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La ribalderia del mondo

di e h c a n cro

è troppo grande, e bisogna consumarsi le scarpe a forza di girare perché non te le rubino

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Bertolt Brecht di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • SABATO 20 GIUGNO 2009

Draghi, Marcegaglia, Catricalà, Bonanni: cresce l’area di chi, contro la crisi, chiede cambiamenti di sistema

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

L’IRAN A UN DRAMMATICO BIVIO

«Il popolo ha già scelto, ora basta proteste». Durissimo discorso dell’ayatollah. Mentre per oggi è prevista una nuova manifestazione dell’Onda verde di Hossein Mousavi

Chi si iscrive al partito delle riforme? Prima il governatore di Bankitalia, con la sua relazione di fine maggio. Poi il presidente di Confindustria durante l’assemblea annuale. E ancora: il segretario della Cisl che chiede la riforma delle pensioni; il presidente dell’Antitrust che invoca le liberalizzazioni. Si sta creando in Italia un vero e proprio partito delle riforme. Potrà vincere la sua battaglia? se r vi zi al l e p ag i ne 4 e 5

Non so se la politica lo capirà: ma l’Italia ne ha bisogno

La scure di Khamenei

di Savino Pezzotta i fronte al ritorno della disoccupazione è facile capire da dove far partire l’agenda delle riforme. Se confrontiamo i giudizi dell’Ocse e i dati resi noti ieri dall’Istat (picco del 7,9%) veniamo riportati ai livelli del 1996. Così, discutere se si esce o meno dalla crisi diventa inutile, visto che viviamo in una vera emergenza del lavoro. Questi dati sono ancora più preoccupanti perché arrivano prima delle ferie. Di solito, e visti i rapporti umani che intercorrono tra datori e lavoratori, si resiste, si prova a non chiudere fino all’inizio di agosto. Così a settembre rischiamo di trovarci con una schiera di piccole e medie imprese che non riaprono i battenti.

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Si schiera con Ahmadinejad e vieta nuovi cortei Ora Teheran rischia un bagno di sangue alle pagine 2 e 3

Anche l’Avvenire chiede al premier di chiarire i suoi comportamenti

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Il Berlusconi di oggi non è all’altezza del compito

Feste e ragazze: severo intervento di Gianfranco Fini di Errico Novi

ROMA. Al culmine di

di Enrico Cisnetto e io fossi Silvio Berlusconi smetterei di occuparmi della questione che lui stesso ha rubricato sotto il nome di “complotto”. Per due buoni motivi: il suo interesse personale; l’interesse del Paese. Per quello che lo riguarda, occuparsene ha significato fin qui ingigantire i problemi e complicare la sua posizione. Fin dall’inizio, l’idea di politicizzare le dichiarazioni di Veronica Lario e le insinuazioni intorno alla ragazzina napoletana si è rivelata per lui un vero disastro. Perché, come si testimoniano i 2,8 milioni di voti persi rispetto alle politiche dell’anno scorso, la cosa non gli ha giovato alle elezioni.

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«Così cresce la sfiducia nello Stato» una tempesta mediatica impressionante arriva Gianfranco Fini ed è come se attorno si facesse il silenzio. Dallo sfrenato rimpallo di accuse sull’uso deviato di servizi, inchieste ed escort di lusso, si passa traumaticamente all’analisi impietosa del presidente della Camera: «Non credo che ci sia un rischio di instabilità per il governo», risponde a un cronista che lo interroga sul nuovo uragano politico-sessuale, «c’è casomai un rischio di minore fiducia

I QUADERNI)

• ANNO XIV •

NUMERO

121 •

No a Mario Mauro presidente

dei cittadini nei confronti della politica e delle istituzioni». Il pericolo è dunque che ci sia un duro colpo «al fondamento della democrazia». Tanto per enfatizzare ancora meglio il suo ruolo di terza carica dello Stato, Fini precisa che il tema «non riguarda governo o opposizione ma tutti gli attori della politica italiana». Ciononostante le parole suonano come una doccia gelata per il presidente del Consiglio.

BRUXELLES. La corsa italiana alla presidenza del Parlamento europeo ha subìto ieri una dura battuta d’arresto, dal momento che la candidatura di Mario Mauro appare ormai come sfumata. «Un eurodisastro», lo ha definito ieri Pier Ferdinando Casini. E a Berlusconi non rimane che proporre «Giulio Tremonti alla guida dell’Eurogruppo».

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• CHIUSO

L’eurodisastro del Cavaliere di Francesco Capozza

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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pagina 2 • 20 giugno 2009

Dopo 30 anni non è cambiato nulla

È ancora il regime di Khomeini di Mario Arpino rent’anni fa - ero a Teheran si ripetevano immensi cortei neri e cartelli con l’immagine di Khomeini mentre la Sawak, la polizia segreta dello Scià, arrestava i manifestanti a centinaia e gli elicotteri sparavano dall’alto raffiche intimidatorie. Poi “finalmente”il leader teocratico Khomeini è arrivato. La Sawak ha cambiato nome, ma arresta e tortura come prima; gli elicotteri non sparano più, ma il compito è lasciato ai solerti pasdaran. I cortei sono sempre lunghi e neri, ma manifestano per le ragioni opposte. Una tirannia ne ha sostituita un’altra. In peggio. Tra qualche giorno nelle piazze ricompariranno le gru, che riprenderanno il loro triste mestiere. Ma nulla sarà più come prima, e il regime ha iniziato il suo declino. Ma, per ora, è inutile stracciarsi le vesti se quel novello Khomeini - che si chiama Khamenei - durante la preghiera di ieri ha già annunciato la vittoria del proprio fedelissimo candidato del cuore. Bisogna essere realisti, e non cullarsi sul riesame del voto. La Grande Guida della Rivoluzione islamica nella Repubblica d’Iran ha deciso.

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La procedura che prevede che la revisione debba essere condotta dal Consiglio dei Pasdaran non consente speranze. Ci sono dei precedenti: anche nel caso del moderato Khatami - ricordiamo la repressione delle manifestazioni dei riformisti a favore della libertà di stampa - la rielezione per il secondo mandato era stata confermata, come da prassi. Questa volta però la piazza deve aver fatto paura, se fino a ieri Ali Khamenei minimizzava, faceva blandi inviti alla calma e, nel tentativo di blandire l’opinione pubblica, non solo aveva concesso la revisione del voto, ma aveva perfino assolto contro Mahmoud Ahmadinejad il discusso ayatollah Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, che il popolo vedrebbe volentieri al suo posto. Però su una cosa, nella preghiera, ha detto la verità, quando ha affermato che, comunque, tutti i quattro candidati fanno parte del sistema. Certo, la supervisione dei pasdaran non avrebbe mai concesso qualcosa di diverso. Quindi, tanto vale tenersi il riconfermato “uomo del destino”, anche lui figlio di un fabbro. Poi, ha gettato la maschera e ha minacciato. Il popolo ha scelto «chi voleva», e ora il Paese «ha bisogno di calma» e, quindi, le manifestazioni sono vietate. Perciò, i nemici dell’Iran e gli organizzatori delle proteste «saranno responsabili delle conseguenze». Il che significa che tra qualche giorno o qualche settimana lo sentiremo lugubremente annunciare che «l’ordine regna a Teheran».

Iran. Gli ayatollah si schierano con Ahmadinejad (e l’Italia lo invita al G8 di Trieste)

La scure di Khamenei Ora che farà Mousavi? La Guida suprema: «Basta proteste». Ma oggi a Teheran il corteo dell’Onda ci sarà. Si rischia un bagno di sangue di Vincenzo Faccioli Pintozzi na scure calata direttamente dal cielo, dalla fonte del potere nella teocrazia iraniana. L’ha scagliata ieri la Guida suprema della Rivoluzione, l’ayatollah Ali Khamenei, sui manifestanti che da giorni sostengono con la loro presenza in piazza il leader dell’opposizione Mir Hussein Mousavi. Khamenei - degno discendente di Khomeini - ha guidato il grande sermone di preghiera del venerdì per mandare un messaggio chiaro: Ahmadinejad è il presidente eletto, basta proteste o saranno guai. I brogli, ha aggiunto il capo del potentissimo clero nazionale, «non sarebbero stati possibili. Non è avvenuta nessuna manipolazione. Ci sono stati 11 milioni di voti di differenza tra Ahmadinejad e Mousavi: come può essere stata una manipolazione?». Quanto al presidente riconfermato, sottolineando una volta di più l’aspetto che lega gli ayatollah al governo, ha aggiunto: «Ha opinioni in politica interna e internazionale vicine alle mie».

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E si alza l’allerta per la grande manifestazione che dovrebbe svolgersi oggi per le strade di Teheran: ogni protesta, ha chiarito il religioso, «è proibita. Nel Paese deve tornare la calma, perché il popolo ha scelto senza brogli come gestire il suo futuro». Secondo molti osservatori iraniani e arabi, il vero messaggio inviato al leader riformista dagli ayatollah si potrebbe riassumere con “Obbedisci, oppure sei fuori dal sistema”. Per Hassan Hashimian, esperto di politica iraniana, «gli insistenti accenni di Khamenei alla competizione elettorale che non era tra la Rivoluzione e i suoi nemici, o tra esterno e interno, ma tra esponenti dello stesso sistema, vanno letti come un chiaro messaggio al leader dell’opposizione, Mousavi: o sei con il sistema, oppure sei contro». Le successive critiche di Khamenei al grande ayatollah Hashimi Rafsanjani, che ha

sostenuto il fronte riformista, e soprattutto il reciso invito a porre fine alle manifestazioni di strada e il monito ai leader dell’opposizione affinché «si assumano le loro responsabilità», segnano uno spartiacque: «Mousavi deve scegliere - ha detto ad al Jazeera Mohammed Shariyati - tra andare al Consiglio della Rivoluzione proclamando il suo rientro nei ranghi, oppure andare alla manifestazione di protesta scegliendo di sfidare il sistema».

Mousavi ha poco tempo per riflettere. Oggi ha due alternative, due appuntamenti: il primo presso la sede del Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione, invitato assieme agli altri candidati per discutere delle oltre 600 irregolarità che hanno contestato. Il secondo nella piazza Azadi per guidare una grande manifestazione di protesta. Fino ad oggi Mousavi aveva ignorato le prese di posizione dell’ayatollah; sabato scorso Khamenei aveva definito «una grande festa» la rielezione di Ahmadinejad mentre il leader dell’opposizione contestava i risultati. Domenica, l’ayatollah gli aveva ingiunto di proseguire la protesta solo per vie legali, ma lunedì Mousavi si è personalmente recato alla maxi manifestazione a Teheran dove sono morte almeno sette persone. Martedì,Ali Khamenei ha dichiarato che un riconteggio parziale dei voti era possibile; Mousavi ha insistito che voleva l’annullamento del risultato. Il discorso tenuto ieri dimostra che la pazienza è finita, e che il collo sul ceppo lo deve mettere il leader o i suoi sostenitori. Il riformista ha avuto come arma fin qui la mobilitazione quotidiana dei suoi fedeli; dopo gli avvertimenti di ieri, questa potrebbe oggi tramutarsi in un fiume in piena o svanire nel nulla. Al potere

costituito non mancano le risorse per seppellire nel sangue la protesta: oltre alle forze di polizia e ai Basij dispone di miliziani d’elite come il gruppo Ansar Hezbollah e il corpo militare dei Guardiani della Rivoluzione, i famigerati pasdaran. E la Guida suprema già ha preventivamente scaricato ogni responsabilità di disordini sui manifestanti e chi li guida: «I responsabili politici che hanno influenza sul popolo dovrebbero fare grande attenzione a come si comportano, se agiscono in modo estremista... Se l’estremismo arriverà a un punto di non ritorno, saranno responsabili del sangue, della violenza e del caos». Il religioso non ha risparmiato le critiche al mondo occidentale, prendendosela in maniera particolare con la Gran Bretagna che «ha fomentato i nemici del governo».

Tutti gli altri leader europei condannano l’intervento del leader religioso. Brown lancia la provocazione: «Elezioni regolari? Dimostratelo. E fermate la violenza di questi giorni» Il Foreign Office di Londra ha convocato l’ambasciatore iraniano per chiarimenti, anche se toni del genere lasciano poco spazio alla fantasia. Fa riflettere l’atteggiamento del resto del blocco occidentale. Al silenzio di Obama, contestato dai dissidenti iraniani all’estero e dai neocon in patria, ha fatto tragica sponda la decisione italiana di rinnovare l’invito all’Iran per il G8 di Trieste sull’Afghanistan. La conferma è venuta dal primo ministro italiano, Silvio Berlusconi, e dal titolare della Farnesina Franco Frattini. Che ieri, concluso il Consiglio d’Europa che ha reincoronato Barroso alla guida della Commissione, hanno dichiarato: «La decisione è stata presa dopo opportune consulta-


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Attese oltre 100mila persone per chiedere la democrazia in Iran. Sarkozy avverte Teheran: «Vicini al punto di non ritorno»

Anche a Parigi sfila la resistenza al regime di Nicola Accardo l meeting di oggi a Parigi sarà il più grande assembramento degli oppositori al regime». Ne è certa Dowlat Nowrouzi, vicepresidente della commissione Affari Esteri del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana (Cnri). Nel grande parco di esposizioni di Villepinte, a nord della capitale francese, sono attese oggi 100mila persone, per ribadire quella che è per loro l’unica via democratica esistente: elezioni libere, con la supervisione degli osservatori dell’Onu, che esprimano la sovranità del popolo iraniano e non del regime degli ayatollah. Lo ha ripetuto in un’intervista alla rete televisiva France 24 Maryam Rajavi, dal 1993 presidentessa eletta del Consiglio (un Parlamento in esilio con sede a Auvers-sur-Oise, a nord di Parigi e che è composto da 540 eletti) e moglie del fondatore Massoud Rajavi. «I media stranieri si sono sbagliati nel credere che Mousavi potesse vincere. Il regime della Guida Suprema è tenuto in piedi ormai da una

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sola fazione», ha detto la Rajavi. Il Cnri, legato alla lotta armata dei mujaheddin di cui Massoud Rajavi è un importante dirigente, ha gridato alla «farsa» fin da prima dell’apertura delle urne e non crede in Mousavi. «Un complice delle esecuzioni degli studenti dissidenti negli anni Ottanta», secondo Dowlat Nowrouzi, «e responsabile della morte dei giovani mandati al fronte nella guerra contro l’Iraq». Ma anche Mousavi «sarebbe il benvenuto tra gli iraniani che lottano per la democrazia, se prendesse le distanze dal suo passato».Tre giorni prima del voto la Resistenza iraniana, che invitava a boicottare le elezioni, annunciava già la vittoria di Ahmadinejad al primo turno e una partecipazione

al voto di circa 35 milioni di elettori, secondo quello che sarebbe stato un ordine confidenziale del capo supremo Ali Khamenei. Il giorno delle elezioni ha denunciato una «frode a scala gigante» : persone che avrebbero votato più volte sotto diverse identità, moltiplicazione delle urne mobili (14.500

zioni con gli Stati Uniti».Tanto basta, evidentemente, per ignorare le richieste di democrazia di una delle popolazioni meno libere del mondo intero, che oggi potrebbe pagare con il sangue la propria velleità democratica nell’indifferenza colpevole di una parte del resto del pianeta.

contro le 3.500 di quattro anni fa), gestite dai Guardiani della Rivoluzione, e una partecipazione falsata. Secondo la rete, solamente il 15 per cento degli aventi diritto avrebbe votato: in totale, 7,5 milioni di persone. Ciò non spiegherebbe la folla dei sostenitori di Mousavi in piazza: «Sono solo una parte del 90 per cento d’iraniani che non vuole più questo regime, che sanno che non importa chi venga eletto presidente, perché non sono loro a deciderlo», afferma Dowlat Nowrouzi. Ogni anno centinaia di eurodeputati e parlamentari di Paesi europei scelgono di appoggiare Maryam Rajavi, designata dal Cnri come futura presidentessa di un governo di transizione in Iran. Il 7 luglio 2008 Maryam

Rajavi aveva pronunciato il suo discorso contro il «fascismo religioso» davanti a 70mila persone, in maggior parte iraniani rifugiati provenienti da Germania, Italia, Belgio, Olanda e Scandinavia, ma anche Stati Uniti, Canada e Australia.

«Maryam Rajavi è la nostra speranza», spiega Dowlat Nowrouz. «Vogliamo che il Consiglio di Sicurezza dell’Onu le dia ascolto facendo annullare le elezioni. Sabato daremo il nostro sostegno ai dimostranti iraniani e ai nostri giovani che rischiano la vita in nome della libertà. Per loro è importante vedere che noi, che non possiamo tornare in Iran, siamo comunque vicini a loro e alla loro lotta». Le manifestazioni degli iraniani a Parigi intanto continuano da tre giorni di fila, in particolare davanti all’ambasciata e sul Muro della pace agli Champs de Mars. Centinaia di dimostranti chiedono nuove elezioni, senza dichiararsi sostenitori di Mousavi.

Il vice di Mousavi: «Offesi da Washington e dal suo silenzio»

«Obama ci ha deluso» di Massimo Fazzi

Una decisione in netto contrasto con l’atteggiamento delle altre democrazie europee, che hanno condannato con vigore la repressione violenta delle manifestazioni. Nicolas Sarkozy, che negli ultimi giorni si è distinto per le posizioni pesanti assunte contro il regime, li ha avvertiti: «Vi state avvicinando al punto di non ritorno. Ora basta repressione». E Gordon Brown, colpito dalle accuse lanciate dalla Guida Suprema, ha rincarato la dose: «Sta all’Iran adesso dimostrare che le elezioni sono state corrette, non agli altri». Il premier britannico, anche lui a Bruxelles, ha aggiunto: «Un’altra responsabilità dell’Iran è dimostrare al mondo che la brutalità e la repressione che abbiamo visto in questi ultimi giorni non sono qualcosa che si ripeterà». Angela Merkel ha definito «deludente» l’intervento di Khamenei, che negli ultimi giorni «aveva fatto pensare a qualcosa di differente». L’atteggiamento italiano, rispondono i suoi sostenitori, è dettato da una scomoda realpolitik sulle problematiche afghane. Ma sarebbe il caso di ricordare alla Farnesina un vecchio proverbio cinese: «Se vuoi cacciare i lupi dal cortile, non ti conviene far entrare i cinghiali dalla porta».

bama «ha sbagliato molto nel dire che non ci sono differenze tra Mousavi e Ahmadinejad. Il primo è la sua controparte iraniana, il secondo un dittatore». Non usa mezzi termini il regista Mohsen Makhmalbaf, portavoce del leader dell’opposizione iraniana all’estero, che in un’intervista pubblicata da Foreign Policy critica la dichiarazione del presidente americano di qualche giorno fa, secondo cui tra i due principali candidati alle presidenziali di Teheran non vi sarebbero grandi differenze politiche. «Mi chiedo se a Obama stesso piacerebbe che qualcuno dicesse che non ci sono grandi differenze tra lui e Bush. La verità è che siamo stati sfortunati: quando noi avevamo un presidente riformista, Khatami, a Washington c’era una persona poco aperta. Ora il contrario». Il dissidente, che critica anche i Guardiani della Rivoluzione, aggiunge: «Il popolo iraniano non vuole Ahmadinejad e lo sta dimostrando. Ma abbiamo bisogno

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di aiuto dall’Occidente». Nel frattempo, negli Stati Uniti infuria la polemica sulla posizione della Casa Bianca riguardo le proteste di Teheran. Secondo un editoriale apparso ieri sul Washington Post a firma di Charles Krauthammer, «Obama è arrivato alla Casa Bianca ed è diventato una sorta di guru globale, all’insegna dello slogan “hope and ch’ange”, ma nega speranza e cambiamento agli iraniani». I dimostranti nelle strade della capitale iraniana, aggiunge il commentatore neocon, «stanno combattendo da soli, ma stanno aspettando di sentire solo una parola che mostri che l’America è al loro fianco. E invece cosa arriva dal presidente degli Stati Uniti? Silenzio e poi, a peggiorare le cose, tre giorni dopo il presidente esprime chiaramente la sua posizione: continuare il “dialogo”con i capi del clero». Un dialogo - conclude sarcastico Krauthammer - «con un regime che sfascia le teste, spara ai dimostranti, espelle i giornalisti ed arresta i militanti».


politica

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Innovazione. Draghi, Marcegaglia, Catricalà, Bonanni: cresce il numero di chi chiede cambiamenti di sistema. Vinceranno?

Il partito delle riforme Pasquino, Boeri e Pombeni d’accordo: è l’ora di un pacchetto di riforme radicali di Riccardo Paradisi

ROMA. Come un fiume carsico ecco riaffiorare ostinata la corrente del riformismo. Che in corrispondenza dell’acuirsi della crisi sistemica italiana torna a chiedere un atto di responsabilità alla politica. Entro pochi mesi, non entro qualche anno, occorrono grandi riforme sul fronte delle liberalizzazioni, delle infrastrutture, della giustizia e della legalità, dell’istruzione e della sburocratizzazione del Paese. È Confindustria, per voce della sua presidente Emma Marcegaglia, a scuotere di nuovo il governo sotto la pressione di proiezioni da brividi: un milione di lavoratori rischiano, entro il 2010, di perdere il lavoro o di scivolare nella cassa integrazione. Cifre che spaventano e che farebbero auspicare sforzi congiunti da parte della classe politica. Eppure da quanti anni discutiamo di riforme? «Molti direi, forse troppi – dice a liberal il politologo Gianfranco Pasquino - le riforme si evocano, si annunciano, si chiedono, ma non si fanno mai». Inutile parlarne allora? «No, no – precisa Pasquino – va benissimo parlarne, perché almeno si sta col fiato sul collo a chi dovrebbe farle.A patto che se ne parli con cognizione di causa, sapendo distinguere gli ambiti, gerarchizzare priorità». Facciamolo dunque. «Bene, partiamo dalle riforme politiche istituzionali. Marcegaglia dice che c’è molta divisione. No, c’è molta confusione invece. E poca cultura riformista. Il sistema politico ha bisogno di una riforma sistemica, di una visione complessiva, qualcosa di simile a quello che è accaduto in Francia». Una rottura, come quella avvenuta tra la Quarta e la Quinta repubblica. «Esatto, una rottura, come direbbe Sarkozy. La Quarta Repubblica francese funzionava malissimo,

era debole, screditata. La Quinta Repubblica rappresenta invece un sistema efficace, dinamico, moderno. Il presidenzialismo francese sprigiona energie democratiche. Ci si dovrebbe chiedere perché Berlusconi non ha spinto il riformismo in questa direzione pur avendo i numeri e la forza per farlo. Anche se conosciamo la risposta: la scarsa cultura riformista dei suoi e soprattutto la Lega di Bossi, che glielo ha impedito coi suoi veti».

Per Pasquino i fronti prioritari sono tre: pensioni, liberalizzazioni e istruzione. «L’età pensionistica dovrebbe essere alzata, per gli uomini come per le donne che vogliono continuare a lavorare, ma anche differenziata. Le pare possibile che un professore universitario che ha un curriculum chilometrico di pubblicazioni e di attività debba essere mandato in pensione come uno che non ha fatto nulla o quasi?». Liberalizzazioni: «Confindustria dovrebbe mirare al quartier generale. Fa bene a chiedere le liberalizzazioni, ma la madre di tutte le liberalizzazioni è quella bancaria. Mettere in competizione le banche tra loro». Istruzione, infine. «Una riforma del sistema scolastico è improcrastinabile. Ma non attraverso le privatizzazioni. Affatto: scuola pubblica, ma rigorosa, competitiva, trasparente. Ogni liceo, ogni istituto dovrebbe avere graduatorie di livello didattico consultabili. I docenti dovrebbero essere esaminati e valutati. Su questo ogni governo avrebbe il dovere di scontrarsi anche duramente col sindacato, che finora ha tutelato il posto di lavoro dei docenti ma non il loro diritto a vedersi riconosciuti meriti e de-

«L’età della pensione dovrebbe essere alzata, per gli uomini come per le donne che vogliono continuare a lavorare»

Prima di tutto le pensioni poi le liberalizazzioni

Non so se la politica lo capirà: ma l’Italia ne ha bisogno di Savino Pezzotta

segue dalla prima E la cosa può avere effetti devastanti. Le prime riforme devono riguardare le piccole e medie imprese. Non possiamo aspettare la fine delle fiere. Ogni giorno perso non è recuperabile. Servono sostegni allo sviluppo. Il sistema bancario deve rispondere alle richieste di credito in tempi brevissimi. Bisogna garantire nuovi ammortizzatori sociali o strumenti d’accompagnamento.

Ma se le tensioni sociali cresceranno con il tasso di disoccupazione, non avremo più lo spazio per fare le riforme: dovremo occuparci di altro. Invece il governo pensa che la crisi passi da sé. Come faccia è un mistero: ma se persino in America aumenta costantemente la disoccupazione, perché lo stesso non può verificarsi da noi? Con il premier in altre faccende affaccendato, noi abbiamo l’obbligo di dire con forza che la vera questione è affrontare la crisi economica che attanaglia le Pmi, il nerbo della nostra economia.

meriti». L’ultima il professore bolognese la dedica proprio a Confindustria. «Bene i loro appelli, però kennedyanamente direi agli industriali: ogni tanto non chiedetevi che cosa il Paese possa fare per voi, ma cosa potete fare voi per il Paese». Intanto Confindustria fa appelli. Che, curioso a dirsi, vengono accolti con favore sia dalla maggioranza che dall’opposizione: «Un grido d’allarme che va ascoltato» dice il Pd, «Un ragionamento che va preso in seria considerazione» chiosa il Pdl.

Però poi i conti non tornano. Chi ha ragione, Marcegaglia o Tremonti? «Direi che ha ragione la presidente di Confindustria – dice a liberalTito Boeri, economista della Voce.info - Peccato che non molto tempo fa anche la Marcegaglia aveva minimizzato la situazione. Ma il problema non è solo il fatto che un gran numero di italiani rischiano la disoccupazione o la cassa integrazione. Il problema più grave è che chi sta perdendo il lavoro non ha nessuna tutela» E la cassa integrazione? «Ma è proprio questo il punto: la cassa integrazione è una falsa soluzione. È il tappo che vincola la mobilità, che impedisce a chi perde il lavoro di trovarne un altro. Le imprese tengono i dipendenti in cassa integrazione e non assumono né precari né disoccupati». È quello che Boeri chiama «il dualismo del lavoro italiano»: da una parte chi ha ogni tutela, dall’altra chi non ne ha nessuna. Per questo, sostiene Boeri, la riforma più urgente di tutte è quella del contratto unico di lavoro a tempo indeterminato. Non so se sono già maturi i tempi per parlare di partito delle riforme: so che c’è l’urgenza di una politica che comprenda quello che stiamo vivendo. E non è una semplice crisi, ma una grande trasformazione dell’economia, del nostro ruolo internazionale. Un processo, che, secondo la chiave schumpeteriana della distruzione creatrice, non richiede l’interventismo dello Stato, ma l’accompagnamento della classe politica.Altrimenti agiranno gli spiriti animali del mercato, della finanza e dell’economia, ancora più eccitati dalla congiuntura. Serve introdurre elementi di riequilibrio. Così sulla questione delle pensioni, dirimente per i nostri ragazzi che hanno perso il lavoro, bisogna muoversi in termini di equità e tenendo conto di come è articolato il nostro sistema. Perché l’innalzamento dell’età può essere praticato nella misura in cui le risorse recuperate vengano vincolate al reinserimento dei nostri giovani. Regge se c’è uno scambio generazionale. EzioTarantelli diceva che la «gente capisce se gli si spiegano le cose». Così si può intervenire sugli sprechi della Pubblica amministrazione senza la retorica sui fannulloni del ministro Brunetta, che finisce soltanto per


politica

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Il premier dovrebbe completamente cambiare il suo atteggiamento di fronte al Paese

Il governo di oggi non è all’altezza di Enrico Cisnetto segue dalla prima

«Una proposta su cui abbiamo raccolto il consenso e interesse anche nei sindacati: dalla Cisl alla Uil passando per l’Ugl». Ma oltre al mercato del lavoro va riformata radicalmente anche la previdenza italiana. Altro che aspettare vacche più grasse per fare la riforma delle pensioni. «Quest’anno il Pil calerà del 5%, la quota della spesa pensionistica arriverà al 16%. La riforma delle pensioni va fatta, presto e bene. Smettendola di considerare la pensione una variabile indipendente, interessando i pensionati all’andamento dell’economia e facendoli partecipare agli utili e alle perdite del sistema Paese. Ossia indicizzando le pensioni al monte salari». Le riforme vanno fatte dunque, ma come? Perché sarà vero che il partito dei riformisti esiste, ma come dice un altro politologo bolognese, Paolo Pombeni, «è un partito liquido, che non ha peso né forza per andare oltre l’utile predica». Già, perché siamo alle solite: «In teoria sono tutti d’accordo su un generico riformismo, poi però le divisioni fermano tutto. E vincono gli attendisti, quelli che le riforme non le vogliono». La soluzione? Per Pombeni non sta nell’«improbabile scorciatoia del terremoto ribaltista a cui dovrebbero seguire non elezioni anticipate ma improbabili governi di coalizione nazionale. Scenario lunare. Piuttosto in una maggiore concretezza. Chi vuole le riforme si sforzi di articolarle, di presentare il pacchetto riformista già pronto. Una volta che queste riforme progettate e comprensibili saranno sul terreno il dibattito sarà chiaro. Come sarà evidente chi le vuole queste benedette riforme e chi non le vuole. A quel punto saprà giudicare». irrigidire il sistema. E si può intervenire persino su un sistema complesso come quello sanitario, che ha dentro di sé tanti di quegli sprechi che si può fare una riforma a costo zero. E poi c’è il Mezzogiorno, che sarà la parte del Paese che pagherà di più la crisi. Se al Nord la congiuntura presenta il conto in termini occupazionali, il Sud dovrà contrastare il combinato disposto tra gap di sviluppo e mancata redistribuzione del reddito. E la risposta non sta nelle gabbie salariali, ma in un migliore rapporto tra salari e profitti, tra salari e qualità e livelli di produzione.

Non può mancare un processo di liberalizzazioni per far saltare i monopoli esistenti e per impedire che se ne creano degli altri, come è avvenuto con la nuova Alitalia. Così come serve un intervento deciso, problema prima morale e poi economico. Che sia arrivata l’ora di discutere di tassazione di conflitto, che è l’unico modo per risolvere il problema? E non si può non concludere ricordando che non ci saranno grandi riforme se il sindacato sarà diviso: abbiamo l’obbligo dell’unità di fronte alla crisi.

Ma anche perché ha finito col mettere quelle vicende e se stesso nel tritacarne della polemica e della speculazione politica. Cosa che si può anche considerare deprecabile – e sopra una certa soglia fisiologica lo è, ma scagli la prima pietra chi tra i protagonisti della Seconda Repubblica, e il Cavaliere lo è da quindici anni più di ogni altro, è immune dalla responsabilità di aver trasformato il confronto in rissa – ma che certo era perfettamente prevedibile. Pensate a come il copione di tutta questa vicenda sarebbe stato diverso se lui si fosse limitato a catalogare come “privata” la questione dei rapporti con la moglie, se non fosse caduto nella provocazione circa la storia di Noemi (dove tra lui e i suoi sono riusciti a fornire “enne” versioni diverse, dando la chiara impressione di essere in difficoltà), se si fosse morsicato la lingua quando in tutte le occasioni pubbliche gli è venuta la voglia di fare battute su signore e minorenni, su Mills e sulle sue abitudini personali. Oppure se avesse evitato di usare per raccontare la sua versione dei “fattacci” tribune come l’assemblea generale di Confartigianato o il convegno dei Giovani Industriali di Santa Margherita, utilizzandole invece per spiegare come il governo intende affrontare la recessione e i mille altri problemi che condannano il Paese al declino. O, ancora, pensate quale effetto di spegnimento dell’incendio si sarebbe determinato se lui avesse detto: «Repubblica e gli altri giornali fanno il loro mestiere», «si pubblichino pure le foto», «gli attacchi fanno parte del gioco, sto facendo il premier mica il presidente della bocciofila», e così via. Insomma, andava fatta, andrebbe fatta, una sola, esaustiva dichiarazione circa le accuse sollevate, e poi il silenzio assoluto.

che restano in stand-by. In particolare, quello che agli italiani è mancato è la percezione di essere guidati da una mano ferma e sicura nel buio della crisi economica. Tutti quei continui e stucchevoli riferimenti all’ottimismo di maniera – cosa diversa dalla fiducia, che invece discende da un’analisi spietata e cruda della realtà – quel minimizzare per esorcizzare, che tanto hanno dato il senso dell’impotenza di fronte a problemi più grandi di noi e di lui, non solo sono risultati l’approccio sbagliato in questa circostanza, ma sono apparsi come la logica conseguenza dell’essere costretto a doversi occupare dei suoi problemi personali. E tutto questo appare ancora più grave se si pensa a quanto rimanga grave la recessione – le cui conseguenze, in termini di chiusura di aziende e perdita di posti di lavoro, si vedrà in tutta la sua drammaticità a settembre – e a quanto lavoro ci aspetta per rimettere in navigazione la barca della nostra economia.

Agli italiani è mancata la percezione di essere guidati da una mano ferma e sicura nel buio della crisi economica

Ra z i o n a lm e n t e g i u s t o , ma psicologicamente difficile? Sarebbe bastata una telefonata ad Andreotti per qualche consiglio, e molti errori sarebbero stati evitati. Nell’interesse di Berlusconi, ma anche del Paese. E sì, perché l’altra faccia della medaglia di questo ragionamento su ciò che non andava fatto, è rappresentata da ciò che invece il presidente del Consiglio avrebbe dovuto fare: occuparsi di più e meglio dei problemi nazionali. Non solo le emergenze e i rapporti internazionali (qualcuno anche di troppo), ma anche e soprattutto le idee chiare e la padronanza degli strumenti di fronte alla lunga lista delle cose

Caro Cavaliere, io non so se a lei convenga ascoltare il consiglio che – io credo amichevolmente – le ha dato ieri mattina Giampaolo Pansa dalle pagine del Riformista. Penso, per come la conosco, che lei non lo ascolterà, quel suggerimento. E, forse, ci dimostrerà fra qualche tempo che ancora una volta avrà avuto ragione lei (dal suo punto di vista, strettamente personale per non dire egoistico). Ma di una cosa sono certo: che Pansa abbia ragione al 101% quando dice che il Paese «deve poter contare su un governo all’altezza del compito guidato da un premier in grado di muoversi come un comandante in capo, dotato di un’autorità indiscutibile, anche sotto il profilo morale, tanto forte da essere il faro di un paese disorientato e impaurito». Così come sono d’accordo con Pansa quando risponde con un «temo di no» alla domanda che lui stesso si pone (ma è la domanda che tutti oggi si fanno, a cominciare da quelli che militano nel centro-destra): «Berlusconi è ancora in grado di essere questa guida?». Ma se fosse vero quanto dicevo prima, e cioè che lei non molla, allora mi permetto io di darle un consiglio, per il suo e il nostro bene: smetta di essere Berlusconi Silvio – quello delle ragazze, delle foto, dei ricatti, di Mills, dei problemi di famiglia, delle aziende di sua proprietà, del Milan, delle ville, delle feste e delle battute – e faccia solo e soltanto il presidente del Consiglio dei ministri. Che basta e avanza. (www.enricocisnetto.it)


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pagina 6 • 20 giugno 2009

Scosse. «A rischio la fiducia dei cittadini», dice il presidente della Camera dopo l’ultima puntata di “sessuopoli”

La frustata di Fini sul Cavaliere furioso di Errico Novi segue dalla prima Perché arrivano da un interlocutore noto, certo, per la sua inclinazione critica ma non tacciabile di collusioni complottiste. E perché urtano sul punto più delicato lo stato d’animo già nerissimo del premier, girano cioè il coltello nella piaga di un’immagine non più intatta, di un’opinione pubblica stavolta davvero stressata dai gossip. In pratica Fini punta dritto al vero problema squadernato dall’inchiesta di Bari: il rapporto tra un leader e i cittadini, la serenità che va loro garantita. E che è separata da un confine sottilissimo rispetto a quello spirito di esaltazione e di riconoscimento plebiscitario suscitati da una figura irripetibile qual è il Cavaliere. L’irritualità diventa difficilmente sopportabile se declina vistosamente nello scandalismo. Essere sobri, o almeno sufficientemente discreti, è un sacrificio indispensabile alla democrazia, sembra voler dire Fini.

E pensare che il presidente della Camera aveva preparato un discorso di tutt’altro tenore, per il convegno “Il futuro del parlamentarismo in Italia e in Germania”. Sempre ben affilato e tagliente, per il premier, ma impostato «sulla democrazia impotente e inefficace» che alla lunga «genera disillusione, scontento, tentazione di scorciatoie plebiscitarie o populiste». Al termine di un dibattito in cui la terza ca-

te Giuseppe Scelsi, il pm che ha ordinato il sequestro delle registrazioni effettuate da Patrizia D’Addario a casa Berlusconi. A stretto contatto con Scelsi lavora l’altra sostituta Desirè Digeronimo. È lei ad avere tra le mani un fascicolo in cui si intreccia malaffare ospedaliero e appalti sui rifiuti ad Altamura. È lei ad aver costretto Tedesco a lasciare la giunta Vendola. Ed è sempre nel suo registro che sono iscritti altri quindici indagati tra imprenditori, funzionari regionali e direttori delle Asl pugliesi. «Roba pesante che può contaminare nomi importanti della politica», svelano fonti della Procura.

rica dello Stato pensava fosse sufficiente il richiamo a «una democrazia più forte, più partecipata e rappresentativa», è arrivata la domanda che ha indirizzato la discussione sul fatto del giorno. Discrezione, sobrietà, rispetto delle istituzioni e, soprattutto, dell’opinione pubblica: le stesse cose chieste dall’Avvenire nell’editoriale di ieri, insieme con un chiarimento «sufficiente a sgombrare il terreno dagli interrogativi più pesanti». Non ci si può illudere, è l’avvertenza del quotidiano dei vescovi, che «l’efficienza dell’azione di governo possa far premio, sempre e comunque, sui comportamenti privati». E come se non bastassero quelli, c’è un passaggio più severo, sul proble-

ma dello stile «sfoggiato da parte di avvocati bravi, a quanto pare, soprattutto a moltiplicare i motivi di imbarazzo».

Così in mezzo alle frasi d’ufficio della contraerea, Niccolò Ghedini è costretto ad ammettere «l’errore di comunicazione» (quello sull’utilizzatore finale), e a incassare una lavata di testa telefonica da Berlusconi. Il quale, colto sul fatto dai microfoni di Sky, accusa i giornalisti di essere «spioni», e che lui in quest’Italia non ci sta. Soprattutto, assicura che rimuoverà «tutta questa spazzatura» come ha fatto «con quella di Napoli». Lo pensa, e magari se lo augura, anche un cattolico come Maurizio Lupi, che sottoscrive. Non tutti, nel

so alcuni amici comuni». Lo conferma dopo averlo ammesso al Corriere della sera in una conversazione in cui spiega di «incontrare continuamente gli imprenditori» per il ruolo che svolge. Che è quello di assessore allo Sviluppo economico della Regione Puglia, nonché di vicepresidente della giunta. Frisullo smentisce invece ancora una volta di essere stato lui a informare Massimo D’Alema della piega a luci rosse presa dall’inchiesta sulla sanità barese. «Solo chi è in malafede può pensare che il ragionamento politico sulle ‘scosse’in arrivo per il governo abbia un nesso con le vicende giudiziarie in corso», ribadisce l’amico democratico dei fratelli Tarantini.

“Avvenire” sollecita un chiarimento di Berlusconi. Lui attacca: «Spazzatura». E nel Pdl spunta il livore per «la corte degli inetti che non difende Silvio» Pdl, sarebbero invece pronti a sottoscrivere un’altra rassicurazione dispensata dal premier, quella che riguarda «i complotti nel Pdl» definiti fantapolitica e smontati da Berlusconi – impegnato al Consiglio europeo di Bruxelles – con nomi e cognomi: «I miei rapporti con Tremonti e Draghi sono ottimi». D’altra parte c’è chi, nella maggioranza, capovolge il discorso e attribuisce intenzioni complottiste ad altri dirigenti del Pdl che vogliono complicare proprio l’intesa tra il Cavaliere e il ministro dell’Economia. Si tratta di una teoria cospiratoria minore, subordinata. Ma che merita di essere raccontata, a condizione di ripercorrere una strada tortuosa. Quella che parte da una dichiarazione resa ieri all’Ansa da Sandro Frisullo, vice di Nichi Vendola: «Conosco i fratelli Giampaolo e Claudio Tarantini, li ho conosciuti attraver-

E invece nel circuito berlusconiano quasi tutti continuano a leggere un collegamento tra la “profezia” dell’ex ministro degli Esteri, la giunta regionale “amica”e i magistrati di Bari. Non foss’altro perché lo stesso assessore Frisullo conferma di essersi trovato domenica scorsa in una masseria di Otranto insieme con D’Alema durante il collegamento con Lucia Annunziata. E soprattutto perché un collega del vicepresidente della Regione è stato costretto a dimettersi appena quattro mesi fa proprio per un’inchiesta parallela a quella su party ed escort di lusso: si tratta di Alberto Tedesco, ex assessore alla Sanità sostituito precipitosamente con un professore di Anestesiologia dell’università di Bari,Tommaso Fiore.Tedesco risulta indagato dai magistrati baresi, anzi dalla stessa direzione distrettuale antimafia di cui fa par-

E di fronte a tutto questo, è la reazione di anonimi esponenti del Pdl, «di fronte a un’inchiesta che nasce come un pesante colpo a un’amministrazione di centrosinistra, cosa succede? Che invece di battere il ferro i pm deviano tutto sulle prostitute e le feste di Berlusconi? Ma scherziamo?». E non è nemmeno questo il fatto che infiamma alcune frange della maggioranza. Il vero motivo dell’ira è in quella che l’interlocutore berlusconiano definisce «l’inettitudine degli uomini più vicini al Cavaliere. Perché contraddizioni così pesanti andrebbero denunciate. Costituiscono un fatto politico, dovrebbero dunque intervenire i nostri rappresentanti in commissione Antimafia, o al Copasir. Invece non fanno nulla.Tranne qualche rara eccezione nessuno va dritto al cuore del problema e mette alle strette i pm baresi, o gli stessi servizi segreti, la stessa Digos che lascia avvicinare la D’Addario a Berlusconi in una manifestazione pubblica pur conoscendo il calibro e i precedenti della signora». Cosa fa invece la «corte dei miracoli che circonda il presidente»? «Da inqualificabili inetti preferiscono innescare boatos sulle presunte cattive intenzioni di Giulio Tremonti». Appunto. «Appena avvistano uno più intelligente di loro, in grado di interloquire con Berlusconi senza ridursi a semplice yesman, lo colpiscono. Fecero la stessa cosa con Marcello Pera, anche lui accusato di lavorare per mettere in piedi un governo istituzionale o tecnico». Con una formula sintetica, conclude il berlusconiano dissidente, «possiamo metterla così: la corte degli inetti fa vivere il Cavaliere in uno stato di perenne allerta contro chi non congiura e poi si dimostra incapace davanti a quelli che congiurano davvero». È un risvolto finora sottovalutato di sessuopoli: la guerra strisciante che agita il Pdl, lo divide e lascia intravedere sul serio il rischio di una caduta del governo.


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20 giugno 2009 • pagina 7

Dopo 14 anni torna a crescere la disoccupazione: è al 7,9%

Un’indagine di Unioncamere: «8 su 10 vogliono il Belpaese»

Lavoro, la crisi condanna i trentenni

Turismo: l’Italia è desiderata ma ancora poco visitata

ROMA. Il perdurare della crisi finisce per avere duri contraccolpi sul mondo del lavoro. Dopo 14 anni l’indice della disoccupazione torna a salire: nel primo trimestre dell’anno ha toccato quota 7,9 per cento, il livello più alto dal 2005. Secondo l’Istat, in questo lasso di tempo 204mila persone hanno perso il loro impiego, pari allo 0,9 per cento rispetto allo stesso periodo del 2008. Maggiormente colpiti dalla congiuntura sono i giovani sotto i 34 anni: tra il primo trimestre del 2009 e quello del 2008 in ben 408mila sono rimasti a casa. Alla base di questa tendenza l’innalzamento dell’eta di pensionamento (con gli ultra 50enni che restano al loro posto e bloccano il turn over) e il taglio netto ai contratti a termine. Una situazione che secondo qualche esperto potrebbe non essere riassorbita quando partirà la ripresa.

ROMA. Anche in tempo di crisi l’Italia resta in cima alla classifica delle mete di viaggio più ambite all’estero. Ben 8 turisti su 10 sognano un viaggio nel Belpaese ma poi solo 3 su 10 lo acquistano e lo fanno davvero. È quanto emerge da un’indagine di Unioncamere-Isnart in collaborazione con l’Osservatorio nazionale sul turismo. Nel 2009, un viaggio in Italia è stato richiesto all’80,9 per cento dei Tour operator europei e all’89 per cento di quelli statunitensi. Una flessione più decisa ha riguardato il mercato del Vecchio Continente (88,7 per cento il dato del 2008), più contenuta in quello americano (93 per cento lo scorso anno). Malgrado l’evidente appeal del no-

Sempre rispetto all’anno scorso il Mezzogiorno registra una perdita di posti pari a 426mila tra i lavoratori italiani, e pari a 222mila tra i cittadini immigrati. Se non bastasse, quadruplica inoltre il numero di lavoratori in cassa integrazione: dai 61mila del primo trimestre 2008 alle 245mila di gennaio-marzo 2009.

L’Udc al centro dei ballottaggi I centristi potrebbero essere decisivi per il secondo turno di Franco Insardà

ROMA. «Noi siamo equidistanti e non possiamo dimenticare l’appartenenza al Ppe con il Pdl, ma con un centrodestra così squilibrato a favore della Lega, non si pensi che noi facciamo da ruota di scorta». Pier Ferdinando Casini, intervistato qualche giorno fa dal Corriere della Sera ha espresso chiaramente la posizione dell’Udc sulle alleanze e gli apparentamenti, in vista dei ballottaggi per le amministrative di domenica e lunedì prossimi. È questo l’appuntamento elettorale più importante, considerando lo scarso appeal della tornata referendaria. Ale amministrative oltre i due poli sia l’Unione di Centro sia l’Italia dei Valori e i partiti della sinistra potrebbero essere determinanti per la vittoria finale. I riflettori sono puntati soprattutto su Milano, dove per le elezioni alla provincia l’Udc ha rinunciato a qualsiasi alleanza o apparentamento con l’uscente Filippo Penati (centrosinistra) e con Guido Podestà (centrodestra). In Veneto, invece, si gioca una partita molto delicata. ll ballottaggio a Padova tra Marin Marco (centrodestra) e Flavio Zanonato (centrosinistra), è il più atteso a Nordest. Il Pdl, grazie all’appoggio di Lega e Udc, spera di sconfiggere Zanonato. Anche perché Padova viene considerata fondamentale dal partito di Berlusconi per l’intero Nordest visto che la provincia è già appannaggio del centrodestrae il Pdl mira a conquistare anche le province di Venezia, Belluno e Rovigo. In Laguna la candidata del centrodestra, Francesca Zaccariotto, parte in vantaggio contro il presidente uscente, il Pd, Davide Zoggia e ha l’appoggio anche dell’Udc e del Nuovo Psi. Bossi si è detto convinto che il leghista Gianpaolo Bottacin toglierà la provincia di Belluno al presidente uscente del Pd, Sergio Reolon. Buone chance di vittoria a Rovigo per Antonello Contiero sul candidato del centrosinistra Tiziana Michela Virgili. A Torino, invece, l’Udc si schiera con il candidato del Pd Antonio Saitta. In Liguria, e in particolare a Savona, i due sfidanti, Michele Bof-

fa e Angelo Vaccarezza, si scontreranno al ballottaggio senza alcuna alleanza o apparentamento con gli altri partiti. Per Bologna e Firenze, i due grandi comuni del Centronord che dovranno scegliere il loro sindaco, l’Udc ha preso posizioni diverse. Sotto le due torri i centristi, che al primo turno hanno sostenuto Giorgio Guazzaloca, hanno dato ai loro elettori l’indicazione di votare il candidato del Pdl, Alfredo Cazzola che dovrà vedersela con Flavio Delbono. In riva all’Arno non ci sono state, invece, dichiarazioni. In molte Province e Comuni, invece, i centristi si sono schierati. Riflettori puntati anche su Bari, dove i fatti giudiziari potrebbero influenzare il ballottaggio di Bari tra Michele Emiliano del Pd, appoggiato dall’Udc, e Simeone Di Cagno Abbrescia del Pdl, per l’inchiesta aperta sul presunto giro di ragazze a pagamento che avrebbero incontrato anche il premier. A Brindisi e a Lecce l’Udc ha scelto di appoggiare i candidati del Partito Democratico, così anche nel Lazio, dove a Rieti e Frosinone il partito di Casini appoggia i alla candidati provincia Melilli e Schietroma.

Casini: «Non vedo sbilanciamenti. Dove il nostro rapporto con il centrodestra è conflittuale, abbiamo fatto scelte diverse»

Ci si avvia verso una conferma di quanto stimato da Confindustria, che ieri ha segnalato la perdita di un milione di posti di lavoro. Il ministro Maurizio Sacconi prova a gettare acqua sul fuoco: «L’Italia sta meglio degli altri Paesi europei» e promette incentivi alle imprese che non ricorrono alla cassa integrazione. Il leader delle imprese, Emma Marcegaglia, ha ricordato che «siamo ancora lontani dai livelli peggiori degli anni Ottanta e Novanta. Ma si deve evitare un peggioramento ulteriore». Preoccupati i sindacati. La Cgil chiede «l’estensione della cassa integrazione ordinaria e di far ripartire lo sviluppo utilizzando la leva fiscale».

In Campania la personalità di Ciriaco De Mita si fa sentire, soprattutto nella sua Irpinia. Dopo essere stato decisivo per la conquista da parte del Pdl delle province di Napoli, Salerno e Avellino, adesso l’Udc è impegnato nei ballottaggi nel capoluogo irpino e in altri sette comuni: Ariano Irpino sempre in provincia di Avellino; Battipaglia in provincia di Salerno; Acerra, Gragnano, Marigliano, Ottaviano e Sant’Antonio Abate in provincia di Napoli. Insomma, come ha ribadito Pier Ferdinando Casini, «in moltissime realtà il centrodestra, senza l’alleanza con l’Udc, non avrebbe vinto. Io non vedo sbilanciamenti. In Piemonte, nel Lazio e in Puglia, dove il nostro rapporto con il centrodestra è conflittuale: in queste regioni abbiamo fatto scelte diverse». L’appuntamento è per lunedì sera i verdetti e gli inevitabili processi politici all’interno del Pdl e del Pd.

stro paese, i progetti di viaggio in Italia si trasformano però in viaggi venduti solo nel 34 per cento dei casi, con una flessione di 1,6 punti percentuali rispetto a quanto registrato nel 2008. «La crisi investe anche il turismo, ma la flessione del nostro paese a livello internazionale è tutto sommato contenuta. Questo è dovuto anche agli sforzi che stanno facendo le imprese del settore - ha detto il presidente di Unioncamere, Ferruccio Dardanello - Le politiche di contenimento dei prezzi degli hotel, soprattutto di categoria superiore, sono state una scelta efficace per fronteggiare il calo generalizzato della domanda. Non dimentichiamo poi che le previsioni di vacanza degli italiani sembrano migliorare. Al momento, già 22,6 milioni di connazionali hanno pianificato una vacanza. Di questi tempi, nel 2008, l’avevano fatto solo 16 milioni». Insomma, ha evidenziato Dardanello, «la buona richiesta del “prodotto Italia”induce a sperare si confermi quanto meno l’andamento dello scorso anno, in attesa di una ripresa nel 2010». Restano comunque «molte potenzialità ancora non sfruttate» del settore turistico, che, insieme al suo indotto, incide per il 9,7 per cento sul Pil nazionale.


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pagina 8 • 20 giugno 2009

Divisioni in famiglia. La concorrenza di Sky di Murdoch impone a Mediaset cambiamenti srategici che la politica rende complicati

O premier o premium Gli obiettivi di Pier Silvio e Marina sono ormai in rotta di collisione da quelli del padre di Francesco Pacifico essun rimpianto per l’addio di Kaka. «Il calcio ha costi insostenibili» (Marina Berlusconi). Nessun rimorso per la separazione con Mike Bongiorno. «Ora sei un professionista libero. Non hai obblighi, nemmeno quello della riconoscenza» (Pier Silvio Berlusconi). Saranno anche orgogliosi del loro Papi, ma quegli ingrati dei figli del Cavaliere non perdono occasione per smarcarsi da lui. Per dare all’esterno l’impressione che l’equazione aziende di famiglia uguale macchina di consenso politico non sia così scontata. Senza scomodare Freud o tracciare scenari di guerre generazionali (l’ultima parola alla fine è del capostipite) è oggettivo che gli interessi e gli obiettivi del Ca-

N

valiere e quelli dei suoi figli (intesi come avanguardia manageriale del Biscione) siano sempre più distanti. Se il premier deve uscire dalle secche del Noemi-gate, evitare che Bossi gli strappi il Nord e Fini le chance di salire al Quirinale, Marina e Pier Silvio devono riconvertire il gruppo e trasferire il primato di ascolti, la raccolta pubblicitaria e i contenuti dalla tv analogica a quella digitale, terrestre o satellitare che sia. Dalla tv in chiaro a quella a pagamento, facendo una riconversione che il “nemico” Rupert Murdoch ha realizzato quasi vent’anni fa. Spiega l’economista Augusto Preta, esperto di comunicazioni e Ad di Itmedia consulting: «Lo scenario è cambiato da quando l’Unione europea, autorizzando la fusione tra

Telepiù e Stream che ha portato alla nascita di Sky Italia, ha imposto ai canali tradizionali il trasferimento sul digitale terrestre e consentito loro l’accesso al mercato dei contenuti a pagamento. A questo punto la priorità di Mediesat è diventata trasferire una componente delle proprie revenues, quelle pubblicitarie, da un ambito in crisi alla tv a pagamento. E non mi sembra che le mosse che ne sono seguite siano state ispirate da logiche politiche». Mai come oggi, la partita per il monopolio dei media si gioca sul mercato. E di fronte non c’è una Rai obsoleta e ricattabile, ma lo spregiudicato squalo australiano.

L’azienda è sana, ma bastano i numeri per comprendere quando sia legata a un filo la supremazia del gruppo Fininvest nel mondo editoriale. In due anni la capitalizzazione di Mediaset (oggi a 4,2 miliardi di euro) si è ridotta quasi a un terzo. E fortuna che un padre a Palazzo Chigi è la migliore golden share contro scalate ostili. Oppure può facilitare – come è avvenuto con un emendamento del ddl Incentivi – un rafforzamento della propria quota. Cosa che Cologno ha fatto nell’aprile scorso salendo al 38,6 per cento. Nel 2008 la holding Fininvest, presieduta da Marina Berlusconi e regina del capitalismo italiano per redditività, ha visto calare gli utili (a 131 milioni di euro) del 64,2 per cento, mentre la liquidità, complice la crisi della pubblicità, è crollata da 1,067 milioni a 729 milioni di euro. E poteva andare molto peggio. Guardando alle sue controllate, la Mondadori deve fare i conti sia con un complesso processo di riconversione al web dell’editoria periodica sia con la difficile integrazione con la francese Emap, operazione voluta nel 2006 proprio dalla primogenita del premier. Il baluardo te-

Due anni per blindare il mercato italiano: entro il 2010 Sky potrebbe superare il Biscione e la Rai per ricavi. E drenare la pubblicità migliore. E a fine 2011 ci sarà lo sbarco sul digitale terrestre levisivo Mediaset, del quale Pier Silvio Berlusconi è vicepresidente, regge di fronte alla crisi: ricavi netti a 4.251,8 milioni di euro (+9 per cento) e utile netto a 459 milioni di euro (+14,3) grazie alle attività spagnole e all’avvio in pompa magna delle attività premium. Ma a ben vedere il dato sulla redditività, l’ebit, passa in un esercizio da 1.149 a 984,6 milioni. Sempre soffermandosi sul fronte tv calano gli introiti pubblicitari se il gioiello di casa Publitalia vede scendere del 10,53 per cento le sue entrate nei primi quattro mesi. E il bilancio è destinato a peggiorare anche negli anni successivi. Canale 5 resta la regina del prime time ma paradossalmente reggono meglio negli anni della congiuntura le soap di Rete 4 che la tv giovane di Italia 1. Entro il 2011 si devono far rientrare in cassa i circa 450 milioni spesi per i diritti (soprattutto serie tv, come Doctor House e Law & Order) necessari per far esplodere i canali pay. Le 2,7 carte prepagate, a fronte di un canone di 8 euro, rendono in termini economici assoluti ancora meno dei 4,8 milioni di abbonamenti di Sky. La cui piattaforma,

grazie all’arrivo di Fiorello, può vantare quasi 8 milioni di spettatori unici, un livello di utenti molto profilato e ricavi per 2,64 miliardi all’anno.

Se la politica ha salvato negli anni Ottanta con i decreti di Craxi e la Mammì il Biscione dai pretori d’assalto, se nei decenni successivi ha impedito la perdita di un canale e blindato i flussi pubblicitari con la Gasparri, oggi può fare poco per sconfiggere Murdoch. Berlusconi, per la cronaca, non ha neppure fatto desistere Fiorello dal trasferirsi a Sky. Certo, giocare con un alleato a Palazzo Chigi aiuta. Ma finora il governo non ha potuto andare oltre il dispetto di riportare l’Iva per le tv digitali al 20 per cento (“togliendo” a Sky circa 400 milioni). Oppure ha applicato in maniera pedissequa la Gasparri sull’assegnazione dei nuovi multiplex per il digitale terrestre (che favorisce gli incumbent Rai e Mediaset e, gioco forza, tiene lontana Sky dalla tecnologia) e ha ha destinato al Biscione, come ha rivelato Carmelo Lo Papa su Repubblica, la maggioranza del fondo per la pubblicità istituzionale. Ma per aiutare la sua azienda


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20 giugno 2009 • pagina 9

abbassamento dei toni in storici “covi di comunisti”come “Zelig” o “Mai dire gol”. Mediaset quindi ha poco più di due anni per contrastare l’onda di Sky. Per qualcuno deve resistere. Se Marina e Pier Silvio ci riusciranno, avranno messo un’ipoteca sulla successione al gruppo. E forse una pietra tombale sulle aspirazioni dei fratelli Barbara, Eleonora e Luigi. E che, al momento, non avrebbero spazio nelle linee di governance delle società operative.

Pier Silvio (a sinistra) e Marina (a destra) Berlusconi: i due figli del premier devono riconvertire il gruppo e trasferire il primato di ascolti, la raccolta pubblicitaria e i contenuti dalla tv analogica a quella digitale. Dalla tv in chiaro a quella a pagamento, facendo una riconversione che il “nemico” Rupert Murdoch (nella foto in basso) ha realizzato quasi vent’anni fa

Berlusconi dovrebbe congelare lo status quo. Perché quello che manca a Palazzo dei Cigni è il tempo. Scrive il giornalista Filippo Astone nel suo saggio Gli affari di famiglia (Longanesi): «Mediaset è una società che da trent’anni macina utili con una televisione generalista visibile gratuitamente, ma che in futuro sarà costretta a rivedere il suo posizionamento. Iptvmedia, il centro studi guidato da Preita, stima che nel 2010 la piattaforma Sky possa superare in ricavi quelli di Mediaset e della Rai. Entro il triennio la fetta pubblicitaria della tv terrestre potrebbe attestarsi al 60 per cento, il satellite salire al 30 e la Iptv avvicinarsi al 10. Eppoi dal novembre 2011 il gruppo di Murdoch, scaduti i paletti dell’Antitrust Ue dopo la fusione tra Telepiù e Stream, potrà entrare nel business del digitale terrestre, forte di contenuti ad hoc. Se non bastasse, il Biscione deve fare conti con i suoi ritardi infrastrutturali. Obbligatorio per ogni broadcaster è diffondere ovunque il proprio segnale. E su questo versante la tecnologia più funzionale resta il satellite, che però è monopolio di Sky. Il Biscione al momento è legato mano e piedi al digitale terrestre, che però potrebbe tenere fuori il 20 per cento del territorio nazionale. Certo, sta lanciando una piattaforma satellitare con Rai e Telecom, Tivu, ma al momento non si se sarà il cavallo di Troia o un

flop. E seppure studia con Telecom e Fastweb soluzioni per sviluppare la Iptv, i canali via internet diventeranno una realtà competitiva non prima di 5 anni. Sotto quest’ottica la scelta di Mediaset e Rai di trasmettere o meno i canali generalisti sul bouquet di Sky è a dir poco delicata. E non soltanto perché la controllata italiana di News group potrebbe aprire un contenzioso legale, forte dell’obbligo legislativo di dover dare spazio a queste reti. Rompere con Murdoch vuol dire sia limitare la penetrazione sul territorio del proprio segnale sia mettere a rischio i 250 e i cento milioni di introiti pubblicitari attraverso la parabola che Biscione e tv pubblica inseriscono rispettivamente nei loro bilanci. Ma farlo vorrebbe dire anche dare un colpo non da poco al concorrente, che senza Canale 5, Raiuno e affini vede calare il suo share dal 14,8 al 10,9 per cento. In questo nuovo scenario non deve sorprendere che alle 22 del 7 giugno, alla chiusura dei seggi delle Europee e delle amministrative, non c’era uno straccio di finestra informativa su Canale 5, Italia 1 o Rete 4. Ma, rispettivamente, la riproposizione de “I Cesaroni” (3.312.000 gli spettatori), il film Librarian (3.244.000 ) e il cult d’azione “Daylight - Trappola nel tunnel” (1.503.000). E questo mentre l’interesse per le elezioni faceva da traino a

Skytg24 (record di contatti totali a 450mila) e portava La 7 a conquistare il 4,6 di share. «Perché fare concorrenza a “Porta Porta”?», si nota fra il serio e faceto a Cologno Monzese.

Gli ascolti prima di tutto. Una logica seguita la sera del 9 febbraio, giorno della morte di Eluana Englaro. L’allora direttore editoriale Enrico Mentana scalpita per un’edizione straor-

Pier Silvio Berlusconi: «A parte casi eccezionali di attualità, dove possiamo sempre intervenire con “speciali”, penso che i programmi abituali come “Annozero” di Michele Santoro funzionano solo se sono molto marcati politicamente e se stimolano toni incandescenti. Poiché a noi non piace l’idea di avere in prima serata prodotti così schierati, preferiamo evitare». Dal versante dell’entertainment la bellissima Michel-

Il colosso di Cologno Monzese non potrà più contare sui picchi di liquidità di questi anni: sempre meno spot e ascolti verso il satellite e internet. Segna rallentamenti l’espansione verso l’estero dinaria di “Matrix” in prima serata su Canale 5. Mediaset preferisce mantenere il “Grande Fratello”. E hanno ragione entrambi. L’azienda perché il Gf ottiene il suo record di ascolti (7,9 milioni di spettatori, 31,79 per cento di share) quasi doppiando il concorrente “Porta a Porta” sulla Englaro (4,3 milioni di spettatori). Il fondatore del Tg5, licenziato per il suo strappo, quando nota: «Non è così che si fa informazione su una grande rete nazionale, non esiste solo l’audience». Ma per capire quanto incida il conflitto d’interessi oggi a Palazzo dei Cigni, bisogna unire tre dichiarazioni di altrettanti fronti opposti. La prima è quella dell’editore, il vicepresidente

le Hunziker può dire senza paura di smentite che «Berlusconi è il nostro miglior cliente», il bersaglio preferito della banda di Striscia. Mentre l’ex Mentana bolla la nazionale dei direttori del Biscione come «un comitato elettorale, dove tutti ormai la pensano allo stesso modo, e del resto sono stati messi al loro posto proprio per questo». La politica quindi è materia da gestire con il misurino. E lo sarà ancora di più quando finirà l’avventura del capostipite a Palazzo Chigi. Anche se sono in molti a notare che a una blindatura dell’informazione (più schierata l’ammiraglia Tg5, algidi e ben fatti i contenitori come “Matrix” o “Terra”) sia seguito un

Finora Silvio Berlusconi non avrebbe ancora pianificato la sua successione. C’è un testamento ma non è pubblico. Non c’è un’accomandita che garantisce i pesi e gli oneri di tutti i familiari. Vorrebbe evitare una polverizzazione dei suoi beni, ma per farlo deve prima equiparare le quote e le cariche tra i suoi cinque figli. E il divorzio con Veronica Lario ha soltanto acuito una situazione già da tempo ingestibile. Come ricorda sempre Astone in Gli affari di famiglia, la holding Fininvest ha un miliardo di euro fermo. Per qualcuno potrebbe servire se si dovessero liquidare qualcuno degli eredi. Fatto sta che la difficoltà di trovare una quadra riapre un’ipotesi che da tempo studiano le banche d’affari e avrebbe non pochi riflessi sulla politica nazionale: una fusione tra il Biscione senza Milan, Mediolanum e le attività immobiliari con una Telecom priva di un controllo pieno sulla rete. I Berlusconi, da padroni del vapore, diventerebbero azionisti rilevanti ma di minoranza di un campione nazionale in grado di trasformarsi in un content provider a tutto tondo. Che è un po’ la svolta che Pier Silvio e i manager a lui più vicini vogliono dare al gruppo. Una trasformazione difficile visto la scarsa propensione all’ internazionalizzazione della casa, ma che è già iniziata con l’acquisto del 75 per cento di Endemol e del 28,5 per cento di CaribeVision, tv via cavo per le comunità ispaniche di Miami e NewYork. Perché questo matrimonio sia naturale l’ha spiegato l’ex Ad di Tiscali Mario Rosso a Edoardo Segantini del Corriere della Sera: «In Inghilterra BSkyb offre ai nostri ex clienti (di Tiscali Uk, ndr) pacchetti super-scontati composti da accesso alla banda larga e tivù. Non a caso nel primo trimestre 2009 hanno acquisito il 40 per cento dei nuovi clienti inglesi alla banda larga. In 18 mesi, con la formula connessione gratis a chi si abbona alla tivù, hanno raccolto due milioni di abbonati». Inutile dire che il dossier resterà nei cassetti fino a quando Berlusconi avrà un ruolo politico. Per primi non glielo permetterebbero i suoi alleati, Lega in testa. Non sempre avere il proprio azionista a Palazzo Chigi è un bene per il Biscione. Di questo almeno sarebbero convinti Pier Silvio e Marina.


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Euronomine. Quella di Mauro gliela sfila Bruxelles, quella di Tremonti gliela vuole sfilare lui

A Berlusconi girano le poltrone di Francesco Capozza

BRUXELLES. Se Mario Mauro non dovesse ottenere la presidenza dell’Europarlamento, l’Italia, con il ministro dell’Economia Giulio Tremonti, potrebbe puntare «alla presidenza dell’Eurogruppo». Lo ha sottolineato ieri Silvio Berlusconi, parlando in conferenza stampa al termine del vertice Ue a Bruxelles. «Se Mauro non sarà il presidente del Parlamento Ue, avremo altri crediti - ha detto il premier - tipo portafogli importanti, come la presidenza dell’Eurogruppo, possibilità che vedo buona per Tremonti, a cui ribadisco vicinanza e fiducia». Attuale presidente delle assise dei ministri economico-finanziari di Eurolandia è il premier lussemburghese JeanClaude Juncker,

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

mandato che scade a fine 2010. Parlando nuovamente della candidatura di Mauro all’Assemblea di Strasburgo, Berlusconi ha osservato che «siamo arrivati un po’ in ritardo» in quanto «c’era già questo filone sul fatto che andava dato un candidato ai paesi nuovi membri. Noi ci siamo inseriti in ritardo, non avevamo posto attenzione su questo».

probabile passo indietro sulla candidatura Mauro all’europarlamento. «Frattini voglio tenermelo stretto come ministro del mio governo» ha però detto Berlusconi escludendo con chiarezza l’ipotesi e le voci di una possibile candidatura del ministro degli Esteri a successore di Javier Solana, come rappresentante Ue per la politica estera. Le voci su un possibile

E Sarkozy: «La Francia e l’Ump appoggeranno la candidatura dell’ex premier polacco, Jerzy Buzek, a presidente del Parlamento d’Europa Mauro, ha ancora spiegato Berlusconi, «è visto molto bene anche da altre formazioni fuori dal Partito popolare europeo». A volte, ha poi aggiunto, «nel Ppe ho avvertito movimenti di contrasto essendo Mauro cattolico praticante, è stato dipinto come un cattolico integralista» mentre nel gruppo ci sono dei «protestanti, addirittura direi calvinisti». Tra i giornalisti presenti alla conferenza stampa, c’è anche chi ha pensato all’attuale capo della Farnesina come possibile soluzione per accontentare l’Italia dopo l’ormai

nuovo incarico per Frattini sono circolate ieri a margine del Ppe, come “poltrona” alternativa se l’Italia non ottenesse la presidenza dell’Europarlamento, che vede ancora ufficialmente candidato l’eurodeputato Pdl Mario Mauro, già vicepresidente dell’assemblea di Strasburgo nella legislatura appena conclusa. L’ennesima conferma che per Mauro le chances sono ormai ridotte al lumicino è arrivata ieri pomeriggio dalle parole di uno degli alleati (o presunto tale) più forti di Berlusconi in Europa, il presidente francese

Nicolas Sarkozy: «La Francia e l’Ump appoggiano la candidatura dell’ex premier polacco, Jerzy Buzek, a presidente del Parlamento europeo» ha riferito nel corso della conferenza stampa conclusiva del vertice di Bruxelles. «È un eccellente candidato», ha affermato Sarkozy, «un uomo di qualità e ciò darebbe un segnale estremamente positivo agli amici dei Paesi dell’Est». Pare evidente, a questo punto, che se anche la Francia si sfila dall’appoggio al candidato italiano il presidente del Consiglio ha come unica possibilità (onde evitare una bocciatura formale di Mauro e poter almeno “ricontrattare” la nostra presenza in Europa) il ritiro della candidatura del parlamentare Pdl. Certo, osservano alcuni euroanalisti, se Berlusconi si accontentasse della presidenza dell’Eurogruppo (per Tremonti) sarebbe un evidente ridimensionamento rispetto alla presidenza dell’emiciclo di Strasburgo. Certamente non pari a quella del presidente della Commissione né a quella del responsabile della politica estera. Un contentino che, francamente, non farebbe fare una bella figura al premier italiano.

Ecco a che punto è la notte della Repubblica... di Silvio Berlusconi

Una scossa sì, ma superare «il decennio sprecato» n molti lo pensavano, ma nessuno lo diceva. Ora qualcuno comincia anche a dirlo: avanti un altro governo. Prima erano solo voci, sussurri, adesso si fanno ipotesi di scuola: governo tecnico, governo istituzionale. Non desidero entrare nel merito della vicenda - sms, cene, pagamenti, 1000 euro più 1000 euro, vado via, dopo cena resto, Noemi, Patrizia, Casoria, compleann, biglietti aerei, Topolanek, telefonate: “Pronto, chi parla?” - voglio solo notare che il governo più autorevole degli ultimi anni e pienamente legittimato da una vittoria netta e, forse, senza precedenti, è già all’ultima spiaggia.

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Fandonie? Il Pdl - non tutto, in verità si difende così: il governo è forte e autorevole. Il presidente del Consiglio è ancora al top della popolarità e del gradimento. Berlusconi ha al suo fianco gli italiani. È tutta una montatura delle gazzette della sinistra, una vergogna, una indegna campagna fatta con la spazzatura. Se vogliono la guerra l’avranno. È di questo tenore la difesa di Palazzo Chigi e può darsi che abbia delle buone frecce al suo arco. Anzi, diciamo pure che ha ragione. Tuttavia, c’è un limite che vale la pena di mettere in lu-

ce: è tutto un gioco di comunicazione. È vero che nel nostro mondo moderno e contemporaneo la comunicazione è un elemento fondamentale dei rapporti di forza e chi la sa usare meglio ha alla meglio, ma proprio qui è il punto: la comunicazione è pur sempre un mezzo, mentre qui è diventato un fine. Non si comunica per fare, ma si comunica per comunicare. Il mondo virtuale si è mangiato il mondo reale. Lo so: non è neanche una grande e nuova scoperta. Ma dovete ammettere che fa un certo effetto vedere dal vivo come si realizza ciò che le scienze sociali avevano teorizzato. La comunicazione divora i comunicatori come il Tempo divora le ore. Accade quando ci si dimentica che per comunicare qualcosa si deve avere effettivamente qualcosa da comunicare. Il go-

verno cosa ha da dire? Questo il punto. Se il governo dovesse fare un capitombolo - siamo ormai già nell’anticamera di una crisi - la responsabilità sarebbe dello stesso governo e della sua politica che dopo aver tolto i rifiuti da Napoli non ha fatto più alcunché. Un governo che lavora di buona lena spazzerebbe via tutta questa spazzatura con la sua autorevolezza. Ma la forza del governo attuale non sembra essere l’autorevolezza. E non per le cene a Palazzo Grazioli - che non sono una causa ma al più una conseguenza - ma per la fine prematura di un disegno riformatore. I numeri della maggioranza sono grandi, i numeri però sono necessari ma non sufficienti a dare autorevolezza al governo. Ogni sera assistiamo alla sfilata delle dichiarazioni dei capigruppo e vi-

ce-capigruppo di Camera e Senato: un minuto a questo, un minuto a quello, botta e risposta, abbiamo il consenso, i sondaggi ci danno ragione, gli italiani sono dalla nostra parte.

Anche i tg sono diventati inutili: non li seguo neanche più, fatta eccezione per quelli locali che almeno delle notizie le danno. I capi e i vice sono diventati i guardiani delle loro truppe parlamentari e la loro funzione è solo quella di comunicare la sensazione che deve essere prevalente: il governo è forte e va avanti. È il peggior servigio che i parlamentari possono rendere al governo: sono più realisti del re e credono di aiutarlo, ma a lungo andare lo indeboliscono. Il guaio è che il capo del governo ha poco da recriminare nei confronti del Parlamento perché i deputati e i senatori sono stati eletti-nominati proprio da lui. Il punto forte del governo non è la maggioranza, ma la minoranza. Peggio del Pdl c’è il Pd: il primo non ha la politica ma ha i numeri, il secondo non ha né politica né numeri. Sì, è vero, ci vorrebbe una “scossa”, non per fare un altro governo, ma per iniziare a superare quello che Renzo chiamava «il decennio sprecato».


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Provocazioni. A quando un’approfondita inchiesta cinematografica sull’operato delle giunte di sinistra in Campania?

Come sarebbe bello un film su Bassolino... di Franco Ricordi opo i vari film e spettacoli teatrali che hanno preso di mira Fanfani, Andreotti, Moro, Berlusconi, Pomicino, insieme a tutti gli altri del centrodestra che stavano o sono ancora vicini o attorno ai suddetti, ci chiediamo: sarebbe possibile realizzare un bel film su Antonio Bassolino, magari intitolato O Presidente? Un bel film-inchiesta sull’operato delle giunte di sinistra in Campania? Per la prima volta un uomo di sinistra sarebbe preso di mira; potrebbe interpretarlo l’ottimo Castellitto, che ha pure una vaga somiglianza col governatore della Campania; la regia potrebbe essere affidata all’estroso napoletano Mario Martone, che a suo tempo sostenne la candidatura di Bassolino a sindaco, e in questo modo la sinistra culturale, che ha vissuto non poco del supporto anche produttivo e ideologico di tale area politica, si rivolterebbe contro il proprio “padre-padrone”.

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Sì, diciamolo, il mandatario si ribellerebbe per la prima volta al mandante. Ipotizziamo una trama: Bassolino, la Iervolino e gli altri di sinistra in Campania

Dopo tante pellicole volte a criticare duramente il centrodestra, per la prima volta verrebbe preso di mira un uomo dell’area politica avversa si trovano “int’a munnezza”. Fra riunioni e controriunioni delle giunte regionali, provinciali e comunali, nessuno riesce a mettersi d’accordo per affrontare davvero il problema. L’emergenza rifiuti dilaga sempre più, e ognuno fa lo scaricabarile. Il danno d’immagine internazionale non è da poco. A

quel punto entra in scena lui, il terribile, mediatico, immorale e odiato Berlusconi che, a ridosso delle elezioni del 2008, promette di ripulire Napoli e annuncia spettacolarmente il primo consiglio dei ministri proprio a Napoli. Berlusconi vince le elezioni, e in quattro e quattr’otto ti risolve il problema.

Qualcuno dice che si sarebbe dovuto risolvere “democraticamente”, ma qualcun altro replica che in Italia, ogni tanto, una strigliatina un po’ autoritaria bisogna pure darla... Tutti si attendono le dimissioni di Bassolino, che per altro aveva esplicitamente annunciato che si sarebbe fatto da parte al massimo nell’aprile 2009. Ma siccome tutto questo non è ancora avvenuto, allora l’ombra del sospetto dei napoletani, di tutti i campani e forse anche di tutti gli italiani si estende sul Presidente. Un finale, come dire, “aperto”, come del resto nella tradizione del cosiddetto cinema politico italiano. L’ambientazione è sicuramente suggestiva, la stessa di film che vanno da Le mani sulla città a Gomorra, dove camorra, appalti e rifiuti sembrano fondersi gli uni negli altri. Poi magari potrebbero fare sempre un antico riferimento alla collusione mafia-politica che è stata storicamente attribuita alla Dc; e tuttavia per la prima volta tale problematica investirebbe di sana pianta, in tutto e per tutto, l’amministrazione di sinistra. Certo, sarebbe la prima volta, e sarebbe anche legittimo: dopo tanti film che

Dimenticanze. Analisi polemica del viaggio in Arabia, al Cairo, in Francia e in Germania

Troppe omissioni, mr. President di Luca Volontè a superpotenza Usa finge di darsi lustro con un viaggio stupefacente, visitando quattro capitali per dimostrare la propria forza. La prima è l’Arabia Saudita, dinnanzi al cui sovrano Obama, tempo fa, si era inginocchiato al G20.

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Al Cairo, mr. President ha sciorinato una serie di banalità ed errori storici, all’esaltazione fuori luogo dell’islam non ha saputo alternare un vero e forte appello alle ragioni della convivenza e dei pericoli quotidiani del popolo di Israele, non un cenno alla permanente violazione dei diritti umani, alle libertà religiosa, ai diritti di uguaglianza delle donne, alle vergognose mutilazioni. Obama è il primo Presidente Usa che si diletta di revisionismo storico, solo così si comprendono le boutades sulla scoperta della stampa, sulla medicina figlie dell’islam. Nessuna affermazione invece sulla fiorente civiltà egiziana, greca, cartaginese, romana e cristiana che in Egitto venne spazzata via. Nulla sulla tradizione giudaico cristiana degli Stati Uniti. Obama è sta-

to pure sincretista sul piano religioso, «i figli di Abramo… la storia di Isra, allorché Mosè, Gesù e Maometto…». Un uomo capace di parlare lingue e significati diversi, a seconda dell’interlocutore, il primo Presidente “liquido” che, tuttavia, si atteggia ad “imperatore del mondo”, solo per ricordare i profetici romanzi di Benson o le lezioni di Solovev del secolo scorso.

È un uomo capace di parlare lingue e significati diversi a seconda dell’interlocutore. Il primo Presidente “liquido” che si atteggia a “imperatore” Le ultime due tappe, Germania e Francia sono state le più maleducate di un Presidente americano dalla fine della II Guerra Mondiale ad oggi.

Forse per la vergogna di ritrovarsi i tedeschi nelle case automobilistiche americane, tra i maggiori sponsor della elezione di Obama, o forse in risposta alla sfacciata fermezza del Cancelliere Merkel e del Ministro economico Steinbruck che non tacciono la crisi economica americana. Amici sinceri? Obama sembra proprio non amare la sincerità, ha visitato Dresda e Bu-

chenwald, ma non ha voluto fermarsi a Berlino. Non meglio è andata alla Francia di Sarkozy, viaggio e discorso in Normandia ma solo visita privata a Parigi.

Freddezza a Berlino e ghiaccio a Parigi, gli Usa tremolanti di Barack Obama e Hillary Clinton non amano un’Europa così fragile e poco autorevole come quella in cui viviamo. In ginocchio dal sultano, a braccetto con gli emiri e scostante con li europei? Forse Obama teme l’Europa, scommette sul nuovo protagonismo che potrebbe avere il “Vecchio continente”, oppure e più facilmente, ha studiato l’andamento del tasso di natalità nei Paesi dell’Unione europea e ha concluso come quel noto studioso, la vivacità democratica dipende da quella dei reparti di maternità… Come sempre, il destino è nelle nostre mani, ma il tempo per la ricreazione è finito.

criticano il centrodestra, per una volta qualcuno fa una denuncia contro la sinistra.

Ma non esaltando i tempi del Duce, come faceva il regista di destra Pasquale Squitieri nei suoi film su Claretta Petacci o sul Prefetto di ferro Mori, inviato dal Duce in Sicilia per stroncare la mafia. No. Facendo proprio un’indagine sulla Sinistra di oggi, e le sue collusioni affaristiche, politiche e soprattutto culturali, e quindi una esplicita accusa alla situazione dei nostri giorni. Ma crediamo proprio che dopo Benigni, Moretti, Rosi e Bellocchio e tutto il loro retaggio politico-culturale, sarebbe possibile in Italia un cinema o teatro che faccia satira e ironia sulla stessa sinistra, su quella che è si è saputa ergere veltronianamente a nume tutelare del Cinema e del Teatro in Italia? Abbiamo ottime ragioni per dubitarne. Tuttavia, se ci sarà un coraggioso produttore, cui seguiranno coraggiosi realizzatori e distributori, potrebbe anche essere possibile. E certo un’ipotesi del genere sarebbe un passo avanti per la nostra libertà. Una libertà non più a senso unico.


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ventisette anni esatti di distanza, la guerra delle (2 Falkland-Malvine aprile-20 giugno 1982) non è ancora finita, carica di strascichi giuridici, politici ed umani. A Buenos Aires i Veteranos de Guerra sono i nuovi protagonisti di Plaza de Mayo ed hanno sostituito le madri dei desaparecidos con un accampamento installato in modo permanente al centro del famoso slargo dominato dalla Casa Rosada. L’associazione ha una sede in Calle Uruguay ed un numero verde a cui ricorrere per l’assistenza medica e psicologica dei 25mila superstiti, tra i quali più di mille feriti, e dei familiari delle 649 vittime. Molti rivendicano ancora il riconoscimento di veterano di guerra, altri la pensione o l’indennità, altri vivono in uno stato di disagio e depressione permanente, altri sono morti prematuramente o per suicidio. Non se la passano meglio i britannici.

A

Dall’altra parte dell’oceano il conflitto continua ad uccidere. Dal 1982 ad oggi almeno 300 veterani britannici si sono tolti la vita, mentre nei combattimenti veri e propri il Regno Unito perse 255 uomini della task force spedita in fretta e furia nell’Atlantico del sud. L’enorme valanga di suicidi è stata resa nota dalla Sama (South Atlantic Medal Association). Anche i 30mila ex combattenti britannici hanno una sede, si riuniscono settimanalmente allo Union Jack Club di Londra, raccolgono fondi con souvenir della guerra e medaglie commemorative, lanciano collette per organizzare visite celebrative a Port Stanley e forniscono assistenza medica e psichiatrica a chi ne

ha bisogno, famigliari delle vittime inclusi. Sul piano diplomatico, proprio in questi giorni il governo argentino ha criticato l’iniziativa della Gran Bretagna che ha incluso le isole Falkland-Malvine in un documento ufficiale presentato all’Onu davanti alla Commissione dei limiti della piattaforma continentale.

Londra punta ad un controllo del Sud Atlantico attraverso il sistema delle dipendenze delle Falkland, Tristan da Cunha, Gough, Ascenson e Sant’Elena, per il quale si era parlato anche della richiesta di un seggio ufficiale al Palazzo di Vetro di New York. Quella del petrolio, infatti, sta diventando la nuova frontiera coloniale, come testimoniano le pretese russe e canadesi sui fondali artici. In particolare, voci londinesi parlano di 60 miliardi di barili di greggio in un raggio di 350 miglia attorno all’arcipelago di Port Stanley. Nel documento la Gran Bretagna rivendica, per ora, la propria sovranità su circa 1,2 chilometri quadrati di fondali sottomarini attorno alle Falkland, zona che dispone di importanti riserve di petrolio di gas. Una azione inammissibile secondo il ministero degli esteri argentino che ha espresso «il più energico rifiuto in merito alla pretesa britannica di stabilire spazi marittimi attorno all’arcipelago, che forma parte del territorio argentino». La mossa londinese ha di fatto modificato la quiete che regnava attorno alle Falkland-Malvine dove, peraltro, è tornato il turismo grazie alle crociere che partono da Valparaiso, in Cile, attraversano lo stretto di Magellano, toccano la Patagonia e quindi raggiungono Port Stanley.

Una pagina di storia che, ventisette anni dopo, ancora non si è co

La maledizion

Buenos Aires non ha mai abbandonato l’idea di recuperare, attraverso «la diplomazia della pace», la sovranità delle 200 isole atlantiche per un totale di 16 mila chilometri quadrati, popo-

il primo insediamento umano permanente dovuto al famoso navigatore francese Antoine di Bougainville sull’isola Soledad e il primo governatore argentino stabilitosi nel 1828 a Gran Mal-

A Buenos Aires i “Veteranos de Guerra” hanno sostituito le madri dei desaparecidos e, con un accampamento davanti alla Casa Rosada, chiedono il riconoscimento ufficiale del governo late da soli tremila abitanti, fedeli alla corona britannica, chiamati kelpers, dediti alla produzione della pregiata lana derivante da oltre 600 mila pecore che pascolano tra pinguini e albatros. La querelle è iniziata nel 1833 quando gli inglesi occuparono l’arcipelago, allora proprietà del neonato governo di Buenos Aires e abitato da argentini. Secondo Londra le isole furono scoperte dal navigatore John Devis al timone del Desire nel 1592, secondo Buenos Aires fu invece Esteban Gómez a toccare per primo quegli inospitali lidi nel 1522. Nessuna delle sue imprese fu provata. Di certo fu registrato l’avvistamento dell’olandese Sebald de Weerdt nel 1600,

vina con una guarnigione e un gruppo di coloni, spodestati senza colpo ferire cinque anni dopo dalle truppe di Sua Maestà.

Ora la questione petrolifera infiamma nuovamente la contesa. I porteños, infatti, hanno da tempo deciso di staccare la spina a quelle compagnie che operano nelle acque contestate utilizzando la piattaforma continentale. In pratica chi lavora alle Malvine non potrà farlo partendo dalle coste della Patagonia. I britannici, da parte loro, non hanno mai voluto sedersi ad un tavolo di discussione nonostante una risoluzione dell’Onu del 1965 invitasse le parti ad un confronto diretto. Se da un lato Buenos Aires continua a tenere ferma la barra del nazionalismo, dall’altro scoppiano polemiche interne mai sopite sull’improvvi-

sata spedizione voluta dalla giunta militare nel 1982.

I reduci si stanno battendo per far emergere le violazioni dei diritti umani perpetrati dagli ufficiali nei confronti della truppa, documentando anche i casi di quattro soldati morti per fame, cinque per sevizie e di un soldati giustiziato dal suo superiore. Sotto inchiesta per maltrattamenti e torture è finito anche un capitano di fregata. Come nel caso dei 30mila desaparecidos, dei quali mille con passaporto italiano, la guerra delle Malvine pone dei problemi al nostro Paese mai sollevati. A scorrere l’elenco delle vittime non si contano, infatti, coloro che portano un cognome italiano. Quando il 2 maggio 1982 alle ore 16 l’incrociatore General Belgrano fu centrato dai colpi partiti dal sottomarino nucleare Hms Conqueror vi erano a bordo 1.093 marinai. Di questi ne morirono 323, gran pare dei quali aveva meno di vent’anni. I loro nomi sono orami scritti nelle latitudini estreme delle guerre folli e inutili. Si chiamavano Bedini, Casali, Ricotti, Fattori, Gallo, Gianotti, Giaretti, Grosso, Iselli, Magliotti, Morando, Motta, solo per citarne alcuni presi dal lungo elenco delle vittime. Ancora oggi in Argentina si continua a pensare con ramma-


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onclusa: 300 drammatici suicidi nel Regno Unito e una nuova Plaza de Mayo

ne delle Falkland di Marco Ferrari

equipaggiati, ha segnato la memoria storica.

I parenti dei marinai uccisi nell’affondamento dell’incrociatore General Belgrano hanno citato in giudizio la Gran Bretagna e chiesto il pagamento dei danni perché il siluramento dell’unità avvenne fuori dalla zona di guerra. Da parte inglese la richiesta è stata accolta con un certo imbarazzo e ha fatto riemergere polemiche militari, come quelle relative all’affondamento da parte di un

glese informò Londra che truppe argentine erano sbarcando sulle Falkland. Il giorno successivo, gli argentini si impadroniscono anche dell’isola South Georgia, un migliaio di chilometri a sudest delle Falkland, 20 abitanti ufficiali, una base militare e qualche scienziato, dopo un violento scontro con un contingente dei Royal Marines. Le Sandwich resistettero fino all’ultimo, ma capitolarono lo stesso giorno. La risposta del Regno Unito fu immediata determinando il soprannome di “Lady di

Dal 1982 ad oggi, centinaia di veterani britannici si sono tolti la vita. E i 30mila ex combattenti hanno una sede: si riuniscono settimanalmente allo Union Jack Club di Londra

In alto a sinistra, la fregata britannica Hms Antelope esplode nella Baia di San Carlos il 25 maggio 1982. Qui sopra, prigionieri argentini sono guardati a vista da un marine (2 giugno 1982). A destra: in alto i soldati britannici festeggiano la fine del conflitto; in basso il principe Andrew visita il cimitero argentino nelle Falkland. Nella pagina a fianco, una copertina di “Time” del maggio 1982 (a sinistra); Margaret Thatcher e Tony Blair alla “Falklands War commemoration” del 17 giugno 2007

rico al sacrificio dell’equipaggio della nave General Belgrano. Se da un lato quell’episodio segnò la sconfitta delle pretese rioplatensi ed ebbe come conseguenza la destituzione del generale Leopoldo Galtieri e della giunta golpista, che aveva voluto l’operazione Rosario per distrarre l’opinione pubblica dal fallimento della sua politica economica, dall’altro la morte di quei soldati, mandati allo sbaraglio giovanissimi e male

caccia argentino del cacciatorpediniere Sheffield dovuto alla negligenza di un capitano di corvetta che non trovandosi al suo posto non riuscì a dare tempestivamente il segnale d’allarme. Sulla guerra delle Malvine, dunque, le polemiche e le analisi si susseguono ancora con forte veemenza da ambo le parti, anche se il diario di quei giorni terribili è oramai condiviso e ampiamente scritto. Venerdì 2 aprile 1982 un radioamatore in-

Ferro”attribuito al premier Margaret Thatcher. Lunedì 5 aprile, infatti, un’avanguardia della flotta britannica composta da due portaerei con quaranta caccia-bombardieri e cinquantadue elicotteri, due incrociatori, dodici fregate e due navi d’assalto anfibie, salpò da Portsmouth verso l’Atlantico meridionale. Sulle Falkland puntarono anche cinque sommergibili nucleari e uno convenzionale. Alla missione dell’Union Jack fu dato il no-

me di Operation Corporate. L’occupazione argentina durò poco più di due mesi. In quel breve periodo i porteños imposero significativi cambiamenti alla vita isolana: Port Stanley divenne Puerto Argentino, lo spagnolo la lingua ufficiale e si impose la guida a destra, dipingendo frecce sulle strade indicanti la direzione del traffico e cambiando la posizione dei segnali. Nonostante le frecce, gli isolani continuarono a guidare a sinistra, dimostrando la propria determinazione a rimanere britannici, e rischiando più volte incidenti stradali con gli argentini. I soldati britannici riuscirono a riprendersi gli arcipelaghi australi in 74 giorni di conflitto: il 25 aprile fu conquistata la Georgia Australe e il 20 di giugno gli argentini di stanza a Port Stanley si arresero. I 9.800 prigionieri furono rispediti sul continente, metà dei quali a bordo del transatlantico Camberra. Molti di loro, a tanti anni di distanza, si ritrovano ogni pomeriggio in Plaza de Mayo per capire come mai furono costretti a combattere e a veder morire dei giovani amici per un pugno di isole aride e rocciose e con il clima rigido e inospitale avendo a disposizione un territorio sterminato come la Patagonia dove per trovare un villaggio devi fare mille chilometri. Jorge Luis Borges, schivo intellettuale bairese, tanto vicino alla cultura argentina quanto a quella anglosassone, ha sintetizzato quella stupida guerra affermando che quei fatti avvennero «in un tempo che non possiamo comprendere». Nel breve racconto intitolato Juan López e John Ward narra di un soldato argentino che amava Conrad e di un milite britannico che leggeva Don Chisciotte. Ebbero in destino di incontrarsi in certe isole diventate improvvisamente famose. Avrebbero potuto essere amici, conoscendosi meglio, ma furono Caino e Abele: «Li seppellirono insieme. La neve e la corruzione li conoscono».


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Rapporti. Secondo le stime dell’Organizzazione, nei Paesi considerati “ricchi” ci sono 15 milioni di persone senza cibo

Un mondo di affamati Per la prima volta superano il miliardo E l’Onu avverte: «Più colpite le città» di Antonio Picasso l record è decisamente negativo. Dall’ultimo rapporto della Fao emerge che le persone che soffrono di fame supererà entro il 2009 il miliardo di unità. Ed è la prima volta che si tocca questa cifra, praticamente un sesto della popolazione mondiale. Sebbene preoccupante, il dato non dovrebbe sorprendere più di tanto. Si tratta infatti di un freddo risultato emerso dalla mancanza di iniziative efficaci e preventive. Solo quattro anni

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ce. La colpa che si rivolge loro è quella di non aver rispettato gli impegni assunti più volte nel corso di questi anni e, adesso, di non volersi esporre in ulteriori iniziative. Al di là della polemica, ci sono ragioni reali che hanno portato la popolazione mondiale a un simile livello di povertà. Motivazioni evidentemente contingenti e altre legate alla caleidoscopica struttura politico-economica del sistema-mondo. Nel pri-

In prima posizione Asia e Oceano Pacifico, con 642 milioni di persone che soffrono di fame; 265 in Africa sub sahariana, 53 in America Latina e Caraibi. Altri 42 tra Medioriente e Nord Africa fa, al G8 di Gleneagles in Scozia, venne fatta la promessa da parte dei “Grandi della terra” di sostenere in modo più concreto l’Africa. La prospettiva era di raddoppiare gli sforzi in favore del continente africano entro il 2010.Tuttavia, oggi con il G8 dell’Aquila alle porte, i governi occidentali sono messi nuovamente all’indi-

mo caso, pensiamo alla crisi finanziaria di quest’anno e a quella del mercato agricolo mondiale del 2008.

In base proprio a questi avvenimenti, gli osservatori della Fao hanno rivisto le proprie stime aumentandole di circa 100 milioni di unità. Ma potremmo aggiungere gli ef-

fetti ancora visibili dello tsunami, che nel 2004 colpì buona del sud-est asiatico. Inoltre è interessante sottolineare che, nel suo rapporto, la Fao prevede che i più colpiti dalla malnutrizione saranno i poveri residenti nelle città e non i contadini rurali. Il Presidente del Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo (Ifad), Kanayo F. Nwanze, evidenzia come i contadini «abbiano le potenzialità non solo per garantirsi la propria sussistenza, ma anche per accrescere la sicurezza alimentare e stimolare una più vasta crescita economica». Il diplomatico avverte che «per rendere effettivo questo potenziale e ridurre il numero di persone vittime della fame nel mondo, i governi, assistiti dalla comunità internazionale, devono proteggere gli investimenti di base nel settore agricolo, in modo da garantire ai piccoli contadini l’accesso non solo a sementi e fertilizzanti, ma anche a tecnologie più adatte, infrastrutture, e a schemi reali di finanza rurale e mercati».

D’altra parte, quando si parla di fame nel mondo, si fa sempre riferimento all’Africa, in parte all’America Latina e ad alcuni Paesi asiatici, India e Cina soprattutto. Va detto, però, che i problemi di nutrizione di questi ultimi due colossi sono più legati alle difficoltà demografiche, invece che alla effettiva mancanza di

risorse agro-alimentari. In termini generali, comunque, molti dei Paesi chiamati in causa sono soggetti a governi autoritari, vittime di una classe dirigente corrotta e caratterizzati da sistemi economici interni arretrati. Non è un caso che la giusta e proficua convivenza tra regimi democratici e mercati regolamentati secondo

Le sue stesse allarmanti statistiche sono la prova di un’azione malata di sprechi e di mancanza di strategie

E sulla Fao sventola bandiera bianca di Enrico Singer se avesse avuto ragione il presidente del Senegal che un anno fa, proprio di questi giorni, aveva chiesto la chiusura della Fao? Abdoulaye Wade aveva accusato l’agenzia dell’Onu che ha la sua sede a Roma di essere in gran parte colpevole della crisi alimentare globale perché è «una miniera di denaro che viene speso per lo più per il suo funzionamento lasciando gli spiccioli alle operazioni sul terreno». Un attacco frontale che fu interpretato come una pugnalata alle spalle di un altro senegalese: quel Jacques Diouf che da quindici anni regna sulla Food and Agriculture Organization delle Nazioni Unite e che è di un’altra etnia e di un’altra parte politica di Wade. Quasi una faida personale, insomma. Ma a leggere il rapporto che è stato presentato ieri, la domanda viene spontanea: se gli affamati del pianeta hanno superato il tetto del miliardo di persone - che sono, poi, soprattutto bambini

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- con un aumento di cento milioni in un solo anno, che cosa ha fatto la Fao? Il suo compito è soltanto quello di tenere la terribile contabilità della fame, oppure dovrebbe anche fare qualcosa per trovare soluzioni sostenibili e assicurare la sicurezza alimentare mondiale?

Può sembrare una polemica troppo facile. È vero che dei quasi 800 milioni di euro che i Paesi dell’Onu girano al bilancio della Fao più della metà finisce nelle tasche dei funzionari e che il solo ufficio del direttore generale - Jacques Diouf, appunto - costa 41,5 milioni di euro mentre ai programmi alimentari vanno in tutto 90 milioni di euro. Ma è anche vero che la Fao, oltre a individuare i problemi, deve proporre degli interventi che toccherebbe poi ai Paesi - e a quelli più ricchi in primo luogo - realizzare. Gli sprechi della macchina della Fao sono innegabili e scandalosi. I costi delle sedi distaccate (una in ogni Paese da


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Bambini africani tendono le mani per avere i beni alimentari distribuiti da una Ong statunitense in Kenya. Sotto, il direttore generale della Fao Jacques Diouf. Nella pagina a fianco, la sede dell’organizzazione a Roma

smo manifestato dall’Occidente nei confronti di se stesso ma contenuta rispetto a quelle esorbitanti delle altre aree. Segno, effettivamente, che il concetto di progresso non è limitato all’area economico-produttiva, ma coinvolge anche quella culturale e politica. Così dicendo, la responsabilità di un miliardo di persone vittime della fame ricade sia sui governi locali - colpevoli di congelare i singoli Paesi in una condizione di arretratezza sia i “Grandi della terra”, le cui politiche di intervento troppe volte si sono ridotte a iniziative di facciata. C’è chi parla di sfruttamento. Un’accusa che può apparire scomoda, forse perché molto realistica. Questa non giunge solo da artisti engagé di fama mondiale, per esempio Bono degli U2 e Bob Geldof, in merito ai quali la comunità internazionali esprime spesso perplessità, ma anche da un’istituzione come la Chiesa la cui credibilità è data dal suo impegno capillare nelle aree più critiche.

criteri funzionali non degeneri in drammi di lungo periodo, come la fame di una popolazione. Un Paese in cui sono radicati nel tessuto sociale i concetti di libertà, Stato di diritto e trasparenza economica dispone degli anticorpi necessari per parare i colpi di una qualsiasi crisi economico-finanziaria.

Al contrario, le dittature e più in generale i governi autoritari sono molto più esposti ai pericoli della povertà e della fame. La Corea del nord lo dimostra in modo evidente. Non per nulla il documento della Fao precisa che la distribuzione del fenomeno vede in prima posizione le aree di Asia e Oceano pacifico, stimando 642

monitorare) e degli studi, spesso affidati a tecnici esterni, sono vergognosi, al punto che non è esagerato dire che esiste, purtoppo, anche un vero e proprio business della fame. Ma sarebbe semplicistico dare la colpa dell’aumento della fame - e dei milioni di morti per fame - nel mondo alle burocrazie della Fao. La colpa più grave di questa agenzia dell’Onu è un’altra: è la sua incapacità di indicare delle strategie efficaci e di coinvolgere i governi in programmi che superino la vecchia logica degli aiuti alimentari per sviluppare le economie, e soprattutto l’agricoltura, nei Paesi più poveri. Ricette apparentemente ovvie che si scontrano, però, con interessi molto grandi perché se è vero che gli Stati Uniti hanno stanziato in due anni (2008-2009) cinque miliardi di dollari per combattere la fame, è anche vero che sono i più interessati allo sviluppo dei biocarburanti che sta provocando un duplice contraccolpo sull’agricoltura mondiale: un aumento dei prezzi e l’impiego di superfici sempre più grandi di terreno per coltivazioni da sfuttare per uso energetico piuttosto che alimentare.

L’ultimo oltraggio alla fame arriva dalla Cina, dalla Corea del Sud, dall’Arabia Saudita e dagli Emirati arabi, Paesi che stanno facendo incetta di terre in Africa per produrre cibo - ma da esportare a casa loro - o per coltivare le piante

milioni di persone che soffrono di denutrizione cronica, 265 milioni in Africa sub sahariana, 53 milioni in America Latina e Caraibi e 42 milioni tra Medio Oriente e Nord Africa. Per quanto riguarda i Paesi più sviluppati la previsione è di 15 milioni totali. Una cifra, quest’ultima, comunque elevata - e che stride con l’ottimi-

che servono per produrre gli agrocombustibili. Seul possiede già 2,3 milioni di ettari, Pechino ne ha comprati 2,1 milioni, Riyadh 1,6 milioni, gli Emirati 1,3. I governi africani, così, non vendono più soltanto materie prime, ma la terra, anche quella grassa, ricca che rimane incolta per mancanza di mezzi, di braccia, di capitali. Milioni di ettari in Etiopia, Ghana, Mali, Sudan e Madagascar sono ceduti per venti, trenta, novanta anni come colonie agricole.Tecnici, amministratori, capi arrivano dall’estero e gli africani sono usati soltanto come forza lavoro sottopagata. I contratti spesso non sono resi pubblici, sono opachi come segreti di Stato in Paesi dove già la trasparenza è merce rara. E in Africa, oggi, si compra bene: nel Nord del Sudan il feddan (che equivale a 0,42 ettari) è affittato a due, tre dollari l’anno. In Etiopia l’ettaro è valutato 3 dollari, poco più di 2 euro: quello che da noi costa un solo metro quadrato di terreno agricolo. Entro il prossimo anno saranno operative in Africa 14 gigantesche fattorie che Pechino ha comprato in Zambia, Uganda, Tanzania e Zimbabwe. Coltiveranno nuove varietà ibride di riso che permettono di aumentare la produzione del 60 per cento, ma che serviranno a sfamare i cinesi. Nell’ultimo G8, nel luglio 2008, il Giappone aveva proposto un codice etico contro questi abusi. Ma nel rapporto della Fao non ve n’è traccia.

Cosa può succedere? Fin dalla Rivoluzione francese, ma forse ancora prima, la fame di un Paese è il primo motivo di tensioni sociali, instabilità politica, guerre. Ma oggi non è come due secoli fa. Oggi un focolaio di insoddisfazione in Iran - dove le proteste sono contro un regime non solo oppressivo, ma anche incapace di garantire benessere alla popolazione - può

ripercuotersi in tempi immediati sui Paesi vicini e in sedi governative lontane. La famosa forbice tra poveri e ricchi si sta allargando come previsto. In questo sembra che gli appelli dell’Onu, della stessa Fao e di altre organizzazioni umanitarie sono stati disattesi troppe volte. Sotto il peso di questa cifra, il mondo si avvia al G8 dell’Aquila, una città simbolo della sofferenza di questi ultimi mesi.

A novembre, successivamente, è già stato indetto un summit della Fao a Roma proprio per discutere della degenerazione del fenomeno. In realtà, non è necessario sbilanciarsi in auspici o richieste. Quanto promesso finora dai maggiori leader mondiali sarebbe sufficiente, se cominciasse a essere realizzato, per avviare un nuovo corso. Quello che manca, in questo momento, è la consapevolezza del problema. Un miliardo di affamati nel mondo, però, potrebbe fare da impatto benefico.


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pagina 16 • 20 giugno 2009

Le foto della Tiananmen amazzonica Il governo peruviano di Simon cede e gli indios interrompono la protesta contro gli espropri delle loro terre di Etienne Pramotton ue operatori umanitari belgi hanno spezzato il silenzio di informazioni e di immagini che circondava la «Tiananmen dell’Amazzonia». Lo hanno fatto a colpi di click, quelli delle loro macchine fotografiche. Proprio nel giorno in cui sembra che l’accordo tra le parti sia stato raggiunto e gli indios abbiano accettato di interrompere la protesta. Parliamo del massacro avvenuto nella parte peruviana della foresta pluviale il 5 giugno scorso.A Bagua Grande, i poliziotti avevano attaccato gli indigeni che da settimane stavano bloccando fiumi e strade per protestare contro la decisione del governo di espropriare le loro terre per lo sfruttamento di legname, gas e petrolio. Nelle immagini elevisive finite nel circuito internazionale si

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vedeva un elicottero volteggiare sulla testa dei manifestanti. The Independent ha pubblicato solo alcune delle foto di Marijke Deleu e Thomas Quiryneen, i due volontari di Catapa, un’organizzazione fiamminga che si batte per i nativi di Perù, Bolivia e Guatemala. Il giornale inglese ha ritenuto che il contenuto violento degli scatti non permettesse la loro visione su un quotidiano. Ma tutte le immagini saranno mostrate,lunedì,alla Camera dei Comuni, in Gran Bretagna, di fronte ai parlamentari di Sua Maestà, per far capire cosa sia veramente successo qua-

IL PERSONAGGIO

si due settimane fa. «Inizialmente abbiamo visto la polizia sparare e tirare gas lacrimogeni contro i manifestanti», afferma Deleu all’Independent. «Poi abbiamo visto che li picchiavano, prendevano a calci quelli buttati a terra e sparavano nella schiena di chi cercava di scappare», ha aggiunto. Secondo il bilancio ufficiale, gli scontri si sono conclusi con 32 morti di cui 23 poliziotti, ma secondo diverse organizzazioni umanitarie i morti sarebbero una sessantina, molti dei quali disarmati, e centinaia di persone risultano ancora disperse. L’organizzazione Survival International chiede che venga aperta un’inchiesta indipendente per far luce su cosa sia realmente successo. Le foto escono proprio quando il governo del presidente Alan Garcia ha finalmente revocato i

aveva chiesto asilo politico. La settimana scorsa Pizango era stato accusato di «sedizione, cospirazione e ribellione». Pizango è l’ex leader dell’associazione delle popolazioni indigene della zona amazzonica (Aidesep) ed è considerato uno dei responsabili della protesta contro i decreti di sfruttamento delle risorse naturali dell’Amazzonia peruviana che ha portato a oltre due mesi di scioperi e occupazioni,raggiungendo il suo apice negli scontri che poco più di una settimana fa. L’Associazione interetnica di sviluppo della foresta peruviana, che riunisce 1.350 comunità indigene dell’Amazzonia, ha quindi accolto il voto ordinando la fine dei blocchi stradali e dell’occupazione dei giacimenti petroliferi. Durante la protesta, che ha coinvolto cinque dipartimenti della grande regione sudamericana, vi erano stati violenti scontri vicino alla città di Bagua Grande con 24 poliziotti e dieci civili uccisi, secondo il bilancio ufficiale, che sarebbe smentito dalla testimonianza dei due operatori umanitari. Il governo di Lima aveva accettato questa settimana di aprire un tavolo di dialogo con le associazioni indigene. Le comunità indigene protestano per il pacchetto di norme che Lima ha varato al fine di ridisegnare i diritti di sfruttamento delle terre da loro abitate da secoli. In cambio del ritiro dei decreti, il primo ministro peruviano Yehude Simon aveva chiesto la sospensione dei blocchi cui dovrebbe seguire la rimozione dello stato di emergenza disposto dal governo nelle ore successive alla crisi. Gli altri punti del provvedimento - varato per soddisfare alcune caratteristiche del trattato di libero commercio tra l Perù e gli Stati Uniti - dovrebbero poi essere mediati a un tavolo cui siederanno anche esponenti delle comunità indigene. Il clamore si è poi esteso anche oltre confine.Tanto da spingere il presidente Evo Morales a prendere la palla albalzo e definire il massacro «un genocidio daTrattato». Parole su cui Lima ha voluto delucidazioni richiamando l’Ambasciatore a La Paz Fernando Rojas.

Le immagini delle violenze saranno mostrate lunedì alla Camera dei Comuni inglese. Per capire la verità sugli scontri due decreti che favorivano lo sfruttamento delle foreste dell’Amazzonia, il 1090 e il 1064, conosciuti anche come «leyes de la selva».

Uno dei principali capi indio, Daysi Zapata, vicepresidente della confederazione degli indiani d’Amazzonia, ha quindi chiesto ai suoi sostenitori di togliere i blocchi a strade e fiumi. Intanto, il leader delle proteste, Alberto Pizango, presidente della Confederazione, è arrivato in Nicaragua dove

Karl Raymond Rodig. Ex sacerdote cattolico, ha “ordinato” un sacerdote che allo stesso tempo si è sposato. Ora, con l’aiuto della storia, sfida Roma

Il nuovo Milingo che riparte dal Kenya di Guglielmo Malagodi i precedenti illustri ce ne sono tanti. Dallo scisma anglicano nato da un matrimonio all’inchino di Canossa, per arrivare al meno storico e forse più ridicolo caso di monsignor Milingo in Sung. C’è di fatto che il matrimonio per i sacerdoti rimane una delle maggiori cause di scomunica all’interno della Chiesa cattolica, apostolica e romana. Con buona pace di Karl Raymond Rodig, sedicente arcivescovo dal passato tutt’altro che limpido, che alcuni mesi fa ha formato una nuova chiesa cattolica “riformata” che prevede il matrimonio per il clero. E che, ieri, si è beccato una scomunica insieme ai suoi numerosi seguaci. La particolarità è che il nuovo guru si è scelto come teatro d’azione il Kenya, nonostante sia nato in Bavaria. Una macchia sull’inizio del nuovo anno sacerdotale voluto fortemente da Benedetto XVI, che tuttavia non ha impedito alla Santa Sede di compiere i passi necessari per escludere le pecorelle riottose dal gregge cattolico.Tuttavia non si può negare che quello in atto - visti i numeri di cui si parla - rappresenta un vero e proprio scisma che si sta diffondendo nel Paese. Il gruppo di cattolici si è autonominato The Reformed Roman Catholic and Apostolic Church. Il fondatore è nato a Norimberga il 16 dicembre 1958: ordinato sacerdote in Austria il 1 luglio 1986 e, sempre senza il permesso della Santa Sede, vescovo a Miami il 29

Maggio 1999. Questo movimento conterebbe in tutto il mondo circa 400mila membri, di cui alcune migliaia in Kenya, con comunità esistenti in Thika, Nairobi e (la più attiva) in Kitale. In questa cittadina il sedicente arcivescovo Rodig ha re-ordinato il 14 maggio il prete cattolico Godfrey Shiundu. Durante la stessa cerimonia, ha pure assistito al suo matrimonio con Stella Nangila, ex suora, da cui aveva già avuto tre figli durante i suoi 14 anni di sacerdozio.

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La Santa Sede lo ha scomunicato insieme ai suoi 400mila fedeli. Lui, incurante, continua a dire messa e ordinare preti

La ragione fondamentale che ha indotto questo gruppo alla separazione dalla Chiesa cattolica è la possibilità offerta a tutti i suoi membri di accedere a tutti i sacramenti. In un’intervista alla televisione kenyota - riportata da testimonianze missionarie - Rodig ha fortemente sostenuto la libertà di sacerdoti e religiosi di accedere al matrimonio: «La storia è in favore del sacerdote sposato. Nei primi 1200 anni della vita della Chiesa, sacerdoti, vescovi e 39 Papi erano sposati. Anche le suore e i religiosi sono liberi di scegliere il loro sposo, a patto che continuino con diligenza il loro servizio a Dio e agli altri». Il presidente dei vescovi locali, monsignor John Njue, ha dichiarato in risposta che «la nuova setta non ha nulla a che vedere con la Chiesa cattolica. Il sacerdote Shiundu era già sospeso dal suo vescovo ed ora è anche scomunicato».


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20 giugno 2009 • pagina 17

La decisione presa all’unanimità L’Irlanda verso la ratifica di Lisbona

La democratica ha compiuto ieri (in galera) il 64° compleanno

Commissione: i leader dei 27 riconfermano José Barroso

In Birmania e nel mondo si festeggia San Suu Kyi

BRUXELLES. I leader dei ventisette Paesi dell’Unione europea hanno raggiunto un accordo all’unanimità per sostenere la candidatura di José Manuel Barroso a un secondo mandato alla guida della Commissione europea. Si tratta di un sostegno politico che sarà formalizzato solo in seguito, dopo una consultazione con i capigruppo dell’Europarlamento. «Sono estremamente orgoglioso del sostegno unanime ricevuto. Sono addirittura commosso», ha commentato Barroso, «è un riconoscimento al lavoro svolto dalla Commissione europea in questi anni». Dopo l’intesa sulle garanzie all’Irlanda al summit Ue, il presidente si è poi detto «molto ottimista» sulle chance che vinca il sì al trattato di Lisbona nel nuovo referendum irlandese. «Sono molto soddisfatto - ha dichiarato - che siamo riusciti ad adottare le garanzie irlandesi. Ciò mi rende molto ottimista sul fatto che noi otterremo un “sì” al referendum». Il premier irlandese Brian Cowen, dal canto suo, ha fatto sapere di ritenere «che potremo esser pronti a organizzare un referendum a inizio ottobre». Al summit i Ventisette hanno trovato un’intesa che prevede garanzie giuridicamente vincolanti sul fatto che il trattato di Lisbona non incide

YANGON. In molte parti del mondo e nello stesso, blindato Myanmar si è celebrato ieri il sessantaquattresimo compleanno di Aung San Suu Kyi. La “Signora della democrazia” ha passato tredici degli ultimi diciannove anni agli arresti (fra la galera e i domiciliari), dopo aver vinto le elezioni del 1990 mai riconosciute dalla giunta militare. In almeno 20 città del pianeta si sono svolte partecipate manifestazioni per chiederla sua libertà. La leader democratica è attualmente nella prigione di Insein, accusata di aver violato le regole dei suoi arresti domiciliari, dopo che un americano si è introdotto nella sua villa nuotando nel lago adiacente. Per sottolineare l’in-

L’Eta torna a colpire: attentato a Bilbao Esplosa l’auto di uno dei vertici dell’antiterrorismo di Massimo Ciullo n ispettore della Policia Nacional è morto ieri a causa di un attentato ad Arrigoriaga, nei pressi di Bilbao, nei Paesi Baschi. Una bomba posizionata sotto la sua auto è stata fatta esplodere appena il poliziotto è entrato nella sua vettura. La vittima è Eduardo Antonio Puelles Garcia, 49 anni, a capo del Gruppo di Vigilanza Speciale della Brigata di Informazione della polizia spagnola. L’esplosione, avvenuta intorno alle 9.05, ha incendiato almeno 4 altre automobili. Dai quartieri periferici di Bilbao si poteva vedere una densa colonna di fumo nero provenire dal luogo della deflagrazione. Dalle prime ricostruzioni degli artificieri intervenuti, pare che una carica esplosiva del peso di circa 2 chilogrammi sia stata collocata sotto il serbatoio del carburante dell’auto di Eduardo Pelles. L’uomo non ha avuto via di scampo e vani sono stati i primi soccorsi. È stata la moglie dell’ispettore, precipitatasi in strada dopo aver udito l’esplosione, a paventare alle forze dell’ordine che l’obiettivo dell’attentato potesse essere suo marito. Previsione rivelatasi tragicamente esatta. La vedova insieme ai due figli è stata trasportata in ospedale per ricevere assistenza psicologica. Per Patxi Lopez, governatore della regione autonoma basca, non c’è dubbio che l’attentato sia opera dell’Eta. Il capo dell’esecutivo basco ha espresso «la più energica condanna» dell’assassinio, attribuendolo «alle canaglie dell’Eta». Il lehendakari è comparso in tv dopo aver appreso della morte dell’ispettore dell’Antiterrorismo, per ricordarlo come «un lavoratore di questo popolo, uno dei nostri, un difensore di Euskadi e dei baschi». Lopez ha poi lanciato un duro avvertimento all’Eta: «Dobbiamo farla finita con questi qua. Dobbiamo applicare tutta la forza dello stato di diritto e tutti i mezzi della legge per lasciare senza fiato i violenti. Loro ci hanno insegnato il cammino del dolore, noi gli insegneremo il cammino del carcere». L’esponente del Partito socialista basco ha convocato una riunione di tutti i membri delle istituzioni basche e indet-

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to una manifestazione a Bilbao che dovrà essere «un nuovo grido di Euskadi contro l’Eta e a favore della pace e della libertà».

Quello di Arrigoriaga è il primo attentato mortale attribuito al gruppo armato indipendentista, da quando a capo del nuovo governo autonomo si è insediato per la prima volta il socialista Patxi Lopez, appoggiato dai popolari, dopo quasi un trentennio di monopolio da parte dei nazionalisti del Pnv. I killer dell’Eta erano entrati in azione l’ultima volta il 3 dicembre scorso, quando era stato ucciso a colpi di pistola a Azpeitia l’imprenditore Ignacio Uria Mendizabal, 71 anni, la cui impresa è impegnata nella realizzazione dell’alta velocità basca, un progetto contestato dal gruppo armato. Anche il capo del governo spagnolo Zapatero, da Bruxelles, ha condannato l’attentato. Il primo ministro ha voluto innanzitutto inviare un messaggio di solidarietà alla famiglia della vittima e ha espresso il suo appoggio e riconoscimento ai membri dell’Antiterrorismo e della Polizia Nazionale, che «è tornata a soffrire un altro brutale attentato, per il suo servizio in difesa della libertà e dei diritti dei cittadini». Zapatero ha poi aggiunto che «sebbene, ora come ora, l’Eta sia più debole che mai, sappiamo che può tornare a colpire ma non ci rassegneremo e non lo accetteremo». Secondo il premier socialista, il governo farà tutto ciò che è nelle sue facoltà per assicurare alla giustizia gli autori di «questa nuova atrocità», sui quali «cadrà tutto il peso della legge per irrogare la sentenza più grande e dura possibile». «Sappiano tutti ha aggiunto Zapatero - che le Forze di Sicurezza dello Stato sono già sulle tracce degli autori di questo assassinio codardo per metterli a disposizione della giustizia». «Lo faranno come lo hanno fatto sempre, come sanno bene i dirigenti della banda e i suoi esponenti catturati negli ultimi tempi» ha detto il leader del Psoe. Zapatero ha concluso la sua dichiarazione esprimendo gratitudine al Consiglio europeo, che ha fatto pervenire “la condanna”dell’Unione europea per l’attentato.

La vittima, Eduardo Garcia, era capo del Gruppo di vigilanza speciale della Brigata di informazione della polizia spagnola

sulla fiscalità nazionale, sul diritto familiare e il diritto alla vita e sulla neutralità del Paese. La decisione in tal senso, si legge nel documento, «dà garanzie legali che alcune materie che preoccupano il popolo irlandese non saranno toccate dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona; il loro contenuto è pienamente compatibile con il Trattato di Lisbona e non richiede una ri-ratifica del Trattato; la decisione è giuridicamente vincolante e sarà valida dalla data dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona». Infine, vi sarà un protocollo giuridicamente vincolante che sarà ratificato dai vari Stati membri «al momento della conclusione del prossimo trattato di adesione».

giustizia di questa ultima condanna e del suo tenerla reclusa, governi e personalità della cultura e dello spettacolo hanno organizzato eventi e messaggi online. Gli Stati Uniti e l’Unione europea hanno espresso la richiesta che essa venga liberata; in Malaysia, Australia e Irlanda si sono tenute delle veglie e dei dibattiti. Per l’occasione esuli birmani hanno lanciato il sito web “64 for Suu” (64 per Suu), in cui hanno lasciato messaggi politici come Gordon Brown, attori come Julia Roberts e George Clooney, giocatori come David Beckham. La leader democratica è amata in molte parti del mondo, e l’ingiusta condizione in cui la giunta militare birmana la costringe ha provocato diverse proteste diplomatiche, puntualmente ignorate. I militari temono l’onda democratica nel Paese asiatico. Il compleanno di Aung San Suu Kyi è stato festeggiato anche a Yangon, nella sede del partito democratico (Nld, National League for Democracy), dove si è tenuto un party senza la festeggiata e sono state offerte delle donazioni in cibo per i monaci buddisti. La polizia è intervenuta per controllare i documenti dei partecipanti: alcuni di loro sono stati portati in caserma per un controllo e poi rilasciati.


cultura

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Percorsi. Da ”Le viole” di De Magistris a ”Pecora nera” di Celestini, da ”Si può fare” di Manfredonia a ”Padiglione 22” di Bordone

Non è più roba da matti La follia si intreccia con storie di uomini dimenticati. Cinema e letteratura le rileggono in una nuova luce di Francesco Lo Dico epolto nella penombra della collina, lontano dal villaggio che ne ha fatto il suo zimbello, il matto cantato da Fabrizio De André spiega che la follia è un dramma di parole. È l’angoscia di chi rovista con le unghie nel lessico, di chi compulsa il vocabolario e non raccatta neppure un verbo per declinare il suo soggetto. È una bancarotta della sintassi nella liquidità dell’alfabeto. Quella dei folli è una lingua orale che non ha segni, una lingua che esiste ma per secoli ci si è rifiutati anche solo di ascoltare. Un linguaggio inascoltabile per decreto morale. Sulla nave dei folli, che ha galleggiato dai lebbrosari medioevali fino agli anni ’80 del secolo scorso, hanno viaggiato clandestini sofferenti, senzatetto, emarginati, dissidenti, malati, qualche volta disturbati, disturbanti sempre. Un popolo respinto al largo della civiltà. Un popolo che come quello di Ignazio Buttitta, non ha perduto la libertà solo perché è stato messo in catene, ma perché è stato privato, con la chimica, i watt e la violenza, della propria lingua. Identica alla nostra, ma respinta dall’orrore che il parlante anomalo la contagiasse insieme al suo male. Temi e concetti ai quali alcune opere teatrali e cinematografiche di quest’anno hanno dedicato particolare attenzione.

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A partire dallo strabiliante monologo di Pecora nera, spettacolo tetrale di Ascanio Celestini, in scena all’Auditorium di Roma: un elogio funebre del manicomio elettrico. In meno di due ore, sorridenti e strazianti, l’attore e regista romano rimette insieme cocci di vite perdute in un dramma rapsodico costruito a partire dalla primavera del 2003. In quell’anno incontra a Perugia numerosi testimoni della vita manicomiale a cavallo tra gli anni ’60 e la legge 180, raccoglie memorie ed esperienze da medici e infermieri, visita gli ex manicomi. Ricuce quelle storie come un bardo paziente, e dà vita al personaggio di Nicola, ragazzo che cavalca i

«favolosi anni ’60» a occhi aperti, nel chiuso del suo condominio speciale fatto di suore e infermieri. Allucinato e rigoroso, il diluvio di Celestini piomba come un acquazzone improvviso che fa da lavacro. Le parole, autentiche e ritrovate, di chi ha vissuto recluso, tornano finalmente al logos con una veemenza impressionante. I dieci minuti di applausi che salutano l’epilogo, affidato alla viva voce di Nicola,

tezza delle paure che accompagnano un viaggio», spiega il regista. In Pecora nera, riaffiora prepotente l’atto unico di mille atti inespressi. Il matto delineato dalla pièce è un individuo che rompe il cerimoniale linguistico, rivoltando contro di esso la potenza della lingua stessa. Una concezione che ci riporta, tanto per restare al secolo scorso, a un genio assoluto come Ettore Majorana. O a Dino Campana, uno

Quella dei pazzi è una lingua orale che non ha segni, una lingua che esiste ma per secoli ci si è rifiutati anche solo di ascoltare. E che ora si svela dei poeti più visionari e moderni del ’900. Devastato da folli terapie, espropriato della sua lingua, passò gli ultimi quattordici anni della sua vita senza riuscire a scrivere neppure un verso. Se non avesse scritto i Canti Orfici, sarebbe rimasto solo

che nel sistema linguistico – che è sempre sistema di potere – lo rappresenta e lo estromette dall’accesso alla comunità dei parlanti. Una parole che la langue, ragionevole e ordinata per definizione, non può contemplare. Nella parola del Nicola di Celestini, c’è il sovraccarico elettrico di secoli di civiltà che hanno scaricato l’orrore per il folle nell’elettroshock. E l’epilogo, forse sognato, forse mai avvenuto, è il ritorno della pecora nera nel mondo. Un ritorno suggestivo e possente, che il pubblico avverte nel corpo a corpo finale con i giovani attori di Le Viole, spettacolo teatrale di Andrea de Magistris, di recente passato al Teatro Vascello di Roma. Su un palco simile a una bolla spazio-temporale, in cui si riannodano le fila correzionarie della follia, il regista frammenta ciò che Celestini ricompone. Dalla dimensione del ricordo e del recupero, qui si passa a un eterno presente dove la realtà si innerva nei corpi torturati dei folli.

Le parole dei matti messi in scena da De Magistris, restano nell’appuntamento

sono qualcosa di molto simile a una salvezza. Un incontro rinviato per secoli. Quello che Foucault, a proposito del folle, auspicò come il passaggio «dall’esclusione alla reintegrazione spirituale». Il Nicola fatto dai tanti Nicola incontrati da Celestini, è quell’uomo che porta all’uomo vero attraverso l’uomo pazzo del filosofo francese. «Io ascolto le storie di chi ha viaggiato attraverso il manicomio, non per costruire una storia oggettiva, ma per restituire la freschezza del racconto e l’imprecisione dello sguardo soggettivo, la meraviglia dell’immaginazione e la concre-

una cartella nell’archivio dell’ospedale psichiatrico di Castel Pulci. Il giovane matto dei favolosi anni ’60, Campana, o Isa Merini, avrebbero potuto imparare la Treccani a memoria, insomma. Il fatto è che dopo Majakovski, Malraux e malfatto, arriva sempre la definizione di «matto». Un lemma che per il reietto, funziona in chiave sociale come cortocircuito identitario. Ciò

con il mondo, strozzate in gola. Versi straniati che inzeppano le viscere e le contorcono, i desideri dei giovani interpreti suonano come dure effrazioni in una terra confiscata. La verità è nei corpi che si ag-

grovigliano, e tutto ciò che dicono è dunque recitato perché straniato. La parola arrugginita e infedele, accade come un atto linguistico nella verità dei gesti. Un vortice di figure biomeccaniche ispirate agli assunti di Mejerchol’d. Scelta nient’affatto citazionistica, che illustra a perfezione il paradosso del disagio. La totale perdita del controllo sul corsequestrato po, dal potere attraverso la coercizione, diventa geometria finita che recinta l’infinitezza del pensiero. Il movimento regolato si fa metafora della reclusione. E il movimento negato del logos, si fa metafora del distacco dall’anima. Claustrofobico e affilato, Le Viole colpisce al cuore perché disdegna la commozione. E trova solo nel finale, quando gli attori preparano la valigia e sfilano silenziosi tra il pubblico, la liberazione da un incubo. Un viaggio al termine della notte, che idealmente finisce dove comincia quello di Si può fare, film di Giulio Manfredonia premiato quest’anno


cultura

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piatta orizzontalità delle brande coi legacci, li restituisce innanzitutto a se stessi.

Film originale perché autentico, Si può fare diverte e commuove, e interroga una società non del tutto preparata al ritorno della nave dei folli sulla terraferma. Un punto di vista che non si impone in un luogo assoluto, ma si ricolloca nello spazio e lo estende, chiamando a raccolta non solo i folli, ma anche chi ne accompagna i passi e ne assorbe il dolore e i rovelli, fondendoli ai propri. Un’indagine a latere che sorregge l’idea di un film estremamente coraggioso come Padiglione 22 di Livio Bordone. La pellicola racconta di Laura, ragazza dall’infanzia infelice, cresciuta senza genitori, che perde all’improvviso il fratello recluso in manicomio. E che con lui perde la ragione. La insegue in un viaggio allucinato attraverso l’insania, e scopre che l’etica della sragione ha regole proprie. Dolorose e fendenti come un’orribile infanzia che l’ha risparmiata per molto tempo, e gli ha strappato il fratello. In un esodo di orrori, scoperte, rimozioni, Laura si guarda finalmente in uno specchio che va in frantumi, e da quelle schegge ricompone se stessa. Ascolta la lingua della follia, per ritrovare la parola. Anche lei donna. Donna vera che rinasce dalla donna folle.

con un David di Donatello nella sezione giovani.

Tratta da un brillante soggetto di Fabio Bonifacci, e ispirata a una storia vera, la commedia racconta gli incerti esordi della legge Basaglia. All’inizio degli anni ’80, un’associazione di “ex malati di mente” impegnati in risibili attività assistenziali, viene scossa dall’arrivo di un utopico sindacalista (interpretato nel film da Claudio Bisio) che man mano li separa dalla dipendenza farmacologica, attraverso il lavoro di squadra. Un’intuizione che, attraverso mille traversie e punti di vista che scavano nella complessità del disagio mentale, porta la singolare impresa (nella realtà la cooperativa Noncello di Pordenone) capitanata dall’ex sindacalista, a specializzarsi nella lavorazione del parquet. A tal punto che il team si aggiudica il prestigioso appalto della linea metropolitana di Parigi. «Prima di scrivere la sceneggiatura abbiamo visitato la cooperativa Noncello di Pordenone e a lungo frequentato un centro di igiene mentale vicino Milano – racconta Giulio Manfredonia – . I quasi due anni di incontri coi veri pazienti sono stati, oltre che un’esperienza umana bellissima, la fonte del

Nella foto grande, un’immagine di ”Le Viole”, spettacolo di Andrea De Magistris ispirato a Mejerchol’d. A sinistra, in ordine, la locandina dello spettacolo, seguita da quelle di ”Padiglione 22” e ”Si può fare”. Qui sopra, il cast del film di Manfredonia. In alto a destra, Ascanio Celestini

lavoro di scrittura prima e di regia poi. Grazie a un anno di preparazione con gli attori e le tante prove fatte, a me sembra di aver raggiunto l’obiettivo». Centrato in pieno. Perché Si può fare non si lascia avvincere da tentazioni favolistiche, né da camici di forza ideologici. Schiva la trita mascherata della follia secondo Hollywood e non fa alcuna mostra di tic e coloriture effettistiche che gravano di solito sul “picchiatello”. Né serial killer, né buffoni, i matti di Manfredonia sono, a sorpresa, esseri umani.

Aziendalisti o sfaticati, bisbetici o galanti, sono semplici figli delle loro storie, talvolta complicate. Ma ciò che li accomuna tutti è la dissoluzione di quel dramma di parole di cui si diceva all’inizio. Il lavoro li unisce e li restituisce alla parola vera, in grado di essere comunicata e accolta dalla società. L’atto di volontà traduce la loro lingua nella stessa che parla il mondo. E, sebbene non del tutto reintegrati, la liberazione delle loro individualità in un centro che le valorizza e non le annichilisce più nella

Certo, a trent’anni dalla sua entrata in vigore, sono maturi i tempi perché la legge Basaglia sia migliorata, ridiscussa, applicata meglio, riletta. Ma cinema e teatro dicono finalmente che certi orrori non possono più ripetersi, in quelli che molti considerano l’apogeo definitivo della civiltà. «Come è possibile stare dentro e non uscire fuori, come è possibile stare fuori e non sapere cosa succede dentro?», si chiede la viva voce di Nicola, Nicola il folle, in un passaggio nera. di Pecora Dopo Majakovski, Malraux e malfatto, più che una voce ha alloggiato troppo tempo una crux desperationis. Di questo grande manoscritto apocrifo che è il mondo, il matto è sineddoche. Parte che esprime il tutto, contro un tutto che l’ha messo da parte.


cultura

pagina 20 • 20 giugno 2009

Tra gli scaffali. Una nuova (e ben argomentata) indagine di Rémi Brague l titolo dell’ultimo libro di Rémi Brague – Il Dio dei cristiani. L’unico Dio? (Raffaello Cortina Editore, pagine 168, euro 18) – sembra riecheggiare quello di un ben noto pronunciamento, risalente al sei agosto del 2000, della Congregazione per la Dottrina della Fede, allora presieduta dal cardinale Joseph Ratzinger: infatti, il documento vaticano si intitola eloquentemente Dichiarazione “Dominus Iesus” circa l’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa.

I

E proprio la grande questione dell’unicità della Rivelazione cristiana è al centro delle riflessioni di Brague, professore di filosofia alla Sorbona e all’Università Ludwig-Maximilian di Monaco: certo, egli, da uomo di cultura, non ha le preoccupazioni pastorali e dogmatiche e neppure l’autorevolezza del magistero della Chiesa, e le sue idee, che si situano su di un piano storico, filosofico e teologico, sono sicuramente discutibili, ma non v’è alcun dubbio che egli proponga al lettore considerazioni tanto suggestive quanto ben argomentate e – va sottolineato a suo onore – coraggiosamente svincolate dal “politicamente corretto” che, ormai, sembra essersi insinuato un po’ dappertutto. E il “politicamente corretto” che va in frantumi dopo la lettura del volume di Brague è quello secondo cui sul terreno religioso bisogna cercare sempre e soltanto ciò che unisce e non ciò che divide, anche perché, co-

Non pluralizzate i monoteismi di Maurizio Schoepflin me si sostiene da più parti, le tre grandi fedi, cristiana, ebraica e musulmana, accomunate dalla concezione monoteistica e da varie altre somiglianze, possono essere considerate molto simili. Non a caso il primo capitolo del libro riproduce un intervento apparso sulla rivista Communio nel 2007 con il titolo, quasi ruvidamente sbrigativo, Pour en finir avec les tres monothéismes, “Per farla finita con i tre monoteismi”. In esso, l’autore vuole dimostrare la falsità e la pericolosità di espressioni assai diffuse e quasi da tutti prese per buone, quali “le tre religioni di Abramo”,“le tre religioni del Libro” e simili.

Innanzitutto, Brague analizza il termine “monoteismo” e fa vedere come esso è stato usato secondo accezioni molto diverse: per esempio, tra il monoteismo del faraone egizio Amenofi IV (1250 a. C.), quello di Aristotele (IV secolo a. C.) e quello di Maometto (VI-VII secolo d. C.) vi sono differenze abissali. E questo vale anche per la credenza in unico Dio da parte di ebrei,

Per quanto la ricerca di un terreno comune sia frutto di buone intenzioni, si rischia di occultare l’autentico valore delle differenze tra le religioni

A indagare il significato dei grandi monoteismi è il nuovo libro di Brague “Il Dio dei cristiani. L’unico Dio?” (sopra, la copertina)

cristiani e musulmani. Conclude a questo riguardo Brague: «Chiamare monoteiste le religioni non permette, dunque, di capirle sino in fondo; bisogna anche chiedersi quale modello di unità del divino sia in gioco e quali siano le conseguenze dell’applicazione di tale modello». Soffermandosi poi sulla definizione di “religioni abramitiche” riferita a Ebraismo, Cristianesimo e Islam, Brague ripete la medesima operazione di smascheramento dei facili slogan e subito dopo fa lo stesso nei confronti dell’espressione “religioni del libro”. Egli si dimostra pienamente convinto che, per quanto la ricerca di un terreno comune di intesa sia frutto di buone intenzioni, essa rischia di ottenere l’effetto contrario, occultando il vero significato e l’autentico valore delle differenze: «Se davvero si vuole il dialogo - è scritto nel libro - bisogna cominciare con il rispetto dell’altro. Il che significa comprenderlo nello stesso modo in cui egli comprende se stesso, usare le parole di cui si serve nel senso in cui le usa, accettare l’iniziale disaccordo per cercare di co-

struire una comprensione migliore». A questo punto, sgomberato il campo dai non pochi errori ed equivoci connessi con un malinteso senso del dialogo interreligioso, Brague dedica tutti gli altri capitoli del volume alla descrizione di alcuni tratti salienti e distintivi del Dio dei cristiani (non del «Dio cristiano, formulazione assurda, dal momento che Dio è l’oggetto delle religioni e non un loro seguace»).

In particolare, egli si sofferma a discutere la questione della Trinità, quella della paternità divina e quella del perdono che il Signore offre a tutti gli uomini. In questo contesto, Brague ha modo di porre l’accento su alcune verità tipiche del cristianesimo: la creazione, l’incarnazione, la Parola che Dio ha rivolto all’umanità. Ne scaturisce l’immagine, davvero suggestiva, di un «Dio che ha detto tutto» e che «non chiede nulla», attendendo da noi l’accettazione del dono salvifico che ci ha fatto, di un Dio che, con la morte di Cristo, «ha detto tutto quello che aveva da dire», lasciandoci poi completamente liberi di ascoltare e di mettere in pratica le sue parole, oppure, come dice Sant’Agostino, di preferire noi a Lui. Brague sa bene – e lo dichiara apertamente – che sarebbe ridicolo pretendere di “dire Dio” in modo esaustivo: la meta che egli si prefigge, e che ci pare raggiunga con successo, è quella di «far emergere la singolarità del cristianesimo». Il che, decisamente, non è cosa da poco.


spettacoli

20 giugno 2009 • pagina 21

Musica. A cinquant’anni, l’idolo dei mods cavalca ancora l’onda del successo che nei Sessanta lo portò sulla cima delle hits

Chiedigli chi erano i beatnik di Alfredo Marziano

vato un premio prestigioso come l’Ivor Novello Award per la canzone d’autore perché ancora sconvolto dalla scomparsa del padre. Qualche anno fa, a Milano, lo abbiamo visto indossare un distintivo con la scritta “Odio i Coldplay”, tanto per mettere in chiaro da che parte sta. Detesta anche Internet, i telefoni cellulari e gli iPod, macchinette infernali che spingono la gente a un ascolto rapido e superficiale di quegli oggetti sacri, gli album, che lui continuare ad assaporare in religioso silenzio dall’inizio alla fine.

vent’anni, in Inghilterra con i Jam, Paul Weller era (suo malgrado) «il portavoce di una generazione». Uno dei pochi che, in piena epoca punk, osava sventolare la vecchia Union Jack e sfoggiare a viso aperto il suo amore per gli Who e i Kinks, gli Small Faces e la Motown. A cinquanta conserva miracolosamente la stessa identica energia, spronato dal fatidico giro di boa a una frenetica iperattività fuori e dentro lo studio di registrazione. Tempi turbolenti, per lui, che con cinque figli sulle spalle ha mollato la compagna di una vita (per 13 anni), Samantha, per la 23enne corista Hannah Andrews e che ad aprile ha perso l’amico più fidato, il padre John che gli ha sempre fatto da manager, consigliere e confidente senza saltare un solo tour finché la malattia glielo ha permesso.

A

È un uomo in continua rigenerazione, Weller, con almeno tre vite artistiche alle spalle: leader dei Jam nei Settanta, mente degli Style Council negli Ottanta, solista a partire dai primi anni Novanta dopo un periodo buio in cui per la prima volta dovette subire l’onta di un disco rifiutato dalla casa discografica (l’album Modernism: A New Decade pubblicato solo molti anni dopo nel cofanetto degli Style Council ed effettivamente sconcertante). In Italia il pubblico mainstream lo ha perso ormai di vista, ma in patria è un’icona nazionale. Lo chiamano Modfather, il papà di tutti i mods venerato da Noel Gallagher degli Oasis e da Graham

pensa che l’autore è un cinquantenne sulle scene da più di trent’anni. Un ciclo di canzoni concepito nell’arco di un anno e scandito dal ritmo delle stagioni, ha spiegato lo stesso Weller, che nell’occasione ha aggiunto ai classici ingredienti soul, folk, beat e psichedelici della sua ricetta altri, inattesi sapori: profumi di raga indiano, il tango e le atmosfere demodé da Buena Vista Social

Sopra, una recente immagine dell’artista Paul Weller. Sotto, il musicista in uno scatto degli anni Settanta, quando era il leader dei Jam. A fianco, una storica fotografia degli Who, l’altro gruppo-icona del modernismo degli anni Sessanta-Settanta

Dopo gli ottimi risultati dello scorso anno con l’album “22 Dreams”, l’ex leader dei Jam torna nei negozi con il grintoso dvd+cd “Just A Dream” Coxon dei Blur (che spesso collaborano con lui, scrivendo canzoni e suonando insieme dal vivo); imitato da giovani rampanti come Alex Turner degli Arctic Monkeys che adorano i suoi fulminanti quadretti di vita inglese. In Inghilterra i suoi dischi tornano puntualmente e ciclicamente ai primi posti delle classifiche di vendita e dei referendum delle riviste specializzate: dopo il flop commerciale del precedente As Is Now l’ultimo 22 Dreams, l’anno scorso, ha rimesso le cose a posto, numero uno nelle charts e miglior disco dell’anno secondo il mensile Mojo. Un album dinamico e coraggioso, quello, quasi sfrontato se si

Club, omaggi al jazz di Alice Coltrane e allo sperimentalismo elettronico anni Settanta degli AMM, persino una canzone /lettera aperta a Dio (God) recitata in inglese da un musicista di fede islamica, il chitarrista Aziz Ibrahim.

Un dvd+cd appena uscito nei negozi, Just A Dream, conferma che il palcoscenico è il suo habitat naturale. Tra una pennata decisa di chitarra, una sorsata di birra scura e un tiro nervoso di sigaretta Weller si mostra per quello che è: uno che crede ancora ciecamente in quello che fa, perennemente divorato dal sacro fuoco. Gli è sempre piaciuto parlar chiaro,

fare scelte nette di campo a rischio di apparire scorbutico e brutale. Ha vissuto Margaret Thatcher come un nemico pubblico, Marvin Gaye e Curtis Mayfield come dei maestri spirituali in grado di illuminargli il cammino nella vita, non solo nella professione. Segue ancora la musica da fan (lo ribadisce in un’intervista inclusa nel dvd), compra ancora tonnellate

di dischi. È una mosca bianca del music business, un luddista refrattario alle mode musicali e all’establishment. Ha rifiutato un CBE, qualcosa di simile, ma non proprio, al cavalierato che negli anni Sessanta i Beatles sdoganarono nel mondo del pop, perché non voleva farsi fotografare «a fianco di un criminale di guerra» (l’allora primo ministro Tony Blair). E ha schi-

L’edonismo e i vizi a cui non vuole rinunciare gli stanno consumando il bel faccino da copertina, anche se Weller – discutibili tagli di capelli a parte – resta un modello di stile ed eleganza (gusto classicamente British, scarpe Spring Court e magliette Fred Perry). Non ha fatto una bella figura, lo scorso dicembre, finendo sulle pagine dei giornali scandalistici e su YouTube dopo una serataccia brava a Praga con il nuovo amore, una sbronza colossale conclusa ingloriosamente con un sonno profondo sul gelido selciato e una visita non programmata al commissariato di polizia. Lui non ne parla, non se ne cura e tira avanti: in fondo aderisce anche così al mito romantico della rock star stropicciata e assetata di vita. «Perché camminare, quando puoi correre?», recita del resto un titolo del suo ultimo album. Ma non è un superficiale scavezzacollo, Weller: con i suoi testi è sempre stato un acuto osservatore della vita quotidiana e della psiche unama. Normale che, a 50 anni passati, si interrogi anche sul senso della vita e scriva una canzone su Dio («che per me è l’elemento spirituale presente nel vento e nella natura, nel mare e nei tuoi figli. La sua scoperta è stata una presa di coscienza, niente a che vedere con le religioni organizzate»). E il tempo che passa? «Sono vanitoso, ultimanente cerco di evitare gli specchi. Sono perfettamente cosciente di ogni ruga e maledetto capello grigio in più. Di aspetto posso essere cambiato, ma non mi sento per niente diverso da vent’anni fa». È il cinquantenne più giovane del rock, i suoi dischi e concerti stanno lì a dimostrarlo.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale

da ”Le Figaro” del 19/06/2009

Dal foulard al velo integrale di Cécile Gabizon l governo francese non ha escluso di poter legiferare in materia di velo. In genere chi si copre il viso appartiene alla gioventù musulmana di confessione salafita. Una fede che promuove un Islam radicale. Mentre alcune donne soffrono per l’imposizione di un velo che le copre dalla testa ai piedi, «la maggioranza lo ha scelto volontariamente» taglia corto Bernard Godard, esperto islamologo. «Molte di queste hanno la nazionalità francese e non mancano neanche le convertite nei loro ranghi» aggiunge un anziano funzionario del ministero degli Interni e degli Affari religiosi.

I

«Diventare salafite, per loro, è come entrare in una setta» continua spiegando la complessa situazione. I salafiti, coniugando un islam radicale, in Francia sono solo una minoranza per il momento. Si calcola che possano essere tra i 30mila e i 50mila adepti. Ma la loro crescita è costante, spinta e alimentata dall’opposizione all’Occidente. Un fondamentalismo che, come nel caso dei tabligh (una specie di rete missionaria dell’Islam “porta a porta”, ndr), attrae giovani in cerca d’assoluto, una tendenza che coinvolge anche le donne. Come è prassi nelle sette, i membri passano le ore a modificare e perfezionarne la regola, a rileggere le sure (i capitoli del Corano, ndr), come le migliaia di hadiths, le parole dette dal Profeta cui si vogliono adeguare in maniera ortodossa. E questi hadiths sono così pieni di contraddizioni. L’Islam più diffuso in Francia è quello malakita che non prescrive l’uso del velo integrale. Questo tipo di abbigliamento non è negli obblighi e neanche nella tradizione religiosa dell’a-

rea del Maghreb. Tuttavia solo il presidente della Grande moschea di Parigi, che dipende dall’Algeria, si è pronunciato chiaramente contro l’utilizzo del niqab. Gli altri movimenti sembrano mostrare un certo imbarazzo in materia, secondo l’analisi degli esperti del ministero degli Interni, perché temono le frange di ultrafondamentalisti che si sono infiltrate nei loro movimenti. Col diffondersi del salafismo, la tipologia delle donne che vi aderiscono è cambiato. Molte di loro considerano la loro appartenenza religiosa come un elemento di distinzione all’interno della famiglia e nel loro ambiente sociale. Come Sofia, studentessa all’Università VII di Parigi al corso di chimica e fisica, che da sempre si cela allo sguardo di tutti durante le lezioni, causando qualche disagio tra i professori. Dopo aver ottenuto una buona votazione alla laurea breve, sta facendo uno stage presso la prestigiosa Chanel. Spera di restare nel settore dei cosmetici.

Altrettanto sofisticata e dai capelli biondi, perfettamente pettinati è Delphine-Aisha, madre di quattro figli. Gli piace provocare: «Pensa che abbia i capelli sporchi vero? Ho un’amica parrucchiera che viene a casa». Nata cattolica da una famiglia della classe media della regione parigina, fa parte della schiera di persone che si sono convertite per «dare un senso alla vita». «Certo non era la prima

volta che incontravo un musulmano. Ma sono io che ho voluto avvicinarmi all’Islam attraverso la fede». Dal foulard all’hidjab e poi al niqab. Non è riuscita a far accettare la sua scelta ai familiari che non l’hanno capita, ma ha trovato delle «nuove sorelle». Karima è nata e cresciuta a Courtilles, una municipalità di Saint Denis. Dopo un’adolescenza banale, fatta di jeans, orecchini e storielle con i coetanei, sente che la sua vita si sta spegnendo nel ménage cittadino, che i suoi orizzonti si stanno restringendo. Folgorata dall’incontro con l’Islam, accetta di interpretarne l’aspetto più fondamentalista. Dal foulard al velo integrale in qualche anno. I bambini non frequentano più le scuole pubbliche, ma dei corsi semi-clandestini organizzati dai salatiti.

In casa le bambole dei bambini hanno il volto bruciato, perché la setta non ammette alcuna rappresentazione dell’immagine. Due anni più tardi si trasferisce in Algeria. Karima non può nascondere la propria sofferenza, perché il marito ha deciso di prendere una seconda moglie.

L’IMMAGINE

Quei giovani e coraggiosi napoletani colpiti dal piombo comunista nel 1946 Nel giugno del 1946, mentre a Roma i comunisti cercavano di mistificare il referendum istituzionale, a Napoli tra il 9 e il 12 giugno caddero da martiri: Carlo Russo di 14 anni; Ida Cavalieri di 34 anni; Mario Fioretti di 24 anni; Chirico Felice di 19 anni; Beninato Guido di 18 anni; D’Alessandro Gaetano di 16 anni; D’Azzo Francesco di 21 anni; Di Guida Vincenzo di 20 anni; Pappalardo Michele di 22 anni.; Ciro Martino di 19 anni. Questi giovani napoletani armati di solo bandiere, foto e amore per la reale Casa Savoia, furono colpiti da piombo comunista. Oggi ricordiamo commossi il loro sacrificio verso la patria e verso il re.

Rodolfo Armenio Orazio Ugo Mamone

GLI STRANI COMPORTAMENTI DI DARIO FRANCESCHINI Non rendersi conto, come mostra di fare il segretario del Partito democratico, del pericolo per la democrazia, nell’eventualità di una vittoria del “sì”al referendum sulla legge elettorale, è veramente strano e a prima vista incomprensibile. Quale chiave di lettura dare a tale comportamento, anche dinanzi a molti autorevoli dubbi di personalità di primo piano del suo partito? Forse il desiderio, l’ambizione, il sogno di non avere concorrenti né a sinistra né al centro e di diventare unico interlocutore del Pdl? Non si rende conto che è un sogno irrealizzabile perché il pluralismo è un bene inalienabile che appartiene alla cultura italiana.

Luigi Celebre

LA RIVINCITA DI MAGGIORANZA E VELINE Dalle crepe dell’opposizione si de-

ve sottolineare la rivincita di quella categoria, veline comprese, che è stata bistrattata ingiustamente dalle illazioni gratuite preelettorali. Non sono solo boomerang che tornano indietro al mittente, ma è anche l’affermazione di talenti che sono tali, non tanto per preparazione e carisma, ma soprattutto per la volontà ferrea, espressa anche con la bellezza e con un sorriso, di adeguare una politica ritrovata alle esigenze del domani, dove i giovani e l’imprenditoria costituiranno l’elemento catalizzatore.

Simone Crespi

DEBITI MORALI Il re di Roma oggi è stato, nei giorni scorsi, Moammar Gheddafi, già presidente dell’Unione Africana e simbolo delle tirannie. Speriamo che non succederà come in Francia, dove le grazie concesse da Sarkozy fecero calare l’indice di gradimen-

Bagnetto alternativo Quelli che vedete non sono semplici tinozze ma una riproduzione dell’utero materno: il cosiddetto Tummy Tub, letteralmente “catino-pancia”. Ed è proprio questa la sua particolarità, rispetto a un bagnetto normale. La vaschetta nella quale il piccolo viene immerso fino alle spalle serve infatti per fare sentire il neonato a proprio agio, avvolto e protetto, proprio come si sentiva nel pancione della mamma

to del presidente francese e del suo esecutivo. Noi abbiamo bisogno di ben altro perché questo governo non credo voglia concedere quel credito morale, che il leader libico rivendica da anni, per un saldo negativo della guerra. Se volessimo comportarci come lui, dovremmo chie-

dere migliaia di opere d’arte che sono state trafugate dai francesi e dai tedeschi.

Bruna Rosso

A.A.A. USURAIO CERCASI Prima una società quotata in borsa assieme ad un banca mi truffa, poi si aggregano le altre

banche che mi chiudono la porta in faccia. Forse sarà che sono piccolo e nero come calimero... Ma ho voglia di fare e non voglio mollare per cui: “Cerco usuraio, mafioso o camorrista che voglia investire nella mia piccola azienda.

C.R.


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Provo soggezione nello scriverle Chianciano, agosto 1976 Carissimo Simenon, non faccia caso all’inchiostrazione del nastro che mi ha già sporcato le mani e il mento. Sono tre volte che ricomincio la lettera e dopo due o tre righe straccio tutto. Un po’ la colpa è del nastro che insudicia la carta ma un po’ è anche la soggezione che provo nello scrivere a lei. Sono a Chianciano, qualcosa come Vichy, forse un pochino più antico, mai però quanto la macchina da scrivere che il direttore dell’hotel mi ha messo trepidamente a disposizione. È un periodo di piccole, noiose e anche un po’ ridicole contrarietà che non riesco ad esorcizzare. Sono cominciate con l’arrivo a Valmont. Contavo di trattenermi una decina di giorni: volevo riposarmi, fare delle analisi, tentare di decidere il nuovo film ed infine, se fosse stato possibile, venire a farle un saluto e ringraziarla. Avevo sentito parlare di Valmont in termini molto invitanti, chissà cosa mi aspettavo; ma ecco che, all’arrivo, il grigiore piovoso della giornata, il lamento del vento tra gli abeti, la solitudine della valle già sprofondata nell’oscurità, mi hanno fatto apparire la costruzione dell’albergo come l’ospedale del dottore Mabuse. Buona fortuna e a presto. Federico Fellini a Georges Simenon

ACCADDE OGGI

RIFLESSIONI EUROPEE Dopo alcuni giorni dal voto europeo, vorrei permettermi alcune sommesse riflessioni relative ai risultati. Nulla di nuovo sul fronte italiano. Risultati più che prevedibili: salvo qualche percentuale in meno raccolta dal Pdl e qualche percentuale in più andata al Pd, rispetto alle ipotesi iniziali. Prigionieri entrambi dei più esagitati e populisti partiti italiani: Lega Nord e Italia dei valori, che aumentano i loro voti grazie ad un sapiente utilizzo dello slogan facile. Il dato che risalta di più è invece l’astensionismo, dovuto ad una legge elettorale con sbarramento al 4 % che ha falcidiato milioni di voti sul nascere. E così tanti elettori, temendo di non essere rappresentati, hanno preferito astenersi. In effetti non sono poche le liste che non hanno raggiunto il 4 %, ma ad ogni modo hanno raggiunto un dignitosissimo 3 % o 2 %. Comunisti a parte, che dimostrano di aver ormai perduto il loro zoccolo duro, pensiamo ai Radicali della lista Pannella-Bonino che addirittura hanno ottenuto un risultato percentualmente superiore, anche se di poco, alla Rosa nel Pugno e alla precedente lista Bonino delle europee 2004. L’unico dato confortante è forse la stabilità del governo Berlusconi, con un Pdl che non sfonda, ma che raccoglie a pieno titolo l’eredità della Democrazia cristiana. Lo stesso Pierferdinando Casini dovrebbe riflettere. In casa Pd, diversamente, si straparla. Si dice che non è stata una sconfitta e verrebbe da chiedersi se ci credono davvero. Pro-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

20 giugno 1963 Viene stabilita la “linea rossa” tra Urss e Usa

1966 Il Canada vende 12 milioni di metri cubi di frumento all’Unione Sovietica 1969 Jacques Chaban-Delmas diventa primo ministro della Francia 1976 Italia: si svolgono le elezioni politiche 1977 Il petrolio inizia a scorrere attraverso il TransAlaska pipeline system 1978 L’Italia aderisce alla Convenzione di Berna per la protezione delle opere letterarie e artistiche 1980 Negli Stati Uniti esce il film Blues Brothers 1983 L’Lzw viene brevettato negli Usa 1990 Il Parlamento tedesco decide di spostare la capitale da Bonn a Berlino. 2001 Pervez Musharraf diventa presidente del Pakistan 2003 Il musical Bounce debutta al Goodman Theatre 2004 La A.C.F. Fiorentina torna in Serie A dopo il fallimento e la C2 2007 L’heavy metal band Iron Maiden tiene un concerto allo stadio Olimpico di Roma

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

babilmente no, ma ci si deve pur salvare la faccia in qualche modo. Qualcuno addirittura dice che quel 26% di oggi è al netto della presenza dei Radicali, dimenticando che i Radicali hanno sempre preso più voti o quando hanno corso da soli o quando erano alleati a Berlusconi. E dimenticando che, sempre i Radicali, quei nove posticini sicuri nel Pd se li sono dovuti sudare a suon di scioperi della fame. Il Pd, dunque, se esisterà ancora, è destinato ad una lunghissima opposizione. Specie se, come ventilato, deciderà di imbarcare ancora una volta i comunisti: rossi o verdi che siano. E così non rimane che attendere il referendum o, meglio, una nuova legge elettorale. Una legge elettorale che, ci auguriamo, non sia “ad personam”: ovvero fatta su misura per i due calderoni più grossi. Una legge autenticamente seria potrà essere o puramente proporzionale o puramente maggioritaria. La prima ipotesi è probabilmente al di là da venire. La seconda sarebbe quasi a portata di mano se passasse il “sì” al referendum. Dico quasi perché il sistema delle preferenze bloccate rimarremme inalterato e non vi sarebbe alcuna introduzione di collegi uninominali. Però sarebbe anche l’unico sistema per sbarrare la strada alla Lega Nord e per garantire al Paese un governo stabile, con in sella l’unico partito che oggi ha la possibilità di garantire riforme, che altri nemmeno si sognerebbero: il Pdl. Non sarà il massimo, ma il male minore di sicuro.

COSA CHIEDIAMO CON I REFERENDUM Domani e lunedì si voterà per tre referendum. Purtroppo non credo più a questo strumento. Come si fa a mettere tante speranze in un referendum quando poi le scelte effettuate dal popolo nel merito possono essere rimesse in discussione e cambiate in poco tempo per volontà dei partiti?Ragionando di sistemi elettorali sono anche sfiduciato per come i vari sistemi politici istituzionali sperimentati in Italia siano stati applicati e “peggiorati”. Alcuni esempi: credevo nel sistema maggioritario, adatto a semplificare il numero dei partiti italiani e credevo nei sistemi uninominali all’inglese come scelta dei politici amministratori. E ho visto nel maggioritario “all’italiana” raggiungere un numero di partiti mai avuto prima; per ciò che riguarda i sistemi uninominali ho visto invece catapultare dalle segreterie romane sul territorio persone che con questo non avevano niente da spartire: e naturalmente essere eletti. E ancora: ero contro le preferenze perché vedevo, soprattutto in certe zone d’Italia, il rischio e la decadenza morale che queste potevano provocare. Tolte le preferenze ci troviamo con i partiti (cioè con il leader di partito) che decidono chi deve entrare in Parlamento, in Consiglio regionale, ecc… e quindi parlamentari sempre più mediocri e allineati al capo di turno. Il risultato è il totale appiattimento della politica, quella vera. I promotori di questi referendum fanno credere che votando sì, venga eliminata una legge vergogna (cosiddetto porcellum) e si arrivi ad una svolta epocale. Vediamo allora il merito della proposta: i primi due referendum (scheda colore viola il n. 1 e scheda colore beige il n. 2) si propongono di modificare il premio di maggioranza. Propongono la stessa cosa, il primo quesito per la Camera dei Deputati, il secondo per il Senato. Le attuali leggi elettorali infatti prevedono un sistema proporzionale con premio di maggioranza. Con la legge oggi in vigore questo premio va alle coalizioni (es. Pdl + Lega Nord; Pd + Di Pietro). In caso di esito positivo del referendum, la conseguenza è che il premio di maggioranza verrebbe attribuito alla singola lista (e non più alla coalizione di liste) che raggiunge il maggior numero di seggi. Lo sbarramento del 4% alla Camera e dell’ 8% al Senato rimarrebbero, ma si riferirebbero alle singole liste. Il terzo quesito (scheda colore verde chiaro) riguarda l’abrogazione delle candidature plurime in più di una circoscrizione per uno stesso candidato. I promotori di questi tre referendum spingono a votare sì immaginando un sistema a due partiti. Carlo Lazzeroni P R E S I D E N T E CI R C O L O LI B E R A L PI S A

Luca Bagatin

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

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PAGINAVENTIQUATTRO Successioni. Dopo 5 anni lascia il critico gastronomico più potente d’America. Caccia all’erede di Frank Bruni

Guerra per assegnare le stelle al di Francesco Capozza osa succede quando il critico gastronomico del quotidiano più letto d’America decide che è arrivato il momento di posare il taccuino e smettere di girare ristoranti a pranzo e a cena per ogni giorno della sua settimana? «Gastronomia nel caos», titolava la scorsa settimana Epicurious. «E adesso l’apocalisse» gli faceva eco Slashfood. In Italia tutto questo non accadrebbe mai (anche dopo la recente crisi del Gambero Rosso l’opinione pubblica non si è affatto dimostrata interessata) ma negli Stati Uniti - come anche in Francia un evento del genere è destinato a condizionare gli equilibri interni del giornale e ad animare vero e prorio terrore in tutte le cucine della grande mela.

C

A gettare nel panico ristoratori, clienti e lettori del NYT (che, è bene ricordarlo, con il suo inserto Dining In/ Dining Outfa il picco di vendite ogni settimana) è l’uscita di scena di Frank Bruni che, dopo 5 anni come critico culinario più potente e temuto d’America, in agosto lascerà la prestigiosa carica di Chief restaurant critic per passare a collaborare con il Magazine, dove si occuperà di tutt’altro. Un bel colpo per il quotidiano, non c’è che dire, ma per ammissione del suo stesso direttore, Bill Keller, Bruni ha compromesso la sua abilità di detective in incognita nel mondo del cibo da quando ha pubblicato la sua autobiografia “Born Round: the Secret History of a Full-Time eater”. L’annuncio del passo indietro di Bruni ha letteralmente gettato nel panico l’intera redazione, «sono sommersa da Curriculum Vitae», ha ammesso Trish All, caporedattrice dell’inserto gastronomico del NYT. Una situazione del genere si era già verificata cinque anni fa, quando il direttore dell’autorevole quotidiano newyorkese aveva nominato Frank Bruni, allora trentanovenne italo-americano e inviato della Cnn in Italia, nuovo critico del giornale più letto d’America. La scelta di Bruni alzò un polverone perchè lui,

NEW YORK TIMES questione meramente legata all’appannaggio che la carica comporta (si parla di uno stipendio netto di 500 mila dollari all’anno e della stessa cifra, o poco meno, di rimborsi spese), il posto attualmente ricoperto da Frank Bruni è ambitissimo. Le parole di Trish All lasciano intendere come in America si sia scatenata la

menti cui doveva ricorrere quando andava a recensire in incognito un ristorante per il timore di essere riconosciuta e con il conseguente rischio di essere trattata con maggiore riguardo. Memorabile la stroncatura, da parte della Reichl, del celeberrimo ristorante italiano - frequentato assiduamente da Henry Kissinger e da tutto lo star sistem americano - Le Cirque del toscanissimo Sirio Maccioni.

L’annuncio del passo indietro dell’attuale titolare della rubrica ha letteralmente gettato nel panico l’intera redazione, «sono sommersa da Curriculum Vitae», ha ammesso Trish All, caporedattrice dell’inserto gastronomico del “NYT” oltre a dichiararasi apertamente omosessuale e aver scritto un libro denuncia sui preti pedofili, non aveva nessuna esperienza nel campo della critica eno-gastronomica (è facile immaginare la rivolta dei ristoratori della Big Apple...). I gourmet di tutti gli States gridarono allo scandalo, accusando il direttore del quotidiano di aver abbassato, con la nomina di Bruni, lo standard e l’autorevolezza dei giudizi assagnati. Non c’è da stupirsi però, il potere posto nelle mani - e nella penna - del critico del New York Times è senza pari. Per una questione di influenza e di potere (un ristorante, tanto per fare un esempio, declassato da quattro a tre stelle o da tre a due rischia di perdere anche il 25-30% di fatturato annuo), ma anche per una

corsa a succedere a Bruni, specialmente da parte di gourmet e blogger. Per chi volesse capire come opera e quanto davvero è temuto il responsabile della critica gastronomica di un quotidiano come il NYT, consigliamo di leggere al biografia di colei che ha preceduto Bruni: Ruth Reichl. Nel delizioso “Aglio e Zaffiri”, pubblicato in Italia da Corbaccio, la Reichl (che attualmente è la direttrice responsabile della più bella rivista di food&wine americana, Grand Gourmet e che prima di approdare al Times newyorkese era stata la critica del Los Angeles Times) racconta dei numerosi travestiIn alto, la sede del New York Times. Sopra, a sinistra: Frank Bruni, attuale critico del quotidiano, e il suo predecessore, Ruth Reichl

All’epoca, prima di far retrocedere il famoso ristorante da quattro a tre stelle, la Reichl lo visitò numerose volte, sempre con travestimenti diversi. Ciò che la convinse a bocciare Le Cirque fu il trattamento di estremo riguardo che le fu riservato alla quarta visita, quando si presentò alla corte di Maccioni senza alcun camuffamento e accompagnata dal direttore del quotidiano. Dopo aver atteso invano per ore che si liberasse un tavolo la prima volta, essere fatta accomodare ad uno vicino alla toilette la seconda e aver trovato in conto una pietanza non ordinata, alla quarta (e palese) visita fu trattata con guanti bianchi e fatta accomodare senza nemmeno aver prenotato. Questo è solo un esempio per far capire l’influenza che il critico del quotidiano newyorkese esercita nel mondo della gastronomia americana. Ora che Frank Bruni sta per lasciare l’incarico, nelle cucine americane si respira di nuovo aria di terrore.


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