei sia conclamata, e sebbene fosse in vigore un regolamento restrittivo voluto dal governo Prodi, la procura ha valutato il caso dei voli di Berlusconi simile a quello che due anni fa coinvolse Mastella e Rutelli (allora rispettivamente Guardasigilli e vice presidente del Consiglio).

In sostanza, non ci sarebbe stato un danno per lo Stato né un apprezzabile ingiusto profitto per Berlusconi. «La richiesta di archiviazione della Procura di Roma chiude, com’era giusto e prevedibile, la vicenda dei voli di Stato. Ancora una volta il Partito democratico e Repubblica restano con un pugno di mosche in mano, dopo aver fatto di tutto per incendiare - con

posizione all’archiviazione dell’inchiesta sui voli di Stato. L’associazione di coordinamento di difesa dei diritti degli utenti e dei consumatori aveva sollevato la vicenda davanti alla magistratura. Il Codacons ha spiegato, in una nota, che «in presenza di nuovi elementi la giurisprudenza consolidata puo’ essere modificata». «Domani stesso (oggi, ndr) - ha detto il presidente del Codacons Carlo Rienzi - depositeremo al tribunale dei Ministri una memoria per dimostrare come vi siano comunque costi per l’erario determinati dalla presenza di soggetti estranei alle delegazioni sui voli di Stato. Costi legati sia alla necessità di scegliere aerei di dimensioni maggiori sia all’esigenza di un’assicurazione obbligatoria per i trasportati». «Queste circostanze - ha concluso Rienzi - non sono mai state prese in considerazione dalla giurisprudenza passata la quale, quindi, può essere modificata».

Silvio Berlusconi era indagato per abuso d’ufficio. La procura ha valutato il caso simile a quello che circa due anni fa coinvolse Mastella e Rutelli insinuazioni di ogni tipo - l’ultimo mese di campagna elettorale». È la tesi di Daniele Capezzone, portavoce del Pdl. Il Codacons annuncia invece che oggi al tribunale dei Ministri presenterà op-


diario

17 giugno 2009 • pagina 7

Il milanese Boni chiede anche lo sgombero dei binari morti

È rottura con la maggioranza anche in singoli comuni siciliani

«Basta stranieri nei giardinetti», nuovo diktat del Carroccio

Ai ballottaggi Lombardo fa campagna per il Pd

ROMA. Non sembrano del tutto rimosse le perplessità della Lega sull’accordo raggiunto da Obama e Berlusconi lunedì sera a Washington e che prevede il trasferimento in Italia di tre detenuti di Guantanamo. Roberto Maroni ha sollevato problemi dal punto di vista della sicurezza nazionale, e il ministro della Difesa Ignazio La Russa gli ha indirettamente risposto ieri quando ha chiesto di ragionare sulla questione «senza preconcetti». Ma mentre il responsabile degli Esteri Franco Frattini già è in grado di comunicare la nazionalità dei detenuti – tre tunisini – e la loro destinazione – il carcere di Parma o Voghera – il Carroccio fa scoccare un’altra scintilla sul tema dell’immigrazione a Milano, dove il capodelegazione del partito di Bossi nella giunta regionale lombarda Davide Boni arriva a dichiarare «inammissibile» che in alcune zone del capoluogo «ci siano veri e propri assembramenti di cittadini stranieri che sostano nei giardini pubblici, ad

ROMA. Suscita perplessità in

ogni ora del giorno e della notte, come avviene per esempio ormai da qualche giorno in piazza Oberdan. Chi non è in regola e non ha mezzi di sostentamento», secondo il leghista, «deve essere allontanato dal nostro Paese e non spostato in un altro quartiere della città. Le scene di degrado non possono più essere minimamente tollerate».

Ce n’è anche per i nomadi accampati nei pressi dei binari ferroviari: «Le Ferrovie hanno il dovere di tenere sotto controllo le aree adiacenti alle stazioni e agli scambi, in modo che queste zone di nessuno non diventino un ricovero sicuro per realizzare un nuovo campo nomadi abusivo. Sarebbe inutile e dispendioso che, mentre le istituzioni impiegano uomini e risorse per smantellare questi accampamenti chi è proprietario dell’area non si preoccupa di metterla in sicurezza in maniera definitiva. Gli sgomberi», conclude il furente Boni, «non devono essere considerati alla stregua di un trasloco da un ponte all’altro».

Mille in piazza contro il decreto Abruzzo Sit in a Montecitorio, i comitati chiedono più trasparenza

tutti, il governatore siciliano Raffaele Lombardo. Anche nel Pd, che oggi se lo ritroverà imprevedibilmente a Monreale per un comizio a sostegno del candidato sindaco del centrosinistra Toti Zuccaro. «Il presidente della Regione farebbe bene a uscire dalla confusione e fare chiarezza», dice Antonio Russo, deputato democratico eletto in zona. I conti nella maggioranza siciliana si faranno solo dopo i ballottaggi di domenica e lunedì prossimi, ma Lombardo si muove nella speranza di arrivare alla trattativa come un leader autonomo, pronto a sfoderare coalizioni altrernative. Viste le reazioni del Pd il gioco sembra riuscirgli male, e scarsa efficacia è

di Franco Insardà

ROMA. Questa volta non hanno atteso le passerelle di uomini di governo e di politici in Abruzzo. Sono venuti a Roma e sotto un sole cocente hanno organizzato un sit davanti a palazzo Montecitorio per protestare contro il decreto per la ricostruzione in discussione in queste ore alla Camera. Erano più di mille i terremotati arrivati dall’Abruzzo, con tanto di caschi gialli e rossi, ai quali se ne sono aggiunti molti altri che lavorano a Roma e che non hanno voluto far mancare la loro solidarietà. E hanno portato tende per ricordare a tutti dove vivono da tre mesi e si sono messi a urlare: «Governo Berlusconi in tenda vienici tu, siete buoni solo in tv».

Il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini, nel suo intervento ha sottolineato: «Abbiamo assistito a una passerella di ministri a L’Aquila e in Abruzzo. Oggi in aula c’è solo il sottosegretario Menia. Avrei gradito che la presenza del governo fosse adeguata al dramma. Siamo disponibili a ritirare immediatamente i nostri emendamenti a condizione che si modifichi l’articolo 3 e si garantisca la possibilità di ricostruire la propria abitazione non solo ai residenti, ma anche ai non residenti». Casini ha ringraziato la Protezione civile «per come ha affrontato l’emergenza, ma il post emergenza deve essere affidato a Regione, Provincia e comuni». Intanto continua lo sciopero della fame del deputato abruzzese Pierluigi Mantini: «Con Casini abbiamo confermato la linea dura dell’Udc contro il mancato rispetto degli impegni del premier in Abruzzo. Manterrò il digiuno iniziato sette giorni fa fino all’approvazione della legge». Insieme con i comitati c’erano molti sindaci del cratere, che al loro arrivo in piazza sono stati invitati a togliersi la fascia: «La nostra protesta è contro le istituzioni, anche quelle locali, che non sono riuscite a tutelarci». Alle 17 una loro delegazione guidata dal sindaco de L’Aquila, Massimo Cialente, e dal presidente della provincia, Stefania Pezzopane, è stata ricevuta dal presidente della Camera, Gianfranco Fini. Al termine dell’incontro il primo cittadino dell’Aquila non ha nascosto l’amarezza per il decreto per la rico-

struzione. In particolare, l’approvazione dell’emendamento“simbolo”, quello sulle seconde case, approvato proprio mentre era in corso l’incontro con il presidente della Camera. «Se non si cambia strategia - ha detto Cialente - la ricostruzione della città non ci sarà, ci saranno solo le 15mila casette. E questo significa la morte dell’Aquila, che sarebbe una sconfitta per il Paese. In questo momento ci sentiamo umiliati e traditi dal governo».

Insomma quel «Forti, gentili sì, fessi no» scritto su uno degli striscioni che hanno invaso la piazza e sul giornale dei comitati e dei siti online sollevati abruzzo distribuito durante la manifestazione era un avvertimento. Paolo Mannetti, commercialista e rappresentante del Comitato Ara spiega: «L’Aquila è finita e non verrà ricostruita. Le 3.500 nuove case abbatteranno il valore delle altre. Vogliamo che siano ricostruite anche le seconde e terze case per garantire la ripresa dell’economia. Berlusconi ha fatto tante promesse che ora dovrà mantenere. È stato assurdo pensare di far vivere nelle tende le persone fino al 15 dicembre. In piazza ci sono una ventina di comitati su 32 che stanno lavorando per tenere alta l’attenzione sull’Abruzzo». Giusi Pitari è stata tra le prime ad arrivare in piazza Montecitorio indossando un caschetto rosso e la famosa maglietta simbolo dei docenti dell’Università de L’Aquila con la scritta “Io non crollo”. Giovane e combattiva professoressa di chimica biologica e prorettore delegato all’orientamento di ingresso degli studenti, disegna il quadro delle strutture dell’ateneo: «Biotecnologia, la mia facoltà, e medicina sono agibili, mentre a scienze sono iniziati i lavori e sono stati affittati i locali per ospitare ingegneria e gli uffici amministrativi. Il problema più grosso per l’università, come per tutta la città sono le residenze per i fuori sede, per i quali il rettore ha chiesto che vengano messi a disposizione una parte degli appartamenti della Caserma della Guardia di Finanza di Coppito. È l’unica possibilità per loro. Altrimenti sarà un colpo mortale».

Casini: «Pronti a ritirare gli emendamenti se ci sarà il rimborso per le seconde case e la ricostruzione affidata agli enti locali»

destinata ad avere anche la decisione di lasciare libertà di coscienza agli elettori dell’Mpa nel duello per la Provincia di Milano, dove il suo partito vanta appena lo 0,2 per cento.

In vista della sfida tra Podestà e Penati si è messo in agitazione anche l’ormai ex segretario cittadino dell’Udc Luca Ruffino: aveva già fatto stampare 15mila manifesti a favore del candidato berlusconiano nonostante non si fosse ancora svolta una riunione di partito per decidere sull’indicazione di voto. Il confronto è arrivato l’altro ieri e si è concordato di non sposare nessuna delle due cause. Ieri mattina Ruffino è uscito allo scoperto con un proclama a favore di Podestà ed è stato fatalmente sostituito da Lorenzo Cesa, che ha nominato il segretario regionale Luigi Baruffi commissario comunale a Milano. Intanto il presidente della commissione Giustizia del Senato Filippo Berselli avverte che si occuperà dei ddl sicurezza e intercettazioni solo tra qualche settimana: «C’è prima la riforma del processo penale, che comunque sarà discussa solo a partire dalla settimana prossima, dopo i ballottaggi». Che si celebrano insieme ai referendum elettorali in 22 province e 99 comuni (di cui 15 capoluogo) e che coinvolgeranno quasi 14 milioni di elettori.


politica

pagina 8 • 17 giugno 2009

Il Caminetto approva le nozze con il Pse. Ma crescono le proteste: «È un contenitore vecchio, non basta cambiargli nome»

Binetti: «Mi trovo meglio al centro» di Riccardo Paradisi

ROMA. «Se le cose stanno come stanno finora, si presentino direttamente Veltroni e D’Alema alla guida del Pd. Meglio per tutti, più chiaro per tutti. E nessuno per favore si metta la berretta del nuovo». Viva la sincerità, verrebbe da dire ascoltando le parole della senatrice democratica Magda Negri a proposito del dibattito interno al suo partito in vista del congresso di ottobre. Sì perché almeno c’è qualcuno nel Pd che dice in pubblico ciò che pensa in privato, che non se ne può veramente più cioè di giocare eternamente al risiko interno delle candidature sapendo in realtà di giocare il derby di sempre Veltroni-D’Alema. Con l’ex premier che appoggia la candidatura di Pierluigi Bersani – «Ha il linguaggio e la

cultura adatti» – ma fa capire di essere pronto lui stesso, se necessario, a sciogliere gli indugi e tornare in campo, e dall’altra parte con Veltroni che temendo la mossa del suo antico rivale convoca il prossimo 2 luglio a Roma un’adunanza correntiziamente mista a sostegno di Franceschini e del progetto del Pd. Che, dice l’ex segretario fondatore, rischia di essere abbandonato.

Già ma che ha da dire il presente sul futuro del Pd? A cosa porta questo totosegreteria che rischia d’essere il tormentone politico dell’estate e verso il quale esprimono disagio tutti, dagli ex Ds agli ex margheritini passando per l’area dei coraggiosi? Paola Binetti, ala teodem del

Pd, spiega molto chiaramente le ragioni dell’impasse. «Si crede di poter andare avanti con questa retorica della pseudo unità del partito che continua a bruciare un leader dopo l’altro. Mentre i nodi stanno venendo tutti al pettine. La verità è che non basta essere anti-berlusconiani per stare assieme». E se l’unico modo di stare assieme è questo allora molto meglio che ognuno vada per la sua strada: «Sono più a mio agio al centro e se non si sciolgono i nodi non vedo lo scandalo di pensare a qualcosa di nuovo. D’altronde lo hanno detto pure Letta, Rutelli e lo stesso D’Alema». Tanto più che anche l’impegno di immaginare qualcosa di diverso dal gruppo socialista europeo come destinazione del Pd è sfumato nel Caminetto di

ieri, dove c’è stato il via libera del partito all’Asde, l’Alleanza dei socialisti e dei democratici in Europa. Certo, «a condizione che non ci sia iscrizione nel Pse, ci sia un simbolo nuovo e un’autonomia economica e politica del partito». Ma anche queste, per Binetti come per Rutelli e i suoi, sono solo parole: «Resta il fatto che non si è voluta cercare un’alternativa all’ingessamento in un contenitore vecchio come quello socialista europeo. A cui non basta cambiar nome per renderlo qualcosa di nuovo e diverso».

È questa stessa fretta di chiudere le partite di potere interne a produrre gli esiti ciechi dello stanco dibattito del Pd: «Non si fanno venir fuori i sintomi – di-

Tramonti. Per la segreteria del Pd porte chiuse all’ex presidente del Consiglio. Che riceve lo stop persino da Ugo Sposetti

Lo skipper si è arenato D’Alema abbandonato da suoi fedelissimi (che ormai appoggiano Pierluigi Bersani) di Marco Palombi

ROMA. È una storia questa che affonda le radici negli anni Ottanta, quando ancora resistevano a Botteghe oscure gli antichi riti orientali del potere comunista, prosegue poi rifulgendo lungo tutti i Novanta e solca, sempre più stancamente, pure il nuovo millennio. E in trent’anni non aveva ancora mai visto un’impasse come quella di oggi. Si parla di Massimo D’Alema, «il più intelligente e il più comunista» tra gli uomini della minoranza (copyright di Silvio Berlusconi): «Sulla prima parola sono gli altri a dover parlare, sulla seconda ha ragione», gigioneggiò lui su La7. Il fatto è che l’ex presidente del Consiglio incarna in sé la parte dominante e tutto sommato migliore di quell’enorme movimento che è stato il comunismo italiano: funzionario di partito, figlio d’arte, ambizioso il giusto, colto come si conviene ad una tradizione per cui lo studio è condizione propedeutica all’apertura della bocca, lucido di quella lucidità che diventa malattia secondo il Dostojevski di Memorie del sottosuolo. La

carriera politica dell’uomo che ha imposto ad un Paese ostinatamente di destra ben due governi di centrosinistra la s’immagina ancora onusta d’onori e di gloria, ma il ruolo che più gli piace - l’amministratore delegato, quando non il burattinaio - non è funzione che si possa più permettere. È cambiato il mondo, è cambiato lo scenario politico di questo piccolo Paese (anche col suo contributo) e ora il tatticismo esasperato che per lui è stato contemporaneamente via verso il successo, marchio di fabbrica e dannazione non è più sorretto dalla solida permanenza alle sue spalle del “partitone”, quello per capirci “di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer”: il Pci era uno stato mentale che è durato ben oltre la sua fine, ma adesso è andato, non c’è più. Sarebbe stato impensabile altrimenti che un uomo come Michele Ventura, ex pci fiorentino con tutti i legami di potere e governo cittadino che questo comporta, le prendesse di santa ragione alle primarie da ben due ex democristiani. E sarebbe stato impensabile qualche

anno fa anche quello che è capitato allo stesso D’Alema. I fatti: dopo che gli si è sfarinato tra le mani il tentatativo di stringere l’ennesimo patto con gli ex Popolari per neutralizzare il Congresso di ottobre, s’è prima guardato intorno per cercare un candidato più malleabile di Pierluigi Bersani, poi ha cominciato a flirtare con l’idea di mettersi alla guida del Pd in prima persona. A quel punto se n’è andato negli studi di Red tv e l’ha buttata lì per vedere l’effetto che fa. Non è che alla fine si candida alla segreteria? Chiede un giornalista. «Ho sempre detto che sono favorevole al ricambio della classe dirigente, per cui il ritorno di una persona che ha già ricoperto certi ruoli va considerato come un’estrema ratio». Tradotto: non mi vorrete dire che Bersani e Franceschini sono il rinnovamento? Allora meglio io, «’estrema ratio». Le retrovie per questa piccola rivoluzione d’ottobre erano per altro state preparate con cura attraverso un intenso lavoro di penetrazione nei polmoni del potere locale: dal nuovo meridionali-

Tutta l’ossatura ex Pci del partito democratico s’è tirata indietro. D’altronde Bersani è in missione da mesi e ha stretto alleanze e penetrato cuori senza l’ausilio del “leader Maximo” smo, lanciato di recente, al patto con Caltagirone nel cda dell’Acea di Roma fino al recupero di pezzi di potere prodiano in Emilia (vedi Il Foglio qualche settimana fa).

A questo punto, però, è accaduto l’imponderabile: l’ossatura ex Pci del partito s’è tirata indietro. No grazie, il nostro candidato è Bersani. Dicono che persino Ugo Sposetti abbia dato lo stop a D’Alema. D’altronde Bersani è in missione da

mesi e ha stretto alleanze e penetrato cuori senza l’ausilio del leader Maximo: l’endorsement a suo favore di Enrico Letta ne è la dimostrazione e, allo stesso tempo, la spia di un bisogno di contaminazione e novità che l’ex ministro delle lenzuolate sembra aver compreso. Che si faccia tattica o strategia, d’altronde, serve come minimo la massa di manovra e D’Alema non la possiede più. Magari farà il presidente del partito, ma è più facile di no, magari in


politica ce Binetti – si soffoca il dibattito, col risultato di non far emergere attraverso un confronto trasparente il modello di governance che stiamo cercando». E se al deputato teodem ricordi che Franceschini ha praticamente già dato la sua disponibilità a una candidatura, la Binetti replica paziente che Franceschini ha fatto un’ottima campagna elettora-

terno». La governance appunto. Che Franceschini evidentemente è convinto di garantire. Anche se aspetta di ufficializzare la sua candidatura dopo i ballottaggi delle amministrative e il ritorno dei conti di quel 75 per cento del partito che aveva posto come condizione minima per rilanciare se stesso alla guida del Pd.

L’esponente teodem: «Sono più a mio agio al centro, se non si sciolgono i nodi meglio pensare a qualcosa di nuovo». Bindi contro Serracchiani. «È lei il nuovo? Sembriamo un partito in cerca d’autore» le. Che non ha impedito al Pd di uscire sconfitto dalle urne ma che ha limitato i danni. Solo che, aggiunge serafica l’esponente Pd, «anche Veltroni aveva fatto un’ottima campagna elettorale. Peccato che i problemi per i leader del Pd vengono dopo le campagne elettorali. Quando l’avversario con cui confrontarsi non è più esterno ma diventa in-

Ma c’è un’altra scadenza a cui si guarda

dentro il Pd, ossia l’ultimo giorno utile per il tesseramento al partito, fissato il prossimo 21 luglio. Una data che rappresenta un discreto banco di prova della capacità persuasiva e di mobilitazione dei democratici. Quello che è sicuro, e che rende complicato anche immaginare il campo successivo a una futura scissione tra centro e sinistra all’interno del Pd, è che intanto si sono ricombinati anche i vecchi insiemi nel grande gioco politico per il congresso di ottobre. Veltroni che rilanciando lo spiri-

to del Lingotto sostiene Franceschini apre ai popolari ma Rosy Bindi e Enrico Letta sono pronti a sostenere Bersani (e dunque D’Alema) mentre Fioroni resterebbe al fianco di Franceschini (accogliendo l’invito di Veltroni) anche se con qualche perplessità sull’enfasi posta sulla risorsa giovanile Debora Serracchiani. La scintillante new entry nel mobilissimo planetario del Pd, accolta come un segno del cielo. Enfasi eccessiva anche per Rosy Bindi che avverte i compagni: «Stiamo dando l’impressione di essere un partito in cerca d’autore». E poi chi l’ha detto che basta la giovane Debora per dare un’allure di freschezza al ticket Veltroni-Franceschini 2. «Fu lo stesso Veltroni a dichiarare il suo fallimento all’atto in cui si dimise da segretario del Pd», registra impietoso l’ulivista Franco Monaco, «stento a credere che qualcuno possa avere l’ardire di riproporre quella linea fallimentare. Sotto lo slogan della ripresa dello spirito del Lingotto vogliamo far finta che il Pd scoppi di salute?». Anche perché sarebbe difficile crederci.

In queste pagine, gli attori principali della “querelle” interna al Pd sulla segreteria del partito. A sinistra, Massimo D’Alema, che puntava a candidarsi alla guida del Partito democratico ricevendo però dei secchi “no” persino dai suoi fedelissimi. A destra, l’ex ministro Pierluigi Bersani, appoggiato anche dallo zoccolo duro del Pd. In alto a destra, l’attuale segretario del Partito democratico, Dario Franceschini

L’endorsement a suo favore di Enrico Letta ne è la dimostrazione e, allo stesso tempo, la spia di un bisogno di contaminazione e novità che l’ex ministro delle lenzuolate sembra aver compreso futuro ancora il ministro o addirittura il capo dello Stato, ma il forgiatore di destini non è più la sua parte in commedia. Del resto aveva cominciato prestissimo, in quel ruolo, già all’indomani della morte improvvisa di

Enrico Berlinguer, quando stringendo un patto con Achille Occhetto - contribuì a scegliere la segreteria di passaggio di Alessandro Natta, raffinato intellettuale che all’epoca s’era già ritirato dalla politica attiva

17 giugno 2009 • pagina 9

e servì ottimamente a tenere lontani dalla poltrona i miglioristi di Giorgio Napolitano, fautori dell’accordo col Psi.

Quando il vecchio gentiluomo fu messo fuori gioco da un infarto, all’alto soglio salì l’ex giovane turco Akel, che cambiò nome al partito, mentre il nostro divenne capogruppo alla Camera quando questa carica valeva ancora qualcosa: nel 1994 poi, dopo la sconfitta elettorale contro Berlusconi, D’Alema giubilò pure Oc-

chetto. Secondo la leggenda gli chiese di dimettersi definendolo «un’obsolescenza». E chi è che mi chiede le dimissioni? Disse quello. «Un deputato di Gallipoli», fu la risposta. Inizia da qui quando D’Alema venne eletto leader del Pds dai dirigenti del partito contro la volontà della base che aveva scelto Veltroni - il duello che ha segnato gli ultimi quindici anni di vita del centrosinistra italiano. La segreteria D’Alema, però, fu spettacolare: la caduta di Berlusconi, il governo Dini, l’invenzione dell’Ulivo e di Romano Prodi, la Bicamerale, poi l’accordo con Franco Marini che fece fuori il Professore e lo portò a palazzo Chigi.

Da allora più ombre che luci: Veltroni gli mise davanti il fatto compiuto con la candidatura al Quirinale di Ciampi, Marini s’incazzò a morte e il suo governo cominciò a traballare. Il resto è storia recente: vecchie ruggini che trovano nuove forme sempre più stanche e opache. Adesso lo stop subito da quelli che un tempo si chiamavano dalemiani: lui, che è un dirigente politico serio forgiato ad una scuola seria, continua a fare campagna elettorale per i ballottaggi (e ieri da Crotone, sostenendo Ubaldo Schifino, ha dichiarato che «in questo momento sarebbe opportuno mettere da parte tutte le polemiche sulla questione della segreteria e pensare a recuperare i voti di tutta la sinistra. Dopo il voto ne parleremo») e tesse rapporti di potere come ai bei tempi. Chissà se della famosa “scossa”, ad esempio, s’è discusso pure tra i membri di “Italia decide”, l’associazione messa in piedi da Violante e in cui siedono accanto Pier Carlo Padoan (assai vicino a D’Alema), Giuliano Amato, Gianni Letta, Angelo Maria Petroni, Giulio Tremonti e l’ideologo finiano Alessandro Campi?


panorama

pagina 10 • 17 giugno 2009

Trasformazioni. Il risultato delle Europee mostra l’italianizzazione del Carroccio più che la padanizzazione del Paese

Ecco perché la Lega sfonda al Sud di Francesco D’Onofrio segue dalla prima Non vi è alcun dubbio infatti che il fenomeno complessivamente definito delle leghe prima di Mani Pulite (1992-1994) era stato caratterizzato soprattutto da una fortissima questione di identità potenzialmente nazionalistica del Nord. Di qui la sostanziale identificazione della Lega Nord - che ha in qualche misura unificato anche politicamente le diverse leghe preesistenti - con la “Padania” considerata in qualche modo il territorio potenziale di uno Stato inesistente, la “Padania” appunto. È pertanto fondamentale aver ben presente il fatto che il fenomeno delle diverse leghe prese corpo prima di Mani Pulite e quindi prima della fine formale della cosiddetta Prima Repubblica. Sembra infatti che talvolta si discute della Lega Nord quasi che si tratti di un fenomeno successivo a Mani Pulite e quindi di un fenomeno in qualche misura legato al prevalere di una sorta di missione politica della magistratura italiana nei confronti dei partiti che avevano governato l’Italia durante i 45 anni della cosiddetta Prima Repubblica. Il fatto che la

Lega Nord sia andata consistentemente in regioni del Centro ed anche del Mezzogiorno d’Italia riduce evidentemente l’identificazione della Lega stessa con la “Padania”perché è di tutta evidenza che andare oltre la “Padania”significa di fatto italianizzare la Lega e non padanizzare l’Italia. Qualora si tenga presente che gran parte del dibattito sulla Lega Nord ha riguardato proprio la natura intimamente territoriale e nordista della stessa Lega è chiaramente evidente che si è in presenza di un processo sostanziale di italianizzazione della Lega medesima. Occorre pertanto aggiornare e non di poco persino le categorie culturali con le

schema mentale con il quale si sono analizzate le alleanze con la Lega dal 1994 in poi. L’espansione della Lega al di là della “Padania” strettamente considerata pone infatti in evidenza il fatto che è in corso un ripensamento complessivo sia della dimensione spaziale e originaria dello Stato italiano (di qui il passaggio dall’originario modello centralistico a quello federalistico dello Stato italiano) sia dell’equilibrio – tuttora mancato – tra la dimensione europea e quella tendenzialmente globale da un lato e le realtà locali dall’altro per quel che concerne la questione essenziale dell’immigrazione e della sicurezza. La Lega mostra di ritenere strettamente connesse immigrazione e sicurezza ed è su questa connessione che sta costruendo le basi della sua sostanziale nazionalizzazione. Ma anche il tema del federalismo fiscale sta in qualche modo passando da una dimensione che sembra funzionale all’asserita sovranità fiscale della inesistente “Padania” ad una dimensione che pone sempre più in evidenza il passaggio dalla spesa storica a quella standard per i servizi erogati dagli enti locali. Collocandosi in tal modo più in un contesto di competizione tra le diverse regioni d’Italia che in un contesto di separazione del Nord dall’Italia unita. Qualora si consideri l’importanza del fenomeno leghista per il governo complessivo dell’Italia in quella che siamo soliti chiamare la Seconda Repubblica, non pare esservi dubbio sul fatto che la decisione della Lega di candidarsi in regioni diverse l’originaria“Padania”quale soggetto politico di identità e di governo allo stesso tempo, deve costituire oggetto di riflessione culturale e politica molto approfondito.

Siamo in presenza di una mutazione sostanziale del partito guidato da Umberto Bossi, ormai sempre meno identificabile solamente con il Nord

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

quali è stato sin qui esaminato il soggetto politico Lega Nord. In qualche misura si potrebbe dire che si è in presenza di una mutazione sostanziale della Lega medesima sempre meno identificabile soltanto con il Nord del nostro Paese. In tal caso occorre cercare di capire le ragioni nazionali e non solo nordiste che la Lega sta proponendo al di fuori della cosiddetta “Padania” per proporsi quale soggetto politico nazionale appunto anche se a trazione prevalentemente nordista.

Si è ripetutamente affermato che la dimensione ormai nazionale della Lega è avvenuta sul tema della sicurezza e dell’immigrazione considerate in qualche modo strettamente connesse. Se così stanno le cose si deve riconsiderare lo stesso

Alle elezioni Regionali del 2010 potrebbe sfidare il ministro Mara Carfagna

Bassolino non molla. E si ricandida oi pensate che Antonio Bassolino toglierà a breve il disturbo. Sbagliate. Sta pensando di ripresentarsi alle elezioni Regionali del prossimo anno. Sembra uno scherzo, ma è tutto vero. La candidatura, vincente, del suo fidato, fidatissimo, Andrea Cozzolino, eletto con una barca di voti e anche qualcosa di più in Europa, aveva un doppio significato: un “posto al sole” per il suo delfino e le prove generali per la sua ricandidatura.

V

La prova di forza è andata benissimo: Bassolino ha vinto sia dentro sia fuori il suo partito: i veltroniani sono stati sbaragliati alla Provincia - dove ha vinto il Pdl con Cesaro - e i bassoliniani hanno stravinto con Cozzolino alter ego di Bassolino. Prima era solo una pallida idea, ora è una cosa seria: Bassolino accarezza l’idea della ricandidatura. E della vittoria. Già, proprio così: vittoria. Perché non è scritto da nessuna parte che il Pdl abbia già vinto. La partita è tutta da giocare. E Bassolino ha addirittura un vantaggio: ha iniziato già a giocare. Con un rimpasto di giunta. Claudio Velardi, assessore al Turismo, arrivato a Palazzo Santa Lucia quando Bassolino era più di là che di qua, è an-

dato via. Alla vigilia del voto aveva dichiarato: «Non andrò a votare perché nessun candidato è valido». Oggi Velardi ha tolto il disturbo. Arrivato a Napoli per dare una mano a Bassolino - faceva la sua solita corsetta mattutina sul Lungomare di via Caracciolo quando telefonò ad Antonio e gli disse: «Anto’, ho deciso che vengo a fare l’assessore» è andato via, mentre il suo amico governatore è ancora lì al suo posto di battaglia pronto a dare battaglia per preparare la sua, forse, ultima guerra punica. Al suo posto è entrato Riccardo Marone, già vicesindaco di Sassolino, mentre al posto dell’eurodeputato Cozzolino è entrato Gianfranco Nappi, già deputato e attuale capo delle segreteria politica di Bassolino. A meno di un anno dal voto, Bassolino non ha alcuna in-

tenzione di dedicarsi alla meditazione e pensa, come un’ossessione, a mettere su la sua macchina da guerra. Persino il Pd ha gridato allo scandalo e chiesto al governatore di venire in consiglio per verificare l’esistenza della sua stessa maggioranza. Ma se il governatore non è stato fermato dalla marea della spazzatura e dal presidente del Consiglio (oltre che dal disastro della Rosa Russo Iervolino) potrà mai essere fermato da un consigliere regionale del suo partito?

Il Pdl, che ha vinto alla Provincia, ha buoni motivi per pensare che vincerà anche alla Regione. Però, c’è un però. O, forse, anche qualcuno in più. Ad esempio: non ha ancora un candidato. Un particolare, questo, che poteva essere trascurabile, un nonnulla nel caso di

una diserzione di Bassolino. Ma ora che il governatore sta seriamente pensando a risorgere dalle sue ceneri il problema diventa improvvisamente serio.

Se Bassolino si candida, il Pdl non può più pensare di candidare uno qualsiasi e deve industriarsi per recuperare un candidato politico all’altezza della sfida. Finora - diciamolo con nettezza - i nomi che si sono fatti non sarebbero in grado di garantire quella vittoria che il Pdl sente e sentiva già in tasca prima dell’ipotesi (concreta) della nuova sfida di Bassolino. Il nome più importante del Pdl è il nome di una ministra: Mara Carfagna. Campana, salernitana, berlusconiana, eppure in uno scontro e confronto con Bassolino non avrebbe dalla sua i favori del pronostico. Il Pdl in Campania ha investito tutto su Berlusconi e la pulizia ritornata nella bella Napoli con e grazie al governo di Berlusconi. Tuttavia, potrebbe non bastare. La verità è che Bassolino non ha mai mollato, è sempre rimasto al suo posto, ha anche conservato il suo potere radicatissimo e i suoi voti. Se aggiungete che l’idea della sfida impossibile non lo deprime ma lo esalta, potete facilmente intuire che la partita è tutta da giocare.


panorama

17 giugno 2009 • pagina 11

Popolo della libertà. Lo strapotere di La Russa inasprisce le tensioni interne al Pdl. L’area forzista chiede un riequilibrio

Lo spettro di Scajola incombe sui triumviri di Insider he il Pdl abbia vinto la recente tornata elettorale è indubbio. Lo dimostra non soltanto l’analisi dei flussi elettorali. E i rapporti di forza nel Paese, nonostante le astensioni, dimostrano che un’alternativa di sinistra è impraticabile. Tutto bene, quindi? Mica tanto, perché sotto la cenere cova un fuoco poco rassicurante. Dopo la grande kermes del congresso fondativo il partito non sembra aver trovato ancora un punto di equilibrio. La sua struttura a rete – elemento di forza nella campagna per le amministrative – mostra smagliature vistose, che lasciano intravedere le più intime contraddizioni.

C

La principale riguarda la figura del leader, messo in ombra non soltanto in Sicilia dal protagonismo dei suoi proconsoli locali: quando il conflitto tra di loro ha preso il sopravvento, non non ha raccolto la messa di consensi che si aspettava. Da qui la decisione di rimeditare sulla struttura di vertice del partito. Decisione provvisoria, visto che Claudio Scajola sembra volersi riproporre in quello che fu il suo antico ruolo di or-

Schiacciato al governo, il ministro delle Attività produttive sta valutando di tornare a occuparsi del partito. L’ira di Berlusconi contro i ras locali ganizzatore politico. Finora, infatti, una sola decisione: quella di ricollocare Sandro Bondi nella terna dei petroniani che dovrebbe guidare il passaggio dalla fusione alla coesione: dall’assemblaggio di forze eterogenee a quello di una struttura più complessa dove la funzione della leadership si salda con

quella di un’organizzazione non tradizionale, ma capace, comunque, di garantire un raccordo tra istituzioni e società civile, tipica di un partito politico moderno. Sarà sufficiente? La costruzione di un nuovo partito, come dimostra il Pd, è forse la cosa più difficile della politica. Si può anche minimiz-

zare o far finta di nulla, ma non per questo si risolvono i problemi, che, cacciati dalla porta, rientrano dalla finestra. Nonostante il disinteresse del leader, la politica, infatti, non si ferma. Produce movimento. Ed il movimento senza controllo, può essere pericoloso. Tanto più che il nuovo partito presenta una grande contraddizione, figlia di una profonda asimmetria. Da una lato, una forza organizzata come An, fortemente strutturata, con quadri e militanti che fanno riferimento a leader che sono espressione della propria storia. Dall’altro, il “ventre molle”, per riprendere un’espressione di Winston Churcill, dei militanti volenterosi, spessi giunti alla politica quasi per caso o figli dei più antichi partiti italiani che hanno vissuto sulla propria pelle il senso di una precarietà che induce alla prudenza. È difficile che da una dialettica tra così “diversi” possa nascere qualcosa di buono. Come dimostra il caso Roma, dove lo stesso Alemanno deve subire la pressione dei suoi non sempre graditi maggiorenti, che vorrebbero commissariare l’assessore al bilancio Castiglione.

Antitrust. Il presidente dell’Authority boccia il modello delle municipalizzate, ma si ferma a metà strada

Catricalà, dalla padella alla brace di Carlo Stagnaro on c’è liberalizzazione vera senza privatizzazione. È forse questo il passaggio più originale e rilevante della relazione annuale del presidente dell’Antitrust, Antonio Catricalà. La creazione di un contesto normativo e regolatorio aperto è una condizione necessaria, ma non sufficiente, a garantire l’effettivo dispiegarsi della concorrenza e dei suoi benefici. Su questo fronte, negli ultimi anni l’Italia ha indubbiamente fatto passi da gigante, consentendo, almeno formalmente, l’ingresso di nuovi entranti in settori che, fino a poco tempo fa, erano presidiati dai monopolisti pubblici.

N

che vero, come il capo dell’Authority ha evidenziato, che l’organismo da lui guidato non ha mai dato parere favorevole alle richieste di deroga.

Tuttavia, ha detto, «sono troppe le aziende pubbliche che svolgono servizi loro affidati dagli enti territoriali proprietari in palese conflitto di obbligazioni». Con queste pa-

Le fondazioni proposte dal Garante servirebbero soltanto a frenare una vera apertura verso un modello compiuto di libero mercato

Quando ha toccato la questione delle utility, Catricalà si è spinto ancora oltre, evidenziando i limiti dell’attuale modello di apertura del mercato. Soprattutto a livello locale, il controllo del mercato è ancora saldamente in mano alle vecchie municipalizzate, anche quando esse sono state parzialmente privatizzate. È vero che vige l’obbligo di gara e che, quindi, l’esercizio del potere politico è meno spregiudicato; ed è an-

role, Catricalà ha rotto il tabù dell’indifferenza sulla natura degli assetti proprietari: ha, cioè, lasciato intendere che la proprietà pubblica è intrinsecamente fonte di distorsioni, anche a fronte di un’infrastruttura normativa la più efficiente possibile (e generalmente non è questo il caso, in Italia). Paradossalmente, però, il punto di caduta del ragionamento di Catricalà non è stato quello che sarebbe stato lecito attendersi, viste le premesse: egli non si è spinto a chiedere la privatizzazione delle utility. Piuttosto, ha voluto indorare la pillola suggerendo di «restituire al mercato attività così rile-

vanti per la nostra economia» attraverso l’aiuto delle fondazioni: «le fondazioni si candidano per natura a un ruolo determinante nella prima fase di privatizzazione dei servizi pubblici». La logica del Garante è chiara e perfino ragionevole, se vista nella prospettiva della ricerca di un compromesso politico: ma era quella la sede per perseguire una tale visione? O forse non sarebbe stato opportuno inserire il bisturi nel bubbone della proprietà pubblica? In fin dei conti, il ruolo delle fondazioni è quello di garantire la stabilità del controllo: possono esserci buoni motivi per ritenere che un business ad alta intensità di capitale come quello dei servizi pubblici locali possa richiedere una guida orientata al lungo termine, ma non c’è ragione di impedire al mercato di stabilire se sia davvero così. Il rischio, insomma, è quello di aprire un dibattito per imbalsamarlo, anziché per portarlo fino in fondo: cioè, di farne una questione di forma, anziché di sostanza, di nome e cognome dell’azionista, anziché di contendibilità. Fa davvero tanta differenza, scivolare dalla padella dello statalismo alla brace del para-privato?

Fatti soltanto locali? Nel triumvirato al vertice non mancano i dissapori. Ignazio La Russa è uomo di partito che conosce l’uso della forza, componente ineliminabile della politica. Denis Verdini lo subisce e lo asseconda. Sandro Bondi punta i piedi e chiede l’intervento del Cavaliere. Episodi di ordinaria gestione, se non mascherassero disagi più profondi.

Le reazioni di quella che fu una volta Forza Italia, per il momento, sono composte. Ma forse è la quiete che precede la tempesta. Quella asimmetria, sembra dire Scajola come anche autorevoli esponenti di vecchia cultura socialista, deve scomparire. Non è concepibile che si lotti ad armi impari. Se An non disarma – cosa difficile per una partito di tali e struttura – sono gli altri che debbono organizzarsi. Ma come? Per il momento è tutto da vedere, ma le grandi manovre sono già iniziate. Danno corpo alle vecchie culture politiche, ma non solo. In Sicilia An non è condizionante, ma tra Miccichè, Alfano e Schifani è guerra aperta. Guerra per la Sicilia, ma soprattutto per il “dopo”.


pagina 12 • 17 giugno 2009

il paginone

Il testo sarà firmato probabilmente il 29 giugno, festa dei Santi Pietro e

Il mistero de di Vincenzo Faccioli Pintozzi segue dalla prima Si sa, ad esempio, che è passata attraverso vari rifacimenti e stesure, che fino all’ultimo hanno lasciato Benedetto XVI insoddisfatto. A differenza dell’enciclica sulla speranza, che il Papa aveva scritto personalmente dalla prima riga all’ultima, e dell’enciclica sulla carità, la cui prima metà è anch’essa tutta di scrittura papale, alla Caritas in veritate hanno lavorato molte menti e molte mani. Di esperti, probabilmente, ma anche di consiglieri non addetti alla materia ma particolarmente vicini alle corde del Pontefice. Benedetto XVI, com’è ovvio, non lascerà che siano queste voci a prendere il sopravvento, ma vi lascerà in ogni caso la sua impronta. Che, d’altra parte, è già chiaramente visibile nelle parole del titolo che coniugano indissolubilmente carità e verità. Su quale sarà questa impronta la curiosità è forte. Si conosce infatti molto poco del pensiero di Joseph Ratzinger in materia d’economia. In tutta la sua sterminata produzione di saggi, solo uno risulta dedicato espressamente a questo tema. È una conferenza in lingua inglese del 1985 dal titolo Market economy and ethics, di cui pubblichiamo un brevissimo sunto. In quella conferenza, Ratzinger sosteneva che un’economia che si priva di ogni fondamento etico e religioso è destinata al collasso. Parlando nel corso del simposio, che

data ormai quasi 25 anni, l’allora cardinale dice: «La questione che lega mercato ed etica non è più da tempo un problema meramente teoretico. Dato che la presenza di varie zone economiche individuali mette in pericolo il libero mercato, si è cercato sin dagli anni Cinquanta di sviluppare nuovi progetti. Ma questo non è avvenuto».

Oggi che un collasso effettivamente c’è stato, si attendono quindi da Benedetto XVI analisi e proposte più circostanziate. Pochi mesi fa, rispondendo alla domanda di un sacerdote di Roma, il papa si espresse così: «È dovere della Chiesa denunciare gli errori fondamentali che si sono oggi mostrati nel crollo delle grandi banche americane. L’avarizia umana è idolatria che va contro il vero Dio ed è falsificazione dell’immagine di Dio con un altro Dio, Mammona. Dobbiamo denunciare con coraggio ma anche con concretezza, perché i grandi moralismi non aiutano se non sono sostenuti dalla conoscenza della realtà, che aiuta a capire che cosa si può in concreto fare. Da sempre la Chiesa non solo denuncia i mali, ma mostra le strade che portano alla giustizia, alla carità, alla conversione dei cuori. Anche nell’economia la giustizia si costruisce solo se ci sono i giusti. E costoro si formano con la conversione dei cuori». Era il 26 febbraio 2009 e l’enciclica era in fase di stesura. Quelle parole del papa ebbero l’effetto di accrescere la curiosità. Anche da poco, parlando ai membri della Fondazione Centesimus

Nel mirino, secondo alcune indiscrezioni, ci sarebbero le finanze in via di sviluppo di Cina e India. Che, tradizionalmente, lasciano ben poco spazio alla morale negli affari

Ecco come, nel 1985, Joseph Ratzinger aveva già affrontato il problema economico

«Troppe le ingiustizie...» n un discorso pronunciato a Roma nel 1985 nel corso del simposio su “Chiesa ed economia in dialogo” - pubblicato l’anno dopo come articolo nella rivista teologica Communio - l’allora cardinale Ratzinger aveva tracciato le linee guida del suo pensiero economico. Se è vero che si tratta dell’unico intervento propriamente economico del Papa teologo, è anche vero che le posizioni assunte sono inequivocabili. Dice il porporato: «Le disuguaglianze economiche fra gli emisferi diventano sempre di più una minaccia alla coesione della famiglia umana. Il pericolo per il futuro è che tale minaccia sia non meno dannosa degli arsenali nucleari con cui Est ed Ovest si confrontano». Subito dopo arriva il grido d’allarme: «La miseria nel mondo è cresciuta negli ultimi trent’anni in maniera sconvolgente. Dobbiamo trovare delle misure, delle soluzioni che ci consentano di andare avanti: servono delle nuove idee economiche». Ma queste misure, continua, «non sembrano concepibili, o meglio ancora praticabili, senza un nuovo impulso morale. Ed è proprio a questo punto che il dialogo fra la Chiesa e l’economia diventa possibile e necessario». Dopo una lunghissima analisi della situazione economica dell’epoca, che l’attuale pontefice disamina con attenzione particolare, si arriva in chiusura alla ricetta che, con ogni probabilità, sarà il nucleo della prossima enciclica. Conclude il cardinale: «Abbiamo oggi bisogno di conoscenze economiche specifiche ma anche del massimo possibile di ethos. Soltanto così si avrà un’economia politicamente praticabile e socialmente tollerabile».

I


il paginone

17 giugno 2009 • pagina 13

e Paolo. Fra accuse e consigli, il Papa teologo traccerà la strada per una nuova coscienza nell’economia

dell’enciclica sociale Il richiamo sarà diretto a una nuova etica nella finanza

Pane e regolamenti di Luigi Accattoli aro direttore, all’inizio di luglio avremo l’enciclica del Papa sulla dottrina sociale, ma già conosciamo diversi punti chiave dell’appello che rivolgerà alla coscienza dell’umanità nel mezzo della crisi che tiene tutti con il fiato sospeso. Denuncerà l’irresponsabilità di chi ha giocato con il pane altrui, inviterà la comunità internazionale a darsi regole di governo dell’economia più esigenti e più partecipate, affermerà che lo scandalo della fame è “totalmente inaccettabile”, qualificherà il diritto alla nutrizione come “non negoziabile”alla pari di quello alla vita. A più riprese papa Benedetto ha parlato di questo suo documento, e con una frequenza crescente nei mesi della primavera è tornato sulle questioni economiche lasciando intuire che la dimensione sociale della sua predicazione è destinata a lievitare. Egli fino a oggi è apparso più attento alle tematiche teologiche e meno disponibile a occuparsi di quelle sociali, ma con l’enciclica che dovrebbe firmare il 29 giugno avremo un riequilibrio tra questi due polmoni della predicazione di ogni Papa ed è ragionevole attendersi un maggior calore negli appelli dei prossimi mesi a difesa dei poveri. È significativo il ripetuto rinvio della pubblicazione dell’enciclica sociale, che dovrebbe chiamarsi Caritas in veritate: Fare la carità nella verità. Di essa si parlò fin dall’inizio del pontificato, quattro anni addietro. Si disse che il nuovo Papa avrebbe “presto”pubblicato un documento di dottrina sociale, in occasione del quarantennale della Populorum Progressio di Paolo VI (1967). Ci furono poi ripetuti annunci dell’imminenza di tale pubblicazione, prima per l’estate del 2007 e poi per quella del 2008. Nel frattempo il Papa teologo ha pubblicato due encicliche “teologiche”(la Deus Caritas estall’inizio del 2006 e la Spe Salvi alla fine del 2007), mentre quella sociale ha continuato a essere rimandata. La si dava per pronta l’estate scorsa, ma l’esplosione della crisi economica ha imposto una nuovo arresto. Ora verrà pubblicata tenendo conto del dramma dei poveri del mondo acuito dalla crisi: quelli che vivono nella fame si teme che ora possano aumentare di un centinaio di milioni. Dunque il Papa ha ripetutamente rinviato la pubblicazione di questo testo, ma ha anche maturato una consapevolezza acuta della sua importanza.

C

Da ottobre a oggi ha parlato così tante volte e con tanto coinvolgimenDall’alto: Angelo Roncalli, eletto Papa con il nome di Giovanni XXIII, e Paolo VI. In basso, Giovanni Paolo II abbraccia il cardinal Ratzinger

to personale della crisi e degli interrogativi che essa pone a tutti, compresa la Chiesa, che è lecito attendersi una trattazione coraggiosa ed energica. Due sono gli aspetti “sensibili” su cui c’è attesa di un forte pronunciamento: il primo riguarda lo scandalo della fame e il secondo le regole dell’attività economica. Della fame ha parlato così il 4 maggio alla plenaria dell’Accademia delle Scienze sociali: «Per i cristiani che ogni giorno chiedono a Dio ‘il pane quotidiano’ è una tragedia vergognosa che un quinto dell’umanità soffra ancora la fame». In quella stessa occasione ha qualificato come «diritti umani non negoziabili e che sono fondati nella legge divina» quelli legati al cibo, all’acqua e alle fonti energetiche indispensabili alla sopravvivenza. Ha cioè usato per il cibo e le altre risorse essenziali la stessa qualifica di “non negoziabili”che altre volte aveva attribuito al diritto alla vita e al ruolo della famiglia. Delle regole dell’economia e della necessità di rivederle ha parlato sabato a un convegno della Fondazione Centesimus Annus (che prende il nome da un’enciclica sociale pubblicata da Giovanni Paolo II nel 1991). Ha affermato che l’attuale crisi «mostra in modo evidente come siano da ripensare certi paradigmi economico-finanziari che sono stati dominanti negli ultimi anni». Ha preannunciato che la sua enciclica offrirà indicazioni perché si persegua «una visione dell’economia moderna rispettosa dei bisogni e dei diritti dei deboli». Chi ha speculato, chi ha fatto giochi sulla pelle del prossimo, chi ha rivendicato ogni libertà e nessuna responsabilità non potrà che attendersi una solenne condanna. In risposta alla crisi la Harvard University ha proposto agli allievi un “giuramento dell’aspirante manager”che lo impegna a fare salvi “gli interessi degli azionisti, dei lavoratori, dei clienti e del contesto sociale”, operando sempre “al servizio di un bene superiore”. Mi aspetto che l’enciclica dica questo con la severità di un comandamento biblico.

Annus, ha ricordato la prossima pubblicazione del testo. Che, quindi, è oramai pronto per essere presentato. Quello che non si capisce ancora, e che probabilmente verrà svelato soltanto dopo aver letto la Caritas in Veritate, è contro quale capitalismo - o sistema economico - Benedetto XVI punterà il dito per dare un volto a quello sviluppo finanziario che deve essere condannato.

Molti puntano sui modelli attualmente utilizzati all’interno dei nuovi giganti dell’economia mondiali, le tigri asiatiche rappresentate da Cina e India. Nei due Paesi, accomunati da una spaventosa marcia in avanti del Prodotto interno lordo (che sembra quasi inattaccabile) non esiste una concezione “morale” dell’economia. Pur se vessati da un governo estremamente repressivo, infatti, i cinesi poveri incolpano soltanto loro stessi della situazione in cui versano: non esiste un concetto di assistenzialismo statale o di carità privata. I casi che avvengono sono dettati dalla coscienza del singolo, mai da un modo di essere del sistema economico. Stessa concezione in India, dove la stragrande maggioranza della popolazione vive in un’indigenza sistematicamente ignorata dalle autorità. Parlando della questione in tempi non sospetti, il cardinale Ratzinger diceva: «Una politica economica che sia tesa non soltanto al bene di un gruppo, ma al bene dell’intera famiglia umana, richiede il massimo della disciplina etica e il massimo della forza religiosa. La formazione politica di un desiderio che regoli l’economia verso questo risultato appare, oggi, quasi impossibile». In un caso del genere, se veramente Benedetto XVI volesse indicare in Pechino e Delhi i modelli da non imitare, un punto - dicono alcune fonti - che verrebbe messo nel mirino è quello della crescita demografica. Delegittimando chi vuole vedere nei Paesi in via di sviluppo la necessità di un controllo della popolazione, il Papa ricorda come la famiglia - bene non negoziabile sia il punto di svolta oltre al quale non c’è salvezza sociale e non può esserci sviluppo. D’altra parte, sempre nel 1985, sosteneva: «Un modello economico corretto può essere realizzato soltanto se i poteri etici vengono lasciati completamente liberi. Una moralità che si crede in grado di supplire con la conoscenza tecnica alle sue mancanze si riduce a moralismo. L’antitesi della moralità». E questo, sottolinea il futuro vescovo di Roma, «non è corretto. Oggi abbiamo bisogno del massimo della conoscenza economica specifica, ma anche del massimo ethos a disposizione, in modo che quelle conoscenze vengano utilizzate per i giusti risultati. Soltanto in questo modo avremo una conoscenza in grado di essere sia politicamente praticabile che socialmente tollerabile». È sinceramente impossibile, anche dopo aver ascoltato diversi collaboratori - veri o presunti - della Santa Sede dire se questi temi verranno veramente analizzati nella Caritas in veritate. Così come vennero smentite le voci che volevano nella Centesimus Annus di Giovanni Paolo II una condanna netta del capitalismo americano a favore del socialismo imperante nei Paesi del blocco sovietico. Oggi i confini sono meno netti: non esiste più un sistema conosciuto o indicato come negativo, e le crepe del sistema finanziario internazionale hanno rischiato di seppellirci tutti. Quello che conforta è che si tratta di questioni di cui il Pontefice, nonostante la sua matrice più prettamente dottrinale, è perfettamente a conoscenza. E che sente il bisogno di affrontare anche e forse soprattutto in tempi di crisi - morale ed economica - come questi. D’altra parte, è da tempo che si attende la carità nella verità.


pagina 14 • 17 giugno 2009

il paginone Analisi. La prossima enciclica deve ricalcare la Centesimus Annus: altrimenti si rischia il crollo sociale

Lo strano caso di Herr Bockenforde, erede di Marx e consigliere del Papa di Michael Novak segue dalla prima E l’arnia sprofondò in un indimenticabile silenzio. Questa volta, i giornali riferiscono di una nuova diatriba animata dalle dichiarazioni rilasciate alla stampa italiana da parte di un giurista tedesco che gode (a quanto si dice) di una particolare considerazione agli occhi del Papa. Il presupposto da cui tale eminente studioso del diritto fa discendere le proprie preoccupazioni è dato dal fatto che a suo parere il capitalismo abbia oramai esalato l’ultimo respiro. L’autopsia da lui eseguita fornisce al giurista la prova che il decesso sia stato provocato da gravissimi errori nella sua “logica”. Quanto alle previsioni sul definitivo “tramonto” e “collasso”del capitalismo, a conclusione della prima settimana di giugno, l’economia statunitense non ha ancora eguagliato il record negativo del 1983. E quel record negativo si verificò proprio prima del più

grande e durevole ciclo espansivo dell’economia nella storia dell’umanità, dal 1983 sino al 2008. Inoltre, le dimensioni dell’attuale flessione fanno apparire come irrealistico un paragone con la Grande Depressione del 1929, che non segnò la fine del capitalismo. Se l’economia Usa dovesse registrare ulteriori segnali di flessione anche in seguito al piano di stimolo pari ad un trilione di dollari del giovane Obama, la causa non sarà un’assenza dell’azione dello Stato, ma il de profundis della stessa.

Tre sono i problemi insiti nel virulento attacco mosso al “capitalismo” da Ernst-Wofgang

simi basilari principi”. Esso non affonda le proprie radici nella mente speculativa del logico, bensì nell’ordine pratico del sapere pratico. È la sua capacità di adattamento alle piccole e grandi circostanza che ne indica l’origine pratica, men che meno logica. In secondo luogo, come il suo mentore Marx, Bockenforde mostra di non aver minimamente compreso i “principi interni” del capitalismo, né tantomeno le sue principali forze propulsive e la sua energia. Egli rivela la medesima cecità di Marx nell’individuarne i paradigmi che lo distinguono dai sistemi antagonisti (antico, medievale, tradizionale, fascista, socialista, euro-socialista ed

Coloro che affermano di voler distruggere il capitalismo nella sua attuale forma, pieno di difetti come tutte le cose umane, dovrebbero essere terrorizzati al pensiero che l’auspicio prenda corpo Bockenforde, illustre giurista tedesco. La riflessione dell’insigne studioso prende innanzitutto le mosse da astrazioni, “logica”e“analisi funzionale”. Principi ottimi per la didattica in classe. Ma il vero capitalismo è stato plasmato da e si dimostra ricettivo nei confronti di un mondo fatto di contingenze, forgiato dal caso e dominato da un continuo altalenarsi di ostacoli ed opportunità. Contrariamente all’analisi di Bockenforde sulla sua “logica”, il capitalismo ha successo proprio in virtù delle sue elevate capacità di adattamento alla realtà quotidiana. Persino la sua realtà interiore risulta concreta, complessa, diversa a seconda della collocazione geografica e del sostrato culturale. Il capitalismo non costituisce un sistema fondato su una logica univoca e su “pochis-

Una statua del filosofo tedesco Karl Marx. Nella pagina a fianco: in alto, Michael Novak; in basso, Wolfgang Bockenforde

agricolo terzomondista). Egli non coglie il segreto racchiuso nella sua creatività, e cioè la capacità di nobilitare l’operato anche dei piccoli imprenditori e di fare affidamento su una serie di principi morali quali l’onestà, il duro lavoro, l’abitudine alla cooperazione e la quotidiana inventiva degli individui. Bockenforde appare infine stranamente poco critico nei riguardi dei rimedi da lui stesso proposti al fine di ovviare alle carenze che imputa al capitalismo. Egli indica come nuovo punto di partenza “il” principio di solidarietà (ne esiste uno soltanto?), di guida e di orientamento da parte dello Stato, ed una particolare attenzione dello stesso al crescente “divario” di ineguaglianza. Proprio riguardo alle variazioni di tale “divario”, potrebbe risultare istruttivo prendere in esame il rapido incremento dell’aspettativa di vita anche nei paesi più poveri, quali il Bangladesh, e l’uscita


il paginone relativamente rapida dalla condizione di povertà di più della metà delle nazioni e di miliardi di persone dal 1945. In aggiunta, noi conserviamo vivi ricordi degli infami regimi del XX secolo, che si proponevano di creare un Nuovo Ordine proprio sulla base di un’erronea concezione della “solidarietà”, della guida dello Stato e di falsi miraggi di “uguaglianza”. Ben ricordiamo quei regimi, pieni di esaltazione e di “amore” cameratesco. Termini quali “solidarietà”, “bene comune”, “Stato guardiano”, “regole ferree” ed anche “uguaglianza” sono, e la storia ce lo ha dolorosamente insegnato, equivoci. E ognuno di questi è tragicamente soggetto a un abuso sconsiderato. Qualora non informati dal rispetto per ogni singolo individuo e per l’iniziativa individuale, questi possono rivelarsi principi di soffocamento e morte, e non di certo di vitalità, vita, inventiva e creatività. È per questo che Giovanni Paolo II delineò con estrema cura la propria concezione della solidarietà, quale sinonimo di amore universale e di universale attenzione alle esigenze del prossimo. Egli si curò di mostrare come, al contrario di quella fittizia, una genuina solidarietà deve osservare rispetto per la “soggettività” tanto delle persone quanto delle più piccole comunità. Il Santo Padre faceva appello, in particolar modo nell’enciclica Sollicitudo Rei Socialis (1987), alla difesa della cultura intersoggettiva della Polonia dagli attacchi del regime comunista miranti a sopprimerla. Tale straordinaria enfasi su ciò che nella cultura anglosassone noi definiamo “l’individuo comunitario” (ossia l’individuo non atomizzato e solo, bensì membro di molte differenti piccole comunità) ci fornisce due diverse forme di protezione dallo Stato, una per il singolo individuo, l’altra per ciò che Burke chiamava “i piccoli plotoni” di tutti i giorni.

In ogni caso, l’insigne giurista tedesco elabora due importanti osservazioni (che non avrebbe avuto bisogno di attribuire a Marx, come fece, in quanto molti altri sono giunti a conclusioni maggiormente attendibili attraverso un percorso più empirico). Egli fa riferimento a due presupposti fondamentali dello stato sociale europeo del secolo XX. Lo stato sociale europeo presuppone in primis la presenza di nuclei familiari delle stesse dimensioni di quelli del XIX con circa sette salariati a provvedere (mediante il pagamento delle imposte) al sostentamento di ogni pensionato - e altresì la più breve aspettativa di vita del tempo. Ma, da quanto emerge, l’attuale stato sociale laico rappresenta un forte disincentivo alla formazione di nuclei familiari numerosi, offrendo al tem-

Coloro che sono nati poveri, e che ora poveri non sono più, raramente smettono di rendere grazie al sistema che ci ha consentito di prenderci le nostre responsabilità. Se non lo facciamo, la colpa è nostra

po stesso scarse motivazioni a sopportare i sacrifici derivanti dal mantenimento di famiglie cospicue nel corso di svariati anni di vita coniugale. Il secondo presupposto dello stato sociale del Vecchio Continente si imperniava sul principio secondo cui ogni nazione in cui vigesse un tale sistema potesse vigilare sui propri confini, sui flussi migratori, sul mercato del lavoro e sulla valuta. Ma ad oggi né gli esseri umani né il capitale umano (idee, capacità, conoscenza, solidi principi morali, ecc…) possono essere tenuti prigionieri dai confini. Le società contemporanee sono di gran lunga più aperte che in passato, e anche più pacifiche. In effetti, il professor Bockenforde dimentica completamente di rendere omaggio a quella particolare combinazione tra forma di governo democratica (o più propriamente repubblicana), sistema economico inventivo ed incentrato sulla mente, e cultura umanistica (di estrazione specificamente giudaico-cristiana) che ha assicurato ai cittadini europei delle ultime tre generazioni la più grande pace interna, il più faci-

le accesso alla ricchezza, e stili di vita quanto più confortevoli da molti, molti secoli a questa parte. Tutto ciò rappresenta in buona parte un dono di quel “capitalismo” di cui egli non percepisce minimamente l’essenza. Il vero capitalismo è un capitalismo che trae propriamente ed organicamente origine in, e da, una specifica forma di governo e da una cultura di libertà ben definite. (Non ignorate questa trinità: cultura, forma di governo, economia). L’elemento propulsivo, il motore di un sistema economico talmente radicato e dinamico risiede nei cuori e nelle menti di tutti gli intraprendenti e creativi cittadini. Esso scaturisce dal vigoroso impulso ad indagare la natura ed i motivi della ricchezza delle nazioni (nazioni, non individui). Il suo grande obiettivo sistemico è di spezzare le imperiture catene della povertà che per millenni hanno soggiogato in condizioni di servitù la razza umana.

In che modo, chiese ironicamente Montaigne secoli fa, le persone vivono ad un livello più elevato rispetto al tempo di Cristo? Cosa è stato sinora fatto

17 giugno 2009 • pagina 15

per migliorare le condizioni dei poveri nel corso di tutti questi lunghi secoli? Uomini e donne iniziarono a porsi sul serio tali interrogativi. E riuscirono gradualmente a risollevare la condizione dei poveri di molte nazioni, e quindi di altri ancora. Con i molti successi da serbare come insegnamento, e molte nuove conoscenze guadagnate attraverso dure esperienze, stiamo rendendo sempre meno cospicuo il cerchio di quanti vivono “al di fuori del circolo dello sviluppo”. Adam Smith affermò che lo sviluppo universale avrebbe potuto non essere il fine consapevole di ogni singolo agente economico. Ma egli propose altresì che una volta fatto accesso nell’alveo del sistema di libertà naturale, i vari popoli della Terra avrebbero beneficiato dei risultati naturali delle leggi della natura, che spinge verso la creatività da esercitare nella massima libertà. Pertanto, l’energia interna del sistema in quanto sistema è in tutto e per tutto morale, e ha rappresentato un elemento di trasformazione della condizione umana. Il liberare ogni donna e ogni uomo dal giogo della povertà costituisce non solo il suo fine, ma il faticoso risultato di un processo costante che ha coinvolto l’una dopo l’altra ogni singola generazione. Io stesso ricordo la distruzione prodotto della guerra e la povertà del continente europeo anche nel corso degli anni Cinquanta; e, per citare un altro esempio, più di mezzo miliardo di cinesi ed indiani sono fuggiti dalla prigionia della povertà. Non è lontano il giorno in cui tutta l’Asia raggiungerà lo status di classe media. E quindi a ruota l’Africa. Nessun altro sistema affronta con uguale serietà il problema dell’allocazione universale dei beni del pianeta rispetto al capitalismo. Nessun altro sistema ha creato, grazie all’immaginazione ed al potere dell’intuizione, più ricchezza e ha contribuito a diffonderla in modo più liberale di quel capitalismo bollato come malefico dagli euro-socialisti. Ai giorni nostri, come Giovanni Paolo II scrisse nella Centesimus Annus, la ragione principale della ricchezza delle nazioni sono le idee, la conoscenza, le abilità. Ciò, in misura maggiore rispetto al profitto,

rappresenta nell’ottica del Santo Padre la forza propulsiva, la forza che oggi guida l’azione economica. Il profitto, affermò, costituisce una misura necessaria di quanto correttamente risorse e sforzi vengano utilizzati. Esso non è il motore principale. Le economie che bruciano un’enorme quantitativo di lavoro e di altri fattori produttivi al solo scopo di produrre nient’altro che perdite non apportano vantaggio alcuno alla specie umana. Sistemi come questi comportano sprechi ingenti.

Chiedete a quanti ritengono che il profitto costituisca un’oscenità se pensano che le perdite siano un qualcosa di innocente; e quale dei due è foriero di maggiori benefici per l’umanità? Sarebbe strano se delle creature quali l’uomo e la donna, plasmati ad immagine e somiglianza di Dio per essere creativi e dare sfogo alla propria immaginazione, fatti per essere previdenti nei confronti dei beni terreni, si rivelassero incapaci di scoprire le leggi naturali della libertà ordinata e di una creatività produttiva. Sarebbe strano se gli esseri umani non fossero in grado di rinvenire in tali leggi delle nostre anime il segreto della ricchezza che Dio ha sparso per la natura. Poiché è dalle cose umili come il catrame ed il greggio del deserto che l’oro nero si ricava attraverso le raffinerie (ma non prima del XIX secolo). È nel granello di sabbia che il silicone così vitale per le comunicazioni elettroniche si nasconde. Tuttavia non sono solamente le arti utili, ma anche le più eccelse forme di creatività artistica, e le più alte forme di libertà spirituale che si dipanano di fronte a noi, beneficiari della moderna economia politica. Se non siamo in grado di trarre vantaggio dalle ricchezze caritatevoli, artistiche e spirituali che a noi si rivelano - noi che non siamo privi del cibo o di acqua per dissetarci, non siamo privi degli svaghi, né dei mezzi per scoprire e quindi sviluppare i nostri talenti - allora scenda la sventura su di noi. Poiché saremmo le più sfortunate tra tutte le creature. Coloro che affermano di voler distruggere il capitalismo nella sua attuale forma umana, pieno di difetti come tutte le cose umane, dovrebbero essere terrorizzati al solo pensiero che il loro auspicio possa prendere corpo. E a che scopo poi? E cosa accadrebbe ai poveri? Coloro che sono nati poveri, e che ora poveri non lo sono più, raramente smettono di rendere grazie al sistema che ci ha consentito di prenderci le nostre responsabilità, come le donne e gli uomini liberi dovrebbero fare. Se non siamo all’altezza delle responsabilità che ci siamo assunti, la colpa è da imputare non al sistema ma a noi stessi.


mondo

pagina 16 • 17 giugno 2009

Yemen. Confermata l’uccisione di tre donne, due tedesche e una sudcoreana. Mistero sulla sorte degli altri sei ostaggi

Il giallo di Sana’a È caccia ai rapitori. Valzer di smentite e comunicati sul numero delle vittime di Luisa Arezzo nita Gruenwald, 24 anni; Rita Stumpp, 26 anni. Entrambe tedesche, entrambe studentesse di teologia alla scuola evangelica tedesca Brake Bibelschule. Eom Young-sun, 34 anni, insegnante sudcoreana. Venerdì stavano facendo un pic nic con un gruppo di amici nella regione di Sadaa, nel nord del Paese, quando sono state rapite assieme al resto del gruppo, nove persone in tutto, da un gruppo di ribelli sciiti o, più probabile, da un gruppo legato ad al Qaeda. Lunedì sono state trovate morte e orrendamente mutilate da un pastore di una tribù yemenita del nord del Paese. Il loro ritrovamento, al momento, è l’unica macabra certezza in quello che sempre più risulta essere un vero giallo. Ma anche la testimonianza più esplicita di un Paese, lo Yemen, sull’orlo del collasso.

A

I rapiti Oltre alle tre vittime accertate, ancora ignota la sorte degli altri sei ostaggi, come i loro nomi. Si tratta di tre bambini tedeschi di uno, tre e quattro anni, i loro genitori - entrambi medici - un cittadino britannico (marito di Eom Young-sun). La-

vorano per l’organizzazione umanitaria olandese World Wide Service Foundation, che rifornisce di farmaci l’area settentrionale. Le due ragazze tedesche, invece, lavoravano in un ospedale locale per fare tirocinio in vista di un lavoro nelle Ong.

Quanti ne hanno uccisi? La prime notizie “battute” ieri dalla Reuters, parlavano del ritrovamento di sette corpi. E la notizia, seppur con cautela, è stata confermata anche dall’ambasciata tedesca di stanza a San’a, nella capitale. Tanto che il quotidiano tedesco, Der Spiegel, la dava per certa fino a al tardo pome-

non fanno parte del gruppo dei rapiti. E di chi sarebbero? Non c’è stato modo di saperlo. Sulla “soffiata” è caduto il velo del silenzio. Nemmeno un quarto d’ora che la polizia yemenita annunciava il ritrovamento di due (dei tre) bambini, tutti fratelli, rapiti. «Sono vivi e stanno bene». Queste le parole citate dalla France Press e attribuite al capo della polizia di Sadaa, la città a nord dello Yemen teatro da anni di una guerriglia che conta centinaia di morti. Anche qui, una manciata di minuti e le agenzie, questa volta capitanate dall’Associated Press, citando voci diplomatiche (protette da anonimato) straniere annunciavano il

Anita Gruenvald, 24 anni, Rita Stumpp, 26 anni ed Eom Young-sun, 34 anni. I loro corpi sono stati identificati. Le due tedesche studiavano teologia, la sudcoreana era moglie di uno degli ostaggi riggio di ieri. Poi il primo colpo di scena: le vittime sono solo tre. Tutte donne. A dirlo un diplomatico inglese protetto da anonimato. Immediata la smentita, da vero gioco a rimpiattino, questa volta da parte di un funzionario di polizia yemenita. I corpi sono sette: ma forse gli altri quattro

ritrovamento dei cadaveri di tutti e nove gli ostaggi. Versione confermata dall’intelligence tedesca, che oltretutto si è detta certa che dietro la pluriesecuzione ci fosse la mano di al Qaeda. «Gli ostaggi sono stati tutti uccisi», questa la nota del servizio di spionaggio germanico. I conti,

tuttavia, non tornavano, troppe le smentite e le conferme. Bisogna però attendere la mattinata di ieri per avere l’ennesimo colpo di scena, questa volta per mano del ministero degli Interni tedesco: «incerta la sorte degli ostaggi, certa l’esecuzione di tre donne del gruppo».

Dove sono i sei ostaggi? Le forze di sicurezza yemenite stanno rastrellando la regione di Saada, nel nord del Paese e vicino al confine con l’Arabia Saudita, alla caccia dei sequestratori.

Soldi per le “gole profonde” Le autorità yemenite hanno promesso una ricompensa di 5 milioni di rial (17mila euro euro) a chiunque fornisca informazioni utili alla loro cattura. Come dire: la polizia brancola nel buio.

Chi li tiene prigionieri? Il governo di Sanaa ha accusato del sequestro i ribelli sciiti di Abdel Malek al Houti, che da cinque anni conducono una sanguinosa rivolta. Al Houti, però, ha negato il suo coinvolgimento. La regione di Sadaa è una roccafor-

Per l’ex rettore del Pontificio Istituto di Studi Arabi è il nuovo covo dei terroristi

L’ennesima sfida di bin Laden di Justo Lacunza Balda ra i Paesi più poveri del mondo, loYemen è situato nel sudovest della Penisola arabica e non sembra aver ricevuto la «benedizione divina del petrolio». Così si confidava un vecchio yemenita emigrato nell’Africa orientale mentre masticava il qat e teneva il rosario musulmano nelle sue mani. Un Paese povero, senza petrolio e senza risorse energetiche. Con una popolazione di quasi 23 milioni di abitanti, dei quali la metà ha meno di 15 anni. I suoi vicini, il Regno saudita e il Sultanato omanita, sono ricchi e potenti. LoYemen è il Paese sfortunato del mondo arabo. Lontani i fasti dell’Arabia felix, migliaia di yemeniti hanno preso la strada dell’emigrazione per cercare fortuna altrove: Arabia Saudita, i Paesi del Golfo, l’Africa orientale. Negli ultimi decenni anche alcuni Paesi europei e gli Stati Uniti. Ma, nell’antichità, loYemen era una terra conosciuta a viaggiatori, esploratori,

F

commercianti e banditi. Perché i pirati del mare e i briganti delle montagne hanno sempre abitato i territori del sud dell’Arabia.

Pagare il pizzo, condivere la mercanzia e sfruttare i viaggiatori è stata sempre la regola. Perché la Via delle Spezie passava sulle coste dell’Hadramawt, oggi il sultanato dell’Oman, e i navigatori con le imbarcazioni a vela facevano rifornimento di viveri, vendevano le stoffe indiane di cottone e acquistavano preziosi come le perle naturali. Perciò, pagare i diritti di sosta, transito e vendita era necessario per poter continuare, sia verso il nord attraverso il Mar Rosso o verso il sud, costeggiando le coste del Benadir, oggi la Somalia, e le coste dell’Oceano indiano fino al litorale dell’Azania, oggi Sudafrica. Pagare il pedaggio di transito era doveroso e non farlo significava pericolo di vita. Esat-


mondo

17 giugno 2009 • pagina 17

In alto, Eom Young-sun, la vittima sudcoreana. La foto è tratta dal suo blog. A fianco, il ministro degli Esteri tedesco Steinmeier. In apertura, un’immagine di Saada, nel nord del Paese, l’area dove è avvenuto il rapimento. In basso a sinistra, il presidente yemenita Saleh e a destra, Osama bin Laden

I ribelli del Nord

Ignota la sorte dei tre bambini di uno, tre e quattro anni. Come quella dei loro genitori e del cittadino britannico. Fonti yemenite li danno per morti, l’intelligence tedesca li ritiene vivi te di Al Qaeda e il fatto che alcuni rapiti lavorassero per un’organizzazione cristiana avvalora la pista del fontamentalismo islamico. Non solo: a far pendere l’ago della bilancia in direzione qaedista è l’uccisione degli ostaggi. Per i ribelli sciiti, infatti, autori di oltre 130 sequestri negli

ultimi anni, gli ostaggi sono sempre stati frutto di guadagno. Denaro indispensabile per finanziare la guerriglia. Si ipotizza anche che il governo abbia tentato di addossare la colpa ai ribelli per far emergere a livello internazionale la guerriglia e cercare supporto per stanarla.

tamente come oggi: perché i turisti, per poter scattare fotografie e viaggiare nel Paese debbono sborsare il tributo stabilito dalle tribù e gruppi. I veri “proprietari del territorio”mentre lo Stato è “il possessore”sulla carta costituzionale.Vale a dire, le cose non sono molto cambiate nella prassi tribale per quanto riguarda l’arrivo dei turisti, viaggiatori, esploratori e giornalisti. La storia di quelle terre ci insegna che gli anziani e capi delle tribù sono i veri gestori del potere e i potenti amministratori delle regole locali. E questo sia sul territorio che sulle persone. Infatti, negli ultimi anni più di 200 persone sono state sequestrate. Molti sono stati rilasciati dopo essere stati derubati e obbligati a pagare ingenti somme di denaro. Altri hanno avuto la disgrazia di subire violenze fisiche e di essere stati uccisi senza pietà. Come l’ultimo gruppo di turisti assassinati in circonstanze oscure in questi giorni nella regione di Sa’ada, ai confini con l’Arabia Saudita. La prossimità delle coste somale e dei territori etiopici rendono tutta la questione geopolitica complessa, difficile e intricata. Perché è da alcuni anni che i movimenti estremisti, guidati dall’ideologia islamista, considerano lo Yemen come una base adatta alle loro imprese antioccidentali e favorevoli ai loro scopi di destabi-

La Provincia di Saada, nello Yemen nord-occidentale, riprende a contare i caduti della Shabab al-Muminayn (la Gioventù Credente) in conflitto da cinque anni con le forze governative. Anche le fonti ufficiali fanno i conti e registrano oltre ottomila uomini caduti nel corso degli ultimi due anni. La Shabab, l’organizzazione composta dalla setta sciita degli zaidi, da sempre spina nel fianco dell’esecutivo del presidente, Alì Abdullah Saleh, è accusata di voler destabilizzare il Paese per mantenere un controllo esclusivo sui territori del nord. Il governo di San’a ha deciso ora di puntare l’indice su Iran e Libia, ritenuti responsabili di fornire aiuto logistico e militare al gruppo ribelle. È da tempo che lo Yemen ha chiesto a Tripoli di estradare Yahya al-Houthi, fra-

lizzazione della regione. La ascesa al potere islamista di Osama bin Laden ha dato una svolta decisiva ai gruppi dissidenti e combattenti islamici che sono disposti a ingaggiare la guerra contro i simboli, la presenza e i costumi occidentali.

Perché nell’impostazione islamista di al-Qaeda loYemen è parte integrante della Penisola Arabica. E, come la Somalia, non deve correre il rischio di essere invasa dagli occidentali. Poco importa se sono cittadini o militari, lavoratori o turisti. Ci sono molte frane in questo ragionamento di al-Qaeda, ma la verità è che, sotto il velo dell’uccisione dei turisti occidentali si nascondono altri obiettivi che sono legati alla sfida globale dell’Islam radicale messo in atto su molti fronti. E non poteva essere altrimenti. Le radici familiari di Osama bin Laden sono yemenite. Suo padre emigrò con la sua famiglia in Arabia nel 1932. Lasciò la povertà e la fame in cerca di fortuna nella terra del miele, del latte e dell’oro nero. Era l’anno della nascita del Regno dell’Arabia Saudita. Come i Bin Laden migliaia di yemeniti hanno trovato fortuna in terra straniera. Chi è rimasto è disposto a lavorare per il miglior offerente. A qualsiasi prezzo e con qualsiasi mezzo disponibile.

tello dell’attuale leader della Shabab, Abdullah al-Malik alHouthi e ha pregato Teheran di agire per sospendere la fornitura di armi al gruppo ribelle. Il conflitto con la Gioventù Credente si protrae da anni, ma solo da 15 mesi è stato elevato a problema nazionale.

yemenite hanno arrestato un pezzo da Novanta dell’organizzazione: il saudita Hassan Hussein Ben Alwan, il finanziatore di Al Qaeda nello Yemen. Non si esclude che il rapimento possa essere stato una risposta a questo arresto.

Al Qaeda: dal Pakistan allo Yemen

Lo Yemen è uno dei Paesi più poveri del Medio Oriente - almeno il 45% della popolazione vive sotto la soglia di povertà. A diciotto anni di distanza dalla storica riunificazione, lo Yemen deve fare i conti con la presenza dei militanti di al Qaeda, con l’inquietudine di molte tribù locali, con la rivolta sciita al nord e con un’altra secessionista al sud. Nel Paese circolano oggi 60 milioni di armi per una popolazione che conta 20 milioni di persone: la stima è presto fatta.

Un Paese in bilico Gli attacchi killer dei Predator americani in Pakistan, avviati dall’amministrazione Bush e aumentati con l’arrivo alla Casa Bianca di Barack Obama, stanno facendo fare i bagagli ai terroristi di al Qaeda. Destinazione: Yemen e Somalia. A denunciarlo sia la Cia che il Pentagono. Lo Yemen, soprattutto, parole di Leon Panetta, direttore della Cia, «si sta trasformando nel nuovo santuario del terrorismo». E proprio 4 giorni fa le forse di sicurezza


quadrante

pagina 18 • 17 giugno 2009

Vertice Bric: attenti a quei quattro Brasile, Russia, India e Cina oggi a Ekaterinburg per sfidare il G8 e l’Onu di Osvaldo Baldacci katerinbourg ombelico del mondo, del nuovo mondo da Shangai a Brasilia. E l’Occidente è servito. Sugli Urali in questi giorni si susseguono vertici che potranno disegnare il futuro del Pianeta, ma Europa e Stati Uniti non ci sono. Sono altri i protagonisti, che cercano di impostare nuove costellazioni alternative alle esistenti, con un occhio alla politica e un altro all’economia, per definire a loro vantaggio gli assetti del mondo dopo la crisi. Sono i vertici degli altri, delle potenze emergenti che vogliono affermarsi nei nuovi equilibri. I nuovi protagonisti sono Russia, Cina, India e Brasile, affiancate da altri Paesi asiatici. Fino a ieri si è riunita l’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai (Sco: Russia, Cina, Kazakhstan, Tagikistan, Uzbekistan, Kirghizistan, con Paesi osservatori del calibro di India, Iran, Pakistan e Afghanistan), che è protagonista in uno scacchiere così determinante come l’Asia. E sono arrivati almeno tre segnali chiari: il primo dialogo tra Pakistan e India (e non sotto l’ombrello degli Stati Uniti), le congratulazioni al presidente iraniano Ahmadinejad per la rielezione (senza riserve, mentre l’Europa segue con apprensione gli scontri a Teheran), gli scenari per la gestione delle risorse energetiche, che vuol dire orientare verso l’Asia gran parte di queste risorse. Se non bastasse, oggi si riunisce il Bric: un nome da tener presente per il futuro. L’acronimo sta per Brasile-Russia-IndiaCina, cioè i massimi Paesi emer-

E

IL PERSONAGGIO

genti. I quali da qualche tempo sono così indicati dagli osservatori dell’economia e della finanza che li raggruppano per caratteristiche comuni e per le prospettive degli investimenti. Questi quattro Paesi, che da qualche tempo si consultano e hanno avuto un primo incontro informale nel 2008, avranno oggi il loro primo vertice formale a livello di capi di Stato. Un G4 di grande peso che si pone come contraltare al G8 di cui fa parte solo la Russia.

I quattro Paesi del Bric, che insieme controllano quasi 3mila miliardi di riserve valutarie, focalizzeranno la loro attenzione sulla ristrutturazione del sistema finanziario. La loro attenzione si concentra per ora soprattutto nella finanza: saranno i maggiori acquirenti della prima emissione ob-

Concrete mosse finanziarie ed economiche che consolidano strategie politiche, con un solo obiettivo: contare di più, abbattere l’egemonia americana. In questo senso la crisi è un acceleratore determinante. L’attuale crisi infatti colpisce duramente questi Paesi emergenti perché le loro economie sono ancora meno consolidate di quelle occidentali. Ed è per questo che il Bric vuole creare un futuro in cui sia meno dipendente dagli umori di Wall Street. Allo stesso tempo le loro economie sono quelle che potrebbero meglio riassestarsi nel dopo crisi traendo giovamento dai nuovi equilibri: certo, pagano e pagheranno un prezzo alto anche in termini umani, ma non è questa la loro preoccupazione prioritaria. Quello che succederà è che il nuovo mondo dopo la crisi economica sarà meno americano, come ormai da tempo è meno europeo. E i nuovi grandi vogliono essere pronti. Ma anche per loro non è tutto così semplice. Il tentativo di collaborazione è per loro una buona cosa, e può accrescere il rispettivo prestigio. Ma le differenze che dividono questi Paesi sono ancora tante, e basti pensare a rivalità e concorrenza che dividono ad esempio Cina e Russia (che certo hanno interessi comuni) oppure India e Cina. Ci sono poi differenze strutturali, nei sistemi politici e nelle rispettive società, e una corsa all’accaparramento di risorse che in molti casi li vede divisi e rivali, come ad esempio nel caso del neocolonialismo in Africa, ma anche in Medio Oriente. E comunque nessuno di loro può fare del tutto a meno di Stati Uniti ed Europa, cui sono in diverso modo interconnessi. In ogni caso: attenti a quei quattro.

Il dollaro è nel mirino: Medvedev vuole che il rublo e lo yuan diventino una valuta internazionale di riserva bligazionaria che il Fondo monetario internazionale sta per lanciare per aiutare i Paesi poveri ad uscire dalla crisi. Inoltre discuteranno la possibilità di acquistare i rispettivi bond, scambiandosi valute, debito e investimenti, così da ridurre la propria dipendenza dal dollaro. La Russia in particolare ha nel mirino il dollaro: Medvedev vuole proporre al Bric di sostenere una valuta internazionale di riserva da affiancare al dollaro in vista della revisione dello Special Drawing Rights (Sdr), il paniere di valute internazionali che comprende dollaro, euro, yen e sterlina e in cui Mosca chiede siano inclusi anche il rublo e lo yuan.

Ruth Padel. Prima donna eletta alla cattedra di Poesia dell’Università, si è dimessa per aver tramato contro il suo avversario Derek Walcott

Oxford, dal Nobel alla brace di Silvia Marchetti a prestigiosa cattedra di poesia a Oxford potrebbe avere i giorni contati. Non perché il lirismo di Shakespeare o il simbolismo di T.S. Eliot non attiri più gli studenti, Semplicemente, il professore non c’è. Al momento la cattedra più vecchia del college - ha più di 300 anni ed è il simbolo dell’istituto - è vuota e lo sarà finché il nuovo titolare non verrà eletto. Negli ultimi mesi tra i suoi corridoi si è svolto un piccolo giallo, un intrigo accademico tra colpi di scena e cospirazioni. Il problema maggiore sta proprio nel fatto che ormai la cattedra splende solo per il suo passato prestigioso tra i maggiori poeti inglesi (nonché premi Nobel) l’hanno occupata, da W.H. Auden a Seamus Heaney - e non certo per lo stipendio annuale. Quando si tengono le elezioni (ogni cinque anni) sono in pochi ad andare a votare, l’ultimo scrutinio si è tenuto a maggio ma per via del “giallo”l’elezione del nuovo professore si dovrà ripetere all’inizio del prossimo anno accademico. Ma andiamo con ordine. Questa volta è dir poco se sono volati i coltelli tra i vari concorrenti. Un centinaio di lettere anonime sono state spedite ai “potenti”elettori di Oxford contro uno dei candidati in pectore, il poeta caraibico nonché premio Nobel per la letteratura Derek Walcott, dato tra i preferiti ad occupare la cattedra di poesia. Le lettere riportavano i dettagli di una serie di accuse di molestie sessuali che sarebbero state rivolte contro Walcott

L

Le lettere diffamatorie contro il poeta caraibico sono state pubblicate da tutti i giornali inglesi. Lo scrittore si è ritirato

nel lontano 1982 quando insegnava ad Harvard. Alcune di quelle accuse sono vere (il suo passato non è limpido), e per lui fu la fine della corsa. La campagna diffamatoria si rivela un successo e Walcott decide di dimettersi aprendo la pista all’indiano Arvind Mehrotra, professore all’università di Allahabad, e a Ruth Padel, trisnipote di Charles Darwin. Stando a quanto ricostruisce la stampa inglese, nonostante la Padel abbia subito negato qualunque suo coinvolgimento nel caso, sembrerebbe proprio lei la cospiratrice dell’offensiva mediatica contro Walcott. Non solo avrebbe avviato la catena epistolare contro il collega, ma avrebbe perfino mandato due e-mail denigratorie ai maggiori quotidiani scandalistici del Regno Unito. Pur di salire su quella cattedra Ruth avrebbe firmato anche carte false, perché qualora fosse riuscita a realizzare il suo sogno sarebbe passata alla storia come la prima donna professoressa di poesia a Oxford. E per alcuni giorni ci è perfino riuscita, fatto fuori Walcott a metà maggio è stata eletta come titolare ma si è subito ritirata a causa delle accuse che le sono piovute addosso per aver tramato contro il concorrente caraibico. Alla fine il suo stesso gioco le si è ritorto contro. Ma siamo a Oxford e la tradizione millenaria vuole che la cattedra di poesia, costi quel che costi, trovi il suo titolare. Al momento l’unico rimasto in gara è l’indiano Mehrotra, ma la corsa è ancora in piedi.


quadrante

17 giugno 2009 • pagina 19

Ideato da Yossi Altman, non funzionerà il sabato

Sette canzoni per ricordare la moglie morta di leucemia

Nasce Koogle il sito web “kosher”per gli utraortodossi

Gorbaciov canta per Raissa e incide un compact disc

GERUSALEMME. Presto non ci saranno più problemi per gli ebrei ultra-ortodossi che vogliono navigare in Rete senza il rischio di incappare in siti proibiti come quelli infarciti di materiali pornografici: sarà infatti Koogle, la versione kosher del motore di ricerca Google, a risolvere il problema. Padrino e inventore del sito - è Yossi Altman, che sviluppando questo strumento in lingua ebraica ha previsto l’automatica censura di siti considerati pericolosi per lo spirito religioso ebraico. Presentato ai rabbini oltrodossi il mese scorso, Koogle - nome nato dall’unione di kosher e Google - ha ottenuto la loro approvazione e da una settimana è operativo. Ovviamente, è programmato in modo che non sia possibile navigare di sabato, giorno del Sabbath, il riposo settimanale ebraico. «Il sito, www.koogle.co.il, spiega Altman - omette materiale ”sensibile”dal punto di vista religioso, come alcune fotografie di donne. Ma non solo. Ha particolari filtri restrittivi dedicati ai più piccoli». D’altronde, anche i link a media israeliani e siti per lo shopping online hanno dei filtri per oggetti che gli ultraortodossi non possono tenere nelle loro case, come i televisori.«È un’alternativa kosher per gli ebrei ultraortodos-

LONDRA. L’ex presidente sovie-

Panetta contro Blair: la rivolta degli 007 Usa È feroce battaglia su chi deve controllare lo spionaggio di Andrea Tani lla metà di maggio il Direttore dell’Intelligence (Dci) statunitense, l’ammiraglio in pensione Dennis Blair, ha inviato ai sedici servizi che compongono la galassia informativa statunitense - e che teoricamente dipendono da lui, almeno funzionalmente - un memorandum classificato che dichiarava la sua intenzione di avocare al suo ufficio la responsabilità di designare i cosiddetti capi stazione all’estero, ovvero gli addetti intelligence presso le ambasciate americane in giro per il mondo. In molti dei Paesi interessati esiste una vera e propria struttura intelligence, normalmente composta da personale Cia, in altri vi sono anche o solo stazioni di ascolto elettronico e/o controllo satellitare, gestiti da personale militare della National Security Agency, l’eterna rivale della Cia. Tradizionalmente la funzione di indicare i capi stazione era assegnata al direttore di quest’ultima Agenzia (fino al 2004), quando quest’ultimo è stato deprivato dalla funzione. Ma questa tradizione deve essere molto tenace e fa fatica a svanire perché un giorno dopo l’editto di Blair il capo attuale della Cia, Leon Panetta - un navigato ex parlamentare esperto in bilancio senza esperienza intelligence ma a lungo Chief of Staff del presidente Clinton, nominato da Obama il 9 gennaio in una delle primissime manifestazioni del nuovo potere imperiale washingtoniano - ha emanato una direttiva interna nella quale conferma che i capi stazione continueranno ad essere uomini Cia nominati dal vertice dell’Agenzia. La mossa ha fatto andare su tutte le furie l’ammiraglio Blair, soprattutto in un ambiente come quello istituzionale americano dove le gerarchie esistono e sono fatte rispettare. Si sa che lo scontro non è personale - i due si conoscono da tempo e hanno ottimi rapporti, almeno fino a metà maggio - e che non è nuovo: qualcosa del genere era già successo fra il Dci del secondo Bush, Mike McConnel e l’ammiraglio Hyden, allora capo della Cia, ma non era andato a finire sui giornali. La questione non riguarda una diatriba burocratica di lana caprina per addetti ai lavori: il capo stazione intelligence americano è in certi Paesi una figura

A

più importante dello stesso ambasciatore e stabilisce contatti di importanza vitale. È essenziale che tale figura sia espressione di chi dirige effettivamente la politica intelligence del governo americano e che non ci siano dubbi in proposito. Il problema vero è che la Cia è stata molto ridimensionata e fa fatica a rientrare negli umili ranghi dove non è mai stata.

Oggi Panetta deve fare domanda scritta e aspettare pazientemente per vedere il Grande Capo, quasi mai da solo e non ha una frazione del potere e dell’influenza di un Allen Dulles, di un Casey o anche di un Tenet. In realtà il Pentagono, che è stato il vero rivale della Cia nei sessant’anni dalla sua costituzione e ha dovuto sopportare la sua preminenza fino al 2004, sta rimettendo le cose a posto, dal suo punto di vista, sia ridimensionando questa strana creatura burocratica giudicata supponente, ideologicamente sospetta (“Qui votano tutti democratico”, affermò un suo direttore di nomina repubblicana qualche decennio fa) e del tutto eterodossa nei mezzi e nei fini. Questa operazione non è senza lacrime e sangue e rompe equilibri decennali precostituiti. Si spiega quindi l’alzata di ingegno di Panetta, che certamente ha dovuto piegarsi alle pressioni interne all’Agenzia, dato che è un burocrate accorto e omogeneo al sistema e tutt’altro eversivo. Portando la cosa sui giornali obbliga la Casa Bianca ad intervenire, sperando forse che riesca ad arginare la revanche dei militari. Peccato che l’uomo W.H. che sta gestendo la cosa, provando a fare l’honest brooker, è uno di loro, un marine, il generale a quattro stelle Jones, capo del National Security Council ed ex Saceur (comandante supremo delle forze Nato in Europa).“Cane non mangia cane” e anche se il personaggio è di specchiata onestà intellettuale, difficile che possa contribuire a sanzionare il quartelazo gerarchico di Panetta. Difficile quindi che la rivolta degli 007 possa aver successo, anche se in questo mondo conta spesso più quello che è chiuso nei cassetti di quello che compare sulle scrivanie e sulle rassegne stampa.

Portando la querelle sui giornali la Cia obbliga la Casa Bianca a intervenire, sperando che argini la revanche militare

si che consente loro di navigare in Rete», ha continuato Altman, «affinché l’essere osservanti non sia mai avvertito come un limite».Nessuna reazione o commento, fino adesso, da parte di Google, a cui il sito fa evidente riferimento. Altman non ha mai risposto a chi gli domandava se avesse chiesto un permesso per l’evidente “uso” del loro marchio. Ma qui si entra in questioni legali punto difficili. Come quella che potrebbe avanzare il colosso alimenatare Kraft, che negli anni Settanta ha creato (oggi non è più in commercio) un vasetto di burro d’arachidi dallo stesso identico nome: Koogle. Il prodotto è fuori mercato, ma il logo, per Kraft, è un mito.

tico, Mikhail Gorbaciov, ha inciso un disco nel quale canta alcune delle canzoni preferite dalla moglia Raissa, morta di leucemia nel settembre 1999. L’ex leader del Cremlino ha inciso il disco, intitolato “Canzoni per Raissa”, unitamente ad Andrei Makarevic, un noto compositore e musicista russo, leader del famoso gruppo rock Mashina Vremieni (La macchina del tempo). Il disco - inciso per ricordare i dieci anni della scomparsa di Raisa Gorbaciova, morta di leucemia il 20 settembre 1999, in una clinica in Germania - è stato presentato nei giorni scorsi a Londra a una serata di beneficenza organizzata dalla Fondazione Gorbaciov a

favore dei bambini malati di leucemia, e non verra’ messo in commercio. «Sul disco sono incise sette romanze tanto amate da Raissa Maksimovna. Le canto io personalmente, accompagnato da Andrei Makarevic. Lo abbiamo presentato alla nostra serata di beneficenza a Londra, ma non verrà messo in vendita nei negozi», ha detto Gorbaciov. Come ha precisato Pavel Palazhcenko, portavoce della Fondazione Gorbaciov, «cedendo alle richieste di tutti i 347 ospiti della serata, Mikhail Serghieevic ha cantato una delle canzoni più commoventi del disco, intitolata Vecchie Lettere, suscitando un incredibile entusiasmo e un mare di applausi». La serata benefica - nella quale sono state raccolte 1 milione e 700 mila sterline - è stata organizzata unitamente al Fondo Marie Curie. E l’intero ricavato della serata andrà a beneficio dei bambini malati di leucemia, in particolare per l’acquisto di apparecchiature e attrezzature di ospedali di Mosca e San Pietroburgo.Tra gli ospiti presenti il sindaco di Londra Boris Johnson, la moglie del premier britannico Gordon Brown, Sara, l’ambasciatore russo a Londra Iuri Fedotov, i coniugi Rotemeier proprietari del Daily Mail e la scrittrice Joanne Rowling,“mamma” di Harry Potter.


cultura

pagina 20 • 17 giugno 2009

Ritratti. A 69 anni dalla morte in battaglia, il Museo di Vigna di Valle dedica una teca alla memoria di Balbo, aviatore italiano celebrato nel mondo

La leggenda di Italo Dalla grande guerra al governo della Libia durante il fascismo: storia di un figlio emblematico del suo secolo di Mario Arpino il 28 giugno 1940, ore 17.30. L’Italia è entrata in guerra da diciotto giorni. Il campo di aviazione T. 2 di Tobruk, Africa Settentrionale, è sotto l’attacco dei bombardieri della Royal Air Force, che hanno le loro basi nel vicinissimo Egitto. L’incursione avviene di sorpresa, senza alcun preavviso del sistema di allarme, da direzione nord-est. Sono tre pattuglie di biBristol motori Blenheim, nove velivoli in tutto ( ma altre testimonianze parlano di 12) che, attraversando il campo in diagonale, stendono un tappeto di bombe che danneggiano alcuni edifici, incendiano del carburante, distruggono al suolo qualche velivolo e fanno alcune vittime. La contraerea non apre il fuoco, se non tardivamente e ad azione compiuta. Gli attaccanti si allontanano indisturbati, contro sole. Subito dopo, dalla stessa direzione ed alla stessa quota, compaiono altre due sagome di velivoli bombardieri che in formazione stretta dirigono su T. 2. La contraerea questa volta non si fa sorprendere, ed apre disordinatamente il fuoco da tutte le postazioni. Da quelle di nave S.Giorgio, da tempo immobilizzata in rada, a quelle del Regio Esercito, dislocate nei pressi dell’aeroporto, sui costoni circostanti. Mentre il secondo dei due velivoli, per sfuggire al fuoco e farsi riconoscere dai marinai, picchia verso il centro della rada, il numero uno si inclina bruscamente, lascia vedere dei bagliori a destra, sull’ala e la fusoliera, e precipita in fiamme sul costone. Brucerà sino a sera, senza permettere ai soccorsi, ormai inutili, di avvicinarsi.

È

Muore così il Maresciallo dell’Aria Italo Balbo, pilota del velivolo, nominato governatore della Tripolitania e Cirenaica, poi Libia, dal 1° gennaio 1934. Stessa sorte tocca

agli altri membri dell’equipaggio, il maggiore Frailich, il capitano Capannini e il maresciallo Berti, e ai passeggeri, il giornalista Nello Quilici, il tenente pilota Cino Florio, il tenente degli alpini Lino Balbo, il generale Caretti, federale di

Tripoli, e il maggiore Brunelli. I nomi dell’equipaggio, assieme a tanti altri – troppi – sono incisi sulle pareti dell’ingresso dei Tre Archi di Palazzo Aeronautica, appena prima del cortile d’onore. Due giorni dopo gli aviatori della Royal Air Force puntano ancora su Tobruk, ma questa volta senza sganciare bombe. Lanciano invece una scatola di latta, avvolta da un nastro tricolore, che contiene il messaggio che

riproduciamo in copia dell’originale. La lettera é indirizzata al generale Porro, comandante della Regia Aeronautica della Libia, che, per inciso, era anche il pilota del secondo velivolo coinvolto nella tragica vicenda. Il messaggio, firmato dall’Air Marshal Arthur Longmore, comandante in capo della R.A.F. in medio-oriente, in libera traduzione così recitava: «Le forze aeree britanniche esprimono le loro sincere condoglianze per la morte del Maresciallo Balbo, un grande comandante e un valoroso aviatore, che io conoscevo personalmente e che il destino ha fatto sì che si trovasse dalla parte avversa». Come uomo e come politico, certamente va inquadrato nel suo tempo. Figura amata, dileggiata, discussa, Italo Balbo fu, scrive il professor Emilio Gentile, figlio emblematico del suo secolo, come egli stesso si definisce nel suo diario del 1922.

La sua cultura e mentalità erano impregnate delle credenze e dei miti dell’epoca, fatti propri dalla generazione rivoluzionaria, interventista e combattente che aveva dato origine al fascismo. Alpino durante la grande guerra, era stato ferito e deco-

Nelle foto, alcuni scatti di Italo Balbo. Nato nel 1896 a Quartesana, in provincia di Ferrara, durante la prima guerra mondiale prestò servizio nell’ottavo Reggimento Alpini. Quadrumviro della marcia su Roma nel 1922, divenne sotto il regime fascista maresciallo delle Forze Aeree e poi ministro dell’Aeronautica. Di ritorno da una spedizione in Egitto, morì a Tobruk nel 1940

rato al valore per azioni compiute come sottotenente degli Arditi. Tutti valori poi incarnati nella sua esperienza politica, che ben presto lo trasformarono in eroe rappresentativo del primo fascismo. Accusato a più riprese di essere tra i responsabili dell’assassinio di don Minzoni, fu completamente scagionato da una sentenza del tribunale penale di Roma nel dicembre 1924 e da quella di un processo celebrato in epoca non sospetta – era

I cimeli in mostra a Bracciano Riapre domani alle ore 11, presso il Museo dell’Aeronautica Militare di Vigna di Valle, a Bracciano (Rm), il padiglione Skema chiuso dalla primavera scorsa per vari interventi. All’interno dell’hangar sono stati realizzati un nuovo allestimento museale, il rifacimento del pavimento che assicura le condizioni ottimali per la conservazione dei beni esposti e la costruzione di una tettoia esterna che garantisce un aumento della superficie espositiva di circa 1000 metri quadri grazie al quale è stato possibile introdurre nuovi aeromobili come l’elicottero Agusta Bell AB204 B, il velivolo prototipo Aermacchi MB. 323 e, prossimamente, l’AMX.

In occasione della riapertura, parteciperanno tra gli altri alla manifestazione di domani il Comandante delle Scuole dell’Aeronautica Militare, generale Giampiero Gargini e il Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare, generale Daniele Tei. Nel corso dell’evento verrà presentata anche una nuova teca dedicata a Italo Balbo aviatore, contenente pregiati cimeli storici donati dal figlio Paolo.

il 1947 – dalla corte di assise di Ferrara, che escludeva Balbo da ogni responsabilità. Queste due sentenze, in passato, sono state solo raramente citate, lasciando in questo dopoguerra attorno alla sua figura un alone di negatività che solo la storiografia più recente ha tentato di dissipare, riuscendoci in larga misura. In ogni caso, noi qui stiamo ricordando, a sessantanove anni dalla morte, la figura di Italo Balbo come aviatore. È questa che ci interessa, perché ha lasciato, purtroppo più all’estero che da noi, una memoria che ancora si rinnova. In Italia, senza dubbio lo ricordano con ammirazione l’Aeronautica Militare e l’Aviazione Civile, delle quali, lasciando traccia indelebile, è stato tra le due guerre il primo architetto. Questo, oggi, gli è riconosciuto dagli storici di qual si voglia parte politica e nazio-


cultura

cultura della modernità e della tecnica – oltre al mito del futuro e del coraggio tipico di quegli anni – quanto le più alte doti di capacità decisionale, organizzativa, tecnologica e persino imprenditoriale. È stato, in altre parole, il primo esempio di comandante-manager nelle forze armate, il cui concetto di autorità, attraverso una credibilità indiscussa, si era ormai evoluto in quello di autorevolezza. Secondo Carlo Maria Santoro, sottosegretario con deleghe per l’Aeronautica al tempo del centenario della nascita, l’Aviazione italiana sotto la sua direzione fu un esempio ineguagliato di «buon governo» in un panorama di piatta e allineata mediocrità. Nei suoi sette anni di attività il ministero dell’Aeronautica, che si occupava anche di sviluppo dell’aviazione civile, fu un tale modello organizzativo per la Pubblica amministrazione che non aveva riscontro alcuno negli altri dicasteri, e più in generale negli apparati dello Stato.

Il mito di Balbo aviatore –

Le trasvolate atlantiche del 1931 e del 1933 gli diedero grande fama. La stampa lo paragonò a Ulisse e Cristoforo Colombo nalità, da Santoro a Curami, da Gentile a Rochat, da Falessi a Pelliccia, dall’americano Brian Sullivan al britannico John Gooch. Nella personalità di Balbo si accoppiavano felicemente tanto le forme della

scrive ancora Emilio Gentile – fu soprattutto legato alle trasvolate atlantiche di massa compiute nel 1931 e nel 1933. Il successo di queste imprese dilatò oltre i confini nazionali la sua leggenda. Favorevole o contraria al regime fascista, la stampa di tutto il mondo fu unanime nelle celebrazioni, assimilando il trasvolatore a Ulisse, Giasone, Cristoforo Colombo e Amerigo Vespucci. Oggi, paragoneremmo le sue imprese a quelle dei pionieri dello Spazio. Dagli studi e dalle esperienze delle crociere atlantiche nacque l’Aviazione commerciale italiana. Pochi sanno che – pubblichia-

17 giugno 2009 • pagina 21

mo qui la copia dell’originale – con Atto del Congresso del 16 maggio 1935, il presidente Roosevelt conferiva al Maresciallo dell’Aria Italo Balbo la Distinguished Flying Cross, la più alta decorazione al merito aeronautico degli Stati Uniti, «in riconoscimento del suo volo di andata e ritorno con 24 idrovolanti in formazione, che fu un evento di rilevanza nazionale, un grande successo aeronautico e un segno delle ottime relazioni tra Italia e Stati Uniti». I documenti che abbiamo citato, assieme ad altri importanti cimeli, sono stati donati in originale dalla famiglia all’Aeronautica Militare, che, a partire dal 18 giugno, li conserverà in una teca del Museo aeronautico di Vigna di Valle, liberamente accessibile al pubblico.

In Patria, le cose non andarono allo stesso modo, e dopo i trionfi iniziarono le amarezze. Così, anche l’improvvisa decisione del regime di rimuovere Italo Balbo da Ministro dell’Aeronautica, per

inviarlo a governare la Libia, fu considerata da un’incredula opinione pubblica come un’ingiusta punizione nei confronti di un fascista non allineato, dotato di uno spirito indipendente e di una libertà di giudizio allora non accettata. Anche questo, assieme all’opera poi svolta oltremare, contribuì ad alimentare il suo mito fino al tragico epilogo. E molto oltre.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale

dal “People’s Daily” del 16/06/2009

Un ideogramma vi salverà di Li Hongmei l presidente taiwanese Ma Ying-jeou ha proposto ieri una nuova formula per unire le comunità cinesi presenti nel mondo: conoscere il cinese tradizionale ma scrivere in caratteri semplificati. Quella che può sembrare una curiosità linguistica è in realtà un’apertura senza precedenti alla Cina continentale, che non riconosce l’indipendenza di Taiwan e la considera una provincia ribelle. I caratteri tradizionali sono infatti molto usati sull’isola, a Hong Kong e nelle numerose comunità cinesi sparse per il mondo; quelli semplificati sono invece la norma sul territorio della Repubblica popolare. Il linguaggio, ha sottolineato il nazionalista Ma, «è un ponte di cultura che serve a unire, non a dividere». Se la proposta dovesse incontrare l’appoggio della leadership comunista cinese, si tratterebbe di un grande balzo in avanti verso la promozione di una prosperità comune, basata su radici condivise che proprio dal linguaggio traggono la loro consapevolezza. Sul lungo periodo, inoltre, il terreno culturale comune potrebbe divenire uno strumento per facilitare la comunicazione fra i due lati dello Stretto, una piattaforma effettiva per dimostrare l’unità della Cina e un ariete che dimostrerà la forza gentile della cultura cinese.

I

Il passo in avanti compiuto da Ma dimostra inoltre un cambiamento epocale nel campo della dirigenza taiwanese: esso non deriva da un impulso improvviso, ma va attribuito al noto rispetto che il presidente del Kuomintang tributa alla cultura tradizionale cinese. Lo si nota dalla sua splendida grafia a mano libera, uno dei modi con cui venivano scelti i dignitari imperiali, e dal suo rispetto per il culto di

Confucio e dell’imperatore Huang, un semi Dio presente nel pantheon tradizionale della Cina antica. Inoltre, va registrato che la proposta di una base culturale comune per Pechino e Taipei non è un’invenzione attuale. Sin dagli inizi del 2008, infatti, si sono moltiplicate le richieste comuni fra le due entità territoriali per una candidatura comune all’Unesco, in modo da preservare in maniera unitaria la tradizione e l’eredità culturale di tutta la Cina. Fra questi valori spiccano proprio la lingua - scritta e parlata - e la famosa Festa di Primavera. Sfortunatamente, però, la proposta dell’epoca si scontrò con un muro fatto di burocrazie e ideologie contrapposte. Ora che sempre più persone riconoscono invece l’importanza di una visione comune per la nostra cultura, separata per decenni da una striscia d’acqua e da un contenzioso politico, la scrittura tradizionale e quella semplificata assumono i contorni di araldi di unità. La versione semplificata dei caratteri cinesi divenne famosa nella Cina continentale nei primi anni Cinquanta, subito dopo la fondazione della Repubblica popolare ad opera di Mao Zedong. La nuova grafia prevede una serie di ideogrammi strozzati e ridotti, in modo da aiutarne la comprensione e diffonderne la forma. La forma semplificata è usata nei documenti ufficiali delle Nazioni Unite. D’altra parte, la forma tradizionale è da sempre un collegamento che non può essere sacrificato con la nostra millenaria civiltà: anche se più complicata da apprendere, rappresenta troppo per essere abolita. In questo senso, la proposta di Ma è fatta in coscienza e con buona volontà: un modo per superare gli scogli mantenendo viva la nostra

cultura. In questo senso, fa scalpore la reazione dell’opposizione taiwanese rappresentata dal Partito democratico progressista.

I suoi deputati hanno attaccato il presidente, sostenendo che l’adozione dei caratteri semplificati avrebbe ucciso la cultura cinese. E questo nonostante il fatto che per alcuni di quegli uomini politici, la nostra cultura non è altro che un mucchio di fango stantio, da buttare via in nome della presunta “indipendenza di Taiwan”. Come dimostrano le innumerevoli prove di disprezzo fornite sin dai tempi di Chiang Kaishek, che non ha esitato a smontare tradizioni millenarie per ottenere il favore degli Stati Uniti d’America e il loro appoggio contro la Cina popolare guidata da Mao. Ma i fatti parleranno da soli, e ogni tentativo di fermare quello che la storia impone come un passo necessario verrà per forza di cose distrutto.

L’IMMAGINE

Sono orgoglioso di avere la ministra Gelmini come mio diretto superiore Vai fino a Besena Brianza al comizio di sua Eccellenza la ministra Gelmini per ascoltare una delle sue illuminanti perle di saggezza e, invece, le escono di bocca ben quattro pirla. Proprio così (cfr. 2 giugno u.s.). La Mariastella nazionale, riferendosi ad alcuni operatori della scuola che esponevano civilmente dei cartelli, ha affermato testualmente: «Sono solo quattro pirla che mi contestano e non sanno cos’è la democrazia». Certo, da un ministro che ha giurato sulla Costituzione della Repubblica e fa parte del cosiddetto Popolo della libertà, quest’uscita è stata un’ottima dimostrazione di sapienza e pratica democratica. Vero è che, per tutto quanto sta facendo alla scuola e per tutte le conseguenze che arrecherà a intere generazioni di giovani, non meriterebbe “solo quattro pirla”ma milioni. Intanto, caro ministro, voglia raccogliere l’adesione del quinto pirla. Io, però, non la contesto. Anzi, sono orgoglioso di averla come mio diretto superiore.

Gianfranco Pignatelli

LIBERTÀ, EFFICIENZA E GIUSTIZIA L’umanità abbisogna della sintesi pragmatica di libertà, responsabilità individuale, efficienza economica e giustizia sociale. Il capitalismo democratico concorrenziale vince ovunque e non ha alternative: è il sistema più efficiente per realizzare obiettivi economici. L’impresa privata valorizza quella energia particolare che si chiama“iniziativa”. Nessun ente o agenzia pubblica può eguagliare alcune capacità proprie del mercato. La pianificazione statale ha fallito. L’individualismo salvaguarda la libertà personale; inoltre, assicura la varietà e vivacità della vita, che sono strumenti indispensabili del miglioramento futuro. Lo stimolo acquisitivo del guadagno e della proprietà è base essenziale d’azione economica.

L’intraprendenza delle persone e il libero gioco delle forze economiche giovano alla produttività e al decentramento decisionale. Se una persona ambisce a primeggiare, è preferibile che signoreggi sul suo privato conto bancario, piuttosto che eserciti pubblico dominio sui suoi concittadini. «Le scartoffie burocratiche costituiscono le moderne catene dei popoli» (F. Kafka). L’italiano comune rischia d’essere mortificato da: statalismo, buonismo, massificazione, ipocrisia, ridotta libertà, fisco punitivo, scarsa meritocrazia. E anche da: privilegi delle caste burocratiche e politiche, ritardi e disfunzioni pubbliche, quartieri degradati, clandestinità diffusa, nonché criminalità spavalda e impunita.

Gianfranco Nìbale

Viva l’ambiente! Pronti per la prova costume? Allora ecco qualche dritta: Capalbio e Isola del Giglio, in Toscana, Domus de Maria, in Sardegna, isola di Salina e Noto, in Sicilia. Sono solo alcuni tra i mari più puliti di quest’anno, secondo la Legambiente. Per chi invece volesse catapultarsi nella spiaggia della foto: siamo a Tulum nello Yucatan, in Messico, sabbia dorata e mare blu all’ombra di antiche rovine Maya

FEDE E CORAGGIO Certe volte penso che viviamo in un mondo di insofferenti, dove si cerca di dare una collocazione politica ai comportamenti, riconoscendo come razzismo ogni forma di incapacità di gestire un rapporto con un vicino che è troppo differente da noi. Così penso alle parole del Papa quando afferma

che l’unione tra l’uomo e la donna è alla base della società e rappresenta il connubio tra due differenze ataviche che può generare la vita, l’amore e tante cose che uno non si aspetta e che potremmo definire miracoli. Intanto, proprio tale unione è oggi in crisi; matrimoni che si spezzano continuamente e rapporti che prima di ingranare

devono fare i conti con tutti i problemi del mondo: depressioni, economia, fino alla stessa incapacità di amare. Ci vuole fede ma soprattutto coraggio, sapendo che siamo tanti Ulisse che ruotano intorno a se stessi senza riconoscere la propria casa, quella indicata dal Signore.

Bruno Russo


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog

dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Nulla desidero e nulla voglio Quante volte senza volerlo ho fatto piangere mio padre, lui così fine e intelligente! Ma non capiva il mio idioma. Ho la disgrazia di essere nato con una lingua speciale di cui sono il solo ad avere la chiave. Non sono per niente infelice; non sono blasé su niente; tutti mi trovano di carattere allegro, e non mi lamento mai. In fondo non sono da compiangere, poiché nulla desidero e nulla voglio. Dai, non ti tormenterò più; ti toccherò piano piano come un bambino che si ha paura di ferire, ritirerò dentro le punte che escono da me. Con un po’ di buona volontà, il porcospino non è sempre pungente. Dici che mi analizzo troppo; invece a me sembra di non conoscermi abbastanza; ogni giorno scopro in me qualcosa di nuovo.Viaggio dentro di me come in un paese sconosciuto, pur se percorso centinaia di volte. Tu non mi sei grata della mia franchezza (le donne vogliono essere ingannate; vi ci costringono e, se resistete, vi mettono in stato di accusa). Mi dici che all’inizio non mi ero mostrato così; cerca di ricordare bene. Ho cominciato col mostrarti le mie piaghe. Ricorda tutto quello che ti ho detto durante la nostra prima cena; hai persino esclamato: «Ma così voi scusate tutto! per voi non c’è più né il bene né il male». Gustave Flaubert a Louise Colet

ACCADDE OGGI

MARK TWAIN SCRITTORE E UMORISTA SORPRENDENTE Per anni è stato relegato ad autore di storie per ragazzi, e talvolta è persino raro trovare nelle librerie edizioni per adulti dei suoi meravigliosi romanzi. Romanzi filosofici, per lo più. Romanzi del sapore pungente, caustico, persino anticlericale. Romanzi che si fanno beffe della stupidità di quella che Mark Twain stesso definisce sarcasticamente Razza Umana. Romanzi di profonda umanità, come Il Principe e il povero, ma anche Uno Yankee del Connecticut alla Corte di Re Artù. Romanzo pubblicato nel 1889, che si fa letteralmente beffe del Medioevo, dell’aria dogmatica e superstiziosa respirata allora, delle inique leggi dei Sovrani e della Chiesa cattolica. Ecco che, inventandosi una sorta di viaggio nel passato - il protagonista - uno Yankee del Connecticut appunto, si ritrova catapultato nel VI secolo, alla corte del mitologico Artù. Qui è considerato una sorta di Mago, più potente dello stesso Merlino e pertanto avrà il privilegio di divenire primo ministro del Re con l’appellativo da egli stesso scelto: Il Principale. Il Principale – con l’aiuto di un giovane paggio di corte, il fido Clarence - inizierà ben presto a prendersi gioco della cavalleria di Lancillotto, trasformando i cavalieri in cartelloni pubblicitari ambulanti, ma anche a rendere più progredita e prospera quella società avviando ogni sorta di industrie moderne e persino avviando una rete telefonica ed un giornale dell’epoca. Nel corso delle sua avventure

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

17 giugno 1953 Moti operai nella Germania Est

1967 La Cina sperimenta la sua prima bomba all’idrogeno 1970 Città del Messico: semifinale dei campionati del mondo di calcio fra Italia e Germania Ovest (4-3 dts.) 1972 L’atleta Pietro Mennea è primatista europeo a Milano dei 100 metri piani 1974 Due militanti del Movimento sociale italiano, Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola, vengono uccisi nella sede dell’Msi a Padova. Sono i primi omicidi compiuti dalle Brigate Rosse 1982 Il corpo del “Banchiere di Dio”, Roberto Calvi, viene trovato penzolante dal Blackfriars Bridge di Londra 1983 Il presentatore televisivo Enzo Tortora viene arrestato per associazione a delinquere di stampo camorristico 1994 O. J. Simpson viene arrestato per l’omicidio della moglie e di un amico di lei 2001 L’A.S. Roma dopo 18 anni dall’ultimo scudetto, diventa Campione d’Italia

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

lo Yankee, dimostrerà come il diritto divino dei Re non sia che una stupidaggine inventata dalla Chiesa al fine di soggiogare i fedeli-sudditi, costretti a vivere in condizioni più che miserevoli. E dimostrerà anche come il Re non sia che un individuo pari a tutti gli altri, solamente con degli atteggiamenti diversi dovuti all’educazione ricevuta. E così, il Nostro, avrà in mente solo di trasformare quella società medievale in una società pienamente democratica e progredita, nonostante l’onnipresente Chiesa farà di tutto affinché ciò possa essere ostacolato. Innescando una vera e propria una battaglia all’ultimo sangue contro loYankee. Unicamente il genio di Mark Twain può essere giunto a tanto, descrivendo peraltro ottimamente scene strazianti, fatte di torture assai verosimili compiute proprio nel VI secolo d.C.. A dimostrazione di quanto l’umanità possa essere crudele qualora chini la testa di fronte ai soprusi del Potere e del dogma. Samuel Langhorne Clemens, in arte Mark Twain, è senza dubbio lo scrittore più spassoso dell’800 ed anche il più umano. Eterno Peter Pan, anche in età avanzata, fece della sua vita un’eterna lotta contro la stupidità, l’ignoranza, lo schiavismo, il militarismo. E fu anche grande fautore della scienza - fra l’altro fu molto amico dello scienziato Nikola Tesla, il cui laboratorio frequentò spesso. Non nascose mai il suo carattere a tratti iracondo, per il quale era noto. Ma la sua indole fu caratterizzata dalla più spassionata bontà e candore.

CIAO RENZO Ho conosciuto Renzo Foa circa tre anni fa, quando Fedinando Adornato mi incaricò di organizzare un Club Liberal nella città di Bari. Durante la riunione ascoltò e non disse nulla. Alla fine mi avvicinai per salutarlo e mi disse poche parole, non banali. Di lui ebbi l’impressione di un uomo apparentemente brusco col fare un po’ da orso, ne rimasi molto affascinato. Un mese dopo era da noi a Bari ad inaugurare la sede di piazza Luigi di Savoia n. 7, e da noi poi è tornato altre volte a testimonianza di un legame e di un sentimento di amicizia molto forte. Quando si alzava in piedi, e dopo una schiarimento della voce, iniziava a parlare con quel timbro caldo ed avvolgente, ti portava con sé in un viaggio incredibile nei meandri della storia contemporanea e degli accadimenti sociopolitico-culturali più incredibili con la padronanza dei “maestri”. Era un uomo di cultura e di rara intensità del pensiero. Caro Renzo restano forgiate nella mia memoria quelle parole che pronunciasti nella sala consiliare della Provincia di Bari: «Non ci può essere alcuna reale conversione senza dolore». Escludevi che i passaggi di crescita reale nella vita possano avvenire senza pagare alcun prezzo. Eri estraneo alla modernità, intesa come ricerca del successo attraverso la furbizia o subdole scorciatoie, ed incarnavi un esempio di onestà intellettuale e culturale lontana dall’attuale era della mediocrità. Eri estraneo ad un sistema di potere che vuole controllare tutto e tutti e non dare libero sfogo alle eccellenze e professionalità. Eri un sognatore perché credevi nel merito, nella democrazie, nel confronto, nel dialogo. Perciò eri inattuale ed irregolare. È per questo che per te e con te continueremo a sperare di riuscire a costruire un mondo migliore… come lo volevi tu. Ciao. Ignazio Lagrotta C O O R D I N A T O R E R E G I O N A L E C I R C O L I LI B E R A L P U G L I A

APPUNTAMENTI GIUGNO 2009 VENERDÌ 19, ROMA, ORE 11 PALAZZO FERRAJOLI - PIAZZA COLONNA Riunione nazionale dei Coordinatori Regionali e Provinciali e dei Presidenti Comunali dei Circoli liberal. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

Luca Bagatin

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma

Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1

Amministratore Unico Ferdinando Adornato

Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118

Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Marco Staderini Amministratore delegato: Angelo Maria Sanza Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato,Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Emilio Lagrotta, Gennaro Moccia, Roberto Sergio Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747

Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani,

Emilio Spedicato, Davide Urso,

Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento) Editorial s.r.l. Medicina (Bologna)

Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari,

Marco Vallora, Sergio Valzania

Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.”

Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner,

Abbonamenti

06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro - Annuale 130 euro Sostenitore 200 euro c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” Copie arretrate 2,50 euro

Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Udc

e di cronach

via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 0 6 . 6 9 9 2 4 0 8 8 - 0 6 . 6 9 9 0 0 8 3 Fax. 0 6 . 6 9 92 1 9 3 8 email: redazione@liberal.it - Web: www.liberal.it

Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30


PAGINAVENTIQUATTRO

Vacanze romane. Spopola nella Capitale la VI edizione della rassegna

La fresca estate del VINÒFORUM di Livia Belardelli resi dal gusto… fino all’ultima goccia, recita lo slogan della VI edizione di Vinòforum. Vinòforum appunto, non vinofòrum come dicono in tanti, insomma con l’accento sulla o, rosso e visibile nei manifesti della capitale. Suona un po’ come una rincorsa linguistica, vinòforum!, una bevuta tutta d’un fiato, un trampolino per lanciarsi senza pensieri nel mondo dell’enologia italiana. Esperti, neofiti, appassionati, c’è posto per tutti. E sarà forse l’estate alle porte, la brezza primaverile che coccola le serate di giugno, il desiderio di aria aperta o la riscoperta delle pulsioni del cuore dopo la narcosi invernale a rendere ancor più desiderabile la manifestazione capitolina. Dolce vita, vino, chiacchiere e jazz.

P

Così, come ogni anno, mi avventuro anch’io sul Lungotevere Maresciallo Diaz, meta giardini della Farnesina, scopo viaggio sensoriale sui sentieri dell’enogastronomia. 15 euro il costo del biglietto, 20 se si sceglie il week end. Portabicchiere al collo e calice alla mano si varca la soglia bianca e gommosa del giardino dell’Eden, davanti a mille tentazioni in bottiglia schierate nei numerosi banchi d’assaggio. La prima piacevole novità è che le aziende vinicole presenti hanno quasi raddoppiato le etichette in degustazione passando dalle 1500 dell’anno passato a quota 2500. Sono lontane le edizioni 2004-05 quando un neonato Vinòforum muoveva i primi passi nei giardini di Piazza Cavour con 150 etichette. Stavolta l’imperativo è scelta e varietà, per rappresentare e fotografare al meglio il complesso panorama vinicolo italiano.Tra gli stand incontriamo Maurizio De Venuti che, insieme al figlio Emiliano, patron di Vinòforum, organizza la manifestazione. Ci racconta della nuova architettura del villaggio, più ariosa ed elegante (anche se l’atmosfera da sagra di paese a noi non dispiaceva), dell’Oleoteca con degustazioni e seminari alla scoperta delle eccellenze italiane, dell’area dedicata alle enoteche che si alternano ogni sera. Ieri è stata la volta di Bulzo-

ni, storica enoteca romana. Scorgendo il calendario però alcuni grandi nomi mancano all’appello. Oltre a vino e olio c’è spazio per il sigaro toscano, cliente abituale del Vinòforum, e per tanta cucina. Irrinunciabile una puntata allo stand della gelateria Fatamorgana dove, superato lo scetticismo iniziale, si possono gustare ottimi e singolari gusti di gelato, dal basilico all’aragosta fino ad un eccezionale pecorino di fossa. La ristorazione è in collaborazione con la provincia di Roma e tra gli chef presenti stasera è la volta di Paolo Cacciani. Salutiamo De Venuti e

ci sul colore del vino ma su ogni profumo del suo bouquet. Lasciato il pomposo mondo dell’eccitazione linguistica – e siamo certi anche del palato – il nostro viaggio continua sulle note del Jazz.

Non solo questo a dirla tutta. C’è anche l’ennesimo laboratorio sensoriale (e linguistico) che recita “Da Bacco a Bach: Mozart e il Riesling”che promette abbinamenti eno-musicali per nutrire (unicamente) lo spirito. La rassegna jazzistica (e non) invece è un appuntamento fisso, colonna sonora serpeggiante tra calici e bottiglie delle numerose degustazioni. Dopo l’apertura di Sergio Cammariere, per quest’ultimo week end sarà la volta del trio Os Morcegos con ritmi brasiliani e melodie mediterranee e, per la chiusura, di Joe Barbieri. Tante anche le degustazioni organizzate dall’onnipresente Associazione Italiana Sommelier, dove arrivano le emozioni made in Langa grazie ai vini di Angelo Gaja, i grandi bianchi di Friuli e Alto Adige e soprattutto diversi appuntamenti che ripropongono le preziose etichette del Bibenda day 2009. Noi per concludere ci fermiamo a degustare dell’ottima chianina in terra di Toscana, sorseggiando Vitaroccia, vino di punta dell’Azienda Icario e conversando con Massimo Billetto dell’A.I.S. «Vinòforum è un bel modo di fare cultura del vino e del cibo, un modo fresco e giovanile e non eccessivamente strutturato. L’auspicio è che possa essere allargato perché espositori e comunicatori sono sempre gli stessi» ci dice. Prima di salutarci ci consiglia due vini estremi, un bianco toscano da uve Pinot Grigio e Gewurztraminer, austero e di grande impatto, e un prodotto inusuale, nato fuori dalle zone tradizionali, uno spumante abruzzese fatto con uve Pecorino, Jeanette di Chiarieri.

La prima piacevole novità rispetto agli anni precedenti è che le aziende vinicole presenti hanno quasi raddoppiato le etichette in degustazione passando dalle 1500 dell’anno passato a quota 2500. Stavolta l’imperativo per tutti è scelta e varietà continuiamo il tour tra gli stand, non prima di una polpettina in salsa all’arancia dello chef Antonio Bonamini (Associazione Italiana Personal Chef). Si può seguire un percorso tematico oppure abbandonarsi ad una flânerie distratta, guidata dai profumi, dall’istinto o dal caso. Così ci si imbatte in laboratori sensoriali dai nomi altisonanti organizzati da Athenaeum, dall’“elogio del Sangiovese”all’“apologia golosa del Brunello”. Ma c’è spazio anche per caci e soppressate.

Per il weekend le proposte spaziano da “Amarone, Amarone …irresistibile passione!” fino ai “capolavori vinicoli del Lazio”. Nomi tronfi ma invitanti, che poi si sa, questa è terra, pardon “terroir” di sommelier, di abili signori dal naso appuntito e dal gargarismo facile, dalle olfazioni vigorose e i gesti eleganti che, a differenza della celebre imitazione di Antonio Albanese, sono in grado non solo di illuminar-


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.