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Gli uomini mentono quando assicurano che hanno orrore del sangue.

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Ivan Bunin di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 20 AGOSTO 2009

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Non bastano le elezioni contro le bombe

PIOMBO SUL VOTO IN AFGHANISTAN

Attacco suicida a Kabul. Razzi sui ministeri a Baghdad: quasi cento morti. Nel giorno più importante per il futuro della democrazia asiatica i terroristi continuano a insanguinare le urne

di Mario Arpino Davvero cambierà qualcosa nel mondo, con le elezioni in Afghanistan? Davvero votare equivale a scegliere la democrazia? Sì, ma solo in un lontano futuro. a pagina 2

Anche a Baghdad aspettano il voto colloquio con Carlo Jean Kabul vota mentre Baghdad brucia: una coincidenza terribile, che sempre di più mette alla prova la fiducia di quella regione nell’Occidente. a pagina 4

Quanto può costare la mano tesa di Obama

Terrore a Oriente

di Daniel Pipes La strategia della Casa Bianca è basata su una menzogna. E la sua attuazione è un pericolo per gli americani, per i loro interessi ed i loro alleati. a pagina 5

alle pagine 2, 3, 4 e 5

La riforma non può più aspettare

Le alleanze secondo Latorre

Contraddizioni di una proposta

«Il bipartitismo muore tra Bossi e Di Pietro»

Gabbie salariali, ecco i segreti del grande bluff

di Riccardo Paradisi

di Mario Seminerio

Il Carroccio attacca Napolitano

l Rapporto istituzionale del Nucleo di valutazione sulla spesa pensionistica (Nvsp) non ha aggiunto nulla di particolarmente nuovo che non fosse già stato reso noto del monitoraggio annuale del Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato sul andamento della spesa pensionistica e sanitaria. In sostanza, la crisi ha radicalmente mutato il quadro macroeconomico preso a riferimento della riforma Dini del 1995.

ostruire un’alternativa di governo credibile, superare l’illusione del Pd come partito a maggioritaria, vocazione inaugurare una politica di alleanze, sostituire all’antiberlusconismo un progetto politico, lavorare per un sistema alla tedesca che limiti i condizionamenti di Lega e Italia dei Valori. Nicola Latorre, vicepresidente dei senatori Pd ed esponente di punta dell’area bersaniana fa con liberal una riflessione a tutto campo sugli scenari della politica italiana messa in vibrazione dalle bordate agostane della Lega su dialetti, tricolore e unità nazionale. Polemiche e contraddizioni che hanno creato imbarazzo nel Pdl ma che saranno destinate a rientrare presto, secondo Latorre, senza la presenza di un’alternativa di governo credibile all’attuale maggioranza.

arà anche vero, lo scrisse Ennio Flaiano, che «in Italia la verità non esiste e la linea più breve tra due punti è l’arabesco», ma sulla questione delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità si sta esagerando. L’unico rimasto a difenderne l’importanza è il capo dello Stato, mentre il resto del mondo politico se ne fotte: chi per distrazione, chi per convenienza, chi perché, abbandonato il secessionismo politico, non rinuncia al secessionismo come stato mentale.

l tormentone dell’estate politica 2009 è quello delle gabbie salariali, altrimenti definite (dal loro inventore, Umberto Bossi) «territorializzazione del reddito». Non che questa precisazione sia di maggiore aiuto a comprendere esattamente di che si tratti, però. I leghisti hanno detto che l’espressione “gabbie salariali”non è corretta, ma sono loro ad averla usata per primi, salvo poi annodarsi in precisazioni assolutamente insoddisfacenti per comprendere quale è l’obiettivo “operativo”. Si è parlato di «rapportare retribuzione e costo della vita al territorio» ignorando che, nel lungo periodo, il tasso di crescita delle retribuzioni reali (cioè al netto dell’inflazione) dipende dalla crescita della produttività, e non da una «scala mobile geografica». Senza contare che esiste un accordo-quadro.

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segue a pagina 7

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La crisi non va in pensione. Il governo lo sa? di Giuliano Cazzola

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I QUADERNI)

• ANNO XIV •

NUMERO

Per la Lega la Patria diventa una spesa inutile di Marco Palombi

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WWW.LIBERAL.IT

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IN REDAZIONE ALLE ORE

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Terrore a Oriente/1. Via alla consultazione: Abdullah, Ghani e Bashardost sfidano Karzai nella corsa alla presidenza

Voti contro bombe

Oggi l’Afghanistan va alle urne. Si teme un forte astensionismo. A rischio l’affluenza delle donne mentre i talebani continuano a colpire di Luisa Arezzo

HERAT. Afghanistan, ora zero. Se tutto andasse come dovrebbe, 15 milioni di afgani oggi dovrebbero andare a votare per scegliere il nuovo presidente e i governatori provinciali. Ma questo non è il paese delle certezze e le minacce talebane, associate a larghe fette di territori ancora sotto il loro controllo, fanno temere il peggio. Ovvero un’astensione del 50, 60% della popolazione. L’emorragia più temuta è quella delle donne, l’anello debole della repubblica islamica che ha una pressoché nulla libertà di azione.

Se questo scenario dovesse realizzarsi, sarebbe complicato per chiunque sostenere di essere stato democraticamente eletto. Ma queste sono considerazioni sulle quali ci si concentrerà domani. Oggi l’attenzione è tutta sui possibili attentati che potrebbero esplodere ovunque. Solo a Kabul, i talebani kamikaze sarebbero almeno una ventina: «sono imbotttiti di esplosivo e attendono solo un segnale per entrare in azione» scrive l’agenzia della Pashtani Bank della capitale. Ieri mattina a Kabul, da giorni epicentro della violenza del paese, come una vetrina in bella mostra, sono stati uccisi tre (ma altre fonti locali dicono cinque) inurgents mentre tentavano di rapinare una banca. Tutti i negozi e le attività commer-

Qual è davvero la posta in gioco tra democrazia e fondamentalismo

Ma le elezioni non bastano di Mario Arpino

l fuoco della lente mediatica in questi giorni è polarizzato sulle elezioni in Afghanistan. Sembra non esistere altro, anche se il mondo continua ad andare avanti. Il Medioriente è costante nel suo travaglio, l’Iran di Ahmadinejad procede incurante e il dittatore nord-coreano marcia dritto verso i suoi obiettivi. Ma le elezioni in Afghanistan sono davvero così importanti? Cambierà qualcosa? Sono ancora in molti, nonostante le evidenze in Palestina e in Iran, a confondere le elezioni con la democrazia. Il fatto è che la democrazia è una maturazione culturale, a volte anche un’attitudine mentale più o meno collettiva, mentre le elezioni sono certo uno dei mille ingredienti del processo democratico, ma restano pur sempre una procedura, spesso voluta dall’esterno e malvolentieri applicata dall’Autorità, costretta a mettere in gioco il proprio potere da regole che le sono estranee. Come nel caso afgano.

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Per intenderci, l’Aghanistan non sarà mai uno Stato democratico, almeno come noi occidentali lo intendiamo. Non saranno certo queste elezioni, comunque vadano, a compiere il miracolo. Inizierà però un percorso, lento e faticoso che, pur tra immancabili forzature, retromarce e improvvisi scatti in avanti, potrebbe portare, nell’arco di alcune generazioni, se non a una vera democrazia, almeno a regole di vita più eque e a un maggiore rispetto della persona umana. Ma niente di più, e sarebbe già un grande successo. Si è discusso molto se gli Stati islamici siano congenitamente compatibili con la democrazia. I pareri sono diversi, ma tendenti al pessimismo. Anzi, guardandoci attorno, non ne vediamo alcuno, nemmeno tra i più ricchi e tolleranti. Figuriamoci se sarà proprio l’Afghanistan tribale e integralista a costituire la prima eccezione. Qualcuno fa il paragone con l’Iraq, ma l’unica similitudine che si può fare è questa: quando il popolo comincia ad andare a votare ci prende gusto, e difficilmente in futuro potrà rinunciare. Esprimere in qualche modo la propria opinione diventa con il tempo irrinunciabile, specie per coloro che sono stati oppressi per secoli. Anche in Iraq, come oggi in Afghanistan, gli estremisti hanno all’inizio cercato di ostacolare le elezioni, con prevaricazioni, autobombe, minacce personali e uccisioni. Ma, alla fine, un minimo di razionalità e il crescente desiderio di esprimersi hanno prevalso, e anche i

duri sunniti nell’ultima tornata sono andati a votare. Così, magari non subito, non questa volta, succederà anche in Afghanistan.

Nel frattempo, potrebbero migliorare il livello di istruzione, il sistema di distribuzione dell’informazione, un senso dello Stato unitario che ancora non esiste. Ciò per dire che queste elezioni saranno importanti non tanto per i risultati, quanto perché ci sono state. Lasciando un seme di speranza in chi, anche grazie ai nostri soldati, sarà riuscito a esercitare il proprio diritto, e, in tutti gli altri, il desiderio di poterlo esercitare in futuro. Gli scenari possibili dopo il 20 agosto sono limitati, e nessuno di essi appare soddisfacente ai fini di un saldo impianto democratico. Se Karzai vince, come probabile, avendo in mano tutte le leve del potere, ciò accadrà per i compromessi fatti con i Signori della Guerra, una parte dei Talebani, il riavvicinamento all’uzbeco Dostun, per la popolazione pashtun, per una parte degli shiiti azeri, accattivati dalla recente legge sulla subordinazione delle donne. Nessuno di questi alleati, come si può notare, mostra i segni della più convinta fede democratica. Abdullah Abdullah ha qualche possibilità, ma è tagiko, vicino a quell’Alleanza del Nord che ha sconfitto i Talebani nel 2001, ma anche invisa ai Pashtun, da sempre dominanti, che hanno masticato amaro per questa vittoria. E, senza i Pashtun, l’Afganistan non si governa. La terza ipotesi, che in termini di democrazia si commenta da sé, sarebbe una vittoria dei Talebani, che, pur non partecipando in termini di rappresentanza, potrebbero inficiare gravemente la regolarità del processo elettorale. In ciascuna delle tre ipotesi, come si può intuire, cenerentola è sempre la democrazia.

Il domani passa da Kabul e da Baghdad Ma non tutto dipende da chi uscirà come vero vincitore dalle urne

Si potrebbe allora ritenere che, comunque vadano le elezioni, l’Occidente, con tutti i suoi principi, sia da considerarsi come il vero sconfitto. Allora, dobbiamo ripiegare su obiettivi meno ambiziosi. Con una buona dose di presunzione, siamo andati là con l’impegno di aggredire tutti i mali del mondo – terrorismo, narcotraffico e corruzione – e, nello stesso tempo, introdurre tutto il bene possibile, come la democrazia, un nuovo assetto giuridico, l’istruzione scolastica, la ricostruzione e i diritti civili. Credo che ci dovremo accontentare di aver seminato bene, di continuare a farlo e, sopra tutto, di ottenere che le nuove Istituzioni dimostrino con i fatti la volontà, a tutti i livelli, di prendere decisamente le distanze da al Qaeda.

ciali erano infatti chiusi per le celebrazioni dei novant’anni di indipendenza dai britannici. Poche ore dopo un attentato al mercato della capitale ha causato la morte di due civili.A Herat, da dove scrivo, di prima mattina abbiamo avvertito un esplosione: la polizia afgana aveva trovato tre ordigni davanti alla casa del mullah e ne ha disinnescati due e fatto brillare il terzo. Alcuni militari mi hanno riferito di colpi di kalashnikov sparati in aree periferiche, mentre una bomba carta era stata trovata la sera prima dentro allo stadio della città. Mentre nelle ultime 48 ore sono almeno sei i funzionari elettorali vittime delle milizie talebane in aree punto diverse: dalla provincia meridionale di Badakshan, finora considerata una delle più sicure, a quella meridionale di Kandhar (patria delle coltivazioni da oppio, la numero uno a livello mondiale), alla provincia orientale di Nagarhar. Persone colpevoli di trasportare materiale elettorale ai seggi. Alta tensione, dunque, e la paura che da queste elezioni non esca un nome certo al primo turno. Secondo molti osservatori internazionali, una vittoria al primo turno del presidente uscente Karzai, potrebbe essere tacciata dall’accusa di brogli. Ed effettivamente è opinione condivisa dagli afgani che il ballottaggio potrebbe restituire maggiore credibilità al futuro presidente. Gli unici in gardo di contrastarlo sono Abdullah Abdullah, già ministro degli Esteri, l’uomo che del cambiamento ha fatto il suo slogan elettorale, Ashraf Ghani, ex ministro delle Finanze e Ramzan Bashardost, anche lui un passato da ministro che da quattro anni vive in una tenda davanti al parlamento di Kabul.

La sua lotta contro la corruzione nel paese lo rende molto amato, ma sia nel suo caso che in quello di Ghani, non ci sia aspetta che possa prendere più del 2% dei voti. In ogni caso ci si attendono scontri, impossibile dire quanto accesi, nei giorni immediatamente successivi. Per arginare in parte la possibile escalation di violenza, le elezioni sono state fatte cadere a ridosso dell’avvio del Ramadan, che comincerà la sera del 22 e durerà fino al 20 settembre,anche se le celebrazioni continueranno per altri tre giorni con i festeggiamenti per l’Eid al Fitr e l’Eid e Ramadan. Su una popolazione di circa 33 milioni di persone (ma il numero effettivo è sconosciuto, l’ultimo censimento


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Parla il generale Castellano, comandante dell’Rc-West

«Ecco come i Tornado proteggono il Paese»

è stato fatto dopo la caduta del regime talebano ed è un dato approssimativo) gli elettori sono 15 milioni. Di questi circa l’80% è analfabeta. La commissione elettorale (Iec) ha confermato che i seggi saranno quasi 7mila, ma è impossibile dire quanti saranno effettivamente aperti. Nella zona Rc-West, a controllo italiano, su 1014 seggi almeno una novantina resteranno chiusi perché in aree ad eccessivo rischio di attentati o perché in zone ancora sotto controllo talebano. Sono le zone dove a sventolare non è il tricolore afgano (nero, verde e rosso), ma la bandiera bianca talebana, su cui si legge: «Nel nome di Dio misericordioso, Dio è grande. Non essere triste, Dio è grande. Se il nemico è forte, Dio è più forte.Viva l’emirato afgano. O vita coraggiosa o morte da martire». È questo l’anatema contro cui i civili devono combattere per trovare il coraggio di andare alle urne. Un gesto più semplice da fare se si abita in un grande centro, estremamente difficile per chi vive in aree remote.

La verità è che laddove gli elders, ovvero gli anziani dei villaggi, e i mullah hanno dato ordine contrario (gli stessi che magari hanno rassicurato le forze internazionali di avallare le elezioni), la gente non si muoverà di casa. Le urne si sono aperte questa

I kamikaze nascosti a Kabul sarebbero almeno una ventina «imbottiti d’esplosivo e pronti a entrare in azione». Ieri assaltata una banca nel centro della capitale

mattina alle 7 e chiuderanno alle 19. Ma siamo in Afghanistan, dove l’approssimazione è la regola, e già si sa che sarà tollerato un ritardo di almeno due ore. C’è poi l’incognita sicurezza. In tutto l’Afghanistan l’ordine di Isaf è quello della suddivisione in 3 cerchi concentrici: al primo livello, ovvero direttamente ai seggi, ci saranno i poliziotti afgani, subito fuori l’esercito dell’Ana e come ultima risorsa le forse di Isaf. L’obiettivo è quello di rendere protagonisti gli afgani dell’intero proceso elettorale. Ma è inutile nascondersi che la preparazione ed efficienza di Anp e Ana, nonostante si dica il contrario, non sembra essere priva di incognite. In molti distretti la gente racconta di poliziotti Anp pronti a scappare qualora messi davanti alla scelta: insurgents o forze Isaf. Stessa cosa dicasi per l’Ana. Molti di questi poliziotti e militari guadagnano meno di 100 dollari al mese e se il vento dovese girare sanno bene che per loro non ci sarebbe scampo. Quelli caduti nelle mani dei talebani, negli scontri passati, sono stati sgozzati, decapitati e dati in pasto ai cani. Un’esecuzione di stampo mafioso, ad indicare il massimo disprezzo per aver tradito la causa islamica. La stella che brilla sull’Afghanistan non è luminosa. Forse, da domani, potrebbe brillare un pochino di più. Forse.

HERAT. «Come se fosse un film: immagini che noi si garantisca una sorveglianza aerea con predator, elicotteri e tornado su un’area grande quanto il Nord italia. Posseggo il numero di forze adeguato a questo sforzo? No. Ma ho concentrato tutte le forze necessarie per controllare i punti caldi dell’area». Non ha esitazioni, come ci si aspetta da un generale, Rosario Castellano, classe 1959, comandante della brigata paracadutisti e a capo del Comando regionale occidentale, il cosiddetto RC-West. E, a poche ore dall’apertura dei seggi, non si sottrae ad alcuna domanda. Comandante, che percentuale di voto vi aspettate? Tutto dipende da quante saranno le postazioni elettorali aperte. In quest’area, su 1014 seggi sono ancora una novantina quelli a rischio. Alcune fonti dicono che se verrà raggiunta una percentuale del 50% sarà già un successo. Non sono in grado di rispondere. Ripeto, dipende da molti fattori. Al momento le aree a magior rischio sono cinque: Bala Mourghab (dove è presente un avamposto italiano, il Fob, ndr), Ab E amari, Moqur, Qadis e Bala Boluk. Quanti sono gli uomini che abbiamo impegnati? Sul terreno siamo circa 2700. il 20% si occuperà del coordinamento e controllo, un altro 20% della logistica e il restante 60% del controllo effettivo. Quindi circa 1900/2000 uomini. A cui si aggiungono i 600 uomini di Kabul. Come garantirete la sicurezza? La sicurezza è garantita a tre livelli concentrici: ai seggi la polizia afgana (Anp), nell’area circostante, pronta a intervenire in caso di necessità, l’esercito nazionale, e poi, nel caso questo non bastasse e la minaccia fosse molto seria, interverremmo noi di Isaf. La nostra sarà una presenza visibile oppure discreta? In generale discreta, fanno eccezione 5 distretti, fra cui quelli di Herat, Gozhar e Pashtun Zarghum. Qui l’Ana ci ha chiesto di occuparcene direttamente da soli, mentre per altri 5, forse quelli più a rischio, ci ha chiesto di operare, fin dal principio, come forza congiunta. Quando è cominciato il controllo aereo? Due giorni fa. Se ci fosse un’emergenza, chi darà gli ordini di intervenire? Io, assieme ai quattro comandanti regionali. Il primo incontro lo avremo alle 6 del mattino. Qual è il punto che giudica più a rischio? L’area di Bala Mourghab, dove abbiamo previsto un’operatività cinetica (altamente operativa, ndr). Ma non c’era stato un accordo con i talebani? L’unica cosa che posso dire è che noi li abbiamo visti andare via. Ma non sappiamo se sono tornati. Né quando abbiano intenzione di ricominciare con gli attacchi. Ieri mattina siete intervenuti a Gozhara,a circa 7 chilometri da Herat. Cosa è successo? Operiamo in quest’area da tre giorni ed è decisamente abbastanza ricca di insurgents. I nostri militari hanno fatto fuoco? Sì, ci sono stati. Vittime? Non sono in grado di dirlo. A un controllo dall’alto non si direbbe. (l.a.)

La nostra aviazione controlla un’area grande come tutto il Nord Italia. Siamo pochi, ma faremo il nostro dovere


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Terrore a Oriente/2. Una giornata di guerra in Iraq: l’attacco più grave dopo la partenza delle forze Usa

Baghdad colpita al cuore Quasi 100 morti e oltre 500 feriti: è il bilancio tragico di una catena di attentati a due ministeri accanto alla “zona verde” della città lmeno 95 persone morte, oltre 500 ferite, sei esplosioni a catena vicino alla ”zona verde” di Baghdad. Sono i dati di una giornata terribile, una giornata che per l’ennesima volta mette in crisi il futuro dell’Iraq senza le truppe statunitensi. La strage nella capitale, infatti, costringe tutti a ripensare la politica della sicurezza ed avviene esattamente nel sesto anniversario degli attentati agli uffici Onu nella capitale che uccisero 22 persone, fra cui il rappresentante speciale delle Nazioni Unite Sergio Vieira de Mello.

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Non solo: non sfugge a nessuno - naturalmente - la coincidenza con la vigilia delle elezioni afghane: il legame tra il destino iracheno e quello afghano nella schecchiere mondiale sono ormai evidenti a tutti. Tanto più che i due attentati principali hanno preso di mira niente meno che due ministeri: quello degli Esteri e quello delle Finanze. Secondo quanto

di Massimo Fazzi hanno riferito fonti di polizia alla tv satellitare Al Jazeera, due camion imbottiti di esplosivo erano stati parcheggiati vicino alle sedi dei dicasteri. La deflagrazione vicino al ministero

del palazzo del Parlamento. Le immagini televisive hanno mostrato il quartiere residenziale attorno alla zona verde devastato dall’esplosione: macchine sventrate, gente insanguinata,

colpo è atterrato all’esterno. Insomma, per Baghdad si tratta del peggior momento dopo il ritiro delle truppe statunitensi nelle loro basi, almeno nelle zone cittadine, e il passaggio della gestione della sicurezza nelle mani degli iracheni. Il prece-

La nuova strage è avvenuta esattamente nel sesto anniversario delle incursioni contro gli uffici Onu nella capitale che uccisero 22 persone degli Esteri ha lasciato un enorme cratere in strada e ha danneggiato l’edificio. Lo scoppio ha coinvolto numerose automobili di passaggio e ha fatto esplodere alcune delle finestre

palazzi colpiti, il cielo invaso da una nube nera. Poi, due colpi di mortaio sono caduti all’interno della protettissima ”Zona verde”, sede dei palazzi del governo e delle ambasciate; un terzo

dente giorno più sanguinoso nella capitale era stato il 24 giugno, quando una bomba su una motocicletta aveva ucciso 62 persone a Sadr City, quartiere a prevalenza sciita. Del resto, il numero di morti violente era diminuito di un terzo il mese

scorso: 275 decessi contro i 437 di giugno. Ma nonostante il generale calo della violenza degli ultimi mesi, gli attentati contro le forze di sicurezza e i civili restano comuni a Baghdad e nella grandi città del nord di Mosul e Kirkuk.

«Queste zone in teoria sono molto protette» ha osservato, parlando della zona verde, il giornalista Ahmed Rushdi interpellato da Al jazeera. «Non solo per i posti di blocco: ci sono sempre i servizi attorno. Ma come si fa a dire alla gente che Baghdad è sicura se ci sono esplosioni proprio nella zona che dovrebbe essere la più sicura di tutte?». Sa’ad Muttalibi, consigliere del ministero per il Dialogo e la Riconciliazione, ha detto, poi, che «questa è la continuazione dei piani malvagi di chi non vuole vedere un Iraq stabile e libero, di chi ha l’intenzione di mantenere le forze americane in Iraq anche dopo l’accordo che è stato firmato perché i soldati Usa lascino il paese».

Dalle elezioni in Afghanistan ai morti nei palazzi iracheni: l’analisi del generale Carlo Jean

«Un doppio test sulla fiducia nell’Occidente» l puzzle afgano assomiglia a un caos che difficilmente l’elezioni risolveranno. Sarà più un test sulla fiducia che la popolazione esprimerà sulla vittoria finale: sarà degli occidentali e del loro dispositivo militare o degli studenti coranici? «La risposta sarà fornita dai dati d’affluenza alle urne», come ha spiegato a liberal il generale Carlo Jean, uno dei più autorevoli esperti a livello nazionale e internazionale di geopolitica e geoeconomia e professore di studi strategici alla facoltà di Scienze politiche dell’Università Luiss. Il «Grande gioco» raccontato sulle pagine di Kipling, oggi, è complicato da una rinfoltita fila d’attori. Uzbekistan e Tagikistan posso influenzare il tavolo di Kabul più di quanto possa fare Teheran. E Islamabad sembra aver trovato un modus operandi con Washington, nella cernita tra grano e loglio nel campo talebano. Mentre la tensione

di Pierre Chiartano

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Ieri come domani, la strategia dell’amministrazione Usa resta la stessa: separare i talebani “buoni” da quelli cattivi per battere al Qaeda sale e il conteggio dei morti negli attentati a Kabul e in tutto il Paese cresce di ora in ora. Poi c’è l’esplosione di violenza in Iraq, con decine di morti e centinaia di feriti nel cuore della città governativa. Un segnale di come Baghdad, dopo il ritiro delle truppe Usa dalle città, non sia ancora in grado di garantire la sicurezza nel Paese. Che differenze ci saranno rispetto alle elezioni afghane del 2005? Saranno legate a due fatti. Il primo è che sono organizzate

dal governo afghano e non dalla comunità internazionale, che è molto più efficiente e trasparente. Il secondo è che i talebani, nel 2005, non si erano pronunciati in maniera feroce contro gli elettori. Questa volta li stanno minacciando violentemente. Sicuramente ci sarà una affluenza di voto inferiore a quel 74 per cento che aveva caratterizzato le prime elezioni. Incideranno di più le minacce di violenze o la diffusa corruzione degli amministratori locali, per te-

nere lontani gli elettori? Sicuramente le minacce. Anche se l’entusiasmo per l’intervento e la presenza militare occidentale è diminuito nella popolazione, rispetto ai primi tempi dell’occupazione, parallelamente alla presenza dei talebani. Gli ostacoli per queste elezioni provenvengono solo dai talebani o anche dalle guerre intestine fra etnie, pashtun, uzbeka, tagika, hazara, talebani buoni amici di Islamabad e cattivi vicini ad al Qaida? L’Afghanistan è uno Stato premoderno, dove dominano i clan, le etnie, le tribù, le famiglie, di conseguenza il fattore clanico avrà un’influenza determinante. Come potrà incidere sul voto la sicurezza militare? È difficilissimo che possa essere realizzato un dispositivo di sicurezza completo. I seggi sono 6.500, le forze sono molto di-

sperse sul terreno e i talebani hanno sicuramente informazioni dettagliate. Di conseguenza possono concentrare gli attacchi su forze isolate o in località impervie. A cosa è ascrivibile l’efficienza degli insorgenti estremisti? Al fatto che il governo di Karzai ha uno scarso controllo del Paese e anche la situazione in Pakistan ha dei riflessi negativi su quella afgana. Ci può spiegare meglio? I pashtun sono divisi dalla linea Durand che separa Afghanistan e Pakistan. Dal lato di Kabul costituiscono il 50 per cento della popolazione, da quello di Islamabad il 10 per cento. Con i pashtun agiscono però anche forze estremiste. Non dico ci sia un fronte unico – il cosiddetto Afpak – però ci sono dei legami molto stretti che hanno portato il presidente Obama ad incaricare Richard Holbrooke per trovare una soluzione. E il ruolo di Teheran?


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Cominciano a farsi sentire le conseguenze della politica di Obama

Questo è il prezzo della mano tesa di Daniel Pipes ohn O. Brennan, assistente di Barack Obama per la sicurezza nazionale ed il controterrorismo, in un discorso del 6 agosto dal titolo «Un nuovo approccio per la salvaguardia degli americani» ha opportunamente abbozzato gli errori della politica presente e futura dell’Amministrazione.Tanto per cominciare, il suo sermone pronunciato presso il Centro per gli studi strategici e internazionali a Washington ha un tono inconsueto. «Adulatorio» è l’aggettivo che fa balenare nella mente, visto che Brennan per ben novanta volte in 5.000 parole nomina «il presidente Obama», dice «egli», «suo» oppure «il presidente». Desta preoccupazione il fatto che Brennan attribuisca praticamente ogni opinione o linea politica enunciata nel discorso alla saggezza di The One. Questo predicozzo che istiga alla deferenza ricorda quello di un funzionario nordcoreano che rende omaggio al “Caro Leader”. I dettagli non sono migliori. Essenzialmente, Brennan chiede di ricorrere all’appeasement con i terroristi: «Proprio mentre condanniamo e ci opponiamo alle tattiche illegittime utilizzate dai terroristi abbiamo bisogno di riconoscere e di occuparci dei bisogni legittimi e delle rimostranze della gente comune che questi terroristi affermano di rappresentare». Ci si chiede quali legittimi bisogni e rimostranze egli pensa che al-Qaeda rappresenti.

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Due immagini degli attentati di ieri nel cuore di Baghdad. Nella pagina accanto, il generale Carlo Jean

L’Iran ha un ruolo limitato. E viene esercitato tramite gli hazara che sono sciiti e i tagiki che sono di etnia persiana. Sono due gruppi etnici abbastanza forti. Ma il ruolo di Teheran non è così determinante come è quello, ad esempio, esercitato dall’Uzbekistan o dal Tagikistan. Che quadro uscirà dalle urne? È un caos ora, e un caos rimarrà. Il problema non è il risultato elettorale, ma i dati d’afflusso. Se il numero dei votanti è alto, vuol dire che gli afghani hanno fiducia nell’Occidente, nell’azione delle forze internazionali e hanno fiducia anche nel futuro del proprio Paese. Se invece saranno in pochi, la situazione cambierà totalmente. È un test di gradimento per l’Occidente e anche di valutazione sulla probabilità di vittoria dei talebani. Se la gente crede che alle minacce dovesse seguire una vittoria degli estremisti e che, prima o poi, l’Occidente batterà in ritirata, allora la situazione potrebbero ulteriormente peggiorare. Quale futuro per Karzai? Mah… è un furbacchione che cerca di mettersi d’accordo con i capi, non solamente dei pashtun antitalebani, ma anche con

i rappresentanti dell’Alleanza del nord, tipo i tagiki e il generale uzbeko Dashtun, responsabile dell’uccisone di migliaia di talebani e di pashtun nel 2001. Ciò fa pensare che i pashtun se la siano legata al dito e una parte di loro andrà a votare per Abdullah. Quali strategie militari dopo il voto?Dipende dal risultato delle elezioni. L’opzione più probabile è la continuazione della strategia Obama. Cioè di cercare di separare i talebani buoni da quelli cattivi e di concentrare gli sforzi delle unità americane contro al Qaeda. Un ultima domanda sull’attacco terroristico a Baghdad... Temo che sia espressione della paura dei sunniti che gli sciiti possano egemonizzare il governo. È preoccupante che con il ritiro delle truppe americane dalle città il governo iracheno non sia ancora in grado di garantire la sicurezza nel Paese. La politica di separazione etnica tra sciiti e sanniti non ha funzionato? Guardi è una situazione bosniaca. Non è detto che con la separazione fra gruppi cessino gli odii e le vendette.

Brennan ci informa che il suo capo adesso basa la politica statunitense su di essa.

Il discorso contiene inquietanti segnali di inettitudine. Apprendiamo che Obama ritiene che le armi nucleari in mano ai terroristi costituiscono «la più immediata ed estrema minaccia alla sicurezza globale». D’accordo. Ma come egli replica? Con tre deboli e pressoché irrilevanti linee d’azione: «condurre lo sforzo per un regime di non-proliferazione globale, lanciare uno sforzo internazionale per rendere sicuro tutto il materiale nucleare vulnerabile nel mondo (…) ed ospitare un summit nucleare globale». E Brennan non è neppure in grado di pensare correttamente. Eccone un esempio con una lunga citazione: «La povertà non è causa di violenza e terrorismo. La mancanza d’istruzione non è causa del terrorismo. Ma proprio come non c’è alcuna giustificazione per l’ingiustificato massacro di innocenti, non si può negare che quando i bambini non hanno alcuna speranza di ricevere un’istruzione, quando i giovani non hanno speranza alcuna di avere un lavoro e si sentono tagliati fuori dal mondo moderno, quando i governi non riescono a provvedere ai bisogni primari della popolazione, allora la gente diventa più sensibile alle ideologie di violenza e di morte». Riassumendo: povertà e mancanza d’istruzione non causano il terrorismo, ma la mancanza d’istruzione e la disoccupazione rendono la gente più sensibile alle idee che portano al terrorismo. Qual è la differenza? Poveri noi, se la Casa Bianca accetta quest’assurdità come analisi. Inoltre, focalizziamo l’attenzione sull’asserzione «quando i governi non riescono a provvedere ai bisogni primari della popolazione, allora la gente diventa più sensibile alle ideologie di violenza e di morte», poiché essa contiene due incredibili errori. Innanzitutto, questa affermazione accoglie la bugia socialista che sono i governi a provvedere ai bisogni primari. Non è così. Se non in alcuni Stati ricchi di beni economici, i governi tutelano ed offrono strutture legali, mentre è il mercato a provvedere ai bisogni. In secondo luogo, ogni studio sull’argomento non rileva alcun nesso tra le tensioni personali (povertà, mancanza d’istruzione, disoccupazione) e l’attrazione per l’Islam radicale. Se mai furono i massicci trasferimenti di risorse in Medio Oriente a partire dal 1970 a contribuire all’affermazione dell’Islam radicale. L’Amministrazione basa la sua politica su una menzogna. L’attuazione delle politiche inette abbozzata da Brennan costituisce un pericolo per gli americani, per i loro interessi ed i loro alleati. Le dolorose conseguenze di questi errori diventeranno abbastanza presto evidenti.

La strategia della Casa Bianca non va oltre qualche luogo comune sull’appeasement che avrà conseguenze dannose per gli Stati Uniti e tutti i loro alleati

Brennan delinea con cura una duplice minaccia: una rappresentata da «al-Qaeda ed i suoi alleati» e l’altra dal «violento estremismo». Ma la prima, in modo lapalissiano, è un sottoinsieme della seconda. Questo elementare errore smonta l’intera analisi. Poi ricusa ogni nesso tra «violento estremismo» ed Islam. «Utilizzando il legittimo termine jihad, che significa purificarsi o muovere una guerra santa per un fine etico, si rischia di offrire a questi assassini quella legittimità religiosa che cercano disperatamente, ma che non meritano in alcun modo. Peggio ancora, si rischia di corroborare l’idea che gli Usa siano in qualche modo in guerra con l’Islam stesso». Questo brano ripete meccanicamente una teoria dell’Islam radicale che secondo il tenente colonnello Joseph C. Meyers dell’US Air Command and Staff College «è parte di una campagna di disinformazione strategica, di diniego e di inganni” sviluppata dai Fratelli musulmani. Screditata nel 2007 da Robert Spencer, la teoria opera una distinzione tra buon jihad e cattivo jihad e nega ogni nesso esistente tra Islam e terrorismo. Si tratta di un’interpretazione profondamente fallace volta a confondere i non-musulmani e a non far perder tempo agli islamisti. La precedente amministrazione Bush, nonostante gli errori, non ha ceduto a questo artificio. Ma


politica

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Alleanze pericolose . Secondo il deputato Pd, solo un sistema alla tedesca può mettere fine al ricatto degli estremisti

I patti col diavolo Latorre: «La Lega da destra e Di Pietro da sinistra hanno ucciso il bipolarismo» di Riccardo Paradisi segue dalla prima «Quanto sta avvenendo tra Pdl e Lega in questi giorni conferma gli elementi di contraddizione che sono da sempre presenti nell’alleanza tra due forze costrette per forza a stare insieme». Non è stupito Nicola Latorre dell’impennata polemica tra il Pdl e il Carroccio ma non coglie in questa tempesta agostana interna al centrodestra i segnali d’un imminente collasso della coalizione berlusconiana. «Dobbiamo essere realisti: la Lega non è nuova a questa strategia mediatica usata per condizionare i suoi alleati, per farne sempre di più degli ostaggi di una linea politica che è la stessa Lega a dettare».

Una tendenza che secondo Latorre ha avuto un’accentuazione straordinaria dopo gli ultimi risultati elettorali della Lega, che alle scorse europee oltre a consolidare il proprio consenso nelle regioni del nord è approdata in territori a lei precedentemente chiusi, come le Marche dove il Carroccio ha raggiunto addirittura il 5%. «Questi dati positivi del voto europeo – ragiona ancora Latorre – hanno ulteriormente incoraggiato la Lega a marcare la propria alterità estremizzando le proprie posizioni e dimostrando di essere l’unica forza politica in grado di determinare le scelte di fondo del governo. Dalla gestione della crisi economica alle misure sulla sicurezza, dalle politiche sull’integrazione alla stretta sui fondi per il Mezzogiorno è stata la Lega a dettare finora l’agenda alla maggioranza. Adesso qualcuno nel Pdl – pur tra pudori, omertà, minimizzazioni – comincia a dire che forse la Lega sta esagerando. Che l’intesa con Bossi è un problema».

Pd serve un cambio di rotta per superare una linea che gli ha impedito di immaginare un percorso di alleanze diverso e compatibile con una politica riformista e di governo. Come opposizione dobbiamo preoccuparci di costruire una credibile alternativa di governo rispetto al centrodestra, perché solo questo atteggiamento può spingere il Pdl a superare la stagione del berlusconismo. Detto ancora più chiaramente – continua Latorre – se dopo il congresso del Pd il Paese percepirà la presenza di un’alternativa possibile le contraddizioni interne al centrodestra, destinate a crescere con l’avvicinarsi delle regionali e il moltiplicato attivismo della Lega, produrranno elementi di instabilità e di novità politica». Oltre al partito a vocazione maggioritaria teorizzato da Veltroni e da Franceschini c’è un partito che imposta la sua azione su una politica delle alleanze. Latorre ne ragiona muovendo ancora dalla situazione interna al Pdl: «La corte fatta a Casini in questi giorni da parte di Berlusconi e degli esponenti del suo quartier generale è la dimostrazione del fallimento della politica perseguita dal Pdl. Come noi ci stiamo ancora leccando le ferite per l’ipotesi del partito a vocazione maggioritaria, che aveva dismesso la politica delle alleanze, così loro capiscono solo adesso che è stato un errore cruciale considerare l’Udc il nemico da sconfiggere e la Lega l’alleato privilegiato. Il corteggiamento del Pdl nei confronti dell’Udc di questi giorni è la dimostrazione che quella strategia è fallita».

Come il Pd oggi si dovrebbe pentire del rapporto con l’Italia dei Valori, così il Pdl è costretto a prendere atto che l’intesa con Bossi è un abbraccio mortale

Ma appunto Latorre non si fa illusioni: «Chi trae da queste liti estive nel centrodestra segnali di un imminente collasso della maggioranza è troppo frettoloso. Certo, questi elementi di contraddizione sono di volta in volta sempre più ingestibili. E

soprattutto testimoniano della sostanziale fragilità del progetto politico del Pdl rispetto alla solidità della lega che sa quello che vuole e ha la forza di imporlo. Ma vede, perché una maggioranza salti non bastano le sue contraddizioni interne, è necessaria un’alternativa praticabile». E l’alternativa oggi presente al governo Berlusconi non sembra essere praticabile secondo Latorre. «Il Pd ha perseguito fino ad oggi questa idea un po’ stravagante del partito a vocazione maggioritaria. Un’idea parzialmente smentita dall’alleanza rivelatasi disastrosa con l’Italia dei Valori di Antonio di Pietro, una linea sulla quale Franceschini sembra però insistere. Anche se è divertente sentire Piero Fassino che in Veneto parla di una politica di alleanze allargata persino a settori del Pdl vicini a Galan per isolare la Lega. La realtà è che al

Ma un corteggiamento resta un corteggiamento: «Il Pdl potrebbe aprire un terreno di confronto serio con l’Udc – ragiona Latorre – solo se rimette in discussione il tabù del bipartitismo e apre a una riforma elettorale per un sistema politico alla tedesca. Se il Pdl sarà in grado di fare questo è un corteggiamento che potrà avere successo. Ma io non credo che il Pdl sarà questo salto mentale. Non ci sono le condizioni

Come costringere la Lega a scoprire le carte sulle gabbie salariali

Andiamo a vedere il bluff del Carroccio di Mario Seminerio segue dalla prima Si tratta dell’accordo firmato lo scorso 22 gennaio tra governo e parti sociali (ad eccezione della Cgil), che prevede lo spostamento di importanti quote della retribuzione dalla contrattazione nazionale a quella settoriale ed aziendale. O forse sarebbe meglio definirlo accordo-cornice, visto che le modalità di attuazione restano ampiamente indeterminate. Un po’come per il federalismo fiscale, a ben vedere.

La prima ipotesi che una mente mediamente razionale può avanzare è che la Lega intenda guidare (o dirottare, a seconda dei punti di vista) il processo di “riempimento” di contenuti dell’accordo. Ma in questo caso il Carroccio dovrebbe preliminarmente chiarire le idee al proprio interno. I dipendenti meno qualificati o quelli di aziende e settori a basso sviluppo della produttività non potranno vedere la propria struttura retributiva determinata dal fatto che al Nord gli affitti e la carne costano di più. La Lega dovrebbero quindi avere l’onestà intellettuale di dire ad un operaio bergamasco che il suo salario, a seguito della contrattazione decentrata, potrebbe risultare anche di molto inferiore a quello di un collega bresciano o trevigiano, e viceversa. Ma se dicesse questo perderebbe d’incanto gran parte dell’appeal che oggi esercita soprat-

tutto sui ceti popolari del Nord. Siamo certi che gli imprenditori di simpatie leghiste staranno già provvedendo a informare Bossi e i suoi uomini che tornare indietro nel tempo di mezzo secolo non è la ricetta migliore per rilanciare produttività e competitività padane e quindi i salari, nel lungo periodo. Se l’obiettivo è, invece, quello più realistico di aumentare i redditi dopo le imposte, in linea teorica uno strumento esiste: agire su deduzioni dall’imponibile e/o detrazioni d’imposta. La prima è ammessa per oneri sostenuti dal contribuente nel suo interesse, tra i quali i contributi a forme pensionistiche complementari. La detrazione d’imposta riguarda invece gli importi che il contribuente ha diritto di sottrarre dall’imposta lorda. In particolare spettano ai contribuenti che hanno carichi di famiglia o posseggono redditi di lavoro dipendente, pensione, lavoro autonomo o impresa minore, e realizzano quindi una discriminazione qualitativa dei redditi. Ecco, forse i leghisti puntano a istituire un’ulteriore detrazione d’imposta, legata al potere d’acquisto territoriale. In questo caso, resta il solito problema: come finanziare questo costo, ammesso e non concesso che ciò possa essere politicamente sdoganabile? Indurre la Lega a spiegarsi, anziché lanciare facili slogan, sarebbe già un significativo passo avanti.


politica

20 agosto 2009 • pagina 7

Vietti (Udc): «Alleanze in base al territorio»

«Il Pdl regala il Nord a Bossi» di Franco Insardà

ROMA. «Si parla tanto di fe-

La Lega contro Napolitano sui 150 anni dell’Unità

Se la Patria diventa una spesa inutile di Marco Palombi segue dalla prima Ieri, dalle colonne della Stampa, Giorgio Napolitano è tornato sull’argomento: «Siamo a fine agosto – ha detto - la scadenza comincia a non essere lontana e se in autunno non si accelera, i tempi sono stretti». Il presidente della Repubblica, tanto per chiarire, ha pure confermato di aver inviato una lettera sul tema al governo qualche settimana fa «per conoscere gli intendimenti e gli impegni dell’esecutivo». Repliche? Nessuna. «E se scrivo una lettera è per avere una risposta», spiega Napolitano con quella che potrebbe sembrare una vaga incazzatura. Il coro di dichiarazioni che ha fatto seguito all’intervista del Capo dello Stato ha seguito il solito copione certificando non solo l’assenza di linea del governo e i disaccordi tra Lega e Pdl, ma anche la drammatica nullità del dibattito pubblico. Il primo a parlare è stato Ignazio La Russa: «Fa bene il presidente della Repubblica a stimolare il governo, perché non c’è più tempo da perdere» ha spiegato prima di scaricare la colpa sul collega Sandro Bondi: «Io stesso, pur essendo un ministro che ha competenze sulle celebrazioni, sono rimasto estraneo alla preparazione e sarei felice di essere coinvolto. Dico a Bondi: sono a disposizione, do la mia piena disponibilità». Il

ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli, dal canto suo, s’è limitato a «confermare che nel corso dell’ultima riunione del Cdm il governo aveva già cominciato a fare un lavoro di ricognizione degli impegni e delle cose da fare», anche se le risorse «non sono molte». Se ne riparlerà al prossimo Consiglio e il tema caldo ora pare diventato quello dei soldi: Claudio Scajola, tanto per cambiare, propone addirittura di svuotare un altro po’ i fondi per le aree sottosviluppate (Fas). Anche la Lega si finge preoccupata per le spese: «In un momento come questo vanno evitate le celebrazioni elefantiache, le spese inutili e frammentate in mille rivoli», si raccomanda il capogruppo alla Camera Roberto Cota. Non manca Mario Borghezio che predica la necessità d’un «segnale forte»: «La mia ricetta è quella di non spendere neanche una lira». Roberto Calderoli invece, maestro di moderatismo, predica risparmio e dispensa poesia: «Non bisogna guardare al dito, ma pensare alla luna perché non basta celebrare gli anniversari dell’Unità ma bisogna prima di tutto realizzarla». Tutto sotto controllo anche tra le opposizioni: Pd e Udc appoggiano senza riserve l’azione del Quirinale e chiedono al governo di darsi una svegliata, Idv chiede le dimissioni di Bondi. L’arabesco retto.

politiche perchè questo possa avvenire, dunque non ci sono, secondo me, le condizioni politiche per un’alleanza con l’Udc». E così arriviamo al vero sottotesto del dibattito agostano su Lega e alleati scomodi: questo sistema elettorale non garantisce un bipolarismo compiuto, Lega da un lato e Idv dall’altro condizionano i settori moderati dei loro schieramenti più di quanto dovrebbe essere normale e fisiologico dentro uno schema appunto bipolare. «Io non sono convinto che sia il bipolarismo in sè il problema. Il bipolarismo in Italia c’è dal dopoguerra: è stato un bipolarismo strano, zoppo, con un partito, la Dc, destinato sempre a governare e con un altro, il Pci, sempre destinato a stare all’opposizione ma con la Seconda repubblica questo bipolarismo si è evoluto e siamo entrati in una stagione di un bipolarismo dell’alternanza».

Però il processo di transizione cominciato dopo la crisi della Prima repubblica doveva portare a un assetto del sistema politico italiano in cui bipolarismo e alternanza fossero tra schieramenti consolidati con un forte impianto politico culturale. «Il problema è che si è confusa l’esigenza di difendere il bipolarismo con il tentativo di imporre un bipartitismo impossibile. È qui che si è prodotto il cortocircuito, che sono nate coalizioni frutto di alleanze forzate e innaturali». Se dunque dal bipolarismo non si può tornare indietro si deve però immaginare un sistema elettorale che tenga insieme alternanza e bipolarismo. Per salvare il bipolarismo dal binario morto in cui s’è andato a ficcare serve – dice Latorre – un sistema elettorale alla tedesca». E se dialogo ci sarà tra le forze in campo, dovrà passare per questa opzione di riforma del sistema politico italiano.

deralismo, ma sulle alleanze sarebbe ora di praticare l’unica strategia possibile: scegliere in relazione al territorio. Il Piemonte non è la Sicilia e il Trentino-Alto Adige non è la Sardegna. Non siamo d’accordo con i leghisti su altro, ma certamente le realtà locali meritano un’attenzione che comporta ricette politiche adeguate alle specificità». Il piemontese Michele Vietti rivendica il ruolo decisivo dell’Udc per le alleanze alle prossime regionali. L’Udc è corteggiato sia dal Pdl sia dal Pd: è una condizione ottimale. È la conseguenza delle nostre scelte politiche. Abbiamo testimoniato, anche con non pochi sacrifici, che occorre il Centro in un sistema politico che funziona. Oggi, finalmente, ci si sta rendendo conto che per fare sia il centrodestra sia il centrosinistra è indispensabile un’Udc che sia se stessa. E che faccia il Centro. Pdl e Lega fanno la destra, Pd e Di Pietro la sinistra. Quale sarà il ruolo che giocherà l’Udc? Valuteremo le alleanze nella misura nella quale verificheremo le convergenze al Centro da parte di Pdl e di Pd. Non siamo noi che inseguiamo, ma sono loro che devono dare prova di convergere verso il Centro. Ma questo quadro politico, con la Lega che ricatta e Di Pietro che sgomita, ha definitivamente affossato il bipolarismo italiano? Spero sia finita l’illusione bipartitica che prevedeva due partiti e qualche alleato. Spero che si vada verso una reale democrazia dell’alternanza. Ma va va costruita in modo più stabile. Bossi alza la voce, non vi vuole, ma dalla maggioranza arrivano segnali all’Udc. Non può che farci piacere che, di fronte all’atteggiamento da gradasso del Senatùr, gli alleati della Lega rimpiangano l’equilibrio dell’Udc. Una cosa era la Casa delle libertà, nella quale avevamo un ruolo di socio fondatore, altra cosa è l’alleanza tra il “partito del predelli-

no”, che si regge su un berlusconismo puro e sull’estremismo della Lega. Il Carroccio fa pesare al Pdl la sua egemonia, detta l’agenda di governo dal finto federalismo all’immigrazione. Le esternazioni della Lega nascondono una strategia politica? Ovviamente. Sarebbe un grave errore derubricare a battute quelle di Bossi. È la strategia di chi sa di detenere quella che Casini chiama la “golden share”dell’alleanza. Questi fuochi d’artificio estivi fanno preludere a un autunno, nel quale si forzerà sui salari differenziati e su altre iniziative antiunitarie, con buona pace del presidente Napolitano e dei suoi doverosi e giusti appelli a festeggiare degnamente l’Unità nazionale. Esiste quindi un rischio secessione? Bossi ha risfoderato tutto l’armamentario polemico tanto caro al popolo leghista. Si tratta di un gioco molto astuto, da partito di lotta e di governo: si incassano tutti i vantaggi del governare a Roma per poi acquisire il consenso in periferia facendo le barricate. Questa operazione è molto pericolosa, perché rischia di logorare il tessuto connettivo del Paese che non è basato soltanto sull’economia, ma anche su valori condivisi che ci fanno essere un unico popolo. Temi poco di moda... Sono un piemontese che non ha nulla a che spartire con la storia del lombardo-veneto, semmai con la Savoia. Ma sono prima di tutto italiano perché mi ritrovo nella storia, nella tradizione e nei valori dell’Unità nazionale. Per concludere, le sparate della Lega quanto incideranno sulle alleanze per le Regionali? La Lega si candida a governare il Nord, proprio per il voto fa questo fuoco preventivo. Se il Pdl continua a dare al partito di Bossi tutto questo spazio, rischia di consegnare i governi locali e le regioni dell’area, dopo aver abdicato sulla politica nazionale. Se imboccano questa china non sarà più possibile, nonostante le buoni intenzioni di Bondi, Cicchitto e di altri, tirarli fuori dal fosso.


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economia

Recessione. È pessimistico lo scenario offerto dal rapporto del Nucleo di valutazione sulla spesa previdenziale

Se la crisi mangia le pensioni La riforma deve essere completata prima che i costi esplodano di Giuliano Cazzola segue dalla prima

zionali. Allora come oggi la fatidica data era fissata in un’altra legislatura. Come ho già avuto modo di scrivere, con la miniriforma il Governo ha rotto le uova (si è misurato, cioè, senza dover sopportare un solo minuto di sciopero, con il tabù dell’età pensionabile). Ora deve cuocere la frittata, altrimenti non serviranno a niente delle uova rotte. A pensarci bene, dunque, ogni anno dopo il 2015 il requisito anagrafico avanzerà di 3-4 mesi (in parallelo con l’evoluzione dell’attesa di vita). Ciò significa che in 4-5 anni, nel sistema retributivo, l’età di vecchiaia

Basti pensare – come ha fatto notare il Nvsp – che per rispettare le previsioni tracciate a suo tempo sarebbe necessaria una crescita media annua dell’1,8% ovvero un trend che non solo la nostra economia non realizza da tempo, ma che nelle condizioni attuali sembra essere poco più che una vaga speranza. Ne deriva che, nei prossimi anni, l’incidenza della spesa pensionistica sul Pil supererà di almeno un punto le previsioni.

La situazione è rappresentata anche sul piano grafico nel Dpef votato a luglio dal Parlamento. Fino a oggi, il diagramma della spesa aveva la forma di una gobba, con un picco (in misura del 16-17%) intorno al 2033. Il nuovo diagramma di gobbe ne ha due: la prima, superiore al 15%, parte dal 2010. La domanda è: sono sufficienti le misure contenute nel decreto anticrisi del luglio scorso a stabilizzare la spesa, come assicura il Governo? Alla luce delle valutazioni del Nucleo, la risposta non può essere certo positiva. Intendiamoci: i provvedimenti del Governo sono importanti sul piano politico. È stato necessario lo stimolo della sentenza dell’Alta Corte Ue del 13 novembre per sbloccare la questione dell’età di vecchiaia delle lavoratrici del pubblico impiego: un’operazione che a regime darà un risparmio di spesa di 240 milioni l’anno che non andranno a «fare cassa» ma serviranno per finanziare nuove politiche familiari e sociali con particolare riguardo al dramma della non autosufficienza. Ma la miniriforma contiene anche un aspetto di carattere generale e strutturale: l’aggancio del requisito anagrafico alla dinamica dell’attesa di vita a partire dal 2015. Non v’è chi non veda come Giulio Tremonti, con tale misura, abbia seguito il medesimo cliché del 2003, quando infilò lo «scalone» (ovvero l’innalzamento dell’età di anzianità da 57 a 60 anni in un colpo solo) con decorrenza 2008, nello scialbo progetto Maroni. Allora come adesso il superministro aveva gravi problemi nei conti pubblici; sapeva quindi (come sa oggi) che un Governo che «tocca» le pensioni riscuote grande credito in Europa e sui mercati finanziari interna-

Il trattamento per i nuovi occupati deve essere finanziato dalla fiscalità generale e dai contributi

Paradisi fiscali. Accordo Usa-Svizzera: Ubs svela i conti di 4.450 correntisti

Una crepa nel segreto bancario di Francesco Pacifico

ROMA. Non sarà la fine del segreto bancario svizzero, ma da ieri portare capitali all’estero è diventato più difficile. Stati Uniti e Svizzera hanno annunciato l’accordo con il quale le autorità elvetiche forniscono ai colleghi Usa i dati di 4.450 correntisti americani clienti di Ubs, sospettati di aver frodato il fisco e depositato fondi per 18 miliardi di dollari. Si chiude così una querelle diplomatica e giudiziaria durata mesi tra Washington e il colosso bancario di Lugano, già multato per 780 milioni di dollari.

A tirare un sospiro di sollievo è soprattutto l’istituto ticinese: ha reso noto i dati di 4.450 clienti e non di 52mila come chiesto in un primo tempo, vede chiuso il procedimento aperto presso la corte federale di Miami, non pagherà ulteriori sanzioni pecuniarie e potrà riprendere la sua attività, appannata nell’ultimo periodo come dimostrano i tanti riscatti registrati. Che, a quanto si sa, avrebbero toccato i 40 milioni di franchi. L’intesa prevede che il governo svizzero fornirà alle autorità fiscali americane i primi dati da metà settembre. Formalmente non viene scalfito il diritto alla segretezza bancaria: infatti l’intesa si applica solo per alcuni correntisti Ubs. L’amministrazione elvetica, in base al principio del caso per caso, segnala “sua sponte” ai colleghi americani le posizioni di correntisti più controverse attraverso una procedura amministrativa accelerata. Almeno sulla carta, una rogatoria dai tempi più brevi e di più ampie dimensioni.

In realtà si rompe un sistema cementificato nei secoli. Soddisfatte tutte le parti in causa. Il commissario dell’Internal Revenue Service (Irs), Doug Shulman, sottolinea che «l’accordo ci dà quello che vogliamo: l’accesso alle informazioni su conti correnti che molto probabilmente sono coinvolti nell’evasione fiscale offshore». Il ministro della Giustizia svizzero, Eveline Widmer-Schlumpf, aggiunge che cade «il rischio di un procedimento penale nei confronti di Ubs. Non c’era alcuna alternativa». Sulla stessa linea la Swiss Bankers Association: «L’accordo fuori dal tribunale evita una prolungata battaglia legale dall’incerto risultato. Ubs può continuare il proprio processo di consolidamento in un contesto privo di incertezze legali». Intanto il governo elvetico ha confermato l’intenzione del governo di uscire da Ubs. Ma in modo rapido e fuori mercato per non creare scossoni al titolo dell’istituto, che ieri ha registrato un calo superiore al 3 per cento. Mentre in America le indagini sull’evasione off shore sarebbero state allargate ad altre dieci banche europee.

L’accordo di ieri è il maggiore passo nella lotta all’evasione lanciata un anno fa dal G8. Non poco in un mondo dove è alta l’incertezza – ieri le Borse sono tornate sotto pressione – e che vede frenare la caduta della crescita soltanto ora. L’Ocse ha confermato che nel secondo trimestre 2009 i Paesi più industrializzati hanno indietreggiato dello 0,1 per cento. Tra le eccezioni l’Italia con il suo -0,5.

delle donne salirà automaticamente a 62 anni e quella degli uomini a 67 in tutti i regimi che oggi sono attestati sui 60/65 anni. Nulla osterà, dunque, a ripristinare, nel sistema contributivo, un pensionamento flessibile, uguale per uomini e donne e per tutte le tipologie di trattamenti pensionistici, in un range compreso tra 62 e 67 anni, ragguagliato, sul lato del requisito anagrafico, all’aggancio automatico all’aspettativa di vita e, sul lato dell’importo, alla revisione periodica dei coefficienti di trasformazione.

L’altra riforma da fare necessariamente deve essere rivolta a reintrodurre un minimo di solidarietà nel sistema contributivo (quella solidarietà infragerazionale che nel «retributivo» è assicurata dall’integrazione al minimo, un istituto destinato a scomparire nel contributivo). La proposta è quella di riconoscere ai nuovi occupati – dipendenti, indipendenti e atipici - una pensione di base finanziata dalla fiscalità generale, insieme a un trattamento contributivo obbligatorio sostenuto con un’aliquota del 24-25%, comune a tutti i tipi d’impiego. Verrebbe così a mancare quel divario nei costi della previdenza che tanto ha contribuito a destrutturare il mercato del lavoro e sarebbe positivamente ridotto il costo del lavoro a favore dell’occupazione.


N

a c q u e

otto pagine per cambiare il tempo d’agosto

o g g i

20 agosto(1936)

Alice ed Helen Kessler

Bionde, alte, gemelle, nordiche, ma soprattutto le gambe più lunghe del varietà

Dadaumpa per l’immortalità di Roselina Salemi

adaumpa/ come abracadabra funzionerà/ Ogni giorno e ogni illusione/ con il Dadaumpa diventerà realtà/Da-daUMPA!!!». Quando arrivavano Alice ed Helen Kessler, le Gemelle Dadaumpa, si fermava l’Italia, si svuotavano le strade, si correva al bar, come per le partite della Nazionale. Era l’età dell’Innocenza, televisivamente parlando, il 1961, quando uno stacco di coscia (e il loro era notevole) costituiva un problema di morale pubblica e provocava accesi dibattiti del genere «o mores, o tempora». Erano tempi saldamente democristiani e «Studio Uno», programma per famiglie della prima rete, doveva essere impeccabile, fuori da ogni tentazione. Guai a turbare il pubblico che si vedeva apostrofato da un «Hello boys, siamo andati oltre l’Illinois». Così la soluzione fu una bella calzamaglia di lana nera, pesante, mentre il Dadaumpa (musiche del maestro Bruno Canfora, parole di Dino Verde), imperversava. Le due ragazze, Alice ed Helen Kessler, alte 1,76, più i tacchi, avevano 25 anni, venivano dal Lido di Parigi, potevano vantare alcune inquadrature in un paio di film francesi (La Garçonne, di Jacqueline Audry, e Tabarin, con Michel Piccoli) e una teutonica educazione al canto e alla danza imposta dai genitori Paul ed Elsa. Nate a Lipsia, il 20 agosto del 1936, perciò zodiacalmente leonesse, avevano cominciato a studiare a 6 anni. A 11 erano già nel programma per gli adolescenti del teatro dell’Opera di Lipsia, ma ci voleva la fuga dei genitori dalla Germania Ovest per approdare al Palladium di Dusserdolf e poi al Lido. Erano carine, condannate a vestirsi e pettinarsi alla stessa maniera, condannate a essere identiche, intercambiabili, anche se, a guardarle bene, non era così, più affilata Alice, più morbida Helen. Burt Lancaster, che non stava a guardare i dettagli, era rimasto folgorato («che coppia di gambe!») e le aveva invitate a una cosiddetta festa al George V, cosiddetta, perché continua a pag. II

«D

SCRITTORI E CIBI

LE GRANDI BATTAGLIE DELLA STORIA

CAPOLAVORI DI PIETRA

I maccheroni di Lampedusa

Villa Ottolenghi

di Filippo Maria Battaglia

di Roberto Dulio

El Alamein 1942 di Massimo Tosti

pagina 4 e 5

pagina 6

pagina 7

pagina I - liberal estate - 20 agosto 2009


Nel ’63 arriva la consacrazione internazionale con la copertina di ”Life”. In alto le ballerine con Giorgio Gaber. Sotto la copertina della hit ”La notte è piccola”. Nella pagina accanto Helen Kessler con Umberto Orsini a via Veneto

non c’erano altri ospiti: soltanto lui, il suo produttore, Arthur Hill. Erano gemelle, ma non la pensavano allo stesso modo. Ellen, che aveva deciso di starci, finì delusa dal divo (Burt Lancaster avrebbe detto poi: «E’ la prima volta che vado a letto con una statua»), Alice avrebbe declinato cortesemente.

Arrivate in Italia nel 1960, grazie a Don Lurio, che le aveva scoperte, avevano debuttato in Giardino d’Inverno di Antonello Falqui, intonando con eleganza Pollo e champagne, il massimo dell’esotismo, oltre che un enorme contributo al successivo mito delle pallide bionde. Il successo era stato subito travolgente. A parte cantare e ballare, ed essere uguali, le Kessler erano l’altra faccia della seduzione, il tipo nordico, tutto il contrario delle maggiorate che straripavano dai film e dai giornali. Pur essendo straniere, rappresentavano bene l’ottimismo italiano del boom economico: canzoncine orecchiabili, veri e

propri tormentoni, costumi molto decorosi, con le frange, come i divanetti anni Cinquanta, al massimo senza spalline, un fiocco, uno strass. Sulle calze, però, non si discuteva: nere, pesanti, caste. Avrebbero conquistato faticosamente il

ri. Ogni tanto la Rai manda in onda qualche spezzone, la sera, all’ora di cena, specialmente d’estate: ci sono le Kessler omologate dal cerone, ricce e lisce, cotonate, provviste di enormi parrucche, tunichette, sciarpe e minigonne bianche di vinile, c’è il Quartetto Cetra che fa la parodia delle canzoni, sembra preistoria, sembra tutto inventato, astratto. Invece è vero, è una pagina della via italiana al varietà, che poi sarebbe stata definita «nazionalpopolare», (con Baudo, Corrado, Mike Bongiorno) un lungo momento catalogato nell’Enciclopedia della televisione di Aldo Grasso.

La stagione magica è durata oltre dieci anni, un caso oggi rarissimo. A fare scandalo, dopo le gambe delle gemelle Kessler, arriverà l’ombelico sexy di Raffaella Carrà permesso di portare quelle di nylon, trasparenti, un paio d’anni dopo, nella terza edizione di Studio Uno perché chiesto a furor di popolo, perché ne erano anche testimonial nei siparietti di Carosello (Omsa, che gambe!) e francamente in Italia c’erano problemi più se-

pagina II - liberal estate - 20 agosto 2009

A leggerli adesso, i testi delle canzoni fanno un po’ sorridere: «La notte è piccola per noi/ troppo piccolina/ c’è poco

tempo per ballar e per cantar». O «Se stasera ci vogliamo proprio divertir/ non esiste un ballo più carino del letkiss/ felice di amare così.. ». Il team, Antonello Falqui, il coreografo Don Lurio e il garbo sexy delle gemelle funzionava, e funzionò per parecchi anni, fino a Canzonissima (1969) e al mitico Quelli belli come noi/ che sono tanti, decretando comunque la scemitudine obbligatoria di tutte le sigle televisive a seguire, da Che musica maestro a Cicale, cicale. In mezzo, in soli sei anni, una consacrazione da capogiro: una copertina di Life, un film americano, addirittura, Sodoma e Gomorra, una parentesi all’estero (La francese e l’amore di Michel Boisrond), Le bellissime gambe di Sabrina di Camillo Mastrocinque, Rocco e le sorelle di Giorgio Simonelli, Gli Invasori di Mario Bava, Canzoni, bulli e pupe di Carlo Infascelli e I complessi di Dino Risi. Alice ed Ellen vivevano di corsa. Giocavano a scam-

biarsi. Davano interviste sulle diete, sul ballo, sui “dietro le quinte”. Nel calcio, tifavano per la Germania. Erano organizzate, salutiste, controllatissime. Si pesavano tutte le mattine. Provavano per ore. Discutevano sui costumi di scena. Andavano a poche feste.

Si innamoravano, ovviamente, e altrettanto ovviamente finivano sui giornali, che avevano coniato il termine «affettuosa amicizia» per dire e non dire, dal momento che di fiori d’arancio e abiti da sposa non si parlava. Alice è stata la compagna del cantante Marcel Amont e poi di Enrico Maria Salerno, una storia lunghissima e molto seria (hanno anche inciso un 45 giri insieme), Alice, è stata, secondo gli esperti di cronache mondane, sempre sul punto di sposare l’attore Umberto Orsini, ombroso e tormentato nei Fratelli Karamazov, ma si è sempre tirata indietro. «Siamo inadatte al matrimonio» hanno ripe-


tuto in coro, come se cantassero, ma in qualche intervista è venuta fuori una briciola di rimpianto per quello che avrebbe potuto essere, per i figli che avrebbero potuto esserci, quando erano ancora giovani, tentavano di redimere uomini gay non dichiarati e ricevevano mazzi di fiori, dolci fatti in casa, formaggi e chili di deliranti lettere d’amore: «Alice, Ellen, vi voglio sposare tutte e due», oppure: «Voglio sposare una qualsiasi di voi due».

La stagione magica non poteva essere eterna: è durata oltre dieci anni, un caso oggi rarissimo. Dopo la televisione c’è stato il teatro, ci sono state le commedie musicali della premiata ditta Garinei&Giovannini (acclamatissima, Viola, violino e viola d’amore con Pippo Franco ed Enrico Maria Salerno, basata sullo sdoppiamento erotico sentimentale di una moglie agli occhi del marito e al centro di una causa per plagio), ci sono state le tourneè, qualche sceneggiato di Luciano Emmer (Il piccolo Lord, La Gardenia misteriosa, Il furto di Raffaello), ma il varietà televisivo stava di nuovo cambiando pelle per affrontare a un’altra rapida trasformazione: a fare scandalo non sarebbero più

state le chilometriche gambe delle Kessler, troppe, ma l’ombelico sexy di Raffaella Carrà. A quarant’anni, nel ’76, non solo non pensano a ritirarsi, («Pensione? Quale pensione?») ma riescono a colpire l’immaginario collettivo con un’astuta operazione di marketing. Dopo aver discusso a lungo tra loro, accettano di posare per un servizio fotografico di nudo su Playboy che viveva la sua stagione migliore e alternava le immagini erotiche a interviste e racconti di grandi scrittori. «Ero indecisa», racconta Alice a un certo punto, «ho pensato: no, lascio perdere». «Ha prevalso l’idea della sfida», racconta Ellen, «Volevamo dimostrare che una donna di quarant’anni ha ancora molto da dire, può essere sexy, può essere desiderabile».

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o stesso giorno... nacque

Dino Campana figlio devoto di incubi e poesia di Francesco Lo Dico

asce a Marradi, vicino Faenza nel 1889. Di padre nevrotico e madre sonnambula, Dino Campana fu figlio devoto di incubi e poesia. Affronta le elementari in provincia, il liceo in Piemonte, e i primi disagi psichici a quindici anni. In cerca d’ordine si iscrive a Chimica a Bologna e a Farmacia a Firenze. Tutti gli elementi continuano a sfuggirgli, e perciò comincia a fuggire lui. Visita molti paesi stranieri, e molti manicomi ogni volta che ne fa ritorno. Nel 1906 scappa in Svizzera, ripiega in Francia, finisce a Imola ricoverato. Gli danno sollievo i versi e le castagne. I genitori lo recapitano a parenti in America Latina. Il passaporto è di sola andata e Dino lo sa. Ufficialmente pazzo, preferisce il Nuovo Mondo al manicomio. Forse vagabonda in Argentina per i due anni successivi, o forse non ci met-

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Beccano, tra le polemiche un’onda femminista, della serie «il corpo è mio e lo gestisco io»: alla fine il servizio di Playboy non è volgare ed è anche meno nudo di quanto si possa immaginare, ma il passaparola crea un’attesa pazzesca e il numero registra vendite record, il picco massimo di copie.

C’è una canzone, una delle meno famose, che racconta un po’ la loro storia ed è un invito alle donne perché trovino sempre qualcosa di bello nella loro vita, perché a ogni compleanno sappiano di avere davanti «dieci magnifici anni». Per loro è stato così: le abbiamo viste allegre, ottimiste, anche quando il successo era ormai alle spalle, si sono raccontate volentieri ogni volta che i giornali le cercavano,

In cerca d’ordine si iscrive a Chimica a Bologna e a Farmacia a Firenze. Tutti gli elementi continuano a sfuggirgli, e perciò comincia a fuggire lui. Visita molti paesi stranieri, e molti manicomi ogni volta che ne fa ritorno. Gli danno sollievo i versi e le castagne

te mai piede. In primavera riappare a Marradi, lo accolgono i carabinieri. Internato a Firenze, riparte per il Belgio, finisce in prigione e ritorna a Marradi nel 1912. La sua vita è a pezzi, fioriscono i suoi Canti. Scrive La notte, I notturni e altre decine di prose liriche Nel 1913 va a Firenze e consegna a Soffici e Papini il manoscritto de Il più lungo giorno. Dino aspetta, i due non lo leggono. Torna a riprenderselo, è l’unica copia e gli dicono che è andata smarrita. Implora, s’indigna, minaccia di usare il coltello per farsi giustizia di quegli «sciacalli». Stravolto riscrive da zero, e in poche notti riporta in vita quello che il mondo gli ha strappato: i Canti orfici che pubblica a sue spese. Nel 1915 riprende a viaggiare. Lo ferma Sibilla Aleramo che da subito ama

la benissimo: «Merito della costituzione, non facciamo niente di speciale per tenerci in forma». Nel 1986 hanno scritto una casta autobiografia e si sono trasferite a Monaco di Baviera tornando in Italia, per anniversari e premi, tornando a pettinarsi nello stesso modo, a vestirsi nello stesso modo (in privato hanno smesso da un pezzo di somigliarsi in maniera tanto ossessiva), incarnando un tempo che non

Con molta discrezione, Alice ed Helen rifiutano di commentare la nuova fauna di Letterine, Veline, Meteorine che sgambetta senza aver studiato danza e senza suscitare scandalo. A settant’anni, sempre bellissime ed eleganti, vivono a Monaco di Baviera

hanno ballato un Dadaumpa celebrativo quando avevano abbondantemente superato la boa dei cinquanta, cavandose-

follemente. Lei ama di più le sue poesie e tronca presto. Campana finisce nel manicomio di Scandicci. Carlo Pariani, psichiatra, lo intervista. «Pace non cerco, guerra non sopporto, tranquillo e solo vo pel mondo in sogno, pieno di canti soffocati agogno la nebbia ed il silenzio in un gran porto», scrisse di sé. Dove non poté l’amore, poté la malattia. Una setticemia se lo portò via il primo marzo del 1932.

c’è più, un pezzo di televisione che non c’è più. Con molta discrezione, rifiutano di commentare la nuova fauna di Letterine, Veline, Meteorine che sgambetta senza aver studiato danza e senza suscitare scandalo. Le abbiamo viste nel 2006, assieme a Pippo Baudo, per festeggiare, con un pizzico di nostalgia, il settantesimo compleanno, un soffio doppio su una scenografica torta. Erano bellissime, appena un po’ segnate, un po’ meno elastiche, ma sempre bionde, sempre eleganti. Sempre in gamba. Su Internet girano ancora alcuni video dei loro balletti, uno in particolare, di un paio di minuti, che le condanna a un eterno, incancellabile Da-da-umpa-UMPA, il loro passaporto per l’immortalità.

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SCRITTORI E CIBI

Un timballo di maccheroni

PER TOMASI DI LAMPEDUSA Il piatto entra in scena a Donnafugata, quando Angelica viene presentata al principe di Salina di Filippo Maria Battaglia

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a tradizione siciliana è ipertrofica per definizione. Ogni suo cantore ne esalta le qualità eccezionali, arricchendola a dismisura di superlativi e ossimori infiniti. La tendenza è universale: si applica ad ogni aspetto della vita isolana, cultura compresa. Tuttavia, in ambito culinario le esagerazioni lasciano spazio ad una inequivocabile costatazione. È inopinabile infatti che la cucina siciliana sia tra le più antiche e prelibate d’Europa, sin dai tempi di Platone. Durante la sua permanenza a Siracusa - siamo nel IV secolo a.C. - il filosofo rimase straordinariamente impressionato dall’abbondanza e dalla ricchezza dei piatti isolani, muovendo persino lamentele di ordine morale sulla bramosia procurati da certi manicaretti. Allora, la città siciliana era un po’ la Parigi del mondo classico: un buon apprendistato garantiva un lavoro di prim’ordine nelle più rinomate città greche. Col passare dei secoli, quel patrimonio si è condensato, stratificandosi e arric-

chendosi anche grazie alle varie dominazioni subite dall’isola. E tuttavia, di tale egemonia, la letteratura si è fatta solo in parte testimone, limitandosi a registrarne indirettamente i gloriosi barbagli. Epperò, tra le eccezioni più felici all’anodina insensibilità culinaria dei più noti letterati isolani, va annoverato Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

Nel suo capolavoro, Il Gattopardo, il cibo riveste una centralità difficilmente riscontrabile in altri scrittori a lui coevi. La descrizione del timballo che irrompe sulla scena durante la cena servita a Donnafugata, quando Angelica Sedàra viene presentata alla famiglia del principe di Salina, lascia pochissimo all’immaginazione o all’intentato. Da acuta sentinella, Lampedusa registra gli odori e i sapori del piatto, ricordando come «l’oro brunito dell’involucro, la fragranza di zucchero e di cannella che ne emanava non erano che il preludio della sensazione di delizia che si sprigionava dall’interno quando il

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Da acuta sentinella, lo scrittore registra odori e sapori, ricordando come «l’oro brunito dell’involucro, la fragranza di zucchero e di cannella che ne emanava non erano che il preludio della sensazione di delizia che si sprigionava dall’interno quando il coltello squarciava la crosta» coltello squarciava la crosta: ne erompeva dapprima un vapore carico di aromi, si scorgevano poi i fegatini di pollo, gli ovetti duri, le sfilettature di prosciutto, di pollo e di tartufi impigliate nella massa untuosa, caldissima dei maccheroncini corti cui l’estratto di carne conferiva un prezioso color camoscio». La descrizione del manicaretto è forse l’unica che sfugge alla patina di fatalità e di decadenza del capolavoro lampedusiano. Per evitare ogni contagio con la ineluttabilità che innerva Il Gattopardo, il suo autore si costringe persino in una censura. «Gli ovetti

duri», evocati nel passo, non sono infatti altro che uova sottratte dal ventre della gallina uccisa.

U n a p r e l i b a t e z z a che fino a mezzo secolo fa era molto in voga sulle più ricercate tavole isolane. Lampedusa glissa sul rito sanguinolento per una ragione di opportunità «letteraria»: l’ingresso del timballo coincide infatti con quello della splendida Angelica (interpretata nel film omonimo diretto da Visconti da Claudia Cardinale). «È un pranzo, questo di Donnafugata – ha scritto Mary Taylor Simeti -, tutto di forza, di splendore, e di pia-

cere, in cui l’unico accenno alla morte viene dalle venefiche ma patetiche fantasie della povera Concetta, sconfitta nel suo amore per Tancredi dalla prorompente vitalità e bellezza di Angelica nello stesso modo in cui il timballo sconfigge l’elegante “brodaglia”che i commensali temevano di trovare». L’atmosfera che si respira in queste pagine è davvero singolare rispetto all’ombratura che domina quasi tutto il romanzo. Una felice eccezione, dunque. Per il resto, la patina di un declino ormai inevitabile finisce per contagiare anche gli aspetti più edonistici legati al cibo, o quelli solo apparentemente più inclini alla gioia. È il caso ad esempio dell’ultima grande scena culinaria del libro: il pranzo servito durante il ballo a casa Ponteleone. La narrazione di Tomasi è affidata allo sguardo, tra il nostalgico e il disgustato, del principale protagonista del romanzo, il Principe di Salina: «Aspettò un momento che i ragazzi si allontanassero, poi entrò anche lui nella sala del


Come ha raccontato il poeta Lucio Piccolo, cugino dello scrittore, il principe «adorava la cucina francese, e quando andava a Parigi, insieme agli autori delle opere che dovevamo scoprire, portava ricette elaboratissime e bustine colorate in cui erano contenute essenze dai nomi improbabili» LA RICETTA = TIMBALLO DI MACCHERONI ALLA SICILIANA

(PER 8 PERSONE) gr. 600 maccheroni gr. 300 carne di vitello gr. 400 pomodori maturi gr. 100 pecorino fresco cipolla, basilico, vino bianco secco, olio d’oliva, sale e pepe Lessate i pomodori in acqua bollente, sbucciateli e passateli al setaccio. In una padella sciogliete una noce di burro con tre cucchiai d’olio e fate cuocere una cipolla tritata fine e la carne. Quando la carne sarà pronta, innaffiatela con tre cucchiai di vino bianco; fatelo evaporare e mettete il passato di pomodori e del basilico. Aggiungete sale, pepe e cucinate a fuoco lento per un’ora; bagnando con dell’acqua calda se la salsa si restringe troppo. Cucinate i maccheroni e dopodiché riponeteli in una terrina, condendoli con una parte del sugo. Metteteli a strati in uno stampo per timballi imburrato, aggiungendo ad ogni strato del pecorino tagliato a fette, la carne tritata ed il sugo avanzato. Cuocete in forno caldo per 25 minuti. Quindi, servite.

buffet. Una lunghissima stretta tavola stava nel fondo, illuminata dai famosi dodici candelabri di vermeil che il nonno di Don Diego aveva ricevuto in dono dalla Corte di Spagna, al termine della sua ambasciata a Madrid: ritte sugli alti piedistalli di metallo rilucente, sei figure di atleti e sei di donne, alternate, reggevano aldisopra delle loro teste il fusto d’argento dorato coronato in cima dalle fiammelle di dodici candele».

D o d i c i p e z z i di prim’ordine, prosegue poco più avanti Lampedusa, al disotto dei quali «si estendeva la monotona opulenza delle tables à thè dei grandi balli: coralline le aragoste lessate vive, cerei e gommosi gli chaudfroids di vitello, di tinta acciaio le spigole immense nelle soffici salse, i tacchini che il calore dei forni aveva dorato, i pasticci di fegato grasso rosei sotto le corazze di gelatina, le beccacce disossate reclini sui tumuli di crostini ambrati, decorati delle loro stesse viscere tri-

turate, le galantine color d’aurora, dieci altre crudeli, colorate delizie. Alle estremità della tavola due monumentali zuppiere d’argento contenevano il consommé ambra bruciata e limpido». Ogni qualvolta troneggiano piatti e manicaretti, il ritratto del principe Fabrizio viene fuori in modo più accentuato e caratterizzato. La sua autorevolezza, il suo rango sociale, il suo scabroso rapporto con il tempo e con la morte, che troveranno una tragica concretazione solo nelle ultime pagine del romanzo, traggono forza dal rapporto dialettico (e di contrasto) che il nobiluomo ha nei confronti del cibo. Del resto, la rievocazione dei manicaretti presentati sulla tavola non lascia ombre sull’intenzionalità di certe descrizioni di Tomasi e sull’inevitabile accezione fatalista che colora persino i trionfi culinari di un sontuoso banchetto che dovrebbe essere propizio. Così, le aragoste non sono cotte ma «lesse vive», le bec-

cacce non sono adagiate ma «reclini» e le decorazioni sono procurate grazie alle «loro stesse viscere triturate». A solcare in modo ancora più evidente e ultimativo il distacco tra il principe e il resto degli astanti, sono poi i dessert e le bibite.

L ’ a l t e z z o s a r e a z i o n e di Don Fabrizio è forse uno dei più inconfutabili segni del suo biasimo nei confronti di ciò che lo circonda: «disprezzò la tavola delle bibite che stava sulla destra, luccicante di cristalli e di argenti, si diresse a sinistra verso quella dei dolci. Lì, immani babà sauri come il manto dei cavalli, Monte Bianchi nevosi di panna, beignets Dauphin che le mandorle screziavano di bianco e i pistacchi di verdino, collinette di profiteroles alla cioccolata, parfaits rosei, parfaits sciampagna, parafaits bigi che si sfaldavano scricchiolando quando la spatola li divideva, sviolinature in maggiore delle amarene candite, timbri aciduli degli ananas gialli, e «trionfi della gola» col verde opaco dei loro pi-

stacchi macinati, impudiche «paste delle Vergini». Di queste don Fabrizio si fece dare e, tenendole nel piatto, sembrava una profana caricatura di Sant’Agata esibente i propri seni recisi. «Come mai il Santo Uffizio, quando lo poteva, non pensò a proibire questi dolci? I trionfi della gola (la gola, peccato mortale!), le mammelle di Sant’Agata vendute dai monasteri, divorate dai festaioli! Mah!». La riprovazione del principe tocca qui il suo zenit. I dolcetti a forma di piccolo seno, confezionati in Sicilia prevalentemente dalle suore, diventano lo spunto per una delle più amare considerazioni nei confronti del rampantismo sociale di cui il principe è la prima vittima. E l’abbandono quasi voluttuoso al sapore del dolce non fa che dilatare l’amarezza di un declino sociale ormai compiuto. Ma le pagine di Lampedusa dedicate ai riti della buona tavola non si legano solo al suo capolavoro. Nei Luoghi della mia prima infanzia trova spazio, ad esempio, una struggen-

te rievocazione di una scena quotidiana di vita di campagna. Il set, stavolta, è la residenza di Santa Margherita di Belice «nella quale si passavano lunghi mesi anche d’inverno». «Mia madre – racconta Tomasi teneva a mantenere in vita la tradizione dei suoi genitori di rimanere in relazioni cordiali con i maggiorenti locali, e molti di questi pranzavano a turno da noi, e due volte alla settimana si riunivano tutti per giocare a scopone appunto nella sala da ballo». In quelle occasioni, le mogli e le figlie restavano a casa. «Ad esse però -ricorda il nobile siciliano- mia madre e mio padre andavano a far visita una volta per stagione, e da una di esse, illustre per meriti gastronomici, andavano anche talvolta a far colazione; e talvolta essa, dopo un complesso sistema di preavvisi e segnali, mandava per mezzo di un ragazzotto, che traversava di galoppo la piazza sotto il sole accecante, una immensa zuppiera colma di maccheroni di zito alla siciliana, con carne tritata, melanzane, basilico che, ricordo, era davvero una pietanza da dèi rustici e primigeni. Il ragazzotto aveva l’ordine preciso di posarla sulla tavola da pranzo, quando eravamo di già seduti, e prima di andarsene ingiungeva: “A signura raccomannu: u cascavudd”, ingiunzione forse saggia, ma che non venne mai ubbidita».

Lampedusa resterà legato a quei sapori per tutta la vita. Ma, al contempo, non si stancherà di ricercarne di nuovi. Come ha raccontato il poeta Lucio Piccolo, cugino dello scrittore, il principe «adorava la cucina francese, soprattutto i timballi, e quando andava a Parigi, insieme agli autori delle opere che dovevamo scoprire, portava ricette elaboratissime e bustine colorate in cui erano contenute essenze dai nomi improbabili». Un dettaglio isolato che solo diversi decenni dopo, con il ritrovamento dei diari poi pubblicati da Mondadori, restituiranno all’autore di quel capolavoro la dimensione europea e cosmopolita che già molto tempo prima avrebbe meritato.

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LE GRANDI BATTAGLIE Nel 1942 la guerra fu un massacro e per l’Asse un’autentica disfatta. I paracadusti italiani, costretti a svolgere un ruolo di fanteria, pagarono un prezzo altissimo in vite umane. La loro resistenza assunse contorni epici. Gli Inglesi s’inchinarono di fronte a tanto coraggio ue settimane d’inferno, dal 23 ottobre (era un venerdì), quando il maresciallo Bernard Law Montgomery dette l’ordine di attaccare, fino al 4 novembre (mercoledì), quando gli ultimi uomini si arresero. E poi una lunga agonia, riservata soltanto agli uomini della Folgore, che s’incaricarono di proteggere la ritirata di tutte le forze dell’Asse che avevano preso parte alla battaglia. El Alamein fu un massacro, e i paracadutisti italiani (costretti a svolgere un ruolo di fanteria) pagarono un prezzo altissimo in vite umane, dando prova di un eroismo che lasciò ammirati i loro nemici. Per sferrare l’offensiva, Monty aveva accorpato nel X Corpo d’armata tre Divisioni corazzate (la 1a, l’8a e la 10a con un adeguato supporto di autoblindo e artiglierie da campagna.

DELLA

EL ALAMEIN 1942

Campagne d’Africa

D

La sera del 23 ottobre 1942, quindici reggimenti britannici di artiglieria pesante aprirono il fuoco contro le truppe dell’Asse lungo un fronte esteso per 60 chilometri. Bombardieri della Desert Air Force (48) scaricarono sulle difese italo-tedesche 125 tonnellate di bombe. Lungo la direttrice di attacco, Montgomery aveva concentrato 30mila uomini (undici brigate di fanteria e cinque reggimenti corazzati), appoggiati da 320 tanks e 450 pezzi d’artiglieria. La superiorità delle forze britanniche sul terreno era schiacciante. Per non cedere definitivamente l’Africa, i Comandi dell’Asse avrebbero dovuto inviare con la massima tempestività truppe e mezzi di rinforzo. In realtà, anche i po-

Il luogo della memoria degli uomini della Folgore di Massimo Tosti

chi uomini presenti nel teatro delle operazioni erano stremati da mesi di campagna in condi-

All’inizio di novembre era chiaro che la resa sarebbe stata questione di giorni, se non di ore. Le forze alleate erano riuscite ad affondare alcune navi da carico destinate a rifornire le armate nemiche zioni difficilissime. I viveri scarseggiavano. I mezzi avevano le stesse difficoltà: scarsità di munizioni, carenza di benzina. Negli ultimi giorni della battaglia i carri furono costretti all’immobilità dalla totale man-

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canza di carburante. A più riprese, nei giorni immediatamente successivi all’attacco britannico, George Stumme (che sostituiva momentaneamente il colonnello maresciallo Rommel, comandante delle truppe dell’Asse in Africa, rientrato in Europa per ragioni di salute) e poi lo stesso Rommel (rientrato precipitosamente al fronte dopo la morte di Stumme) inviarono drammatici messaggi a Berlino per sollecitare aiuti. Lo stesso fece (rivolgendosi al ministero della guerra italiano) il generale Giuseppe De Stefanis, che comandava il XX Corpo d’Armata.

Dominava però la sfiducia. Nelle due capitali nessuno percepì con esattezza la gravità della situazione. Tutti erano convinti che le truppe in Africa avessero urgente bisogno di rifornimenti, ma non ritenevano che occorressero nuovi uo-

mini e mezzi supplementari. Gli inglesi, intanto, avanzavano. Montgomery, peraltro, non aveva motivi particolari di entusiasmo. Non s’aspettava una difesa tanto accanita. Il prezzo in vite umane e in perdita di mezzi si stava rivelando superiore al preventivato. A spingere il comando inglese a insistere contribuì in misura determinante il lavoro di spionaggio: i messaggi e le comunicazioni del nemico rivelavano lo stato di affanno e di difficoltà in cui versavano gli italiani e i tedeschi. Non c’era dubbio che valesse la pena per i soldati di Sua Maestà di sferrare l’attacco decisivo. La strategia era costante. Le artiglierie britanniche prendevano di mira un caposaldo dell’Asse e lo bombardavano in modo massiccio. Poi passavano a un obiettivo più distante. Nel frattempo, le fanterie e i carri armati avanzavano. La Folgore

STORIA

subì il primo attacco violento il giorno 24. La Task Force della 7a divisione corazzata britannica (al comando del generale John Harding) si insinuò in un varco che la portò nel settore coperto dalla Folgore. La compagnia paracadutisti del gruppo Rispoli oppose una strenua resistenza. Più o meno alla stessa ora, il 186° Fanteria (agli ordini del maggiore Giuseppe Izzo) subiva l’attacco della brigata di fanteria francese. Gli uomini della Folgore respinsero due assalti, prima che entrassero in azione anche le artiglierie che costrinsero i francesi a desistere.

Due giorni più tardi, la Folgore tornò a farsi valere. La 44a divisione di fanteria britannica (agli ordini del generale Hughes) tentò inutilmente di fiaccarne la resistenza, ma lo scontro si risolse in un disastro per gli inglesi. Il valore degli uomini della Folgore era tale che il generale Brian Horrocks, comandante del XIII Corpo d’Armata, decise di concentrare gli attacchi a nord, nei capisaldi non difesi dai paracadutisti italiani. Nel frattempo, la situazione precipitava. All’inizio di novembre era ormai chiaro a tutti che la resa sarebbe stata questione di giorni, se non di ore. Nei giorni precedenti la situazione si era fatta ogni ora più pesante e insostenibile. Le forze alleate erano riuscite ad affondare alcune navi da carico destinate a rifornire le armate dell’Asse. Il 2 novembre Rommel dette l’ordine di ritirata, convinto che non valesse la pena di sacrificare inutilmente altri uomini. Il giorno successivo giunse il contrordine da Roma e da Berlino. Il messaggio da Roma, firmato dal generale Ugo Cavallero, faceva riferimento alla volontà di Mussolini di mantenere le posizioni. Le spiegazioni fornite per giustificare l’ordine erano di carattere strategico: non c’era la possibilità, arretrando, di trovare posizioni facilmente difendibili. Hitler manifestò un identico orientamento. Ventiquattr’ore più tardi, l’ordine di ritirata fu comunque impartito. Non c’era altro da fare. Molti uomini s’ar¬resero, molti altri furono catturati. La battaglia di EI Alamein fu, in qualche modo, decisiva. Per l’VIII Armata britannica si risolse in un successo. Winston Churchill disse: «Prima di El Alamein non avevamo mai vinto. Dopo EI Alamein non abbiamo più perso». Per l’Asse fu un’autentica disfatta. Soltanto gli uomini della Folgore rimasero sulle loro posizioni. La loro resistenza assunse contorni eroici: il settanta per cento di loro fu sepolto nel deserto. Gli inglesi s’inchinarono ammirati di fronte a tanto eroismo.


CAPOLAVORI DI PIETRA a singolarità di villa Ottolenghi deriva in primo luogo dalla stravagante morfologia del sito: in un luogo difficilmente accessibile e nascosto alla vista essa, come un’enigmatica preesistenza archeologica, emerge da un corrugamento del terreno, interposta tra la geometria esatta di un vigneto e il pendio irregolare che digrada verso il lago di Garda, Un cancello pedonale lascia solo intravedere un terrazzamento in cotto, dalla forma irregolare e inafferrabile: la sua superficie è suddivisa in grandi triangoli, lievemente inclinati secondo differenti piani, ai vertici dei quali emergono rocchi cilindrici di pietra. Al centro e sul limitare dell’area, ermetici blocchi in calcestruzzo rivelano, a uno sguardo attento, la loro natura di comignoli.

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Questa sconcertante immagine architettonica è quanto può vedere di villa Ottolenghi il visitatore che raggiunga, attraverso un viottolo sterrato, la vigna affacciata sul lago, tra Bardolino e Garda. La villa, rifugio agreste per la famiglia di un avvocato di Venezia, materializza uno dei capolavori della feconda maturità dell’architetto veneziano Carlo Scarpa, autore di memorabili allestimenti museografici, come quello di Castelvecchio a Verona e di palazzo Abatellis a Palermo. Il progetto per la villa Ottolenghi, messo a punto tra il 1974 e il 1975, sarà completato solo dopo la morte dell’architetto, dovuta a un fatale incidente avvenuto nel 1978 in Giappone, un paese che lo aveva sempre affascinato. Nella villa, Scarpa sfrutta abilmente i vincoli e le limitazioni volumetriche imposti dal regolamento edilizio, coniugandoli con la volontà dei committenti di salvaguardare l’integrità del vigneto. Egli congegna pertanto un edificio apparentemente ipogeo, ma di fatto solo accostato alla scarpata che segna il limite superiore della vigna. Sprofondata nella piega del terreno, la villa si trova ad essere distaccata da un solco stretto e profondo dalla muraglia del terrapieno su cui si distende la vigna, a monte del quale si snoda il rustico ingresso alla proprietà. Quella sottile fenditura dal profilo irregolare, che si raggiunge dal sentiero tramite una piccola rampa tortuosa, disegna l’accesso alla villa, studiato in ogni particolare, come un percorso iniziatico, che inaspettatamente si dilata in due emicicli diversi, scavati nella terra, che mentre danno aria e luce alle stanze di servizio prospettanti, imprimono una ten-

BARDOLINO Rifugio agreste di un avvocato di Venezia, l’edificio è firmato da Carlo Scarpa

Villa Ottolenghi come un ipogeo di Roberto Dulio

trico e alla tradizionale suddivisione dei fronti. La villa infatti non ha facciate e neanche veri muri di contenimento. Il labile limite tra ambienti interni e luoghi esterni è scheggiato in setti murari rarefatti che, intercalati dagli infissi vetrati, talvolta si prolungano all’esterno, abbandonandosi al rigoglioso assalto della vegetazione. Il rivestimento in intonaco ruvido facilita l’aderenza delle piante rampicanti e contribuisce ad accelerare quel carattere di rovina con cui l’architetto escogita l’alleanza con il trascorrere del tempo. Anche una vasca d’acqua trapezoidale, tagliata da un cristallo, istituisce la liquida continuità tra il soggiorno e il giardino, nel quale un bacino più grande è collegato ad essa da un sottile rigagnolo.

L’irregolarità geometrica dell’impianto è triangolata da nove possenti colonne, sostanziate da rocchi sottili accatastati: diversi per grana, superficie e colore essi incardinano in con-

Il progetto messo a punto tra il ’74 e il ’75 sarà completato solo dopo la morte dell’architetto, dovuta a un fatale incidente avvenuto nel ’78 in Giappone

Villa Ottolenghi immersa nel verde sione avventurosa e segreta al percorso. Le sue dimensioni anguste, il tracciato tortuoso e la sua umbratilità uguagliano questo passaggio a una calle veneziana e sarà proprio con questo nome che ad essa si riferirà Scarpa negli appunti e nei progetti e con cui essa entrerà nel lessico famigliare degli abitanti. La calle immette direttamente in cucina, oppure, dopo una brusca svolta, condu-

Costruita in un luogo difficilmente accessibile, la dimora, come un misterioso resto archeologico, emerge da un corrugamento del terreno ce a una minuscola radura sulla quale affacciano le vetrate del soggiorno. Le direttrici sghembe che guidano la conformazione spaziale dell’e-

dificio interpretano la morfologia irregolare del sito, plasmando un’architettura polimorfica e inafferrabile, che si sottrae al controllo stereome-

tinuità gli spazi che in pianta appaiono frammentati e dispersi. Non è certo la funzione strutturale di questi cilindri che, tutti diversi per superficie e colore, sostengono le travi in cemento armato della copertura a giustificarne le dimensioni possenti. In realtà questi cilindri policromi e polimaterici, oltre a governare la configurazione geometrica del tetto, si attestano come segnali ordinatori della cavea irregolare che configura lo spazio domestico dell’abitazione. In esso Scarpa opera una millimetrica regia degli affacci, dei percorsi fisici, dei traguardi visivi, delle relazioni tra i vari ambiti interni, oltre che delle visuali sul panorama, nel quale sorprendentemente privilegia la vigna rispetto al lago. Anche la sconcertante rifinitura del soffitto a stucco lucido nero si rivela un sapiente dispositivo finalizzato a dirottare gli sguardi verso l’esterno, oltre che a dissolvere definitivamente la geometria dello spazio interno, che viene percepito con confini vaporosi e indiziari, analoghi a quelli che la natura pone alle radure dei boschi, alle anse dei fiumi e alle calette marine.

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ORIZZONTALI 1 Passarla xxxxxx n 7 Guanciali di piume (arc.) n 15 Combriccola n 21 Romanzo di Georges Ohnet n 24 Dea della Discordia n 25 n Composizione da camera n 26 L’Achille gerarca fascista n 27 ...tiranni / che dièr nel sangue e nell’xxxx di piglio (Inferno XII) n 28 La Xxx dell’Amore di Woody Allen n 29 Scrisse La morte a Venezia n 30 Xxxxx McQueen, attore am. n 31 Antenato n 33 The Xxx of Innocence di Edith Wharton n 34 Xx Harris, attore (“La macchia umana”) n 35 Il xxxx delle Vanità di Tom Wolfe n 36 Varietà di querce n 37 Lo era Frine n 39 Romanziere giapponese, premio Nobel n 40 Scoppi d’ilarità n 42 Tracce n 43 Costellazione in cui spicca Sirio n 45 Romanzo storico di Gore Vidal n 47 La xxxx di Dostojevskij (1877) n 48 Un programma satirico della TV ital. ideato da Ghezzi n 49 Ciascuno a suo xxxx di Pirandello n 50 La Xxxxxx film di Daniel Schmidt (1974) n 52 La vocale “verde” e la “nera” in Rimbaud n 53 Difficili n 55 Xxxxx Svevo n 57 Salita n 58 Autore di Pesci rossi (iniz.) n 59 Iniz. del poeta inglese Rossetti (1828-82) n 61 La “A” di RAF n 62 Archeologo ted. famoso per gli scavi di Samarra n 63 Xxxx Vergani n 64 Lega Naz. Calcio n 65 Concubina di Abramo n 67 Film di A. DovÏenko (1928) n 69 Pegno n 70 Marca di auto ted. 71 Opera di Claudio Monteverdi n 75 Portati in palmo di mano n 76 Portare alle stelle n 77 Rigogoli

VERTICALI 1 Schubert ne compose mille e più n 2 Epiteto dato a Umberto II di Savoia n 3 La xxxx che venne dal freeddo n 4 En tout xxx = in ogni evenienza n 5 Is, ea, xx n 6 Giuseppe Xxxxxx, scrittore napoletano (1628-79) autore di Guerra tra i vivi e i morti 7 Romanzo di Nabokov n 8 Colpevole n 9 499 n 10 Fa parte di Venezia n 11 Xxxxx ego n 12 Vanno dallo sterno alla scapola n 13 Museo delle Xxxx n 14 Ciascuno dei filamenti del fungo n 15 Pesante n 16 Iniz. del “Doganiere”, pittore naïf n 17 Dopo tre xxx i fascisti gridavano Alalà n 18 Il Fiume di San Pietroburgo n 19 Il monaco che diede avvio alla genetica n 20 L’accordo / delle xxxxx cicale... (D’Annunzio, La pioggia nel pineto) n 22 Frassino da manna n 23 Appare insieme con le Streghe nel Macbeth n 29 ...e dar xxxxxx al ventesimo canto / della prima canzon n 30 ...e non torceva gli occhi / dalla xxxxxxxx lor ch’era non buona (Inf. XXI) n 32 Reso privo n 35 Personaggio delle fiabe n 36 Xxx-Magnon n 37 Brian Xxx, musicista ingl. n 38 Xxxx Magna n 41 Nota n 42 Danza popolare spagnola n 44Much Xxx About Nothing n 46 Rovigo n 48 Si ricava dal latte n 49 Xxxxxx Brando n 50 Dio degli orti n 51 Leghe metalliche n 52 Nicholas Xxxxxx, autore ingl, di “moralità” (1505-56) n 54 Si riempiono di giorno in giorno n 56 Stamboul Xxxxx di Graham Greene, ribattezzato Orient Express n 57 Xxxx De Luca, aut. di Il giorno prima della felicità n 60 Moneta sudafricana n 62 South Xxxx di R. L. Stevenson (“Mari del Sud) n 63 Masnade n 64 Il Xxxx della Steppa di H. Hesse n 66 Casa discografica n 68 Sindacato Naz. Ostetriche n 69 ...fanno in xxx di sé lunga riga (Inf. V) n 70 Dio egiziano venerato in un toro n 72 Iniz. del pittore Tamburi n 73 Napoli n 74 Xx non è guari

CRUCIVERBA

di Pier Francesco Paolini

QUIZ LETTERARIO

Gi scavi di Samarra

CHI È L’AUTORE DI QUESTO QUADRO? .......................................... (1470)

DI QUALE ROMANZO DEL 1877 È QUESTO INCIPIT? Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo. Tutto era sossopra in casa degli Oblònskije. La moglie era venuta a sapere che il marito aveva avuto un legame con una governante francese ch’era stata in casa loro, e aveva dichiarato al marito che non poteva vivere con lui nella stessa casa. Questa situazione durava già da tre giorni ed era sentita tormentosamente e dagli stessi coniugi, e da tutti i membri della famiglia, e dai familiari. Tutti i membri della famiglia e i familiari sentivano che la loro coabitazione non aveva senso e che le persone incontratesi per caso in una locanda erano più unite fra loro che non essi, membri della famiglia e familiari degli Oblònskije. La moglie non usciva dalle sue stanze; il marito non era in casa da tre giorni; i bimbi correvano per tutta la casa come sperduti; la signorina inglese s’era bisticciata con la dispensiera e aveva scritto un biglietto a una amica, chiedendole di cercarle un nuovo posto; il cuoco se n’era andato via già il giorno prima durante il pranzo; la cuoca della servitù e il cocchiere s’erano licenziati. Il terzo giorno dopo il litigio il principe Stepàn Arkàdjeviã Oblònskij - Stiva, come lo chiamavano in società - all’ora solita, cioè alle otto di mattina, si svegliò non nella camera di sua moglie, ma nel proprio studio, sul divano di marocchino. Egli voltò il suo viso grasso e curato sulle molle del divano, come desiderando di riaddormentarsi di nuovo per un pezzo, abbracciò stretto il cuscino dall’altra parte e si strinse ad esso con la guancia; ma a un tratto saltò su, sedette sul divano e aprì gli occhi. «Sì. Sì, com’è stato? – pensava egli, ricordandosi un sogno. – Sì, com’è stato? Sì! Alàbin dava un pranzo a Darmstadt...

I

L’AUTORE DEL QUADRO DI IERI È: Oskar Kokoschka, “Dresden-Neustadt (IV)”, (1922)

Il cruciverba di ieri

LA SOLUZIONE DI IERI È: Jules Verne,“Il giro del mondo in ottanta giorni”(1873)

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inserto a cura di ROSSELLA FABIANI


mondo

20 agosto 2009 • pagina 17

Brasile. Cosa c’è dietro lo stallo sull’estradizione per il terrorista che ha vissuto per decenni in Francia protetto dalla “dottrina Mitterrand”

Cesare Battisti, chi era costui?

Sette mesi fa, Frattini annunciava «iniziative forti». Da allora, tutto tace di Valentina Sisti l ministro della Giustizia Angelino Alfano telefonerà nelle prossime ore al ministro della Giustizia brasiliano Tarso Genro per la concessione dello status di rifugiato politico a Cesare Battisti». Così una nota della Farnesina, a firma di Franco Frattini, preannunciava iniziative forti e tempestive appena appresa l’incredibile notizia, lo scorso 14 gennaio. Sono passati sette mesi, e quella telefonata, a quanto risulta da fonti del ministero della Giustizia, ancora non c’è stata e tutto lascia presupporre che mai ci sarà. Sul caso Battisti tutto tace. Come vi fosse un interesse inconfessabile a livelli molto alti del nostro governo (che sembra aver contagiato i principali giornali vicini alla maggioranza, solitamente durissimi con gli ex terroristi) a lasciar sbollire la vicenda. In Brasile avrebbero capito l’antifona e l’imbarazzatissimo Tribunale supremo, investito della vicenda, potrebbe utilizzare proprio questi giorni ferragostani per far passare sotto silenzio la sentenza che, se confermasse lo status di rifugiato, aprirebbe definitivamente le porte del carcere per Battisti.

(l’altra era Cristiana Muscardini, anche lei di An) la presenza di soli quattro eurodeputati italiani: Mario Mauro (unico forzista) Iles Braghetto (dell’Udc), Mario Borghezio (della Lega) e Vittorio Prodi, unico rappresentante dell’opposizione. Gli altri, a quanto pare, avevano l’impellente problema di non perdere il volo low cost già prenotato per l’Italia, a testimonianza di quanto importasse al Pdl della mozione che pure aveva proposto.

«I

Un criminale comune, va ricordato, convertitosi in carcere alla lotta armata, condannato a due ergastoli per altrettanti omicidi, resosi latitante prima della sentenza, fuggendo prima in Francia, poi, una volta caduta la “dottrina Mitterand”, in Brasile, potendo contare su complicità ad alti livelli, anche grazie a frequentazioni legate alla nuova attività di scrittore, intrapresa nel frattempo con un certo successo, in Francia. La concessione dello status di rifugiato grava come responsabilità – almeno formalmente – sul solo ministro della Giustizia brasiliano, trattandosi di un atto monocratico, individuale, che per di più Genro ha assunto contro il parere dell’apposita commissione pronunciatasi negativamente a maggioranza (tre contro due). Si capisce quindi perché, a

Sembra che il colloquio con Lula durante la luna di miele a Copacabana di Sarkozy (con Carla Bruni) abbia avuto come argomento principale, forse unico, la “causa” del latitante caldo, forse prima di sentire il presidente del Consiglio, Frattini, in quella nota di sette mesi fa, ipotizzasse un’iniziativa proprio del nostro Guardasigilli, trattandosi di protestare contro un atto del suo collega brasiliano. Ora, per capire che cosa può aver indotto, repentinamente, Alfano e Frattini ad abbassare i toni, occorre ripercorrere, a ritroso, alcuni passaggi cruciali.

Come non ricordare, tanto per iniziare, l’ultima iniziativa “forte” di Berlusconi nei confronti di Lula, che risale all’estate scorsa, quando, all’incontro col presidente brasiliano in visita a Roma, esibì i suoi gioielli Dida, Kakà, Ronaldinho, Emerson e Pato come per sancire un’amicizia che sarebbe stata in grado, in seguito, di reggere anche al caso Battisti. Sul quale il Cavaliere, in realtà, ha sempre ostentato distacco, senza mai intervenire in prima persona, con la sola eccezione del 30 gennaio, quando – come a stemperare i toni, dopo due settimane di polemiche – si af-

frettava ad auspicare, anche come premier ospitante del G8 allargato a 14, che la vicenda «non danneggi gli eccellenti rapporti internazionali» fra Italia e Brasile. Come a dire: siamo tenuti a fare la faccia feroce, ma mica facciamo sul serio. C’è chi allude al ruolo strategico che il Brasile ha conquistato nella partita energetica mondiale sui biocarburanti, grazie alle riconversioni delle piantagioni di canna da zucchero. Ma forse c’è dell’altro a spiegare la prudenza di Berlusconi. Più che il Brasile poté la Francia, più dei governanti poterono le consorti. Basti andare al 22 dicembre scorso, quando il presidente francese Nicolas Sarkozy si concesse una luna di miele in Brasile con Carla Bruni, a Copacabana (guarda caso proprio lì era stato scoperto e arrestato il latitante Battisti) ed ebbe un incontro con Lula. Pare che il colloquio, assolutamente fuori protocollo, abbia avuto come argomento principale, forse unico, la “causa”di Cesare Battisti, che Carla Bruni sostiene

col massimo impegno, essendo in stretti rapporti di amicizia con la scrittrice Fred Vargas, nume tutelare di Battisti in versione scrittore. E come non mettere in relazione quel viaggio con la temeraria concessione dello status di rifugiato, solo 20 giorni dopo? Non è difficile allora ipotizzare che se le pressioni della signora Sarkozy sono state in grado di intenerire Lula, non devono aver faticato ad avere lo stesso effetto su Berlusconi, così sensibile a certe debolezze che possono condizionare un politico. E, facendosi guidare dal principio andreottiano del “pensar male”, non è difficile immaginare neppure che sia stato proprio Berlusconi a indurre i ministri, e forse anche i suoi giornali, ad andarci cauti.

Nel Pdl solo gente di An ha continuato a prodigarsi, Roberta Angelilli riuscì a portare il caso davanti all’aula di Strasburgo, ma la mozione dell’Europarlamento a sostegno dell’estradizione registrò, oltre a quella delle due proponenti

Sta di fatto che è rimasto il solo Giorgio Napolitano a dar voce all’indignazione. Mettendo in gioco l’antica amicizia con Lula, risalente agli anni in cui era responsabile esteri del Pci (e il presidente brasiliano carismatico leader sindacale). Esprimendogli, con una lettera ufficiale, a pochi giorni dallo scoppio del caso «profondo stupore e rammarico». Spingendo Frattini ad agire e ottenendo il significativo risultato di un nuovo pronunciamento della Corte Suprema brasiliana sull’estradizione, che sembrava precluso dallo status di rifugiato concesso. Ma la questione era e resta politica. Il verdetto della Corte Suprema, atteso per aprile, poi per maggio, poi rinviato con l’evidente intento di non influenzare i lavori del G14 in Italia, potrebbe arrivare proprio in questi giorni di distrazione estiva, per nascondere l’imbarazzo degli stessi giudici, divisi fra le ragioni della politica e quelle del diritto. Alla cena offerta dal Quirinale ai 14 grandi, a inizio luglio, Napolitano e Lula si sono appartati per qualche minuto, per parlare proprio del caso Battisti. L’indiscrezione, non smentita, è stata ufficiosamente confermata dal Quirinale. In via Arenula, sede del ministero della Giustizia, sono convinti che il ricorso, sul piano giuridico, sia inappuntabile. Sono stati inseriti infatti solo reati di criminalità comune commessi da Battisti, proprio per prevenire la tesi del perseguitato politico, e il cumulo delle pene che essi comportano non arriva all’ergastolo, come a dire che – se torna – sarà trattato con clemenza. Ma, in tutta evidenza, il caso è un vero e proprio intrigo politico internazionale. Nel quale solo Napolitano ha gettato il cuore, e il ruolo istituzionale, oltre l’ostacolo.


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pagina 18 • 20 agosto 2009

Iran. La Francia ha bisogno della mediazione siriana per il caso-Reiss intento ufficiale della visita del presidente siriano, Bashar el-Assad, ieri a Teheran era di congratularsi con il suo omologo iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, per la vittoria elettorale del 12 giugno. L’incontro, come ha ribadito più volte la stampa israeliana, era stato fissato per rinforzare la partnership politica e militare fra i due Paesi. Del resto è facile pensare che il governo di Damasco – sdoganato sul piano internazionale da poco più di un anno, grazie al sostegno francese e rientrato a pieno titolo nel salotto della diplomazia – abbia maggiori possibilità per mediare con il regime degli Ayatollah, rispetto a qualunque Paese occidentale, soprattutto ora che gli attriti con l’Iran si sono intensificati. In questo senso, il presidente francese Sarkozy ha espresso il suo personale ringraziamento per gli sforzi compiuti da Assad in merito alla vicenda della 24enne francese, Clotilde Reiss, arrestata dalle autorità iraniane all’inizio di luglio, insieme all’impiegata dell’ambasciata, la franco-iraniana Nazak Afshar, con l’accusa di spionaggio. A onor del vero, non è ancora chiaro come si sia sviluppato il caso, soprattutto negli ultimi giorni. La stampa di Teheran ha reso noto il versamento di una cauzione di circa 300mila dollari da parte della rappresentanza diplomatica di Parigi. Da quest’ultima però non è giunta nessuna conferma. L’ipotesi, del resto, risulterebbe plausibile se si te-

L’

Assad a Teheran (per conto di Sarkò) di Antonio Picasso

nali compaiano al banco degli imputati di un qualsiasi tribunale di Teheran – e di conseguenza subiscano un processo sommario – richiede la preziosa mediazione siriana. Damasco, da parte sua, si trova vin-

Il presidente siriano vola a congratularsi con Ahmadinejad per la vittoria elettorale. E per sfruttare una ghiotta opportunità… nesse conto che in Iran il rilascio previe garanzie monetarie è una prassi consolidata.

A prescindere da questo però, quel che sta a cuore al governo francese è che le autorità iraniane facciano cadere tutte le accuse alla Reiss e Afshar. Le due infatti sono sì fuori dal carcere, ma la magistratura di Teheran ha vietato loro di uscire dal Paese finché non verrà celebrato il processo. L’obiettivo dell’Eliseo di evitare che due sue connazio-

colata a questa richiesta. Se l’isolamento diplomatico in cui versava la Siria si è rotto è merito di Sarkozy. Fino allo scorso anno, il regime Baath figurava nella lista nera dei cattivi. Secondo la Dottrina Bush, era un cardine dell’“Asse del male”, un finanziatore del terrorismo e nutriva mire bellicistiche non dissimili da quelle iraniane. Da qui l’ostracismo e l’impossibilità di sostenere un confronto. L’inversione di rotta avvenne proprio a metà del 2008. L’Ammini-

Continua la censura, l’opposizione inizia a compattarsi

Ma l’Onda non si ferma Prosegue la repressione a Teheran. Questa volta a farne le spese è stato il quotidiano Etemad-e Melli, l’organo stampa di Mehdi Karroubi, il candidato riformista giunto terzo alle presidenziali del 12 giugno in Iran e sceso anch’egli in piazza per denunciarne i brogli. L’iniziativa di chiudere la testata è stata presa all’inizio di questa settimana. In realtà, la Procura di Teheran ha smentito che Etemad-e Melli sia stato sottoposto a un regime di censura tanto rigido. Ma si tratta di una dichiarazione è unicamente di facciata. Che il quotidiano rischiasse di essere messo sotto silenzio era nell’aria da qualche settimana. A luglio il sito personale di Karroubi era stato bloccato e molti dei suoi collaboratori messi in prigio-

ne. Il punto di rottura è stato raggiunto domenica però, dopo la pubblicazione di una lettera di Karroubi sulle pagine di Etemad-e Melli che denunciava abusi sessuali perpetrati in prigione sui manifestanti arrestati durante le proteste post-elettorali. La repressione però sembra non l’evoluzione sempre più sistematica che sta assumendo il fronte dissidente. Ieri l’ex presidente Khatami e lo stesso Karroubi hanno annunciato il loro ingresso nel Consiglio centrale del “Cammino verde della speranza”, il movimento lanciato da Mousavi. Segno che l’opposizione sta finalmente facendo fronte comune per gestire le proteste di piazza e contrastare il governo. Sebbene orfana di Etemad-e Melli, l’Onda Verde prosegue. (a.p.)

strazione Bush era nella fase conclusiva del suo mandato. Mentre quella di Sarkozy stava raggiungendo lo zenit della sua spregiudicatezza; merito anche della presidenza di turno Ue spettante allora alla Francia. Ne emerse quindi un inatteso invito che il presidente francese fece ad Assad di partecipare al primo summit Euro-Mediterraneo che si tenne a Parigi a metà luglio dello scorso anno. Il leader siriano accettò e, cosa ancor più sorprendente, prese anche parte insieme agli altri capi di Stato e di Governo alle celebrazioni del 14 luglio sugli Champs-Elysées. Fu un grande successo per Sarkozy e l’inizio di una nuova pagina per la Siria.

Nell’arco di un anno, il presidente siriano ha dimostrato più volte di saper sfruttare questa opportunità che gli è stata offerta. Ha ripreso i contatti con Israele, con l’Iraq – è dell’ultimo martedì la visita di al-Maliki a Damasco – ma soprattutto si è impegnato per la pacificazione del Libano. Ciononostante, non gli si era mai presentata un’opportunità per ricambiare il favore a Parigi. La Siria è conscia del fatto che se riuscisse a riportare in Francia le due straniere arrestate da una parte risolverebbe il debito aperto con Sarkozy, dall’altra guadagnerebbe in termini di credibilità nei difficili rapporti che tutta la comunità internazionale ha con l’Iran. Assad, in questo senso, è il solo che vanta un canale preferenziale di dialogo con gli Ayatollah. Ne potrebbe emergere uno spazio di manovra per una concreta risoluzione della crisi nucleare. Facendo così, il rais siriano riuscirebbe in un’operazione diplomatica mai tentata finora. Tuttavia, è più plausibile che Assad preferisca non toccare argomenti tanto delicati che potrebbero suggestionare l’alleato iraniano. Meglio limitarsi alla questione delle due straniere sotto processo. Com’è tipico del regime Baath, sia oggi sia in passato quando al potere c’era la “volpe” Hafez el-Assad, l’obiettivo è tenersi aperte tutte le porte: a Parigi, ma anche a Teheran, senza far torto a nessuno. Ma anche senza prendere mai una posizione netta.


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20 agosto 2009 • pagina 19

Sondaggio: la Cdu-Csu avrebbe il 15% di vantaggio sulla Spd

Era il re dei retroscena del giornalismo americano

Quasi la metà dei tedeschi non conosce la data delle elezioni

Morto Bob Novak il “principe delle tenebre” di Washington

BERLINO. Tra meno di un mese e mezzo la Germania va al voto per eleggere il nuovo cancelliere, ma metà dei tedeschi ignora che le elezioni si svolgeranno il 27 settembre. Lo rivela un sondaggio del settimanale Stern, secondo il quale il 48 per cento degli interrogati non ha saputo indicare la data corretta, nota invece al 52 per cento del campione. I peggio informati risultano i giovani e gli studenti universitari, tre quarti dei quali (72%) hanno spiegato di non conoscere la data del voto, ben presente invece al 64 per cento dei pensionati. Una delle cause di questa ignoranza è probabilmente dovuta al fatto che la campagna elettorale in corso, come sottolineato da tutta la stampa, manca di attrattiva e si svolge nel disinteresse pressoché generale. Dal sondaggio emerge infatti che l’84 per cento dell’elettorato si dichiara totalmente o parzialmente disinteressato al dibattito politico in corso. Appena l’8 per cento giudica invece «interessante» la campagna elettorale, con l’1 per cento che la giudica «estremamente avvincente».

WASHINGTON. Amava autodefinirsi, con una buona dose di auto-ironia, The Prince of Darkness, “il principe delle tenebre”. Un soprannome diventato anche il titolo della sua autobiografia. Bob Novak, l’editorialista e commentatore conservatore che per mezzo secolo è stato uno dei re del “retroscena” nella beltway della politica americana, è morto nella notte tra martedì e mercoledì - a 78 anni - dopo aver combattuto per un anno con un tumore al cervello che gli era stato diagnosticato la scorsa estate. Da sempre repubblicano, e con ottimi contatti e fonti nella destra, Novak aveva però conosciuto una stagione particolare negli anni dell’ultima ammini-

Le posizioni dei partiti rimangono nel frattempo praticamente immutate, con la

Cina, lager anche per i web-dipendenti Sono almeno 400 i centri per la “riabilitazione” di Maurizio Stefanini

PECHINO. Deng Senshan, 15 anni: ucciso per guarirlo dalla mania di Internet. Pu Liang, 14 anni: in ospedale con un’emorragia all’occhio destro, le ossa del torace rotte e i reni a pezzi... Già si sapeva che in Cina esistono i campi di rieducazione: i famigerati laogai, dove a seconda delle differenti stime tra i 250mila e gli 8 milioni di persone sono costretti a lavori forzati che rappresentano un potente lubrificante per il boom economico cinese (almeno il 25% del tè cinese è prodotto dai detenuti e nel 1999 saltò fuori che anche l’Adidas si faceva fare i palloni nei laogai). Già si sapeva che la Cina è «la prima prigione per internauti del mondo», secondo la definizione di Reporter senza Frontiere: 49 cyberdissidenti detenuti, 40mila dipendenti dello Stato e del Partito impiegati nel controllo e nella censura della Rete, 3000 siti resi inaccessibili nel Paese nel solo 2008 e tra le 400 e le 500 parole “proibite” che saltano nei motori di ricerca. Già si sapeva che in Cina tra il 40% di giovani in una popolazione di 300 milioni di internauti, la prima nel mondo, ce ne sarebbe un 15% che presenterebbe gravi sintomi di dipendenza dalla Rete: una massa di ben 18 milioni di webalcolici, secondo il termine inventato dal mondo anglo-sassone. Anche se non si sa quanto il dato possa essere sovrastimato: da un lato proprio per il timore del regime sulla Rete come terreno propizio all’opposizione; dall’altro per le fisime di genitori che il mito efficientista ha caricato di ansia, a proposito delle distrazioni che possano compromettere il rendimento scolastico dei figli.

sici e di vita comunitaria. Ma Deng Senshan e Pu Liang hanno ricevuto inoltre il supplemento di pestaggi selvaggi, in seguito ai quali Deng è appunto morto, lo scorso 2 agosto.

Tredici sospetti sono stati dunque arrestati e il campo, risultato illegale, è stato chiuso. Ma due giorni dopo la morte di Deng Senshan sono stati invece i genitori di Pu Liang a consegnare il figlio a un altro centro, versando una retta pari a 5000 yuan, circa 500 euro: in un Paese dove il salario mensile medio equivale a circa 170 euro. «Mio figlio era diventato dipendente dai giochi online e frequentava gli Internet Café: alla fine del trimestre ha detto che non voleva più frequentare la scuola», ha spiegato la madre. In capo a neanche due settimane, se lo sono ritrovati all’ospedale, a conferma di quanto non si fosse trattato di un caso isolato, ma di un fenomeno drammaticamente esteso. «Mio figlio è stato brutalmente picchiato per tre volte dal consulente del centro e da altri pazienti», ha denunciato il padre del ragazzo. Dopo la notizia il centro di rieducazione è stato ovviamente chiuso e tutti i pazienti sono stati rispediti a casa, mentre l’autopsia dimostrava intanto che Deng Senshan era morto a causa delle percosse. Il caso Deng Senshan è avvenuto nel Guangxi: regione meridionale al confine col Vietnam. Il caso Pu Liang è invece del Sichuan, al centro del Paese. Secondo i dati della China Youth Association Internet, sarebbero oltre 400 i centri che in Cina offrono trattamenti di riabilitazione ai webalcolici. Ma solo pochissimi tra di loro si sarebbero registrati presso il Ministero della Sanità, come previsto dalla legge: è la stessa stampa cinese ormai a denunciarlo. Lo stesso governo sembra avere ormai qualche ripensamento. Dopo che a novembre Internet era stata aggiunta alla lista dei “disordini clinici”, assieme alle dipendenze da alcol e giochi, a luglio è stato invece proibito l’elettroshock come trattamento alla web dipendenza, dopo che uno psichiatra lo aveva praticato a oltre 3000 adolescenti.

Dopo l’omicidio di un quindicenne , un altro ragazzo picchiato a sangue da chi doveva “guarirlo” da Internet

Cdu/Csu di Angela Merkel al 37 per cento (-1%) ed il partito socialdemocratico del suo sfidante Frank-Walter Steinmeier distanziato di 15 punti con il 22 per cento (+1%). I liberali di Guido Westerwelle sono sempre fermi al 13 per cento, con i Verdi al 12 per cento e la Linke di Oskar Lafontaine all’11 per cento. La stragrande maggioranza dei tedeschi (79%) si dice convinta che nelle cinque settimane prima del voto la Spd non riuscirà a colmare il distacco che la separa dalla Cdu/Csu. A sperare che Steinmeier riesca nell’impresa di agguantare la Merkel, come fece Gerhard Schroeder nel 2005, è meno di un elettore socialdemocratico su tre (32%).

Laogai, repressione di Internet, cyber dipendenza e genitori troppo esigenti: tutto quanto ha fatto corto circuito nel dramma ora ufficialmente ammesso dall’Agenzia Nuova Cina. Il fenomeno dei campi di rieducazione spesso gestiti da ex-militari e ex-poliziotti già impiegati nei laogai veri, e che con metodi appunto da laogai cercano di “guarire”i giovani webalcolici affidati loro dalle stesse famiglie. In teoria, dovrebbe bastare un severo regime di esercizi fi-

strazione repubblicana, grazie alla sua amicizia con Karl Rove, “l’architetto”della doppia elezione alla Casa Bianca di George W. Bush. «Io e Karl siamo diventati amici sin da quando lui ha cominciato ad organizzare il cammino di Bush verso la presidenza già nel 1995» ,ha scritto Novak nella sua autobiografia. «Non ho mai avuto una fonte cosi’ buona all’interno della Casa Bianca» aggiungeva Novak, troppo navigato da non sapere che «Rove naturalmente pensava che fossi utile ai suoi scopi». Ma, concludeva con un’immagine che illustra bene il segreto del giornalismo investigativo americano: «una tale relazione simbiotica, fondata sul mutuo interesse, è la regola del giornalismo ad alto livello a Washington».

Per quanto «conservatore vero, cresciuto nei valori di un padre che odiava Franklin Delano Roosvelt», come scrive David Broder in un ricordo del collega sul Washington Post, Novak, che non esitò a dichiarare la sua contrarietà ai conflitti in Iraq del 1990 e del 2003, non fu sempre schierato con il Gop. «Forse lavoro con la stessa idelogia delle persone su cui scrivo, ma non sono della loro squadra» disse una volta nel 1997, ricorda un altro collega del Post, Howard Kurtz.


cultura

pagina 20 • 20 agosto 2009

La mostra. Al Palazzo Liceo Saracco di Acqui Terme, fino alla fine di agosto, una grande esposizione ripercorre l’opera di un artista vulcanico e corrosivo

Il Maccari Selvaggio Omaggio (a colori) per un maestro solitario che ha raccontato con ironia e con libertà le mille contraddizioni del Novecento di Mario Bernardi Guardi aestro, ma lei è anarchico o conservatore? anarchico, «Sono quindi, oggi, monarchico; rivoluzionario, quindi, oggi, conservatore». Maestro, ma lei è mai stato fascista sul serio? «Eccome! Ero un fascista sfegatato, dunque un antifascista. L’estremismo è il verme nella mela: mi sembra che l’abbia detto Lenin…». A proposito di fascismo: e se tornasse? «Accetterei un nuovo PNF che mi facesse segretario politico». Mi sembra che anche Longanesi abbia dato una risposta del genere. Mi dica un’altra cosa, Maestro, lei ha fatto la Resistenza? «I veri fascisti hanno fatto la Resistenza». Adesso, spari l’ultima! «Sul fascismo? Poca saggia amministrazione, molto spettacolo. Una speranza ammazzata dai funzionari. Sa che cosa scrivevamo sul Selvaggio? “Noi del GUF diciamo AUF!”. Sull’antifascismo? Peccato che sia morto il mio grande amico Flaiano! Avremmo potuto ridere tanto insieme!».

M

dore di fondo, a quella sincerità graffiante e spiazzante, armata e disarmata, che era il suo tratto più vero. E che ritrovo nel saggio che con complice eleganza Marco Vallora ha scritto in occasione della Mostra I Maccari di Maccari, da lui curata, e aperta fino a fine mese presso il Palazzo Liceo Saracco

nere per sé o destinare agli amici più veri e fidati: «Opere mirate, dunque, e scelte, che gli funzionavano da archivio mobile, nomade, delegato». Evviva. Evviva quest’artista che creò e si divertì. Piccolo e nero, con due occhietti che ti inchiodavano, “fece” il Novecento, illustrandolo con un segno in-

di Acqui Terme (Catalogo Mazzotta, pp.448, euro 40).

Dagli anni della giovanile militanza fascista, ricca di assalti e bastonate, al disincanto dell’età matura: ma sempre dalla parte dei ribelli con una grande passione per l’anticonformismo

Sembrava ci godesse Maccari, quella sera di ventisette anni fa, a darmi risposte graffianti, ambigue, paradossali. Grazie ai buoni uffici del suo stampatore, Nemo Galleni, in una serata in cui veniva giù un’iradiddio di pioggia, ero riuscito ad approdare alla sua casa-laboratorio del Cinquale in Versilia. Sapeva, il Nano di Strapaese, che venivo a intervistarlo per conto di Storia Illustrata, dunque che ero un «rompicoglioni di giornalista». Ma sapeva anche che insegnavo lettere al liceo: ed è per questo che avrebbe conversato volentieri con me, visto che era figlio di un docente di latino e greco, il professor Latino Maccari, da cui aveva imparato un sacco di cose (ad esempio, a detestare Pinocchio. «Mio padre l’odiava? E anche a me non è mai piaciuto. Per rispetto a babbo. Mia madre andava a messa? Ed anch’io ci andavo. Per rispetto a mamma». Davvero, un anarchico- monarchico…). Sì, ci godeva a difendere, anzi a confermare, la sua immagine. E lo spirito libero, il provocatore, l’instancabile battutista venne fuori tutto. Insieme a quel can-

Col fregio di un epitaffio bruciante («Nacque, nocque»),Vallora - che ha voluto «una mostra allegra e anticonformista, che sale sulle pareti come un rampicante» - racconta il Mino vagante, facendoci fare una provvista di intelligenza e fantasia, ironia ed euforia, genio e irriverenza goliardica. Un Mino vagante “documentato” da mille aforismi che infilzano la banalità. Un Mino che esplode in questa ricca rassegna, “teatralissima”, antischematica e antifilologica, tutta vitalità dirompente, umori irrefrenabili, immaginazione scatenata, forme e colori brillanti e ghignanti, sapienti e brucianti sberleffi d’Autore. È qui la festa di Maccari? È qui, tra questi pezzi che il Tarpone (così in Toscana viene chiamato un topaccio grosso - e come topo Maccari era grosso -, aggressivo e famelico) volle te-

confondibile. Topo ruggente in anni ruggenti, il Carciofino sott’odio (odio!). Perché ruggenti furono davvero, per lui e per tutti gli “interventisti della cultura”, i “movimentisti”, gli “intransigenti” che credevano, obbedivano e combattevano, sì, ma fino a un certo punto. Più che altro dubitavano, disobbedivano e dibattevano. E naturalmente, abituati a pensarne e a farne di cotte e di crude, si pentivano e si ripentivano. Sbagliavano un sacco di volte, ma per sovraccarico di passione. Erano sregolati, avventurosi, generosi. E Maccari stava nelle prime file. Con una grande volontà e voluttà (e velleità, ovviamente!) di cambiare. Ci credeva, Maccari, alla rivoluzione delle camicie nere.

Tanto è vero che partorì Il Selvaggio in pieno “affaire Matteotti”, per dare una mano, insieme a scrittori, artisti, squadristi della Toscana “profonda”, a quel Mussolini che pareva disorientato, in crisi, sgomento e che dunque aveva bisogno di una cameratesca strattonata. Anche perché, nonostante le manganellate date nel 1922 a dritta e a manca (soprattutto a manca, ma bisognava darne di più a dritta), l’aborrito sistema borghese era ancora in piedi. Allora, botte, botte, botte in quantità in un odoroso trionfo di “sugo di bosco”. La rivolta dei “selvaggi” parte da qui. Meglio ancora, mi raccontò Maccari, da un vinaio di Poggibonsi, Angiolo Bencini, detto Giangio, che decise di stampare un quindicinale e trovò un tipografo a Colle Val d’Elsa. E invitò a collaborare Maccari, che «sapeva scrivere e disegnare»”. Ed era «giovane,

dannunziano, megalomane, esibizionista, vanitoso». Inutile aggiungere che gli piacevano le donne. E siccome la mettifoglio della tipografia era «bella, bianca, con gli occhi da Madonna» (si chiamava Neve, pensate un po’), ecco Maccari partir dal cuore di Toscana per andare all’assalto del mondo. Qui comincia l’avventura, bella e impossibile, di uno spiritaccio arguto e ardito. Dalla Toscana, poi, un bel salto in quel Piemonte dove adesso Mino è tornato, tutto pimpante, in Mostra.

Infatti nel ’31, il Nostro è a Torino. Insieme a un altro maledettissimo toscano, arcitaliano e strapaesano: Curzio Malaparte. Il quale, chiamato a dirigere “La Stampa”, lo aveva vo-


cultura

ta perché il premio istitutito dal giornale fosse assegnato a uno scrittore che davvero non profumava di santità littoria e oltretutto era un terrone: il calabrese Corrado Alvaro. Insomma, i due furono costretti a sloggiare.

luto con sé, come redattore capo. I due facevano faville: Curzio, bello, aitante, dandy elegantissimo dagli eroici furori a mezza strada tra il bolscevico e il controriformista, e già amico di un personaggio scomodo come Piero Gobetti; Mino, bassino e bruttarello, ma col fuoco vivo addosso, tanto che aveva già fatto imbestialire un bel po’ di gerarchi e di fascio-benpensanti con le campagne irriverenti scatenate dal Selvaggio. Questi due ribaldi, peraltro apprezzatissimi nei salotti come conversatori brillanti e sciupafemmine libertini, a Torino ci restarono poco. Giusto il tempo - un anno e via - per fare arrabbiare il senatore Agnelli, decisamente ostico ai loro bollenti spiriti e a una vocazione goliar-

In queste pagine, alcune delle opere esposte in queste settimane alla mostra di Acqui Terme intitolata «I Maccari di Maccari» e curata da Marco Vallora al Palazzo Liceo Saracco dica sempre terribilmente desta. E che fece indignare i seriosi subalpini quando Maccari, in occasione di un ricevimento reale, pubblicò sul quotidiano l’elenco delle personalità ricevute dall’augusto sovrano, copiandolo da quello dell’anno precedente e dunque infilandoci dentro anche un illustre personaggio che nel frattempo era passato a miglior vita. Da parte sua, il bastiancontrario Malaparte ce la mise tut-

Rieccoli adesso ad Acqui Terme in questa mostra fortissimamente voluta dall’Assessore alla Cultura Carlo Sburlati. Rieccoli in mezzo a decine di opere e di personaggi che evocano in mossa, colorita allegria gli anni tra le due guerre meglio di un libro di storia. E che raccontano Maccari con tutto il corredo di passioni, estri e contraddizioni. Cattiveria compresa. Perché in mostra ci sono anche le opere della serie Dux, quella che Mino (allora furioso col fascismo, come capita con una donna che abbiamo amato e che ci ha tradito) dedicò al Mussolini fatto fuori dai gerarchi nella notte del 25 luglio. Caricature feroci, spietate: la rabbia di un amante che sputtana il suo amore. Proprio così: l’antifascista per eccesso di fascismo che manda al diavolo il suo Duce. Però, però, però… Visto che, sparando sul Tiranno tronfio e imbolsito, ammazza un po’ anche i sogni della giovinezza. Che, nonostante tutto, resta, per lui come per Malaparte e Longanesi, una indiscutibile primavera di bellezza. Visto, se non altro, il mirabile casino che riuscirono a fare, da sostenitori e da detrattori del Regime. In ogni caso, fior di testimoni. E in Mostra questa testimonianza carnale, da cui fuoriescono anima e sangue di venti anni e passa, c’è. Eccome. C’è nei qua-

20 agosto 2009 • pagina 21

Ci sono le opere più celebri, quasi a comporre i contorni dell’espressionismo italiano; poi quelle a lungo nascoste, come i ritratti rabbiosi fatti dopo l’esecuzione di Mussolini e le vignette fatte per il “Mondo”

dri, nei documenti di famiglia, nelle lettere, negli schizzi, nelle fotografie, nei giornali in cui Mino fece e disfece, nei progetti grafici, nei logo emblematici, come l’intestazione della prima pagina del Mondo, il settimanale diretto da Mario Pannunzio, di cui Maccari sarà collaboratore liberal-libertario. Con scritti e vignette che ritraggono protagonisti del dopoguerra. Ci sono tutti, ce n’è per tutti: Andreotti, Segni, Togliatti, Saragat, Fanfani. E, andando a fare un giro all’estero, Stalin, Nasser, De Gaulle, Churchill.

Ci sono gli affetti di famiglia: un punto fermo nel caos. E gli amici, tanto più amici quanto più ci si litiga: Longanesi, Flaiano, Cardarelli, Moravia, Soffici, Ungaretti, Rosai, Malaparte… E’ una festa, si diceva. Dove ballano insieme politica e storia, cultura e costume, Mussolini e Stroheim, Gentile e Mae West. Guardi, anzi, affondi l’occhio in questo «inesauribile giacimento petrolifero d’intelligenza e di fantasia», e ti accorgi che dietro, dentro la spietatezza, c’è tanta pietas. Cara, amata Patria come ti voleva bene l’antiretorico Maccari! E più che mai quando, da arcitaliano-antitaliano, ti mandava a quel paese! Difendendo, a colpi di cinismo e di autoironia («Ho poche idee ma confuse»; «Non ho contro chi credere», «Spera in un mondo peggiore, non avrai troppe delusioni»), ogni tentazione all’intenerimento nostalgico. E magari dicendo di aver combattuto «per la patria e per il sé». Non era vero: aveva combattuto anche “per noi” e gliene siamo grati.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

dal ”Washington Post” del 19/08/2009

Ripartenze mediorientali di Anne E. Konblut e Beth Sheridan passi nella giusta direzione sono stati fatti», sono le parole che il presidente Usa Barack Obama ha espresso, martedì, durante il vertice con l’omologo egiziano, Hosni Mubarak, ospite a Washington. Espressioni di fiducia nei confronti di un processo di pace in Medioriente che, nonostante la routine di incontri e vertici, comincerebbe a dare segnali positivi. Non sono mancati i ringraziamenti per il leader egiziano e i ruolo che ha sin qui svolto nel difficile percorso della pace. «Penso che ci sia una straordinaria opportunità di compiere progressi effettivi. Ma non siamo ancora arrivati a quel punto». E Mubarak rivolgendosi ai reporter, dopo l’intervento di Obama, ha trasmesso la sua disponibilità ad essere d’aiuto in questo sforzo. «Stiamo lavorando per questo obiettivo, portare le due parti al tavolo della discussione e riuscire ad ottenere qualcosa da Israele e qualcosa dai palestinesi. Se dovessimo riuscire a farli sedere insieme, allora potremmo essere d’aiuto». È il terzo vertice in tre mesi, tra Washington e Il Cairo, che marca una certa differenza con l’amministrazione precedente, dove esistevano molte divergenze, in materia di difesa diritti umani e di politica mediorientale. Gli eventi di martedì confermano quanto le relazioni siano diventate più amichevoli. Ma non è chiaro quanto importante sia, nelle rispettive agende, una vera “ripartenza”del processo di pace in Medioriente. Soliman Awaad, portavoce di Mubarak, ha detto che Obama vorrebbe che un programma quadro del processo fosse pronto per la fine del prossimo mese. Intanto l’inviato speciale della Casa Bianca, George J. Mitchell, ha in programma per la prossima settimana un incontro con il primo ministro d’Israele, Benjamin Netannyahu. Obama ha cercato di

«I

spingere molti Paesi arabi a fare concessioni allo Stato ebraico, ma senza grande successo. Mubarak in un intervista, uscita lunedì, ha affermato che dipende da Israele fare il passo successivo. E aveva reso chiaro a Obama, già a giugno, al tempo del discorso di Obama al mondo musulmano dall’Università del Cairo, che gli israeliani dovevano fermare l’espansione degli insediamenti. «Alcuni Paesi arabi hanno pensato di riaprire in Israele gli uffici diplomatici e le sedi commerciali, a condizione che lo Stato ebraico fermi gli insediamenti e riprenda i negoziati per l’accordo finale sulla pace» aveva dichiarato Mubarak in un’altra intervista rilasciata all’organo di stampa controllato dallo Stato egiziano.

Giordania ed Egitto sono gli unici Paesi arabi ad aver firmato degli accordi di pace con Israele. Mubarak, che ha incontrato il segretario di Stato Hillary Rodham Clinton, lunedì, ha avuto un faccia a faccia nella Stanza ovale con Obama, il giorno dopo. Poi è seguito un meeting allargato e un pranzo di lavoro nella Cabinet room. All’epoca di Bush le relazioni erano tese, perché Washington premeva per le riforme democratiche in Egitto. Le associazioni in difesa dei diritti civili accusavano il governo autoritario del Cairo di mandare in carcere persone arbitrariamente e di sottoporle al giudizio di tribunali speciali che non rispondevano a nessuno standard internazionale di giustizia. Le accuse continuavano rispetto alle carcerazioni facili contro l’esercizio della libera opinione. Philip J. Crowley

portavoce del dipartimento di Stato, aveva dichiarato, appena dopo il meeting tra la Clinton e Mubarak, come la situazione dei diritti civili in Egitto fosse sempre nell’attenzione del governo Usa e fonte di preoccupazione. «È un tema che viene proposto in ogni incontro ad alto livello. Vorremmo vedere l’Egitto muoversi su un sentiero che porti a un allargamento del dialogo politico, con un’espansione della partecipazione nel processo politico del Paese» aveva aggiunto Crowley. Invece Steven A. Cook, analista del Coucil on foreign relations, è convinto che l’amministrazione Obama non voglia guardare alle relazioni col Cairo, attraverso il prisma della democrazia. «Hosni Mubarak e la gente del regime non hanno alcun interesse nelle riforme» tagliava corto l’esperto in questioni mediorientali del Council. Segnalato anche l’arrivo di Bill Clinton durante il meeting. Entrato alla Casa Bianca da un ingresso secondario per non scatenare l’interesse dei reporter.

L’IMMAGINE

I vigili del fuoco sono obbligati a lavorare senza riposo: sanzionato chi si rifiuta In tutti i comandi dei Vigili del fuoco d’Italia si costringono i lavoratori a turni insostenibili ed in violazione delle norme contrattuali. Vengono infatti richieste 24 ore consecutive senza risposo, rispetto ad un orario ordinario articolato in 12 ore lavorative seguite da 24 di riposo, altre 12 lavorative con 48 di riposo. Ancor più grave la condizione del personale che si trova nelle zone terremotate: dopo una giornata intera di 16 ore di lavoro viene obbligato nelle restanti 8 ore notturne ad ulteriori interventi di soccorso legati alla campagna antincendio, per poi riprendere a lavorare la mattina dopo per il ripristino dei beni nelle zone terremotate. Chi si rifiuta di sostenere questi turni massacranti viene sottoposto a consiglio di disciplina e subisce trattenute sullo stipendio. Cosa si pretende da noi? Dobbiamo forse morire di fatica?

Un vigile del fuoco indiavolato

LETTERA AL SINDACO DI FIRENZE Gentile Sindaco Renzi, ho ascoltato tempo fa il suo discorso sulla “resistenza civile” contro la legge europea che vieta la consumazione serale di alcool presso i trippai ed ho seguito poi l’approvazione della delibera salva-trippai fatta ad hoc per garantire questo diritto ai cittadini fiorentini. Le scrivo in quanto padre e suo coetaneo per segnalarle la “resistenza civile” di molti padri separati fiorentini che ogni anno subiscono processi civili, penali, pressioni, sanzioni, incursioni di notte di carabinieri armati di mitra in casa per il semplice che, come i mangiatori di trippa volevano garantito il loro diritto al vino, i padri separati vorrebbero garantito il diritto dei loro figli a poter continuare a frequentare entrambi i genitori anche dopo

la separazione. Perciò se lei ritiene i diritti fondamentali dei bambini quantomeno al pari di quelli di un bicchiere di vino, la prego di emanare un’ordinanza, delibera o legge che ci tuteli dai giudici fiorentini che, a differenza di molti altri comuni più “virtuosi”, violano gravemente tutt’oggi la legge 54/2006 sentenziando ancora affidamenti che “di fatto” privano i bambini del diritto alla salute, all’affetto ed all’opportunità che comporta mantenere un rapporto equilibrato con entrambi i genitori. Chi le scrive è il responsabile del movimento portale nazionale sulla paternità, l’infanzia e l’adolescenza. Ho fondato questo movimento perché quando ero adolescente una separazione familiare mi tolse il padre, e 6 anni fa quando ero appena diventato pa-

Caduta dal marsupio Questo piccolo canguro si è perso per strada. È colpa di un emù, che ha spaventato mamma cangura al punto da perdere la piccola Tijana di 6 mesi dal marsupio, mentre correva terrorizzata per lo zoo di Belgrado. Dopo la disavventura, grazie alle cure degli operatori, la cucciola sta bene, ma il problema adesso è che la madre, ancora sotto shock, non ne vuole sapere di riprenderla con sé

dre, un’altra separazione mi tolse mia figlia. Spero che queste cose non accadranno più.

F. Barzagli

MEMORIA STORICA DOPPIOPESISTA Nel Belpaese la memoria storica è doppiopesista e unilaterale. Il ricordo e la commemorazione di tragedie passate rischiano d’es-

sere strumentalizzati, per subdolo indottrinamento, propaganda e particolari interessi attuali di parte. Si diffonde la pratica delle visite scolastiche ai lager nazisti e si criticano giustamente i negazionisti dell’olocausto. Ma i veri negazionisti sono “progressisti” e cattocomunisti, che stendono un velo di silenzio sugli oltre 150 gulag sovietici, dove furono interna-

ti circa 10 milioni di oppositori della dittatura comunista staliniana. Inadeguata è anche la memoria dei circa 100 milioni complessivi di vittime del comunismo mondiale realizzato (specie in Cina e Urss). Il doppiopesismo “progressista” sottovaluta il martirio maggioritario dei morti ammazzati dalle dittature rosse.

Gianfranco Nìbale


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Siamo rimasti e resteremo dei ragazzi cresciuti

18 agosto 1976

PARTITO DEL SUD: FINTA NOVITÀ (II PARTE) Certamente non si può parlare di un pericolo di secessione, ma tuttavia proccupa la freddezza con cui ci si sta preparando ai festeggiamenti per il 150esimo dell’Unità d’Italia, riscontrabile soprattutto al sud (la Sicilia ha persino deciso di non partecipare all’evento). È chiaramente un sintomo di frustrazione per una situazione, il ritardo rispetto al resto del Paese, che non si riesce a risolvere. La colpa di questa situazione viene data allo Stato italiano, che avrebbe utilizzato il mezzogiorno solo come riserva di voti, mentre si rispolvera il mito del regno borbonico, che secondo i nostalgici era uno stato ricco e progredito (lo era per davvero nel Settecento, ma nell’800 si chiuse in se stesso e al momento dell’unificazione era tra i Paesi più regrediti d’Europa). Lo Stato italiano ha veramente compiuto molti errori nei confronti del Sud, ma tra questi errori ci sono stati anche i finanziamenti a pioggia e a fondo perduto che sono stati dati in passato con molta generosità divenendo una manna dal cielo per le clientele locali. Auspico che l’Unione di centro non abbia niente a che fare con questo fantomatico partito del Sud ma che continui a lavorare per

Caro Fellini, ricevere la sua lettera è stata per me una grande emozione. Speravo di riuscire a vederla in Svizzera, ma capisco perfettamente le sue reazioni e la sua fuga. Lei mi dice cose che mi toccano tutte nel profondo, perché malgrado i miei settantatre anni e mezzo mi considero e mi sento ancora un rgazzino. Probabilmente lei è l’unica persona al mondo cui mi senta legato sul piano creativo. È quello che ho cercato di spiegare in una prefazione.Vorrei farle capire quanto mi sento vicino a lei non solo come artista, ma come uomo e come creatore.Tutti e due siamo rimasti, e spero che tali resteremo sino alla fine, dei ragazzi cresciuti che obbediscono a impulsi interiori e spesso inesplicabili anziché a regole ormai prive di significato sia per lei che per me. E più ancora per lei che per me, giacché della mia infanzia di bambino docile e remissivo ho conservato una sorta di timidezza. Lei al contrario è uno che si getta in ogni cosa a testa bassa. Sono anni, da quando cioè non scrivo più romanzi, che mi sforzo di diventare così, ma, come succede ai miti quando diventano aggressivi, non so trovare una via di mezzo e cado nell’eccesso opposto. Georges Simenon a Federico Fellini

ACCADDE OGGI

CADUTA DI STILE DELLA CONSIGLIERA ROMENA La consigliera comunale romena del Pd a Padova ha definito lo stop ai matrimoni per clandestini «una cosa assurda, scandalosa, incostituzionale e negatrice della storia d’Italia». Dovrebbe moderare i termini, rispettare le leggi democratiche dello Stato italiano ed evitare di sputare sul piatto dove mangia. L’Italia è fin troppo generosa e tollerante verso il numero debordante di clandestini. L’elevata propensione al crimine di allogeni è provata anche dai molti detenuti stranieri nelle carceri italiane, che costituiscono il 37% del totale. Una donna romena di 41 anni è in fin di vita per gravi lesioni interne dopo essere stata stuprata da un branco di tre romeni e un indiano, nel loro appartamento di S. Felice Circeo (Latina). I quattro si sono giustificati con la polizia: «abbiamo festeggiato il compleanno della donna alla maniera romena».

Gianfranco Nìbale

ROMA CAPITALE DELL’ABUSIVISMO Le notizie di questi giorni dei numerosi abusi edilizi trovati in un parco archeologico vincolato, che è un patrimonio da tutelare per tutta l’umanità, rendono evidente che l’abusivismo a Roma non si è fermato, ma anzi si è fatto ancora più arrogante. Spesso ne sono protagonisti personaggi ben noti che sperano nella loro fama per non essere perseguiti. E spesso in tali affari sono impiegati fondi illeciti. Ben vengano anche negli altri municipi le demolizio-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

20 agosto 1968 200.000 soldati del Patto di Varsavia e 5.000 carri armati invadono la Cecoslovacchia per porre fine alla Primavera di Praga 1975 La Nasa lancia la sonda planetaria Viking 1 in direzione di Marte 1976 In Australia, il programma televisivo Bandstand, che parlava dell’arrivo degli Abba e trasmessa Channel 9, registra il record, tutt’ora imbattuto, di ascolti, con uno share del 54% 1981 Dopo 60 giorni di sciopero della fame, Mickey Devine è il decimo detenuto repubblicano a morire nel carcere di Long Kesh 1982 Guerra civile libanese: una forza multinazionale sbarca a Beirut per supervisionare il ritiro dell’Olpdal Libano 1991 Crollo dell’Unione Sovietica: più di 100.000 persone si radunano fuori dal parlamento sovietico protestando contro il colpo di stato che ha deposto il presidente Mikhail Gorbachov 2008 Incidente all’aeroporto di Madrid: il Volo Spanair 5022 prende fuoco

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

ni che per ora interessano solo il parco dell’Appia Antica. Ma i municipi, ai quali è delegata la repressione, spesso non si attivano anche per una cronica mancanza di personale e di finanziamenti. L’assessorato all’Urbanistica del comune deve sostenerli sia ripristinando un suo ufficio tecnico centrale per il controllo delle pratiche (spesso le domande di sanatoria sono false ed i meccanismi burocratici sono molto complessi) sia fornendogli subito fondi, che per ora sono solo a livello centrale, con l’obbligo di utilizzarli in tempi rapidi. Il comune dovrebbe considerare positivamente il sostegno della Regione contro questa grave forma d’illegalità che, oltre a distruggere il patrimonio ambientale e paesaggistico, reca enormi danni economici sia alla città che agli imprenditori onesti. Il comune, rinunciando a sterili polemiche, dovrebbe attivare subito un collegamento con la Regione e (dove siano coinvolte) anche con le Soprintendenze e con gli Enti Parco (quello di Veio e Roma Natura) per rendere ancora più efficaci e veloci gli interventi di demolizione, prima che le strutture illegali vengano utilizzate. È ben noto che il mese di agosto è quello dove sono più numerose le attività edilizie abusive e pertanto proprio in questo mese dovrebbero esserci molto più controlli. Solo con la volontà di tutti d’intervenire insieme per colpire chiunque operi contro il territorio potrà essere vinta questa guerra che dà a Roma il triste primato di essere la capitale più abusiva di Europa.

una politica innovativa nei confronti del Mezzogiorno. In un contesto di spinte centrifughe in seno ai partiti è importante oggi più che mai un Partito della Nazione, che rappresenti il bene comune dell’Italia intera sopra ai particolarismi e ai localismi! Emanuele Maldotti R E S P O N S A B I L E GI O V A N I L E CI R C O L I LI B E R A L P R O V I N C I A D I CR E M O N A

APPUNTAMENTI SETTEMBRE 2009 LUNEDÌ 7, ROMA, ORE 11 HOTEL AMBASCIATORI - VIA VENETO Riunione straordinaria del Consiglio Nazionale dei Circoli liberal. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

Mirella Belvisi

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma

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e di cronach

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PAGINAVENTIQUATTRO Il personaggio. La scrittrice appena scomparsa aveva mantenuto un rapporto speciale con la sua città

Pivano, un’americana di Marco Ferrari l lungo viaggio che l’aveva portata on the road con la Beat Generation si conclude là dove era iniziato. Fernanda Pivano tornerà per sempre ne luogo in cui era nata nel 1917, a Genova. Come per l’amico Fabrizio De André, la cerimonia funebre si terrà nella suntuosa basilica di Carignano dove il vento trasporta gli effluvi del mare e i rumori del porto. Domani, alle 11, sarà don Andrea Gallo, il prete dei poveri, a darle l’estremo saluto di una città persa e ritrovata. «Il funerale lo voglio in chiesa, ma solo se c’è don Gallo» usava dire riferendosi al focoso prete della Comunità di San Benedetto al Porto. Sarà accontenta.

I

Fernanda Pivano e don Gallo avevano in comune l’amicizia con Faber, le incursioni nel mondo rock e il piacere della provocazione. Insieme hanno attraversato la storia d’Italia dalla guerra a oggi, ma anche le controverse vicende della loro città, dai ragazzi con le magliette a strisce degli anni sessanta al periodo delle Brigate Rosse, dalle Colombiane alla morte di Carlo Giuliani. «Ci sono quattro cose che mi porto in giro per il mondo» raccontava Nanda con il suo inesauribile sorriso. Erano gli aromi dell’antica pasticceria Romanengo, del Bar Mangini, di Boccadasse e dei gatti di Gino Paoli e dell’albero di magnolie di Corso Solforino. Il quella casa vittoriana dell’elegante quartiere di Castelletto, che guarda al mare dall’alto e dove fioriscono gli amori in salita di Giorgio Caproni, aveva trascorso la gioventù, il padre Riccardo banchiere, la madre Mary Smallwood, studi alla scuola svizzera, prima di trasferirsi a Torino e quindi a Milano. Fabrizio De André lo aveva conosciuto prima dentro un juke-box a Nervi e poi per davvero a Milano, metropoli in cui i genovesi tristi si incontravano – da Eugenio Montale a Bruno Lauzi, da Luigi Tenco a Gino Paoli, dalla Pivano a De André – per rimpiangere l’odore del salmastro, le magnolie e i limoni, la macaia e il vento ben sapendo che, nel bene e nel male, Genova non potrà mai essere una città come le altre. Laureatasi a Torino nel 1941 con una tesi su Moby Dick”, due anni dopo tradusse per la prima volta in Italia la Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters e quindi fu arrestata dai nazisti che avevano trovato nella sede della Einaudi la sua traduzione di Addio alle Armi. Nel 1948 a Cortina incontra per la prima volta Hemingway con il quale instaura un lungo e intenso rapporto di amicizia. Nel 1956 raggiunge per la prima volta gli Stati Uniti con una borsa di studio e tre anni dopo traduce Sulla strada di Jack Kerouac. Da allora Nanda è diventata“la signora americana”, l’amica prediletta della Beat Generation, da Gregory Corso a Allen Ginsberg, da Ferlinghetti a Don DeLillo sino a Bob Dylan del quale curò Blues ballate e canzoni nel 1972. Quando le voci di quella stagione cominciarono a spegnersi, la Pivano ha trovato una nuova casa d’amicizie della canzone italiana d’autore che riprendeva l’eredità tematica della ribellione e della protesta. Legò molto con Vasco Rossi, la Pfm, Ligabue, Jovanotti, oltre che con Fabrizio de André e Dori Grezzi. «Il mio amore per questa musica – raccontava – era sbocciato nel 1965 quando Bob Dylan tenne il suo primo concerto all’Università di Berkeley: quella sera nacque il movimento dei figli dei fiori. Era chiaro che stava cambiando il mondo». Fu proprio lei a spiegare ai cantautori italiani l’essenza di quella musica, a indurre tan-

A GENOVA ti artisti «ad annullare le distanze», a creare secondo un linguaggio internazionale, come racconta oggi Dori Grezzi. Amica di tante personalità, seppe tessere sempre la logica del dialogo e del confronto, senza mai appiattirsi in una cieca

se all’amica italiana. La Pivano tentò anche la via personale della narrativa con La mia casbah, Dov’è più la virtù e Cos’è più la virtù e I miei quadrifogli e avviò con scarso successo una casa editrice, la «East 128» con l’allora marito Ettore Sottsass. In libreria si trovano da poco I Diari 1917-1973 pubblicati nella collana Classici Bompiani.

Domani mattina don Andrea Gallo, il focoso prete della Comunità di San Benedetto al Porto, celebrerà i funerali religiosi della grande studiosa. Del resto, lei aveva portato sulle strade del mondo il suo universo ligure, fatto di odori e ribellione ammirazione. Ne assimilò i valori che poi riuscì in maniera certosina a dispensare a tanti uomini di cultura e di spettacolo.

«Ho avuto due o tre eroi nella mia vita» confessò una volta. Uno era Allen Ginsberg, il poeta complice, il cantore della libertà politica e sessuale del quale lei tradusse Juke-box all’idrogeno e con il quale trascorse un certo periodo a New York. Glielo presentò Gregory Corso e nacque subito un sodalizio indelebile al punto che tra poco usciranno negli States le lettere che il poeta scris-

L’insieme dell’attività

della cultrice della letteratura americana è ora contenuta nella Biblioteca Riccardo e Fernando Pivano, acquisita dalla Fondazione Benetton. Uno scrigno ancora inesplorato dove si trovano migliaia di libri, documenti, manoscritti, registrazioni, annotazioni e fotografie. Con puntualità già ieri il sito personale di Fernanda Pivano segnava la data di morte, Milano 18 agosto 2009. L’epigrafe è rimasta la stessa del giorno prima, dedicata all’11 settembre 2001: «Con molto dolore per i morti e per la tragedia devo dichiararmi perdente e sconfitta perché ho lavorato 70 anni scrivendo esclusivamente in onore e in amore della non violenza e vedo il pianeta cosparso di sangue».


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