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È proprio di ogni morale
di e h c a n cro
considerare la vita come una partita che si può vincere o perdere, e insegnare il modo di vincere
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Simone De Beauvoir di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 8 LUGLIO 2009
Importanti accordi con Hu Jintao mentre la Cina massacra gli uighuri
PRESENTATA L’ENCICLICA “CARITAS IN VERITATE”
Che vergogna, ora i diritti umani valgono meno di un contratto! di Gennaro Malgieri
Il capitalismo etico Il Papa propone ai Grandi della Terra, riuniti da oggi a L’Aquila, un nuovo modello di economia e di società per governare la globalizzazione. Lo ascolteranno?
diritti umani valgono due miliardi di dollari. Nelle stesse ore in cui l’Italia sottoscriveva un voluminoso pacchetto di accordi economici con la Cina, sotto lo sguardo vigile e compiaciuto, dei presidenti Berlusconi e Hu Jintao, le forze dell’ordine della Repubblica popolare reprimevano nel sangue la rivolta degli islamici uiguri dello Xinjiang. Centocinquanta i morti dichiarati dal regime comunista, circa novecento i feriti, degli arrestati nessuno ha tenuto il conto. È stata spenta così, per l’ennesima volta, la voce di uomini e donne che popolano una vasta regione della Cina, un sesto del territorio, che chiede di esistere, di essere rispettata, che rifiuta la comunistizzazione della propria comunità.
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alle pagine 12, 13, 14 e 15
segue a pagina 6
Oggi comincia il vertice in Abruzzo. Ieri scontri e fermi anche a Roma
Ieri l’atteso incontro ufficiale (tiepido) tra il presidente Usa e il premier russo
Putin potrà essere davvero un partner di Obama?
«L’Italia fuori dal G8» Il Guardian attacca. Berlusconi: «Una cantonata» di Franco Insardà
ROMA. Il Papa, Putin e gli imman-
di Enrico Singer rima sulla terrazza della dacia di Novo Ogarevo di fronte a un samovar fumante per un tè. Poi attorno al caminetto nel salone che si affaccia sul parco. Due ore di colloquio – trenta minuti più del previsto – con meno sorrisi di quelli scambiati al Cremlino con Medvedev, ma anche con meno asprezze di quelle temute alla vigilia. L’incontro tra Obama, l’uomo del cambiamento, e Putin, l’uomo che ha un piede ancora nella guerra fredda, si è consumato così. In un intreccio di segnali in codice scambiati tra le dichiarazioni ufficiali di apertura. «Anche se i nostri Paesi non possono essere d’accordo su tutto, possono affrontare le divergenze con un atteggiamento di reciproco rispetto», ha detto Obama.
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segue a pagina 8 seg1,00 ue a (10,00 pagina 9CON EURO
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
cabili sondaggi. Questi i tasti utilizzati da Silvio Berlusconi nella conferenza stampa di presentazione del G8 che inizia oggi. Il premier ha ostentato serenità e ha sottolineato il buon auspicio per il messaggio ai membri del G8: «Il Santo Padre ritiene significativa la scelta del governo italiano come sede del vertice a L’Aquila». Ha poi aggiunto: «Si è parlato al telefono con Valdimir Putin di collaborazione in 13 diversi settori della polita internazionale e vedo premiato il lavoro della presidenza italiana per superare i momenti finali della passata amministrazione americana». Ma il jolly l’ha giocato quando ha citato gli ultimi sondaggi: «Dopo certi attacchi della stampa italiana che ha dato spazio a certi attacchi della stampa estera, va rimarcato che il 64,1 per cento degli italiani ha fiducia
I QUADERNI)
• ANNO XIV •
NUMERO
133 •
Un padrone di casa “assediato”
nel premier». Sugli attacchi dei giornali esteri è intervenuto anche il ministro degli Esteri, Franco Frattini, che commentando un articolo del Guardian secondo il quale aumentano le richieste di escludere l’Italia dagli 8 grandi ha detto: «Sciocchezze. Spero che il Guardian esca dai grandi giornali del mondo». Mentre Berlusconi ha definito quella del Guardian una “cantonata”. Ma la temperatura del G8 sale ora dopo ora. Nel capoluogo abruzzese sono stati denunciati 5 francesi che avevano a bordo della loro roulotte dei bastoni. Nella Capitale blindata i no global hanno fatto sentire la loro presenza con delle vere e proprie azioni di guerriglia con dieci arresti su 36 manifestanti fermati e una manifestazione a pochi metri dall’ambasciata Usa. segue a pagina 2 SERVIZI ALLE PAGINE 4 E 5
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• CHIUSO
Povero Silvio, superato anche da Sky di Errico Novi l G8 di Silvio Berlusconi comincia ancora peggio del previsto (e le previsioni erano pessime). No, non è questione di foto proibite, di confessioni piccanti o di ricatti latenti: il vero guaio è che Sky ha vinto la guerra delle tv e ha scavalcato ufficialmente Mediaset nella classifica delle reti private che fanno gli affari migliori in Italia. Lo ha accertato l’Autorità per le comunicazioni. La pubblicità delle reti del premier non tira quanto gli spot trasmessi dal colosso di Murdoch, che è diventato «il vero concorrente della Rai», come spiega il presidcente dell’organismo di garanzia, Corrado Calabrò, nella sua relazione a Montecitorio. segue a pagina 3 SERVIZI A PAGINA 10
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IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
politica
pagina 2 • 8 luglio 2009
Summit/1. Oggi il mondo sfila all’Aquila. Ma per il giornale inglese la Spagna è destinata presto a sostituirci tra i grandi
Scontro Italia-Guardian
La stampa estera, i black-block stranieri, i terremotati abruzzesi Il vertice parte fra polemiche, arresti e manifestazioni di protesta di Franco Insardà segue dalla prima
ROMA. È un Silvio Berlusconi pacato, in stile premier; quello che ieri ha presentato il vertice del G8 che inizia oggi. Non è riuscito, però, a trattenersi dal citare i sondaggi e a replicare agli articoli che arrivano dall’estero, Guardian su tutti: «Gli attacchi non condizioneranno i lavori del G8, perché io ho un rapporto continuativo e costante con i miei colleghi che conoscono bene i giornali e sanno valutarli. Credo che sia assolutamente da rimarcare che secondo l’ultima indagine dell’azienda che, unica, ha sempre centrato tutti i risultati delle recenti elezioni, il presidente del Consiglio italiano ha la fiducia del 64,1 per cento degli italiani».
Ma più si avvicina l’inizio del G8 e più il clima si fa arroventato. A L’Aquila, nella mattinata di ieri, i carabinieri hanno fermato e denunciato cinque francesi, non lontano dalla zona rossa, a bordo di una roulotte all’interno della quale c’erano alcune mazze ferrate e da baseball. Utilizzando una tecnica da guerriglia urbana i no global hanno bloccato una Roma blindata per l’arrivo dei leader mondiali. I primi scontri ieri nel quartiere Testaccio, vicino all’Università di Roma Tre, dove sono entrati in azione anche i black block. La polizia ha fermato 36 manifestanti, tra i quali 9 stranieri di cui quattro svedesi, due tedeschi, uno svizzero, un francese e un polacco. Dieci sono stati arrestati per gli incendi a pneumatici e cassonetti e per il blocco stradale. Ai manifestanti è stata se-
questrata una mappa di Roma con una dettagliata lista di luoghi simbolo della lotta dei no-global come sedi di banche, agenzie immobiliari e interinali. Scontri anche alla Sapienza dove hanno protestato gli studenti dell’Onda, dopo il fermo dei ventuno giovani per gli incidenti di Torino del maggio scorso. Mentre allo svincolo dell’A24 un gruppo di circa 50 no global ha bloccato le auto dirette verso l’autostrada Roma-L’Aquila. I manifestanti hanno piantato finte tende da campeggio e hanno indossato caschi da lavoro fermando la circolazione per circa 20 minuti.
Comincia l’ultimo G8, il “caminetto” si è spento di Andrea Margelletti ll’Aquila è di scena l’ultimo atto della Guerra Fredda. Il G8 nasce come un “caminetto” di leader che in maniera più o meno informale decidevano le sorti economiche del mondo occidentale. Ma il mondo cambia, anche se alcuni non se ne sono ancora accorti e da ristretto numero di elitari governi, ora l’economia globale ha come protagonisti anche attori che sino a pochi decenni fa consideravamo a mala pena nazioni in via di sviluppo.
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Ma serve davvero il G8? Personalmente ritengo che i veri affari, sia politici che economici, si svolgano in un contesto bilaterale. La cosiddetta “fine della storia” in realtà si è trasformata nell’inizio di un’altra storia. Le organizzazioni internazionali, Unione Europea e Nato in primis, tendono sempre più ad allargare i propri confini e ad imbandire tavolate ove sono presenti numerosi commensali, ma dove c’è assai poco da mangiare. L’Unione Europea ne è un chiaro esempio. Ogniqualvolta occorre prendere un’importante decisione in materia di politica di difesa o di sicurezza le nazioni che contano, come ad esempio Francia, Gran Bretagna e Germania, prendono sovente strade diverse, evocando la propria peculiarità e i propri interessi precipui. Dopo l’11 settembre eravamo tutti newyorchesi ma poi in Afghanistan sono andati tutti malvolentieri e solo un pungo di nazionali ammettono chiaramente di stare lì per combattere. Non parliamo poi della Nato, o forse sarebbe meglio definirla l’ex Patto di Varsavia-atlantico vista ormai l’attuale composizione, che “genialmente”si è talmente tanto allargata che la Russia si sente minacciata, con quali benefici poi resta tut-
to ancora da valutare. Anche nel caso dell’invasione dell’Iraq nel 2003 la Francia e la Germania, forse subodorando il trabocchetto statunitense che voleva mollare agli europei la patata calda del peace keeping e della “ricostruzione” post-bellica, si sganciarono creando una frattura in Europa che solo recentemente si è risanata. Per questo crediamo che la vera grande utilità di questi meeting sia il guardarsi negli occhi dei leader e gli incontri informali che ne scaturiscono. Tre giorni a parlare dei massimi sistemi spesso partoriscono il ruggito del topolino. Un esempio per tutti: tanto si parla di aiuti finanziari all’Africa. Ma noi che all’Africa teniamo davvero pensiamo che ogni aiuto destinato al grande continente sia inutile senza una forte azione politica destinata a far nascere governi non corrotti su base multi etnica e multi tribale, in grado quindi di rappresentare tutte le istanze e che sappiano utilizzare e non sfruttare i proventi della cooperazione internazionale. E che cosa porterà, poi, il futuro allargamento del gruppo G? I nuovi soggetti, tra i quali Cina e India, vorranno e dovranno contare per il loro peso reale, altre realtà, come l’Egitto o il Brasile, premono per aver riconosciuta una loro leadership di fatto nel contesto geopolitico nel quale sono presenti. Più soggetti, meno opportunità per l’Italia.
Il nostro paese potrebbe essere seriamente danneggiato e messo ai margini delle nazioni che contano se non vi sarà una forte azione di risanamento economico e leadership in grado di confrontarsi con autorevolezza e sostenibilità delle proprie azioni nell’arena politica internazionale. Temiamo sia finito il tempo delle improvvisazioni e che il confrontarsi con economie aggressive e spregiudicate, in grado di pianificare a medio e lungo termine, possa creare un vero e proprio terremoto, e non lo diciamo perché siamo all’Aquila, al Bel Paese. Il mondo è cambiato, dobbiamo cambiare anche noi.
Una protesta simbolica e pacifica è stata organizzata inoltre a piazza del Popolo dalla Coalizione italiana contro la povertà, che raggruppa oltre 70 associazioni. Con gonfiabili alti oltre due metri che raffiguravano i capi di stato, i manifestanti hanno chiesto il rispetto degli impegni presi in tema di lotta alla povertà. Il clou a piazza Barberini a pochi metri dall’ambasciata americana dove si sono concentrati nel pomeriggio oltre alla “Rete No G8”, composta da centri sociali, blocchi di precari, movimenti di lotta per la casa e associazioni di migranti, anche gli studenti dell’Onda. L’accesso a via Veneto è stato chiuso da una cancellata mobile.
«Il nostro timore è che l’Aquila sia soltanto la location del G8. Con i grandi del mondo blindati nella zona rossa e i terre-
Il sindaco Massimo Cialente: «Il nostro timore è che l’Aquila sia soltanto la location del vertice. Con i grandi del mondo blindati nella zona rossa e gli sfollati nelle tendopoli» motati chiusi nelle tendopoli. Due realtà che non si incontreranno in questi tre giorni, alla fine dei quali i riflettori si spegneranno e noi abruzzesi saremo lasciati soli con la nostra tragedia». È lo sfogo amaro del sindaco del capoluogo abruzzese, Massimo Cialente, che a poche ore dall’inizio del vertice ha voluto lanciare un ulteriore appello per evitare che ci sia l’ennesima passerella, questa volta non di politici italiani, ma dei potenti del mondo. Le preoccupazioni del primo cittadino aquilano sono condivise dalla maggioranza dei terremotati che da tre mesi vivono questa condizione di estrema incertezza sul loro futuro: divisi tra le tendopoli e gli alberghi della costa. «Tutti ci chiediamo che cosa succederà a settembre? La città è morta - dice Cialente - non è ripartito nulla e da gennaio bisognerà ricominciare a pagare le tasse, mentre noi chiediamo una zona franca. Dopo tutte le promesse nessuno ha accolto le nostre richieste». E in una nota diffusa ieri si appella anche al mondo dello sport a partire dal presidente del Coni, Gianni Petrucci e a tutte le federazioni sportive, per l’abolizione delle quote di iscrizione ai campionati, la concessione di contributi straordinari, la flessibilità nella stesura dei calendari ed eventuali deroghe alle norme sull’impiantistica. Dopo la fiaccolata del 6, a tre mesi dal terremoto, con quattromila persone a chiedere giustizia, il forum che raccoglie i venti comitati, ha organizzato una serie di iniziative per la tre giorni del vertice. Ieri, al parco Unicef, si è svolto il “Forum per la ricostruzione sociale - Diritti, lavoro, saperi e democrazia”.
politica
8 luglio 2009 • pagina 3
Gli scandali, le feste, le foto: il Cavaliere appare in grave difficoltà
Berlusconi finisce subito sotto assedio di Errico Novi segue dalla prima Alcuni berlusconiani la prendono relativamente bene. Daniele Capezzone, per esempio, che vede nel report dell’Agcom «una smentita di tutte le teorie avanzate dalla sinistra sul monopolio di Mediaset». O Maurizio Gasparri, che a questo punto conviene con Calabrò sulla necessità di «rivedere la legge sulla par condicio». Ma la brutta notizia resta, Fedele Confalonieri «prende atto» e non può stupirsi per il dato sul calo degli introiti da pubblicità (meno 0,3 per cento) che ovviamente conosce meglio di tutti. La sua reazione colora con il grigiore della rassegnazione una vigilia già molto amara, per il presidente del Consiglio. Si arriva al G8 sfiancati e provati dalla campagna mediatica sugli scandali, dalle prese di posizione della Chiesa, dalle perplessità vagheggiate sulla stampa internazionale rispetto alla performance offerta da Roma nell’organizzazione del G8.
A voler essere ancora più crudeli si possono enumerare ulteriori concomitanze spiacevoli: dal dietro front sul ddl intercettazioni ufficializzato dal ministro della Giustizia Angelino Alfano al caos politico assoluto in cui è precipitata l’apparentemente inespugnabile Sicilia, fino alla rivolta degli ultras milanisti. Sintomi variamente significativi, ma tutti in qualche modo riconducibili a una crisi generale del sistema di potere berlusconiano. In questa condizione di affanno il Cavaliere arriva a un appuntamento cruciale, che avrebbe dovuto dare lustro alla sua immagine e a quella dell’Italia. Già si percepisce la sensazione di un’opportunità sprecata, nonostante il Dvd sulle “meraviglie” del Paese distribuito agli invitati al G8. E soprattutto, in ambienti vicini al presidente del Consiglio rimbalza un allarme, relativo proprio alla controffensiva mediatica mesa in campo contro la bufera degli scandali. Si va da imprecazioni di segno più casereccio («l’unica risposta che siamo stati in grado di dare è il comunicato sulle nuove eventuali illazioni sessuali dei pm baresi partorito domenica da Ghedini) a ragionamenti più ampi: «C’è una incredibile crisi di lucidità. Una prova? Non siamo stati capaci di mettere in primo piano il successo della linea di Tremonti sulle nuove regole per la finanza internazionale», dice la fonte berlusconiana, «eppure si tratta di un’impostazione accettata dall’Ocse e dai governi dei principali Stati europei continentali, Germania e Francia. Ecco, non sarebbe forse sufficiente organizzare una batteria mediatica su questo? Non varrebbe più delle amenità pubblicate dai giornali in questi ultimi due mesi?».
A preoccupare gli interlocutori del governo italiano sarebbe proprio questa incapacità di reazione, raccontano dunque gli stessi uomini vicini al Cavaliere: «Lo sconcerto, le perplessità, nascono da qui: com’è possibile, ci si chiede, che nessuno a Palazzo Chigi sappia sfruttare i successi del governo italiano e di Tremonti nel dibattito sulle regole anticrisi? C’è la percezione come di uno stordimento, anche da parte della Chiesa. E i nostri alleati strategici come la Merkel, Sarkozy o i russi non riescono a spiegarsi il fatto che l’Italia, il suo governo e il suo presidente siano tenute in scacco, almeno dal punto di vista dell’immagine, da un’accozzaglia di escort e manutengoli». E le punzecchiature che puntualmente arrivano dalla stampa britannica e americana? «I governi anglosassoni hanno punti di vista diversi sulle regole con cui tenere a bada la grande finanza, punti di vista sicuramente meno restrittivi rispetto a quelli dell’Europa continentale e della Russia. È inevitabile che da Washington e Londra si guardi a Berlusconi e all’Italia con molta minore benevolenza che da Berlino, Parigi e Mosca».
«In Europa sono sconcertati dall’assenza di controffensive mediatiche», dice un fedelissimo di Silvio, «bastava puntare sui successi di Tremonti»
Per oggi si prevedono delle installazioni di striscioni giganti, mentre domani sarà la volta di un sit-in organizzato nella villa Comunale: «È autorizzato dalla questura - tiene a precisare Ettore De Cesare del comitato Rete Aq -, il nostro obiettivo è quello di infrangere questa vetrina mediatica costruita». Per quanto riguarda, invece, la manifestazione, organizzata per il 10 luglio, dalla “Rete Nazionale Contro il G8” (alla quale aderiscono Rdb, Cobas e Sdl), che partità dalla stazione Paganica e arriverà al centro de L’Aquila, i comitati aquilani non hanno dato la loro adesione.
Inatanto c’è grande attesa a Onna per la visita che farà questa mattina il Cancelliere tedesco, Angela Merkel, accompagnato dal presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Su Onna, che nel 1944 fu teatro di un terribile eccidio nazista, si stanno concentrando i contributi della Germania. Dal 29 aprile sta lavorando un nucleo operativo della Protezione civile tedesca. La Merkel visiterà sia la chiesa per la quale è previsto uno stanziamento di 3 milioni da parte del suo governo, sia i cantieri per la costruzione delle case antisismiche che saranno realizzate nei pressi della tendopoli.
Sopra un’immagine della protesta simbolica e pacifica, organizzata a piazza del Popolo dalla Coalizione italiana contro la povertà. Con piccole piscine gonfiabili lanciate in aria o una contro l’altra sul fondo delle quali c’era la caricatura di Berlusconi «sotto torchio» o quella di gruppo dei grandi della terra riuniti insieme. Nella pagina precedente la sede del G8 di L’Aquila
Il riflesso complottista come si vede affiora sempre. Eppure, oltre all’ipotesi avanzata dal londinese Guardian su una estromissione dell’Italia dal G8 a favore della Spagfna, ieri sono arrivate altre considerazioni improntate allo scetticismo dal New York Times («le prove generali per il summit sono in corso, se la produzione sarà una commedia, una tragedia o un impegno serio, come spera l’Italia, dipende dall’ospite», la riunione «è organizzata da un premier che sta respingendo uno scandalo da soap opera»), e, soprattutto, valutazioni preoccupate dal meno ostile Wall Street Journal («i problemi di Berlusconi rischiano di adombrare l’agenda della politica estera italiana»), che riferisce significativamente delle perplessità diffuse in Europa sulla tenuta del Cavaliere: «Alcuni analisti ritengono che le controversie che coinvolgono il premier potrebbero mettere in difficoltà gli altri leader su come comportarsi». In più, scrive ancora il WSJ, il capo dell’ufficio tedesco al Consiglio europeo sugli Affari esteri, Ulrike Guerot, sostiene che «la cancelliera Angela Merkel, che affronterà le elezioni politiche a settembre, dovrebbe essere molto cauta nel dare a Berlusconi l’opportunità per fare birichinate davanti alle telecamere». Parole che suonano sibilline, riferite a un presidente del Consiglio che nelle ultime ore prima del G8 ha trovato conforto nel solo Bossi, con il quale a cena ha parlato dei decreti delegati per l’attuazione del federalismo fiscale.
politica
pagina 4 • 8 luglio 2009
Summit/2. Dopo il lungo saggio di Carlo Ripa di Meana pubblicato ieri, prosegue il dibattito di “liberal” sul clima
Effetto serra sul G8
Da oggi all’Aquila i grandi discutono il “piano-Obama” sull’ambiente Sul tavolo ci sono le energie rinnovabili e la limitazione dei gas dannosi di Gabriella Mecucci
ROMA. Carlo Ripa di Meana ieri su questo giornale ha sottoposto a serrata critica il piano-Obama per l’ambiente di cui di discuterà all’Aquila e che verrà adottato definitivamente al vertice di Copenaghen. Del resto, proprio le questioni ambientali saranno le uniche, con ogni probabilità, sulle quali il summit che si apre oggi rtiuscirà a dire qualcosa di operativo. Si parte, infatti, dalla decisione dell’amministrazione Usa di ridurre le emissioni di gas-serra, facendo pesare il costo di questa scelta (le aziende dovranno ”produrre meno” a costi maggiori) non solo sugli Stati Uniti ma anche sull’Europa. Ad ogni modo, Carlo Ripa di Meana ha sostenuto anche che da una parte c’è la carta scoperta delle energie rinnovabili e delle reti intelligenti mentre dall’altra c’è quella coperta e non dichiarata del nucleare. Del resto, il presidente francese Nicolas Sarkozy lo ha detto esplicitamente: per
ca. Naturalmente una simile impostazione ha numerosi nemici, soprattutto fra coloro che devono difendere importanti interessi economici. Non è assolutamente vero che gli investimenti nelle rinnovabili Fulco Pratesi, ambientalista, provocano inevitabilmente inpresidente Wwf, e autore di vestimenti nel nucleare. numerosi libri sui temi della Sarkozy lo afferma, ma la Francia così facendo FULCO PRATESI difende l’apparato delle sue centrali e le sue È un bene passate decisioni che che oggi ormai appaiono però dagli Stati Uniti vecchie e sbagliate. Sovenga no convinto – e i del refinalmente sto molti studio lo attela spinta stano – che c’è uno a correggere stretto legame fra l’escelte sbagliate, missione di gas serrae foriere l’aumento della tempedi eventi che ratuira, accompagnato molti scienziati da altri gravissimi proprevedono blemi climatici e che – disastrosi se non faremo qualcosa e subito – in futuro si potrebbero verificare difesa dell’ambiente e della effetti castrofici. Meno male crisi climatica. »Il piano di dunque che dagli Stati Uniti Obama è importante e molto viene oggi una forte spinta a positivo perché si muove sulla correggere scelte profondavia della riduzione delle emis- mente sbagliate e foriere di sioni che provocano l’effetto eventi disastrosi. Credo che serra e quindi la crisi climati- nel nostro futuro prima di tut-
ogni euro investito sulle rinnovabili, ne metteremo uno anche sul nucleare. Abbiamo chiesto a ambientalisti ed esperti la loro opinione su questa analisi.
to debba esserci il risparmio energetico: è questa la prima contromisura per evcitare la crisi climatica. Non dovremo costruire – come pure quilcuno pensa – delle grandi centrali eoliche o fotovoltaiche – ma dei piccoli impianti che rendano autosufficienti case, piccoli agglomerati, palazzi e via dicendo. Per quanto riguarda il nucleare, non è stato ancora risolto nessuno dei problemi che lo rende pericolosissimo, a partire da quello delle scorie. Di recente anche in Finlandia la costruzione di una centrale è stata messa in discussione. E se questo succede in territori scarsamente abitati, pensi quello che può accadere in un paese densamente popolato come l’Italia. Voglio infine aggiungere che il piano Obama dà vita ad un business che poterà anche ad un consistente aumento dell’occupazione. Adesso occorre attendere il risultato dei vertici dell’Aquila e di Copenaghen, sperando che la linea del presidente americano “passi”, e che i governanti europei, davanti al rischio di una crisi climatica, si comportino con saggezza».
Riccardo Cascioli, giornalista di Avvenire e autore insieme ad Antonio Gaspari di un bel libro inchiesta sul clima, edito da Piemme. «Sono assolutamente d’accordo con quanto sostiene Ripa di Meana. Il clima nell’operazione Obama non c’entra niente. La controprova di questo sta nel fatto che negli studi fatti per arrivare alla legge sull’energia, non c’è alcun calcolo sul miglioramento climatico che ci verificherà quando verranno applicate integralmente le misure previste da Obama. Misure che si basano su un mega iunvestimento a favore delle energie rinnovabili e delle reti intelligenti. Qualcuno però qualche conto l’ha fatto. Si tratta della Ipcc (Intergovernmental Panel climate change). Secondo le proiezioni messe a punto da questa istituzione l’aumento previsto di energia prodotta da fonti alternative comporterebbe – entro il 2050 – un calo della temperatoura pari a 0,005 gradi. Semplicemente ridicolo. Quanto al nucleare non è assolutamente vero che lo sviluppo di rinnovabili lo evita.
politica
8 luglio 2009 • pagina 5
Il chimico ambientalista Franco Battaglia contesta la politica Usa
«Barack è mal consigliato, l’effetto-serra non c’è» ROMA. Franco Battaglia, chimico ambientale,
ni, non è così liquidatorio. «È certamente vero che è assai difficile misurare con precisione quali effetti avrà sul clima l’uso delle energie e più in generale l’intervento umano. Non abbiamo modelli infatti in grado di consentire una quantificazione precisa. E c’è di peggio: non GUIDO VISCONTI viene nemmeno finanziata la riÈ assai difficile cerca – e quindi misurare non si fa – per con precisione saperne di più. quali effetti In buona sostanavranno za manca quella sul clima che si chiama la le energie “validazione” e l’intervento modello. del umano. Detto questo, E non viene non ho alcun finanziata dubbio che se la ricerca per continueremo a saperne di più consumare come facciamo oggi e se non innotare un intervento nel nuclea- veremo profondamente nella re, visto che – a differenza di produzione d’energia, sicututti gli altri paesi europei più ranmente si produrranno efimportanti – in questo campo fetti negativi sul clima: la non ha fatto nulla. È sbagliata temperatura aumenterà, aninoltre anche la previsione se- che se ad oggi non possiamo condo la quale il business ver- essere precisi e dire con cerde comporterebbe un aumen- tezza di quanto aumenterà. to dell’occupazione. La Spa- Per quello che riguarda il piagna, altro paese che ha molto no Obama credo che sarebbe investito sulle rinnovabili, di- positivo se si riuscisse ad atmostra il contrario. Uno studio tuare. E non si può non guardell’Università di Madrid dare con soddisfazione al fatgiunge infatti alla conclusione to che in un paese, come gli che, se è vero che l’impegno Usa, sino ad oggi fra i più renell’eolico e nel resto delle stii a cambiare, si sia invece fonti alternative produce una sviluppata una fortetendenza crescita di posti di lavoro pari al cambiamento radicale. Non all’uno per cento, è altrettanto credo però che il presidente vero che si regista – per man- americano troverà molti alcati investimenti – un decre- leati fra gli europei. Ho l’immento del 2,5 per centgo in al- pressione che né all’Aquila né tri settori energetici». a Copenaghen avrà un facile successo. Certamente ci saGuido Visconti, uno dei più ranno discussioni, prese di diimportanti climatologi italia- stanze e oipposizioni». La Germania lo dimostra. È uno dei paesi europei infatti dove eolico, fotovoltaico e altro sono particolarmente diffusi. Nonostante ciò il 50 per cento di energia viene dal carbone e il 30 per cento dal nucleare. Quanto all’Italia non vedo proprio come possa evi-
uno degli studiosi italiani al centro del dibatti di questi anni sul riscaldamento globale, è uno dei firmatari del documento anti-Obama sull’ambiente pubblicato dal New York Times. Con lui parliamo dei temi lanciati ieri su liberal da Carlo Ripa di Meana. Il «vostro» documento cominciava con queste parole: «Con tutto il dovuto rispetto questo non è vero». Che cosa è che non è vero? Non è vero che l’uomo abbia una qualche influenza sul clima del pianeta. Ne abbiamo la certezza. Affinché vi sia una relazione causaeffetto è necessario che vi sia correlazione (il contrario non è vero: se v’è correlazione tra due fenomeni, non è detto che uno sia causa dell’altro). Orbene, non v’è alcuna correlazione tra clima ed emissioni di gas-serra. Infatti: 1) Il pianeta è già stato caldo come e più di ora nel passato. Ad esempio per diversi secoli durante l’età dl bronzo (i geologi lo chiamano optimum climatico olocenico) e per un paio di secoli a cavallo dell’anno 1000 (optimum climatico medievale). 2) L’attuale riscaldamento del pianeta cominciò a metà del XVII secolo, quando la Terra era nel minimo della piccola era glaciale; ed è continuato nei secoli successivi fino ai giorni nostri. Senonché, per oltre 3 secoli a cominciare dalla metà 1600 l’industrializzazione era assente. 3) Curiosamente, proprio in pieno boom demografico, industriale e d’emissioni, il pianeta subì un rinfrescamento globale: per oltre 35 anni, dal 1940 al 1978.Tant’è che a metà degli anni Settanta la schizofrenia climatica era uguale e quella di oggi, ma solo per il timore di una imminente era glaciale. E tant’è che l’ultimo rapporto dell’Ipcc attribuisce alla responsabilità umana solo il clima del pianeta successivo al 1978. 4) È da quasi 10 anni, dal 2001, che il pianeta ha smesso di riscaldarsi, ma le emissioni,in questi 10 anni sono solo aumentate. Come si vede quindi, un riscaldamento occorso nei tempi sbagliati rispetto alla congettura che lo vuole antropogenico. Ma occorso anche nei luoghi sbagliati: questa congettura prevede che a 10 km nella troposfera equatoriale si osservi un riscaldamento quasi triplo rispetto a quello osservato a terra (questa circostanza fu chiamata “impronta digitale” del riscaldamento globale antropogenico; orbene, nella troposfera a 10 km sopra l’equatore le misure satellitari non osservano alcun accentuato riscaldamento, men che meno triplo, ma, addirittura, un rinfrescamento. E così, quella che voleva essere la “impronta digitale” del riscaldamento globale antropogenico si è evoluta in “impronta digitale” dell’inconsistenza della congettura. Il complesso piano di Obama sul clima prevede un uso massiccio di fonti rinnovabili e di reti intelligenti cosa ne pensa?
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Obama è mal consigliato. La nostra civiltà è fondata sulla disponibilità di energia abbondante, economica ed erogata con la potenza adeguata. Questa è oggi garantita, all’85%, dall’uso dei combustibili fossili. I quali non sono infiniti perché la nostra Terra è tonda e finita e non piatta e infinita. Quindi dovremo prepararci ad uscire dall’economia del carbonio. Ora, il sole e il vento non sono in grado di erogare energia con la potenza adeguata ai nostri bisogni: il sole non brilla dal tramonto all’alba e il vento non soffia sempre come noi vorremmo. Su essi non possiamo fare alcun affidamento. Ripeto: nessuno. Le tecnologia eolica e solare hanno una sola funzione: quando il sole brilla o il vento soffia esse fanno evitare l’uso di combustibile fossile. Quando non ci sarà combustibile fossile disponibile, sole e vento non faranno evitare nulla e, quindi, saranno obsoleti. Obama non sembra comprendere questa elementare verità: il suo piano, senza neanche affrontare il problema energetico dell’umanità, servirà solo ad aggravarlo. Ripa di Meana nel suo articolo apparso ieri su «liberal» sostiene che i costi altissimi di un simile piano verranno fatti pagare agli europei e comunque agli altri. È così? Ripa di Meana ha pienamente ragione: a parità di energia annua erogata un impianto eolico costa il doppio e un impianto fotovoltaico costa 20 volte di più di un impianto nucleare. Ma attenzione: il problema non è tanto quello dei costi (che dissangueranno le economie di chi li affronta), quanto il fatto di lasciare insoluto il problema della sicurezza dell’approvvigionamento energetico con la potenza (questo è importante!) consona ai nostri bisogni. Non è un caso che il vento contribuisce allo 0.5% del fabbisogno elettrico mondiale e il sole vi contribuisce per meno dello 0.001%. In un paese come la Svezia “superverde” il quaranta per cento dell’energia è prodotta da nucleare, cosa ne pensa? C’è poco da pensare e la cosa non riguarda solo la Svezia: il nucleare è la prima fonte d’elettricità (35%) in Europa (la seconda è il carbone). Ed è la seconda fonte (20%) in Stati Uniti (ove la prima è il carbone). Il nucleare contribuisce alla metà dell’elettricità in Ucraina (la patria di Chernobyl), in Belgio, in Svizzera, in Corea del Sud; e ad un terzo dell’elettricità in Finlandia, Giappone e Germania, e ad un quarto in Russia, Regno Unito, Spagna. E perfino noi italiani: ci sono in Francia 8 reattori nucleari che producono elettricità solo per noi, per la quale paghiamo, alla Francia, ogni anno, più del costo di un reattore nucleare. Un tributo che dura da 20 anni: come dire che buoba parte del parco nucleare francese l’abbiamo pagato noi, contribuenti italiani. (g.m.)
La nostra civiltà dispone di energia abbondante, economica, erogata con giusta potenza: i combustibili fossili ne garantiscono fino all’85%
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Miracoli. Non ha nulla di occidentale il «modello» grazie al quale, già nel 2012, si prevede che il reddito cinese sarà pari a quello europeo e simile a quello Usa
La Ferrari di Mao Ecco dove sono le radici del boom economico del Paese che ha appena investito in Italia due miliardi di dollari di Gianfranco Polillo er molti analisti occidentali la Cina resta ancora un grande mistero. È il paese che riesce a coniugare Tienanmen o la dura repressione del Tibet, con uno dei tassi di capitalismo più alti del mondo. Un calabrone che, secondo le leggi della dinamica, non dovrebbe essere in grado di volare. E che, invece, rappresenta la grande incognita del Terzo millennio. Non si diceva che il libero mercato fosse una componente insostituibile della democrazia politica? Chi ragiona così, pensa ad un ibrido. Il massimo del totalitarismo, con un’identica dose di liberismo. Ma non è così: né basta rievocare Confucio e il pragmatismo che ne consegue. Tra il grande sviluppo economico di questo immenso continente e il suo retroterra storico c’è più coerenza che contraddizione. Per comprenderne le ragioni non è da Adam Smith che occorre partire, ma dallo stesso Karl Marx.
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Il comunismo cinese è stato sempre atipico, rispetto alla tradizione europea. A sua volta figlia dell’innesto del populismo russo sul più antico filone socialdemocratico. Basterebbe questo accenno, per far riflettere. L’esperienza della Terza Internazionale, nonostante la sua pretesa ecumenica, fu tutt’altro che un fatto universale. Fu soprattutto il riflesso della volontà di potenza del gruppo dirigente sovietico e del codismo di alcune elites politiche sparse per l’Europa. Mentre l’Armata rossa imponeva la sua disciplina ai vinti della seconda guerra mondiale. I cinesi non solo ne furono immuni, ma lottarono duramente, fino allo scontro armato sull’Ussuri, contro coloro che definivano i “nuovi zar”, che premevano ai loro confini. Lottarono nel nome di Stalin, ma con una logica tutta cinese. Del grande dittatore georgiano non condividevano alcunché. Era solo un modo per infastidire la dirigenza sovietica: malata di egemonismo. Il confronto tra le diverse politiche dimostra questo assunto. Stalin
La repressione interna e il supermarket internazionale di Hu Jintao
Quanto costano i diritti umani? di Gennaro Malgieri segue dalla prima L’etnia degli uiguri da tempo dà filo da torcere al governo di Pechino, nell’indifferenza della maggior parte delle organizzazioni internazionali. Dieci milioni di persone accusate di essere tutte, fin dalla nascita si presume, appartenenti ad una ramificata setta terroristica dalle autorità cinesi. Perfino i bambini vengono trattati come potenziali delinquenti, e dunque “rieducati” secondo la mai tramontata tecnica maoista che ispirò Pol Pot nella vicina Cambogia.
La polizia vigila costantemente. Tiene sotto pressione chiunque. S’insinua nelle famiglie. Spia perfino l’intimità degli uiguri. Ma nessuno ne parla, pochi documentano quel che accade in quelle lande lontane eppure così vicine. Soltanto quando comincia a scorrere il sangue a Kashgar o a Urumqi giornali e televisioni si “scoprono” gli uiguri. Per l’Occidente il diritto dei popoli, la loro sovranità, l’indipendenza delle loro culture sono merce da barattare con contratti vantaggiosi per tutte le parti, ma soprattutto con gli aguzzini i quali si sentono legittimati, come si è sentito in questi giorni Hu Jintao il quale ha ascoltato le parole nobilissime del capo dello Stato, Giorgio Napolitano, ma certamente non ne ha tenuto conto, considerando che il controllo sul Tibet è molto più importante di un monito quirinalizio e che lo Xinjiang, ricco di gas e petrolio, riconquistato insieme con l’immensa regione occidentale nel 1949 dai liberatori comunisti, costituisce l’assicurazione sulla vita per l’intera Cina e mai e poi mai lascerà al loro destino gli uomini e le
donne che popolano quelle strategiche terre. Intanto gli uiguri stanno scomparendo, come i tibetani. La “cinesizzazione”, la colonizzazione forzata avanzano senza tentennamenti. L’Occidente, e dunque anche l’Italia, oggettivamente contribuisce allo smantellamento del patrimonio identitario di un popolo che non esisterà entro cinquant’anni. Intanto si brinda alle nuove e proficue joint venture, al ritorno della Fiat in Cina, alle Generali che finalmente entrano nel mercato dell’asset management e dei fondi pensione in quel Paese che sembrava impenetrabile: il gruppo ha acquisito il 30% di Guotai. Che ne sanno gli uiguri che l’economia socialista di mercato (un ossimoro, un crimine?) marcia trionfalmente alla conquista di quell’Eldorado spento nell’anima che si chiama Occidente? Ricordano che dalle loro parti passava la meravigliosa Via della Seta e le donne intrecciavano fili che diventavano tappeti per gli occidentali che le rispettavano; e gli uomini cavalcavano con gli eredi di Marco Polo e li accompagnavano pacificamente alle frontiere; ed i guerrieri proteggevano le carovane che s’inoltravano nelle regioni caucasiche; ed i capi-famiglia benedicevano quelli che venivano dall’Europa e li ritenevano figli dei soldati di Alessandro. Tutto è andato perduto.
Stiamo uccidendo molte civiltà, come se dovesse esistere un solo popolo, senza identità: quello dei consumatori
considerava quasi inevitabile lo scontro, in campo aperto, tra il blocco socialista e le falangi dell’imperialismo. Per i cinesi, invece, erano le campagne del mondo che avrebbero assediato e vinto le metropoli imperialiste: considerando tra queste ultime anche quelle dei “revisionisti” sovietici. Fortunatamente non si è fatto ricorso alle armi ma è stata l’economia il terreno di battaglia. E almeno per il momento i cinesi, insieme a tanti paesi di quello che una volta
In questi miserabili anni stiamo scrivendo la parola fine a molte civiltà. I popoli vanno cancellati, sono anticaglie inservibili. Deve esistere un solo popolo. Senza identità. Il grande, sovrano ed inestinguibile popolo dei consumatori. Ma gli uiguri preferiscono morire.
era il “Terzo mondo”, ne stanno uscendo vittoriosi.
Ma il comunismo cinese aveva anche un’altra caratteristica. Era sostanzialmente antiburocratico ed anticentralista. Nessuna concezione dello Stato etico. Seguiva semmai, come avvenne con la “rivoluzione culturale” voluta da Mao Tze Tung, uno schema trotskista: la base del partito contro i vertici per evitare ogni forma di sclerosi. Quell’esperimento fu, tuttavia, un
disastro, nonostante l’innamoramento di tanti intellettuali nostrani. Eccidi, deportazioni, inutili distruzioni: quando quella follia generale finì, la Cina si trovò più povera di prima. Gli stessi dirigenti del partito subirono torture e privazioni. Tra questi Deng Xiaoping destina-
to a divenire il leader che avrebbe cambiato, modernizzandolo, il volto della Cina. Facendo ricorso a quali risorse? Copiando forse l’Occidente? Chi ragiona così non conosce un dato fondamentale della Cina: l’orgoglio per le proprie tradizioni e per una storia millenaria. Dove non c’è spazio per contaminazioni culturali. Che avrebbero, inevitabilmente, generato fenomeni di rigetto. Il marxismo rimaneva la stella polare. Ma un marxismo diverso da quello sovietico. Che si nutriva dei tentativi fatti durante i primi anni della rivoluzione russa, e aveva i suoi riferimenti teorici in coloro che lo stalinismo aveva ucciso. Recuperando, altresì, alcuni aspetti del maoismo, dopo averli depurati
mondo consentissero al Paese tutto un “grande balzo”. Ma come? A proprio favore, Deng, impegnato in una dura lotta contro gli oppositori, aveva la tradizione dei “cento fiori”. Che si tentassero e si sperimentassero nuove strade. Gli esperimenti di successo, per il tramite dell’apparato centrale, sarebbero stati, poi, replicati in altre zone del Paese. Era quindi l’appello al popolo: perché unito esplorasse il modo per fare uscire la Cina dal cono del sottosviluppo. Populismo? Se applicassimo le categorie dello snobismo della sinistra occidentale questa sarebbe, forse, la definizione più appropriata. Ma per fortuna dei cinesi quella sindrome era, colà, sconosciuta.
Un’immagine dal valore simbolico notevole: questa Ferrari è parcheggiata proprio al confine della Città Proibita
dal contagio massimalista. Insomma un marxismo riformista, più che riformatore. I cui punti di riferimento erano la Nep – la nuova politica economica degli anni Venti voluta da Lenin – Bukharin, l’autogestione di Tito, e la “politica dei cento fiori” unica componente progressista della rivoluzione culturale. Non a caso compito di Deng fu soprattutto la lotta contro la componente massimalista e di sinistra del partito. Fino alla scelta di Hu Jantao – l’attuale presidente – come suo successore. Ma come integrare questo puzzle in una cornice coerente?
La scelta fu l’economia socialista di mercato, che comprendeva quattro grandi modernizzazioni: agricoltura, industria, innovazione ed apparato militare. Ma per evitare che questa strategia confliggesse con gli “anni gloriosi” della rivoluzione socialista era necessario trovare un passepartout adeguato, frugando nella sterminata opera di Marx. Per il grande filosofo dell’800, il compito storico della borghesia era quello di svi-
luppare le forze produttive, al fine di creare le basi materiali di una società storicamente superiore. Solo allora si sarebbero determinati i presupposti per l’avvento di una società senza classi, dove l’appropriazione privata, ch’era la caratteristica essenziale del capitalismo, non aveva più ragione d’esistere. Alla fine del ‘900 il quadro era, tuttavia, cambiato. Quella borghesia, in un paese come la Cina, se abbandonata a se stessa si sarebbe comportato come tutte le borghesie dei paesi sottosviluppati. Avrebbe ricercato un rapporto ancillare con le grandi potenze, per ritagliarsi una spazio di favore a detrimento degli interessi più generali. Pertanto, secondo il nuovo schema cinese, la borghesia andava lasciata libera, ma, al tempo stesso, controllata sia dalle strutture del partito che dalle istituzioni. Ecco perché la modernizzazione dell’esercito, con tutto quello che ciò comportava, era una priorità. Occorreva definire una piattaforma politica che consentisse una comunicazione adeguata. La formula trovata fu quella di porre fine, con il “Manifesto di Beijing”, allo schema della lotta di classe, aprendo il partito agli ex capitalisti. Gli unici ch’erano in grado di sviluppare quelle forze produttive che
Fu un successo? I dati parlano chiaro. Dagli inizi degli anni Ottanta, il tasso di crescita è stato impetuoso. Il che è avvenuto anche grazie ai favori di un ambiente circostante. Quelle strade erano state battute dalle cosiddette “Tigri asiatiche”: paesi come la Corea, Twain, Singapore, Thailandia e così via che avevano beneficiato del fallout giapponese. Costretti a rivalutare lo yen rispetto al dollaro, il Giappone, per continuare a esportate verso il grande mercato americano, aveva investito nei paesi vicini, aggirando il vincolo valutario. Delocalizzazione delle industrie, grandi investimenti di capitale, trasferimenti tecnologici, mano d’opera a basso prezzo: questi erano stati gli ingredienti del loro successo economico. La Cina non doveva far altro che imitare i suoi vicini approfittando di una congiuntura politica a lei favorevole. Gli Usa erano impegnati in un duro braccio di ferro con l’Unione Sovietica. La Cina, poteva rappresentare una spina nel fianco nell’impero del male. Poteva essere solo tattica. I dirigenti cinesi la trasformarono in una potente arma strategica, la cui leva assunse proporzioni inusitate quando, nel 2001, la stessa Cina entrò nel WTO – World Trade Organization – che le aprì definitivamente le porte del commercio internazionale. Organismo dal quale la Russia di Putin, ancora oggi, è mantenuta a distanza. Prima di allora lo sviluppo economico cinese era stato imponente, ma non straordinario. Rispondeva ai canoni classici dei late comers, come dicono gli economisti. Paesi in fase di decollo industriale, quindi favoriti dalla loro relativa arretratezza. L’attivo delle partite correnti della sua bilancia dei pagamenti era stato pari all’1,7 per cento del Pil, su base annua. Nulla di eccezionale. Ma dopo l’ingresso nel WTO, che attribuiva al paese la clausola di “nazione più favorita”, con conseguente ab-
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battimento di ogni barriera commerciale, il salto fu immediato. Il saldo della bilancia dei pagamenti balzò, quadruplicandosi, al 6,6 per cento del Pil. E non è finita. Nei prossimi anni, secondo le previsioni del Fondo monetario internazionale, quel valore raggiungerà il 10 per cento, consolidando una leadership assoluta. Nel 2008 il peso specifico della Cina è risultato pari all’11 per cento del Pil mondiale, contro il 10 per cento dei rimanenti paesi. E salirà ancora, secondo le previsioni del Fmi, quando questa crisi sarà – almeno così si spera – domata. Nel 2012 si prevede che il reddito cinese – corretto per la diversità del potere di acquisto – sarà pari a quello dell’area dell’euro. E negli anni successivi sarà inferiore solo di 2 punti a quello americano. Una potenza economica ormai a livello planetario, capace con la sua forza di condizionare qualsiasi equilibrio mondiale.
Ma non è solo industriale quel peso relativo. Il futuro hub manifatturiero del mondo ha una solidità finanziaria straordinaria. È anche il salvadanaio cui hanno fatto ricorso i potenti della terra. Si calcola che circa il 30 per cento del risparmio mondiale è in mano alle famiglie ed allo Stato di quel lontano continente. E sempre più del 30 per cento dei titoli emessi dal Tesoro americano sono colà trattenuti. Senza contare poi che la stabilità del dollaro dipende esclusivamente dalla buona volontà del celeste impero. Per il momento gli interessi sono convergenti. Un dollaro che si svaluta comporterebbe perdite in termini capitale delle immense riserve possedute. Ed i cinesi non sono disposti a subirle. Ma la congiuntura può cambiare. E comunque questo condizionamento pesa negli equilibri di potere e nella politica estera di tutto l’occidente. Tanto più che, già nella crisi, il ritmo di crescita cinese, seppur rallentato, resta comunque positivo. Mentre l’Occidente conta le perdite e si lecca le ferite. Ma è ancora il terreno finanziario quello più scivoloso. Si calcola che il debito pubblico, nei prossimi 5 anni, crescerà nei primi 10 paesi del G20, fino al 110 per cento del Pil, con un aumento rispetto al 2007 di circa il 50 per cento. Ipotesi ancora ottimistica, visto che lo scenario più negativo non esclude che si tocchi il tetto del 140 per cento. Negli altri paesi – Cina in testa – il debito pubblico è invece destinato a scendere, collocandosi poco sopra il 30 per cento del Pil. Tutto ciò potrà restare senza conseguenze? È difficile crederlo. La Cina, per parafrasare un vecchio film di Marco Bellocchio, sembra essere sempre più vicina. E, aggiungiamo noi: incombente.
Riprendono gli scontri
Continua la caccia allo uighuro URUMQI. La guerriglia urbana è esplosa ieri pomeriggio a Urumqi, la capitale del Xinjiang, dove cinesi han cercano vendetta per gli incidenti di domenica scorsa, che secondo le cifre ufficiali hanno fatto 156 morti di origine non specificata. Armati di bastoni e barre di ferro, a migliaia gli han sono scesi in strada nel centro della città per una caccia allo uiguro. «Cittadini han unitevi» gridano marciando dalla Via del Popolo e la Via della Chiarezza verso via della Liberazione. Secondo i testimoni, intorno alle 16 gruppi di han hanno forzato le barricate della polizia e iniziato a distruggere i pochi negozi gestiti da uiguri nel centro della città. La polizia ha risposto con il lancio di lacrimogeni per disperdere i manifestanti. La rabbia degli han è rivolta contro quelli che chiamano «una minoranza di banditi separatisti», guidati dall’estero con l’intento di attentare all’ordine sociale. «Siete voi che li sostenete. Questi sono affari dei cinesi, cosa ci fate voi qui? Se non ci foste voi i separatisti non avrebbero forza» grida la folla ai giornalisti stranieri. La circolazione è bloccata, le strade del centro intorno alla Piazza del Popolo sono bloccate da catene di forze armate speciali della polizia e dell’esercito. Le forze dell’ordine cercano di impedire che gli han irrompano nei quartieri musulmani in cui si concentrano gli uiguri. «Abbiate fiducia in noi, non impedite il nostro lavoro, stiamo già arrestando i banditi. Tornate indietro e difendete le vostre case» spiega un militare a un gruppo di giovani che cerca di avanzare verso la zona uigura. «I nostri negozi sono già stati distrutti, che cosa dobbiamo aspettare, che ci siano ancora più morti?» rispondono i ragazzi ansiosi di farsi giustizia da soli. Davanti ai magazzini Wangfujing, dove intorno alle 14 i clienti sono corsi via raccontando di un’irruzione di «banditi», gli impiegati degli uffici intorno raccontano di essere stati avvertiti di prepararsi alla battaglia. Secondo i presenti dopo l’esplosione della violenza di domenica, era tornata la calma in città, ma ieri i conflitti etnici sono ricominciati.
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Reset. Per lo storico del Cremlino, la teoria di un “pulsante” che possa far ripartire da zero le relazioni è un’illusione
Obama, non fidarti di Mosca Il taglio degli arsenali nucleari è l’unico obiettivo condiviso con i russi Dall’Iran al controllo sui Paesi dell’ex impero sovietico la rottura è totale di Leon Aron a metafora di un “pulsante reset” nelle relazioni tra Stati Uniti e Russia, termine coniato dal vicepresidente Joe Biden e quindi fatto proprio dal Segretario di Stato Hillary Clinton, simboleggia il desiderio dell’attuale Amministrazione di guadagnarsi il sostegno di Mosca su questioni di grande importanza. L’evoluzione del comportamento russo nel quarto di secolo appena trascorso e in special modo negli ultimi otto anni costituisce un’evidente riprova del fatto che l’ideologia del Cremlino e i suoi obiettivi di politica interna hanno un’importanza cruciale per le principali direttrici della politica estera russa e possono imporre significativi limiti e persino capovolgimenti dei punti programmatici che quel “pulsante reset” metterebbe in moto. Le definizioni di interessi nazionali (e, di riflesso, di politiche estere e di sicurezza atte a difenderli e promuoverli) vengono generalmente plasmate dalle visioni dei leader sullo stile di vita che la propria nazione dovrebbe condurre; da memorie di umiliazioni e trionfi passati; dalla paura e dall’orgoglio, dalla rabbia e dal pregiudizio; e in ultimo da considerazioni di legittimità e popolarità, in sintesi, dai valori e dalle necessità di politica interna. Ciò è vero per qualsiasi nazione, tuttavia l’Unione Sovietica e la Russia dell’ultimo quarto di secolo forniscono un esempio particolarmente crudo di una grande potenza i cui obiettivi e la cui condotta in politica estera costituiscono una diretta emanazione della sua evoluzione interna tanto ideologica quanto politica. Nel 1985, quando Mikhail Gorbaciov salì al potere, tutti gli elementi chiave del panorama geopolitico e di sicurezza nazionale dell’Unione Sovietica erano gli stessi del 1983-84, sotto la guida prima di Andropov e quindi di Cernenko. Tuttavia, nel giro di pochi anni, un’attenta revisione ideologica e un’ondata di liberalizzazioni interne
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Ma Barack cerca la nuova Russia È davvero quella di Medvedev? di Enrico Singer segue dalla prima Quando Putin ha sentito dal suo interprete la parola uvazhenje, così si dice rispetto in russo, ha fatto un cenno di approvazione con la tesa. Ma non si è sbilanciato più del dovuto: «I rapporti tra Mosca e Washington hanno avuto alti e bassi, confido adesso il lei per arrivare a relazioni migliori», ha risposto l’uomo forte della Russia di oggi. Come dire che è la politica americana che deve cambiare se davvero la Casa Bianca vuole resettare i suoi rapporti con Mosca. E questo è il motivo dominante della logica putiniana: la ragione sta a Mosca, sono gli altri che sbagliano e devono riconoscere i loro errori.
Obama ha cercato di allentare la tensione. Dopo la stretta di mano di fronte ai fotografi ha anche accennato a una pacca sulla spalla di Putin, ma poi ha cambiato idea e ha ritirato la mano. Ha, però, pubblicamente corretto la gaffe che aveva fatto durante la conferenza stampa con Medvedev, quando aveva definito
Putin presidente, anziché premier. «Sono consapevole del lavoro straordinario che lei ha fatto nel nome del popolo russo, prima come presidente, ora come primo ministro». Vladimir Putin, naturalmente, ha incasato questi riconoscimenti di stima, ma non ha scordato che Barack Obama lo aveva descritto come un «uomo del passato» e aveva detto che Medvedev «è l’interlocutore con cui m’interessa parlare». Così ha voluto far capire che la doppia leadership del Cremlino è un tandem che funziona e che al manubrio, comunque, c’è lui. Per questo si è riservato l’ultimo incontro politico con Obama e si è tolto anche la soddisfazione di riceverlo nella sua dacia. Non solo, quando il colloquio è entrato nel vivo dei temi,
Putin ha affrontato quelli sui quali Mosca attende impegni concreti: la crisi finanziaria globale, il rilancio dei rapporti economici con gli Usa, l’ingresso della Russia nell’Organizzazione mondiale del commercio.
I russi sono maestri nell’arte delle formule della ripartizione del potere. L’Urss era l’impero delle troike inaugurate già in era staliniana, ma lo scettro era sempre in una sola mano. Anche se era conteso da tutte le altre. È molto probabile, anzi è praticamente sicuro, che anche la diarchia Putin-Medvedev sia un connubio ormai in difficoltà. Ma è altrettanto chiaro che Putin ha il controllo di leve essenziali, a partire dai servizi segreti (il 25 luglio 1998 Boris Eltsin lo nominò capo del Fsb, l’agenzia che prese il posto del Kgb, ruolo che Putin ha occupato fino all’agosto del 1999), oltre alle forze armate (Medvedev non ha nemmeno fatto il servizio militare) e al partito Russia Unita che possiede il tesoro di voti che ha consensentito l’elezione di Dmitri Medvedev. È comprensibile che Obama punti su un rafforzamento del giovane presidente tecnocrate e aperturista. Ma sarebbe semplicistico ridurre la strategia della Casa Bianca a una scommessa su due cavalli. Parlando agli studenti della Nuova scuola economica di Mosca (voluta proprio da Putin) Obama ha detto che è la Russia che deve cambiare. Che l’America «desidera una Russia forte, prospera e pacifica», che nel XX secolo «alcuni pensavano che Stati Uniti e Russia fossero destinati a essere antagonisti e nel XIX secolo alcuni pensavano che fossero destinati a lottare per creare sfere d’influenza e blocchi. Entrambi questi punti di vista si sono rivelati sbagliati». Costruire una nuova era, insomma. Con il riconoscimento dell’eredità culturale russa - «scrittori come Pushkin ci hanno aiutato a capire la complessità dell’esperienza umana e a riconoscre le verità eterne» - ma senza troppi compromessi. Né sullo scudo anti-missile in Europa «che resta una necessità fino a che ci sarà la minaccia nucleare iraniana e della Corea del Nord» e che non è puntato contro la Russia, né sul rispetto dell’indipendenza della Georgia e dell’Ucraina, le due Repubbliche ex sovietiche che hanno chiesto di aderire alla Nato, perché «la sovranità degli Stati è la pietra angolare dell’ordine mondiale». Anche Barack Obama, insomma, non si è limitato a celebrare l’amicizia e i risultati ottenuti con l’accordo - del resto ampiamente prevedibile - sulla riduzione degli arsenali nucleari. E dai giovani è stato applaudito dall’inzio alla fine.
hanno portato ad accordi senza precedenti sugli armamenti nucleari e convenzionali, sulla dissoluzione del Patto di Varsavia, sullo smantellamento dell’impero centro-orientale e sul sostegno alla coalizione capeggiata dagli Stati Uniti nella Guerra del Golfo del 1991. Tra l’inizio del 2000 e l’autunno del 2003, il Cremino a guida Putin continuò sulla strada delle politiche intraprese negli anni ’90, proseguendo pertanto con la privatizzazione dell’economia. Ma nonostante il sostegno assicurato agli Usa all’indomani dell’11 settembre, da allora il quadro cominciò a mutare grazie a una spavalda centralizzazione della politica e dell’economia del Paese. Per passare in meno di cinque anni dalla strage di Beslan all’invasione dellla Georgia, dalla minaccia di tagliare il gas all’Europa, all’imbavagliamento della stampa e all’appoggio ad Ahmadinejad.
La Russia è indubbiamente sincera quando afferma di ritenere assolutamente preoccupante la prospettiva di un Iran dotato di armamenti nucleari. Tuttavia, nel calcolo strategico del Cremlino, i benefici di una contrapposizione con gli Stati Uniti sulla questione iraniana hanno avuto più peso della preoccupazione stessa, rendendo improbabili i progressi su una questione di così vitale importanza per gli Stati Uniti. Quantunque gravido di rischi, lo status quo appare la prima priorità negli interessi nazionali della Russia. Innanzitutto, l’Iran fornisce a Mosca l’opportunità di ritornare come attore principale in un’area di vitale importanza in cui un’agguerrita competizione vedeva contrapposti Unione Sovietica e Stati Uniti. Utilizzando le parole di un esperto cremlinologo, l’Iran consegna a Mosca «un’imperdibile opportunità di ritornare sulla scena mondiale una volta ancora in qualità di superpotenza globale. Se la Russia conferma il suo appoggio all’Iran, essa riguadagnerà prestigio nel mondo musulmano e nessuna vantaggiosa proposta da parte statunitense potrà modificare questa situazione da un punto di vista strategico». Anche i benefici economici, quantunque secondari rispetto a quelli geopolitici, risultano significativi. Sebbene il
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no, la qual cosa è andata in ogni epoca e sotto ogni regime - sovietico o post-sovietico - a vantaggio di chi detiene il comando. La tentazione sarà ancora più forte ora che il regime deve fronteggiare le conseguenze della crisi globale. E tale semplice constatazione fa sollevare dubbi circa la chiusura dei negoziati per la fine dell’anno, come stabilito nell’incontro londinese tra Obama e Medvedev lo scorso aprile.
A fianco, il presidente degli Stati Uniti d’America Barack Obama insieme con Vladimir Putin. Il taglio degli arsenali nucleari è l’unico obiettivo condiviso, ma la rottura rimane pressoché totale circa l’Iran e sui Paesi dell’ex impero sovietico. Nella pagina a fianco, Vladimir Putin
In realtà Putin non vuole aiutare Washington nella crisi iraniana e nella guerra in Afghanistan perché preferisce che gli Stati Uniti siano deboli prezzo del petrolio sui mercati mondiali sia in gran parte determinato dall’incrocio tra domanda e offerta, l’annuncio da parte delle compagnie petrolifere di possibili tagli alle forniture rappresenta un fattore di estrema importanza. Al contrario, un Iran che abbandona il proprio programma nucleare e viene ricompensato con la sospensione delle sanzioni e la fine dell’isolamento priverebbe la Russia di un’essenziale strumento di influenza nel mondo, in special modo nel Medioriente. Le considerazioni di carattere economico risultano ancor più pertinenti nel caso del gas naturale, di cui l’Iran possiede le seconde più grandi riserve mondiali.
C’è poi l’Afghanistan. La reazione di Mosca alla guerra in Afghanistan, episodio centrale nella guerra statunitense al terrorismo, riflette l’ambiguità degli interessi strategici coltivati nella regione dalla
diarchia Putin-Medvedev. Da un lato, l’Afghanistan è un problema sulla “agenda del pulsante” che Mosca ritiene indubbiamente essenziale per la tutela della propria sicurezza nazionale. Una vittoria dei Talebani in Afghanistan comporterebbe inevitabilmente un brusco aumento del fondamentalismo islamico nell’Asia centrale e nel Caucaso settentrionale e farebbe rivivere l’incubo dell’anarchia e del terrore che i russi associano con la Cecenia degli anni ’90. Allo stesso tempo, osservando gli affari mondiali attraverso lenti a somma zero, una decisiva vittoria della coalizione Nato guidata dagli Stati Uniti in Afghanistan rappresenterebbe per il Cremlino una perdita netta, la qual cosa comporterebbe un’esaltazione del prestigio e dell’influenza statunitensi nell’Asia centrale e, nella peggiore delle ipotesi per Mosca, l’inizio di un discostamento strategico della regione da Mosca.
E che dire del negoziato sugli armamenti? Siglato nel 1991 a Mosca dai presidenti George Bush e Mikhail Gorbaciov dopo quasi dieci anni di trattative, il Trattato sulla Riduzione degli Armamenti Strategici (Sart I) imponeva ad entrambi i firmatari una riduzione delle proprie testate nucleari a 6mila unità dislocate su missili intercontinentali di terra, sottomarini e bombardieri strategici. Il Trattato per la Riduzione delle Offese Strategiche (Sort), firmato dai presidenti George W. Bush e Vladimir Putin a Mosca nel 2002, impegna entrambi i contraenti a ridurre ulteriormente i rispettivi arsenali strategici, tra le 2.200 e le 1.700 testate, entro il 2012. Dei temi della “agenda del pulsante”, questo è l’unico salutato a Mosca con genuino entusiasmo, in quanto costituisce un rarissimo esempio di vera parità con gli Stati Uniti. Tra i principali esperti russi di questioni militari e di politica estera è opinione condivisa che il controllo degli armamenti sia il “solo ambito”in cui Mosca possa dirsi certa di una parità con Washington e, per tale ragione, rappresenta un elemento «estremamente importante dal punto di vista psicologico».Tut-
Come le relazioni Usa-Urss prima ed Usa-Russia poi dell’ultimo quarto di secolo dimostrano senza ombra di dubbio, la sostanza e l’ampiezza del riavvicinamento tra Stati Uniti e Russia dipende anzitutto dai connotati ideologici del regime del Cremlino e dalla sua visione degli interessi della nazione. Da ciò che sappiamo oggi circa l’evoluzione, i valori e la visione strategica del regime, così come il contesto interno in cui si definisce la politica estera russa, le prospettive per i punti sulla cosiddetta “agenda del pulsante” saranno tutt’al più mescolati. Il controllo degli armamenti è la scommessa più redditizia ma, in presenza di sostanziali posizioni divergenti, potrebbe esso stesso divenire ostaggio di altri, più vasti interessi da ambo le parti. Anche sull’Afghanistan la Russia appare incline a fornire aiuto, ma solo entro limiti ben definiti. Al momento dunque, un cartoncino segnapunti che stimasse le possibilità di successo apparirebbe così, con 1 ad indicare esito positivo e 0 l’assenza di sostanziali progressi: Iran 0; Afghanistan 0,5; controllo degli armamenti strategici 0,7; stati post-sovietici 0.
tavia, la stessa smodata passione per la parità con l’America che conferisce ai negoziati per il rinnovo dello Start probabilità di successo ancora maggiori rispetto ad altri accordi bilaterali, assicura che i negoziati non saranno né agevoli né tantomeno di breve durata. Innanzitutto, il Cremlino si dimostrerà tentato dalla prospettiva di dilazionare tale rara dimostrazione di equilibrio prolungando i negoziati per motivi di prestigio politico a livello inter-
Qualsiasi obiettivo più ambizioso - un significativo riavvicinamento, un intensificarsi della cooperazione, o persino nuovi rapporti di partenariato - sono vincolati ad un’evoluzione ideologica e politica di Mosca. Sino ad allora, quanto di meglio possiamo auspicare sarà rappresentato da una limitata “distensione” stile anni ’70. Dato che le aspettative informate da un sano realismo costituiscono il miglior antidoto contro le delusioni ed i bruschi mutamenti che queste producono, potrebbe essere d’aiuto per la Casa Bianca il tenere a mente questo parallelismo. E soprattutto, vale la pena di ricordarlo, ora che il summit di Obama a Mosca (non importa quanto affascinanti siano le parole utilizzate, quanto ragionevoli siano le proposte messe sul tavolo, e quanto affascinante sia il messaggero) è terminato, bisogna tenere a mente una cosa: tra il “pulsante Reset” delle intenzioni statunitensi e l’orso carico di ambizioni ed imperativi di politica interna che forgiano la politica estera russa, l’orso vince sempre.
diario
pagina 10 • 8 luglio 2009
Per la prima volta in Italia il gruppo satellitare guadagna più delle reti di Berlusconi. In testa rimane la Rai
Ha vinto Murdoch. Sky supera Mediaset di Alessandro D’Amato
ROMA. Il punto di svolta è arrivato. Sky sorpassa Mediaset, sul terreno preferito di quest’ultima: i ricavi pubblicitari. La notizia è data in via ufficiale dal presidente dell’Autorità per le garanzie nelle telecomunicazioni, Corrado Calabrò, all’interno della Relazione annuale al Parlamento: «I ricavi per operatore risultano così distribuiti: Rai 2.723 milioni di euro, Sky Italia 2.640 milioni, Rti (Reti televisive italiane, la società cui fa capo Mediaset) 2.531 milioni. La Rai è ancora la principale media company italiana - si legge nella Relazione - con oltre 2,7 miliardi di euro di ricavi anche se in decremento rispetto al 2007 a causa della flessione della pubblicitá (-3,6%). Sky Italia consolida la sua posizione, divenendo addirittura il secondo gruppo televisivo per ricavi. Il gruppo Mediaset (che scende al terzo posto con un calo della pubblicità dello 0,3%) vede il rafforzamento della propria offerta a pagamento sulla piattaforma digitale terrestre (passando da 125 a 199 milioni di euro». Insomma, per l’Agcom il mercato della pubblicità in Italia è una struttura caratterizzata dalla presenza ormai comparabile di tre soggetti, con una posizione simmetrica in termini di ricavi complessivi del settore. «Con una posizione simmetrica in termini di
ricavi complessivi del settore televisivo: Mediaset è leader nella pubblicità e nuovo concorrente nelle offerte a pagamento; Sky è di gran lunga leader nella pay tv e nuovo concorrente nella pubblicità; mentre la Rai mantiene le classiche posizioni attraverso una quota di rilievo nella pubblicità e prelevando le risorse residue del canone». Più in generale, aggiunge il garante, «il fatturato pubblicitario si è contratto portando la quota al 46,4% del totale, mentre, seguendo la tendenza mondiale, è sensibilmente aumentata la componente a pagamento (+12%)». E il motivo della crescita, secondo Calabrò, risiede anche nell’affermarsi della tecnologia: la piattaforma digitale satellitare e quella terrestre stanno influenzando il mercato e ampliando la possibilità di scelta per il telespettatore. Con effetti anche sulla redistribuzione degli ascolti, testimoniati dalla contrazione di nove punti percentuali a partire dal 2000, cioè di un punto all’anno dei canali generalisti analogici terrestri. E con un coté politico che è difficile non sottolineare: da questi numeri si potrebbe facilmente desumere una spiegazione degli attacchi del premier Silvio Berlusconi all’ex grande amico Rupert Murdoch, al quale aveva accarezzato l’idea di vendere Mediaset solo pochi anni fa. Oggi il presi-
dente del Consiglio quindi potrebbe vedere più che altro intaccata la sua leadership imprenditoriale in un mercato, quello televisivo privato, che lui ha creato dal nulla nell’Italia di Antenna Selvaggia, e che ha portato Mediaset ad essere una delle aziende più grandi del Paese. «Ecco perché Silvio batteva così tanto sulla pubblicità da non vendere ai concorrenti», dice un po’ scherzando e un po’ no un parlamentare dell’opposizione dopo la relazione.
La tv pubblica accumula ricavi per 2.723 milioni di euro; Sky Italia sale a 2.640 milioni mentre RTI è fermo a 2.531 milioni Ma c’è anche da dire che la reazione del presidente di Mediaset, Fedele Confalonieri, non è stata esattamente disperata: «Prendiamo atto del sorpasso dei nostri concorrenti. Ma l’importante – ha aggiunto rispondendo alle domande dei cronisti - è la bottom line, fare gli utili. E dire che ci davano del monopolista...». Insomma, Confalonieri fa giustamente notare che il punto non sono i
ricavi complessivi di un’azienda, ma quanto questi sono alti rispetto ai costi dell’azienda stessa. E il primo bilancio in attivo, per la tv satellitare, è piuttosto recente: il 2007, con un fatturato di 2,3 miliardi, e dopo sedici anni di perdite sia per le “vecchie” Stream e Tele + che per la corazzata di Murdoch. Nello stesso anno, il Biscione ha fatturato 4 miliardi di euro con 506 milioni di euro di utile netto. È importante anche sottolineare la frase di chiusura di Confalonieri: con lo scavalcamento di Sky, viene meno – o traballa fortemente – l’argomento che vorrebbe Mediaset “padrona” del mercato pubblicitario in Italia, soprattutto quando il suo past president è premier. E di sicuro ci sarà occasione di ricordarlo ogni volta che si porrà l’esigenza o arriverà la richiesta di provvedimenti legislativi in quel mercato. Nella sua relazione, Calabrò ha posto l’accento anche sul mercato telefonico. Ricordando la necessità di ammodernare la rete di trasmissione, per adeguarla alle esigenze degli operatori. Per l’authority, «è netta nella telefonia fissa la diminuzione del potere di mercato di Telecom Italia che nel complesso del settore scende dal 78% del 2005 al 66% del 2008. Nel mercato dell’accesso la diminuzione è di 14 punti percentuali negli ultimi quattro anni, nella larga banda la quota di mercato dell’ex mo-
nopolista è scesa dal 74% del 2005 al 58,7% di aprile 2009. E gli operatori concorrenti - si legge nella Relazione - si affermano con le proprie offerte, anche grazie agli strumenti messi in campo dall’Autorità; tra tutti l’unbundling dove abbiamo quasi raggiunto i 4 milioni di linee attive, valore che in Europa è secondo soltanto a quello tedesco».
Ma per superare il digital divide, come previsto dal piano Romani, «un altro passo deve compiere il sistema, quello verso l’ultrabanda, ossia le fibre ottiche, che presentano un incomparabile valore prospettico. I due tipi di interventi, lungi dall’essere sostitutivi, sono complementari». Secondo Calabrò «giustamente Francesco Caio nel suo rapporto del giugno di quest’anno avverte che potrebbe verificarsi il rischio di accorgersi troppo tardi che l’infrastruttura non è sufficiente a fronteggiare la domanda». Per l’Autorità «non c’è dubbio che la spallata può venire solo dagli operatori di telecomunicazione». Perché l’avvento della fibra ottica «non è rinviabile» e per raggiungere l’obiettivo la via più praticabile è quella di dare vita a «una società veicolo formata da un nucleo forte di partner industriali con un mix di capacità imprenditoriali per sviluppare il progetto». E sicuramente, con l’aiuto dello Stato.
diario
8 luglio 2009 • pagina 11
Il candidato al vertice Pd sceglie un blog per fare campagna
Oltre diecimila persone alle esequie delle vittime
Bersani: «Non voglio il Pci, voglio una bocciofila»
Napolitano ai funerali di Viareggio: «Chiarezza!»
ROMA. «Io non voglio il Pci, ma un’associazione che funzioni. Voglio fare l’Avis, o una bocciofila in cui ci sono delle regole, non è che puoi fare come vuoi». Pierluigi Bersani, durante la video-intervista web con il popolare blogger Diego Bianchi (Zoro), ha spiegato la sua idea di partito. «Se stai in una associazione – ha detto - devi anche accettare alcune auto-limitazioni, serve un minimo di disciplina e meccanismi che garantiscano la partecipazione anche al di fuori di te. Finora noi ce ne siamo dimenticati». Bersani non accetta che questa concezione sia bollata come «vecchia, io sono per le primarie, per un partito moderno, ma non posso accettare che la nostra politica sia affidata ad una galassia che non ha una incisività reale». «Non è che perché si temono i signori delle tessere, non si debba fare più il tesseramento. Se la parola “tessera” diventa impronunciabile, ma che razza di partito è?». Per Pierluigi Bersani servono le tessere, basta con l’idea di «partito liquido, che poi ci facciamo una bella bevuta e arrivederci e grazie...». Quanto ai grandi temi, Bersani ha detto che «sulla laicità e non solo abbiamo perso un botto di voti perché su certi argomenti ogni passaggio e scelta è stato preso come il venir meno di
VIAREGGIO. Oltre 10 mila persone hanno partecipato alle esequie di 15 delle 22 vittime della strage di Viareggio (le altre 7 sono state trasportate in Marocco). Cittadini, amici e parenti delle persone che hanno perso la vita a causa del tragico incidente avvenuto in stazione hanno riempito lo stadio Dei Pini, tributando un lungo applauso all’ingresso delle bare. Ai funerali erano presenti il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, i presidenti di Camera e Senato, Renato Schifani e Gianfranco Fini, e l’imam di Viareggio, Wahid el Fihri. E proprio Napolitano, dopo la cerimonia, ha ribadito che «bisogna fare chiarezza per accertare le responsabilità». Durante l’omelia, l’arcivescovo di
La Sicilia bloccata di «Arraffaele» Lombardo La regione sembra ormai consegnata all’immobilismo di Alfonso Lo Sardo
PALERMO. La manovra di Palazzo che ha portato all’azzeramento della giunta regionale in Sicilia e alla formazione di un nuovo governo Lombardo-bis sembrerebbe rispondere a un’idea trasformistica della politica e all’assoluto dispregio della volontà popolare. Lombardo è l’ideatore di questa strategia insieme al duo Dell’Utri-Miccichè, mente e braccio della minoranza Pdl in Sicilia che ha avuto il sopravvento sull’ala maggioritaria di Alfano-Schifani-Castiglione. La complicità di una parte del Pd, in particolare quella di Lumia, in questa manovra è evidente e consegna la Sicilia a un immobilismo amministrativo che è la cifra di questo governo al primo anno della sua vita.
Uno tra i primi a intravedere gli strani movimenti dell’accoppiata Miccichè-Lombardo è stato Saverio Romano, segretario Udc in Sicilia quando, dopo aver rifiutato la proposta di Lombardo per un governo insieme al Pd e a parte del Pdl, pensò che nell’azione del Governatore non vi fosse alcuna priorità per il bene della Sicilia e dei siciliani ma soltanto un desiderio di perpetuazione del proprio consenso, realizzato con la sistematica occupazione dei posti chiave dell’amministrazione pubblica a tutto vantaggio di amici, colletti bianchi e dirigenti del Movimento per l’Autonomia e che ha spinto alcuni deputati regionali ex An ad affibbiargli l’appellativo di «Arraffaele». «Lombardo – commentò allora Romano – si comporta più da capopartito che da presidente di tutti i siciliani ed è mosso da una furia sostitutrice che lo porta a far sedere i propri uomini nelle poltrone che contano e a disinteressarsi della disoccupazione crescente, del blocco della spesa comunitaria, dell’emergenza rifiuti, di una politica delle infrastrutture e di sostegno alle piccole e medie imprese ed alle famiglie in grado di promuovere lo sviluppo e di contrastare la crisi». La nuova giunta si caratterizza oggi solo per l’assenza dell’Udc e non può che essere letta, come ripete ancora Saverio Romano,
«come il primo ribaltone nella storia del maggioritario nel nostro Paese, ad opera di Lombardo con la complicità di Berlusconi». Ma qual è oggi la situazione politica in Sicilia? Si registrano spaccature cocenti nel Popolo della libertà e nel Partito democratico, e si tratta di divisioni nei partiti che Lombardo stesso incoraggia per governare con pezzi di essi. Ed è proprio quello che è successo nel Pdl e nel Pd: nel primo caso si è consumata una guerra interna tra il coordinatore regionale Castiglione e Lombardo, con la sconfitta del primo, inchinatosi appena in tempo utile a Berlusconi, e con il trionfo del secondo che riesce, almeno per il momento a restare in sella nonostante le contraddizioni di un governo che non ha un programma. Il Pd vive anch’esso una profonda divisione, con la corrente del segretario uscente Genovese - che propugna un’opposizione che non faccia l’amore con il governo un giorno sì e l’altro pure e che mira ad un’azione coordinata con l’Udc – in lotta con quella di Antonello Cracolici, che non disdegna la possibilità di accordi con il governo al quale ha già garantito nel recente passato appoggio esterno. Ad arricchire il panorama il dibattito sull’opportunità di un partito del Sud che, una volta costituito, dovrebbe fare da contraltare all’egemonia della Lega in campo nazionale.
Continuano a non sanarsi le spaccature interne a Pd e Pdl. Divisioni che oggi il Governatore stesso incoraggerebbe
un’identità. Laico non vuol dire banalizzare fedi e convinzioni, che sono un patrimonio, ma vanno separate dall’autonomia della politica».
E la sfida con Franceschini e Marino per la segreteria? «Spero di vincere - afferma Bersani - perché penso di avere in testa qualcosa che può essere utile, non mi sono mai mosso per esigenze mie, penso che questa sia un’occasione per darci una linea che si capisce, perciò conto di vincere, lavoro per vincere». Oggi, proseguendo la sua campagna elettorale, Bersani incontrerà il minsitro Tremonti, per presentare a Roma il libro di Enrico Letta, Costruire una cattedrale.
Ma chi lo vuole questo partito del Sud in Sicilia? Sicuramente Miccichè, che ne parla disinteressandosi del Parere di Berlusconi e il suo dante causa Dell’Utri, ma anche Antonello Cracolici che ha battezzato Demos, una associazione culturale che dovrebbe rispolverare la questione meridionale e altre forze sociali ed economiche più o meno occulte e lo stesso Lombardo. Verrebbe da chiedersi cosa ha fatto il Movimento per l’Autonomia per la Sicilia per il bene della Sicilia se non votare il federalismo fiscale che danneggia proprio il Meridione e avallare la mancata assegnazione dei Fondi Fas alla Sicilia, con grave danno per gli investimenti e per lo sviluppo.
Lucca, monsignor Italo Castellani, ha affermato che «il fuoco che ha distrutto tutto nella tragica notte della strage di Viareggio è sembrato il visibile di un non-senso, di un negativo assoluto che tutto fagocita e tutto distrugge, alimentato certamente non solo dal caso e dalla fatalità». E se la storia dell’uomo «ha conosciuto e continua a conoscere violenze, ingiustizie, tragedie umane e disastri ecologici», secondo il vescovo «c’è da interrogarsi sul “modo di vivere”, per certi aspetti violenti o ad ogni modo che mettono a rischio la vita stessa, a cui concorriamo tutti, con i nostri stili di vita personali e collettivi».
Quasi lanciando un appello, monsignor Castellani, che ha ricordato anche le parole del Papa, «simili incidenti non abbiano a ripetersi», ha sottolineato come «è da tempo venuto il momento che il nostro territorio, la nostra Terra, con il contributo e la responsabilità di tutti, nessuno escluso, diventi come Dio l’ha voluta, ’Madre sicura’, terra sicura, proprio convertendo gli stili di vita personali e collettivi». Al termine dell’omelia funebre, l’arcivescovo di Lucca ha invitato tutti i cittadini a guardare al futuro: «Viareggio risorgi, risorgi più bella», ha concluso.
l’enciclica
pagina 12 • 8 luglio 2009
La terza enciclica di Benedetto XVI: sviluppo, un giusto utilizzo della finanza, e la dottrina sociale sono strumenti neutri che solo l’uomo può volgere al bene o al
«È l’ora del capita necessario oggi più che mai riaffermare l’etica per fare da contraltare alla globalizzazione, che segna questi nostri tempi: essa è l’unica «capace di correggerne le disfunzioni». La finanza, il mercato, i rapporti internazionali e quelli interni a ogni singolo Paese, il rispetto dei diritti, da quello alla vita a quelli di chi lavora, l’uso e il non abuso della natura, in una parola lo sviluppo umano, per essere integrale, ossia per riguardare l’intero della persona umana, hanno bisogno della «carità nella verità». «L’economia ha bisogno dell’etica per il suo corretto funzionamento; non di un’etica qualsiasi bensì di un’etica amica della persona». È quanto afferma la Caritas in Veritate, terza Enciclica di Benedetto XVI, resa pubblica ieri e dedicata alle diverse facce del tema dello sviluppo, a 40 anni dalla Populorum Progressio, la grande Enciclica di Paolo VI. Indirizzata «ai vescovi, ai presbiteri e ai diaconi, alle persone consacrate, ai fedeli laici e a tutti gli uomini di buona volontà», l’enciclica, di 127 pagine, comincia con l’affermazione che «la carità nella verità, di cui Gesù Cristo s’è fatto testimone» è «la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera». Il binomio è indivisibile, «la verità è luce che dà senso e valore alla carità» e «senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo. L’amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente. È il fatale rischio dell’amore in una cultura senza verità» (n. 3). E «un Cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva
È
di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali. In questo modo non ci sarebbe più un vero e proprio posto per Dio nel mondo» (n. 4). «Caritas in veritate», è «principio intorno a cui ruota la dottrina sociale della Chiesa», della quale Benedetto XVI sottolinea in particolare due aspetti, la giustizia e il bene comune. (n. 7).
LO SVILUPPO UMANO «Lo sviluppo economico che auspicava Paolo VI doveva essere tale da produrre una crescita reale, estensibile a tutti e concretamente sostenibile. È vero che lo sviluppo c’è stato e continua ad essere un fattore positivo che ha tolto dalla miseria miliardi di persone», ma «va riconosciuto che lo stesso sviluppo economico è stato e continua ad essere gravato da distorsioni e drammatici problemi, messi ancora più in risalto dall’attuale situazione di crisi».Tali sono l’attività finanziaria «per lo più speculativa», i flussi migratori «spesso solo provocati» e poi mal gestiti e, ancora, «lo sfruttamento sregolato delle risorse della terra». «La complessità e gravità dell’attuale situazione economica» deve far «assumere con realismo, fiducia e speranza le nuove responsabilità a cui ci chiama lo scenario di un mondo che ha bisogno di un profondo rinnovamento culturale e della riscoperta di valori di fondo su cui costruire un futuro migliore. La crisi ci obbliga a riprogettare il nostro cammino» (n. 21). Oggi, lo sviluppo è «policentrico». «Cresce la ricchezza mondiale in termini assoluti, ma aumentano le disparità» e nascono nuove povertà, continua «lo scandalo di disuguaglianze clamorose». «La corruzione e l’illegalità sono purtroppo presenti sia nel comportamento di soggetti economici e politici dei Paesi ricchi, vecchi e nuovi, sia negli stessi Paesi poveri. A non rispettare i diritti umani dei lavoratori sono a volte grandi imprese transnazionali e anche gruppi di produzione locale» (n. 22). «Gli aiuti internazionali sono stati spesso distolti dalle loro finalità, per irresponsabilità» dei donatori e dei fruitori, mentre «ci sono forme eccessive di protezione della conoscenza da parte dei Paesi ricchi, mediante un utilizzo troppo rigido del diritto di proprietà intellettuale, specialmente nel campo sanitario» (n. 22). La globalizzazione sta avendo effetti anche sul piano culturale, facilitando le possibilità di interazione tra le culture. A conclusione di questo esame, il Papa scrive che «le grandi novità, che il quadro
L’economia ha bisogno dell’etica per il suo corretto funzionamento; non di un’etica qualsiasi ma di un’etica amica della persona. Caritas in veritate è principio intorno a cui ruota la dottrina sociale dello sviluppo dei popoli oggi presenta, pongono in molti casi l’esigenza di soluzioni nuove». Occorre che le scelte economiche mirino «a perseguire quale priorità l’obiettivo dell’accesso al lavoro» per tutti.
FRATERNITÀ E SOCIETÀ La realtà mostra che «la convinzione della esigenza di autonomia dell’economia, che non deve accettare ‘influenze’di carattere morale, ha spinto l’uomo ad abusare dello strumento economico in modo persino distruttivo. A lungo andare, queste convinzioni hanno portato a sistemi economici, sociali e politici che hanno conculcato la libertà della persona e dei corpi sociali e che, proprio per questo, non sono stati in grado di assicurare la giustizia che promettevano» (n. 34). Lo sviluppo invece, «se vuole essere autenticamente umano», deve «fare spazio al principio di gratuità». Ciò vale anche per il mercato che, «lasciato al solo principio dell’equivalenza di valore dei beni scambiati, non riesce a produrre quella coesione sociale di cui pure ha bisogno per ben funzionare» (n. 34). La « logica mercantile», così, «va finalizzata al perseguimento del bene comune, di cui deve farsi carico anche e soprattutto la comunità politica. Pertanto, va tenuto presente che è causa di gravi scompensi separare l’agire economico, a cui spetterebbe solo produrre ricchezza, da quello politico, a cui spetterebbe di perseguire la giustizia mediante la ridistribuzione» (n. 36). Il principio di gratuità e la logica del dono «possono e devono trovare posto entro la normale attività economica» (n. 36).
DIRITTI, DOVERI E AMBIENTE Molte persone, oggi, «ritengono di essere titolari solo di diritti e incontrano spesso forti ostacoli a maturare una responsabilità per il proprio e l’altrui sviluppo integrale. Per questo è importante sollecitare una nuova riflessione su come i diritti presuppongano doveri senza i quali si trasformano in arbitrio» (n. 43). A partire dalle problematiche connesse con la crescita demografica. «Si tratta di un aspetto molto importante del vero sviluppo, perché concerne i valori irrinunciabili della vita e della famiglia. Considerare l’aumento della popolazione come causa prima del sottosviluppo è scorretto, anche dal punto di vista economico»: basta pensare, da una parte, al prolungamento della vita media che si registra nei Paesi economicamente sviluppati; «dall’altra, ai segni di crisi rilevabili nelle società in cui si registra un preoccupante calo della natalità. Resta ovviamente doveroso prestare la debita attenzione ad una procreazione responsabile» (n. 44). Il tema dello sviluppo è oggi collegato ai doveri del rapporto dell’uomo con la natura. Questa «è stata donata da Dio a tutti, e il suo uso rappresenta per noi una responsabilità verso i poveri, le generazioni future e l’umanità intera» (n. 48). Vale anche per le problematiche energetiche: «l’accaparramento delle risorse energetiche non rinnovabili da parte di alcuni Stati, gruppi di potere e imprese costituisce, infatti, un grave impedimento per lo sviluppo dei Paesi poveri». La comunità internazionale deve «trovare le strade istituzionali per disciplinare lo sfruttamento delle risorse non rinnovabili».
l’enciclica
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uso e non abuso della natura. Perché l’economia male e che la Chiesa ha il dovere di indirizzare al meglio
alismo etico» LA COLLABORAZIONE DELLA FAMIGLIA UMANA Lo sviluppo dei popoli, in definitiva «dipende soprattutto dal riconoscimento di essere una sola famiglia». A questo obiettivo il cristianesimo fornisce un aiuto indispensabile, con il concetto di unità del genere umano, composto dai figli di Dio. «Anche altre culture e altre religioni insegnano la fratellanza e la pace e, quindi, sono di grande importanza per lo sviluppo umano integrale. Non mancano, però, atteggiamenti religiosi e culturali in cui non si assume pienamente il principio dell’amore e della verità e si finisce così per frenare il vero sviluppo umano o addirittura per impedirlo» (n. 55). D’altronde la religione cristiana può contribuire allo sviluppo «solo se Dio trova un posto anche nella sfera pubblica». Con «la negazione del diritto a professare pubblicamente la propria religione», la politica «assume un volto opprimente e aggressivo». «Nel laici-
smo e nel fondamentalismo si perde la possibilità di un dialogo fecondo» tra la ragione e la fede. Rottura che «comporta un costo molto gravoso per lo sviluppo dell’umanità». (n. 56)
LO SVILUPPO DEI POPOLI E LA TECNICA «Il problema dello sviluppo oggi strettamente congiunto con il progresso tecnologico, con le sue strabilianti applicazioni in campo biologico». La tecnica «è un fatto profondamente umano, legato all’autonomia e alla libertà dell’uomo. Nella tecnica si esprime e si conferma la signoria dello spirito sulla materia» (n. 69). Lo sviluppo tecnologico, però, «può indurre l’idea dell’autosufficienza della tecnica stessa quando l’uomo, interrogandosi solo sul come, non considera i tanti perché dai quali è spinto ad agire. È per questo che la tecnica assume un volto ambiguo». «Il processo di globalizzazione potrebbe sostituire le ideolo-
gie con la tecnica, divenuta essa stessa un potere ideologico» (n. 70). «Quando prevale l’assolutizzazione della tecnica si realizza una confusione fra fini e mezzi, l’imprenditore considererà come unico criterio d’azione il massimo profitto della produzione; il politico, il consolidamento del potere; lo scienziato, il risultato delle sue scoperte» (n. 72). Connessi con lo sviluppo tecnologico è la «pervasività» dei mezzi di comunicazione sociale, chiamati invece a promuovere «la dignità della persona e dei popoli» (n. 73). «Di fronte a questi drammatici problemi, ragione e fede si aiutano a vicenda. Solo assieme salveranno l’uomo. Attratta dal puro fare tecnico, la ragione senza la fede è destinata a perdersi nell’illusione della propria onnipotenza. La fede senza la ragione, rischia l’estraniamento dalla vita concreta delle persone» (n. 74). Alla fine, «lo sviluppo deve comprendere una crescita spirituale oltre che materiale, perché la
Lo stesso sviluppo economico che ha aiutato il mondo è stato e continua a essere gravato da distorsioni e drammatici problemi, messi ancora più in risalto dall’attuale situazione di crisi persona umana è un’‘unità di anima e corpo’, nata dall’amore creatore di Dio e destinata a vivere eternamente. L’essere umano si sviluppa quando cresce nello spirito, quando la sua anima conosce se stessa e le verità che Dio vi ha germinalmente impresso, quando dialoga con se stesso e con il suo Creatore. Lontano da Dio, l’uomo è inquieto e malato. L’alienazione sociale e psicologica e le tante ne-
vrosi che caratterizzano le società opulente rimandano anche a cause di ordine spirituale. Una società del benessere, materialmente sviluppata, ma opprimente per l’anima, non è di per sé orientata all’autentico sviluppo». «Non ci sono sviluppo plenario e bene comune universale senza il bene spirituale e morale delle persone, considerate nella loro interezza di anima e corpo» (n. 76).
Il professor Paolo Savona analizza i temi lanciati dal pontefice e spiega come leggere la parte relativa alla finanza
«Sono proposte sulle quali il G8 deve pronunciarsi» di Vincenzo Faccioli Pintozzi a Caritas in Veritate invita i cattolici «ad assumersi responsabilità a ogni livello e grado. Dopo l’epopea delle libertà del secolo diciottesimo e delle garanzie sociali del diciannovesimo, la globalizzazione impone una nuova impostazione di vita da parte degli individui e nuove politiche da parte dei governi. Un’epopea delle responsabilità pubblica e privata per saldare libertà e garanzie che altrimenti potrebbero andare perdute». È l’opinione di Paolo Savona, economista di fama internazionale e presidente di Unicredit Banco di Roma, che in un’intervista a liberal analizza alcune delle molte proposte lanciate da Benedetto XVI nel testo e l’impatto che questo avrà nel G8 che si apre oggi a L’Aquila. Professore, come legge i richiami fatti da Benedetto XVI al mondo della finanza e del lavoro nell’Enciclica presentata ieri? Vi sono due possibili letture dei modi in cui il Papa parla del lavoro e della finanza nei paragrafi 64 e 65 dell’Enciclica. Una che resta confinata nel campo della dottrina cattolica e una che si proietta al di là della stessa e si domanda quanto possa incidere nella realtà del mondo. La prima appare un doveroso richiamo ai cattolici affinché diventino apostoli delle idee espresse dal Papa e speriamo che così facciano. La seconda induce allo scetticismo per la descrizione di un imperativo etico piuttosto distante dai comportamenti degli operatori. La speranza è che i cattolici inseminino con queste idee il resto del mondo, ma il lavoro sarà duro. L’invito rivolto alle associazioni sindacali nazionali di confrontarsi con quelle di altri Paesi e di tutelare anche i non iscritti e gli sfruttati affinché divengano
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fattori decisivi per lo sviluppo è molto esplicito. Le associazioni, dice il Papa, devono difendere i lavoratori su basi globali, per impedire che il funzionamento del mercato trascini verso il basso anche quelli che hanno raggiunto livelli di vita soddisfacenti. Il problema del lavoro è sviluppato in più parti dell’Enciclica, dove si insiste che l’uomo è al centro del mercato e delle politiche, che sono strumenti e non fini del benessere dell’umanità. Risulta più articolata la trattazione dei problemi etici e gestionali della finanza che, dice il Papa, deve restare al servizio della produzione e non coinvolgersi nella speculazione: retta intenzione, trasparenza e ricerca di buoni risultati non possono procedere mai disgiunti. Aggiunge una cauta apertura verso le innovazioni finanziarie, concentrandosi però sulla microfinanza, che ritiene molto utile per fronteggiare i rischi di usura e per prevenire la disperazione di fronte alle contingenze negative della vita. Domina l’intera analisi la sollecitazione ad assumersi responsabilità a ogni livello e grado. Dopo l’epopea delle libertà del secolo diciottesimo e delle garanzie sociali del diciannovesimo, la globalizzazione impone una nuova impostazione di vita da parte degli individui e nuove politiche da parte dei governi. Un’epopea delle responsabilità pubblica e privata per saldare libertà e garanzie che altrimenti potrebbero andare perdute. Il Papa propone nel testo dell’Enciclica la creazione di un’Autorità politica mondiale, che «dovrà essere regolata dal diritto, attenersi in modo coerente ai principi di sussidiarietà e di solidarietà, essere ordinata alla realizzazione del bene comune e che dovrà
essere da tutti riconosciuta, godere di potere effettivo per garantire a ciascuno la sicurezza, l’osservanza della giustizia e il rispetto dei diritti». Cosa pensa di una simile proposta? L’Enciclica è ricchissima di proposte e riflessioni. Io penso che le istituzioni esistono già: bisogna farle funzionare. Ho sempre considerato, ma forse è un vizio tutto italiano derivante dalle esperienze fatte, che costituire delle nuove istituzioni perché non si riesce a far funzionare le vecchie non è mai una proposta realizzabile, perché se non funzionano sottostante vi è qualche vincolo di natura sociale, politica o economica. Finché non si affrontano quei temi e il modo in cui il Papa propone di affrontarli - la creazione di un’istituzione serve solo per far credere alle persone che i problemi sono risolti. Il Papa ha fatto uscire questo testo alla vigilia del G8. Secondo lei questi temi saranno presi in considerazione dai Grandi del mondo? Se ai capi di Stato questa Enciclica perviene oggi, evidentemente - sia per la meccanica di preparazione dei lavori del G8, sia perché il testo è molto lungo di cui i leader possono avere soltanto un briefing dai loro collaboratori - allora il presentarla sotto inizio lavori vuole avere soltanto un effetto mediatico. Tuttavia sono convinto che i temi di questa enciclica fossero già da tempo in mano agli sherpa, e quindi ai capi di Stato, e quindi hanno avuto il tempo di rifletterci. L’altro aspetto è che gli argomenti che il Papa tratta - è noto che questa Enciclica esce mesi dopo la preparazione della prima stesura - sono talmente scottanti e coincidenti con quelli di cui si parlerà al G8 che possiamo dire che il testo avrà un effetto sui risultati del meeting. Risultati che devono essere esaminati nel lungo termine, non il giorno dopo la loro discussione.
l’enciclica
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Progetti. L’importanza della costituzione di un’Autorità politica mondiale «per il governo dell’economia» globale
Una Società per (N)azioni di Luigi Accattoli iformare l’Onu, rifare l’architettura economica e finanziaria internazionale, creare un’Autorità politica mondiale per il governo della globalizzazione: sono le tre proposte “politiche” dell’enciclica sociale di Papa Benedetto che lo pongono a portabandiera di quanti vorrebbero che l’umanità rinsavisca nella corsa all’autodistruzione bellica ed economica ispirata - si direbbe - allo scatenamento libertario degli egoismi individuali, nazionali e continentali. Non è la prima volta che un Papa avanza queste proposte, che ovviamente hanno sostenitori anche più antichi fuori della Chiesa cattolica. Ma mai un vescovo di Roma le aveva formulate con parole altrettanto impegnative e non c’è oggi alcuna autorità nel mondo che sia in grado di parlare a tutti e che avanzi un progetto di governace globale paragonabile a questo.
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A qualificare la proposta papale è soprattutto il terzo dei tre punti: quello riguardante la creazione di un’Autorità politica mondiale. Tutte le tre le proposte sono formulate - o meglio: riassunte - nel paragrafo 67 dell’enciclica, che ne conta 69: esse costituiscono dunque la sua conclusione operativa. Conviene concentrarsi su quel paragrafo per intendere il tutto. L’urgenza di porre in essere un’Autorità politica mondiale il Papa teologo la giustifica con quattro o cinque finalità di cui l’enciclica tratta a lungo nei diversi capitoli: «Per il governo dell’economia mondiale; per risanare le economie colpite dalla crisi, per prevenire peggioramenti della stessa e conseguenti maggiori squilibri; per realizzare un opportuno disarmo integrale, la sicurezza alimentare e la pace; per garantire la salvaguardia dell’ambiente e per regolamentare i flussi migratori». L’idea di una tale autorità risale ai tempi dell’Illuminismo e per esempio se ne possono rintracciare formulazioni suggestive - mirate soprattutto alla salvaguardia della “pace perpetua” - negli scritti politici del filosofo Immanuel Kant. Essa trova una prima concretizzazione dopo la prima guerra mondiale nella Società delle Nazioni e una seconda - meglio rispondente alle nuove relazioni internazionali - nelle Nazioni Unite all’indomani del se-
condo conflitto mondiale. Nel magistero papale il primo accenno a un’Autorità politica mondiale - ma senza l’uso di questa espressione - si trova nell’enciclica Pacem in Terris di Giovanni XXIII (1963), dove
Mai un vescovo di Roma aveva formulato una proposta con parole così impegnative. E non c’è oggi alcuna autorità in grado di parlare a tutti e di portare avanti un’idea di governace paragonabile a questa
è affermata la «necessità di poteri pubblici mondiali» per far fronte alle esigenze del «bene comune universale» che già allora veniva ad assumere, con la decolonizzazione, «dimensioni mondiali» e non più solo «na-
ROCCO BUTTIGLIONE
«Risponde a una crisi di idee» di Gaia Miani a proposta implicita nell’Enciclica Caritas in Veritate «prevede un sistema in cui il motore dello sviluppo sia l’investimento, per migliorare le condizioni di vita e per permettere ai Paesi poveri di crescere. Vogliamo mettere questa questione al centro, o preferiamo tenerla ai margini limitandoci a degli aiuti?». È l’analisi che Rocco Buttiglione, vice presidente della Camera e presidente dell’Udc, fornisce a liberal nel corso di una conversazione a ridosso della presentazione della Lettera papale. Una Lettera che potrebbe essere intesa come «un grande manifesto di un’economia pensata a partire dall’uomo». Presidente, cosa pensa della nuova Enciclica di Benedetto XVI?
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In una fase di grande confusione e mancanza di idee, la Caritas in Veritate ha una proposta organica per il futuro dell’umanità. Che nasce da una visione chiara delle ragione della crisi. Il testo inizia con un forte richiamo alla Populorum Progressio di Paolo VI, che chiese al mondo occidentale di cambiare radicalmente il meccanismo dello sviluppo. Perché in questo c’era un vizio: i poveri rimanevano poveri e i ricchi sempre più ricchi. L’appello di Paolo VI venne accolto in maniera parziale, ma non si poteva riparare il motore di una macchina mentre questa è in corsa. Ora la macchina si è fermata: siamo nella crisi più importante del secondo dopoguerra ed è possibile, lecito e giusto porsi una domanda. È l’occasione per cambiare il modello di sviluppo? Fino a ieri, il
motore era il sovraconsumo dei Paesi ricchi, che veniva soddisfatto dai Paesi poveri. In questo modo i poveri venivano sfruttati, certo, ma allora era meglio sfruttati che fuori dal circuito del mercato mondiale. La proposta implicita nell’Enciclica prevede un sistema in cui il motore dello sviluppo sia l’investimento, per migliorare le condizioni di vita e per permettere ai Paesi poveri di crescere. Vogliamo mettere questa questione al centro, o preferiamo tenerla ai margini limitandoci a degli aiuti? Il secondo problema tocca la questione del meccanismo di funzionamento dei nostri sistemi e delle ragioni della crisi. L’economia di mercato è una regola, e la crisi deriva in larga misura da una crisi di fiducia e dalla mancanza di etica nella finanza. Le banche sono arrivate a vendere ti-
toli marci, fasulli alla loro clientela. Senza informarla, con strumenti finanziari sempre più complicati. Quando si è iniziato a non pagare è arrivato il panico, al punto che neanche le banche si fidavano più l’una dell’altra. Bisogna ricostruire questa fiducia, con il ripristino di un’etica della verità nel sistema. In un certo senso, anche se l’Enciclica non lo dice, questo dimostra che il relativismo in economia non funziona. Cosa pensa del richiamo a un giusto lavoro per tutti? Nell’Enciclica è espresso chiaramente il primato del lavoro sul capitale: per un periodo si è pensato che si potessero fare soldi con i soldi, ma questo non funziona. Se non si prestano a un imprenditore - che paga salari, assume, produce e vende i soldi rimangono fermi. Il capitale è quindi al servizio del la-
l’enciclica zionali». L’idea viene ripresa ma non sviluppata dalla costituzione Gaudium et Spes del Concilio Vaticano II (1965), che al paragrafo 82 segnala l’esigenza di «una qualche autorità pubblica universale, da tutti riconosciuta, che goda di un potere effettivo per garantire a tutti sia la sicurezza, sia l’osservanza della giustizia, sia il rispetto dei diritti».
Come appare evidente da questi richiami il linguaggio di Papa Benedetto è più deciso e la sua proposta è più corposa. La Caritas in Veritate pubblicata ieri cita sia Giovanni XXIII sia il Vaticano II e ag-
ne, impegnarsi nella realizzazione di un autentico sviluppo umano integrale ispirato ai valori della carità nella verità». L’obiezione che quell’Autorità mondiale potrebbe costituire una forma di dominio e di imposizione era stata vagliata dal Messaggio per la giornata della Pace del 2003, il penultimo di Papa Wojtyla, che aveva messo in chiaro come la costituenda Autorità mondiale non dovesse essere intesa alla stregua di «un super-stato globale». L’enciclica di Benedetto precisa a questo proposito che l’autorità destinata a governare la globalizzazione «dovrà essere organizzata in modo sussidiario e
Nel magistero papale il primo accenno a una simile Autorità si trova nell’enciclica “Pacem in Terris” di Giovanni XXIII, dove è affermata la «necessità di poteri pubblici mondiali» in nome del «bene comune» giunge queste specificazioni, in risposta a chi temesse il costituirsi di una specie di dittatura mondiale: «Una simile Autorità dovrà essere regolata dal diritto, attenersi in modo coerente ai principi di sussidiarietà e di solidarietà, essere ordinata alla realizzazione del bene comu-
voro. L’Enciclica usa parole forti e chiare, ma non so se verranno ascoltate. La cosa più difficile è che si ascolti il Papa quando chiede una riforma dell’economia che metta al centro i bisogni del povero.Va poi sottolineato il tema della crisi demografica: le economie crollano perché non ci sono più lavoratori. Aumentano i vecchi e diminuiscono i giovani: questo è un dato banale, ma le analisi puntano tutte in quella direzione. Ecco perché il Papa parla anche di questo: qualunque cosa si pensi del tema della procreazione, se crollano le nascite decade l’economia. Una cosa evidente, che sanno tutti ma che nessuno ha il coraggio di dire. Dietro tutto questo, però,
rità mondiale per il governo della globalizzazione. Quanto dice in più rispetto ai predecessori e al Concilio gli è suggerito dalle urgenze evidenziate dalla crisi economica in atto. Come la crisi fa crescere «il ruolo dello Stato» (l’enciclica ne parla al paragrafo 41), così è necessario che in risposta a essa l’umanità faccia compiere un passo avanti decisivo alla prassi e al diritto delle relazioni internazionali (e di questo tratta al paragrafo 57). Nell’ottica papale solo una tale autorità potrà «coinvolgere i paesi emergenti e in via di sviluppo» nella gestione della crisi e potrà «disciplinare lo sfruttamento delle risorse non rinnovabili», nonché mettere in cantiere una «ridistribuzione planetaria delle risorse energetiche»: queste esigenze fatte valere a nome dei popoli poveri sono nel paragrafo 49.
poliarchico»: non dovrà intervenire - cioè - dove altre entità possono provvedere in proprio e dovrà articolarsi in più istanze a evitare tentazioni di procedere per imposizioni unilaterali. L’enciclica ratzingeriana recepisce dunque le ragioni di chi avanza riserve, ma si diffonde soprattutto nello specificare le facoltà di cui la futura Autorità mondiale dovrà essere dotata per «far rispettare dalle parti le proprie decisioni, come pure le misure coordinate adottate nei vari fori internazionali». Il punto dunque è questo: il Papa sollecita la creazione di un’Auto-
Dietro all’audacia di tali affermazioni c’è la realtà di una Chiesa mondiale che ha i suoi figli più numerosi nei popoli della fame e che trova nella dottrina dell’unità della famiglia umana l’idea guida per affrontare ogni questione sociale e internazionale. In base a quell’idea Papa Ratzinger afferma che oggi - come insegna la crisi economica che rischia di travolgerci tutti - «serve un nuovo slancio del pensiero per comprendere meglio le implicazioni del nostro essere una famiglia». Mi paiono queste le parole più forti dell’intero documento. www.luigiaccattoli.it
c’è una questione antropologica: ce lo potevamo aspettare da un Papa come Ratzinger, che riprende i temi della Centesimus Annus. L’uomo vive per sé stesso oppure l’uomo è fatto per la comunione con altri, in modo da realizzarsi attraverso il dono di sé. Una società, per funzionare, ha bisogno non soltanto di scambi ma anche di gratuità. È un valore al di sopra dei valori di mercato, che non basta per tenere in piedi una società. C’è bisogno di altri temi. Il Papa non ha paura di dire che quest’idea della struttura comunionale dell’uomo è nella natura dell’uomo, che però è ferita: l’avvenimento cristiano è quello dove si recupera con pienezza questa realtà. In questo senso, l’Enciclica potrebbe essere vista come un grande manifesto di un’economia pensata a partire dall’uomo. Qual è l’aspetto che l’ha colpita di più? Sicuramente quest’ultimo: qui c’è il criterio ermeneutico da cui dipende il resto. È l’idea che Gesù Cristo rivela l’idea di Dio e quella dell’uomo, che tocca anche la sfera dell’economia. Perché mettere al centro dell’e-
conomia l’uomo non è un concetto astratto ma concreto a cominciare dalla famiglia per finire con tutto un insieme di relazioni che dimostra che noi siamo sì un mercato, ma prima ancora siamo una comunità. Questo apre alla possibilità di pensare a relazioni di gratuità, ma anche di relazioni sociali che stanno tra il mercato e la famiglia. Una sfera in cui il mercato non viene piegato dalla solidarietà ma innervato dall’interno proprio dalla stessa. C’è stato un cambiamento rispetto alle prime due Encicliche di Benedetto XVI? Qui il Papa si confronta con una complessità diversa dalle precedenti. La Dottrina sociale cristiana ha un necessario aspetto interdisciplinare, dove convergono molti ambiti. Questo genera una maggiore difficoltà nel padroneggiarli tutti. Il Papa li ritiene necessari, ma sottolinea che vanno riletti tutti dall’interno: dietro ognuno di questi c’è un’idea di persona e per poterli usare deve analizzarli e criticarli.
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GIAN MARIA VIAN
«Un Papa filosofo che aiuta l’economia» di Massimo Fazzi enedetto XVI «non è un Papa puramente teologo, ma anzi è da sempre interessato ai temi che riguardano la società civile. In questo senso è inutile accusarlo di ingerenza con questa Enciclica, che anzi è un tentativo di dare un’impronta positiva a una cosa come l’economia, che di per sé è neutra ma in mani sbagliate può divenire malvagia». È l’opinione di Giovanni Maria Vian, direttore de L’Osservatore Romano, che in un’intervista a liberal spiega i temi della Caritas in Veritate e risponde a chi accusa la Chiesa di ingerenza in temi che non la riguardano. Direttore, come mai un Papa teologo diventa economista? È una questione di contingenza temporale oppure dimostra un cambiamento dell’impostazione papale? Intanto io nego questa immagine di puro Papa teologo, che rigetto anche nell’editoriale che appare sull’edizione odierna de L’Osservatore. È un’espressione che, tra l’altro, viene connotata negativamente: un uomo chiuso nelle sue stanze, fra i suoi libri, che al massimo suona Mozart. Benedetto XVI non è mai stato un puro intellettuale, è sempre stato attratto dalla realtà. Ha sempre cercato di spiegare i fondamenti della fede cristiana del nostro tempo: prima, come teologo, ai suoi lettori; poi, da arcivescovo, ai suoi fedeli; e oggi, a maggior ragione, come Papa. In secondo luogo, va sottolineato che anche la Deus Caritas Est, dopo una prima parte teologica, aveva una seconda parte legata alla realtà. Connaturata al fatto di essere cristiano, che non è una teoria o un’ideologia. Che quindi si traduce in comportamenti pratici, cosa che è stata ripetuta costantemente dal Papa nelle ultime omelie: è un suo motivo conduttore. Anche la riforma della Chiesa non è riforma delle strutte, ma interiore: così anche quella del mondo. Questa non è dunque una novità per Benedetto XVI. Poi lui ha sempre dimostrato una grande attenzione per l’economia, come si vede nei suoi libri-interviste. Non è uno specialista, come il suo successore a Monaco che è esperto di dottrina sociale: è un teologo fondamentale, che vira a quella che una volta era l’apologetica. Qualche critico sostiene che i temi e le proposte lanciati dal Papa nella Caritas in Veritate non competono al pontificato, che ha autorità morale? Benedetto XVI non dà ricette pratiche. Lui stesso scrive chiaramente che la Chiesa non pretende di dare ricette tecniche, ma ha piena competenza sulla morale. L’economia è neutra, scrive chiaramente il Papa, e quindi può essere usata bene o male perché gli uomini soggiacciono alle loro scelte. Questo aspetto è molto interessante, e viene applicato anche alla tecnica, alla tecnocrazia e alla sfera economica: nessuna di queste realtà è buona o cattiva di per sé. Anzi, in quanto attività umane sono buone di origine, ma siccome l’uomo è soggetto alle conseguenze del peccato delle origini, c’è bisogno di un indirizzo morale che sostenga scelte economiche e tecnocratiche perché siano indirizzate.Trovo che sia molto vigile su questo punto, non c’è nessuna intromissione. La Chiesa chiede solo di poter essere libera per poter annunciare un messaggio che libera l’uomo. Alla conclusione del G8 il Papa incontrerà Obama, che ha fatto nei confronti di Benedetto XVI delle aperture importanti. Secondo lei la pubblicazione dell’Enciclica coincide casualmente con l’apertura dei lavori de L’Aquila? Io credo che sia una pura coincidenza. Il testo è in elaborazione da oltre due anni: certo, arrivati alla fine - siamo anche nell’ultima settimana prima della partenza del Papa - hanno accelerato i tempi. Ma il G8 non c’entra niente. Eppure è un’occasione importante: Benedetto XVI ha ricevuto oggi il primo ministro giapponese Taro Aso, un cattolico che L’Osservatore Romano unico in Europa ha intervistato, Gordon Brown e altri leader. È una coincidenza ma non viene male.
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La data di pubblicazione e l’inizio del G8 coincidono per puro caso.Anche se è una fatalità positiva
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Un cantautore le suona a Sukarnoputri Al via le presidenziali in Indonesia. Favorito il presidente Susilo Bombang Yudhoyono di Maurizio Stefanini ancava poco che in Indonesia per le presidenziali di oggi si votasse un candidato unico. La puntigliosa legge elettorale prescrive infatti che possono presentarsi solo coloro il cui partito o coalizione alle politiche abbiano ottenuto almeno il 25% dei voti, o 112 dei 560 deputati, e dopo i risultati dello scorso 9 aprile, in queste condizioni si trovava solo il Partito Democratico (150 eletti) del presidente in carica: il generale Susilo Bambang Yudhoyono, che si diletta a comporre canzoni e canta solo per i suoi amici più cari. C’è però la scappatoia: si può ottenere il quorum di deputati anche con accordi post-elettorali. Jusuf Kalla, il cui Partito dei Gruppi Funzionali (Golkar) si era fermato a 107, ha dunque raggiunto un accordo col Partito della Coscienza del Popolo del generale Wiranto, ex-comandante delle Forze Armate, che in cambio dei propri cruciali 17 deputati ha avuto la candidatura alla vicepresidenza. E anche Megawati Sukarnoputri ha rimpinguato i 95 eletti del proprio Partito Democratico Indonesiano – Lotta con i 26 del Partito del Movimento della Grande Indonesia del generale Prabowo Subianto, ex-comandante delle Forze Speciali dell’Esercito, anche lui candidato alla vicepresidenza. Più facile è stato passare il secondo requisito: un test fisico e psicologico che i candidati
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IL PERSONAGGIO
hanno dovuto affrontare il 16 maggio, presso l’Ospedale Militare Subroto Gatot. I test psicoattitudinali predisposti dal Minnesota Multiphasic Personality Inventory hanno attestato che tutti sono in condizioni per fare i capi dello Stato. Anche se non c’è candidato unico, però,Yudhoyono, Kalla e la Sukarnoputri sono, rispettivamente, il presidente in carica, il suo vice, e la ex-presidentessa sotto la quale entrambi erano stati ministri.
Curiosa aria da “tutto in famiglia” cui corrisponde il venir meno della tensione ideologica, dopo il crollo dei partiti islamici alle politiche: appena il 24%, rispetto al 38% del 2004. Un dato a sorpresa, visti i risultati strepitosi che gli stessi partiti islamici avevano avuto negli ultimi turni di consultazioni locali: ma la gente li aveva votati solo per protesta contro la corru-
Golkar di Kalla è però il partito già base del regime di Suharto. Megawati, figlia di Sukarno e a suo tempo icona della rivolta contro il generale che le aveva deposto il padre, ha prima trattato per candidarsi assieme a Kolla, e poi si è presa come vice quel Subianto figlio di un acerrimo avversario del genitore. Lo stesso Subianto è dentro fino al collo nei massacri che avvennero a Timor Est, come d’altronde Wiranto.Wiranto e Kolla hanno però pure l’appoggio del partito cristiano. Insomma, con la crisi in corso la grande priorità è diventata l’economia. Il bicchiere mezzo pieno: l’Indonesia sta ancora crescendo del 4%, mentre le vicine Malaysia e Singapore sono in recessione. Il bicchiere mezzo vuoto: ciò però è insufficiente per un tasso di crescita demografica che butta sul mercato del lavoro due milioni di nuove unità all’anno, così che il tasso di disoccupazione oltrepassa l’8%. Se il messaggio di Yudhoyono è dunque “squadra che va bene non si tocca”, Kolla e Megawati suggeriscono invece che si può fare di più. Il problema del vice è che sta al governo anche lui, e che vorrebbe evitare di forzare la polemica al punto da restare del tutto fuori dalla maggioranza in caso di sconfitta. A suo vantaggio c’è però che è stato lui a trattare l’accordo con i ribelli di Aceh che ha posto fine a un’annosa guerra civile.Tende dunque a soffermarsi sulla personalità piuttosto che sui programmi, spiegando che lui ne ha una più incisiva di Yudhoyono. È invece Megawati che fa la populista a tutto tondo, accusando il presidente di danneggiare i poveri e gli interessi nazionali con le sue privatizzazioni selvagge. E sperando che la memoria degli elettori sia a un tempo abbastanza lunga da ricordare le glorie del padre, e abbastanza corta da aver dimenticato di quando le privatizzazioni era lei a farle.
Crollano i partiti islamici: votati in passato per protesta, sono stati allontanati quando hanno cominciato a parlare di Sharia zione, e quando ha iniziato a vedersi imporre Sharia e veli ha subito fatto dietro front. D’altra parte, anche il partito cristiano è uscito dal Parlamento, mentre un nuovo movimento cattolico si è fermato allo 0,31%. Insomma, le polemiche religiose sono uscite di scena, e i quattro partiti islamici comunque entrati in Parlamento appoggiano ora il presidente. Neanche sono di moda le polemiche sui regimi del passato: quello del padre della patria Ahmed Sukarno fino al 1965 e quello successivo del generale Suharto fino al 1998. Come dimostra il fervore dei 170 milioni di elettori, gli indonesiani sono orgogliosi della democrazia che sono riusciti a recuperare giusto dieci anni fa. Il
Barry Tannenbaum. Il tycoon sudafricano aiutava le persone colpite dall’Aids con i farmaci retrovirali. Ma era tutta una truffa
Il Maddoff dei malati terminali di Silvia Marchetti uo nonno era stato il fondatore della Adcock-Ingram, colosso dell’industria farmaceutica sudafricana; suo padre uno dei più generosi filantropi del Paese. E cosa poteva fare un erede di tycoon della farmaceutica e di filantropo in un Paese come il Sudafrica, dive oltre un cittadino su nove ha l’Hiv? Una popolazione di infetti che a livello mondiale è seconda solo all’India. Il 43enne Barry Tannenbaum si è dunque messo a importare componenti farmaceutiche che poi rivendeva ai fabbricanti di medicamenti generici: in particolare, di retrovirali destinati appunto ai malati di Aids. Solo che adesso è saltato fuori che il business benefico sarebbe stata in realtà una copertura per la più micidiale truffa nella storia del Paese. La stampa locale parla di cifre tra i 10 e i 15 miliardi di rand: qualcosa tra i 900 milioni e gli 1,3 miliardi di euro. Per finanziarsi, infatti, il Madoff sudafricano, così l’hanno ribattezzato, invece di rivolgersi alle banche si faceva prestare soldi da privati attraverso l’intermediazione di due avvocati di Johannesburg. E in cambio offriva rendimenti spettacolari: dal 15 al 20% ogni tre mesi, alla scadenza dei quali si poteva scegliere se reinvestire la somma o ritirarla. Chi ha insistito, è arrivato a guadagnarci sopra il 216% in un anno. Come faceva Tannenbaum, nome tra l’altro evocante i doni
sotto l’Albero di Natale, ad assicurare una cuccagna del genere? Appunto, utilizzando lo stesso sistema già praticato dall’ex-presidente del Nasdaq Bernard Madoff, e prima di lui da altri ancora, fino a risalire al capostipite: quell’emigrato romagnolo negli Usa Charles Ponzi che per qualche mese nel 1920 fece sognare gli americani, prima di finire dentro per truffa.
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Oltre 400 le vittime del raggiro: non solo negli Stati Uniti, ma anche in Europa, negli Stati Uniti e in Australia
Oltre 400 le vittime del raggiro: non solo negli stati Uniti, ma anche in Europa, negli Stati Uniti e in Australia. Sebbene la società di Tannenbaum fosse reale, il montante degli ordini ricevuti era stato falsificato, apposta per rassicurare gli investitori sulla serietà del progetto nel momento in cui i pagamenti iniziavano a ritardare. Probabilmente la cosa sarebbe potuta andare avanti per un pezzo, se l’arrivo della crisi non avesse provocato un fatale aumento delle richieste di rimborso. Adesso le autorità sudafricane hanno messo le società Frankel International and Frankel Chemical Corp sotto amministrazione controllata, ma risiedendo in Australia,Tannenbaum ha per ora evitato l’arresto. Anzi, l’investitore che ha chiesto la sua bancarotta ha denunciato senza mezzi termini che Tannenbaum se l’è squagliata quando ha visto che tirava una brutta aria. Da Sydney, lui spiega però che è tutto un equivoco, e che a creare problemi non è stata una truffa, ma la crisi.
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La ragazza è stata arrestata in Iran con l’accusa di spionaggio
Mutilata statua in Ucraina. I nazionalisti rivendicano il furto
Sarkozy ad Ahmadinejad: libera Clotilde, subito
Hanno rubato il naso del compagno Lenin
PARIGI . Quelle accuse di spio-
KIEV . Nel 1836 l’ucraino Niko-
naggio delle autorità iraniane nei confronti della giovane ricercatrice francese, sbattuta in carcere a Evin dal 1 luglio, sono «altamente fantasiose», immaginarie.Quindi - scandisce il presidente Nicolas Sarzozy - «lo dico nel modo più chiaro e più semplice: esigiamo la liberazione della nostra compatriota in brevissimo tempo». Sale, di molto, la tensione fra Parigi e Teheran i cui rapporti non erano già particolarmente sereni - a causa di Clotilde Reiss, 23 anni, lettrice di francese all’ università di Ispahan, arrestata mercoledì scorso all’ aeroporto di Teheran, mentre stava per imbarcarsi su un volo diretto in Francia. Arrestata e incarcerata per spionaggio, hanno riferito le autorità iraniane. In realtà, ha spiegato il ministro degli esteri francese, Bernard Kouchner, ieri all’Asseblea nazionale, la ragazza avrebbe scattato delle foto dei cortei di protesta a Ispahan e messe poi su internet. Kouchner ha detto che l’ambasciata francese ha parlato al telefono tre volte con la ragazza, detenuta, e che domani l’ambasciatore andrà a trovarla in carcere. Il Quai d’Orsay si è deciso lunedì sera a rivelare la notizia della detenzione della ragazza, dopo aver convocato l’ambasciatore iraniano a Parigi. E ie-
laj Vasilievic Gogol per sfottere il potere russo pubblicò un racconto su un funzionario di San Pietroburgo il cui naso acquistava vita propria, si staccava dalla faccia e se ne andava poi in giro, conquistando un rango maggiore del suo. A 173 anni di distanza, nell’Ucraina ormai indipendente dal 1991, un naso staccato torna ad accendere una querelle, sempre contro il potere russo. Dopo una lunga polemica per la richiesta dei nazionalisti di rimuovere la statua di Lenin che domina Kiev da Viale Schevchenko, un commando è infine passato in azione staccando il naso alla statua, oltre alla mano sinistra, e prendendoli in ostaggio. Non è chia-
Che fine ha fatto Hillary Clinton? Dopo l’incidente al gomito è sparita dalla scena di Luisa Arezzo osa sta facendo Hillary Clinton? Ieri, in un incontro senza media e stampa al seguito, la segreteria del Dipartimento di Stato ha detto che ha incontrato Manuel Zelaya, Il presidente honduregno destituito dal golpe di Roberto Micheletti. E questo perché gli Stati Uniti starebbero cercando di accelerare i tempi per una soluzione della crisi in Honduras. Anche se non sarebbero previsti contatti con eventuali emissari del presidente de facto, Micheletti per l’appunto, (nonostante la sua speranza di poter contare sulla mediazione del ministro degli Esteri Usa) che in questo modo pagherebbe anche lo scotto per non aver risposto al telefono all’ambasciatore Usa, Hugo Llorens, che voleva convincerlo a non attuare il golpe. Non solo: aTegucigalpa, la capitale honduregna, circolano voci non smentite in merito al fatto che imprenditori di peso ed importanti politici si sono riuniti per trovare il modo di disfarsi di Micheletti, per non dover subire l’ira di Washington. Secondo alcune fonti, non mancano i parlamentari - sarebbero una ventina su 128 - che non riconoscono il governo. Insomma, ci sarebbero i primi golpisti pentiti. Ma se la pressione dell’isolamento sta forse producendo qualche crepa, non si capisce quale sia stato il ruolo del capo del Dipartimento di Stato Usa in tutto questo. E dunque si torna alla domanda iniziale: che fine ha fatto Hillary Clinton?
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«sta lavorando da casa». Di fatto, però, il capo della diplomazia americana non è stato al fianco di Barack Obama nel suo quinto tour all’estero, che ha portato il presidente degli Stati uniti ieri in Russia, oggi in Italia e poi in Ghana. Non era un mistero che, per Hillary, la Russia rivestisse un’importanza particolare: a marzo scorso il suo incontro a Ginevra con il collega russo Sergei Lavrov era stato un successo - al netto della polemica aperta dal Reset button - e da allora il Dipartimento di Stato ha lavorato alacremente all’incontro Obama-Medvedev, un appuntamento storico che il ministro degli Esteri ha però seguito in televisione e sul quale non ha fatto alcun commento.
La deferenza manifestata da Hillary Clinton nei confronti del suo ex rivale alle presidenziali, scrive Le Temps, «è quanto meno sospetta»: nelle ultime settimane diverse voci anonime riportate dalla stampa americana, dal New York Times a The Weekly Standard, quindi in modo assolutamente trasversale, riferiscono di profondi dissensi tra l’inquilino della Casa Bianca e il suo ministro a proposito dell’Iran. La posizione del presidente americano sarebbe troppo conciliante, secondo l’ex First Lady. Non solo. Gli “inviati speciali” di Obama (George Mitchell, Richard Holbrooke, Dennis Ross, rispettivamente per il Medioriente, Afghanistan e l’Iran) sono dei “grossi calibri”, troppo grossi per Clinton, e le rubano la scena. Per non parlare della rappresentante americana alle Nazioni unite, Susan Rice, che riveste un ruolo pari a quello di un membro del governo e spoglia Clinton di altre prerogative. Si chiede, in conclusione, Le Temps: «Hillary sta preparando un come-back politico? Si sta preparando ad abbandonare il dipartimento di Stato per candidarsi al posto di governatore dello Stato di New York?». Forse questa lettura è eccessiva, ma certamente la luna di miele (ammesso che ci sia mai stata) fra i due sembra fortemente compromessa. E non per problemi di gomito.
Impegnata sul fronte Honduras, non rilascia dichiarazioni sull’Iran. E molti sospettano in crisi la sua intesa con Obama
ri Sarkozy - già al corrente della vicenda - aveva espresso invece la sua completa solidarietà a Gordon Brown per gli impiegati dell’ambasciata britannica a Teheran arrestati, sottolineando che «il popolo iraniano merita meglio dei dirigenti che ha». Fra Sarkozy e il presidente iraniano il contenzioso è già ricco. La Francia era stato il primo Paese occidentale a parlare della frode elettorale, denunciando senza mezzi termini le violenze che avevano colpito le successive manifestazioni di protesta. L’Iran aveva risposto, accusando gli occidentali d’ingerenza nei suoi affari interni. Sul caso della ricercatrice francese in carcere l’Iran tace, finora.
A chiederselo apertamente, ieri, Le Temps, un quotidiano svizzero, che ha pubblicato un editoriale pieno di dubbi sulla ex First Lady. Ma non è il solo a porsi questo delicato interrogativo, poiché il segretario di Stato americano - complice, è vero, una frattura al gomito non compare sulla scena politica internazionale da diversi giorni. In questa settimana la sua assenza a Mosca, pur prevista, non è passata inosservata e ha dato luogo a “maldicenze” e congetture, nonostante il portavoce del Dipartimento di Stato continui invariabilmente ad assicurare che Hillary, convalescente,
ro se in questo Paese dall’antica cultura ortodossa e bizantina il gesto sia un richiamo consapevole a quella pratica della Corte di Costantinopoli, in cui si tagliava il naso agli imperatori spodestati o ai pretendenti sconfitti, in base al principio che per sedere sul trono bisognava essere fisicamente integri. Ignota anche l’identità fisica dei trafugatori, anche se vari giovanotti sono stati arrestati dalla polizia. Dal punto di vista politico il gesto è stato però ufficialmente rivendicato dal partito del Congresso Nazionalista Ucraino. La maggior parte delle forze politiche sono critiche rispetto al passato sovietico, e la Rivoluzione Arancione è avvenuta proprio in chiave anti-russa. Sebbene poi di recente la rimozione di un monumento ai soldati sovietici abbia scatenato una dura querelle tra l’Estonia e Mosca, per il governo russo l’eroe comunista Lenin non è evidentemente così importante come le vittorie militari del passato. Quella statua era però opera di uno scultore di una certa rinomanza, Sergey Merkurov. E così la polemica è andata avanti tra richiami al rispetto dell’arte e delle eredità del passato, e proteste che “anche le statue di Hitler con valore artistico in Germania le hanno tolte di mezzo”.
cultura
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Libertini. I cittadini del Maradagàl riscoprono con Gadda il rapporto erotico tra un presidente «narcisso» e una folla plaudente «in carne di femina»
Le erezioni politiche Da sessant’anni “Eros e Priapo” ci spiega cosa accade quando la follia di un capo diventa crisi collettiva di Marco Palombi he abbia a spegnermi è certo: quando, non so». Con questa citazione di Charles de Gaulle si apre Eros e Priapo, l’invettiva, violentissima, che Carlo Emilio Gadda dedicò a quella sorta di delirio masturbatorio di massa che gli sembrò il fascismo il cui centro gravitazionale - primo tra i glandi dell’Impero - individuò in Benito Mussolini, il “capintesta”. E non solo: l’ingegnere riuscì pure nel miracolo di scrivere trecento pagine di articolatissimi insulti e analisi psico-antropologiche senza chiamare mai col loro nome né il Duce né la sua creatura. Miracoli dell’odio, o forse dell’amore quando finisce male se è vero che il giovane Gadda aveva guardato con simpatia al nascente fascismo: «Ma vi rendete conto si giustificò poi - che il giorno in cui mi laureai in ingegneria fu quello in cui occuparono le fabbriche?». Ebbe a pentirsene assai - borghese conservatore e rotondamente antiproletario com’era ma la sua rabbia, come spesso gli accadeva essendo insieme timido e bilioso, arrivò a compimento in uno scoppio improvviso solo a disastro già ampiamente arrivato: tra il ’44 e il ’45, a Firenze. Dopo l’eruzione iniziale Gadda non riuscì mai a tornare a lungo sul testo: ne pubblicò alcune parti sulla rivista Officina nel 1955, mentre il volume, che si deve più che altro alla tigna di Livio Garzanti, vide la luce solo nel 1967. Indicativo il sottotitolo: “Da furore a cenere”.
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Nella versione definitiva il “libello”, ovvero “minimo libro”, è quasi diviso in due: dall’iniziale battaglia diretta tra Gadda e il Duce - Pirgopolinice, Priapo Ottimo Massimo, Primo Ejettatore delle enfatiche cazziate - si passa all’analisi più strettamente psico-antropologica di come, per un ventennio, sia stato possibile «il prevalere di un
cupo e scempio Eros sui motivi di Logos». E di più: di come pure Eros si sia rapidamente voltato in Priapo, abbia percorso cioè il tratto da giovane potenza creatrice, per quanto un po’ ottusa, a libidine senescente,
«Il pazzo narcisista è incapace di analisi psicologica, la sua unica pietra di paragone è una smodata autolubido»
oscena, puramente teatrale e perciò sterile. Caso di scuola, ovviamente, il Bombetta: «Egli fu rattratto, nello stretto senso clinico della parola, e un essere incapace di sublimazione. Dacché non si può tenere per sublimazione l’enfasi scenica dello istrione o del mimo, il basso e vituperoso tentativo del darla a bere, del darla a intendere e simili». Medium del trionfo di Eros il rapporto tra il capintesta e «la sua folla in qualità, e come in carne, di femina» (come vuole d’altronde Machiavelli, nume tutelare di questo trattatello scritto in finto toscano cinquecentesco): «Dimolti italioti, di cui Modellone Torso-
lone incarnava come non altri la fatua scempiaggine e la livida malafede, sentivano risuonar di sé l’una e l’altra per sumpateia co’ le grandezze ricattatorie di lui: ad ogni nuova sparata entravano secolui in vibrazione armonica». È uno scritto violentemente e pietosamente anti-italiano, questo di Gadda, e pure radicalmente misogino: è nel rapporto tra il Duce e le donne, infatti, che l’ingegnere intuisce il farsi della frittata, nell’indelicato cioè corrispondersi della di lui non trattenuta esibizione autoerotica con la di elle «ghiottoneria ammirativa» sfociante nel culto del «maschio dei maschi». Padre in potenza, padre in utroque, scriveva nel Pasticciaccio.
Ma perché, chiederà qualcuno, occuparsi oggi di un testo minore obliato dai più? Accade che nel Maradagàl - paese sudamericano assai caro all’ingegnere, che vi ambientò La cognizione del dolore - un piccolo editore (Ortega y Gasset) abbia deciso di ristampare il libretto gaddiano. Il tentativo, neanche tanto nascosto, è di fornire ai lettori di quel paese così lontano dall’Italia una chiave di lettura della personalità debordante del capo dello Stato, don Rafael Uguirre, el presidente, e del complesso rapporto instauratosi tra costui - uomo assai potente e amato, ma di recente incappato in qualche comportamento bizzarro e imbarazzante - e la società maradagalese. Ora la stampa - un po’ quella autoctona ma soprattutto la straniera - ha cominciato a prendere di punta certe abitudini esibitive dell’Uguirre (frequentazioni di giovani di facili costumi, compulsione alla chiacchiera a base sessuale, una certa tendenza alla vanteria maschile) essendo peraltro ormai chiaro che le critiche politiche, e persino certe storiacce giudiziarie, non avevano alcun
A sinistra, una foto giovanile di Carlo Emilio Gadda. Nella pagina a fianco, l’autore italiano in un disegno di Michelangelo Pace, la copertina del suo celebre “Eros e Priapo” e un’immagine di Benito Mussolini
risultato sulla sua immagine pubblica. L’effetto è stato enorme: una lite pubblica con la prima señora e perfino la Iglesia de Maradagàl - finora vagamente simpatetica con don Rafael - che comincia a dirgliene di brutte. Ormai a Pastrufazio, l’umida capitale, non si fa altro che parlare di possibili complotti ai danni del presidentissimo per cacciarlo dal palazzo e insediare al suo posto un governo di Unidad nacional. Nonostante questo però - e nonostante che il Paese claudichi e non poco - Uguirre continua ad ogni elezione a portare a casa consensi a palate, il giusto compenso - a stare ai suoi - del rapporto erotico che egli intrattiene col popolo suo e, massimamente, con le casalinghe maradagalesi, che com’è noto se lo mangerebbero di baci.
Proprio per spiegarsi questo fenomeno curioso, sui giornali vicini alla litigiosa minoranza politica di Pastrufazio, los Progressistas, si parla spesso di Eros e Priapo e, in particolare, di quel capitolo che s’intitola “Dei danni recati alla personalità del singolo e alla società morale degli uomini da una carica iper-narcissica non infrenata”. Si tratta di una parte decisamente analitica, in cui viene tratteggiata la figura di quello che l’ingegnere lombardo chiama «il folle narcissico», uo-
mo che nulla comprende della realtà ma solo «vede e dice: Io, Io, Io». La sua «psiche ipercentrica – secondo Gadda – non conosce la serenità dell’analisi, non pratica il disinteresse dell’analisi: è la psiche di un impermalito cazzioso che, tronfio, “forte della sua strafottenza”, cammina a testa alta nel buio: e dà del naso in un platano». Questo particolare tipo di narcisista, scrive il nostro, è fermo all’infanzia: «Egli assevera come un decenne, denega come un undicenne […] Il folle narcissico è fermo alle prime scemenze di sua età, privo di attitudini sublimatrici, a cinquant’anni egli sventola ancora il sesso alla facciazza del pubblico. Coram populo».
La casistica comportamentale elaborata da Gadda pensando al Duce e all’Italia fascista (come collettività narcisista) è assai serrata e comprende ben 18 punti. Cercheremo qui di darne un’idea attraverso qualche citazione ragionata. Sostiene il nostro che «il folle narcissico (o la folle) è incapace di analisi psicologica, non arriva mai a conoscere gli altri: né i suoi amici, né i nemici, né gli alleati. Perché? Perché la pietra del paragone critico, in lui (o in lei), è esclusivamente una smodata autolubido […] Codesta autofoja gli (o le) inibisce di instituire un giudizio di merito
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re, scrive Gadda, «la tendenza a conferire alla propria azione un movente etico e illustre (scenicamente apprezzato), a esibire l’azione come exemplum etico quanto alla scena. Sia quando l’azione è moralmente “indifferente”, sia quando è la più ridicola delle vassallate pensabili». Il narcisista, «nella sua “corsa verso l’addobbo etico”, verso l’éclat exterieur des idées morales, non bada al contenuto di codeste idee: purché le siano idee da poterne sfoggiare a pompa civica, lui le infila tutte, le une e le altre, e anche le reciprocamente contraddittorie». L’atto etico richiede infatti una scelta, ma «il pazzo narcisista, invece, non istà a scegliere perché s’angustia di dover rinunziare a una qualunque male intraveduta possibilità di magnificazione dell’Io». Disposizione d’animo da cui «consegue una attenuata o annichilata reattività morale». Egli «non conosce un possibile dramma morale» e «tanto meno conosce un dramma religioso, ma soltanto raggiunge e sfoggia una morale d’apparato e una religione d’apparato».
Stabilito questo, per Gadda non si dà in nessun caso che un singolo o una comunità «narcissica» possa intravedere un contenuto «disetico» in una sua azione: tutto viequal si voglia: nulla, né cose né uomini, nulla è mai osservato alla luce fredda e matematizzante dello scrutinio puro». Tanto in sospetto, quindi, è tenuto il pensiero critico, quanto «gli adulatori sono tenuti per geni». Discende da questa prima notazione la seconda, in base alla quale in questi soggetti esiste una «incapacità alla costruzione etica e giuridica: poiché tutto l’ethos si ha da ridurre alla salvaguardia della loro persona, che è persona scenica e non persona gnostica e etica […] e all’augumento delle loro prerogative, per quanto arbitrarie e dispotiche, o tutt’e due». Segue a ruota «la inettitudine e la indegnità pedagogica»: il folle narcisista infatti «non può essere buon maestro», per il semplice motivo che «non valuta e non ama l’allievo se non in rapporto alla di lui capacità di costituirsi specchio utilitario ed estetico, da rimandargli riflesso il raggio autoerotico, che è la unica luce che lui riconosce come luce».
Difetta poi, tanto agli individui quanto alle collettività af-
fetti da questa patologia, la capacità d’elaborazione intellettuale: «Il costruire sistemi filosofici sulla propria indole ghiandolare, cioè aventi la propria tiroide o le surrenali a meccanismo impulsore del mondo, il suo costituire il proprio bellìco a perno del mondo, non è operazione filosofica». A questo va aggiunta ancora «la morbosa tendenza a innalzarsi, ad eccellere in forma scenica e talora delittuosa, senza discriminante etica: senza subordinare l’Io a Dio […] L’autofoja, che è l’ismodato culto della propria facciazza, gli induce a credere, per poco che quattro scalmanati assentano, d’essere davvero necessari e predestinati da Dio alla costituzione e preservazione della società». Il culto di sé, ovviamente, può prendere anche la strada della menzogna: anzi essa ne è «la nota dominante del pensiero, della parola e dell’atto». In genere, «la proposizione del narcisista ha sempre una carattere inesorabilmente asse-
verativo, è contraddistinta da una violenza e direi da una lucidità di sapore spiccatamente pragmatico: essa non conosce la perplessità cogitante e la disgiunzione dialettica, né l’ansia e l’angoscia della delibera dibattuta che sogliono tipicizzare il disinteresse analitico. Essa esce di getto dall’anima come dogma irruente, come uno spillo d’acqua da una manichetta de’ pompieri sotto pressione. Si sente che nessuna remora, nessuna obiezione potrà fermarla. La menzogna narcissica è, nel procedere della storia, quel che la dissipazione è nella vita privata. Consiste nel negare una serie di fatti reali che non tornano graditi a messer Io».
Questo esclusivo senso di sé non può che generare la cosiddetta «caparbietà narcissica, la insistenza nell’errore, denominata forza di carattere». L’uomo normale infatti «conosce prudenza, conosce temperanza. La possibilità di errore è da lui preveduta, è scontata. Il narcisista ci va tronfio a testa alta, forte del suo diritto, armato di carattere: e torna col diritto, col carattere e con le pive nel sacco». Nessun ripensamento, perché in questi adulti non sublimati esiste pu-
ne «esaltato a motivo necessario, a causale necessaria, indi a vero e proprio feticcio autoerotico», come accade «negli stadi infantili, in cui la monelleria, la birichinata, ecc. sono sentite come prodezza dal bimbo, e talora da’ suoi genitori compiacenti e stoltamente orgogliosi di lui». In questa sorta di «psiche statica», insomma, ferma alla prima infanzia, è possibile discernere «un cosmo sciocco, ottuso e pesante, inesorabilmente centrogravitante: secondo la qual gravità centripeta tutto ch’è in lui gli è bene, onore e fulgore e bellezza: tutto ch’è fuor di lui gli è miseria e stupidità, o tenebre: cioè addirittura non esiste». A questo universo di riferimenti mentali, fanno da contraltare necessario alcune «aberrazioni tematiche, cioè relative a stoltezza dei motivi di eccitazione psichica».Tra queste una certa attitudine sardapanalesca del narcisista: «Le ingurgitazioni e le dissapazioni erotiche, la gola, la lussuria, l’ebrietà consueta, sono atti magni di magnanima persona. Conoscerete voi pure, per averne toccato nelle vantardaggini loro certi citrulli, conoscerete quella tendenza, la quale è di essiloro, a identificare le prestazioni dello ingegno e dell’animo con le prestazioni del sesso».
Non esiste freno etico, come detto: «Il contenuto del pragma narcissico è una protensione scenica, una protensione teatrale e non una teleologia morale: è cioè limitato quel groppo di portamenti e di gesti che ponno attuare la relazione con la desiderata platea, che soli possono procurarti l’applauso. Il sacrificio silente e obediente alla propria fortuna e della propria vita alle fortune e alla vita collettiva, il narcisista la predica agli altri», mentre «lui l’è in podio a berciare con penne di pavone […] Il Golgota non è scena, non è disonor del Golgota degno di lui. Per lui non è il legno della croce, ma il cesso di lapislazzuli e il bidet d’onice». Non può mancare, ovviamente, «la esibizione fisica; dico la esibizione del corpo, del proprio e tronfio, e di quello delle giovani generazioni, la cui moltiplicata bellezza è veduta ed esibita come propria», e nemmeno il desiderio e «la brama» per «le carte stampate, per quanto coartate e vane», per «i giornali magnificanti le su’ glorie, e de’ sua». Si potrebbe continuare, ma la psicopatologia gaddiana è già abbastanza chiara. Fu questo, sessant’anni e più fa, il suo omaggio incattivito all’Italia che aveva visto dissiparsi e perire, il suo contributo violento - e psicotico anch’esso - a quell’atto di conoscenza che solo garantisce il riscatto. O almeno è quello che credono in Maradagàl.
spettacoli
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Musica. A tu per tu con Derek Trucks, il più giovane tra i cento migliori chitarristi del mondo (parola di “Rolling Stone”)
«Ecco perché tutti mi amano» di Alfredo Marziano l più giovane tra i 100 migliori chitarristi al mondo (secondo una celebre classifica stilata sei anni fa dal prestigioso Rolling Stone) è un ragazzo della Florida che ha appena compiuto trent’anni, porta capelli lunghi e lisci talmente chiari da poter essere scambiato per albino, suona la slide come nessun altro e dispone di sufficienti energie per essere uno e bino: leader di una band che porta il suo nome, Derek Trucks Band (appena transitata in Italia per partecipare ad alcuni festival estivi nel Centro Italia), componente stabile della leggendaria Allman Brothers Band di cui è membro anziano lo zio Butch. È un predestinato, lo si sarà capito. Un talento naturale e precocissimo che a nove anni si comprò la prima chitarrina, una cianfrusaglia da cinque dollari, in uno di quei mercatini di chincaglieria usata che in America si svolgono spesso nei cortili privati delle case. E che neppure due anni dopo era già un “professionista” su cui piovevano ingaggi; assistito, scortato e portato in giro dal papà che gli aveva insegnato i primi rudimenti dello strumento. Uno che da teenager ha avuto la chance di salire su un palco con Bob Dylan (accadde a Clearwater, Florida, nel ’92, il baby chitarrista aveva soltanto dodici anni). Che ha incrociato la sei corde con Buddy Guy, leggenda vivente del blues, e che l’anno scorso ha avuto l’onore di accompagnare in tournée il grande “manolenta”, sua maestà Eric Clapton. Con quel pedigree e quelle referenze, tutti lo hanno subito incoronato giovane re della chitarra blues.
volta erano influenze esplicite oggi si sono fatte più sfumate». Il suono però non è cambiato. Caldo, rustico, spontaneo, analogico come si usava trentacinque, quaranta anni fa: niente trucchi e niente inganni, a cominciare dalla Gibson di Derek che lui suona senza mai alterare il timbro con effetti e pedaliere.
I
per sarod (una specie di liuto indiano) di Ali Akhbar Khan come dal blues di Elmore James. Dal gospel di Mahalia Jackson come dal soul di Otis Redding e Stevie Wonder. E la Derek Trucks Band, ensemble di sei elementi votati all’improvvisazione e all’esplorazione musicale, agisce di conseguenza: è un traghetto di autentica world music che dal Mississipi naviga placido verso il Gange, e dalle paludi della Florida si muove agilmente verso i Tropici e i fiumi africani. Soprattutto in Songlines, un diario di viaggio musicale che tre anni fa prese ispirazione e nome dal titolo originale de Le vie dei canti di Bruce Chatwin.
“
Da troppo tempo siamo circondati da musicisti che non sanno suonare e cantanti che non sanno cantare. Oggi la gente sente il bisogno di un senso più profondo
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Meno nel più recente Already Free, un album casalingo concepito e inciso nello studio di mio sogno? Suonare con B.B. registrazione che Derek s’è coKing, l’ultimo dei grandi»). Ma struito con le sue mani di fianDerek ha le orecchie e la menco alla abitazione che condivite aperta e preferisce allora de a Jacksonville con la parlare di «progressimoglie cantautrice Suve roots music», persan Tedeschi e due bimché «un albero si ricobi piccoli, raccattando nosce dalle sue radiapparecchiature vinci»: la sua missione tage da Ray Davies consiste nel diffondedei Kinks e dagli studi re la musica che non della Sony (la sua casa ha età e date di scadiscografica). «Sono denza, quella che condue dischi diversi», tinua a vivere e si rigespiega, «perché sono nera lontano dalle radiversi i presuppodio, dalle classifiche di sti. Songlines è vendita, dalle riviste stato il nostro bipatinate per teenager. glietto di presentaÈ rimasto altrettanto zione al grande pubblifolgorato da Kind Of Sopra e a destra, il trentenne Derek Trucks, Blue di Miles Davis, co, dopo una serie di alconsiderato da “Rolling Stone” «il più giovane racconta, che dal Live bum a distribuzione più tra i 100 migliori chitarristi al mondo». In alto, At Fillmore East degli limitata. Sentivo il bisoil chitarrista insieme con la sua band Allman. Dalla musica gno di metterci tutto
È il suo alfabeto, sicuro («il
quello di cui siamo capaci, ribadire che non siamo una band di rock blues tradizionale. Stavolta non è stato necessario, non avevamo più niente da dimostrare e abbiamo agito spontaneamente senza pensare troppo agli equilibri. E poi col tempo si matura: quelle che una
Su disco e in concerto Trucks e i suoi amici (Todd Smallie e Yonrico Scott, la sezione ritmica, sono con lui da quando aveva sedici anni) si incaricano di rimettere in circolo e di reinventarsi i testi sacri: brani originali che sembrano scritti nei Sessanta/Settanta accanto a classici soul come Sweet Inspiration (suggeritogli da un altro amico che conta, Carlos Santana) e alla dylaniana Down In The Flood con le sue visioni apocalittiche di inondazioni purtroppo ancora d’attualità. Volunteered Slavery di Rahsaan Roland Kirk, uno degli inni del movimento afroamericano dei diritti civili nei Sixties e My Favorite Things, il tema da musical di Rodgers e Hammerstein che John Coltrane trasportò nell’iperuranio del jazz. La musica devozionale qawwali del vocalist pakistano Nusrat Fateh Ali Khan. Il reggae giamaicano di Toots and the Maytals, il folk blues acustico di Taj Mahal e reperti archelogici del Delta come Already Free, perché il primo amore non si scorda mai. Una fusion spettacolare e solare, votata al ritmo (anzi al groove, come dicono gli americani) e al solismo mai fine a se stesso, con la voce di Mike Mattison (l’ultimo arrivato) a proporsi come degno epilogo di Otis e Solomon Burke, o quanto meno di David dei Clayton-Thomas Blood, Sweat & Tears. Demodé, nostalgico, fuori tempo massimo? Neanche per sogno, a giudicare dal seguito di culto ma numeroso di cui gode (soprattutto tra i giovani) negli Usa. «Il fatto», dice, «è che da troppo tempo siamo circondati da musica mediocre. Musicisti che non sanno suonare, cantanti che non sanno cantare. Normale che la gente si guardi indietro, riscoprendo i tempi in cui le canzoni avevano un valore estetico, contenevano un messaggio ed erano animate da uno spirito. Oggi la musica è quasi tutta superficiale. Mentre la gente sente il bisogno di un senso più profondo».
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
da ”Asharq Alawsat” del 05/07/2009
Tutte le crepe del fronte islamico di Kifah Zaboun amas e il Jihad islamico hanno sempre cercato di apparire come dei fedeli alleati. Sono entrambi dei movimenti musulmani impegnati nella resistenza palestinese. Entrambi esistono al di fuori del quadro politico dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp). Fino a poco tempo fa erano entrambi esterni anche all’Autorità palestinese che governava Gaza; solo nel 2006 Hamas aveva accettato di far parte del governo della Striscia.Tuttavia ci sono sempre state delle crepe dalla nascita di questa “alleanza” per ciò che riguarda delle questioni fondamentali.
H
È stato un problema più visibile per Hamas, quando ha deciso di partecipare alle elezioni legislative del 2006. Il Jihad islamico ha sempre rifiutato di partecipare ad ogni tipo di tornata elettorale. Ha inoltre rifiutato di condividere il governo di Gaza con Hamas e, di fatto, si è arrivati anche allo scontro quando Hamas ha chiesto una tregua a Israele. Il Jihad ha accusato il Movimento di resistenza islamico di aver condotto alcuni arresti dei suoi membri nel tentativo di prendere il controllo di alcune loro moschee, così come del tentativo di monopolizzare il supporto finanziario di sunniti e sciiti. Monopolio di Hamas sui fondi che ha portato il Jihad verso l’attuale crisi finanziaria. La scorsa settimana si è svolto un vertice tra rappresentanti delle due fazioni. Fonti vicino al Jihad hanno affermato che i rapporti sul terreno si sono normalizzati e possono essere definiti come «tranquilli». Mushir al-Masri, noto esponente del Movimento di resistenza, ha invece accusato alcune fazioni palestinesi – senza nominarle – di voler mettere un cuneo tra i movimenti palestinesi. «Il rap-
porto tra noi e il Jihad è solido e qualsiasi differenza su alcuni dettagli non cambia il nostro legame che è di condivisione di strategie e idee. Jihad islamico è l’ultimo gruppo che potrebbe avere dei disaccordi con Hamas». Agggiungendo poi che il tentativo di alcuni organi di stampa di creare divisioni tra loro e il gruppo islamico falliranno «a Dio piacendo». Al contrario di ciò che afferma al-Masri uno dei capi militari del Jihad, Nafez Azzam, ha confermato ad Asharq Alawsat che ci sono delle differenze politiche e di ordine giuridico. Punti di vista differenti che, comunque, non inficierebbero il rapporto di base tra le due organizzazioni. «Ci sono disaccordi, ma non di natura ideologica», continua Azzam. «Non ci siamo trovati in linea con Hamas sulla partecipazione alle elezioni del 2006 e poi sulla gestione del governo di Gaza. Abbiamo visioni differenti anche sulle relazioni da tenere con altri Paesi e sul piano internazionale più in generale».
Secondo il rappresentante del Jihad, la natura delle controversie sarebbe solo «politica». Fonti del quotidiano interne al movimento jihadista hanno confermato la presenza di una fatwa contro il coinvolgimento in qualsiasi governo della Striscia e alla partecipazione elettorale, finché il territorio palestinese verrà considerato sotto occupazione. Il muftiYunus al-Astal, in una recente dichiarazione, si è detto pronto al dialogo con gli Stati Uniti e Israele. Il mufti di Hamas crede che i proble-
mi della regione possano e debbano essere risolti da coloro che rappresentano la gente, visto che i governi che trattano non hanno né l’autorità religiosa e neanche quella nazionale per farlo.
È inoltre convinto che sia l’ambivalenza di coloro che conducono le trattative, così come del potere che esercitano, sono delle ragioni che tengono lontano il Jihad islamico dal tavolo delle trattative con il governo di Gerusalemme. Per Azzam, invece, ogni negoziato condotto con Israele sarebbe in contraddizione con le leggi della sharia. Per lui il dialogo con Israele non potrà essere avviato fino a quando dei territori palestinesi rimarranno sotto il controllo di Gerusalemme, «un fatto questo inaccettabile per la religione e per la politica». Azzam ha rifiutato anche di instaurare rapporti con l’amministrazione americana, fino a quando non toglierà il sostegno allo Stato d’Israele.
L’IMMAGINE
Proviamo a cambiare la nostra vita all’interno delle abitudini e degli affetti Dispiace constatare che ad ogni provvedimento della maggioranza c’è sempre qualcuno che sale in cattedra e boccia l’intento, anche se tale monito può arrivare da un ente autorevole come il Vaticano. Occorre riflettere sul fatto che nell’Italia politica si è sempre detto di volere cambiare mille cose, ma poche sono state realmente attuate.Adesso si cambia grazie al governo: proviamo anche noi a cambiare la nostra vita all’interno delle nostre consuetudini e affetti, su cose che sono sempre state peraltro richieste; vedremo che le reazioni conseguenti saranno caratterizzate soprattutto dall’etica o meglio dal modo come si è agito. Allo stesso modo non si vuole ritenere, che bloccare in qualche modo l’ingresso di disperati nel nostro Paese, sarà un vero colpo al malaffare che da sempre sulla disperazione specula e si arricchisce, e non una presunzione raffigurata con il pugno sul tavolo dalla saccenza della sinistra, che è sempre pronta a giudicare gli altri e mai se stessa.
Bruno Russo
LA NOTA DI RIPA DI MEANA Caro direttore, grazie per aver pubblicato il mio scritto: “La stangata di Obama, la grande impostura climatica”. Per una ragione che mi sfugge, non è stata pubblicata una nota a piè pagina relativa a Jeremy Rifkin, che diceva: Jeremy Rifkin, economista e scrittore americano, tra i più insistenti araldi del climate change, si caratterizza per tre particolarità: a) è favorevole alla versione democratica dell’energia fai da te, quindi piccole centrali fotovoltaiche, minieolico, biomasse, riportate alla misura familiare della piccola azienda, del laboratorio artigianale; b) per la estraneità in materia di rinnovabile dai grandi progetti industriali del solare termodinamico e dall’eolico industriale; c) per essere il teorico, lui americano, del sogno
europeo “dell’Unione Europea che è nella posizione ideale per guidare la Terza Rivoluzione Industriale. Essendo la prima superpotenza ad aver stabilito l’obiettivo obbligatorio del 20% di energia rinnovabile entro il 2020, l’Ue ha messo in moto un processo di grande ampliamento della quota di “fonti pulite” nel proprio mix energetico”. Non è dunque un caso che Jeremy Rifkin sia noto soprattutto in Europa, viva prevalentemente in Europa, e sia un consulente retribuito delle Istituzioni europee
Carlo Ripa di Meana
LA STRAGE DI VIAREGGIO Il tragico incidente di Viareggio è un disastro che poteva e doveva essere evitato. Non è possibile parlare di tragica fatalità, perché la gente non è sorpresa da quanto
Auto a remi Gondole e vaporetti a Venezia si fanno aspettare? Questi signori hanno deciso di salpare direttamente con l’auto. Non un auto qualsiasi però. Trattasi di macchina anfibia, una Triumph Herald del 1961, ideale per i vanitosi che amano scarrozzare nell’acqua come se fossero in un film di 007. In acqua il bolide, qui immortalato nel Canal Grande, sfiora i 15 chilometri all’ora
è accaduto. In continuazione i sindacati lanciano l’allarme sicurezza, allarme inascoltato e, questa sciagura annunziata ha colpito non solo la città di Viareggio, ma ha colpito tutti. Non resta che esprimere tutta la solidarietà alle famiglie colpite negli affetti e nei beni, mentre si auspica che al più presto le varie inchieste aperte,
accertino in maniera inequivocabile le cause della triste vicenda. Se ogni norma, come oggi sembrerebbe, fosse stata rispettata, significa che ci troviamo davanti a normative comunitarie troppo blande e permissive, e pertanto inadeguate e da modificare con la massima urgenza. Occorre mettere in sicurezza il trasporto ferro-
viario e sopprimere i vagoni bomba che attraversano le città. L’Ugl più volte ha sollevato il tema della sicurezza, anche a fronte di una stagione caratterizzata da un progressivo abbattimento dei costi con il proliferare di servizi dati in appalto che necessitano chiaramente di norme più stringenti.
Ugl - Lucca
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Sii forte ed Egli darà forza al tuo cuore Caro Theo, grazie per la tua lettera. Sii forte ed Egli darà forza al tuo cuore. Oggi ho ricevuto una lunga lettera da casa in cui papà mi chiede se possiamo combinare di andare insieme ad Amsterdam, a trovare zio Cor. Se sei d’accordo arriverò all’Aia sabato sera alle undici, e potremo proseguire per Amsterdam col primo treno del mattino. Penso sia bene andare; papà sembra tenerci molto e sarà piacevole trascorrere un’altra domenica insieme. Posso passare la notte da te? In caso contrario, andrò in albergo. Mandami una cartolina se sei d’accordo: cerchiamo di mantenerci vicini. È già tardi. Questo pomeriggio ho fatto una lunga passeggiata perché sentivo di averne bisogno; prima, intorno alla chiesa grande, poi oltre la chiesa nuova e infine lungo l’argine dove, nei pressi della stazione, si possono vedere i mulini in lontananza. Questo paesaggio particolare è così espressivo che sembra dire: «Fatti coraggio, non temere!». Cerco disperatamente la strada che mi permetta di dedicare più pienamente la mia vita al servizio di Dio e del Vangelo. Non faccio che pregare e, in tutta umiltà, penso che sarò ascoltato. Umanamente parlando, sembra impossibile; ma ti assicuro che è così. Vincent Van Gogh al fratello Theo
ACCADDE OGGI
COMPLIMENTI Sono un giovane laureando di Scienze Politiche, e vorrei semplicemente complimentarmi con Voi di liberal. Ho iniziato a leggere il vostro giornale da qualche mese e sono rimasto colpito dalla qualità e dalle particolarità del giornale (ad esempio le lettere in ultima pagina sono davvero carine). E poi, molto interessante è anche l’inserto culturale del sabato che conservo puntualmente nel mio archivio personale. Complimenti ancora.
Gianluca Pizzigallo
UNA NUOVA FILOSOFIA SPIRITUALE Il Pontefice ha recentemente parlato di capitalismo e di etica politica, due fenomeni paralleli, che però a mio modesto avviso vanno analizzati da un punto di vista molto più spirituale. Una signora anziana, l’altro giorno, ascoltando alla tv le tragedie quotidiane, ha detto una frase che mi ha fatto riflettere: «non c’è niente da fare, l’ozio è il padre dei vizi».;La signora ha innescato un processo mentale che ha una logica conclusione, cioè una realtà globale nel quale il carico di lavoro viene distribuito e facilitato dai mezzi del capitalismo, porta soprattutto se tale sistema va in crisi, all’alienazione dell’individuo e alle sue conseguenze estreme. Ovvero l’uomo è più appagato e consapevole dei propri ruoli, se parte integrante del lavoro e del godimento del profitto. Fin quando saremo attaccati alle opportunità di un mondo materiale organizzato sopra l’indivi-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)
8 luglio 1947 Caso Roswell: il quotidiano locale Roswell Daily Record riporta che a Roswell, nel Nuovo Messico, il 509º gruppo bombardieri avrebbe catturato un oggetto volante non identificato. Un Ufo si sarebbe schiantato al suolo e le parti recuperate portate alla base aerea di Wright Petterson 1972 In un attentato a Beirut perde la vita lo scrittore palestinese, portavoce del Fronte popolare di liberazione della Palestina, Ghassan Kanafani 1973 Inizia il periodo del 31esimo governo italiano, di Mariano Rumor: quadripartito formato da Democrazia cristiana, Partito socialista italiano, Partito socialdemocratico italiano e Partito repubblicano italiano 1978 Sandro Pertini è eletto settimo Presidente della Repubblica Italiana con 832 voti su 995; prestò giuramento il 9 luglio 1982 L’Italia sconfigge la Polonia in semifinale dei mondiali con una doppietta di Rossi e accede alla finale di Madrid
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
duo e non al di sotto di esso, non capiremo le svariate soddisfazioni del mondo spirituale ove, per addentrarsi, non ci vuole un viaggio ascetico per molti anni, ma basta un poco di fede nelle potenzialità della nostra capacità di controllo, se il potere sulle cose manca, e aumentano le insidie dei vizi, ai quali siamo troppo abituati. Dobbiamo in ciò ringraziare anche la politica materialista del Novecento che per fuggire dagli assolutismi si è rifugiata in un’altra certezza trabocchetto: la comodità della democrazia universale, che alla fin fine è impotente contro le violazioni dei diritti umani.
Giacomo Vezzi
TRAGUARDI FUTURI La Puglia come l’Abruzzo di un anno fa, ha messo alla porta il malaffare delle amministrazioni della sinistra. A celebrare il distacco immediato, un Vendola che sembra appartenere alla sana politica, che non guarda in faccia al recente incarico del manager Asl, o alla sussistenza della sua stessa giunta. La Puglia cerca di togliersi da dosso un mantello di azioni improprie, che non merita, così come non le merita il nostro premier. Se la politica del futuro riuscisse, indipendentemente dalle origini ideologiche, ad esprimere trasversalmente un nuovo concetto di onestà e di vigile professionalità, raggiungeremmo forse il più grande traguardo di una democrazia diretta.
Mario Giochini
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
SENTIMENTO LENTO È da ottobre che si insiste nel denunciare la gravità della crisi economica, sui suoi effetti e su come sia sbagliato l’atteggiamento del Governo. Si badi bene, la critica non è sul piano politico: è del tutto evidente che si preferirebbe aver torto. Si dice che il peggio è passato. Invece proprio nel mese di giugno, prima che venissero pubblicati i dati drammatici del calo, chi opera nel mercato aveva avuto segnali deprimenti senza precedenti. Più che una questione politica, è un problema di ideologie. C’è chi concepisce la società come un branco di idioti e di anime perse che vagano senza coscienza. I comportamenti del Popolo pertanto devono essere guidati e il potere (governo e opposizione) deve occupare le coscienze: è un pensiero tanto nei moderati quanto nei progressisti, per quanto questi due termini possano essere utilizzati nel nostro Paese. L’individuo non conta, conta la massa. Bisogna consumare anche facendo debiti così lo Stato incassando imposte può reggere le politiche assistenziali e non intervenire con riforme radicali evitando di pagarne il conto in termini di consensi. Le imprese non licenziano, i privilegi di molte categorie dello Stato non vengono toccati, il Governo non corre rischi, l’opposizione non deve rendere conto della sua inadeguatezza storica oltre il gossip. Che poi il singolo individuo, la singola famiglia o impresa seguendo quest’onda vada in rovina, non importa. Un’altra scuola di pensiero è invece quella che ritiene che la democrazia sia mettere al centro delle decisioni il singolo e le sue libertà. Che non sia un malinteso e subdolo governo delle aspettative, ma senso di responsabilità e trasparenza. Che il Popolo sia maturo e responsabile, e se non lo è in questo senso attraverso i mass media va educato, o meglio, come direbbe Mazzini, elevato, per poter affrontare la realtà, fare i sacrifici necessari e farcela. Ne deriverebbe anche un diverso spirito di coesione sociale. Nel primo caso si cerca il capro espiatorio, si rafforzano luoghi comuni irreali e si creano le premesse per lasciare campo libero ai capipopolo. Nel secondo si riscopre una solidarietà che il sentimento o l’educazione religiosa può rafforzare, ma che affonda prima di tutto nel sentirsi Italiani. Tuttavia espressione delle scuole di pensiero sono anche gli uomini: e possibile quindi arrivare agli stessi risultati di analisi chiedendosi semplicemente come si sarebbero comportati e cosa avrebbero detto ora De Gasperi, La Malfa, Einaudi, Berlinguer. Questa crisi è profonda, la sua soluzione non breve, e lentamente il sentimento degli italiani sta cambiando. Sta percependo l’assurdo della politica sia di governo che di opposizione rispetto la realtà quotidiana. Un “sentimento lento” il cui sbocco politico può essere del tutto imprevedibile. Leri Pegolo CIRCOLO LIBERAL PORDENONE
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PAGINAVENTIQUATTRO Scommesse. L’imprenditore Marzio Buscaglia lancia il progetto di un campionato nazionale per console
Così nasce il campionato di Francesco Lo Dico olo all’inizio di quest’anno, pensare di dar vita a una Federazione italiana gioco calcio gli sarebbe parsa niente più che un’irresistibile fanfaronata. Di quelle buttate lì tra gli amici, mentre si tira tardi davanti a una console tra risatine di sfottò e lampi fugaci di onnipotenza. Ma poi, man mano che giovani e meno giovani hanno cominciato ad accalcarsi, joypad alla mano, nel piccolo club da lui fondato a Parabiago, provincia di Milano, l’idea di creare un campionato italiano di calcio virtuale da giocarsi su Pes, è diventata un’opportunità. E infine una realtà molto più ampia di quanto potesse immaginare.
S
Sono centinaia di migliaia nel mondo, le persone pronte a incrociare i controller e giocarsi punti e orgoglio in un’avvincente sfida a Pro Evolution Soccer, il game più amato dagli amanti del pallone. E così, dopo aver lanciato la proposta, Marzio Buscaglia, 42 anni, imprenditore milanese che ha fondato il primo play club della Penisola, è stato subissato di richieste di affiliazione provenienti da mezza Italia. Da Pescara a Brescia, passando per Novara e Alessandria e da Torino e Reggio Emilia, il tam tam ha bussato via via anche in Europa e ha varcato l’Oceano per giungere fino al Brasile e all’Argentina. Un esito imprevedibile, che fa di Buscaglia l’uomo con tutte le carte in regola per trasformarsi nel primo presidente della Figc virtuale. O per dirla con linguaggio più consono, nell’avatar di Giancarlo Abete. Ma c’è di più in palio, perché le numerose adesioni raccolte in giro per il Pianeta hanno messo in moto anche il progetto di una Federazione gioco calcio internazionale. Campionati nazionali, coppe e tornei.Tutto esemplato sulla realtà, ma virtuale.Vero come la finzione, e finto quanto la verità del pallone. D’altra parte, il progetto ha dalla sua parte la legge dei grandi numeri. La stessa che da anni muove scarpini, sponsor e milioni di euro in tutti gli stadi del Pianeta. Secondo i bilanci della Sony Entertainement, a marzo 2007, erano oltre 102 milioni le unità di playstation diffuse nel mondo. E già nel 1998, a tre anni dalla commercializzazione del primo modello, i pezzi venduti avevano toccato quota 40 milioni. Per non dire che Sony Italia ha quantificato il numero di console aggiudicate in Italia lo scorso anno, in dieci milioni. «Un bacino di utenti pazzesco», commenta Buscaglia, con gergo tipico da uomo industrioso di un Nord operoso. Che con tipica sprezzatura di prammatico cummenda, frena gli entusiasmi sulla Federazione internazionale. «Intanto concentriamoci sull’Italia, poi si vedrà», taglia corto l’imprenditore. Riluttante nel parlare del business, l’Abete in pectore si fa più loquace nel raccontare le origini del progetto. «Giocavo sempre con Umile Simonetti e Riccardo Martignoni, e chi gioca con costanza e passione sa che, prima o poi, sfidare le stesse persone diventa noioso e ripetitivo.Tecnica e tattica di gioco dell’avversario si imparano a memoria». E così, tra uno sbuffo sempre più marcato, e un’esultanza sempre più stracca, i tre dedicano qualche notte a far di conto e capiscono che si può fare. Aprono un club di calcio virtuale dedicato agli appassionati di Pes, e in tre mesi ci si iscrivono
VIRTUALE 150 persone. Da lì una crescita costante e infine l’idea della Federazione. Bel progetto, non c’è dubbio. Ma come funzionerà nel dettaglio? «Basta pagare una quota associativa – spiega Buscaglia – ma ognuno è libero di realizzare gli spazi che preferisce anche a seconda dei budget individuali». Basta cioè, proprio come accade in questi giorni da Torino a Cagliari, e lungo lo Stivale, individuare una sede, versare una piccola quota associativa alla Federazione, e prendere in consegna loghi e marchi ufficiali del progetto. E soprattutto, rispettare alla
che emergeranno in corso d’opera. Ma, a differenza del calcio giocato, quello delle pay tv e dei servizi esclusivi, degli abbonamenti vip e del merchandising compulsivo, la Federazione virtuale manterrà intatta la forza liberatoria e popolare che ha fatto le fortune del calcio sin dalle sue origini tradite. Prezzi accessibili a tutti e divertimento assicurato, per domeniche low-cost in compagnia di amici e tifosi. Ciascun giocatore pagherà 25 euro mensili. Quindici se si presenta con un amico e dieci euro se è uno studente. Una quota che gli consentirà di accedere alla propria federazione tutti i giorni, 24 ore su 24, anche per allenamenti, amichevoli o semplicemente per provare tattiche e schemi.
L’idea, nata dalle serate in compagnia di tre amici, ha dalla sua gli imponenti numeri del mercato dei videogames e prezzi altamente popolari. Raccolte moltissime adesioni, ora si punta a una Lega internazionale lettera un regolamento. Preciso e ponderoso. Più reale che reale non si può. «I tornei si terranno via web – spiega Buscaglia –. Ogni sede associativa dovrà mettere a disposizione un arbitro che garantisca per i suoi giocatori. Se un player commette scorrettezze, come bloccare una partita appositamente mettendo in pausa il gioco, il direttore di gara comminerà l’espulsione del giocatore». E poi, come per ogni Organo direttivo che si rispetti, ci sarà un consiglio associativo eletto da tutti i soci, che avrà il suo bel daffare, e si farà carico di polemiche, migliorie tecniche e postille regolamentari Nella foto grande, uno screenshot di Pro Evolution Soccer 2009, il più amato tra i giochi di calcio. In basso, a sinistra, lo stemma della Figc. A destra, Marzio Buscaglia
Da fine agosto, quindi, il calcio italiano si sdoppia. «E quanta panchina per una bandiera come Del Piero, e guarda che Milan mi tocca allenare ora che non c’è Kaka, e Totti che pare bollito, e bravo Ballardini che però prende troppi gol, e maledetto Florentino che droga il mercato, e non siamo più la Mecca del calcio perché il regime fiscale spagnolo ha mandato in vacca il torneo più bello del mondo». Pare già di sentirli, i fantallenatori d’Italia. Speranzosi di affidare ai loro controller, quel senso di risarcitorio conforto che il Fantabosco del pallone, in era di crisi, ripone quest’anno nella parola console.