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La cultura rende un popolo
di e h c a n cro
facile da guidare, difficile da trascinare; facile da governare, impossibile a ridursi in schiavitù
9 771827 881004
Henry Brougham di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • SABATO 1 AGOSTO 2009
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Le polemiche sui dialetti e sul progetto Aprea
La riforma della scuola e l’unità d’Italia
CHI SONO LE CINQUE PERSONE CHE HANNO DECISO DI INTRODURRE NEL NOSTRO PAESE LA RU486, IL FARMACO ABORTIVO Romano Colozzi, assessore al Bilancio della Lombardia. L’unico a votare no
Giovanni Bissoni, assessore alla Salute dell’Emilia Romagna. Ha votato sì
di Giuseppe Bertagna a scritto Karl Kraus, all’inizio del Novecento (ma cose simili le aveva già dette Hegel, all’inizio dell’Ottocento), che «il giornalista ha con la realtà lo stesso rapporto che la fattucchiera ha con la metafisica». Ora al netto di questa inesorabile propensione contenuta in questo mestiere, oggi purtroppo amplificata dalle esigenze spettacolari della cosiddetta società dell’informazione, la recente polemica sull’«esame di dialetto» che sarebbe stato richiesto ai docenti dalla Lega per entrare negli albi regionali per l’insegnamento, esame prima affermato poi negato, poi reinterpretato in vari modi più ragionevoli sia dall’onorevole Cota sia dallo stesso ministro, consente di ricavare alcuni utili insegnamenti. Due generali, per così dire di valenza storico-culturale, e uno particolare, più vicino alle contingenze di politica scolastica che hanno fatto da detonatore alla polemica.
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Teheran è ancora una polveriera
Nel nome di Neda rompiamo il muro del silenzio
Sergio Pecorelli, presidente dell’Aifa ordinario di ginecologia. Ha votato sì
La cupola della pillola Un ginecologo, un economista, un ordinario di patologia e due assessori. Un consiglio così composto, che si occupa prevalentemente di mercato e prezzi, è titolato a prendere una decisione che lacera le coscienze e contraddice la 194, una legge dello Stato? alle pagine 2 e 3
Il governatore: «Sarò ancora io il canditato in Lombardia». E apre all’Udc
«Questo Pdl va cambiato»
di Gennaro Malgieri a cricca criminale di Teheran, capeggiata da Mahmoud Ahmadinejad, presidente eletto dell’Iran ma non riconosciuto, ha impedito che i cittadini iraniani si raccogliessero in preghiera nel cimitero di Behesht Zahra, a sud della capitale, sulla tomba di Neda, la ragazza ventiseienne barbaramente assassinata dai miliziani del regime. Come prescrive il rituale sciita, dopo quaranta giorni si rende omaggio al defunto e centinaia di iraniani volevano adempiere al precetto, guidati da Mir Hossein Mousavi e Mehdi Karroubi, due dei leader dell’opposizione, cui in precedenza era stato negato il permesso di commemorarla in una moschea del centro. Ma non appena la folla si è radunata attorno al cimitero, i basiji hanno cercato di disperderla con lacrimogeni e randellate. Molti i feriti, numerosi gli arrestati.
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liberal estate Da oggi ogni giorno l’inserto
OTTO PAGINE PER CAMBIARE IL TEMPO D’AGOSTO seg1,00 ue a p agina 9CON EURO (10,00
Claudio De Vincenti, ordinario di Economia, Università La Sapienza. Ha votato sì
Gloria Saccani Jotti, ordinaria di patologia clinica, Università di Parma. Ha votato sì
Formigoni: Berlusconi è grande, ma ora serve democrazia di Errico Novi
ROMA.
«Dobbiamo tornare fra la gente a farci tirare per la giacchetta». Fino a quella frase la platea della Fiera di Roma si era davvero emozionata solo per Renato Brunetta e la sua requisitoria anti-fannulloni. Con Roberto Formigoni si liberò in un’ovazione. Di più, un boato, l’unico davvero memorabile per il congresso fondativo del Pdl. Eppure il governatore della Lombardia conserva una collocazione vagamente eretica nel firmamento del partito, come se fosse l’unico – o quasi – a comprendere la richiesta di partecipazione espressa dalla base. Certo non smette di promuoverla adesso che le spinte centrifughe interne (Miccichè) ed ester-
I QUADERNI)
• ANNO XIV •
NUMERO
151 •
I quattro miliardi del governo non servono
Il vero piano per Il Sud? Quello contro la mafia
ne (Lega) fanno emergere nel Pdl un deficit di iniziativa politica. Chiede «uno sforzo per formalizzare la nostra identità, per renderla riconoscibile» e la creazione «di luoghi di dibattito interni al partito». Perché «la fortuna di avere un leader fortissimo come Berlusconi» non può autorizzare ancora «a ridurre tutto a lui». Un’esortazione sostenuta dall’ottimismo ma non per questo meno energica di quell’intervento al congresso. Netta anche la richiesta di ripristinare le preferenze e tornare all’alleanza con l’Udc: «Ci sono tutte le ragioni per ritrovare un’intesa organica», dice.
u un punto non ci piove: esiste una “questione meridionale”. Ed è sempre più grave. Ma che a questa si debba rispondere con politiche specifiche e addirittura con la creazione di partiti che se ne facciano paladini, ho le più ampie riserve. A meno che per interventi ad hoc non s’intenda un piano per l’avvio a soluzione del più drammatico dei problemi meridionali – in sé e per le implicazioni più generali che suscita – e cioè la cessione di ampie porzioni di territorio alla criminalità organizzata. Piano di cui non solo non si vede l’ombra, ma del quale neppure si parla in termini del dibatitto politico.
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WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
di Enrico Cisnetto
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IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
pagina 2 • 1 agosto 2009
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Etica. L’autorizzazione della vendita della Ru486 ha spaccato in due l’Italia. E il governo chiede regole certe per l’uso
Un cattivo consiglio
Il vertice dell’Aifa non è un organismo pensato per prendere delle decisioni così importanti per la coscienza del Paese di Gabriella Mecucci
ROMA. All’indomani del via libera all’introduzione della pillola Ru486 in Italia, il governo è intervenuto chiedendo formalmente che vi siano «indicazioni certe sul suo uso». Il ministro Sacconi ieri ha inviato una lettera all’Aifa chiedendo esplicitamente che il farmaco «sia vincolato nella prassi al rispetto dei profili della legge attraverso l’individuazione di un percorso attentamente definito per l’interruzione volontaria di gravidanza farmacologica». Nella sua lettera Sacconi sottolinea anche come la stessa decisione del Cda, di «condizionare la somministrazione della pillola abortiva ad una serie di regole che dovranno essere definite in sede tecnica dalla stessa Agenzia», appare esprimere «la unanime consapevolezza in esso della necessità di rimuovere i pericoli impliciti in un metodo che potrebbe determinare minore attenzione ai profili etici, sociali e sanitari e che rischia di ricondurre l’aborto in un ambito di solitudine privata». Ma chi è nello specifico che ha deciso l’introduzione della Ru486? È un organismo di sicura e indiscutibile competenza sull’argomento? La scelta è stata fatta dal Cda dell’Agenzia del farmaco, composta da 4 membri più un presidente che indica delle linee generali di comportamento. La pillola abortiva è passata con 4 voti favorevoli e un contrario. L’organo decisionale dunque non ha votato all’unanimità. I quattro membri che hanno detto sì sono Giovanni Bissoni, assessore alla Salute dell’Emilia Romagna, Claudio De Vincenti, ordinario di Economia all’Università di Roma, Gloria Sacconi Jotti, ordinario di Patologia generale a Parma, e il presidente Sergio Pecorelli, ordinario di Ginecologia. Il solo, quindi, a essere titolare di una competenza specifica sull’argomento.
Il no è venuto da Romano Colozzi, assessore della Regione Lombardia. A guardare la composizione del cda Aifa sorge spontanea una domanda: perché personaggi indubitabilmente di notevole caratura, ma non attrezzati (a parte due) a valutare la percolosità di un farmaco, debbono dire l’ultima parola sull’argomento? La risposta che viene divulgata a piene mani non corrisponde del tutto al vero: perché - si dice - la loro è una sorta di scelta economico-merceologica. Il via libera sul piano scientifico era già stato dato da un apposito comitato tecnico-scientifico. Organismo, anche questo, però, il cui comportamento è altamente discutibile: basti pensare che non ha reso pubblico il dossier delle morti, inviato dalla ditta produttrice (Engladyn) al ministero, su richiesta di quest’ultimo. L’autorizzazione del comitato tecnico-scientifico seguiva quella dell’Emea, l’organo competente a
Un’inchiesta del 2005 getta ombre sull’Agenzia e sul controllo dei farmaci
Una storia breve, costellata di scandali di Vincenzo Faccioli Pintozzi
ROMA. L’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) è un organismo sanitario preposto a promuovere le conoscenze dei farmaci. Sottoposta alle funzioni di indirizzo del ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche sociali (e del ministero dell’Economia e Finanze) nasce con un intervento legislativo d’urgenza poi parzialmente modificato nella legge di conversione. Le norme relative al funzionamento dell’Agenzia sono state successivamente stabilite da un regolamento fissato con decreto ministeriale. Lo scopo principale dell’Agenzia è quello di coordinare le informazioni relative ai farmaci tra le aziende farmaceutiche, i medici e gli informatori scientifici, gli ospedali e le strutture sanitarie locali e nazionali. Altra responsabilità è quella di provvedere «al governo della spesa farmaceutica in un contesto di compatibilità economico-finanziaria e competitività dell’industria farmaceutica», ossia individuare i prezzi di riferimento dei farmaci a carico del Servizio sanitario nazionale tali da garantire un guadagno adeguato, ma non eccessivo, alle aziende farmaceutiche, consentendo in tal modo una spesa pubblica che sia la più bassa possibile. In particolare per i farmaci “ex generici” oggi detti “equivalenti”, le aziende che non fossero disposte ad accettare il prezzo di riferimento “imposto” dal Ministero ed indicato dall’Aifa hanno due alternative: ritirare il farmaco dalla prescrivibilità oppure chiedere all’utente compratore di pagare la differenza tra quello che rimborsa il Ssn e la cifra richiesta dall’azienda farmaceutica. Dovrebbe dunque, nella sostanza, monitorare e fungere da contraltare a Federfarma, l’associazione di aziende produttrici di farmaci. Nel 2005, però, inizia una vicenda che ri-
schia di travolgere l’Aifa: un rapporto dei Nas di Torino lancia pesanti ombre sul suo funzionamento. Nello specifico, non convince la sperimentazione di due prodotti bio-equivalenti, i corrispondenti generici di un composto griffato. Tre persone finiscono in carcere per corruzione, altre quattro vengono mandate ai domiciliari, un’ottava riesce a schivare le manette perché probabilmente è in Svizzera.
Due, i corrotti, sono alti dirigenti della stessa Aifa. Sei, i corruttori, lavorano in posti chiave di case farmaceutiche o in agenzie di intermediazione e rappresentanza. I capi di imputazione, trenta, elencano i singoli episodi e tratteggiano uno scenario devastato. Il gip Sandra Recchione, il giudice che ha filtrato le richieste di arresto e firmato le ordinanze, si spinge ad affermare come «dalle indagini sia emerso che Nello Martini, quale direttore generale dell’Aifa, intrattenga rapporti privilegiati con gruppi multinazionali di società farmaceutiche e, in particolare, con le società Bayer e Glaxo Smith and Kline». A Martini, oltre alla corruzione, viene contestato il favoreggiamento di un suo funzionario: il subalterno lo avrebbe aiutato «a eludere le investigazioni della procura di Torino, avvertendolo che il suo telefono era sotto controllo». Non solo. A Palazzo di giustizia, nel capoluogo piemontese, c’era una gola profonda. E altri personaggi - pubblici ufficiali in corso di identificazione, come la talpa della procura, una donna - avrebbero passato informazioni e notizie riservate. Omologazioni di farmaci, fasce di prezzi, sperimentazioni. Tutto, stando alle indagini dei Nas, sarebbe avvenuto al di fuori delle regole. E i rapporti, i contatti, le mazzette allungate avrebbero garantito un risultato sicuro. L’Aifa, per la procura, andava azzerata. Il gip Recchione, invece, ha centellinato gli arresti perché seppur è certa l’agevolazione garantita dai funzionari alle case farmaceutiche, manca la prova del pagamento del denaro. Martini sarà poi rimosso dall’incarico.
livello europeo. Le cose però non stanno proprio così a proposito dei poteri dell’Aifa: se infatti il suo Cda viene a conoscenza di notizie che segnalano il farmaco in questione come pericoloso o comunque fortemente sospetto, può non autorizzare la sua immissione sul mercato e riaprire la questione a livello nazionale ed europeo. Sfatiamo, dunque, il mito dell’atto dovuto, i quattro potevano dire no. Non lo hanno fatto e si sono presi dunque la responsabilità di adottare anche in Italia la pillola abortiva, la “kill pill”, come l’ha definita il New York Times. Un valente economista, un politico (l’altro ha pronunciato l’unico no), una docente di Patologia generale e uno di Ginecologia hanno scelto di dire sì a una pratica abortiva che secondo molti esperti potrebbe provocare gravi danni alla salute della donna e che ha già causato 29 decessi. E i quattro, almeno in parte, dovevano essere consapevoli della serietà della decisione che prendevano. Il comunicato del Cda, infatti, sostiene che «ulteriori valutazioni sulla sicurezza del farmaco hanno indotto il cda a limitarne l’utilizzo entro la settima settimana di gestazione anziché la nona come avviene in gran parte d’Europa». «Tra la settima e la nona settimana - prosegue la nota - si registra il maggior numero di eventi avversi e il maggior ricorso all’integrazione con la metodica chirurgia».
Ma c’è di più, la nota assicura che l’uso della Ru486 non determinerà alcun vulnus alla 194 e non ricondurrà l’aborto alla clandestinità domestica. «Il ricovero - sostiene l’Aifa - in una struttura sanitaria deve essere garantito così come previsto dalla 194, dal momento dell’assunzione del farmaco sino alla certezza dell’avvenuta interruzione della gravidanza escludendo la possibilità che si verifichino eventuali effetti teratogeni». La questione dell’incompatibilità fra l’uso della Ru486 e le regole imposte dall’attuale legge sull’aborto era stata sollevata l’altro ieri da Francesco Cossiga. In realtà l’Aifa non spiega chi e come garantirà i ricoveri e vigilirà sul fatto che ci siano. Quanto alla settima settimana anziché la nona, va ricordato che anche negli Usa vige la medesima regola. L’unico a votare contro l’introduzione della pillola abortiva è stato - come si diceva - l’assessore della Lombardia Colozzi che, in una sua dichiarazione, insiste sull’incompatibilità fra pillola abortiva e legge 194. Ritiene molto difficile infatti che «la donna resti in una struttura ospedaliera sino all’espulsione del feto» e quindi denuncia «lo svuotamento della legge sull’aborto». «Il fatto che uno dei membri del Cda conclude - abbia votato contro, dimostra che il sì non era un atto dovuto come si è voluto far credere». Non c’è più nulla da fare? Non è detto. Il comitato tecnico scientifico scade a settembre e ne dovrà essere nominato uno nuovo. Se si raccoglieranno ulteriori informazioni su disfunzioni e percolosità della 194, la pratica potrebbe essere riaperta.
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Parla Gian Luigi Gigli, docente di Neurologia a Udine
«È come un via libera all’aborto clandestino» di Francesco Lo Dico
ROMA. «L’introduzione di un farmaco abortivo come la Ru486 lascia passare l’idea che la gravidanza sia una patologia da sottoporre a cure mediche. E inocula per di più l’erronea convinzione che l’interruzione della stessa rappresenti un diritto soggettivo, secondo modalità in aperto contrasto con la nostra legge 194. Mi pare abbastanza grave, oltreché probabile, che la rinuncia alla maternità possa essere demandata, specie tra ragazze giovani, all’assunzione di una pillola in grado di sottrarre quest’ultime a un fondamentale processo di riflessione basato su un’accurata informazione e l’accesso alla consulenza di esperti. Grave ma anche rischioso. Perché in un Paese come il nostro, dove esiste nelle strutture ospedaliere una forte pressione a che la degenza venga ridotta al minimo indispensabile, il ricovero obbligatorio potrebbe trasformarsi nella prassi in una opzione rara. Costi eccessivi e ridotta disponibilità di posti letto, cioè, potrebbero tramutare l’aborto farmacologico in una sorta di pericoloso fai da te domestico, mutando l’interruzione di gravidanza in un fatto privato, che implica solitudine e forti rischi per la salute». All’indomani dell’immissione della pillola abortiva nei circuiti sanitari nazionali ratificata dall’Aifa, Gian Luigi Gigli, docente di neurologia all’Università di Udine e responsabile del dipartimento Salute e welfare dell’Udc, mette in guardia dai possibili rischi connessi all’ormai famigerata Ru486. Crede che la pillola porterà a una banalizzazione dell’aborto? La Ru486 riduce un fatto drammatico come l’interruzione di gravidanza a una prassi farmacologica. Pillole e ritrovati medici assolvono a funzioni terapeutiche atte a tutelare gli individui da svariate patologie. Nel caso della gravidanza è invece insostenibile delegare a un presidio medico una scelta esistenziale che non riguarda solo la salute del paziente, ma la vita stessa di un altro individuo. Purtroppo però l’introduzione del farmaco abortivo è complementare a una diffusa tendenza in atto già da tempo, che tende ad allentare i vincoli imposti dalla Legge 194, trasformando l’aborto in un diritto soggettivo. Ci spieghi meglio. La legge 194 prevede la possibilità di interrompere la maternità solo se questa opzione si rivela legata a un conflitto di interesse tra la salute della donna e il diritto alla vita. Un principio che ormai tende a essere soltanto formale, perché nella sostanza si è conferito al concetto di salute uno spettro semantico piuttosto ampio, che comprende ragioni sociali e psicologiche. Si adduce cioè a motivazione dell’aborto, un ampio campionario di motivazioni che compren-
dono lo stress, l’esiguità di risorse economiche, l’impatto mentale della gravidanza e ragioni esistenziali di vario tipo. Una serie di fattori che hanno esteso le maglie della legge, rendendola soggetta a una sempre più libera interpretazione. La pillola abortiva, non fa che ratificare questa direzione, e questo tipo di concezione. L’aborto diventa cioè una libera scelta, un diritto soggettivo. Si è detto che la Ru486 porterà a una privatizzazione dell’aborto. Dunque non è credibile come ha precisato l’Aifa, che il ricovero ospedaliero, obbligatorio fino al termine del trattamento, avverrà nei fatti? Bisogna semplicemente augurarselo nell’interesse di tutte le donne che accederanno al trattamento. C’è una diffusa tendenza a minimizzare i tempi di degenza nelle strutture sanitarie per tenere bassi i costi. Un fatto che lascia molte perplessità sulla rigida osservanza delle indicazioni procedurali da parte degli ospedali. E che solleva un’altra perplessità a sua volta. Non crede che di fronte all’ipotesi di rimanere ricoverata per 15 giorni, una ragazza giovane che voglia mantenere una certa discrezione, escluda il ricorso alla pillola a favore dell’intervento chirurgico? È una notazione interessante in effetti. Ma sarebbe valida solo nel momento in cui la prassi ospedaliera legata all’aborto farmacologico venisse applicata alla lettera. Altrimenti, per la ragazza in questione, ci sarebbero un bel po’di rischi. Si è detto che l’Aifa non avrebbe dovuto decidere in merito alla Ru486. Ma non è l’Agenzia del farmaco europeo, che già nel 2007 ha approvato la sua introduzione in Italia, come nel resto dei Paesi europei? Sì, formalmente è così perché vige il principio dell’iter registrativo del Mutuo Riconoscimento. Tuttavia, se le aziende farmaceutiche hanno tutto l’interesse a veicolare in quante più nazioni i propri prodotti, è anche vero che, in tema di aborto, l’Unione Europea non ha potere decisionale. Pertanto l’Ue non potrebbe imporre la commercializzazione della Ru486 se le sue modalità d’uso si trovassero a configgere con la nostra legislazione in tema di interruzione di gravidanza. Un’altra questione delicata è quella degli effetti collaterali del farmaco... Ritengo che 29 morti per una sostanza che non serve a curare alcuna patologia siano decisamente inaccettabili. Sarebbero state sufficienti a bloccare qualunque altro prodotto se dietro la Ru486 non vi fossero pressioni ideologiche e interessi commerciali inaccettabili. La gravidanza, poi, non è certo una patologia.
E adesso si può solo sperare che gli ospedali rispettino i tempi di degenza
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Ma nel governo, la Prestigiacomo plaude alla decisione
Il Vaticano: «Reagiremo!» di Francesco Capozza
ROMA. La pillola abortiva Ru486 divide l’Italia. «È assolutamente inconcepibile definire farmaco un prodotto che ha come unico effetto la soppressione di un altro essere vivente diverso da chi assume il farmaco stesso»: Romano Colozzi, esponente del Cda dell’Aifa e assessore alle Finanze della Lombardia spiega il suo no (l’unico su quattro voti positivi) al via libera al commercio della Ru486 in Italia. Dura la presa di posizione del Vaticano che ha subito parlato di «veleno letale» e di «delitto» che comporta «la scomunica» della Chiesa per chi la usa, la prescrive o partecipa a qualsiasi titolo «all’iter». «Non possiamo restare passivi», ha scritto monsignor Rino Fisichella in un editoriale dell’Osservatore Romano. Il fronte politico è quanto mai diviso. Gabriella Carlucci, parlamentare del Pdl parla di una legalizzazione dell’ «aborto fai da te», e accusa la sinistra di aver portato avanti «una campagna ideologica e relativista che ha condizionato l’Aifa». Il via libera dell’Agenzia del farmaco mette l’Italia «finalmente al passo con l’Europa», afferma invece Silvana Mura, deputata di Idv. «Le donne che si troveranno costrette a ricorrere all’interruzione di gravidan-
za ora - sottolinea - potranno sceglie di avvalersi di una tecnica farmacologia sicuramente molto meno invasiva dell’intervento chirurgico». Conciliante Fabrizio Cicchitto che si dice «fiducioso di ciò che ha deciso l’Agenzia del farmaco sulla Ru486» ma considera «del tutto legittima l’obiezione di fondo della Chiesa». Posizioni diverse anche all’interno del governo con il ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo che si dice d’accordo all’introduzione della Ru486 mentre è contraria il ministro della Gioventù Giorgia Meloni che sottolinea la «totale negatività del messaggio culturale ricompreso nella diffusione» del farmaco. Parlando di divisioni il Pd non sembra essere da meno. «Se parliamo della pillola abortiva Ru486, dobbiamo prima mettere l’accento, tantissimo, sulla prevenzione, soprattutto tra i giovani e giovanissimi» ha da Trieste l’europarlamentare del Pd, Debora Serracchiani. Mentre Donatella Poretti, senatrice radicale in quota Pd afferma che «la decisione dell’Aifa era un atto dovuto vista la procedura del mutuo riconoscimento di un farmaco sperimentato e utilizzato in alcuni Paesi europei da oltre 10 anni».
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politica
Conti. Via libera del Cipe ai soldi promessi dal premier: saranno disponibili nel 2010. Intanto la crisi annulla l’inflazione: non succedeva da cinquant’anni
Il boomerang del Sud Dal governo 4,3 miliardi alla Sicilia, ma le Regioni non ci stanno e in cambio chiedono nuovi fondi straordinari per la sanità di Francesco Pacifico
ROMA. Le minacce di separatismo (dal Pdl) e le accuse di disinteresse verso il Mezzogiorno, vero serbatoio elettorale dei berlusconiani, hanno avuto effetto. Ieri il Cipe ha sbloccato i 4,3 miliardi di euro del piano attuativo regionale 2007-2013 della Sicilia. E poco importa che, a differenza di quanto prevede il piano Sud, i fondi non vengano monopolizzati dalle grandi infrastrutture, regionali o interregionali che siano.
Tutti gli attori di questa battaglia si dicono soddisfatti. Silvio Berlusconi si dice «pronto a convocare un’altra seduta del Cipe se qualche regione meridionale dovesse approvare il suo Par in questi giorni». Gianfranco Miccichè, il leader dei ribelli dell’Isola, parla di «par della Pace», Giulio Tremonti promette «un piano Marshall per il mezzogiorno», mentre il governatore, Raffaele Lombardo, annuncia «una nuova fase». Il partito del Sud sembra (al momento) disinnescato. Il go-
verno gongola per la chiusura del decreto anticrisi prima della pausa estiva: questa mattina il Senato dà la sua approvazione definitiva, mentre in Consiglio dei ministri verrà approvato contemporaneamente il decreto correttivo su Corte dei Conti, tassazione aurea di Bankitalia e poteri del ministero dell’Ambiente sulle nuove centrali. Ma i problemi sono soltanto rinviati, come dimostra un’inflazione che tra luglio e giugno è stata a livello zero per i cali di alimentari ed energia e che acuisce i rischi di deflazione. Non accadeva da 50 anni. Se il ministro dello Sviluppo Claudio Scajola fa notare che «la Sicilia farà da apripista a tutte le altre Regioni che presenteranno i Par», qualcuno
Il vero problema è la cessione di porzioni di territorio alla criminalità organizzata
I piani speciali non basteranno mai: la “questione meridionale” è la mafia di Enrico Cisnetto segue dalla prima Così inquadrerei il rinascente problema del Sud, tornato sotto i riflettori vuoi per il “caso Sicilia”– sfuggito di mano a Berlusconi nel suo lungo periodo di latitanza dai problemi del Paese – vuoi per lo spostamento a Nord del baricentro decisionale del Governo, grazie alla capacità pervasiva della Lega e al vuoto programmatico del Pdl.
Dunque, che il problema Sud esista, che si sia progressivamente aggravato e che nulla sia stato fatto per fronteggiarlo, solo chi fosse in malafede potrebbe negarlo. E poi, spesso le coincidenze spiegano più delle teorie: pescando nella cronaca degli ultimi giorni, non c’è dubbio che il crack della sanità regionale del centro-sud, che i dati della Banca d’Italia secondo cui la crisi colpirà maggiormente l’occupazione e gli investimenti delle imprese del Mezzogiorno, e che quelli dell’Istat con cui si segnala che il 23,8% le famiglie meridionali è a “rischio fine mese”, rappresentano altrettante conferme dell’esistenza (ma sarebbe meglio dire del ritorno) della“questione meridionale”. Ma gli stessi dati, specie quelli sul crescente tasso di persone e famiglie indigenti, ci dicono anche che è l’intero quadro nazionale a essere in difficoltà. Perché la povertà aumenta comunque su tutto il territorio, perché la disoccupazione nel 2009 salirà complessivamente dell’1,3% (circa 300 mila posti di lavoro in meno) per arrivare al 9,3% nel 2010 dal 6,7% del 2008), perché gli investimenti si contrarranno dell’11,2% (dati Isae di luglio) a conferma che il pil si contrarrà a fine anno ben più del 5%. Di fronte a questa situazione di crisi generalizzata, sarebbe miope e superficiale pensare di poter risolvere i problemi parzialmente o localmente. Guai, in particolare, a pensare di ricreare una nuova Cassa per il Mezzogiorno, o a credere di poter risolvere la situazione con i fondi strutturali. Ieri, come era prevedibile, il Cipe ha sbloccato 4,3 miliardi di cosiddetti Fas (Fondi aree sottoutilizzate) per la Sicilia, e Berlusconi e Tremonti altri ne hanno preannunciati per la Puglia e le altre regioni meridionali. Ora, a parte il fatto che in termini di cassa essi saranno operativi solo dal 2010, mi pare che l’unico risultato tangibile sia
quello di aver placato le pulsioni revanchiste dei luogotenenti sudisti del Pdl, che hanno subito accantonato le loro intenzioni separitiste. Si è dunque fatto rientrare un problema politico – e, per carità, è bene che sia così, di un partito del Sud non si sentiva certo la mancanza – ma certo non sono statin risolti i problemi della Sicilia né si è messo mano ad un metodo di lavoro utile. Diciamoci la verità: lo sviluppo vero non arriverà certo da interventi ad hoc, né al sud, né al nord. Al contrario, occorre essere consapevoli che un progetto nazionale per la crescita del Mezzogiorno e per la valorizzazione delle sue potenzialità dipenderà in larga parte dal sostegno che una rinnovata azione pubblica centrale saprà fornire al sistema delle imprese e alle famiglie sia con interventi anti-congiunturali di breve termine sia attraverso politiche strutturali di crescita e coesione nel campo delle infrastrutture, dell’innovazione e ricerca e per lo sviluppo dell’industria. Per colmare queste lacune, è necessario che lo Stato si riappropri della sua sovranità. Sovranità innanzitutto territoriale, agendo contro la criminalità organizzata che infesta non solo il sud ma anche il nord (si legga il libro di Antonio Laudati, Mafia pulita). E poi sovranità economica: impostando una politica economica che abbia come unico obiettivo quello di un ritorno allo sviluppo in modo omogeneo, perché del ritorno al “segno più”ha bisogno l’intero paese, senza eccezione alcuna. Se il pil nazionale è negativo, poco importa se quello del nord è “meno negativo”. E se i numeri ci dicono che abbiamo perso 15 punti di pil in 15 anni rispetto alla media di Eurolandia, e dunque che abbiamo accumulato un gap competitivo spaventoso, non può essere stata una questione di Nord o di Sud, ma della consunzione di un modello produttivo vetusto cui non si è posto rimedio.
Insomma, se il nostro Meridione si sviluppa meno del Settentrione, è bene tenere a mente che questo accade in un’Italia tutta che si sviluppa meno dei concorrenti europei. E se le università meridionali sono mediamente peggiori di quelle con sede al Nord, è bene ricordare che quelle italiane tutte sono tragicamente in fondo alla classifica internazionale. E se a Roma si fatica a prendere decisioni e si annidano sprechi, sotto i campanili amministrazioni figlie di localismi esasperati chiamati federalismo, non sono certo da meglio. Non c’è una questione meridionale o una questione settentrionale. O meglio, ci sono entrambe. Ma soprattutto esiste una – tragica – questione nazionale. Di questo dobbiamo essere consapevoli. (www.enricocisnetto.it)
nella maggioranza fa notare «che con l’Isola si è creato un precedente pericoloso: anche per gli altri enti del Sud dovremo accettare fiatare una programmazione che premia la frammentazione dei progetti». Spulciando il Par siciliano si scopre che soltanto il 43 per cento dei 4,3 miliardi sbloccati del Cipe va a progetti di più ampio. Perché accanto ai 370 milioni per i collegamenti viari tra Messina, Palermo, Catania fino a Gela oppure i lotti nordsud tra Gela e Santo Stefano di Camastra (valore 560 milioni) ci sono 91 milioni per ampliare la trasparenza nella pubblica attraverso amministrazione l’innovazione o i 450 milioni spalmati tra lotta al traffico, creazione di asili nido e residenze per anziani.
Questa tendenza non riguarda soltanto la giunta Lombardo: la Puglia, per esempio, non dimentica la creazione di case salute e piste ciclabili, mentre la Campania destina 200 milioni alla raccolta differenziata. Proprio Puglia e Campania sarebbero i prossimi enti che si vedranno sbloccare gli enti. E come i colleghi siciliani difficilmente accetteranno pressioni
politica
1 agosto 2009 • pagina 5
Gli errori di Tremonti, il rigore di Fini e le pretese dei “peones” di destra e di sinistra
Il decreto? Cronaca di una svista annunciata di Insider a voglia di vacanza, come si dice a Roma, c’ha messo una pezza. Ma quello che è successo in Parlamento, durante la discussione della manovra estiva, rimarrà un piccolo guinness dei primati. È difficile trovare, pur nelle vicende colorite di quell’augusta Istituzione, tanta confusione ed approssimazione. Cominciamo dal metodo, che ha tuttavia una sua sostanza politica. Se non si riesce a gestire il rapporto tra Governo e maggioranza – una maggioranza che ha i numeri che conosciamo – che succederà quando i rapporti, come per il fantomatico piano per il Sud, coinvolgeranno una decina di regioni con le loro fameliche clientele? La risposta la cerchiamo nella storia del decreto.
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dal governo per una riprogrammazione. «Il progetto del governo sul Mezzogiorno rischia di ridursi soltanto a un dibattito culturale», notano dal Pdl, «L’azione dei capigruppo Cicchitto e Gasparri, quelli che più di tanti stanno spingendo sulla piattaforma, esce ridimensionata, mentre vince Miccichè. Lo stesso che ha gestito i Fas tra il 2001 e il 2006, anni nei quali si è spesa la metà dei fondi a disposizione». I governatori però possono alzare il tiro. Il Piano Sud, che si basa su una gestione collegiale dei Fas, si collega a una partita ancora più delicata: la dotazione del fondo sanitario. Tremonti ha congelato la crescita sua al 2,4 per cento nel 2009 e all’1,2 nel 2010. In tutto 104,2 miliardi. Gli enti locali sperano di arrivare a 105 miliardi. Dalla conferenza delle Regioni convocata per mercoledì, il presidente Vasco Errani manderà a Tremonti un messaggio chiaro: i governatori sono pronti a fare pressioni sui loro colleghi meno virtuosi che non vogliono rientrare dei deficit sanitari, ma in cambio il ministro deve aumentare le risorse a tutti. Basta quindi un miliardo per chiudere l’accordo sul Piano Sud.
Il ponte sullo Stretto di Messina, con il suo enorme investimento economico da parte dello Stato è diventato un po’ il simbolo dell’intervento eccezionale del governo Berlusconi a favore del Sud. E così ieri, i “meridionalisti” Lombardo e Miccichè hanno festeggiato gli oltre quattro miliardi di euro per il Sud sbloccati dai fondi Fas. A destra, il presidente della Camera Gianfranco Fini
Si era partiti, fin dall’inizio, con il piede sbagliato. Colpa di Giulio Tremonti, da sempre avverso alle regole e alle prassi parlamentari. Prima di varare il decreto, o comunque in modo contestuale, avrebbe dovuto presentare in Parlamento il Dpef. Operazione piuttosto semplice, visto il suo contenuto. Basta leggere le previsioni di crescita per il 20112013. Quel 2 per cento ipotizzato, in modo meccanico, dimostra solo la scarsa cura della Ragioneria generale dello Stato nel predisporre stime minimamente attendibili. Eppure non ci voleva molto: bastava prendere le cifre del Fmi, anche se avevano l’inconveniente di un maggior realismo e, quindi, di una tosatura dell’ottimismo di maniera che circola nei Palazzi della politica. Il Dpef è stato invece presentato con un ritardo di15 giorni. Di conseguenza la risoluzione che ne approva i contenuti e indica quali provvedimenti considerare “collegati” non ha potuto dispiegare i suoi effetti. Il risultato di questa svista è stata l’impossibilità di considerare il decreto-legge come parte della manovra di fine anno, che si concluderà con l’approvazione della legge finanziaria. Quando il Presidente Fini ha ricevuto il testo, la prima questione che si è posta è stata quella della procedura da seguire. Si era di fronte a un “collegato”– vale a dire di un tassello della manovra di finanza pubblica – o ad un semplice decreto-legge? La risposta ha seguito i canali dell’ortodossia: “no Dpef? No collegato”. Decisione inoppugnabile da un punto di vista formale – forse meno da uno sostanziale – comunque gravida di conseguenze. I Regolamenti della Camera – quelli del Senato meno – sono molti rigorosi in tema di decreti legge. La possibilità di emendamento è, infatti, circoscritta alla materia trattata dal disegno di legge. Se si va oltre, scatta la ghigliottina che impedisce ogni iniziativa. Ma qual era il tema del decreto legge? «Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini e della partecipazione italiana a missioni internazionali». Come si dice per certi editoriali: cenni sull’universo. Ed è iniziato il diluvio.
formalmente approvato dai suoi componenti, spicca un emendamento all’articolo 118 del Testo unico in materia bancaria e creditizia secondo il quale «l’innalzamento del tasso di interesse» non può comunque superare il tetto del «5 per cento». E se l’inflazione – cosa tutt’altro che improbabile – superasse quel livello? E l’indipendenza della Bce? Quisquiglie: direbbe Totò. Nemmeno nella Russia sovietica si era osato tanto. Per fortuna Giulio Tremonti, in un momento di resipiscenza, se n’è accorto sfilandolo dal maxi emendamento finale. È contrario – si è limitato a dire – agli standard internazionali. Ma dov’erano gli autorevoli rappresentanti del Governo mentre la Commissione discuteva della materia? Forse occupati nell’opera di lobbing con i singoli deputati. Impegnati nella ricerca di qualche scorciatoia per far passare i propri emendamenti sotto falso nome e sfuggire, così, all’ira dei propri competitori. Colpa del Parlamento – avrebbero detto in seguito – che, nella sua autonomia, ha deciso per il meglio. La cosa non è sfuggita al Presidente Fini, costretto a prendere le distanze dal successivo tentativo di correzione, messo in atto da Giulio Tremonti. Quando è stato presentato il maxi emendamento, alcuni deputati sono insorti. Non coincide con il testo votato in Commissione: hanno eccepito. E Fini, in qualche modo, ha dovuto dar loro ragione, chiedendosi: ma dove erano i rappresentanti del Governo quando la Commissione ha votato testi che, successivamente,Tremonti ha dovuto correggere?
Il testo arrivato nell’Aula è lungo due volte e mezzo quello iniziale: vediamo perché c’è stato questo pasticcio
Non essendoci argini, il fiume è tracimato. Basta vedere il testo licenziato dalla Camera. Due volte e mezzo tanto quello originario. A leggere i migliaia di emendamenti presentati, senza nessun filtro tecnico, c’è solo da sorridere. È uno spaccato delle frustrazioni di tanti peones di maggioranza e opposizione. Spigolando nel testo varato dalla Commissione, quindi
Insomma: un piccolo bagno di sangue che non ha risparmiato i rappresentanti dell’opposizione. La battaglia ingaggiata in Commissione qualche frutto l’aveva prodotto. Secondo le valutazioni del presidente Georgetti, sarebbero stati accolti un’ottantina di emendamenti presentati da questi ultimi. Ma allora come si spiega l’atteggiamento assunto, nella scelta dell’Aventino, con l’abbandono della Commissione nel corso dei suoi lavori? Va bene che il congresso del Pd è alle porte e che nessuno vuole farsi scavalcare a sinistra; ma c’è un limite a tutto. Se non si deve parlare di bon ton, resta pur sempre un vincolo di coerenza, a dimostrazione non del rispetto dell’attuale maggioranza, ma delle Istituzioni. E che dire del comportamento dell’Italia dei valori? Critica durissima e, come al solito, velenosa. Quando all’improvviso l’on. Cambursano, autorevole esponente di quel partito, prendendo la parola dopo l’intervento del presidente Fini, che aveva preso le distanze dal Governo sopprimendo dal provvedimento due norme non conformi al deliberato della Commissione, plaudire all’azione di Giulio Tremonti. Il motivo? L’aver riconsiderato alcuni emendamenti da lui presentati, ma respinti dalla Commissione. Come scelta di tempo non c’è che dire. Dimostrava, forse, che la posizione del Presidente della Camera era stata troppo rigida. E che comunque il Governo aveva mostrato una grande capacità di ascolto nei confronti dell’opposizione. Comunque tale da non legittimare il comportamento intransigente fino ad allora seguito. In altri tempi qualcuno si sarebbe alzato per sottolineare questa contraddizione e rimarcare i pericoli dell’eccesso di protagonismo personale. In altri tempi, quando la politica era una cosa seria.
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Leggende. Con l’indagine pugliese crolla il mito della superiorità morale e politica delle amministrazioni rosse
Compagni che rubano Ricolfi, Salvati e Ranieri riflettono sullo choc della sinistra sotto inchiesta di Riccardo Paradisi opo le scalate bancarie Ds del 2005 – «Abbiamo una banca» – era oggettivamente difficile per la sinistra italiana parlare ancora di superiorità morale. Ora ad andare in frantumi è anche il mito residuo delle virtuose amministrazioni rosse, del buon governo municipale della sinistra oculata e onesta.
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Tre regioni sotto inchiesta sono un numero sufficiente per archiviare la vecchia e generica storia del buon governo locale della sinistra. Prima la Campania, poi l’Abruzzo, ora la Puglia – dove gli inquirenti indagano su ipotesi di reato che vanno dal finanziamento illecito partiti, all’associazione per delinquere finalizzata alla corruzione, dalla concussione, alla truffa, passando per il favoreggiamento di un clan mafioso nella gestione degli appalti pubblici nel settore sanitario – dimostrano effettivamente che anche nel Pd si può parlare di questione morale. «I partiti non fanno più politica. I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela», diceva Enrico Berlinguer a Eugenio Scalfari il 28 luglio 1981. Una requisitoria che la sinistra italiana ha continuato a ripetere per decenni fino quasi a fondare la sua identità sulla propria diversità e
superiorità morale. «Una tesi – come commentava ieri il sindaco-filosofo di Venezia Massimo Cacciari – che per la sua assoluta inefficacia politica si è sempre tradotta in un formidabile boomerang per la sinistra». Anche se è difficile capire se è l’inefficacia politica a generare moralismo o se è il moralismo a generare inefficacia politica. «La questione morale è solo un sintomo dell’impotenza politica della sinistra» ha scritto Gian Enrico Rusconi. Come che sia il modello della buona amministrazione della sinistra sembra consegnato al passato e appare datato anche il famoso studio di Robert Putnam: Making Democracy Work, tradotto nel 1993 in Italia da Mondadori col titolo La tradizione civica delle regioni italiane. Frutto di vent’anni di inchieste sulle nuove realtà regionali nel suo studio il sociologo americano afferma la sostanziale diversità tra le regioni del centro-nord e quelle del sud – in rendimento di governo, oculatezza amministrativa, partecipazione democratica – ma anche la migliore amministrazione delle giunte di sinistra. «Il libro di Putman – dice a liberal Luca Ricolfi – ha avuto la responsabilità di alimentare l’illusione della superiorità morale della sinistra. Un libro documentato, rigoroso, ma che quando è uscito era già anacronistico visto che Putnam aveva cominciato le sue indagini subi-
La sfida per la conquista della segreteria del Pd, tra Dario Franceschini e Pierluigi Bersani, sarà sicuramente segnata dalle inchieste della procura di Bari sulla gestione della sanità da parte della Giunta guidata da Nichi Vendola to dopo la riforma regionalista degli anni Settanta. Poi però quando ci siamo rimessi a fare i conti un po’ più tardi nella stragrande maggioranza dei comparti studiati da Putnam i conti non tornavano più».
Eppure quello di Putnam continua a essere un libro sventolato a sinistra per dimostrare che malgrado tutto le amministrazioni rosse funzionano. «Peccato però che l’efficienza maggiore e un maggiore senso civico dimostrino di averla da anni le Regioni del Lombardo-Triveneto. Le faccio un esempio clamoroso che riguarda le indagini Invalsi sugli allievi delle scuole elementari. Ebbene è risultato che il test sottoposto agli alunni per sondare la loro preparazione in molti casi è stato fatto dai maestri invece che dagli allievi. Il maggior numero di test truccati si è registrato nel Mezzogiorno,
poi nelle regioni rosse, poi nel nord ovest, e infine nel lombardo veneto, dove praticamente non si sono registrate manomissioni». Questo per quanto riguarda il senso civico. Ma anche per quello che riguarda l’efficienza la musica non cambia. «Nell’ambito della sanità l’efficienza del Lombardo Veneto è maggiore di quella delle regioni rosse. È vero L’Emilia Romagna ha la migliore sanità nazionale ma non rispetto alla spesa. E vuole sapere qual è la regione col più alto tasso di false invalidità? L’Umbria». L’Umbria rossa, anche lei al centro in queste settimane di indagini della magistratura. Nel mirino degli inquirenti ci sono 92 nomi, di cui l’unico
LUCA RICOLFI La sinistra dimostra un attaccamento patologico al potere. Spesso il politico di sinistra non ha un’altra professione oltre a quella politica
noto è quello dell’ex sindaco Renato Locchi. La corposa informativa della guardia di finanza ravvisa in due giunte comunali, in molti membri dei due consigli, nei vertici della Minimetrò e in un nutrito gruppo di tecnici di ”palazzo” i responsabili di reati che vanno dall’abuso di ufficio, alla truffa aggravata, alla corruzione.
Continuano le azioni della procura di Bari. Il Pd: «accertare le responsabilità»
Fassino: «Va bene indagare, ma in fretta» BARI. Le afose giornate di fine luglio non stanno frenando l’inchiesta sulla sanità in Puglia, una indagine molto articolata che si divide in diversi filoni. Una già conclusa del pm Roberto Rossi sul periodo 2001-2004 relativo a forniture sanitarie della ditta dei fratelli Tarantini, un’altra del pm Salvatore Nicastro sulle convenzioni stipulate dalla Regione Puglia con le strutture private del barese, quella del pm della DDA Desiree Digeronimo che giovedì ha portato al sequestro dei bilanci nelle sedi regionali del centrosini-
stra per fatti relativi dal 2005 a oggi relativa a presunti intrecci tra affari e politica che vede tra gli indagati l’exassessore regionale Alberto Tedesco e che ha coinvolto la giunta regionale Vendola. Ci sono poi due inchieste coordinate dal pm Pino Scelsi, una sulla fornitura di protesi a strutture sanitarie pubbliche - nell’ambito di questa ieri ci sono state perquisizioni al Policlinico di Bari - e l’inchiesta più famosa relativa alle accompagnatrici per il premier reclutate da Gianpaolo Tarantini. «Penso che quando la magistratura ha in corso delle indagini,
l’atteggiamento che bisogna avere è quello di rispettare l’indipendenza della magistratura, chiederle di accertare come i fatti si siano realmente svolti, cercando le eventuali responsabilità, e di farlo rapidamente in modo tale che ombre e sospetti non possano gravare su persone che eventualmente quella responsabilità non hanno». Lo ha detto a Trieste Piero Fassino, del Pd. «Si indaghi, si accerti e se ne chieda conto a chi queste responsabilità le ha si consenta ai cittadini di essere sicuri che la pubblica amministrazioni sono tutelate.
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Gli orfani dell’amministrazione-modello
Lo zoccolo (molle) del Pd di Antonio Funiciello el quindicennio berlusconiano alle spalle, il mito più forte su cui il centrosinistra ha costruito la propria opposizione al Cavaliere è stato quello del buon governo locale.
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Ma come avviene che la gestione dell’amministrazione scada a questi livelli? Ricolfi sostiene che la radice della degenerazione politica non riguardi solo l’etica ma proprio le regole del gioco che la politica scrive a suo vantaggio. «Nessuno ha studiato il libro di Salvi e Villone Il costo della democrazia. Bisognava studiarlo perché è un libro che dimostra come dopo Tangentopoli sistematicamente il ceto politico ha fatto delle norme dove si può rubare legalmente. Da un lato infatti con il meccanismo delle società controllate i politici possono piazzare gli uomini, dare appalti, esercitare una potere di ricatto, dall’altro, quando si fanno cose palesemente illegali, scatta il meccanismo del respingimento delle autorizzazioni a procedere». Non è solo un problema morale insomma, ma di autodifesa corporativa: «Destra, sinistra e centro si comportano come una casta che difende il proprio statuto. E la sinistra in particolare – dice Ricolfi – dimostra un attaccamento al potere che appare patologico. E questo perché molto spesso l’uomo politico di sinistra – e sono i dati statistici che parlano– non ha
un’altra professione oltre a quella politica. È un funzionario di partito senza partito. L’amministratore leghista generalmente non è un politico puro invece ma ha un partito vero alle spalle. Se la sinistra avesse più umiltà e ragionasse su certi dati capirebbe i motivi del successo leghista e quelli della sua catastrofe». È meno severo Michele Salvati. Anche perché l’economista vicino al Pd preferisce distinguere tra amministrazioni del nord e del sud piuttosto che tra destra e sinistra. «Non si può dire che le amministrazioni emiliane o toscane non siano di sinistra e al tempo stesso non siano sostanzialmente oneste ed efficienti. Nell’ambito delle regioni meridionali esiste una tradizione municipale più debole. E del resto dove l’unica fonte di reddito è il pubblico, come in Campania, la situazione è drammatica. La lotta per ottenere il consenso si combatte sulla distribuzione di prebende e incarichi. In regioni dove il priMICHELE vato è più sviluppato SALVATI le cose vanno diversamente». Anche la Non si può dire prosa di Putnam si che le rabbuiava quando il amministrazioni sociologo statunitenemiliane se descriveva il Sud: o toscane non «La vita pubblica è siano di sinistra qui organizzata in e al tempo modo gerarchico. stesso non siano (…) Sono pochissimi sostanzialmente coloro che partecipaoneste no alle decisioni ried efficienti guardanti il bene pubblico. L’interesse
UMBERTO RANIERI Non bisogna sottovalutare questi segnali ripetuti di caduta di alcuni caratteri distintivi dell’esperienza amministrativa di sinistra e centrosinistra
per la politica non è dettato dall’impegno civico, ma scatta per obbedienza verso altri o per affarismo. Raro è il coinvolgimento in associazioni sociali e culturali. La corruzione viene considerata una regola dai politici stessi. I principi democratici vengono guardati con cinismo». A Umberto Ranieri, esponente del Pd e intellettuale liberal, non va però di aggirare con la geografia un problema politico imbarazzante: «Io avverto la necessità di una riflessione per capire cosa sta succedendo nel centrosinistra. Non bisogna sottovalutare questi segnali ripetuti di caduta di alcuni caratteri distintivi dell’esperienza amministrativa di sinistra e di centrosinistra. Quello che mi colpisce di più è la inadeguatezza dell’azione amministrativa, soprattutto nel sud, rispetto alla complessità e alla gravità delle questione. Ma questo riguarda la formazione e la selezione della classe dirigente. È chiaro che se il Pd si trasforma e si esaurisce in un assemblaggio di correnti di gruppi contrapposti tra loro i rischi che possano manifestarsi anche elementi di grave deterioramento sono molto elevati».
Ben al di là dei confini delle regioni rosse, che avrebbero impedito di fare di quel mito un argomento spendibile nazionalmente, nella stagione dei sindaci del ’93 l’ultima invenzione della sinistra è stata quella del prode amministratore locale. Quadro di partito o imprenditore del posto, diffidente seppure rispettoso (per differenziarsi dalla truculenta Lega) nei confronti del potere romano, cultore della propria immagine fuori dagli schemi tradizionali della sinistra comunista o democristiana, il prode amministratore locale è assurto ad emblema della resistenza (resistere, resistere, resistere) dell’Italia profonda alle ambizioni di Berlusconi. Avendo il patto tra Forza Italia e Lega fatto il pieno in Lombardia e Veneto, l’esercizio di questo mito fondativo prima dell’Ulivo, poi dell’Unione, quindi anche del Pd, ha dovuto guardare e trovare al Sud la sua ragion d’essere. E oggi proprio nel Mezzogiorno infrange ogni residuo sogno di gloria. L’esplosione del caso rifiuti in Campania ha evidenziato tutta la fragilità politica delle esperienze amministrative meridionali, determinando la massiccia perdita di consensi alle ultime politiche e alla tornata amministrativa ed europea. D’altro canto, le inchieste giudiziarie in corso in Campania, in Abruzzo e, ora, in Puglia, hanno disteso un’ombra sottile di diffidenza anche nell’elettorato tradizionale del centrosinistra, il famigerato zoccolo duro. Già perché se il mito del buon governo locale aveva ricevuto al Sud uno schiaffo dalla imbarazzante emergenza rifiuti in Campania, le vicende giudiziarie ne mettono a dura prova le possibilità di ripresa. Il fenomeno è grave e già misurabile. L’Italia dei Valori ne ha fatto motivo di battaglia politica, al punto di dovere proprio all’abbandono dei partiti di sinistra da
parte di segmenti del suo zoccolo duro, l’incremento di consenso recentemente conosciuto. E Di Pietro intende proseguire esattamente su questa strada, perché la delusione monta silenziosa e potrebbe rappresentare un handicap travolgente per il centrosinistra alle elezioni regionali del prossimo anno. Non è solo il Pd a patire il crollo del mito del buon governo locale. Anche le formazioni alla sua sinistra, dai Verdi a Rifondazione, conoscono forti flussi di voto in uscita verso l’Italia dei Valori. E una leadership che era parsa tanto carismatica come quella di Vendola in Puglia è, anche a seguito delle polemiche giudiziarie, in forte discussione. I piani di D’A-
La grave crisi di credibilità di tutto il centrosinistra peserà anche sugli equilibri che scaturiranno dalle primarie e dal congresso lema per la Puglia prevedono difatti, saldando il rapporto locale con l’Udc, di scaricare l’ex pupillo di Bertinotti, per esprimere una candidatura in controtendenza.
Tuttavia di questa atmosfera di dilagante diffidenza è proprio il Pd a pagare il prezzo maggiore. Se è vero che Bersani è in vantaggio su Franceschini, sarà lui a dover fare i conti col crepuscolo degli dei cui va incontro il suo partito dopo le probabili sconfitte al Sud alle prossime regionali. Bersani certo, da uomo politico nato e cresciuto nel mito del buon governo locale emiliano, non deve direttamente per sé temere nulla, vista la confermata efficienza (con tratti di eccellenza) della macchina amministrativa emiliano-romagnola. E però il sostegno decisivo che riceverà dal Pd meridionale, schierato pressoché tutto dalla sua parte, potrebbe pesare come una zavorra sui suoi sogni di rilancio del sofferente progetto democratico.
politica
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Intervista. La democrazia nel Pdl, il futuro della Lombardia e del Paese, le alleanze: parla Roberto Formigoni
«Voglio un asse con Casini» di Errico Novi segue dalla prima Eppure tanto slancio per la causa del Pdl non sembra preannunciare un immediato ritorno nell’agone romano: «Governatore a vita della Lombardia? Ho chiesto di essere ricandidato, ho letto la frase di Berlusconi e mi auguro di poter contare su un’alleanza allargata anche al partito di Casini». Ma intanto bisogna mettere a punto alcune cose nel Pdl: Gaetano Quagliariello, in un’intervista a liberal, ha descritto un ceto dirigente impegnato a discutere quasi soltanto “dello scheletro” e molto poco della politica, definita “latitante”. È d’accordo? Sì, Quagliariello ha ragione. Aggiungo che noi siamo un partito fortemente maggioritario a livello nazionale e locale, guidiamo tante province, tantissimi comuni: è chiaro che con la nostra classe dirigente impegnata in questi compiti di governo c’è un ritardo nella strutturazione del partito.
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Ci ritroviamo per fortuna un leader fortissimo, riconosciuto, ma non possiamo ridurre tutto a lui. Dobbiamo creare dei luoghi di dibattito nel partito
Che però adesso è assolutamente necessaria. E come farete, visti gli impegni? Dobbiamo lavorare qualche ora in più ogni giorno. Nonostante tutto i risultati elettorali ci danno assolutamente ragione, siamo depositari di una proposta politica e culturale molto gradita al Paese. Negli ultimi tempi però buona parte dell’iniziativa di governo, a livello nazionale, è sembrata nelle mani dei leghisti. Credo sia soprattutto un’impressione mediatica. Ci faccia caso: da tempo l’informazione in Italia ha una sensibilità esasperata verso la Lega. Non perde occasione di metterla all’indice ogni volta che va sopra le righe, facendo del partito di Bossi un caso anche al di là dei suoi demeriti. Salvo esaltarne la funzione di motore della coalizione in altre circostanze. È un modo per lasciarsi sempre la possibilità di contestare la maggioranza. Nessuno sbilanciamento, dunque? È un’esagerazione mediatica, ripeto, nei fatti la Lega avanza proposte che vengono sempre ridiscusse in modo da non compro-
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mettere l’unità della coalizione. E al di là di qualche scarto c’è una concordia di fondo su tutti i principali argomenti. Se guardiamo a cosa succede in Lombardia è ancora più evidente. Converrà però che uno scatto in avanti al Pdl serve. Sì, senza dubbio, ed è doveroso per molti aspetti: intanto per la responsabilità che gli elettori ci hanno assegnato. A questo punto abbiamo il dovere di formalizzare la nostra identità, che significa soprattutto renderla riconoscibile all’esterno, visto che nei fatti già esiste. Dobbiamo darci una forma, degli argomenti. Tutto più difficile visto che si tratta di un partito del leader. Anche se siamo una forza nata dall’intuizione di Berlusconi e da altri che in questa intuizione si
sono identificati, come il sottoscritto, siamo chiamati a farlo. Poi forse dobbiamo sgombrare il campo da un equivoco di fondo: nei nostri ragionamenti sembriamo riferirci sempre a quel modello grandioso che sono i partiti della Prima Repubblica. Tutti ne siamo condizionati, quasi intimoriti: abbiamo davanti quest’immagine di un’organizzazione grande, massiccia, ma dobbiamo convincerci che un partito non può più essere così, non deve nemmeno sentirsi costretto ad esserlo. Oggi l’elemento leaderistico è indispensabile, è così in tutto il mondo, e l’organizzazione risente del fatto di essere maggioranza o di stare all’opposizione. Fin qui ci siamo. Ma… …abbiamo la fortuna di avere un leader fortissimo, riconosciuto da tutti, ma non possiamo ridurre tutto a lui. Dobbiamo trovare dei luoghi di dibattito, che non possono essere solo nelle fondazioni, dobbiamo crearne anche all’interno del partito. Altrimenti tutto resta sul piano delle possibilità e non viene messo in pratica. Certo, questo sforzo dobbiamo compierlo, anche se siamo consapevoli che non dobbiamo ripro-
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Auspico che si ricostituisca un’alleanza organica con l’Udc, a livello nazionale e locale. Al voto per le Regionali spero di avere con me anche il Centro
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durre il Psi, la Dc, o anche i Repubblicani, che avevano un consenso limitato ma erano dotati di una struttura molto forte. Noi non dobbiamo arrivare a quello, ripeto, ma c’è la necessità di creare luoghi di confronto e di riflessione. C’è poi un aspetto che ho particolarmente a cuore. Dica pure. Si deve puntare sulla formazione. In Lombardia abbiamo creato tre scuole straordinarie, è una strada da percorrere in tutta Italia, e anche in questo caso non c’è biso-
marzo ha fatto venire giù il padiglione del congresso. Ci fu un’ovazione, è vero, su questo passaggio e su altri. Siamo riusciti per fortuna a difendere le preferenze alle Europee. È stata una battaglia condotta innanzitutto dall’Udc: ma il Pdl può ricostruire un’alleanza con il partito di Casini a livello nazionale? Non può: deve. Sono un sostenitore del fatto che quello che è successo deve essere ricomposto, la nostra cultura politica, i nostri valori, sono vicini. La coalizione però non è più la stessa: anche se a suo giudizio la Lega non è diventata così decisiva, le differenze con la Cdl ci sono. Qualcuna ce n’è di sicuro, i fatti che accadono generano sempre altri fatti, ma i connotati delle due parti sono cambiati poco, mi creda.Auspico che si ricostituisca un accordo sia a livello nazionale che locale, a partire proprio dalle prossime regionali. Ci sono tutte le ragioni per tornare a un’alleanza solida, organica, anche se comprendo la difficoltà nel riannodare i fili: d’altronde la capacità dei leader sta proprio nel saper superare questi ostacoli. Berlusconi l’ha proclamata “presidente a vita della Lombardia”. Si riconosce nella definizione? L’ho letta come voi. Ho chiesto di essere ricandidato e mi auguro di poter contare su una coalizione allargata all’Udc. Mi riconosco nella frase di Berlusconi, certo. E quindi ritiene che sarà lei il candidato governatore.
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Verso la Lega i media hanno una sensibilità esasperata. Prima la esaltano come motore della coalizione e poi la criticano al di là dei suoi demeriti
gno di pensare alle Frattocchie o alla Camilluccia, si tratta di promuovere man mano dieci, venti, cento scuole di formazione politica autonome tra loro, alle quali il Pdl possa offrire un recinto. È indispensabile per la selezione della classe dirigente. E a questo si collega un altro fatto essenziale. Quale? Bisogna reintrodurre a ogni livello il voto di preferenza. È un fatto di democrazia. La gente vuole scegliere non solo il capo del governo ma anche il deputato o il senatore, perché è a lui che va a tirare la giacchetta. Ecco, presidente, con queste parole lei lo scorso 28
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Sono assolutamente convinto di sì, anche perché al di là dei boatos circolati in questi mesi io non ho mai chiesto di fare il commissario europeo. Quella è una stagione che ho già vissuto, sono stato vicepresidente dell’Europarlamento e l’ho fatto quando il muro di Berlino era ancora in piedi. Una stagione interessante che però non ho intenzione di ripetere, né sono interessato a entrare in un governo che ha già fatto una parte di cammino. Quando l’anno scorso ho concordato con Berlusconi di continuare a occuparmi della Lombardia, di Milano e dell’Expo, è stato esplicitato che avrei corso per il quarto mandato.
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otto pagine per cambiare il tempo d’agosto
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1 agosto(1819)
Herman Melville
La vita avventurosa dello scrittore che divenne famoso solo dopo la sua morte
Il mozzo che sognò Moby Dick di Pier Mario Fasanotti mmediatamente dopo l’uscita di Moby Dick, il suo capolavoro - e pietra miliare nella letteratura mondiale - Herman Melville confidò all’amico Daniel Hawthorne, il primo a intravedere in lui un furore geniale: «Ho scritto un libro perverso e mi sento immacolato come un agnello». Era il 1851. Ma ci volle poco meno di un secolo perché la sua balena bianca fosse finalmente considerata, unanimemente e universalmente, uno dei più grandi classici. Harold Bloom, il critico letterario americano che oggi pare appartenere a quella sorta di “Corte Costituzionale delle Belle Lettere” (autore del famosissimo Il canone occidentale), scrive, nella prefazione di Moby Dick in edizione Rizzoli, che Melville «è il precursore indiscusso» dei migliori romanzi americani, quelli che, a suo avviso, hanno lasciato un segno indelebile contenendo in sé ben definibili tratti shakespeariani. E ancora: «Moby Dick è il paradigma narrativo della sublimità americana, di un successo tra le vette o negli abissi, profondo nell’uno e nell’altro caso». Descrivendo il comportamento del capitano Achab, a capo della nave-baleniera Pequod, scrive che questi «venera il fuoco affermando il proprio egoismo sacro contro di esso». Questa la frase tonante del marinaio: «Colpirei il sole se mi insultasse!». L’urlo del marinaio che ha i tratti antichi e moderni di Prometeo, «crea un modello di provocazione che nessuno dopo di lui ha mai eguagliato». Ma, come dicevo, l’unanimità degli elogi critici venne assai tardi rispetto all’uscita del libro. Tiepida fu, infatti, la reazione iniziale, e questo non contribuì certo ad alleggerire la carica di tristezza e di malinconia di Melville che, a parte i primi iniziali dieci anni, ebbe vita molto travagliata. Nacque il 1° agosto 1819 a New York, terzo figlio di Allan e Maria Gransevoort Melville. Secondo una controversa registrazione all’anagrafe, pare che il vero cognome fosse Melvil. continua a pag. II
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SCRITTORI E CIBI
LE GRANDI BATTAGLIE DELLA STORIA
CAPOLAVORI DI PIETRA
L’acarajè di Jorge Amado
Falklands 1982
Villa Medici a Firenze
di Filippo Maria Battaglia
di Claudia Conforti
di Stranamore
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pagina I - liberal estate - 1 agosto 2009
In queste immagini la straordinaria avventura del capitano Achab che a bordo del Pequod andò per i mari del sud a caccia di balene bianche. Sopra e in alto l’attore Gregory Peck nei panni del comandante
Le origini della famiglia sono inglesi o più probabilmente olandesi, risalenti al periodo coloniale. Il padre Allan, ricchissimo commerciante, fu affettuosissimo con il figlio, al quale offrì tenerezza e premure non certo paragonabili a quelle della madre, donna altera e poco espansiva.
Abitavano, con Herman e altri sette figli, in un’elegante casa a Broadway. Poi, quando il futuro scrittore compì undici anni, il tracollo economico. Fu una catastrofe che li costrinse a mutare radicalmente il tenore di vita. Allan rimase coinvolto nel fallimento di una ditta nella quale aveva investito svariate migliaia di dollari. Nel giro di pochi giorni Melville senior fu costretto a dichiarare bancarotta. Intervenne la famiglia di Maria, il cui padre favorì il trasferimento nella propria città natale, Albany. Allan, che evitò la condizione della povertà grazie al suocero, nell’arco di un anno e mezzo risalì la china garantendo alla famiglia una relativa stabilità economica. Una condi-
zione di benessere fittizia, tuttavia, tanto è vero che verso la fine del 1831 aumentarono i sintomi della sua instabilità nervosa. L’anno successivo si passò da una nevrosi a un’autentica e irreversibile pazzia, quindi alla morte. La tragica morte del pa-
prendere il posto del padre negli affari. In poco tempo un’altra bancarotta, che coinvolse pure Maria.
La famiglia dovette affrontare l’indigenza. Si trasferirono nel villaggio di Lansingsbourg, sul fiume Hudson. Herman abbandonò definitivamente la scuola, costretto a lavorare nell’azienda dello zio e poi nel negozio messo in piedi dal fratello. L’unica soddisfazione intellettuale gli provenne dal ruolo di maestro in una piccola e modestissima scuola. Attorno alla fine degli anni Trenta comparvero le sue prime prose, che non si discostarono dallo stile romantico in voga a quei tempi. In ogni caso poco originali. Le sue guide letterarie erano Coleridge e Shakespeare. Comprese che la sua vita lavo-
Nacque a New York, terzo figlio di Allan e Maria Gransevoort Melville. Le origini della sua famiglia sono inglesi o più probabilmente olandesi, risalenti al periodo coloniale dre condusse il piccolo Herman a imboccare la strada di ripetute e profonde crisi interiori. Per tutta la vita non riuscì mai a staccarsi da quella nube nera che fu il lutto paterno. Il tutto fu aggravato dalle condizioni economiche: il fratello maggiore, appena sedicenne, tentò di
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rativa aveva aspetti claustrofobici e assecondò la sua voglia di “lontano”: questo non poteva che essere il mare. Si aggirava sui moli di New York, sognava la vita a bordo di navi, paesi e genti diversi. S’imbarcò sul mercantile “St. Lawrence”in qualità di “boy”, ragazzo tuttofare. Era la prima traversata, con meta Liverpool. Si ricordò dei mirabolanti racconti “europei”del padre e li confrontò con la miseria che toccò con mano osservando gente che moriva per strada, di fame e di freddo. Ritroviamo questa esperienza, anni più tardi, nel romanzo Redburn.Tornato in patria riprese l’attività didattica, che però durò un anno soltanto: la sedentarietà non apparteneva al suo destino. Il viaggio, e con esso la ricerca, continuava ad essere un’insopprimibile calamita. Partì per il West, per quella “frontiera”che rappresentava il sogno di molti connazionali. Cercò un lavoro, non lo trovò, tornò indietro amareggiato. Pareva che la terraferma gli desse solo delusioni e insoddisfazione. Aveva ventun anni, era disoccupato. Nei giorni delle festi-
vità natalizie del 1840 non smise di aggirarsi inquieto per i moli di New Bedford, nel Massachussetts. Il 3 gennaio dell’anno successivo trovò una sistemazione a bordo dell’“Acushnet”, nave diretta ai Mari del Sud. Di nuovo lontano. Lontano «dalle campagne in declino, dalla distruzione delle foreste, dall’impoverimento del suolo, dalle cittadine tirate su alla meglio, arse dagli incendi e alla peggio modificate, dai terreni regalati agli speculatori finanziari». Lo stesso viaggio adombrato in Moby Dick. Nel 1842 abbandona la nave assieme a un amico, in circostanze poco chiare.
Era stanco di andare a caccia di balene. I due, ufficialmente disertori, scesero alle isole Marchesi. Si persero tra le montagne e poi, raggiunta una vallata, furono presi prigionieri da alcune tribù locali, probabilmente composte anche di cannibali, i Taipi. Fu lo spunto per il suo primo libro (Typee, del 1846). Un periodo idilliaco visto che gli indigeni si mostrarono invece gentili e ospitali. Infine un altro imbarco. Su una seconda baleniera, australiana. L’avventura fu poi raccontata in un’altra opera, Omoo, del 1847, romanzo divertente e picaresco, ma anche dai tratti indignati per le condizioni della popolazione autoctona e per i soprusi inferti
L
o stesso giorno... nacque
Yves Saint-Laurent il mago di stoffe e tessuti ispirato da Marcel Proust di Francesco Lo Dico ato nel 1936 in Algeria da una famiglia benestante, originaria dell’Alsazia-Lorena, Yves Henri Donat Mathieu-Saint-Laurent, mostra sin da bambino una grande attrazione per il mondo del teatro e del costume. Divora le pagine di Vogue dedicate alla moda, e in breve accumula enormi competenze su stoffe e tessuti. All’età di quattordici anni manda tre schizzi d’abito all’International Wool Secretariat, si aggiudica il terzo posto e vola a Parigi. Qui frequenta per poco tempo i corsi della Chambre Syndicale de la Couture e comincia a lavorare sotto l’occhio attento di Christian Dior, che ne fa il suo erede nel 1957. A capo della celebre maison per cinque anni, nel 1962 Saint-Laurent fonda la propria insieme al sodale Pierre Bergé. Gli anni Sessanta e Settanta registrano una progressiva crescita dell’influenza e del prestigio del
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dai missionari. Ci fu un periodo di detenzione per l’accusa di diserzione, poi il ruolo di ramponiere sulla sua terza baleniera, la “Charles and Henry”, che solcava l’Oceano meridionale. Un’altra nave ancora, la “United States”che diventò protagonista, col nome di “Neversink” (“L’inaffondabile”) di un altro suo romanzo, La giacchetta bianca. Singolare, se ci si fa caso, la ricorrenza del colore bianco. Bianca sarebbe stata anche la mitica e ossessiva balena, il mostro, il mistero, il Leviatano della vita sua e della nostra, ieri come oggi (forse soprattutto oggi). A Boston scese a terra, nel 1844. Una settimana dopo fu congedato e decise di partire per Lansingbourg, dove c’erano i suoi familiari. A questo punto iniziano i dieci anni letterariamente più operosi per Melville, che si dedica anima e corpo a lettura e scrittura, sfiorando disturbi psichici. Doveva recuperare nella conoscenza dei classici, visto che aveva abbandonato prematuramente la scuola. Un suo biografo annotò: «Il grosso delle sue letture, diversamente da ciò che accade per quasi ogni scrittore, seguì, e non precedette, la sua esperienza nel mondo». Alcuni suoi lavori furono pubblicati prima in Inghilterra. Trasferitosi a New York, accompagnato da una discreta fama, entrò a far parte del potente circolo letterario di Evert A. Duyckinck, che divenne suo sincero amico e gli dedicò elogianti recensioni sulle colonne del Literary World. Nell’estate del 1847 sposò Elisabeth Shaw, figlia di un importante giurista nonché ex fraterno amico del padre Allan Melville. Herman, sposandosi, dovette affrontare la sua innata diffidenza verso il genere femminile, attratto com’era a scopri-
re affinità con gli esponenti del suo stesso sesso. Non fu un caso che sei mesi dopo le nozze scrisse Mardi, una vera apologia del celibato e una presa in giro della vita coniugale. Seguirono alcuni viaggi in Europa (anche in Italia). Nel 1850 iniziò a scrivere Moby Dick; subito dopo si trasferì nella residenza che chiamò “Arrowhead”, nei pressi di Pittsfield, una regione a lui nota e da lui amata fin dai tempi dell’infanzia. Il capolavoro fu stampato nel 1851, un anno dopo un altro romanzo (Pierre, or the Ambiguities): invece di una continuazione autenticamente letteraria, l’opera fu il segnale di una sua profonda crisi. Il pubblico e la critica, così cinicamente pronti a decretare funerali artistici, parlarono di Melville come di uno “scrittore finito”. Seguirono tuttavia The Piazza Tales, racconti che includevano lo splendido Bartleby, storia di un oscuro e rinunciatario scrivano: un brano breve e amaro che finì nelle antologie delle migliori opere americane. Nel 1857, incoraggiato e finanziato dal ricco suocero, partì per la Palestina e per l’Italia.Tornato a NewYork s’impegnò in un giro di conferenze, trovando però un pubblico del tutto distratto e indifferente dinnanzi ai colori del Medioriente e alle antiche pietre di Roma.
Il Continente continuava a non soddisfarlo, a non tributargli onori. Nel 1860 prese di nuovo il mare, stavolta come passeggero del “Meteor”, il cui capitano era suo fratello Thomas. Meta: San Francisco.Tornò in America lam-
Simbolo di uno stile elitario, di strenua eleganza e sofisticheria, lo stilista trasferì capi tipici del vestiario maschile, come il blazer e lo smoking, in quello femminile. Nella lettera d’addio Yves ringrazia tutte le persone che lo hanno aiutato ad affermarsi. «Un grazie speciale a tutte le donne che hanno portato i miei vestiti, le celebri e le sconosciute»
suo marchio, finché il Metropolitan Museum di NewYork gli dedica una retrospettiva – la prima in omaggio a un facitore di moda vivente – nel 1980. Simbolo di uno stile elitario, di strenua eleganza e sofisticheria, il gruppo creato da Saint-Laurent viene quotato in borsa nel 1989. Capace di contaminare sartoria alta e bassa, di trasferire capi tipici del vestiario maschile come il blazer e lo smoking, in quello femminile,Yves cede la propria azienda al gruppo Sanofi nel 1993. Nel 2002 lascia l’alta moda, e la Maison dell’Avenue Marceau chiude i battenti, dopo tanti successi e tanta gloria. In una lettera d’addio SaintLaurent ringrazia tutte le persone che lo hanno aiutato ad affermarsi e i suoi collaboratori. «Un grazie speciale a tutte le donne che hanno portato i miei vestiti, le celebri e le sconosciute», dice commos-
bendo Panama. Morto il suocero, il giudice Shaw, nel 1861 Melville vendette la residenza “Arrowhead”a un fratello e si stabilì a NewYork. Cinque anni dopo fu nominato ispettore distrettuale delle dogane della città. Il primo impiego stabile della sua vita. Durò circa vent’anni. Gli ultimi anni li impiegò nella lettura. Scrisse in quegli anni il suo ultimo romanzo, Billy Budd, una sorta di rivisitazione della caduta del primo uomo, Adamo. I miti, le tematiche religiose non lo abban-
ri, da gran tempo anche la sua stessa generazione lo riteneva morto, tanto sono stati quieti gli ultimi anni della sua vita». Il giornalismo non aveva capito proprio nulla di lui (capita spesso, allora come oggi, che le cronache del presente siano drammaticamente miopi dinanzi ai colossi della letteratura, a meno che non diano scandalo o non facciano notizia nei salotti mondano-letterari). La stesura di Moby Dick non va disgiunta dall’amicizia tra Melville e Daniel Hawthorne, autore della Lettera scarlatta. A Hawthorne scrisse parecchie lettere ed ebbe modo di confidargli la sua «inguaribile nostalgia oceanica». La memoria del mare fu, infatti, per Melville il miglior serbatoio poetico. Rifuggì sempre dall’interpretazione allegorica di Moby Dick. Sempre rivolto all’amico si dà dell’«asino» e del «balordo» per non aver letto con la dovuta attenzione le opere di Shakespeare: «L’aver vissuto senza intimità con il divino William» era per lui una delle più gravi colpe d’un uomo con l’ambizione di scrivere romanzi. Questa confessione, assieme ai consigli (dei quali non si ha trac-
Considerato tra i protagonisti del Rinascimento americano, del suo capolavoro Hawthorne disse: «Che libro! Mi dà un’idea di potenza più grande di quelli che lo hanno preceduto». Infatti chi sarebbe mai andato in cerca di filosofia tra le balene o di poesie nel grasso di questi mammiferi come ha fatto l’autore a bordo del Pequod? donarono mai. Si isolò, assieme alla moglie Elisabeth, e morì il 28 settembre del 1891. Anni prima erano morti i suoi due figli maschi. Quando Melville scomparve dalla faccia della terra - e dell’oceano - un quotidiano newyorkese scrisse una noterella velenosa: «Se si deve essere since-
so. Il 22 gennaio dello stesso anno fa sfilare i suoi modelli più celebri in una passerella retrospettiva. Ispirato dalla pittura di Picasso e Warhol, e dalla letteratura, considerò Marcel Proust suo ideale mentore, senza trascurare le suggestioni della vita quotidiana e quelle raccolte nei frequenti viaggi in Marocco. Morto in seguito a un male incurabile il primo giugno del 2008, le sue ceneri sono state disperse nel giardino botanico dell’amata Marrakech.
cia epistolare) di Hawthorne, rende plausibile l’ipotesi che la prima stesura di Moby Dick fosse imperniata soprattutto sulla cronaca di un viaggio. Non fu però un radicale meccanismo correttivo applicato al suo grande romanzo: in nuce c’erano già i significati allegorici, il peso del simbolo. Il ruolo di Hawthorne semmai fu quello di rendere Melville più presente a se stesso, più consapevole delle sue possibilità artistiche che potevano davvero porlo tra i protagonisti del “Rinascimento”americano.
In una lettera, non a caso, Melville evidenziò l’orrore dell’ipotesi di passare alla posterità come «l’uomo che visse tra i cannibali». Esclamazione di Hawthorne: «Che libro che ha scritto Melville! Mi dà un’idea di potenza più grande di quelli che lo hanno preceduto». Herman, in una lettera di ringraziamento all’amico, disse: «Per voi non valeva un soldo, il libro. Ma qua e là, leggendo, avete capito il pensiero diffuso che lo informa; ed è questo che avete lodato. È andata così, non è vero? Siete stato arcangelo quanto basta per disprezzare il corpo imperfetto e abbracciare l’anima». Un critico inglese comprese a fondo l’importanza di Moby Dick: «Un libro straordinario… Chi sarebbe andato mai in cerca di filosofia tra le balene o di poesie nel grasso di balena? Eppure pochi, tra i libri che trattano di metafisica o reclamano una parentela con le muse, contengono una vera filosofia e genuina poesia come la storia del viaggio a balene del “Pequod”».
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SCRITTORI E CIBI
AMADO lo spizzichino spezzafame di Bahia Il menù delle sue opere è un tripudio di carni secche, fagioli, farine di manioca, frutta e acquavite di Filippo Maria Battaglia
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nizia in sordina, matura con le prime opere, trionfa con i capolavori dell’età più adulta. Il legame d’amore tra Jorge Amado e la cucina non ha riscontri di pari livello nella letteratura sudamericana. Non ha paragoni sia per la spasmodica attenzione che lo scrittore di Itabuna dedica al cibo, sia per la ricercatezza del lessico nella descrizione di manicaretti e leccornie varie. È un tratto indelebile della sua produzione. Di più: insieme alla denuncia sociale e all’ambientazione bahiana, costituisce la nervatura narrativa della sua opera.
Non c’è vita senza cibo, sostiene Amado, ed infatti i piatti tipici brasiliani sbucano già alla prima occasione utile, sull’angolo di una strada di Bahia, nel primo romanzo Il paese del carnevale. Ma è solo una fugace apparizione, assai diversa da quella del secondo libro, non a caso intitolato Cacao. A comporre il mosaico culinario, stavolta è un tripudio di carni essicca-
te, fagioli, farine di manioca, frutta appena raccolta e acquavite di canna da zucchero. Una dimensione «domestica» del cibo, destinata ad eclissarsi nel successivo Jubiabà, palcoscenico ideale dove la cucina lascia il profilo più dimesso della gastronomia, levando ad un autentico rituale sociale. È qui che incontriamo una donna nera che «per strada gridava ancheggiando: “Noccioline tostate! Acarejé!”». Che sarà mai questo strano piatto, recitato quasi fosse un rito propiziatorio durante una delle più gravi carestie di Bahia? Uno stuzzichino, «uno spizzico, che si mangia lontano dai pasti per tappare il buco nello stomaco, o prima di cena per stimolare l’appetito». L’Acarejé è uno dei pezzi forti della cucina targata Brasile; la sua preparazione, però, non è affatto semplice. A spiegarlo è lo stesso Amado nel libro scritto insieme alla figlia Paloma (La cucina di Bahia, 1994). Diamo un’occhiata alla ricetta: «Una volta si preparava
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Nel suo romanzo più noto «Dona Flor», anche quando è sola, resta comunque in compagnia del suo cibo. E la sua ricetta diventa il rosario laico di una civiltà nient’affatto incline alla solitudine e all’emarginazione l’impasto dell’acarajé levando la buccia ai fagioli dall’occhio, uno a uno, e grattugiandoli sulla pietra», ovvero un grosso arnese, a forma di parallelepipedo lungo cinquantatre centimetri e largo poco più di venti.
«La parte piana – prosegue Amado – non è liscia, ma viene picchettata per renderla porosa o increspata. Un cilindro della medesima pietra, lungo circa trenta centimetri, ha tutta la superficie ruvida. Questo “matterello”, fatto rotolare avanti e indietro lungo la pietra, trita con facilità il mais, i fagioli, il riso etc». Dunque, se c’è la «pietra» è meglio. Ma se non c’è, poco male: oggi – ricorda Amado –
si usa anche il frullatore e il tritacarne e «non sempre i fagioli risultano perfettamente sbucciati. Anzi, alle volte non si usano neanche i fagioli, dato che per togliersi la voglia di un acarajé si possono inventare mille cose». In Cacao Amado li cucina ad esempio con i fagioli bianchi. Tradizione però impone che per una quindicina di persone si debbano procurare poco più di un chilo di fagioli e di cipolle, un po’ di sale e quanto basta di olio di palma per friggere tutto quanto. Basta poi tritare grossolanamente i fagioli («per spezzettarli senza sminuzzarli») e «metterli a bagno nell’acqua in modo che restino coperti, per ventiquattro ore». Lavati e scolati,
si passano nel tritacarne e, una volta grattugiate le cipolle, si cucinano entrambi in una pentola «fino a che il tutto sia ben amalgamato». Subito dopo, tocca alla frittura: «In una padella versate olio di palma in abbondanza (in quantità tale che durante la frittura copra a metà l’acarajè), aggiungete la cipolla intera e sbucciata e fate scaldare bene. Con due cucchiai date forma agli acarejés e metteteli a friggere nell’olio (è bene sciacquare ogni volta i cucchiai per facilitare il lavoro). Quando una parte è croccante, girate delicatamente l’acarajé aiutandovi con una schiumarola. Può essere servito così o tagliato a metà e spruzzato di salsa di peperoncino, o ripieno di vatapà».
Già, il vatapà: altro piatto decisivo nei romanzi di Amado. La sua preparazione lenisce i dolori di Dona Flor nel romanzo più noto di Amado. Dopo aver chiesto di essere lasciata «in pace con il mio lutto e la mia solitudine», è la vedova di Vadinho a decide-
«Grattugiate di buona lena, suvvia un po’ di esercizio non ha mai fatto male a nessuno (dicono che il moto tenga lontani i pensieri cattivi, ma io non ci credo). Mescolate, rimescolate, coraggio, senza fermarvi; fino alla giusta cottura e con precisione» zecchiandolo a fondo, la carne risulta tenera, non esce più il siero e la superficie è ben tostata».
LA RICETTA = ACARAJÉ
(PER 5 PERSONE) 1 kg di fagioli dall’occhio 1 kg di cipolle 1 cipolla intera Olio di palma Sale Tritare grossolanamente i fagioli nel frullatore, per spezzettarli senza sminuzzarli. Mettete i fagioli a bagno nell’acqua, in modo che restino coperti, per 24 ore. Lavateli e scolateli togliendo tutte le bucce. Passate i fagioli al tritacarne. Grattugiate il chilo di cipolle. Mettete i fagioli tritati in una pentola, aggiungete il sale e un po’ alla volta le cipolle grattugiate, mescolando con un cucchiaio di legno fino a che tutto sia ben amalgamato. In una padella versate olio di palma in abbondanza (in quantità tale che durante la frittura copra a metà l’acarajé), aggiungete la cipolla intera e sbucciata e fate scaldare bene. Con due cucchiai date forma agli acarajés e metteteli a friggere nell’olio (è bene sciacquare ogni volta i cucchiai per facilitare il lavoro). Quando una parte è croccante, girate delicatamente l’acarajé aiutandovi con una schiumarola. Può essere servito così o tagliato a metà e spruzzato di salsa di peperoncino, o ripieno di vatapà e crema di gamberi.
re di cucinare il piatto più famoso di Bahia. «Per un vatapà di dieci persone – spiega serafica nel romanzo – portate due teste di cernia freschissima, potete usare anche un altro pesce, ma non viene così buono». E poi «sale, coriandolo, aglio, cipolla, qualche pomodoro e il succo di un limone»: questi gli ingredienti, il resto è affidato alle mani della celebre protagonista del romanzo amadiano. Si inizierà così con il rosolare «il pesce negli odori», aggiungendo un «sorso d’acqua, un sorso piccolo, quasi un niente. Poi scolate il sugo, mettetelo da parte, e proseguiamo». A questo punto, toccherà disporre di una grattugia e di due noci di cocco: «Grattugiate di buona lena, suvvia, grattugiate: un po’ di esercizio non ha mai fatto male a nessuno (dicono che il moto tenga lontani i pensieri cattivi, ma io non ci credo). Raccogliete la polpa e scaldatela prima di spremerla: sarà più facile ottenere il latte spesso, il puro latte di cocco non diluito». At-
tenzione però: «Lasciatelo da parte. Ottenuto il primo latte, non buttate via la polpa, non siate sciuponi, non è tempo di sprechi. Prendete la polpa e scaldatela in un litro d’acqua bollente. Spremete di nuovo per ottenere il latte diluito».
È l’ora di cercare un po’ di pane raffermo, stando bene accorti nel togliere la crosta e poi «mettendolo a mollo nel latte diluito. Nel tritacarne (lavato per bene) passate il pane bagnato nel latte di cocco e macinate insieme le arachidi, i gamberoni essiccati, gli anacardi, lo zenzero e non dimenticate il peperoncino che aggiungerete a piacere». Macinati e mescolati i «condimenti, aggiungeteli al brodo di cernia, sommando sapore a sapore, il cocco con lo zenzero, il sale con il pepe, l’aglio con gli anacardi, e mettete tutto sul fuoco per addensare il brodo». Infine, spiega serafica Dona Flor, «aggiungete il latte di cocco, quello denso e puro, e alla fine l’olio di palma, due tazze colme: il dende,
colore dell’oro antico, il colore del vatapà. Lasciate cuocere a lungo a fuoco basso; continuate a mescolare con il cucchiaio di legno e sempre nello stesso verso: non smettete di mescolare se no impazzisce il vatapà. Mescolate, rimescolate, coraggio, senza fermarvi; fino alla giusta cottura e con precisione». E spetta sempre alla vedova l’annuncio che la pietanza è finalmente pronta. C’è tempo per gli ultimi, decisivi suggerimenti: «Bene, il vatapà è pronto, non è una meraviglia? Prima di portarlo a tavola metteteci sopra un filo di olio crudo. Servitelo con polenta di granturco, i fidanzati e i mariti si leccheranno i baffi». Questi i gusti di Dona Flor. Il piatto forte della famiglia Amado resta però il cosciotto al forno. Jorge lo fa cucinare in moltissimi romanzi. Tra gli altri, lo ritroviamo nei Guardiani della notte e in Alte uniformi e camicie da notte. «Più della carne, piace la crosta scura, salata, croccante, che si forma sopra e che è oggetto di contesa». È una pre-
parazione lunga, paziente, piuttosto costosa. Per una dozzina di persone, Amado suggerisce un cosciotto di maiale di almeno sei chili. Sono inoltre necessari nove spicchi schiacciati di aglio, sette foglie di alloro, quattro rametti di rosmarino, una decina di grani di pepe nero, un litro di vino e mezzo chilo di farina di manioca». Il rito inizia il giorno prima dalla pulitura del pollo, che va «bucherellato con un coltello a punta aguzza».
Continua poi in un catino, dove il cosciotto è messo «a bagno nel vino con tutti gli ingredienti», «girato spesso affinché assorba gli aromi in modo uniforme. Il giorno dopo sistematelo in una teglia, coperto dalla marinata in cui è stato a mollo. Nel forno preriscaldato mettete il cosciotto e lasciatelo cuocere lentamente per quattro o cinque ore bagnandolo ogni tanto con il sugo. Ogni volta che il sugo sta per asciugarsi, aggiungete un po’ d’acqua. Il cosciotto è pronto quando, pun-
Ma la ricetta non è finita qui. A casa della famiglia Amado, così come in quella di Dona Flor, non si butta via niente. Ecco dunque gli ultimi suggerimenti, utili a quel salto di qualità che fa di una pietanza una vera composizione culinaria: «Raccogliete il sugo di cottura in salsiera. Spostate la teglia sul fuoco e distribuite la farina di manioca sul grasso che vi è rimasto. Con un cucchiaio di legno grattate il fondo e mescolate con energia, ottenendo una farofa. Servite il cosciotto con fette di limone, banane fritte, farofa e riso pilaf». Un piatto assai impegnativo, decisamente diverso dalla carne essiccata, altra costante nei romanzi amadiani. Essenziale, nutriente, «si conserva a lungo, e lo si può portare appresso nei lunghi viaggi, come la traversata del sertão per sfuggire alla siccità. Ancora più a lungo si conserva la carne essiccata pestata nel mortaio con cipolla cruda e farina di manioca, che si chiama passoca, cibo squisito che dura molti mesi conservata in scatole di latta o trasportata nelle taschette dei cavalli, come facevano i cangaceiros». Il cibo dei poveri, ricorda Amado, «ma anche il cibo del santo». Tra i sapori e gli odori di Bahia, la dimensione privata e quella sociale si confondono fino a sparire in una nebulosa di allusioni e di divagazioni dal retrogusto filosofico: «Che ne sapete voi, ragazze, dell’intimità di una vedova?» domanda mentre cucina Dona Flor. «Il desiderio di una vedova è un desiderio di dissolutezza e di peccato, una vedova per bene non parla di queste cose, non pensa a queste cose, non ne parla. Lasciatemi in pace nella mia cucina» e sospira, quasi rassegnata, continuando ad alta voce la preparazione dell’ennesimo manicaretto. Anche quando è sola, Flor resta comunque in compagnia del suo cibo. E la sua ricetta diventa il rosario laico di una civiltà nient’affatto incline alla solitudine e all’emarginazione.
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LE GRANDI BATTAGLIE Gli inglesi hanno la superiorità navale e possono contare su soldati professionisti, gli argentini hanno una schiacciante superiorità aerea, 13mila soldati con armi pesanti e una piccola componente blindata n errore, un grave errore di valutazione commesso dai generali argentini nel 1982 portò alla guerra per le Falklands. La Junta Militar guidata dal Generale Galtieri non aveva alcun reale motivo per cercare di strappare con la forza alla Corona britannica lo sperduto arcipelago delle Falklands (Malvinas): due isole principali e 200 isolotti minori a 700 km dalla costa argentina, con 2.000 abitanti. Nessun valore strategico. Solo tante pecore e vento. Ma ai generali serviva un catalizzatore esterno, capace di dirottare le attenzioni degli argentini dalla drammatica crisi economica. L’ insofferenza contro la dittatura militare continuava a crescere. Ecco perché puntare sulle Falklands e poco importa che il governo inglese fosse da tempo pronto al compromesso. L’ammiraglio Jorge Anaya suggerisce la prova di forza, nella convinzione di una facile “passeggiata”: Londra non reagirà mai, le Falklands sono a 14.000 km di distanza, sono difese da una guarnigione simbolica e la Gran Bretagna sta smantellando le sue forze militari. E così gli argentini iniziano a pianificare l’invasione già agli inizi del 1982. L’Operazione Rosario scatterà a marzo 1982.
DELLA
FALKLANDS 1982
Il ruggito del Leone
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La Gran Bretagna non si aspetta niente del genere, l’intelligence prende un buco clamoroso. E così, a seguito di un incidente davanti a South Georgia, la giunta dà l’ordine di attacco: la forza di invasione,Task Force 40, salpa da Puerto Belgrano il 28 marzo, il 2 aprile 900 marines sbarcano a Port
Come la corona britannica umiliò il regime militare di Buenos Aires di Stranamore
Stanley, capitale delle Falklands. I 68 Royal marines che la difendono non possono che of-
Sul piano strategico Londra ottiene un grande successo, anche se pagato a caro prezzo. In Argentina cade il regime militare e viene eletto Raoul Alfonsin nell’ottobre del 1983 frire una resistenza minima prima di capitolare. Stesso copione a South Georgia, conquistata il 3 aprile. A Londra è il panico. Molti ministri suggeriscono di lasciare perdere, tentare una soluzione diplomatica, ma
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la “signora di ferro”, il primo ministro Margaret Thatcher non ci sta, e ordina la mobilitazione. Il 3 aprile viene annunciata l’operazione Corporate: o l’Argentina restituisce il maltolto, attraverso un negoziato, o ci penseranno i soldati britannici a riprendere le Falklands.
Già il 5 aprile le prime unità della Royal Navy salpano da Portsmouth. Con uno sforzo incredibile la macchina militare britannica si mette immediatamente in modo per quella che sembra una missione impossibile. Tutte le navi disponibili partono verso l’Atlantico meridionale, tappa intermedia ad Ascensione. Ci sono 2 portaerei, 23 tra fregate e cacciatorpediniere, 2 navi da assalto anfibio, una quantità di navi logistiche e di supporto, tra le quali due transatlantici, per trasportare truppe e materiali. La forza da sbarco comprende la
5° brigata di fanteria e la 2° brigata commando dei marines. I britannici hanno la superiorità navale e possono contare su soldati professionisti, gli argentini hanno una schiacciante superiorità aerea e portano alle Falklands ben 13.000 soldati con armi pesanti e una piccola componente blindata. In termini di equipaggiamenti e armamenti gli argentini non sono poi così inferiori, ma la maggior parte del personale è di leva e l’ondata di orgoglio nazionalista suscitato dalla occupazione delle isole non può compensare la mancanza di preparazione. Il primo colpo britannico consiste nella riconquista di South Georgia con la Operazione Parquet: tra il 22 e il 25 aprile l’isola viene liberata. La Marina Britannica impone una sorta di blocco navale intorno alle Falklands, puntando sui suoi sottomarini nucleari. La Marina Argentina cerca di
STORIA
attaccare la forza navale avversaria con una manovra a tenaglia con due task forces, obiettivo: affondare le portaerei nemiche. Ma il sottomarino Conqueror aggancia e tallona la formazione guidata dal vecchio incrociatore Belgrano e lo affonda: muoiono 386 uomini dell’equipaggio e le navi argentine devono ripiegare.
Eliminata la minaccia navale, il contrammiraglio John Wood-word inizia a colpire basi ed aeroporti degli argentini sulle isole, mentre nei cieli infuria la battaglia. I piloti argentini sono determinati e coraggiosi e pur volando al limite dell’autonomia colpiscono duro, ottenendo grandi successi contro le navi britanniche, ma subiscono perdite pesantissime a causa dei caccia navali britannici Sea Harrier e delle difese antiaeree. La battaglia di attrito è vinta dagli inglesi, che ottengono la superiorità aerea. Il 21 maggio hanno inizio gli sbarchi delle truppe della forza da assalto inglese. Sono 4.000 uomini. Gli aerei argentini attaccano disperatamente, ma non fermano le operazioni anfibie. Il comandante argentino, il generale Menendez, rinuncia ad attaccare le forze britanniche nelle loro precarie posizioni iniziali, preferisce concentrare le truppe nelle loro posizioni fortificate e cercare di logorare le limitate forze nemiche, la cui logistica è critica. Il 26 gli inglesi iniziano l’avanzata. Il 28 i parà inglesi attaccano l’aeroporto di Goose Green e lo conquistano dopo una violenta battaglia, catturando 1.500 prigionieri. Le colonne inglesi puntano sulla capitale, Port Stanley. Menendez ha ancora 9.000 soldati operativi, artiglierie, armi pesanti e buone posizioni. Di fronte a lui il generale Jeremy Moore ha 8.000 soldati dopo lo sbarco della seconda brigata inglese e organizza un attacco da due direzioni. Il cerchio si chiude intorno a Port Stanley, non senza violenti combattimenti. L’assalto finale avviene tra il 13 e il 14 giugno. Molti soldati argentini fuggono o si arrendono. Menendez firma la resa alle 21.15 del 14 giugno. Gli Inglesi avevano riconquistato le Falklands. Il bilancio delle perdite fu pesante, per entrambe le parti. Sul piano strategico Londra ottenne un grande successo, anche se pagato a caro prezzo. Quanto ai generali argentini, la avventura delle Falklands portò non solo alla sostituzione di Galtieri, ma rese possibile una più rapida fine del regime militare e il ritorno di un governo civile, con l’elezione di Raoul Alfonsin nell’ottobre del 1983.
CAPOLAVORI DI PIETRA
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ra Firenze e Sesto sorge villa Medici a Castello, una residenza di campagna della famiglia che nel Cinquecento conquistò il potere a Firenze e in Toscana. Oggi sede dell’Accademia della Crusca, essa ha un aspetto quasi dimesso se rapportato alle coeve residenze romane o venete: un parallelepipedo allungato, svuotato da una piccola corte, esibisce pareti a intonaco traforate dalle finestre, rilegate da semplici cornici in pietra grigia, la stessa delle bugne che affiancano il portale. L’edificio introduce in uno dei più precoci esempi di giardino rinascimentale all’italiana, che ospita nei suoi penetrali un misterioso serraglio di animali di pietra. Tra la villa e il pendio che la sovrasta, si dispiega il giardino, il cui progetto originario risale a Nicolò Pericoli, detto Tribolo, artista versatile e geniale: scultore, ingegnere idraulico e architetto, è anche autore del giardino di Boboli. In termini generali il giardino è un’allegoria del potere dei Medici e del loro dominio territoriale, evocato dalle personificazioni dei fiumi e dei monti. La presenza diffusa di agrumi allude al paradiso terrestre, dove la simultaneità di fiori e frutti rimanda all’assenza del tempo fuggevole, condizione di caducità e di morte.
Il giardino è ideogramma del ducato di Toscana, che il buon governo di Cosimo I ha trasformato in un Eden, luogo di pace da cui sono bandite le intemperanze, perfino quelle stagionali, poiché vi regna l’eterna primavera del buon governo. Infatti la tavola di Botticelli con il trionfo di Primavera orna l’appartamento ducale, mentre al centro del giardino, sulla sommità di una zampillante fontana, riluceva la candida statua di Venere, personificazione di Firenze, modellata da Giambologna, oggi trasferita altrove. Sull’asse prospettico, al di là della Dea dell’amore e della fecondità, si apre un antro scavato alle falde della collinetta, su cui si addensa un folto di sempreverdi (querce, lecci e conifere), il “salvatico” che ripara il giardino di Venere dai venti del nord, a similitudine dell’Appennino che protegge Firenze dalla tramontana. Denunciata all’esterno da un robusto portale bugnato, la grotta è stupefacente: completamente rivestita di pomici spugnose (e in origine stillanti di acque), avvolge il visitatore in una penombra incantata. A poco a poco dalle pareti, scavate da tre absidi, affiora silente la fauna che popola i tre elementi del pianeta: acqua, terra e aria. Pesci, molluschi e crostacei, si staccano dalle superfici levigate e lucenti di due magnifiche vasche di marmo apuano, inse-
VILLA MEDICI Si trova tra Firenze e Sesto il palazzo che ospita l’Accademia della Crusca
L’Eden di Cosimo I come uno zoo di Claudia Conforti
a plasmare una marmorea natura morta, cui si contrappone, a sinistra, un fremente intreccio di pesci, imprigionati dai pervasivi tentacoli di un polipo. La vasca centrale, sul fondo più oscuro della grotta, ha un sinuoso modellato privo di rilievi, esaltato dal colore violaceo della breccia medicea delle cave di Seravezza: solo gli appoggi hanno la forma di due testuggini.
I fondali delle nicchie aggregano rilievi zoomorfi secondo una gerarchia dimensionale: al centro campeggiano animali di grande taglia, circondati da animali via via più piccoli, colti nell’attività ritenuta abituale: la capra si inerpica per brucare, il cavallo si impenna, il gatto balza sulle zampe posteriori. Il naturalismo illusionistico esaltato dal colore delle pietre simile al manto naturale: granito grigio per il rinoceronte, marmo rosso per il toro, giallo di Siena per il leone, è accresciuto dall’innesto agli ungulati di corna vere! Nella nicchia
La grotta, rivestita di pomici spugnose (e in origine stillanti di acque), avvolge il visitatore in una penombra incantata di destra spiccano un dromedario, un alce, un bufalo circondati da una scimmia, un puledro, un cinghiale, una capra; a sinistra un rinoceronte, un orso e una giraffa determinano la girandola di due cani, un gatto, un lupo che assale un agnello. La parete centrale, fuoco percettivo della grotta, raggruppa prevalentemente animali araldici e di grande taglia: l’elefante, il leone, il bue, il toro, il capricorno: su tutti domina l’aristocratico candore dell’unicorno o liocorno.
La grotta degli animali di Villa Medici a Firenze rite nelle due absidi laterali. Il loro contorno morbido e oblungo, desunto da modelli antichi, sembra derivare dal naturalistico groviglio di chele, antenne, valve e pinne che aggruma stupefacenti festoni marini: a destra sono le conchiglie
Il giardino è ideogramma del ducato di Toscana. È un luogo di pace dove regna l’eterna primavera del buon governo
La mitica creatura, carica di valenze simboliche e salvifiche, merita l’apice di questo fantasmagorico zoo di pietra, dal significa misterioso e sfuggente. Lo strabiliante serraglio lapideo era completato da uccelli che, in pietra e in bronzo, scolpiti da Ammannati e da Giambologna, gettavano acqua dai becchi e si aggrappavano alle rocce delle pareti, sovrastate da una volta scintillante di mosaici, dove esotiche conchiglie disegnano maschere e trofei. L’inquietante fissità apparenta queste figurazioni alle maschere precolombiane, che giunte in Europa dal Nuovo Mondo, proprio alla metà del Cinquecento cominciano ad essere oggetto di collezionismo.
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ORIZZONTALI 1 Autore di E adesso, pover’uomo? n 8 Olio consacrato n 14 Iniz. della Tamaro n 16 All the King’s Xxx di Robert Pen Warren n 19 Ne fu capitale Ninive n 20 “...qui secundum Deum xxxxxxx est in justitia (San Paolo agli Efesini) n 21 Elio Xxxxxx, poeta n 23 La gente paga e xxxxx vuole qua (I Pagliacci) n 24 Autore di Capitan Fracassa n 25 John Franklin Xxxxxxx, storico USA (1859-1937) n 26 Irragionevoli n 29 Me quoque devexi xxxxxxx comes Orionis... (Orazio, Odi I, 28) n 31 Metallo lucente grigio-rossastro n 35 Modena n 36 La Gandhi uccisa da una sua guardia del corpo n 37 Iniz. del compositore Sacchini (173086) n 40 Trovate n 41 Figlia di Cecrope, re di Atene, che Minerva punì facendola impazzire n 43 Lo stagno n 44 Oh bella xx suoi bei dì... n 45 The Great Xxxxx Robbery (“Assalto al treno”) film di E. Porter n 47 Scrisse Paolo e Virginia n 53 Opera buffa di Rossini n 54 Romanzo di Verne n 55 A noi n 56 L’oro del Xxxx n 57 Popolazione del Lazio sottomessa da Roma nel 306 a. C. n 58 Bevanda russa n 59 Genova n 60 Armati di lancia n 62 Le xxx sorelle n 63 Preposizione n 64 Brutti n 65 ...bisogna xx lieve al periglioso passo (Petrarca) n 66 Inutile portarvi vasi n 67 Tiro al xxxxxxxxx n 70 Il dio del vento del Sud n 72 Pecchie n 73 Lingua provenzale n 74 Una farina n 75 Oriente n 76 Nome di donna.
VERTICALI 1 Xxx West n 2 Ne era capo Odino n 3 Un acido stupefacente n 4 Ionas Xxx (18331908) scrittore norvegese n 5 Claudio..., pianista n 6 Giorno n 7 Iniz. di Arbasino n 8 Nudo e... n 9 La xxxx, film messicano (1953) con Rossana Podestà n 10 International Agricultural Institute n 11 Isaac..., violinista ucraino n 12 Sultano ottomano (1403-51) n 13 Iniz. di Salieri n 14 A lancia e xxxxx il Barbarossa in campo (Carducci) n 15 In prov. di Brescia n 16 Ibam forte Via Sacra sicut meus est xxx (Orazio, Satira I) n 17 Xxx e Leandro n 18 Città e fiume della Thailandia n 20 Vedova di Moravia, autrice di romanzi n 22 Poeta maccheronico del ’500 (Capriccia macaronica) n 24 Iniz. di Ungaretti n 25 Xxxx Xxxxx (1912-69) cel. creatore ceko di film d’animazione n 27 Librettista del Barbiere di Siviglia n 28 Sudicio, gretto n 30 Tu fior della mia xxxxxx... (Carducci) n 31 Relativa all’Antico Testamento n 32 Ossessione n 33 Tra fiori, xxxxx e fronne / una gran fonte rara (Mauro Marè, Silabbe e stelle) n 34 Jettatori n 36 Non sanno di niente n 38 Fiume della Francia n 39 Infiammazione della tromba di Eustachio n 42 Cura gli interessi di chi scrive e di chi pubblica n 43 Fu fatale a Napoleone III n 45 Città dell’Algeria n 46 “Poeta nuovo” ellenistico n 48 Opera di Shakespeare n 49 Legge n 50 Molto cordiale n 51 Pause n 52 Papa Braschi n 61 Tip xxx n 62 Xxx nervoso n 64 Ubriaco, ingravidò due figlie n 67 Vi annega Fetonte n 68 Torino n 69 Iniz. di Settembrini n 71 Siede alla Camera
CRUCIVERBA
di Pier Francesco Paolini
QUIZ LETTERARIO
La figlia di Cecrope
CHI È L’AUTORE DI QUESTO QUADRO? ....................................... (1552)
DI QUALE ROMANZO DEL 1967 È QUESTO INCIPIT?
olti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio. Facondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente, che molte cose prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito.Tutti gli anni, verso il mese di marzo, una famiglia di zingari cenciosi piantava la tenda vicino al villaggio, e con grande frastuono di zufoli e tamburi faceva conoscere le nuove invenzioni. Prima portarono la calamita. Uno zingaro corpulento, con barba arruffata e mani di passero, che si presento col nome di Melquíades, diede una truculenta manifestazione pubblica di quella che egli stesso chiamava l’ottava meraviglia dei savi alchimisti della Macedonia. Andò di casa in casa trascinando due lingotti metallici, e tutti sbigottirono vedendo che i paioli, le padelle, le molle del focolare e i treppiedi cadevano dal loro posto, e i legni scricchiolavano per la disperazione dei chiodi e delle viti che cercavano di schiavarsi, e perfino gli oggetti perduti da molto tempo ricomparivano dove pur erano stati lungamente cercati, e si trascinavano in turbolenta sbrancata dietro ai ferri magici di Melquíades.
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«Le cose hanno vita propria», proclamava lo zingaro con aspro accento, «si tratta soltanto di risvegliargli l’anima». José Arcadio Buendía, la cui smisurata immaginazione andava sempre più lontano dell’ingegno della natura, e ancora più in là del miracolo e della magia, pensò che era possibile servirsi di quella invenzione inutile per sviscerare l’oro della terra. Melquíades, che era un uomo onesto, lo
prevenne «Per quello che serve». Ma a quel tempo José Arcadio Buendía non credeva nell’onestà degli zingari, e così barattò il suo mulo e una partita di capri coi due lingotti calamitati. Ursula Iguarán, sua moglie, che faceva conto su quegli animali per rimpinguare il deteriorato patrimonio domestico, non riuscì a dissuaderlo. «Molto presto ci avanzerà tanto oro da lastricarne la casa», ribatté suo marito.
LE SOLUZIONI SARANNO PUBBLICATE NEL NUMERO DI DOMANI inserto a cura di ROSSELLA FABIANI
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Iran. A giudicare dai mezzi di informazione occidentali, sembra che la situazione a Teheran si vada normalizzando. Invece non è così
Rompiamo il muro del silenzio di Gennaro Malgieri segue dalla prima
Non hanno avuto riguardo neppure per Karroubi che è un hojatoleslam, cioè appartenente al clero, a dimostrazione che ormai i miliziani non si fermano davanti a nulla e a nessuno. Neda, anche per questo, cresce nell’immaginario collettivo iraniano e con il passare del tempo continua a dare più fastidio ad Ahmadinejad quale simbolo di una rivolta che non si placa. In effetti, a giudicare dai mezzi di informazione occidentali, sembra che la situazione in Iran si vada normalizzando. Invece non è così.
L’impressione è effetto della distrazione di chi dovrebbe documentare da un lato la repressione che giorno dopo giorno fa nuove vittime e dall’altro la feroce lotta di potere in atto nelle alte sfere, soprattutto religiose, della Repubblica islamica. Nei giorni scorsi è stato arrestato il regista Jafar Panahi insieme con la documentarista Mahnas Mohammadi, mentre tentavano di raggiungere la tomba di Neda. L’ex-presidente Mohammad Khatami ha chiesto esplicitamente che vengano perseguiti e puniti i responsabili del carcere di Kahrizak, famigerato almeno quanto quello di Evin, del quale Khamenei in persona aveva disposto la chiusura. Khatami ha denunciato la situazione che regna nel penitenziario il quale «non è stato chiuso per mancanza di condizioni igieniche. In esso sono stati commessi reati ignobili e vite umane sono andate perdute. I responsabili devono essere puniti». Tra gli altri, nel carcere è morto il figlio di un alto esponente del regime vicino a Moshen Rezai, conservatore ma avversario di Ahmadinejad, già comandante dei pasdaran: l’ordine imperativo della Guida Suprema di chiudere la prigione è stato un segno di disponibilità e di paura al tempo stesso. Khamenei, consapevole che parti considerevoli dell’establishment si stanno rivoltando contro di lui, tenta di recuperare come può il consenso perduto con atti che lo squalificano comunque in quanto smaccatamente opportunistici. Forse soltanto adesso, a due mesi quasi dalle
A fianco, un’immagine di una recente manifestazione dell’Onda Verde, in Iran. In basso, il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad
Tutti oramai condannano a parole, ma nessuno in sostanza fa niente. La polveriera potrebbe saltare da un momento all’altro, e i soli ad avvantaggiarsene sarebbero i Guardiani della Rivoluzione elezioni, si sta rendendo conto dell’errore gravissimo commesso: aver avallato i brogli elettorali ed aver assecondato Ahmadinejad nel reprimere le manifestazioni. Perfino il clero, con l’autorevole pronunciamento di Montazeri, l’erede di Khomeini, esiliato a Qom, ha sconfessato Khamenei che non gode più dell’appoggio della maggioranza dei religiosi i quali lo considerano un pericolo per l’Iran e sempre più nelle mani del presidente che fino alle elezioni aveva maneggiato come un burattino. A parti invertite, anche i pasdaran sono
dalla parte di Ahmadinejad e perciò Hashemi Rafsanjani, leader sempre molto ascoltato, ha formalmente chiesto ai nove grandi ayatollah, dei quali soltanto due hanno approvato l’elezione del presidente, di sconfessare Khamenei, ormai delegittimato politicamente e agli occhi dell’opinione pubblica poco più di un sopravvissuto.
La guerra per la successione è iniziata, ma non si può neppure ipotizzare come e quando finirà. Lo sbocco cruento, al momento, è quello più probabile. Il Paese, per unanime ammissione, infatti, è nel caos ed il potere non è nelle mani di nessuno. Può accadere di tutto. Per-
fino che il Majlis non ratifichi, tra pochi giorni, l’elezione di Ahmadinejad: infatti oltre duecento membri su duecentosessanta hanno messo in guardia il presidente dal rischio che corre. Anche per questo, nel vuoto della politica, i pasdaran stanno assumendo un ruolo sempre più decisivo e non detto che, alla fine, non ci scappi un colpo di Stato militare a cui l’esercito regolare non potrebbe e non saprebbe opporsi poiché nessuno è in grado di impartirgli ordini. I pasadaran, non va dimenticato, hanno il controllo degli esperimenti nucleari e l’uso che potrebbero fare degli ordigni ormai quasi messi a punto è facilmente immaginabile. Non si dimentichi che sono fanatici e ben pagati: praticamente i “padroni” del regime, gli unici che hanno gli strumenti per mettere a ferro e fuoco l’Iran.
«Neda non è morta. È morto il governo», hanno gridato l’altro giorno coloro i quali cercavano si sottrarsi alle violenze della polizia dopo il fallito tentativo di raggiungere la tomba della ragazza. Consapevoli della difficile e pericolosissima situazione che si è determinata nel Paese cercano, come ci
viene detto da Teheran, consensi in Occidente che non trovano. Tutti condannano a parole, ma nessuno fa niente. La polveriera potrebbe saltare da un momento all’altro ed i soli ad avvantaggiarsene sarebbero i Guardiani della Rivoluzione i quali, come sostengono diversi osservatori, non esiterebbero a mettere le mani addosso alle autorità religiose e a far decollare verso lidi di inaudita ferocia il regime.
I pasdaran non sono islamisti puri. Sono militari tra i più spietati che si conoscono. La loro forza economica è enorme. Hanno infiltrati nelle istituzioni religiose e nelle famiglie. Nulla sfugge al loro controllo. In trent’anni di servizio si sono costituiti come Stato nello Stato. Ahnmadinejad che pure li ha favoriti dal 2005, essendo vicino a loro fin dagli esordi rivoluzionari, oggi si dice che li tema. Il giorno in cui scenderanno in campo dichiarando le loro reali intenzioni l’Iran andrà in frantumi e le schegge potrebbero colpire l’Occidente ed i suoi interessi in quell’area. A Teheran è cominciato, insomma, il conto alla rovescia. Tutti temono qualcosa. Non c’è nessuno che si possa sentire al riparo da minacce che non erano prevedibili prima del 12 giugno scorso. A febbraio di quest’anno sembrava che il trentennale della rivoluzione khomeinista dovesse essere celebrato in maniera sontuosa. Finirà nel sangue, divorando i suoi figli.
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Fondamentalisti. Ucciso il capo dei “talebani neri”, Mohammed Yussuf. Hillary Clinton sta per cominciare un difficile tour nel continente
La mezzaluna d’Africa Non solo Nigeria: la marcia dell’islam attraversa il Sahara dal Ghana alla Somalia di Osvaldo Baldacci stato ucciso dalla polizia nigeriana mentre tentava la fuga dopo la cattura Mohammed Yussuf, leader 39enne dei talebani nigeriani che hanno scatenato una settimana di violenze costate più di 600 morti. Il bagno di sangue provocato dalla setta fondamentalista islamica Boko Haram è l’ennesima esplosione di violenza religiosa in Nigeria, ma è anche la spia di un fenomeno che si sta espandendo sotto gli occhi un po’ distratti della comunità internazionale. È vero che gli Stati Uniti hanno costituito il comando Africom per contrastare il terrorismo in Africa e che nei prossimi giorni il segretario di Stato, Hillary Clinton, sarà nel Continente nero (il 5 agosto proprio in Nigeria). Ma forse non si sta ancora prestando abbastanza at-
È
peccato”) è composta da leader ricchi e istruiti che sposano una visione radicale dell’islam messo in contrapposizione violenta con tutto il resto. Questo avviene nei dodici stati del nord dove già vige la sharia, ritenuta però insufficientemente applicata. C’è quindi da tener presente che l’avanzata di questa visione estrema e violenta della religione si realizza non in un contesto di minoranze perseguitate, ma al contrario in aree dove già sono i non islamici a vivere in condizioni di inferiorità. Questo naturalmente non vuol dire che la gran parte della popolazione di quelle aree non viva in condizioni disagiate che favoriscono la presa di messaggi rancorosi. È sempre facile agitare l’ideale di una società giusta e ideale da raggiungere con l’eliminazione
Se Cina, India, Russia e Stati Uniti puntano allo sfruttamento delle risorse naturali, l’islamismo radicale vuole sostituirsi, anche con la violenza, alle antiche strutture tribali della società africana tenzione a quanto accade in una regione che era addirittura assente dal famoso “scontro di civiltà” di Huntington. In realtà l’Africa è uno degli scenari più interessanti del futuro e su di essa si sono concentrati gli interessi delle grandi potenze internazionali: la Cina, che oggi sembra essere quella con la presa maggiore, l’India, la Russia, tornata dopo la crisi post Guerra Fredda, Francia e Inghilterra, un po’ in arretramento ma che contano sulle antiche relazioni coloniali, gli Stati Uniti, con il loro recente ritorno di interesse (Washington peraltro ha messo a punto l’idea di ottenere dall’Africa, specie da quella occidentale, un’ampia percentuale di risorse, specie di petrolio, per diminuire il peso del Medio Oriente). Ma tra le potenze, e lo si sottovaluta, va registrata anche l’avanzata dell’islam radicale.
Il caso nigeriano è esemplare, ma la fascia coinvolta va da un oceano all’altro su entrambe le “sponde”del Sahara. In Nigeria la setta Boko Haram (che vuol dire “l’educazione occidentale è
dei nemici oppressori. Ma come abbiamo visto è del tutto falso ad esempio che l’Islam sia la religione originaria e pura di queste regioni, oppressa da un cristianesimo portato dai colonialisti e legata al potere dell’occidente. È al contrario l’islam estremista, di stampo wahhabita, ad essere una novità dell’Africa subsahariana, e spesso si va a sviluppare in aree già islamizzate, dove il cristianesimo è altrettanto se non più antico dell’islam, ma è minoritario. Ma c’è un elemento in più che serve a comprendere l’avanzata dell’islam radicale nell’Africa sub sahariana: l’islam è un elemento attraente per lo sviluppo, è ben foraggiato, e supera i vincoli tradizionali. Alcuni esempi concreti. La società tradizionale africana ha tuttora alcune caratteristiche che tendono a negare possibilità a chi non faccia parte del giro giusto. Prima di tutto c’è la povertà, ma poi c’è la struttura tribale ancora vivissima, tanto da cristallizzare le situazioni, e in più c’è il problema dell’infinito numero di lingue etniche. L’islam
rompe questi equilibri: si ha possibilità di emergere in quanto membri della comunità e non per come si è nati. Si diffonde una lingua comune dell’islam che permette di creare nuovi rapporti. Non solo l’arabo coranico: nel Nord della Nigeria e nelle aree circostanti si sta diffondendo come lingua franca dei musulmani l’awsa, e questo è un veicolo da non sottovalutare, un elemento di frattura di equilibri e solidarietà consolidati. Questi processi poi non sono del tutto spontanei: è in atto una forte attività missionaria da parte dei paesi islamici, specie quelli del Golfo e dell’Iran, a volte persino in collaborazione.
Quest’attività gode di enormi finanziamenti e ha obiettivi precisi: molto importante è la pratica di scegliere gli studenti migliori per offrirgli borse di studio e formazione nei Paesi islamici per poi reinserirli come nuova classe dirigente fedele agli sponsor. Nel frattempo crescono anche le scuole e le università islamiche nell’area. E una cura particolare viene prestata ai mezzi di comunicazione, sia locali che satellitari. Nonché le moschee, che spesso nei villaggi africani sono l’unico edificio in muratura, l’unico che ha il denaro per offrire sanità, istruzione, posti di lavoro. Tutto ciò è del tutto legittimo e persino filantropico, senonché come è noto a fianco dell’islam ufficiale sono molto attivi movimenti di islam estremista e violento. Anche perché diventa facile in situazioni difficili e apparentemente senza via d’uscita prendere a modello quelli che vengono presentati come romantici rivoluzionari, nella fattispecie “eroi del jihad”. Ecco quindi la forza di penetrazione che a macchia d’olio sta invadendo l’Africa sub sahariana, con l’aggiunta anche di un elemento politico in Paesi come il Ghana e il Kenya, prevalentemente cristiani con una solida minoranza islamica. A causa delle fragili democrazie e del fatto che spesso i partiti coincidono con le realtà tribali (e hanno poca propensione al confronto e al rispetto delle minoranze), il pe-
so politico delle comunità musulmane è determinante, e questo ruolo di ago della bilancia ne facilita la crescita.
Somiglianze col caso nigeriano si trovano all’estremo Est in Somalia: la crisi di quello Stato viene spesso sottovalutata perché considerata endemica, ma anche lì gli ultimi anni hanno visto delle trasformazioni. Non solo i pirati, ma anche le milizie islamiste che tra l’altro hanno subito una crescente radicalizzazione. Le Corti islamiche che presero il
ancora più evidente e preoccupante il possibile legame col terrorismo e con i gruppi qaedisti. La Somalia può diventare terra di addestramento e di rifugio, e può saldare le sue ambizioni islamiste con le pulsioni estremiste già vive in Yemen, mentre la sua forza dirompente può coinvolgere Kenya ed Etiopia, e allo stesso tempo si avvale del supporto di un Paese come l’Eritrea, diviso a metà tra musulmani e cristiani ma che, per motivi geopolitici, ha scelto di diventare epicentro dell’ islamismo. Dal Corno d’A-
Si moltiplicano i collegamenti con i gruppi dichiaratamente terroristi come al-Qaeda che hanno ormai le loro “filiali” e i loro campi d’addestramento nel Maghreb da dove minacciano anche l’Europa potere alcuni anni fa erano già ispirate all’islam più radicale, ma sostanzialmente ancora si innestavano sul tessuto somalo e rispondevano soprattutto all’esigenza di riportare legge e ordine contrastando i signori della guerra. Gli attuali shebab sono una cosa diversa che combatte anche contro le Corti islamiche moderate e impone una interpretazione rigorosa e violenta della shari’a anche lì dove è già in vigore la legge islamica. In Somalia, poi, per motivi storici e geografici, è
frica, lo ricordiamo, vengono alcuni dei terroristi attivi non solo in Africa ma anche in Europa. Nell’area, poi, c’è anche il Sudan, spesso sul banco degli imputati per il suo integralismo, e dove - se è stato raggiunto un accordo con il Sud cristiano - è sempre in corso la crisi del Darfur dove tutti i contendenti sono musulmani.
Dalla Nigeria alla Somalia quindi si deve registrare un aumento di pericolosità dell’islam estremista e una sua spinta a
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La Costituzione del Paese è laica, ma già dodici Stati hanno imposto la Shari’a
È l’Iran il modello degli islamisti nigeriani di Justo Lacunza Balda li attacchi organizzati dal movimento islamista Boko Haram (“Proibita l’educazione”) negli Stati di Bauchi, Borno, Kano eYobe nel Nord della Nigeria, hanno ormai fatto centinaia di morti. Migliaia di persone terrorizzate sono in fuga dopo avere abbandonato i loro villaggi per la furia bestiale dei miliziani. Non è la prima volta che Boko Haram, di ispirazione wahhabita, semina odio, terrore e morte fra i civili inermi. Furono 700 i morti nel novembre 2008 e almeno 150 nel febbraio scorso negli scontri tra cristiani e musulmani. Allora furono date alle fiamme chiese e moschee, lasciando divisioni profonde fra cristiani e musulmani negli Stati nigeriani dove viene applicata la legge islamica (shari’a) dal 2000. Bisogna ricordare, però, che l’islamizzazione nel Nord della Nigeria non si è mai fermata da quando nell’800 i jihadisti fulani, sotto la guida di Usman dan Fodio fondatore del Califato di Sokoto nel 1809, si lanciarono alla conquista dei vasti territori dell’Africa occidentale per imporre l’Islam con la forza e assoggettare le popolazioni con le armi.
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messi per la costruzione delle case dei cristiani, dei luoghi di culto e delle scuole gestite dalle chiese cristiane. Questi sono gli strumenti per sradicare la presenza dei cristiani che, a questo punto, non hanno altra scelta che l’emigrazione verso le regioni meno intoleranti del Paese o verso l’estero. Ma anche questo esodo diventa un’impresa ardua e difficile, per non dire quasi impossibile. In Nigeria, malgrado le enormi risorse di gas e petrolio, il 74 per cento della popolazione, su 140 milioni di abitanti, vive sotto la soglia della povertà. Dodici milioni di adolescenti non vanno a scuola e due milioni di bambini sono orfani dell’Aids. Intere popolazioni vivono nel degrado, nella miseria estrema e nella morsa della fame. Nel frattempo cresce una casta che si arricchisce, distribuisce favori a diversi livelli e fa fortuna sulla pelle degli altri con gli strumenti della corruzione generalizzata, della ritorsione senza scrupoli e della criminalità organizzata. In tutto questo i movimenti separatisti come il Mend
(Movement for the Emancipation of the Niger Delta) trovano terreno fertile per lo scambio di concessioni politiche e per imporre alle compagnie petrolifere le condizioni di pagamento per i sequestri di lavoratori. Solo negli ultimi dieci mesi sono state sequestrate più di 700 persone nel Delta del fiume Níger.
Da quando è al potere il presidente Umaru Musa Yar’adua, nel 2007, si ha l’impressione che si siano consolidate le posizioni islamiche contrarie alle leggi civili. I vari gruppi e movimenti impongono i precetti coranici, controllano gli spazi pubblici e influenzano l’educazione a tutti i livelli dello Stato. E il movimento Boko Haram è la punta di lancia che sfida l’educazione secolare in favore dell’educazione coranica. L’importante è mandare al diavolo i testi scolastici di fattura occidentale per imporre i testi islamici. Con programmi basati esclusivamente sull’Islam e con scuole musulmane dove non si insegnano più le materie definite “occidentali”. Tutto ciò può sembrare strano e paradossale in uno Stato come la Nigeria, una delle grandi nazioni dell’Africa. Ma le violenze degli ultimi giorni sono solo una manifestazione di un piano più ambizioso: stabilire nel futuro la Repubblica Islamica della Nigeria sotto la guida di un califfato islamico. E non bisogna dimenticare che per molti dei dirigenti musulmani del Paese il modello è l’Iran. Il sistema iraniano viene considerato uno sviluppo e una formula rafforzata della dottrina wahhabita, anche se i wahhabiti si definiscono sunniti e il governo dell’Iran è fondato su un modello interpretativo dello sciismo. Il leader di Boko Haram, Mohammed Yussuf, ucciso ieri in uno scontro con le truppe regolari, non si era fatto scrupolo di seminare la morte fra i suoi concittadini nel nome dell’Islam. Anzi, i suoi sostenitori hanno distrutto anche moschee del movimento Izala (Jama’t Izalat al-Bid’a walqamat al-Sunna), gruppo conservatore forte di oltre due millioni di sostenitori fondato nel 1978 dallo sceicco Ismaila Idris. I programmi di Izala invitano alla lotta contro ogni innovazione dottrinale e gridano il ritorno alla stretta osservanza della sunna (tradizione) musulmana.
Una doppia strategia: persecuzione violenta dei cristiani (metà della popolazione) e penetrazione nelle amministrazioni locali per prendere il potere
Sopra, miliziani armati delle Corti islamiche somale. A destra, il presidente della Nigeria Umaru Musa Yar’adua espandersi verso Sud. Ma anche a Nord la situazione desta qualche preoccupazione. Esiste infatti un legame tra le due aree tanto diverse dell’Africa. L’area del Sahel è da tempo diventata un importante luogo di rifugio e addestramento dei gruppi legati ad al-Qaeda. In particolare va ricordata l’attività dell’ormai nota Al-Qaeda nel Maghreb Islamico, organizzazione terroristica salafita nata dall’algerino Gruppo per la predicazione e il combattimento ma che ha l’obiettivo di fondere sotto il simbolo di al-Qaeda gli analoghi gruppi dei Paesi vicini: Tunisia, Marocco e Libia, ma anche Mauritania e Mali, due Paesi dove le tensioni hanno radicalizzato e armato alcuni gruppi islamici. Al-Qaeda nel Maghreb Islamico è un’organizzazione direttamente legata ai vertici afghano-pakistani del gruppo terroristico in grado di tenere sotto costante pressione il Nord Africa da dove minaccia la stessa Europa. Ma non vanno sottovalutati i suoi rapporti con gruppi islamisti dell’area sub sahariana. In questo modo il pericolo si salda e si moltiplica.
Il passato glorioso del jihad conquistatore è imitato dai nuovi movimenti islamisti, come Ansar al-Islam, al-Shabab e al-Qa’eda. In Nigeria e in altri Paesi africani come la Somalia, il Sudan, il Niger, il Kenya, il Gabon, l’Etiopia, la Tanzania e l’Uganda la finalità principale è sempre la stessa: porre fine alla democrazia occidentale, controllare l’educazione, prendere il potere politico e instaurare un governo islamico. In particolare in Nigeria prosegue l’islamizzazione forzata delle istituzioni amministrative anche se la Costituzione della Repubblica federale è fondata su un ordinamento giuridico civile. Tuttavia, le autorità di 12 Stati del Nord (Bauchi, Borno, Gombe, Jigawa, Kaduna, Kano, Katsina, Kebbi, Níger, Sokoto,Yobe e Zamfara), hanno imposto la legislazione islamica e hanno adottato la shari’a senza l’opposizione dello Stato federale. Questo è stato il passo fondamentale per rilanciare il processo d’islamizzazione del Paese dove la metà della popolazione è di religione cristiana. Le voci degli oppositori all’imposizione della shari’a negli Stati del Nord non si sentono quasi più. Perché le autorità locali hanno nelle loro mani la chiave per la concessione dei per-
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segue dalla prima
segno esattamente contrario a quelle di due secoli fa. Non occorre convocare Ernesto De Martino (Mondo Magico, 1948; Sud e Magia, 1953; La fine del mondo: contributo all’analisi delle apolassi culturali 1977), con la sua vicenda del «Campanile di Marcellinara», oppure Porta,Verga, De Filippo, Gadda, Camilleri e tantissimi altri per riconoscerlo. Invece, nulla. Si continua come se niente fosse accaduto sul vecchio stile tra retorica unitaria e deprecazioni localistiche.
Vale a dire l’arresto della discussione in commissione alla Camera del disegno di legge Aprea sul reclutamento e sulla carriera dei docenti.
Il primo insegnamento generale lo ricavo dall’esperienza personale. La mia lingua madre è stata il dialetto. La pecora era la «pera», l’imbuto il «turtaröl», la mela il «pomm», l’ape la «àa» ecc. In prima elementare non c’era un compagno italofono. In classe però, ben appesi al muro, c’erano i cartelloni dell’alfabetiere: «p» di pecora, «i» di imbuto, «m» di mela, «a» di ape e così via. Ricordo ancora oggi le cantilene che ci faceva fare in coro la maestra. Fino almeno a Natale suonavano così: lei dava il via, «bambini, forza, ripetiamo insieme: “p” di .. » e noi rispondevamo in coro «”p”di pera». La cosa funzionava: pecora e pera suonavano con la stessa consonante; che la maestra pensasse poi che preferivamo le «pere» alle pecore era, ai fini fonetici, irrilevante. Con qualche problema in più, la cosa funzionava pure con «A» di… «àa». Quando, però, c’era la «i» o la «m» o altre consonanti l’accordo saltava: per tutti noi la «i» era di «turtaröl», la «m» di «pomm», la «t» non di tacchino, ma di «pulì» e così via. Non eravamo bambini scemi. Anche noi dialettofoni, con le buone o con le cattive, abbiamo imparato l’italiano. E poi altre lingue straniere. Ma avrebbe fatto male alla mia maestra di prima elementare, e alla cultura comune di ogni insegnante, qualche sistematica consapevolezza linguistica e glottodidattica per insegnare l’italiano e in italiano a chi parlava dialetto? Oggi potremmo dire per insegnare l’italiano e, soprattutto, in italiano a chi è di altra lingua madre (abbiamo oltre 600 mila stranieri nelle nostre classi!) e per i quali la semplice, abusata parola «pane» richiama, per ingredienti, tipo di cereale, diversità di forme e di modalità di cottura e, non di meno, per significati culturali e religiosi realtà tra loro non solo diverse, ma spesso incompatibili? Ma anche, e forse viste le scelte linguistiche delle varie fiction e delle tv commerciali, per insegnare, in italiano, in maniera critica e riflessiva l’italiano a chi parla solo l’italiano romanesco o, qualche volta, napoletano o siciliano? E ancora di più: si può insegnare l’inglese o qualsiasi altra lingua straniera in maniera davvero formativa senza una forte padronanza didattica dei problemi fonologici, semantici, sintattici e storicoculturali delle lingue madri dei diversi parlanti? Il secondo insegnamento generale che si
L’insegnamento particolare
Polemiche. No a una riforma che separa formazione e insegnamento
Quale scuola per l’Italia unita? di Giuseppe Bertagna può ricavare dalla vicenda vale per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Nel 1861, l’Italia risolse il problema delle comunità locali e del loro ruolo nella crescita della nazione con la rigida adozione del modello cen-
pensate, allora, dall’1,5% della classe dirigente del paese per il rimanente 98,5% della popolazione è stato, però, nel tempo, da un lato, il taglio delle radici identitarie di tutti, con la costruzione di identità nazionali
Il nostro è l’unico Paese al mondo nel quale, per iscriversi alle graduatorie per diventare professori, servono, oggi, 20 anni di «preparazione» tralistico napoleonico francese. I prefetti al centro di tutto.
Risolse, inoltre, il problema della lingua per superare il ricchissimo mosaico di dialetti locali che cambiavano perfino a due tre chilometri di distanza con l’adozione di una tenace e capillare azione persecutoria nei confronti di ogni forma di espressione dialettale. Il risultato di queste buone intenzioni
fittizie (o, oggi, televisive che è poi la stessa cosa) oppure di identità nazionali elitarie; dall’altro lato, la distruzione non adeguatamente tematizzata di contenuti sapienziali depositati da secoli e secoli di esperienze umane nelle lingue materne di ogni italiano. Le celebrazioni per il 150° anniversario dell’unità avrebbero dovuto essere l’occasione per mettere a punto due sistematiche strategie di
Il ministro Mariastella Gelmini ha contraddetto l’impostazione dell’ex ministro Moratti. In alto, un disegno di Michelangelo Pace
che si può ricavare dalla vicenda riguarda, infine, la scelta politica operata dal governo, a inizio legislatura, di separare ciò che nel quinquennio Moratti era, invece, stato tenuto ben unito: la riforma dei contenuti della formazione iniziale dei docenti (regolamento Gelmini in via di emanazione) e la riforma dei modi di reclutamento dei docenti e della loro finalmente riconosciuta progressione di carriera (disegno di legge Aprea, in discussione alla Camera, fermato dall’iniziativa leghista). L’Italia è l’unico paese al mondo (proprio l’unico!) nel quale, per iscriversi alle graduatorie per diventare insegnanti, servono, oggi, 20 anni di «scuola» (13 preuniversitari, 5 universitari e 2 di scuole di specializzazione) e, domani, con il regolamento Gelmini 19 (13 preuniversitari, 5 universitari e 1 anno di formazione post universitaria).
Ebbene se dopo 20 (o dopo 19 anni) di formazione c’è ancora bisogno di pensare che, prima di ammettere un docente all’iscrizione degli albi regionali dai quali le scuole le scuole avrebbero potuto, in futuro, secondo il disegno di legge Aprea, reclutare, con appositi concorsi selettivi locali, i propri docenti, serva sostanzialmente un esame, per di più di natura quizzistica, sulle due materie degli insegnamenti generali prima richiamati, vuol dire che delle due seguenti è vera l’una: o i 20 (o i 19) anni di formazione per diventare docenti sono praticamente inutili perché non garantiscono in alcun modo ai docenti ciò che dovrebbero ben padroneggiare per poter insegnare bene (allora perché non accorciare questo percorso, spendendo anche meno e risolvendo i problemi di Tremonti!); oppure la politica ha sbagliato a separare ciò che doveva restare unito. E in effetti, se si va a vedere la formazione universitaria dei docenti disegnata nel regolamento Gelmini troviamo di tutto, ma niente che assomigli alla affidabile soddisfazione delle esigenze professionali prima segnalate. Naturale, allora, dare anche risposte sbagliate a domande giuste.
cultura
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Tra gli scaffali. Un accurato (e immancabile) manuale sulla cittadina “radical-vip”, scritto da Giovanna Nuvoletti per Fazi Editore
La Capalbio... da bere di Dianora Citi
uanti sono in Italia i luoghi di vacanza considerati “vip” “chic” e “radical” che possono vantare di essere ininterrottamente e “universalmente” sulla cresta dell’onda da più di due decenni? Pochi, direi, rispetto alle attrattive italiane. Anzi, si possono contare sulle dita delle mani. Cortina, Forte dei Marmi, Capri, Ponza, Portofino, la Costa Smeralda, e... quale ancora? Ma certo, Capalbio!
Q
Sembra facile dire Capalbio: ma quale, dove? Capalbio alta? Capalbio Scalo? Le frazioni come Pescia Fiorentina, Borgo Carige, Chiarone o le “tenute” rurali come quella di proprietà della Sacra (molti forse ignorano che è un acronimo e sta per Società Anonima Capalbio Redenta Agricola) sono tutte “Capalbio”? Ebbene sì. Per sapere “tutto quanto avete voluto conoscere su Capalbio e nessuno vi ha mai raccontato”, o si fa parte di quella ristretta cerchia di capalbiotti e capalbiesi, quelli veri e doc, nativi e, se non nativi, in grado di dimostrare una discendenza almeno più che ventennale da quelle radici, o si legge la storia romanzata di Libera, «tredicenne nel 1977», figlia di una ricca e rampante signora milanese, scritta da Giovanna Nuvoletti (L’era del cinghiale rosso, Fazi Editore 2009). Da non sottovalutare la prefazione dell’autrice: «Libera, la sua famiglia, la maggior parte dei suoi amici più intimi sono puramente di fantasia. E invece tutti gli altri personaggi sono veri. La maggior parte di loro mi hanno affettuosamente aiutata con lo loro memorie». Azzardiamo malignamente un’ipotesi: forse nessuno è creatura di pura fantasia, magari rimanda ad una piccola ispirazione a persone vere. Il gioco delle identità, velate e svelate, non è poi così difficile. I personaggi della “meglio sinistra” ci sono tutti, con nome e cognome fin dall’inizio: “sulla pista” Alberto Asor Rosa («Ah, dice Libera, lei è il palindromo…») e la «bellissima e comunistissima» Luciana Castellina; alla tavolata del ristorante-mensa “da Maria” il filosofo Giacomo Marramao e la moglie Gabriella Bonacchi, lo storico della fisica Sandro Petruccioli, nonché Paola Comenicini e l’architetto Sergio Petruccioli (romantico il racconto di prima mano di come un giorno, sulla spiaggia di Macchiatonda, scoppiò il «classico coup de
foudre» tra i due bellissimi); in qualche casa «esclusiva» Giosetta Fioroni e Lucia Campione (con il suo Borrelli o sola?); sulla battigia al tramonto il «benestante» Fabio Mauri, «un augusto signore con un enorme cappello bianco, insieme ad una bellissima bionda»: è la sua ultima ex moglie, Elisabetta Catalano, la «famosa ritrattista culturale, i più begli occhi azzurri di Capalbio».
E come dimenticare il giovane Achille Occhetto e la sua bruna Aureliana, «una bolognese che sembrava spagno-
la» (storico lo scandalo scoppiato con quel “Venerdì” di Repubblica che immortalava gli espliciti baci tra i due); il passaggio per un’estate di Toni Negri ospite della figlia di Ettore Gallo («chi, il giudice costituzionale?». Sì, ma l’ospitalità della ragazza fece storcere non poco il naso al padre!); o i due frikkettoni innamorati e allegri, sognanti e sempre abbracciati di Fabiola Banzi, futura casting director, e il produttore Dario De Luca (che se ne andavano per la spiaggia “libera”)? Che dire del giovane Rutelli «allora verde», «dagli occhini smeraldini, tutto per la sua Palombelli dotata di fisico da pin up e viso da bambola»? C’è chi resta e chi passa per la-
Il libro “L’era del cinghiale rosso” mette insieme tutti i personaggi della “meglio sinistra”. Da Asor Rosa a Marramao, da Toni Negri a Francesco Rutelli sciare l’apparizione della sua bellezza, come Greta Scacchi, o del suo «dinamismo irrefrenabile», come Valerio Veltroni. Le new entry «spuntano come funghi» e «ci alzano il target»: la «gente di cinema, di spettacolo, moderni e dinamici, upto-date», come il comico David Riondino, o il gruppo dei “giornalisti” che abbandona Sabaudia (Giovannino Russo, Pino Buongiorno, Claudio Rinaldi, Bruno Manfellotto), fino a Pier Luigi Celli,“intorno al quale si era radunato un folto gruppo di intellettuali, manager, politici, tutti rigorosamente di sinistra”.
In alto, una veduta di Capalbio. Qui sopra, Giovanna Nuvoletti e la copertina del suo libro dedicato alla cittadina toscana “L’era del cinghiale rosso” (Fazi Editore)
Alcuni costruiscono ville “dogali” come il chiacchieratissimo Walter Armanini e la sua fidanzata Demetra Hampton: il loro «improbabile Palazzo Pitti» fu acquistato successivamente da Angelo Rizzoli e signora, che lo decorarono
«con graziosi “tromp-l’oeil”». Altri, come i Fabiani (terribile il correttore automatico dei giornali, li trasforma sempre in Fagiani!) possiedono una vera casa “capalbiese”, mentre la “dacia” di Occhetto passa di mano agli Augias e poi a Paolo Baratta. Alberto Sironi (più indicativo definirlo come il regista del Commissario Montalbano?) nel lontano ’84 affitta l’ultimo casale della Sacra, allora isolato, poi “parcheggio” per l’ingresso all’Ultima Spiaggia. All’inizio, infatti, il mare era solo Macchiatonda, «erano tutti lì, in gruppetti di ben curata semplicità»: Lidia Ravera, «non aveva le ali» e «sembrava una sveglia intellettuale di sinistra, e basta»; Angela e Filippo Passigli, «gli editori fiorentini e i loro pestiferi bambini»; Enrico Carone, i Cattaneo. Poi, un giorno, «un gruppo di giovani svegli e attraenti che si erano rimboccati le maniche e avevano improvvisato una bella capanna di legno tra la duna e il mare», Riccardo il moro, «bono da morire», Adalberto «il lungo», Valerio «dagli occhi verdi» e il biondissimo Marcello aprono il nuovo stabilimento balneare al Chiarore, l’Ultima Spiaggia.
I divertimenti e gli svaghi di questi “radical” possono far sorridere oggigiorno ma quanta soddisfazione vivere la battaglia a bucce d’anguria tra un Petruccioli e il mai abbastanza compianto Gigi Spezzaferro o quella a torte in faccia tra la Nuvoletti (da ricordarsi: non additatela come parente degli Agnelli!) e la moglie di Philippe Daverio alla «festa dove c’era tutta Capalbio, quella vera, non quella estiva». Il mondo cambia ma a Capalbio si continua a parlare di chi c’è e chi non c’è: «Hai visto Martelli? Dicono che sia passato!». Il racconto di Libera/Giovanna si snoda in un atto d’amore incondizionato fino al 2009. La Maremma, ventosa, e la piccola Atene/Capalbio restano sullo sfondo, purtuttavia come luoghi con un’anima speciale, soggetti di un incantesimo che, se analizzato, diventa inspiegabile: il «buen ritiro», come disse Marramao, era nato come «aggregazione spontanea di gente che fuggiva dal blablabla romano e non aveva paura di stare senza luce e senza telefono». E Libera, nel 2009, incalza: «A Capalbio non c’è ancora porticciolo, né lungomare, né boutique esclusive, né miliardari comunisti».
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dal “China Daily” del 31/07/2009
Pechino ammette: troppi aborti di Shan Juan e statistiche aggiornate sugli aborti in Cina sono causa di preoccupazione. E sottolineano come la mancanza di educazione sessuale nel Paese sia la causa maggiore dei tredici milioni di interruzioni di gravidanza che avvengono qui ogni anno. Gli esperti sottolineano che questa è una situazione sfortunata ma evitabile. E aggiungono che è necessario un miglioramento nel campo. LiYing, professore all’Università di Pechino, sostiene da tempo che i giovani hanno bisogno di più conoscenze nel campo del sesso. Un sondaggio effettuato dall’Ospedale 411 dell’Esercito di liberazione popolare a Shanghai, ad esempio, dimostra che di coloro che chiamano alle linee telefoniche gratuite offerte dalla struttura sanitaria soltanto il 30 per cento conosce i metodi per prevenire le gravidanze; un misero 17 per cento è a conoscenza dell’esistenza delle malattie veneree. Un mostruoso 70 per cento non sa, inoltre, che è tramite un rapporto sessuale che molto spesso si può contrarre l’aids. Secondo Li il problema è nell’educazione dei giovani: molti genitori sono riluttanti a spiegare ai loro bambini le questioni che riguardano la sfera sessuale. Quindi è necessario un intervento di tipo diverso. L’educazione nel sesso «deve essere portata in Cina: le nostre università e la nostra società devono dare le linee guida per preservare altri danni». Wu Shangchun, direttore di divisione del Centro di ricerca tecnologico della Commissione nazionale per la popolazione e la pianificazione familiare, spiega che le ricerche dimostrano «che la metà circa delle donne che hanno abortito non conoscono la contraccezione. La sfida è quella di ridurre il numero degli aborti nel Paese».Yu Dongyan, ginecologo ospedaliero, sostiene che siano i cambiamenti so-
L
ciali ad aver influito sulle statistiche: «Il sesso non è più considerato un tabù dai giovani d’oggi. Credono inoltre di poter imparare tutto quello che serve da internet. È inutile dire che questo modo di pensare è dannoso: non hanno mai sviluppato una vera comprensione di quello che accade, o un modo per gestire gli avvenimenti legati al sesso». Secondo le statistiche del governo, il 62 per cento delle donne che abortiscono è compreso fra i 20 e i 29 anni di età. Quasi tutte sono single. Wu sottolinea che «il numero reale degli aborti è molto, molto più alto. I dati ufficiali sono infatti relativi alle sole strutture mediche registrate, mentre la maggior parte delle interruzioni di gravidanza viene praticata presso cliniche abusive o illegali». Inoltre, aggiunge, «bisogna considerare le pillole che inducono l’aborto, che si vendono in ospedale. Lo scorso anno ne sono state comprate dieci milioni».
La linea telefonica d’aiuto di Shanghai, che offre sostegno alle donne incinta, ha ricevuto un aumento sostanzioso di contatti: per la maggior parte, ricevuto da donne sotto i 18 anni. I dati dell’ospedale 411 dimostrano che le chiamate sono divenute circa 30 al giorno, contro le dieci dei mesi precedenti.Yu afferma: «La maggior parte di loro vuole sapere cosa fare una volta rimaste incinta, oppure come abortire». Per Wu, le informazioni relative al controllo delle nascite sono dirette per la maggior parte alle giovani coppie sposate. La pillola del giorno dopo, che può essere usata 120 ore dopo un
rapporto a rischio, è divenuta dal 1998 uno dei contraccettivi più usati. Ma, sottolinea il medico, «nonostante venga molto venduta nessuno conosce bene gli effetti di un uso scorretto». Sun Xiaohong, del centro educativo della Commissione per la pianificazione familiare di Shanghai, dice: «È difficile promuovere l’educazione sessuale nelle scuole, perché genitori e insegnanti pensano che così si incoraggia i ragazzi a fare sesso». Sun Aijun, che guida un team di ginecologi all’Ospedale dell’unione di Pechino, aggiunge: «Non sanno neanche che esistano delle controindicazione ai farmaci abortivi». Sun spiega che molte coppie scelgono il preservativo come metodo contraccettivo, ma che questo molto spesso non viene usato per questioni legate alla tradizione interna del Paese: inoltre, i maschi chiedono sempre di non usarlo. In Cina un aborto costa circa 70 euro. Dal 1999, i dottori non chiedono più alle donne quale sia il loro status – se sposate o single – prima di praticare l’aborto.
L’IMMAGINE
“Nessuno tocchi Caino” deve essere preceduto da “Nessuno tocchi Abele” Nel Belpaese la giustizia rischia d’essere mutilata. Chi sbaglia non paga adeguatamente. Il criminale può essere tutelato più della vittima. L’imperativo “Nessuno tocchi Caino”deve essere preceduto da “Nessuno tocchi Abele”. L’incidenza relativa di reati commessi da italiani è nettamente superata da quella di stranieri, specie clandestini. I sequestratori della ventiduenne Martina Guarnera si giustificarono con la loro vittima: «In Romania facciamo la fame. In Italia, se ci va bene facciamo i soldi; se ci va male, in carcere ci danno da mangiare». Una politica di buonismo, perdonismo e solidarismo interessato ha favorito indirettamente un’invasione di clandestini e un incremento di reati. Prevalgono la correttezza politica e la carità pelosa esterofila. Il giudizio di potenti e conformisti è sbilanciato, perché aggrava di “razzismo” il reato d’italiani contro stranieri, ma non il delitto inverso.
Davide Como
L’ESEMPIO DI SOBRIETÀ PROVIENE SPESSO DAL BASSO “Politica vuol dire realizzare”, ad es. l’agognato Passante di Mestre. Al contrario, la partitocrazia deteriore rischia di decadere a greppia, mangiatoia e grande abbuffata. Sobrietà e saggezza provengono spesso dagli umili e dai semplici. Fra questi, i contadini, malgrado il loro lavoro duro, pericoloso ed eminentemente produttivo. Conti colturali del mais da granella in alcune aziende della pianura padana per il 2008 (e previsti per il 2009) evidenziano risultati economici magrissimi. Considerando anche il sostegno comunitario, il reddito gestionale positivo è quasi nullo. Nei poderi privi d’irrigazione, il risultato diventa peggiore e più aleatorio, per
eventuale siccità. Una contadina e commerciante trentasettenne con marito, figlio, nuora e altri due collaboratori - alleva 90 vacche e 60 capre; inoltre, gestisce una malga, un caseificio con spaccio e un negozio in paese (di formaggio, salumi e carni).Tanta fatica e responsabilità ottengono un profitto, non eccedente la norma. Tale imprenditrice afferma: «Le vacanze non so cosa siano. Sono vent’anni che non ne faccio». Con questa esemplare dedizione al lavoro stridono i privilegi d’assenteisti e beneficiari di lunghi periodi annui di vacanza.Tali eccessive pause andrebbero ridotte ed equiparate alla durata delle ferie d’operai (alcuni dei quali soggetti a lavorazioni pericolose e usuranti). Si avrebbe una pubblica ammini-
Tronco con gli cchiali La natura è una gran mattacchiona. Guardate cosa si sono divertite a creare, nei secoli, le raffiche di vento che soffiano sul Parco Nazionale del Great Basin, in Nevada. Un paio di ”occhiali” in verticale scolpiti nel tronco di un pino Bristlecone (Pinus longaeva). Questa varietà di conifere continua a sorprendere i botanici non solo perché è longeva ma anche per la sua capacità di conservazione
strazione più rapida ed efficiente. Non sono più accettabili, in particolare, la lentezza giudiziaria, le attese per accertamenti medici specialistici e le lungaggini procedurali d’esproprio (che durano fino a quasi 10 anni). Alle pubbliche disfunzioni s’aggiungono talora agitazioni e perfino sorprendenti scioperi di alti papaveri pubblici. Si posso-
no provare pena e disgusto nel vedere il barone, in agitazione antigovernativa, impartire lezione nella pubblica piazza, per esibizione e comparsa sul quarto potere massmediatico. Il vero studioso vive francescanamente e snobba il vile denaro: “carmina non dant panem”; le poesie non procurano il pane. Un distinto e indimenticabile professore li-
ceale riteneva lo sciopero un’arma estrema a difesa di poveri operai; ma non utilizzabile dal docente, che è educatore e beneficia di lavoro gratificante, autonomia e tempo libero. Che stile, sobrietà, serenità, signorilità e classe! Virtù quasi eclissate dalla diffusione di violenza, insaziabilità, inciviltà e sguaiataggine.
Gaia Stefani
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Un breve grido d’aiuto Millietje, ecco un breve grido d’aiuto. Avevo cominciato una lettera per te e per Mien, ma qui una lettera diventa già inattuale mentre si scrive. Oggi per la prima volta ho avuto un breve cedimento e sono svenuta nel mezzo di una grande baracca. Sono stati di nuovo giorni pesanti. Stamattina è partito un altro convoglio di 2500 deportati e ho faticato a tenere i miei genitori fuori dal treno, è una gran disperazione. E stamattina i miei buoni, e cosiddetti influenti amici di qui mi hanno confidato che i miei genitori si devono preparare a partire la prossima settimana; pian piano ma indubitabilmente, il campo si svuota. Così tutto si acutizza. Senza un miracolo dall’esterno la nostra sarà una causa persa tra una settimana o due. Se solo potessimo allontanare Mischa, che vuole a tutti i costi seguire i suoi genitori, andando incontro a una morte certa. Non ci avevano detto che Mischa avrebbe comunque potuto andare a Barneveld da solo? E potrebbe ancora ricevere l’ordine di andarci, senza i suoi genitori? Ma non credo che accetterebbe. Mischa dice sempre: «Se loro partono è la mia fine». Detto fra noi, è un vero calvario. La cosa più disperante è che si può fare molto meno di quanto i nostri cari si aspettino da noi. Etty Hillesum a Milli Ortmann
ACCADDE OGGI
INEFFICIENZA E CRISI DELL’ASSISTENZIALISMO PUBBLICO Lo Stato sociale tende a degenerare nello Stato assistenziale: redistributore di redditi, regolamentatore di rapporti sociali, gestore di servizi, imprenditore e finanziere. Cresce a dismisura l’apparato pubblico, parapubblico e misto. Nascono fungaie di società municipalizzate e miste, con amministratori pletorici e lottizzati dalla partitocrazia. Si sviluppa un sottogoverno elefantiaco, talora vorace, dilapidatore e irresponsabile. Lo statalismo vuole assistere i sudditi “dalla culla alla bara”, mediante esosità fiscale, sperpero, finanza allegra, spesa in disavanzo, debito pubblico e inflazione. Nel 1926 John Maynard Keynes scriveva al ministro francese delle finanze sull’opportunità di limitare le spese pubbliche a meno d’un quarto del reddito nazionale Nei tempi nostri, il dispendio pubblico ha superato enormemente tale limite. Lo statalismo assistenziale ha sprecato e spreca, ai fini del consenso partitico: valgano gli esempi delle baby pensioni, dei vitalizi senza versamenti contributivi e dell’accesso alle prestazioni sanitarie. L’economista statunitense Arthur Okun paragona l’inefficienza del welfare a un secchio bucato, che – durante il trasporto della ricchezza dal ricco al povero – ne perde una parte, per cui al misero va solo il resto. Riduzioni, dispersioni ed eventuali ammanchi derivano da: burocratismo, inefficienza collettivista, intermediazione partitica, ricatto clientelare e possibili appropriazioni indebite.
Giancarlo Pavan
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)
1 agosto 1926 Nasce l’Associazione Calcio Napoli 1927 Formazione dell’Esercito di Liberazione Popolare 1931 A Genova viene varato il Transatlantico Rex, l’unica nave italiana a vincere il Nastro Azzurro 1936 Si apre l’XI Olimpiade di Berlino 1941 Viene prodotta la prima Jeep 1943 La motosilurante PT109, comandata dal tenente John F. Kennedy, affonda 1944 Anna Frank scrive l’ultimo brano del suo Diario 1946 Nasce la Sampdoria. 1965 La principessa Beatrice d’Olanda annuncia il suo fidanzamento con Claus von Amsberg 1967 Israele si annette Gerusalemme Est 1971 Il concerto per il Bangladesh organizzato a New York da George Harrison, vede l’esibizione, tra gli altri, di Bob Dylan, Eric Clapton, Ringo Starr e Leon Russell 1981 Prima trasmissione di MTV. Il primo video mandato in onda è Video Killed the Radio Star
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
GLOBALIZZAZIONE PREVENTIVA In questo “Nuovo mondo, Nuovo capitalismo” del XXI secolo, come indicava il tema del convegno al quale ha partecipato con Tony Blair, Angela Merkel e Giulio Tremonti, secondo Nicolas Sarkozy: «Non è più un solo Paese che può dire quello che va fatto o pensato». Ogni volta che un governo ha tentato di risolvere una grave criticità della propria nazione da solo non ha fatto altro che globalizzare la crisi, anzichè globalizzarne la prevenzione. Basti pensare alle autocrazie africane di Zimbawbe e Sudan o a quelle asiatiche di Nord Corea e Myanmar. Si pensi alla disastrosa gestione comunista cinese della Sars, all’insufficienza del piano Paulson, cui sembrano fare seguito: da parte di Obama una fuga dalla real-politik economico/energetica attuale verso fonti energetiche e piani occupazionali eco-utopici e da parte di Putin la rinuncia a un tavolo comune europeo dell’energia e degli investimenti per abbracciare le aleatorie aspirazioni monopolistiche sull’energia da sempre appannaggio dell’Opec. L’Ue pone, invece, l’urgenza di ridisegnare le istituzioni internazionali coinvolgendo Brasile e India nei ruoli direttivi e premiando le democrazie meno ricche con investimenti infrastrutturali concordati e finanziati multilateralmente. I governi eletti israeliano e palestinese coinvolgano immediatamente la Nato e Tony Blair! Finché si sono illusi di poter neutralizzare Hamas e Hezbollah da soli sia Israele sia Al Fatah hanno perso sempre più vite umane e credibilità.
TANTI SUCCESSI PER UN GRANDE FALLIMENTO Sembra essere questo, oggi più di ieri, l’epilogo di una storia che in molti avevano già previsto. Una storia che ha saputo mettere insieme forze e sensibilità diverse per farle marciare unite ed allineate, al cospetto del suo leader, verso il fallimento politico istituzionale. L’iceberg su cui la Lega Nord ha piantato la sua bandierina nel mare Magnum del Pdl sta per affondare il Titanic berlusconiano, ancora una volta mentre l’orchestra continua a suonare. L’uomo della tv manda in onda questa volta lo spettacolo dello scontro tra il Nord e il Sud del Paese, recuperando un remake dato oramai per archiviato. I personaggi, tutti burattini del teatro di Berlusconi, cercano di dare anima e corpo ad una sensibilità realmente esistente nel Mezzogiorno d’Italia ma che non può essere da loro né raccolta né rappresentata. Premesso che è a tutti evidente che ancora una volta il grande burattinaio è il premier Silvio Berluusconi, questa volta la partita punta al divide et impera, creando di fatto su una questione reale, una exit strategy per il suo governo e per il suo corso politico oramai alla fine di un ciclo. Occorre per questo nel modo più rapido possibile creare un partito di unità nazionale, un partito che sia legittimato a rappresentare in Parlamento e nelle istituzioni, politicamente e geograficamente, tutte le aree e le problematiche connesse da nord a sud. Esiste una questione nazionale che contiene quella settentrionale, quella meridionale e, se vogliamo, anche quella centrale. Queste questioni non possono essere né produrre altrettanti partiti politici, altrimenti saremmo non solo allo sbando ma all’inizio di una nuova e moderna guerra civile tra le varie macro regioni della nostra Italia. Ed ecco che allora, va da sé che l’intuizione di Pier Ferdinando Casini e del suo Partito della Nazione come unico grande soggetto politico in grado di tenere insieme l’Italia, il valore della libertà e della democrazia, appare l’unica prospettiva e la sola strada percorribile. Vincenzo Inverso S E G R E T A R I O OR G A N I Z Z A T I V O CI R C O L I LI B E R A L
APPUNTAMENTI SETTEMBRE 2009 LUNEDÌ 7, ROMA, ORE 11 HOTEL AMBASCIATORI - VIA VENETO Riunione straordinaria del Consiglio Nazionale dei Circoli liberal. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
Matteo Maria Martinoli
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
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PAGINAVENTIQUATTRO
Sfide. L’estrema destra propone di ricostruire il vecchio Tempio, di cui oggi rimane solo il Muro del Pianto
Se Israele riscopre di Antonio Picasso econdo un sondaggio incrociato della Ge- nalismo religioso. Il fenomeno non è nuovo. Il petuti, soprattutto nella vita quotidiana. A fine sher Organization e del quotidiano Ye- fatto che la componente ultraortodossa sia assu- febbraio, era circolata la notizia dell’istituzione dioth Ahronot, il 65 per cento degli israe- mendo progressivamente un’influenza senza a Gerusalemme di alcune linee di autobus che liani sarebbe favorevole a ricostruire il precedenti nel panorama politico nazionale si è prevedevano la divisione tra uomini e donne per tempio di Erode il Grande sulla Spianata delle visto in occasione delle elezioni di febbraio. Il i posti a sedere. La richiesta era stata avanzata Moschee. Si tratta dell’ultima e forse più ecla- Likud di Netanyahu, espressione comunque di e accettata - dalla comunità ortodossa della tante provocazione lanciata in Israele da parte una destra laica, ha dovuto accettare ob torto città. Non possiamo dimenticare poi le difficoltà di due soggetti che spesso si sono impegnati in collo, il sostegno di Ysrael Beitenu, movimento incontrate negli ultimi anni da parte delle forze iniziative simili. La Gesher è un’organizzazione israeliana, con una rappresentanza negli Stati Uniti, fondata negli anni Settanta per raccogliere aiuti finanziari presso le comunità ebraiche di tutto il mondo, ma soprattutto per“rinforzare l’edificazione della società israeliana”, come si legge nel “chi siamo” sul sito della fondazione. Di Yedioth Ahronot, a sua volta, si può parlare come della testata giornalistica che meglio esprime i sentimenti più passionali della destra naArmate israeliane (Idf) in zionalistica. Rendere attuale un discorso finora merito alla forte comporelegato all’archeologia, come quello del Tempio nente di ebrei osservanti fra di Erode, significa voler aprire una polemica pole reclute. Oggi molti dei lolitica di peso in Israele. Della struttura antica ro uomini in armi, ebrei oscostruita fra il 19 aC e il 64 dC - non restano che servanti, chiedono di essere poche tracce. L’intero edificio fu distrutto dopo esentati dalle esercitazioni appena sei anni dalla conclusione, dalle legioni il sabato e tendono a non romane di Tito. Quello che resta è il famoso Musocializzare con la comporo del Pianto, uno dei luoghi di massima sacranente laica o araba. Quella lità per l’ebraismo. Ma il sito è un luogo di preghiera anche per l’islam. La Spianata delle Mo- nazionalista e rappresentante della minoranza di definirsi Stato ebraico a tutti gli effetti è schee, punto esatto dove sorgeva il Tempio di russofona, ma soprattutto dello Shas, il “Partito un’ambizione che Netanyahu non nasconde e Erode, congiunge la Cupola della Roccia con la della Torah”. Nomen omen. Del resto, andando che già nutriva il suo predecessore, Ehud OlMoschea di al-Aqsa. L’idea di riportare alla luce oltre il contesto politico, i casi che ci dimostrano mert. Ma è più un obiettivo strumentale. È vero quest’ultimo, quindi, appare come un’evidente quanto Israele stia cambiando sono più che ri- che l’idea di ricostruire il Tempio a Gerusalemme consiste in una sfida sfida ai palestinesi e a tutto spregiudicata che ha molto il mondo musulmano. Al più valore in termini propatempo stesso, è interessante gandistici rispetto alla sua notare che l’iniziativa poeffettiva realizzazione. Tuttrebbe avere maggiori ritavia, ciò che le istituzioni scontri sul piano interno, non possono sottovalutare anziché nei difficili rapporti e non solo nella gestione di Israele con l’islam. In un Da ieri, Madonna è la nuova editoria- smo, in un periodo estremamente del processo di pace con momento in cui si parla lista di punta del quotidiano israeliano delicato per Israele. Il Paese, infati palestinesi - è che il tanto di voler attribuire al Yedioth Ahronot. La notizia potrebbe ti, sta attraversando una fase di Paese sta cambiando Paesi l’accezione di Stato lasciare sconcertati. In realtà, la can- trasformazione culturale e di identità. Gli ebrei ebraico, il Tempio di Erode tante americana è divenuta celebre cambiamento sociale che lo porortodossi fanno apassume la connotazione di appunto per le sue provocazioni. Va terà a essere sempre più uno Stato pello alla storia anuna retrospettiva storica anche ricordato che, già nel 2004, ave- ebraico. La cantante americana, tica per dimoche non è mai stata dimenva dichiarato di essersi convertita al- anche se dalle lontane coste della strare la proticata. L’epopea del Vecchio l’ebraismo. Nelle sinagoghe è cono- California, ha scelto di farsi coinvolpria forza di Testamento, dei grandi Re sciuta solo con il nome di Esther. Nel- gere in questo fenomeno. In autunfronte all’opidi Giudea e di heretz Israel l’editoriale di apertura di questa sua no saprà accontentare in fan israenione pubbli(la grande Israele) è il punrubrica, si legge di un “risveglio spiri- liani, con un tour di concerti nel Paeca. Le istituzioni to di riferimento per una tuale”, da parte della cantante, grazie se. E non poteva trovare una vetrina potrebbero rilegparte della società civile alla lettura della Cabala e ai suoi im- migliore, se non il quotidiano dei gere le imprese dei israeliana, ispirata a un viperscrutabili segreti. Madonna diven- Moses, influente dinastia di editori Padri fondatori di vo sentimento nazionalisti(a.p.) ta quindi una nuova eroina dell’ebrai- della stampa israeliana. Israele moderna. co e a un profondo tradizio-
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ERODE Della struttura antica - costruita fra il 19 e il 64 dopo Cristo - non restano che poche tracce. L’intero edificio fu distrutto dopo appena sei anni dalla conclusione dalle legioni romane di Tito. Oggi rappresenta una minaccia per la Palestina
Un editoriale sullo “Yedioth” lancia la nuova icona
Gli ortodossi scelgono Madonna