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La democrazià è la peggiore

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forma di governo, ad eccezione di tutte le altre.

Winston Churchill

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • VENERDÌ 21 AGOSTO 2009

Dopo gli annunci del governo contro gli evasori

La Nouvelle Vague di Tremonti? Il modello Visco

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

UN GIORNO STORICO PER KABUL

«Affluenza vicina al 50%», secondo la Commissione indipendente. Le minacce e le bombe dei talebani non sono bastate: in Afghanistan le elezioni si sono svolte regolarmente. Ora inizia l’attesa per i risultati

Una maxiretata fra i proprietari di yacht e auto di lusso: recuperati 36 milioni di euro di Francesco Pacifico di ieri la notizia che, con la solita maxiretata ferragostana, sono stati recuperati ben 36 milioni in denaro e beni non denunciati. Nel mirino, guarda un po’, c’erano vitelloni in Ferrari e in catamarano, vucumprà clandestini o alberghi e bar che non fanno gli scontrini.

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Ha vinto il voto alle pagine 2, 3, 4 e 5

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Giovanni Sabbatucci e il fattore Lega

Esce dal carcere scozzese l’ex agente libico. Gli Usa: «Molto dispiaciuti»

Grande coalizione: per la politica non è più un tabù

Gheddafi e l’assassino

Tripoli accoglie da eroe l’autore della strage di Lockerbie

di Riccardo Paradisi n attesa dell’incontro tra Silvio Berlusconi e il leader della lega Umberto Bossi – dove i due maggiorenti del centrodestra italiano ribadiranno l’unità di intenti e il patto d’acciaio tra Pdl e Carroccio – si ragiona di nuovi possibili scenari per la politica italiana. Scenari sollecitati dall’attivismo leghista agostano che ha suscitato reazioni persino nel Pdl e che vanno dalla riforma dell’attuale bipolarismo, troppo soggetto al ricatto delle estreme, all’ipotesi di grande coalizione passando per il ruolo condizionante del centro, senza il quale sembra difficile ogni “normalizzazione” del quadro politico italiano. Il politologo Giovanni Sabatucci non sopravvaluta quanto è accaduto nelle ultime settimane dopo le sparate di Bossi su dialetti, tricolore e unità nazionale: non ci sono elementi sufficienti per mettere in crisi un’intesa ancora solida. Anche se sul terreno dell’alleanza tra Lega e Berlusconi ci sono nodi che potrebbero riservare ancora delle scosse: Regionali, fondi per il sud, il rapporto con l’Udc.

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segue a pagina 8 s eg ue a (10,00 pagina 9CON EURO 1,00

di Maurizio Stefanini uando sui giornali era uscita la notizia che presto Abdelbaset al-Megrahi, l’ex agente libico unico condannato per l’attentato di Lockerbie del 1988, sarebbe stato liberato perché gravemente ammalato, le autorità scozzesi (dove il terrorista stava scontando la pena) avevano smentito indignate. E invece ieri Abdelbaset al-Megrahi è stato liberato: il ministro della Giustizia scozzese, Kenny McAskill ha spiegato che il terrorista, con un cancro alla prostata in fase terminale, può essere lasciato libero di andare a morire in Libia perché il diritto scozzese impone che «giustizia sia fatta ma mostrando pietà». Immediata è arrivata però la protesta degli Stati Uniti che hanno espresso

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I QUADERNI)

• ANNO XIV •

NUMERO

165 •

Le mille contraddizioni di un dittatore

Restano uguali i nostri rapporti con la Libia?

«profondo rammarico. In questo giorno esprimiamo la più profonda solidarietà alle famiglie delle vittime, che devono convivere ogni giorno con la perdita di una persona cara». L’ex agente libico è stato subito trasferito all’aeroporto di Glasgow dove un aereo militare inviato dal ditattore Muammar Gheddafi lo ha riportato in patria dove è stato accolto come un eroe. Abdelbaset al-Megrahi è rimasto in carcere solo otto dei 27 anni che avrebbe dovuto scontare come minimo di pena. Si conclude così, in modo molto controverso, una delle vicede di terrorismo internazionale più complesse e gravi degli ultimi anni.

ora, cambieranno i nostri rapporti con Gheddafi? Campione dello sviluppo ecosostenibile, tanto da chiedere un piano ad hoc per l’Africa. Maestro di diplomazia, pronto anche a perdonare (dietro giusto compenso) gli occupanti italiani, che imprigionarono il padre. E spregiudicato uomo d’affari, capace di comprendere che nell’era di globalizzazione i petroldollari servono per comprare banche, industrie o squadre di calcio.

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WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

di Franco Insardà

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IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


pagina 2 • 21 agosto 2009

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Svolta in Oriente/1. Razzi e bombe hanno provocato 26 morti. Karzai ringrazia la popolazione: «È stato un successo»

50 per cento di speranza

Incertezza sull’affluenza, ma si parla di un dato superiore alle previsioni Per la Commisione indipendente ha votato la metà degli elettori di Luisa Arezzo

KABUL. Ventisette occhi puntati su Kabul, all’apparenza fermi e immobili: sono quelli delle telecamere agganciate al dirigibile bianco che galleggia sulla città, stagliato nel cielo azzurro di questa città montana, a duemila metri di altitudine. 27 occhi scandagliati per le strade e i luoghi più sensibili alla ricerca di un movimento sospetto o di un’improvvisa esplosione. Da una settimana Kabul vive la dimensione del Grande Fratello, ma gli attentati dei giorni scorsi e le minacce dei talebani, a una prima valutazione ufficiale della Iec, la commissione di controllo elettorale, non sono riusciti a fermare i suoi abitanti. Anche se la città era deserta, chiusi i negozi e le scuole e sospesa ogni attività.Le urne, aperte ufficialmente dalle 7 alle 4, ma ufficiosamente disponibili fino a sera, sono state lentamente testimoni di una silenziosa scia di uomini e donne (che rappresentano il 40% dell’intero bacino elettorale). «Ho votato, sì, ho votato per Karzai» mi dice Fatima, 31 anni, che non si nasconde dietro un burqa e si lascia fotografare. Un ventina le donne presenti. (I seggi maschili sono ovviamente separati da quelli femminili). Con il linguaggio italiano più noto, quello dei segni, domando Karzai si o Karzai no? E’ un coro e una risata liberatoria, quello che mi risponde «Karzai, Karzai». Il nostro piccolo sondaggio, insomma, è in linea con le previsioni ufficiali, che vedono il presidente uscente favorito sin dal primo turno contro il suo avversario più insidioso, Abdullah Abdullah. Ma il se è d’obbligo, visto che Kabul è fortemente a favore del presidente uscente, mentre il nord del paese, dopo pure l’affluenza sembra essere stata superiore alle previsioni, è bacino elettorale di Abdullah, che al momento di votare ha dichiarato. «È un giorno di cambiamento, un giorno di speranza». Certo è che è difficile immaginare un futuro migliore quando per registrarti al voto devi passare dietro cordoni di polizia e

La difficile giornata dei leader

Candidati alle urne tra la folla, i flash e i microfoni KABUL. È stata una giornata speciale anche per i quattro candidati principali alle elezioni presidenziali afgane: il presidente uscente, Hamid Garzai e i suoi tre maggiori sfidanti, l’ex ministro degli Esteri Abdullah Adbullah, il banchiere Ashraf Ghani e l’ex ministro della Pianificazione Ramazan Bashardost. Il primo a recarsi ai seggi, fra loro, è stato Karzai: si è presentato al suo seggio, a Kabul, ieri mattina alle 7 ora locale tra alte misure di sicurezza. In abito tradizionale a strisce viola e verdi e il colbacco di astrakan, Karzai ha immerso il dito in un inchiostro indelebile, misura per evitare brogli elettorali, ha ricevuto le schede elettorali e ha espresso il suo voto. «Sono le secondo elezioni presidenziali in Afghanistan e sono sicuro che, se Dio vuole, porteranno la pace, il progresso e il benessere del popolo afgano», ha detto. Anche Abdullah Abdullah, principale rivale di Garzai ha votato a Kabul: «È un giorno di cambiamento, un giorno di speranza per l’Afghanistan», ha detto entrando nel seggio. L’ex ministro degli Esteri, accompagnato dalla moglie e dal giovane figlio, ha affermato che il voto è un’occasione «positiva» per il Paese, ma ha espresso preoccupazione per l’intensificarsi degli attacchi talebani in tutto l’Afghanistan. Alla domanda se tema brogli, Abdullah ha ammesso che «il rischio c’è. Ma nel complesso – ha aggiunto - credo che non sarà ignorata l’indicazione di chi va a votare». Ashraf Ghani, invece, ha scelto il Times per fare la sua “dichiarazione di voto”. «Cacciate Karzai, meritiamo una seconda possibilità»: questo il titolo di un suo editoriale sul quotidiano nel quale critica pesantemente un governo «corrotto che ha tollerato l’illegalità, stretto alleanze con i Signori della Guerra e chiuso un occhio nei confronti del traffico di droga che finanzia il terrorismo». Se Hamid Karzai «non ha una strategia coerente per stabilizzare lo Stato» Ghani afferma invece di avere un piano per riportare la pace nel Paese «entro i prossimi sette anni, solo un quinto del quale si basa sulla forza militare: il resto consiste nella riforma del governo e nella crescita economica».

filo spinato, dove un fucile ti segue dall’alto, pronto a ogni evenienza.

Nemmeno fuori si può stare tranquilli. Il voto ti lascia un marchio indelebile per almeno una settimana, quello del dito intinto nell’inchiostro, l’indice che marchia la scheda e che rivela l’alta percentuale di analfabeti nel paese, l’indice della vergogna per i talebani, pronti a mozzartelo se ti colgono in fallo. «Ma la gente non si è lasciata intimidire - mi dice un ispettore dell’Unema, la sezione Onu per l’Afghanistan - a questo seggio (una stazione dei vigili del fuoco allestita per l’occasione, le cabine fatte con due scatoloni di cartone, un pacco di schede come noi mai abbiamo visto) - su 600 elettori fino adesso - mancavano 4 ore alla chiusura – ne sono arrivati almeno 250». Il 40% circa, anche qui in linea con le proiezioni a livello nazionale. Per avere dati più significativi sull’affluenza bisognerà aspettare almeno domani, mentre per sapere chi sarà il vincitore o se ci sarà un ballottaggio bisognerà aspettare i primi di settembre. L’inizio del ramadan, oltretutto, rallenterà le operazioni di spoglio. Da domani, comunque, tutte le schede confluiranno in un bunker supersegreto approntato nella capitale e solo dopo lo stoccaggio di tutte le urne sarà possibile cominciare a lavorare. Ma se Kabul ha tirato un sospiro di sollievo per non essere stata teatro dell’annunciata guerriglia urbana – si parlava della presenza di decine di kamikaze – e per essersela“cavata”con una decina di Ied (esplosivi imprevedibili) e tre suicide man uccisi (e uno catturato) prima di farsi esplodere, nel resto del paese la violenza si è fatta sentire. Razzi, bombe a mano e sparatorie hanno lasciato sul terreno 26 morti. La maggior parte delle vittime (22) si sono avute a Baghlan, su al nord, dove i talebani hanno dato l’assalto con l’obiettivo di impedire l’apertura dei seggi dando vita a una vera guerriglia nella quale molti di loro sono rimasti a terra. Un militare britannico è invece rimasto ucciso per l’espolosione di una mina rudimentale nella provincia di Kandhar. Sempre a Kandahar, la seconda città del paese, i talebani hanno lanciato 5 razzi, così come a Lashkargah, capoluogo della provincia meridionale di Helmand. Attacchi si aspettano anche per domani, sia nella capitale che nel resto del Paese. Gli insurgents, infatti, potrebbero tentare di ostacolare il trasferi-


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I consigli strategici “dal fronte” dell’ex colonnello statunitense

Ecco come possiamo battere i Talebani di Oliver North l titolo più frequente che si legge in questi giorni sui giornali americani è «I Talebani stanno vincendo». Visto che mi trovo nella regione dell’Hindu Kush, dopo che mancavo da ormai un anno, mi sembra che sia ormai arrivato il momento di iniziare a capire quanto ci sia di vero in questa tesi. Non c’è alcun dubbio sul fatto che il numero delle vittime delle forze alleate in Afghanistan sia aumentato vertiginosamente rispetto ad un anno fa. Il generale statunitense McChrystal, comandante delle truppe Nato dislocate a Kabul, ha previsto un bilancio delle vittime in aumento man mano che i contingenti di truppe alleate aumenteranno in consistenza, la qual cosa determinerà una maggiore lentezza nel dispiegamento degli effettivi. Allo stato attuale, vi sono 30mila soldati, marinai, avieri, soldati della Guardia Nazionale e Marines statunitensi in più che operano sul campo rispetto al 2008. Per la prima volta dal 2001, data d’inizio dell’operazione Enduring Freedom, la International Security Assistance Force (Isaf) vanta più di 100mila soldati, 62.000 dei quali sono stati inviati dal governo statunitense. In secondo luogo, gli Stati Uniti e le forze della coalizione si stanno spingendo nel cuore delle roccaforti talebane – in special modo nelle province di Helmand e Kandahar – in cui la presenza tanto delle autorità governative quanto delle forze Isaf è rimasta per anni piuttosto flebile. Il 2 luglio scorso, i Marines statunitensi e le truppe afghane hanno lanciato un’operazione congiunta denominata Khanjar – “colpo di spada” – nella provincia meridionale di Helmand – mentre una colonna parallela lanciava un’offensiva nella vicina provincia di Kandahar. Di fronte alla prospettiva di perdere il controllo della produzione di eroina, risorsa attraverso cui finanziano la propria insurrezione, i gruppi talebani nella regione hanno deciso di opporsi armi in mano all’avanzata delle truppe Isaf invece di disperdersi.

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Il comandante Zizzo: «Siamo riusciti a contrastare con efficacia la minaccia, ma non abbasseremo la guardia. Domani potrebbe essere una giornata altrettanto a rischio» mento delle urne nella capitale e punire la popolazione per non aver rispettato i loro avvertimenti. Per Karzai, comunque, queste elezioni «sono state un successo». La Commissione elettorale indipendente afgana ha definito molto buona l’affluenza, ipotizzando che alla fine la percentuale dei votanti potrebbe raggiungere la soglia del 50%. L’obiettivo minimo per non destituire di credibilità l’esito dell’elezione presidenziale (per quella provinciale il discorso è diverso, visto che faranno fede le diverse percentuali a livello locale). Si può invece parlare di successo reale per quanto riguarda il comando a guida italiana dell’RcWest di Herat, che ha effettivamente garantito l’apertura della maggioranza dei seggi e controlNella pagina a sinistra, il presidente Karzai e immagini dai seggi. Qui sopra, alcuni militari delle forze Isaf. A destra, l’ex colonnello Usa, Oliver North

lato la sicurezza dell’area. Non nasconde la sua soddisfazione Aldo Zizzo, comandante di Italfor Kabul , dove si temeva la maggior concentrazione di attentati: «I nostri servizi intelligence ci avevano confermato la presenza di decine di kamikaze – dice a liberal - ma evidentemente siamo riusciti a contrastare con efficacia la minaccia, anche se questo non vuol dire certo che abbasseremo la guardia. Domani potrebbe essere una giornata altrettanto a rischio». Il paese, insomma, cerca davvero di cambiare pagina, al netto della disaffezione dei cittadini dalla politica. Lo fa mentre a Kabul gli scheletri dei carri armati sovietici T55 ricordano un passato doloroso, i cimiteri disseminati per le strade – rudimentali, poche pietre e un palo con la bandiera – molto spesso quella bianca talebana – la minaccia che ancora li assedia e i bambini, con la loro ingenuità, continuano a far volare gli aquiloni colorati.

improvvisati, mortai, razzi, granate, lanciatori di granate a razzo, armi automatiche e cecchini per impedire alle autorità afghane di collocare i seggi.

Sfortunatamente, la situazione non sembra destinata a ristabilirsi nemmeno dopo il voto, visto il rischio di ballottaggio. Un processo elettorale tirato troppo per le lunghe non sarà in ogni caso l’unico responsabile di un’eccessiva dilatazione dei tempi dello spiegamento militare. Secondo quanto mi ha riferito la scorsa settimana un ufficiale dell’esercito statunitense, «la nostra strategia per il resto della “stagione dei combattimenti” si incentra sulla necessità di sottrarre alle forze talebane il controllo della produzione di oppio nella regione; ed intendiamo farlo con il minor numero possibile di perdite tra le forze “amiche”». Questa è una missione che ha senso. L’insurrezione talebana viene foraggiata dai proventi del traffico di oppio – la principale fonte di esportazioni dell’Aghanistan odierno. Molte delle “griselle” per i precursori dei prodotti chimici e per la consegna di eroina e morfina raffinate scorrono lungo il confine tra Afghanistan e Pakistan, regno del contrabbando e dei traffici illeciti. Dato che Islamabad ha finalmente deciso di porre fine al dominio pakistano nelle aree tribali ad amministrazione federale del Pakistan, le possibilità di successo appaiono le più rosee dal 2001. In ogni caso, ciò non significa che sarà facile concludere trionfalmente la missione. Un comandante dell’esercito statunitense ha commentato: «La sfida più grande a livello operativo è rappresentata dalla logistica» al fine di sostenere l’offensiva della coalizione. Come ho avuto modo di affermare qualche tempo fa, «l’Afghanistan, con una sola superstrada asfaltata, basi aeree troppo scarse e strutture insufficienti a garantire un efficace trasporto aereo, è tra i Paesi che ho visitato quello in cui risulta più difficile spostare uomini e materiali». Infine, vi è il difficile compito di conquistare “i cuori e le menti”delle popolazioni tribali che vivono all’ombra dell’Hindu Kush. Il conseguimento di tale risultato richiederà una maggiore dose coraggio, tenacia e perseveranza da parte delle forze alleate. Sarà necessario reclutare, addestrare ed equipaggiare altri 100mila poliziotti e soldati afghani che saranno responsabili dei destini del proprio Paese. Quando ciò accadrà, potremo dire di aver vinto. Se ciò non dovesse avvenire, i giornali allora avranno ragione a titolare «I Talebani hanno vinto».

Impedire agli insorti la produzione d’oppio, gestire la difficile sfida della logistica e conquistare “i cuori e le menti” del popolo

In terzo luogo, le elezioni hanno accelerato l’estremo tentativo da parte dei Talebani di minare l’esito della consultazione elettorale. Gli sforzi per porre i seggi elettorali in condizioni di sicurezza si sono scontrati con una tenace resistenza nella parte meridionale del paese a maggioranza Pashtun. Quando la scorsa settimana la 2ª Brigata di Spedizione dei Marines ha lanciato l’operazione denominata Eastern Resolve II nella valle del fiume Helmand, le truppe statunitensi hanno dovuto misurarsi con combattenti talebani ben armati e schierati in trincea che hanno fatto ricorso ad ordigni


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Svolta o Oriente/2. Malgrado il successo della Dottrina Petraeus, senza la presenza dei militari tutto tende a sfaldarsi

Il teorema Baghdul

Baghdad chiama, Kabul risponde. Analisi di una doppia partita, difficile da vincere, per la stabilizzazione del Medioriente iove sul bagnato. Kabul chiama, e Baghdad risponde. Se c’è qualcuno ancora convinto, dopo gli esempi di Gaza e di Teheran, che l’equazione elezioni uguale democrazia sia semplice, di primo grado, anche questa volta è servito. D’altra parte, le elezioni sono premessa indispensabile per qualsiasi processo evolutivo, e il fatto stesso che ci siano forze che le contrastano con la violenza, è di per sé conferma della validità del processo. I costi possono anche essere alti, ma vanno pagati: va da sè che se le elezioni fossero davvero libere, allora la democrazia ci sarebbe già. Non è così in Afghanistan e, purtroppo, non è così nemmeno in Iraq, dove le elezioni legislative si terranno il 30 gennaio prossimo. Oggi, con l’occasione dell’attuazione del piano strategico eversivo a Kabul, si stanno facendo le prove generali anche a Baghdad, dove la ricetta Petraeus sembrava aver funzionato in larga misura.

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Se è davvero così, è lecito dubitare che la medesima ricetta possa funzionare in Afghanistan. O meglio, potrebbe anche funzionare, ma solo fin che le “truppe di occupazione” - così le vedono gli insurgents - rimarranno attive sul territorio. Poi, l’Iraq insegna, tutto tenderà a tornare come prima. Anche Baghdad, come Kabul, ci dimostra che la democrazia è un assetto culturale, “forse” perseguibile con lunghi anni di maturazione. È difficile non vedere un nesso, un tragico filo rosso, che lega gli accadimenti afgani e iracheni di questi giorni. Le condizioni sono diverse, ma le origini sembrano assai simili. In entrambi i Paesi ci sono grandi interessi economici e materiali che dividono etnie, tribù e fede religiosa, perennemente in disarmonia. In Afghanistan può essere l’oppio, in Iraq il predominio sui proventi del petrolio. In entrambi i casi, si tratta di lotta tra potere di clan e potere centrale. Ma c’è chi soffia sul fuoco, e ne approfitta per catalizzare, globalizzandolo, il crogiuolo della crisi. È al-Qaeda che va sradicata dai due Paesi, prima che sia davvero possibile cominciare a costruire e pacificare. Petraeus sembrava esserci riuscito e, in effetti, se ci

di Mario Arpino si sofferma sui dati numerici, il miglioramento appariva un dato di fatto sostanzioso.Tanto che, come già Bush aveva promesso e Obama confermato,

l’ultima delle cinque brigate del surge ha completato il rientro sul territorio metropolitano. Non è facile dare una risposta univoca a ciò che sta

successo, oltre che per il maggiore sforzo statunitense, per il migliore addestramento del nuovo esercito iracheno, per la riqualificazione di alcuni elementi esperti ex Baath, per il tentativo da parte degli stes-

In entrambi i Paesi ci sono grandi interessi economici e materiali che dividono etnie, tribù e fede religiosa, perennemente in disarmonia Donne afghane al voto. Nella pagina a destra: in alto, immagini degli ultimi attentati a Baghdad; in basso, Mahmoud Ahmadinejad

accadendo in Iraq, ma qualche considerazione parziale è opportuna. Nel suo ultimo rapporto al Congresso, il generale aveva spiegato che la sua strategia stava avendo buon

si shiiti di isolare i guerriglieri di Moqtada al-Sadr e, soprattutto, per la presa di coscienza dei capi tribù sunniti di alcune province contro gli stranieri di al-Qaeda, i così detti “arabi”, ormai da tempo invisi alle popolazioni.

L’applicazione della dottrina consisteva sopra tutto nel “fidelizzare” i capi tribù con non indifferenti quantità di dollari, riarmare le loro bande con armamenti più moderni ed efficaci e compensare i singoli componenti, pare, con uno “stipendio” di 300 dollari mensili. Con il ritiro degli americani sembra che queste concessioni stiano venendo meno, con buona pace della fidelizzazione.

Petraeus, pur applicando con forza il suo piano, non si era mai fatto soverchie illusioni su una pacificazione definitiva, ma riteneva che la sconfitta di al-Qaeda fosse già da considerarsi un grande successo. Sostituiti opportunamente i “fattori” relativi alla situazione in Iraq con quelli pertinenti all’Afghanistan, tutto sembrerebbe calzare perfettamente. Lesson learned? Forse è vero che la Storia non si ripete mai, ma è altrettanto vero che è saggio tenerne conto.

Iraq. Il presidente ha affrettato i tempi per il ritiro delle truppe. E i terroristi ne hanno approfittato

Tutti gli errori di Obama (e al-Maliki) di Antonio Picasso er capire la nuova ondata di violenze che ha sconvolto l’Iran negli ultimi due giorni, bisogna guardare l’Afghanistan. Ieri l’esplosione di una bicicletta carica di esplosivo, nella zona commerciale di alRasheed a Baghdad, ha causato 8 morti. Mercoledì una sequenza di attentati ha provocato oltre 100 morti e 500 feriti. Nell’ultimo anno e mezzo, da quando si era cominciato a parlare di effettiva pacificazione dell’Iraq, non si era registrato mai un bollettino tanto sanguinoso. Questa nuova insorgenza ha una spiegazione abbastanza evidente. I riflettori della comunità internazionale, ma soprattutto le risorse per il mantenimento della sicurezza sono tutti puntati su Kabul e sulle complesse elezioni presidenziali che il Paese centro-asiatico sta vivendo. Gli Stati Uniti, in primis,

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stanno focalizzando la propria attenzione quasi unicamente sull’Afghanistan.

Facile quindi, per le frange di guerriglia e di opposizione armata in Iraq, tornare a far sentire la propria presenza. C’è chi dice che dietro gli attentati a Baghdad ci sia al-Qaeda. Probabile, ma non scontato. Appena un anno fa si parlava di una sconfitta o comunque di un massiccio contenimento dell’organizzazione jihadista attiva sul territorio iracheno. Da qui la scelta del Pentagono di avviare un’exit strategy che si dovrebbe concludere nell’arco di un biennio. Di conseguenza, risulta difficile attribuire questa ondata di violenza unicamente ad al-Qaeda. Al contrario, sarebbe più appropriato pensare a una congiuntura regionale che offre a qualsiasi gruppo in armi di dimostrare la non sopita volontà di combattere. Le elezioni in

Afghanistan lasciano operativo uno spazio a chi in Iraq, fino all’altro ieri, era soggetto a un maggior controllo. Discorso simile per l’Iran. Le rivolte postelettorali di Teheran hanno occupato le prime pagine di tutti i giornali per oltre un mese. Lo scenario iracheno, quindi è sta-

Ieri altri 8 morti nella capitale dopo l’esplosione di una “bicicletta kamikaze”. Mai così tante vittime nell’ultimo anno e mezzo to messo progressivamente a margine. Le stragi di queste ultime 48 ore però hanno fatto riemergere tutti i punti di debolezza interni all’Iraq. Il ritiro delle truppe Usa, in questo senso, si sta rivelando affrettato. È

evidente che Obama guardi all’impegno iracheno come a un retaggio del tutto negativo della passata Amministrazione Bush e quindi voglia disfarsene al più presto. Il suo obiettivo è quello di passare non tanto come il Presidente Usa che ha portato la democrazia nel Paese, bensì come quello che ha ordinato il dietrofront ai suoi uomini, per tamponare l’errore commesso precedentemente.

Una scelta di discontinuità le cui conseguenze però rischiano di ripercuotersi sull’attuale inquilino della Casa Bianca, così come quelle nate dall’abbattimento del regime di Saddam Hussein sono ricadute sulle spalle di Bush. Contestualmente, il Primo ministro iracheno, Nouri al-Maliki, paga le spese di un eccessivo ottimismo. Forte della vittoria alle elezioni regionali dello scorso gennaio e incoraggiato da un rapporto più paritario


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Iran. Il presidente contestato presenta il suo esecutivo

Tre donne ministro per Ahmadinejad Intanto il “Times” ha identificato l’assassino di Neda: è un giovane membro delle milizie governative Basij di Massimo Fazzi ue mesi dopo la sua contestata rielezione, il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad ha presentato al Parlamento la lista dei Ministri del suo nuovo governo in vista dei voti di fiducia, uno per ogni singolo titolare di dicastero. I deputati inizieranno a esaminare la lista a partire da lunedì, mentre le votazioni si terranno a partire dal 30 agosto prossimo. La fiducia appare un esito non del tutto scontato perché la squadra dei nuovi Ministri, che per la prima volta comprenderà anche delle donne, potrebbe irritare non poco la parte più conservatrice del Parlamento.

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trambi criticatissimi in occasione della loro nomina iniziale e per i quali la fiducia (che è individuale per ogni singolo Ministro) venne ottenuta solo di misura. Ai Servizi segreti andrebbe un fedele collaboratore di Ahmadinejad, Heydar Moslehi, che tuttavia non è un mujtahed (ovvero un religioso in grado di interpretare la sharia), requisito che i titolari del dicastero devono rispettare per legge. Il Presidente a poi annunciato almeno tre Ministri donne, fornendo tuttavia solo due nomi: si tratta di Fatemeh Ajorlou, alla quale andrebbe il portafoglio degli Affari Sociali, e Marzieh Vahid Dastjerdi, alla Sanità. La decisione finale spetterà in realtà a Khamenei, ma i conservatori - peraltro schieratisi con Ahmadinejad contro i riformisti Mir Hossein Moussavi e Mehdi Karrubi - già nei giorni scorsi avevano reso pubblica una lettera firmata da 202 deputati sui 290 che siedono in Parlamento in cui chiedevano al Presidente di scegliere Ministri «capaci, fedeli alla Rivoluzione e con esperienza».

L’omicida è stato riconosciuto anche dal medico che aveva cercato di salvare la ragazza colpita a morte a Teheran: «È lui, sono certo»

con Washington, al-Maliki ha trasformato la pacificazione e la normalizzazione politica in Iraq in un dato di fatto. Ma la realtà quotidiana del Paese, non solo quella di ieri, ci ricorda che sono instabilità, insicurezza e contrasti socio-economici ad avere la meglio.

Nel gennaio del prossimo anno, sono in agenda le elezioni parlamentari. Al-Maliki si avvicina a questo appuntamento con un sostegno popolare in forte calo. Colui che si era detto in grado di sostituire la sicurezza garantita dalle forze Usa con quella dei suoi uomini rischia di pagare lo scotto di una promessa tanto avventata. Da qui una serie di iniziative che denotano la mancanza di una strategia da parte del governo di Baghdad. Nel momento in cui il mondo osservava con sdegno la repressione iraniana alle manifestazioni postelettorali, la polizia irachena faceva irruzione nei campi di accoglienza per i rifugiati iraniani ad Ashraf, ricorrendo a inattesi metodi di violenza. Si è trattato di un’iniziativa volta ad assicurare ad al-Maliki l’amicizia o comunque la buona vicinanza da parte del governo di Teheran? Se così fosse,

vorrebbe dire che l’Iraq starebbe prendendo le distanze dagli alleati occidentali. Tuttavia, se nel Paese dovesse tornare il terrore, quali sarebbero le carte in mano ad al-Maliki? Quella di un’alleanza con l’Iran? Ipotesi abbastanza insostenibile. Teheran è un avversario storico di Baghdad, che, all’occorrenza, non dimentica di ritenersi l’erede della civiltà persiana. Per quanto sciita possa essere al-Maliki, l’Iraq resta sempre la terra degli arabi. Meglio per Baghdad rimettersi nelle mani dei governi occidentali L’opportunismo di questi ultimi è palese.

Ma è altrettanto certa la garanzia che gli Usa sanno fornire a Baghdad, con il loro esercito, nell’ambito della sicurezza. Un’offerta molto più concreta di quella che possono proporre gli Ayatollah. Di fronte a tutto questo stride il fatto che al-Maliki abbia proclamato il 30 giugno – data di inizio del ritiro delle truppe Usa – giorno di festa nazionale. Un gesto di ingratitudine da parte del premier iracheno verso un alleato che l’ha portato alla guida del Paese.

Domenica scorsa Ahmadinejad - che già ha dovuto rinunciare alla nomina a vicepresidente del consuocero Esfandian Mashai per volontà della guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei - ha anticipato i nomi di sei nuovi Ministri, alcuni dei quali costituiscono una sfida al campo più conservatore, che ha già reagito con ostilità. Tra i confermati del vecchio esecutivo vi sono i titolari di Industria ed Economia, Ali Akbar e Mehrabian Shamseddin Hosseini, en-

Sul fronte dell’opposizione, poi, c’è da segnalare che l’uomo accusato di aver ucciso Neda Soltan, la ragazza di 27 anni diventata il simbolo delle proteste iraniane dopo le elezioni presidenziali del 12 giugno scorso, è stato identificato in Abbas Kargar Javid, un membro delle milizie governative Basij. Il riconoscimento è avvenuto dopo la pubblicazione su internet della carta di identità del miliziano, sottratta all’uomo dai manifestanti che lo avevano bloccato subito dopo l’esplosione dei colpi di arma da fuoco contro Neda. Come sottolineava ieri il quotidiano inglese Times, l’identificazione dell’omicida smentisce le dichiarazioni fatte dal regime iraniano dopo la morte della ragazza, secondo cui a sparare furono agenti stranieri. Il miliziano è stato riconosciuto dal dottore che provò a salvare Neda mentre giaceva in strada a Teheran. «Posso affermare con certezza che si tratta della stessa persona», ha detto Arash Hejazi al Times. Il medico ha quindi ricordato che la ragazza venne colpita da colpi di arma da fuoco esplosi da un Basij su una motocicletta, subito bloccato da una folla di dimostranti. Hejazi ricorda anche di aver sentito il miliziano che urlava: «Non volevo ucciderla. Non volevo ucciderla.Volevo colpirla alle gambe». Quindi, alcuni manifestanti che dicevano di linciarlo e altri che urlavano: «Non siamo degli assassini. Non fategli del male». I dimostranti decisero poi che non sarebbe servito a nulla consegnare l’uomo alla polizia, quindi presero la sua carta di identità e lo lasciarono andare via.


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diario

Evasione. Il superministro lancia una grande campagna estiva: ma sembra solo un altro “effetto” della crisi

Il fisco alla guerra dello yacht Imbarcazioni e auto di lusso nel mirino della Guardia di Finanza di Gianfranco Polillo vita sempre più grama per gli evasori. Prima la lista di coloro che hanno depositato i proventi del non denunciato presso le banche svizzere. Quindi la caccia agli “spalloni” che traghettano verso i paradisi fiscali denaro in contante. Ora l’incrocio tra i diversi database alla scoperta di chi possiede imbarcazioni o auto di grossa cilindrate, ma risulta sconosciuto alle anagrafe del Ministero dell’economia. Questa è l’ultima novità della crociata di Giulio il cacciatore. Costretto a deporre le armi contro i grandi manager delle banche che hanno preferito non accettare i Tremonti bond, per non essere assoggettati al vincolo dell’etica sulle loro retribuzioni, il Ministro dell’economia persegue gli stessi obiettivi, utilizzando altri mezzi. Quello di inseguire i possessori occulti di natanti e grosse auto non è una gran novità. Ricorda da vicino il cosiddetto “redditometro”, vale a dire il tentativo di individuare il reddito effettivo di ciascuno di noi, partendo dal livello effettivo dei consumi. Non ebbe un grande successo. Il limite fu il suo carattere sistematico. Quando si insegue la massa dei contribuenti, senza alcun filtro preventivo, il rischio è quello di affogare in un mare di scartoffie.

ci abbiamo pensato prima. Una delle possibili spiegazioni sta proprio nella crisi che stiamo vivendo. Quando la casa brucia, come sta bruciando, non si può andare tanto per il sottile. Fattori di carattere economico e di carattere sociale impongono che si faccia il possibile per evitare che a pagare siano sempre gli stessi. Mentre un certo numero di persone continua

È

Il possesso dei beni che abbiamo indicato rappresenta, invece, un discrimine. A quanti è capitato di notare le incongruenze tra chi fiscalmente conduce una vita magra, per poi permettersi il lusso di berline o di grosse imbarcazioni? Più di venti anni fa, Biglia, allora presidente dell’Inps, utilizzò questi metodi, se si vuole artigianali, per individuare coloro che evadevano i contributi assicurativi. Nessuna caccia solitaria. Nessuna perquisizione domiciliare. Ma solo un grande incrocio di dati presi a prestito dai vari Enti che li utilizzavano per la loro normale gestione. Una strada che è facile ripetere. Gli uffici della Motorizzazione civile sono da tempo informatizzati. Basta un semplice click ed ecco scorrere l’elenco di chi possiede Mercedes, Bmw o Ferrari. Operazione che si può facilmente ripetere con le Capitanerie di porto. Poi è sufficiente cercare nel cervellone di Equitalia ed avere l’elenco dei sospetti, da sottoporre a un’indagine più accurata. Sembra – ed in effetti è – l’uovo di Colombo. Il mistero è come mai intere legioni di responsabili fiscali non

Oggi non è più sufficiente aprire una finta impresa all’estero. Le tasse dovranno essere pagate nel vero luogo di attività

La politica di Tremonti sempre più simile a quella del predecessore

Ritorno al modello Visco di Francesco Pacifico segue dalla prima Ventiquattr’ore prima era stata annunciata una task force tra le Entrate e la Finanza per scovare i grandi patrimoni all’estero. Quarantott’ore prima le fiamme gialle avevano vantato un “bottino”di ben 3,3 miliardi di euro. E poi, andando a ritroso nei giorni e nella cronaca, l’indagine sul miliardo in fondi neri di Gianni Agnelli; la messa alla gogna di Tiziano Ferro; l’inchiesta a tappeto sui “matrimonifici” delle Marche (oltre 9 milioni nascosti al fisco); il direttore dell’Agenzia delle entrate, Attilio Befera, che annuncia: «Non perseguiremo soltanto i miliardari». E, aspettando un accordo con San Marino, lo sguardo professorale di Giulio Tremonti assomiglia sempre di più al ghigno sardonico di Vincenzo Visco. Con il gettito fiscale che nel primo semestre dell’anno è caduto di circa tre miliardi e l’economia in crisi, anche il ministro dell’Economia ha imparato ad affidarsi al mantra della lotta all’evasione.

Se il predecessore Visco mandava in televisione il suo direttore delle Entrate, Massimo Romano, per minacciare «un milione di ispezioni»,Tremonti dà mandato a un altro Viscoboys, Befera, di torchiare 170mila contribuenti con capitali all’estero. Perché servono soldi, perché bisogna spingere gli italiani ad aderire allo scudo fiscale, che per l’Ordine dei commercialisti è uno strumento di autodenuncia. Ma chi lo conosce bene,

dice che l’indole del tributarista cresciuto con i gruppettari di Pavia non va ricercato nei due scudi fiscali, nei condoni fatti per recuperare i fondi per la sanità, nelle brillanti consulenze ai maggiori gruppi industriali del Paese. E la cosa sarebbe accettabile se non fosse che il Tremonti politico ha costruito il grosso del suo consenso sull’introduzione delle due aliquote fiscali secche, sulla sacrosanta battaglia contro lo “Stato criminogeno”. Alla fine degli anni Ottanta, mentre il nemico Visco consiglia l’allora ministro Rino Formica come tassare i capital gain borsistici,Tremonti – in Fiera delle tasse scritto con Giuseppe Vitaletti – sottolinea quanto il fenomeno dell’evasione metta a rischio l’equilibrio dei sistemi fiscali e conclude che il problema va affrontato in ambito internazionale. Concetti poi ripetuti in seno al G8 nella sua guerra contro i paradisi fiscali. Racconta chi lo frequentava all’epoca: «Diceva che l’introito Irpeg, la tassa sulle imprese, era troppo alto visti i tanti modi per le aziende di giostrare i redditi con veicoli esteri». Al governo, nel 2001, inserisce nel bilancio consolidato delle aziende la facoltà di denunciare gli introiti esteri e dà un premio ai Comuni che segnalano evasori. Quando nel 2006 Visco indaga sulla residenza fiscale a Londra di Valentino Rossi, non soltanto Tremonti rivendica di «aver segnalato lui il caso», ma si indigna per l’accordo tra il pilota e l’Agenzia delle entrate. «Un condono personalizzato». Chissà se, a crisi finita, Tremonti tornerà quello del privatizzare «subito e in blocco», del portare le tasse da 100 a 8, dello Stato che «non è più la soluzione dei problemi, ma diventa il problema».

come se nulla fosse. Questo cambiamento di clima spiega la resa di Ubs, la banca svizzera, di fronte alle richieste internazionali, come spiega la caccia intrapresa contro i paradisi fiscali.

Giulio Tremonti è stato della partita, fin dall’inizio. Nelle sedi internazionali ha caldeggiato ogni possibile intervento all’insegna dell’etica della responsabilità: il cavallo di battaglia di un suo recente libro di successo. Non gli è stato difficile. Nelle corde del personaggio non c’è mai stato amore per i poteri forti, che ha cercato di contrastare in ogni modo. Nella precedente esperienza di governo, introducendo il “consolidato mondiale” ai fini del pagamento dell’Ires, aveva cercato, seppur con qualche difficoltà, di evitare che le grandi multinazionali scontassero le perdite in Italia ed i profitti nei paradisi fiscali. Con l’ultimo decreto di fine luglio è andato oltre. Oggi non è più sufficiente aprire una finta impresa all’estero per produrre reddito in Italia. Le tasse dovranno essere pagate in ragione del luogo effettivo di attività. Se si vende in Italia, la legislazione che vale è quella italiana e poco importa che la sede principale abbia sede nelle Cajiman o a Valduz. Decidendo di investigare anche sul livello dei consumi effettivi, tuttavia,Tremonti ha esteso il suo raggio d’azione, destinato a colpire anche il «popolo delle partite Iva». Coloro cioè che non hanno la struttura finanziaria per realizzare le grandi operazioni estero su estero, ma non per questo resistono alla tentazione di pagare meno del dovuto. È anche questo, come dicevamo prima, una conseguenza della crisi. Prosciugando lo stagno, essa non colpisce solo i grandi pesci, ma tutti coloro che, in questi anni, vi hanno trovato dimora.


diario

21 agosto 2009 • pagina 7

Cinque eritrei salvati dicono: «Siamo partiti in 80»

Pubblicate le conversazioni private del controllore aereo

Settantacinque morti nel mare di Lampedusa: ma è giallo

Una «grigliata» alla base della tragedia dell’Hudson

LAMPEDUSA. Un barcone alla

NEW YORK. Chiacchiere in libertà al telefono su una grigliata serale, il pieno di gas da fare, scherzi su un gatto morto da bruciare. Poi il gelo, e l’orrore. «O mio Dio! Ho sentito giusto?». Sono le 11 e 55 a New York il sabato 8 agosto, l’ora della collisione nei cieli sopra il fiume Hudson tra un Piper e l’elicottero Liberty Tours con cinque turisti italiani. Nell’ufficio dell’aeroporto di Teterboro una donna ha appena sentito l’annuncio: «Un aereo si è scontrato con un elicottero a sud del Lincoln Tunnel un minuto fa». Lei stenta a crederci, chiede al suo amico controllore di volo: «Ho sentito giusto?» Lui è di servizio nella torre di Teterboro che aveva dato l’ok

deriva, all’interno tre uomini, una donna e un ragazzo ridotti a scheletri, convinti d’essere ormai destinati alla morte. E’questo lo scenario che si è presentato agli uomini della Guardia costiera ieri mattina, quando hanno raggiunto - pochi chilometri a sud di Lampedusa un’imbarcazione segnalatagli dai colleghi di Malta. Quel che a bordo c’era, però, non è tanto terrificante quanto quello che mancava: a stare ai primi racconti fatti dai cinque sopravvissuti infatti, tutti cittadini eritrei, quando il loro viaggio è iniziato, una ventina di giorni fa, su quella barca c’erano almeno altri settantacinque loro connazionali. La stazza dell’imbarcazione sembrerebbe confermare le parole dei cinque, anche se sull’isola si attendeva per la notte di ieri l’arrivo di un traduttore ufficiale. A decine, insomma, sarebbero rimasti vittime di una catena di fatti ancora tutta da verificare: uno sbaglio di rotta, un’avaria o la fine del carburante uniti ad una davvero straordinaria capacità di rimanere invisibili a chiunque.

«Sono ancora scioccati – ha raccontato Aldo Morrone, direttore dell’Istituto che si occupa della salute dei migranti -

La ”strana” sicurezza del governo: il caso Fondi Le contraddizioni della maggioranza nella lotta alla mafia di Marco Palombi

«Q

uesti successi dimostrano che la lotta al crimine organizzato non va in ferie neanche ad agosto». Il Guardasigilli Angelino Alfano, mercoledì, era giustamente soddisfatto per l’arresto del boss della ‘ndrangheta Paolo De Stefano messo a segno da magistratura e forze dell’ordine, l’antimafia del fare. Per completezza d’informazione, però, avrebbe dovuto anche chiarire che l’antimafia del non fare, oltre che ad agosto, non lavora nemmeno da settembre a luglio. Si potrebbe usare come punto di caduta di questa constatazione il caso del mancato scioglimento del Comune di Fondi (Latina) per infiltrazioni mafiose, pure chiesto dal prefetto Bruno Frattasi nell’ottobre 2008 e dal ministro dell’Interno Maroni nel febbraio successivo.

Come si ricorderà Silvio Berlusconi, a Ferragosto, ha chiarito che la faccenda si è arenata – dopo un lungo insabbiamento, peraltro – per via del fatto che è cambiata la legge. Ovviamente la legge l’ha caml’attuale biata maggioranza, in parte pensando proprio al caso Fondi, rendendo di fatto meno agevole lo scioglimento degli enti locali preda e covo di mafia: grazie a tre paroline magiche – un po’ come per gli “evidenti indizi” di colpevolezza del ddl intercettazioni – per autorizzare il commissariamento di un ente locale i collegamenti tra politici e gruppi mafiosi devono essere dimostrati come «concreti, univoci e rilevanti». Sembrerebbe un’ovvietà – accertarsi che ci siano motivi sufficienti prima di prendere un provvedimento grave – ma questa formulazione serve in buona sostanza a garantire maggiore discrezionalità al governo. Si prenda appunto il caso di Fondi. Il cosiddetto “sud pontino”è il buco nero della lotta alla criminalità organizzata, la terra d’elezione di quella che l’associazione Libera ha chiamato la Quinta Mafia, una criminalità autoctona, nata dall’incontro tra criminali campani, calabresi e siciliani che quarant’anni fa furono mandati al confino nel basso Lazio.

Il fenomeno è stato studiato persino dalla commissione Antimafia nella scorsa legislatura, ma è nella ricostruzione della vicenda di Fondi che il prefetto di Latina ha inviato al ministero dell’Interno un anno fa che trova una sua dimensione per così dire plastica: «Sono emerse chiaramente – scrive Frattasi le connessioni fra la famiglia di Tripodo Domenico (boss tra i boss napoletani in contatto coi Casalesi, con la ’ndrangheta, con figure apicali di Cosa nostra) e soggetti legati per via parentale anche a figure di vertice del comune di Fondi». In particolare il prefetto si riferisce al sindaco di Forza Italia Luigi Parisella, in rapporti con Salvatore La Rosa «considerato affiliato al clan Bellocco di Rosarno» - e con la famiglia Tripodo attraverso suo cugino Peppe Franco, potente imprenditore del Mof, il mercato ortofrutticolo da 400 ettari di depositi e 800 milioni di fatturato l’anno. Il più grande d’Europa. Le indagini, che hanno portato in carcere un assessore di Fondi (il più votato alle ultime comunali) e sotto inchiesta un consigliere regionale sono partite oltre due anni fa: ancora a luglio però hanno prodotto l’arresto di 17 persone tra cui quattro dirigenti del Comune, il capo dei Vigili e il suo vice, i due fratelli Tripodo e pure il cugino del sindaco.

La legge del ministro Maroni rende, di fatto, più difficile sbarazzarsi degli enti locali infiltrati dalla malavita

hanno raccontato dei compagni morti durante la traversata, dei corpi senza vita scaricati man mano in mare, delle scorte che inesorabilmente finivano senza che si avvistasse terra» e di quando, alla fine, hanno cominciato a bere acqua marina, aumentando così «il rischio di ustioni mortali». In attesa che si arrivi ad una versione ufficiale della vicenda, resta l’incredibile primato di questo barcone, passato inosservato per venti giorni in mezzo al Mediterraneo: la segnalazione da Malta è arrivata ieri all’alba, quando i migranti si trovavano quasi nelle acque territoriali italiane, ma non è chiaro se La Valletta stesse monitorando la situazione già da prima.

Le irregolarità riguarderebbero il Mof, ma pure il settore dei traslochi, delle pulizie, delle pompe funebri. Mezza città. A questo, mentre sono decine gli attentati incendiari contro negozi e aziende, si potrebbe aggiunge la guerra interna a Forza Italia che vede opposti il ras politico della zona, il senatore Claudio Fazzone, e il collega Giuseppe Ciarrapico, editore del quotidiano Latina Oggi, che si è spinto a chiedere «una commissione d’inchiesta sulle fortune patrimoniali, assai celeri peraltro, del senatore Fazione». Per il presidente del Consiglio, però, non ci sono motivi di preoccupazione, d’altronde «nessun componente della Giunta o del Consiglio comunale è stato toccato da un avviso di garanzia». Il che è, quasi, la verità.

al decollo del Piper. È Carl Turner, 38 anni: sta parlando con la sua fidanzata. La Federal Aviation Authority non appena ha messo le mani su quella registrazione ha sospeso Turner e lo ha sottoposto a provvedimento disciplinare, per «comportamento inappropriato».

Fino alle 11 e 50 i nastri registrati riportano un contatto di routine fra il controllore Turner e il pilota del piccolo velivolo da turismo Stephen Altman. Da quel momento il controllore comincia a parlare con la sua amica: «Abbiamo abbastanza gas per le bombole della grigliata?». Alle 11 e 52 nella conversazione privata irrompe un messaggio dalla torre di controllo di Newark, lo scalo più grande del New Jersey. Da là hanno sentore del pericolo a cui va incontro il Piper. Turner ha ben altro per la testa e non capisce subito: «Ripeti, Newark». Le istruzioni s’incrociano confusamente ma nel frattempo il tecnico di Teterboro non interrompe la telefonata con la sua fidanzata, il dialogo privato fra i due va avanti. Alle 11 e 53 Turner ha la sensazione che qualcosa giri storto: «Accidenti». «Che succede?» gli chiede la donna. La risposta terribile arriva un minuto dopo: «Credo che sia andato giù, nello Hudson».


politica

pagina 8 • 21 agosto 2009

Il fattore Lega. Giovanni Sabatucci ipotizza il governo di unità nazionale una tecnica tradizionale della Lega quella di conquistare le prime pagine dei media in agosto con bordate provocatorie, lo abbiamo già visto e abbiamo anche visto che queste marette sono poi tutte rientrate. Sicché c’è un fattore stagionale che impedisce di prendere troppo sul serio certi episodi, riflette Sabatucci, e poi la Lega ha una necessità vitale di non essere solo percepita come una costola del Pdl».

«È

Insomma è sbagliato pensare che bastino le intemerate antinazionali o le ironie sull’inno di Mameli a minacciare l’asse tra Lega e Pdl, per arrivare a scenari tipo ’94 quando la rottura Bossi Berlusconi si consumò davvero. «Anche perché in quella ormai lontana stagione – ragiona Sabatucci – la Lega si scoprì essere una costola del movimento operaio, come la definì D’Alema ed eravamo in presenza di un quadro politico meno consolidato, fattore di movimento e di nuovi equilibri». È la stessa tesi che Nicola Latorre ha espresso nell’intervista di ieri a questo giornale: se non c’è un’alternativa credibile all’attuale maggioranza le contraddizioni interne al centrodestra saranno destinate a rientrare con la fine dell’estate. Detto questo sarebbe però sbagliato chiudere la porta a ogni ipotesi di nuove variazioni. Alle porte ci sono le regionali del 2010, un appuntamento dove le tensioni tra Lega e Pdl potrebbero di nuovo riacuirsi e poi c’è una nuova strategia dell’attenzione di una parte autorevole della classe dirigente berlusconiana verso l’Udc. Intrapresa proprio per contenere

«Una grande coalizione oltre Bossi e Di Pietro» Le tensioni tra Carroccio e Pdl non sono finite di Riccardo Paradisi le spinte leghiste e ricollocare più al centro una coalizione sbilanciata troppo a destra. «Inoltre – aggiunge Sabatucci – c’è la partita dei fondi per il Sud, su cui la Lega non può mollare ma su cui il Pdl, che nel Meridione e in particolare in Sicilia ha grossi problemi di scontento delle proprie classi dirigenti, deve tenere fermo per non perdere consenso. Anche perché mentre nel Nord il centrodestra è una forza strutturata, con un blocco sociale e d’opinione autentico, nel sud a contare sono le clientele e i poteri sedimentati. Sicché per il Pdl sarà impossibile non destinare risorse verso le regioni meridionali. Con buona pace di Bossi». Dunque variabili che potrebbero rimettere di nuovo in moto la situazione politica e in discussione l’asse Bossi Berlusconi ce ne sono. Si tratta di capire quale dovrebbe essere il loro sbocco. «Molto dipenderà anche dall’esito del congresso del Pd – dice Sabatucci – e comunque è chiaro che per cambiare l’attuale schema di potere dovrebbero cambiare le alleanze, e su questa ipotesi

gioca un ruolo fondamentale l’atteggiamento dell’Udc. Solo che l’Udc ha due pregiudiziali difficilmente superabili: una a destra, nei confronti della Lega, una a sinistra nei confronti dell’Italia dei Valori di Di Pietro. Sicché se c’è una possibilità di mutazione questa potrebbe essere costituita solo da un governo di unità nazionale Pdl-Udc-Pd, un governo di emergenza utile a fare le riforme e a immaginare

re non per una forma di malcostume o per la tendenza italiana a cercare un accordo sottobanco, ma per la paura che gli estremi potessero avere il sopravvento, che forze politiche extracostituzionali o extraparlamentari potessero giungere al governo dello Stato. Con l’introduzione del sistema uninominale abbiamo assistito in Italia alla nascita del bipolarismo, che, nonostante tutto, è stato una novità positiva. Il bipolarismo in Italia non ha funzionato bene per problemi noti: il mancato riconoscimento delle parti, l’eccessiva frammentazione delle forze politiche. Il sistema centrista può funzionare in una situazione in cui il Paese non può permettersi spaccature, ma io preferisco vivere in un paese capace di dividersi civilmente su delle idee». Insomma non si tratta di uscire dal bipolarismo secondo Sabatucci, semmai di riformarlo «così da rafforzare il sistema bipolare ma con accorgimenti che riducano la potenza d’urto e di condizionamento delle estreme sul centro delle coalizioni. Quel-

Per cambiare l’attuale schema di potere dovrebbero cambiare le alleanze, e su questa ipotesi gioca un ruolo cruciale l’atteggiamento dell’Udc la riforma che possa consentire di centrare maggiormente il sistema italiano». Una riforma che secondo Sabatucci non dovrebbe per forza segnare una fuoriuscita dal bipolarismo.

Sabatucci non ha una cattiva opinione del bipolarismo come è noto: «Negli anni 1993-1994 il sistema politico italiano è cambiato notevolmente. Prima era strutturato in senso centrista, a mio pare-

la della Grande coalizione è la stessa idea accarezzata dall’ex ministro degli Interni Giuliano Amato in un’intervista al Messaggero «Dobbiamo riuscire a verificare se siamo in grado d’avere un bipolarismo governato dai partiti di governo e non dalle rispettive estreme. Può darsi che una fase necessaria per arrivarci sia una grande coalizione italiana che includa i soli partiti di governo».

Un approdo verso il quale il laboratorio-Veneto che sperimenti una alleanza Pdl, Pd e Udc, potrebbe essere secondo il presidente della Treccani la prova generale. «Certo, fino a quando il leader indiscusso del centrodestra sarà Silvio Berlusconi sarà molto difficile immaginare uno scenario del genere – dice Sabatucci – perché non è nella psicologia di Berlusconi cedere quote di potere e di decisione, riaprire un dialogo con il Pd e tornare a mediare faticosamente con Casini e l’Udc. I quali non rinunceranno tanto facilmente alla riforma elettorale alla tedesca nella trattativa con il Pdl. Però se qualcosa si muoverà sarà questa la linea di movimento». Altre, obiettivamente, è difficile vederne.


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otto pagine per cambiare il tempo d’agosto

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21 agosto(1862)

Emilio Salgari

Non viaggiò mai fuori dall’Italia, ma le sue “avventure dalla poltrona” hanno ispirato tanti scrittori

Il padrone della giungla nera di Alessandro Marongiu

el 1950 L’Eco di Bergamo esce con una rivelazione clamorosa: bisogna immediatamente aggiornare la sua biografia, perché s’è appena scoperto che Emilio Salgari, il padre dei pirati e dei corsari più famosi della letteratura, è nato, diversamente da quanto tutti hanno sempre creduto, il 25 settembre 1863 a Milano. Peccato che questo tentativo di appropriazione indebita dei natali dello scrittore in chiave meneghina sia un bluff fatto e finito: come tutti sanno – e sapevano anche a Bergamo a metà del secolo scorso, c’è da giurarci – data e luogo di nascita di Salgari sono tutt’altri, e corrispondono al 21 agosto 1862 e a Verona. L’episodio, di per sé appena curioso, a ben vedere è invece decisamente interessante perché risulta solo l’ennesimo di una serie lunghissima di camuffamenti, mezze verità, bugie complete, che da sempre seguono passo passo la vita, l’opera e l’eredità salgariane: a cominciare da quella patente di capitano di gran cabotaggio che lui si attribuisce e sfoggia senza averla mai ottenuta, e che, per uno che ha sempre ed esclusivamente sognato il mare, avrà come coda beffarda il conferimento del cavalierato da parte dei Savoia nel 1897. Ma andiamo con ordine. Emilio Carlo Giuseppe Maria Salgari, figlio del mercante di stoffe Luigi e di Luigia Gradara, vede la luce al numero 839 di vicolo Marco: e tanto per iniziare da subito a confondere le acque (ci scusiamo per il gioco di parole, ma non potrebbe esserci metafora più pertinente), c’è chi (Silvino Gonzato) ritiene invece che il lieto evento abbia avuto luogo all’838. Dettagli a parte, su un fatto sono tutti d’accordo: il futuro scrittore non dimostra davvero una grande attitudine per lo studio, visto che fallisce nel 1874 l’ammissione alla Scuola Tecnica Regia, e che viene bocciato sia al meno valido Istituto Tecnico Comunale, sia all’Istituto Nautico di Venezia, dove s’è trasferito nel 1878. Ciò che conta del periodo in Laguna è però il viaggio di tre continua a pag. II

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SCRITTORI E CIBI

LE GRANDI BATTAGLIE DELLA STORIA

CAPOLAVORI DI PIETRA

Il coniglio di Hemingway

La Rinascente

di Filippo Maria Battaglia

di Roberto Dulio

Austerlitz 1805 di Massimo Tosti

pagine 4 e 5

pagina 6

pagina 7

pagina I - liberal estate - 21 agosto 2009


Sotto l’attore Kabir Bedi nei panni del “Corsaro Nero”, le copertine dei libri di Salgari e le edizioni Bemporad. Accanto la sontuosa residenza di un maraja e due indiani con i loro tipici copricapi

mesi che il diciannovenne Emilio compie sul mercantile Italia Una, attraverso la rotta Venezia-Brindisi-Dalmazia: viaggio per mare che sarà il primo e anche l’ultimo della sua vita, ma che basterà per far scattare la scintilla dell’immaginazione autobiografica, da cui scaturiranno visite immaginarie, spacciate per vere, per tutti i porti del globo terracqueo.

A questo proposito il maggior esperto salgariano, Felice Pozzo, parla giustamente di «ingenue vanterie [che], con il trascorrere del tempo, abbandonano il mondo della fantasia per accedere a quello toccante ma insidioso della fantasticheria», anche se a «salvarlo dall’irrazionalità non gli verrà mai meno una salutare autoironia». Fantasia e letteratura, fantasticherie e autoironia: tutti elementi che si ritrovano nella descrizione che Salgari fa di sé stesso in I Robinson italiani, attraverso il personaggio del signor Emilio: «Era un uomo che aveva varcato la trentina di qualche anno, di

statura bassa, un po’ inferiore alla media, con petto assai sviluppato, larghe spalle e membra muscolose senza però essere grosse. Il suo viso largo, un po’ angoloso, col mento appuntito, era pallido, leggermente abbronzato dalla salsedine

penetrare nel più profondo dei cuori; le sue labbra strette, ombreggiate da un paio di baffi rossicci, indicavano che doveva possedere una incrollabile energia».

Un autoritratto filtrato dalla lente della letteratura, visto che la fonte d’ispirazione diretta è il Robinson Crusoe di Defoe, in cui però a imporsi è la vena autoironica: la mimesi infatti non è, come si potrebbe pensare, col protagonista civilizzatore dei selvaggi, ma proprio coi selvaggi, ovvero con Venerdì. È sulla sua descrizione, infatti, che Salgari basa il calco con cui costruisce il proprio autoritratto, essendo questi i tratti del futuro servo che Robinson affida al suo diario: «Era un uomo aitante, di bell’aspetto e di mem-

Il padre dei pirati e dei corsari più famosi si attribuì e sfoggiò senza averla mai ottenuta, la patente di capitano di gran cabotaggio con la quale aveva attraversato i mari delle Indie del vento marino; la sua fronte ampia, appena segnata da una ruga precoce, indicava che quell’uomo era inclinato alla riflessione; i suoi occhi, sormontati da due sopracciglia folte, dall’ardita arcata, erano profondi, ma talora scintillavano e pareva allora volessero

pagina II - liberal estate - 21 agosto 2009

bra robuste e proporzionate: dritto e saldo, ma non troppo grosso, alto e ben fatto. A mio parere doveva avere circa ventisei anni. […] la fronte era molto alta e spaziosa e gli occhi brillavano, vivi e perspicaci. La pelle, pur non essendo nera, era molto scura; […] il volto era tondo e paffuto; una bocca di linea normale, con labbra sottili». Rientrato a Verona, Salgari esordisce come narratore nel 1883 con I selvaggi della Papuasia, che La Valigia pubblica in quattro puntate a cavallo dei mesi estivi, ma soprattutto comincia a collaborare con La Nuova Arena che, in 150 puntate, pubblica La Tigre della Malesia, il romanzo che riveduto e corretto uscirà sette anni più tardi in volume col titolo Le Tigri di Mompracem, e che resterà per sempre uno dei

suoi più grandi successi. Tra i tanti aneddoti creati ad arte, quello relativo al compenso per questo lavoro è senz’altro vero: il direttore del periodico, Giannelli, paga lo scrittore con una torta, realizzata dal Caffè Dante, decorata con l’immagine di una tigre. Complice l’immediato riscontro di pubblico, La Nuova Arena continua a dargli fiducia, e nel tardo 1884 pubblica La favorita del Madhi, altro libro salgariano di enorme importanza.

Cresce la fama , e con essa l’impulso irrefrenabile a costruire il proprio personaggio: è lui stesso a farsi chiamare Capitano (senza merito, come abbiamo già detto), ma non tutti ci cascano, e il cronista Biasoli de L’Adige, per aver detto la verità con un po’ di insolenza («né capitano, né mozzo: siete un vi-


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o stesso giorno... nacque

L’immensità di Don Backy che non ebbe paura di lasciare il clan Celentano

Conciatore di pelli da ragazzo, imparò a farne accapponare molte. Scrive alcune tra le più belle canzoni italiane, come “L’Amore”, “Canzone”, “Un sorriso” e “Nuda” e riscrive “Stand by me” di Francesco Lo Dico in “Pregherò “ e “Don’t play that song” in “Tu vedrai” ldo Caponi fino al 1956, Agaton e si stancano di farlo. Coper sei anni, Don Backy dal nosce Liliana Petralia sul 1962. pseudonimo di Aldo Ca- set di Super rapina a Milano. Affiponi, cantautore. Conciatore di liato del Clan Celentano, riscrive Stand pelli da ragazzo, imparò a farne accap- by me in Pregherò e Don’t play that ponare molte. Cantante, emulo di Bill song in Tu vedrai di Gianco. Haley, strimpellatore nato a Santa Cro- L’Amore (1965) gli regala il vero succesce dell’Arno nel 1939. A trent’anni si fi- so, il «Festival di Sanremo» (1967) il bananzia il primo 45 giri. Ne vende cento gno di folla con L’immensità. Primo copie perché le acquista lui. Canta la fu- cantautore romanziere, pubblica Io che ga d’amore di un amico ne La storia di miro il tondo per Feltrinelli Frankie Ballan. Adriano Celentano la Per una questione di royalties lascia il cerchi e 3.200 versi e uno, Clanyricon ascolta, e si dà alla fuga pure lui. La fi- Clan Celentano l’anno dopo. Nonostan- sul Clan Celentano. Negli anni ’90 fa danzata del molleggiato se ne appassio- te il molleggiato la stoni volutamente, comparsate in tv: «C’era una volta il fena. Riporta il molleggiato sui suoi pas- la sua Canzone arriva terza a Sanremo. stival» e «Una rotonda sul mare». Nel si, e Don Backy a casa sua per un collo- Al gesto di Adriano, intitola la sua nuo- 2004 quasi non fa in tempo ad averne quio. Seminarista della musica, non an- va casa discografica: Amico. Vengono un’altra al reality «La talpa». Fuori alla cora Don, partecipa al «Cantagiro» nel altri Sanremo, altre polemiche con Ce- prima puntata. Dà lezioni di musica in ’62 e nel ’63. Provoca gli accademici con lentano, e altre nuove ballate. Un sorri- video per Rai Nettuno, due anni dopo. Ho rimasto, Manzoni con Il monaco di so e Bianchi cristalli sereni, Sognano e Partecipa quest’anno a «Ti lascio una Monza (dove recita con Celentano) e le Nuda per Mina su tutte. Nel 1980 pub- canzone». Anche se vivo e vegeto, ce ne ire de I fuggiaschi che suonano con lui blica due fumetti: uno dantesco in 12 ha già lasciata più di una.

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gliacco»!), viene sfidato a duello e trafitto da Salgari, provetto spadaccino che si tiene in forma al Circolo Bentegodi. Risultato: «sei giorni di restrizione della libertà a Peschiera», come riporta Bruno Traversetti nella sua indispensabile monografia uscita per Laterza nel 1989; ma l’onore, che è quello che conta, è salvo. Due anni dopo esce a puntate su Il Telefono, Gli Strangolatori del Gange, altro punto cardine della sua produzione, che nel 1903 verrà ristampato a Genova da Donath come I misteri della Jungla nera. Intanto, c’è da registrare il passaggio da La Nuova Arena a L’Arena, che non paga in torte ma in soldi veri i pezzi giornalistici della Tigre della Magnesia, come lo chiamano i più perfidi. Negli anni che lo separano dal trasferimento a Torino, il Salgari cronista fa in tempo a documentare l’arrivo a Verona di 30 adoratori di Buddha, che ricostruiscono in città le capanne in cui vivono a Ceylon: e chi meglio di lui può testimoniare quanto rassomiglino alle originali, dato che – scrive – ha potuto vederle coi suoi occhi in uno dei suoi viaggi «nelle foreste di Colombo?». Ma l’incontro più importante del periodo, fulminante addirittura, è col mito vivente Buffalo Bill, che nel 1890 sbarca in Veneto col suo Wild West Show. Un temerario come Salgari non può accontentarsi di assistere allo spettacolo dalle tribune, e allora eccolo figurante nella scenetta più attesa, all’interno della diligenza presa d’assalto dai te-

mibili indiani e subitamente salvata dai prodi cowboy d’oltreoceano. Un’esperienza, questa, che gli tornerà immensamente utile quando deciderà di dar vita a una delle sue saghe più famose, appunto quella del West. Suicidatosi il padre, sposata Ida Peruzzi (non prima di averla ribattezzata Aida), e vista nascere Fatima, prima di quattro figli, nel 1893 Emilio Salgari decide per il trasferimento in Piemonte, dove l’editore Speirani garantisce un salario fisso in cambio di brevi prose a carattere moraleggiante destinate ai più piccoli.

È a T or i n o che Salgari tocca l’apice di fama e successo, ed è qui che prendono forma definitiva le sue serie principali, quella dei pirati con l’immortale Sandokan e quella dei corsari con Il Corsaro nero (1898). Due anni di intervallo a Genova, e poi dal 1900 il ritorno a «Grissinopoli», come viene definita Torino nel suo libro meno ortodosso, La Bohème italiana. Le vendite esorbitanti dei suoi romanzi (le gesta del Conte di Ventimiglia toccano da subito le 100mila copie, in un’Italia in cui alfabetismo diffuso e consuetudine alla lettura sono ancora di là da venire) portano gli editori a richieste sempre più pressanti di materiale, e la sua vita scivola piano piano in un inferno, stretta com’è tra il tavolino in cui passa quasi tutto il suo tempo a scrivere, la crescente necessità di denaro, i problemi con alcol e sigarette e alla vista, e l’instabilità mentale della moglie. Un primo tenta-

tivo di suicidio nel 1909, e poi, il 25 aprile di due anni dopo, l’atto conclusivo, eclatante, (inevitabilmente) dal sapor mediorientale: il Capitano Emilio sale su una collina del torinese armato di rasoio, e si squarcia ventre e gola. Tra le righe di commiato, risaltano in modo drammatico quelle ai suoi editori: «A voi che vi siete arricchiti colla mia pelle mantenendo me e la mia famiglia in continua semi-miseria od anche più, chiedo solo che per

incapacità a vendersi bene al mercato editoriale e ad amministrare il denaro guadagnato, a decretarne difficoltà e precarietà economiche. Per dirne una, una quindicina di anni fa Silvino Gonzato ha fatto i conti in tasca a Salgari, ed ecco cosa ne è venuto fuori: «Gli editori non versavano cifre miserrime al romanziere.

Bemporad gli passava 8mila lire annue, quando Zanichelli offriva a Giosuè Carducci 5mila lire per assicurarsi in perpetuo i diritti sull’intiera opera e il Pascoli riceveva dalla Tribuna 500 lire (sempre annue) per i suoi articoli. Ottomila lire di allora equivalgono agli 80-90 milioni odierni [del 1995]». Sia come sia, mentre s’è già dato avvio alle iniziative per commemorare il centenario della morte, è di non poco interesse fare un piccolo viaggio attraverso le molte eredità che Salgari ha lasciato, a partire dalle centinaia di imitazioni che, dal 1911 in poi, hanno sfruttato per anni in modi più o meno (soprattutto meno) leciti il suo nome: roba tipo Il Corsaro verde (con, ovviamente, discendenza al se-

Tanti gli adattamenti cinematografici, da «Sandokan» di Sollima con Kabir Bedi allo sceneggiato Rai «Il segreto del Sahara», anche se tutto deve esser fatto risalire al capolavoro di Giovanni Pastrone «Cabiria» libero adattamento del salgariano «Cartagine in fiamme» compenso dei guadagni che vi ho dati pensiate ai miei funerali. Vi saluto spezzando la penna». Eppure, anche qui lo scrittore sembra concedere più di qualcosa al proprio mito, visto che da più parti (ancora Traversetti,Vittorio Sarti) si sottolinea come in realtà sia stata la sua

guito: La figlia del Corsaro verde), Il Corsaro rosso, Ariuka la figlia del Cacico e via piratando. Innumerevoli gli adattamenti cinematografici dei suoi romanzi fin dagli anni Venti del secolo scorso, sia diretti (va ricordato almeno il Sandokan di Sollima con Kabir Bedi), sia più o meno (anche qui: soprattutto meno) fantasiosamente ispirati a essi (un improbabile Sandok il Maciste della Giungla di Umberto Lenzi, e lo sceneggiato Rai Il segreto del Sahara), anche se in realtà tutto deve esser fatto risalire al capolavoro di Giovanni Pastrone Cabiria, adattamento molto libero del salgariano Cartagine in fiamme. E poi ancora: fumetti – è di pochi mesi fa la pubblicazione del Sandokan di Hugo Pratt, che si riteneva perduto –, parodie erotiche, spettacoli teatrali, un videogioco per Playstation 2 e PC dedicato alle gesta del Corsaro Nero e, a poca distanza da Torino, il Salgari Campus, parco con percorsi formativi dedicati a bambini e a ragazzi. E non ci s’inganni sul tono qualche volta leggero con cui abbiamo accennato alle fantasticherie adottate da Salgari per colorire la sua biografia: ché il fatto di aver stregato intere generazioni di lettori-Tigrotti, insegnando loro ad amare i luoghi esotici in cui ambientava i propri romanzi, senza quei luoghi aver mai visto davvero, è semmai la definitiva certificazione di un’immensa forza immaginativa, quella del Capitano Emilio, che sperare di ritrovare ai nostri giorni è a dir poco un’ utopia.

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SCRITTORI E CIBI

Cacciagione e coniglio alla

HEMINGWAY Il romanziere americano aveva una predilizione per la cucina cubana, la minestra di fagioli neri e il latte condensato di Filippo Maria Battaglia

F

alsi d’autore, ovvero la cucina creata a uso e consumo della pagina narrativa. Sebbene non assuma un ruolo centrale in nessuno dei suoi romanzi, in Hemingway il cibo ricopre perlopiù una presenza costante, quasi discreta, nell’intreccio di tutte le sue opere. È l’ingrediente evasivo per eccellenza, in grado di accordare l’intreccio alla sua storia. Ma, al contempo, in più di una occasione, rischia di creare cortocircuiti che farebbero inorridire i cantori e i puristi della buona tavola. Per avere un’idea, basta leggere le prime pagine di quello che è a tutt’oggi considerato il più bel romanzo sulla guerra civile spagnola, Per chi suona la campana (For Whom the Bell Tolls, 1940). Nelle prime pagine, fa il suo ingresso una pietanza che nella Castiglia della seconda metà degli anni ’30 è assai difficile da preparare. Un succulento coniglio al vino rosso con peperoni e piselli spiattellato sotto il naso di Robert Jordan, il dinamitardo statunitense che ha l’obiettivo di far saltare un ponte proprio nella comunità autonoma spa-

gnola. Se si dà per assodato che nessuno dei combattenti può disporre di un freezer o di una serra, allora è molto probabile che lo scrittore di Oak Park si sia lasciato prendere un po’ la mano: se ci sono i piselli, non ci sono infatti i peperoni; se ci sono i peperoni, non possono esserci ancora i piselli. Poco male, comunque, perché la scena descritta regge l’intensità e il ritmo narrativo del libro: il coniglio viene consumato in una grotta dove, oltre a cucinare, si mangia e si dorme. È lì che si progetta l’assassinio di Pablo, leader dei repubblicani accusato di fellonia.

L a s c e n a s e m b r a rievocare quasi immediatamente l’antro di Polifemo. Hemingway però insiste sul piatto, tanto da far credere al lettore di aver mangiato davvero quel benedetto coniglio. Prima che arrivi sulla tavola, Robert sente infatti l’odore di olio, cipolla e carne arrosto. «La pietanza era un coniglio cotto con cipolla e peperoni verdi, e nella salsa al vino rosso, nuotavano dei piselli. Era cucinata bene, la carne

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In «Per chi suona la campana», alcune pagine sono dominate da una lunga evocazione di odori, con le pareti impregnate «dal fumo del tabacco e del carbone, dall’odore della carne cucinata e del riso, dello zafferano, dei peperoni e dell’olio» si staccava dalle ossa e la salsa aveva un sapore delizioso». A portarla in tavola è Maria, la donna rapata e stuprata dai fascisti dopo la presa di Valladolid. La descrizione del manicaretto regge solo dal punto di vista narrativo, anche se Hemingway, in circostanze del tutto diverse, è probabile che l’abbia davvero mangiato. «Il connubio fra i due vegetali è di tradizione (anche se non in piatti di carne) – scrive Maria Grazia Accorsi in Personaggi letterari a tavola e in cucina, Sellerio – infatti nella ricetta antica della paella alla valenciana ci sono insieme piselli e peperoni (anche se nessuno ci dice se gli ingredienti fossero secchi o freschi; ora ovviamente tutto è compresente

quindi le ricette moderne dove compaiono, come ad esempio la paella all’aragonese, non ci interessano). Hemingway avrà forse mangiato questa pietanza e se ne è ricordato, non sembra infatti una ricetta di fantasia, bensì semmai una ricetta dove, come spesso accade, chi cucina inventa utilizzando ciò che ha a disposizione». Una cosa è certa: allo scrittore statunitense, il coniglio al vino doveva piacere davvero. In uno dei suoi racconti, Vino dello Wyoming si ritrova infatti un’altra ricetta, stavolta descritta da Madame Fontain, una donna francese che col marito gestisce un’osteria, in tempi di protezionismo evidentemente abusiva. Il piatto è im-

posto dal marito.Tocca raccontarlo alla stessa Fontain: «Una volta ha ammazzato un coniglio selvatico e voleva che lo cucinassi con una salsa di vino, che preparassi una salsa nera con vino, burro, funghi e cipolla e che mettessi tutto dentro, per il coniglio. Faccio la salsa, mio dio, lui mangia e poi mi dice: “La sauce est meilleure que le coniglio”».

M a to r n i a m o alla pietanza cucinata in Per chi suona la campana. La sicumera con cui Hemingway lo descrive ci fa credere che i peperoni, in quella grotta, dovevano proprio esserci. Alcune delle pagine iniziali del suo capolavoro sono dominate da una lunga evocazione di odori, con le pareti impregnate «dal fumo del tabacco e del carbone, dall’odore della carne cucinata e del riso, dello zafferano, dei peperoni e dell’olio». Un contesto irripetibile, non solo per il conflitto in corso: «in quanto alla qualità della carne – scrive la Accorsi – certo si trattava di conigli ben diversi da quelli che siamo costretti mediamente a


Per molti anni, Cuba impersonerà la panacea dei mali dell’autore. Tanti aspetti della città gli piacevano. Era una specie di parco giochi per gente ricca e famosa, che veniva in gran parte dagli Stati Uniti, era il posto ideale per divertirsi

LA RICETTA = CONIGLIO CON FUNGHI IN SALSA DI VINO

(PER 5 PERSONE) 1,3 kg di coniglio tagliato a pezzi 50 gr. burro 250 gr di pancetta magra tagliata a pezzi 2 cucchiai di farina 2 bicchieri di vino bianco secco 2 spicchi d’aglio schiacciati 2 cucchiai di scalogno e prezzemolo tritati insieme Pepe bianco 50 gr di funghi secchi, ammollati in acqua calda, strizzati e tritati 1,5 kg funghi freschi tagliati a pezzi grossi 1 cucchiaio di olio d’oliva 1 spicchio di aglio intero Prezzemolo

mangiare noi, che si cuociono in venti minuti e per i quali il problema non è proprio quello di far staccare la carne dalle ossa, bensì semmai quella di tenergliela attaccata e non stracuocerla. Neanche i costosi e difficili da reperire conigli di contadino hanno più quel sapore intenso, quasi selvatico, di una volta». La cucina del premio Nobel non si lega però solo alle pagine epiche dedicate alla guerra civile spagnola. Oltre ad essere necessario, il cibo (e il vino) in guerra assurge comunque a elemento evasivo per antonomasia. In Addio alle armi Frederic Henry si gode con la sua amante l’ultimo pasto prima di tornare al fronte: «Dopo mangiato ci sentivamo bene, e poi eravamo felici. La stanza presto ci sembrò la nostra casa. La mia stanza all’ospedale era stata la nostra casa e anche questa stanza, nello stesso modo, era la nostra casa. Catherine tenne la mia giubba sulle spalle mentre mangiavamo. Avevamo una gran fame, il pranzo era buono e bevemmo

una bottiglia di Capri e una bottiglia di St. Estephe. Lo bevvi quasi tutto io, ma anche Catherine ne bevve un po’ e la fece sentire così bene. Per cena mangiammo la beccaccia con soufflé, insalata e uno zabaglione per dessert».

Suona uno spartito assai diverso il pasto che, molte pagine più avanti, lo stesso Frederic consuma in Svizzera. È ormai un disertore. Ha fatto rotta in una baita sulle montagne di Montreaux, scappando con Catherine, incinta e ormai prossima al parto. Ma il travaglio della sua amante è complicato. Per questo, i due si recano a Losanna. Frederich è angosciato. Invitato più volte dagli inservienti ad uscire dall’ospedale per andare a consumare un pasto, si convince e si dirige verso il centro: «Scesi sulla strada vuota, fino al caffè. C’era un lampada alla finestra. Entrai, mi fermai al bar di zinco e un vecchio mi servì un bicchiere di vino bianco e una brioche. La brioche era del giorno prima. La inzuppai nel vino e poi bevvi un bicchiere di caffè».

Scaldate il burro in una casseruola. Aggiungete la pancetta e fatela dorare, quindi toglietela dal fuoco lasciando nella casseruola il condimento. Mettete i pezzi di coniglio in questo fondo di cottura e fateli colorare a fuoco vivace. Aggiustate di sale e pepe, cospargete di farina e bagnate il vino con altrettanta acqua. A questo punto aggiungete i pezzi di pancetta, l’aglio, i funghi secchi tritati, una macinata di pepe bianco e il trito di scalogno e prezzemolo. Portate a ebollizione, abbassate la fiamma e fate cuocere a fuoco moderato per circa un’ora e mezza. In un’altra padella fate saltare i funghi freschi in un cucchiaio di olio d’oliva con uno spicchio di aglio intero. Bagnate con un mestolo della salsa di cottura del coniglio e lasciate cuocere per 15 minuti. Quindi togliete il coniglio e lasciate la salsa sul fuoco finché non si riduce. Servite il coniglio con i funghi e la salsa ben ridotta. Quella sortita in solitaria non sarà però la sola. Più tardi, «alle due uscì a fare colazione. C’era poca gente nel bar, seduta col caffè e i bicchieri di Kirsch o March sulle tavole. Sedetti a un tavolo.“ Posso mangiare?” chiesi a un cameriere. “È passata l’ora della colazione”. “Non c’è qualcosa che è pronto a tutte le ore?”. “Posso darle una choucroute”. “Dammi choucroute e birra”. “Mezza o intera?”“Mezza chiara”. Il cameriere portò un piatto di saukerkraut con una fetta di prosciutto in cima e una salsiccia sepolta nel cavolo inzuppato di vino. Mangiai e bevvi la birra. Avevo molta fame». La choucroute è un piatto a base di carne di maiale e crauti, tipico dell’Alsazia. Surkut, in tedesco, è il cavolo acido, tri-

tato grossolanamente e fermentato per diverse settimane prima di essere cucinato in una casseruola con pancetta, bacche di ginepro, cumino, sale e pepe e, da ultimo, con le salsicce e il prosciutto. L ’ u l t i m o p a s t o che Frederic consuma è assai frugale: un piatto di uova e prosciutto così bollenti che gli scottano la bocca. Quando torna in ospedale, è ormai troppo tardi: Catherine è morta. L’atmosfera plumbea che si respirava al caffè è diventata tetra, e non c’è più spazio per nessun’altra descrizione culinaria. Il cibo in Hemingway restituisce però anche altre atmosfere. È il caso del sandwich mangiato nel racconto Il grande fiume dai due cuori, che stavol-

ta è accompagnato dal latte condensato. Un’autentica predilezione per lo scrittore americano, come la minestra di fagioli neri e la cucina cubana. In Avere e non avere, quest’ultima ha addirittura riservato l’onore dell’incipit: al Café La Perla de San Francisco, proprio alla minestra, insieme allo spezzatino di patate bollito, è affidato il compito di introdurre il lettore alla storia. Per molti anni, Cuba impersonerà la panacea dei mali dello scrittore americano. Come ha ricordato Gail McDowell, «in un articolo su Hemingway Kelley Dupuis scrive che nel mondo della tauromachia esiste una parola, querencia, che si riferisce a quella parte dell’arena dove il toro si sente al sicuro. Hemingway aveva trovato la sua personale querencia all’Havana. Tanti aspetti della città gli piacevano. Era una specie di parco giochi per gente ricca e famosa, che veniva in gran parte dagli Stati Uniti, era il posto ideale per divertirsi.

All’Havana, poi, Hemingway poteva uscire in pantaloncini e camicia larga in qualsiasi momento della giornata, cosa che si addiceva al suo stile di vita informale. E c’era anche il Grande Fiume Blu, come lui chiamava la corrente del Golfo, che scorreva lungo la costa di Cuba e prometteva la migliore pesca di marlin del mondo. Scoprì i combattimenti di galli e divenne un aficionado di Jai Alai. Al Floridita Bar, la querencia nella querencia, aveva un posto riservato in fondo al balcone, dove lo si vedeva spesso bere daiquiri ghiacciati. Ma anche la cucina faceva parte delle attrattive della città: uno dei piatti cubani di Hemingway era la minestra di cetrioli fredda». Sarà lì che nel febbraio del 1952 lo scrittore di Oak Park finirà di scrivere il suo libro più noto, Il vecchio e il mare, che gli varrà il premio Pulitzer. Dopo l’assegnazione del Nobel, gli ultimi anni racconteranno di un uomo ormai al capolinea. Le costanti crisi maniaco-depressive lo porteranno a togliersi la vita il 2 luglio 1961 con un colpo di pistola alla tempia. Il vitalismo che decenni prima aveva contaminato la sua opera, negli ultimi mesi si era ormai ridotto ad un’ombra cupa e indefinita.

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LE GRANDI BATTAGLIE All’alba sulle colline di Pratzen le forze in campo erano Russi e Austriaci, al comando dei due imperatori Alessandro I e Francesco II, contro l’esercito francese. Quest’ultimo ha la meglio. Cade l’impero romano-germanico arl von Clausewitz, direttore della scuola di guerra prussiana e massimo studioso di strategie militari, non aveva dubbi nell’indicare in Napoleone il più grande condottiero della storia: «Con lui la guerra ha assunto tutt’altra natura o, meglio, si è avvicinata molto alla sua vera natura, alla sua perfezione assoluta». Nelle scuole di guerra si studiano ancora le sue mosse, a duecent’anni di distanza. C’è sempre da imparare. Napoleone fu senza dubbio un grande stratega, ma seppe anche capitalizzare alcuni vantaggi obiettivi. Il principale di essi era un’eredità diretta della Rivoluzione Francese che, decapitando lo Stato maggiore delle forze armate (rappresentato dalla vecchia classe nobiliare detentrice di funzioni di comando per ragioni dinastiche e non per capacità operative) aveva immesso ai vertici una linfa nuova di ufficiali borghesi e capaci, desiderosi di mettere in mostra le proprie capacità operative e il proprio coraggio. La situazione, invece, era rimasta più o meno immutata per gli altri eserciti che cercavano di contrastare la Grand Armée al comando di generali incipriati e parrucconi, del tutto inadeguati a reggere il confronto.

DELLA

AUSTERLITZ 1805

Successo moldavo

K

Uomini del Settecento , costretti dalle circostanze a sfidare un esemplare – il migliore – che anticipava i caratteri e la mentalità del secolo successivo. Napoleone fu il primo – per citare ancora Clausewitz – a capire che «la guerra è uno strumento della politica, un seguito del procedimento politi-

Con questa vittoria Napoleone conquistò l’Europa di Massimo Tosti

co, una sua continuazione con altri mezzi». La coscrizione obbligatoria, imposta dalla Rivo-

Lo scontro è considerato un capolavoro strategico. Secondo Clausewitz, il suo vincitore fu il primo a capire che «la guerra è uno strumento della politica e una sua continuazione con altri mezzi» luzione, agevolava questo genere di interpretazione, e l’identificazione – che ben presto si verificò – fra lo stratega militare e il leader politico perfezionò il disegno. Austerlitz – su questo concordano la maggior

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parte degli studiosi dell’arte militare – fu il capolavoro dell’imperatore dei francesi (e quella fu la sua prima battaglia dopo l’incoronazione). Era il 2 dicembre 1805, lunedì. La data merita di essere sottolineata, perché dei tre eserciti presenti sul campo soltanto per uno (quello austriaco) si trattava, appunto, del 2 dicembre.

Per i francesi (che mantenevano il calendario della Rivoluzione) era l’11 febbraio. Per i russi (che rifiutano il calendario gregoriano) era il 19 novembre. Durante la notte, prima dello scontro, un ufficiale di Bonaparte ha lanciato un grido: «È l’anniversario dell’incoronazione». Il 2 dicembre dell’anno precedente, Napoleone si era posto sul capo la corona davanti al papa Pio VII nella cattedrale di Notre Dame a Parigi. L’entusiasmo per la ricorrenza ha contagiato tutto

l’accampamento francese: «Vive l’Empereur», hanno urlato all’unisono ufficiali e soldati. Lui, commosso, ha confidato agli aiutanti di campo: «È la più bella sera della mia vita». Poi ha aggiunto: «Ma soffro al pensiero che perderò un buon numero di questi uomini, che considero tutti come miei figli». All’alba, le colline di Pratzen, nei pressi di Austerlitz in Moravia, erano avvolte dalla nebbia, che si diradò verso le 9 del mattino, lasciando il posto al sole, che Napoleone interpretò subito come un ottimo auspicio: «il sole di Austerlitz». Ordinando lo sgombero, nei giorni precedenti, Bonaparte aveva volutamente dato l’impressione al nemico di volersi ritirare per timore di essere accerchiato sulla destra. Le forze in campo erano impressionanti. Russi e Austriaci – al comando dei due imperatori Alessandro I e Francesco

STORIA

II – schieravano 86mila uomini, divisi in 113 battaglioni e circa 200 squadroni. I Francesi erano 74mila (93 battaglioni e 80 squadroni). Gli alleati caddero nel tranello: aggirarono a destra i Francesi, presentando loro il fianco, e consentendo a Napoleone di attuare il suo piano che prevedeva di irrompere con la massa principale delle sue forze sul centro dello schieramento nemico, isolarne la sinistra e avvolgerne e distruggerne la destra. La battaglia si protrasse per tutta la giornata su un fronte di circa 18 chilometri. I Russi lasciarono sul campo 10mila morti e 11mila prigionieri; gli Austriaci persero più di un terzo dei loro effettivi (6mila fra morti e prigionieri). I Francesi contarono appena duemila morti. Si trattò di una vittoria schiacciante, il cui peso psicologico fu accentuato dal fatto che sul terreno si erano scontrati tre imperatori. I tre uomini più potenti della Terra. Napoleone fece incidere sull’arco di Trionfo di Place du Carrousel a Parigi il bollettino della vittoria: «Una terza coalizione si forma sul continente. I francesi corrono dall’oceano al Danubio. La Baviera viene liberata, l’esercito austriaco è catturato a Ulm. Napoleone entra a Vienna e trionfa ad Austerlitz. In meno di cento giorni la coalizione è dissolta. Il vincitore di Austerlitz fa sentire la sua voce, e cade l’impero germanico, sorge la confederazione del Reno, sono creati i regni di Baviera e del Württemberg,Venezia è riunita alla corona ferrea, tutta l’Italia si sottomette alla legge del suo liberatore».

Un biografo autorevole, il tedesco Franz Herre, riassume così il senso di quelle giornate: «L’imperatore si scalda al sole del suo più grande trionfo. L’impero romano-germanico era caduto e l’impero francese dominava l’Europa». Quella di Austerlitz fu la quarantesima battaglia combattuta da Napoleone. Il giorno successivo, i soldati ascoltarono il proclama dell’imperatore, diretto a loro: «Voi avete, nella giornata di Austerlitz , giustificato tutto ciò che attendevo dalla vostra intrepidezza. Voi avete decorato le vostre aquile di una gloria immortale. Un’armata di centomila uomini, comandata dagli imperatori di Russia e d’Austria, è stata in meno di quattro ore o tagliata o dispersa. La pace non può essere lontana. Io vi riporterò in Francia. Là sarete oggetto delle mie più tenere sollecitudini. Il mio popolo vi rivedrà con gioia e vi basterà dire “Io ero alla battaglia di Austerlitz” perché si risponda: “Ecco un prode”». Sembrava impossibile che di lì a poco tutto si sarebbe dissolto.


CAPOLAVORI DI PIETRA architetto milanese Franco Albini esordisce negli anni trenta con i progetti di architettura per le Triennali e le fiere campionarie di Milano. Tra queste prove assume un valore profetico l’edificio, allestito per la V Triennale del 1933, per una residenza multipla caratterizzato da una struttura a vista di telai in acciaio connessi da travi reticolari. Finalizzata all’esibizione della struttura portante metallica, la scelta rivela potenzialità espressive di cui Albini si rammenterà nel dopoguerra nel suo capolavoro più felice: La Rinascente a piazza Fiume, unico edificio romano del milanesissimo Albini.

L’

Progettato con Franca Helg, con cui condivide lo studio, tra il 1957 e il 1961, su incarico dei Borletti, milanesi proprietari della Rinascente, il grande magazzino si attesta in un nodo nevralgico dell’espansione di Roma, a ridosso delle mura aureliane. L’adozione di una struttura metallica a vista nella nuova Rinascente ha anche un significato di continuità con il primo edificio della grande catena commerciale costruito a Roma in largo Chigi, nel 1886 da Giulio De Angelis, con un’ossatura in ferro e ghisa, sulla falsariga dei magazzini Au Printemps (1864) edificati a Parigi da Paul Sedille. Ma non è la nostalgia o il richiamo alla tradizione di un marchio a suggerire l’impiego della struttura metallica a vista. Il sottosuolo infatti presenta in quell’area «difficilissime caratteristiche». Se la struttura in acciaio, in virtù della sua leggerezza e del ridotto ingombro di superficie, è praticamente obbligata, non è d’obbligo la sua messa in vista. Come ogni grande magazzino, l’edificio è composto da saloni di vendita sovrapposti che, illuminati artificialmente, devono essere quanto più ampi e sgombri possibile. Essi concretizzano il blocco principale, rettangolare, con il lato maggiore su via Salaria e quello breve su piazza Fiume; gli ingressi traforano il piano terreno, leggermente arretrato. I due fronti su via Salaria e su piazza Fiume, unificati da identici pannelli di tamponamento, concorrono in ugual misura al risalto della veduta angolare, che si afferma come punto di vista privilegiato dell’edificio, un omaggio alla tradizione rinascimentale e barocca della città. Il blocco, ricalcato per obbligo normativo sulla palazzina romana, è perentoriamente segnato dalle marcature metalliche orizzontali dei piani e coronato da un

CAPUT MUNDI Il milanese Franco Albini progetta La Rinascente romana

Acciaio e travi a ridosso delle mura aureliane di Roberto Dulio

pannelli prefabbricati in graniglia di granito e polvere di marmo rosso: omaggio al colore acceso del laterizio delle mura al di là della piazza. Listati da una banda intermedia color avorio, i pannelli sono sagomati da corrugamenti poligonali che si infittiscono verso l’alto: essi, oltre a movimentare la luce sulle pareti, disimpegnano le canalizzazioni degli impianti e i pluviali.

Trattandosi di un edificio commerciale, la sua immagine deve assolvere anche a una funzione autopubblicitaria, magistralmente risolta dalle scritte a bandiera che ancora conservano il lettering messo a punto da Max Huber proprio per la catena della Rinascente, il cui nome, liricamente evocativo, fu coniato da Gabriele D’Annunzio. L’efficacia autopropagandistica dell’edificio è potenziata, nella facciata sulla piazza, da una grande bucatura centrale: si tratta di una vera e propria vetrina pensile e multipla, funzionale alla spettacolare esposizione -quasi

Il celebre nome della grande catena commerciale, liricamente evocativo, venne coniato dal Vate della poesia italiana, Gabriele D’Annunzio

L’edificio della Rinascente a piazza Fiume a Roma cornicione imponente. L’edificio si struttura in quattro telai multipli, composti da due campate di 9 metri ciascuna, dunque larghi 18 metri, quanto il fronte su piazza Fiume, a cui sono paralleli. Essi sono ancorati al centro a quattro colonne cilindriche in acciaio, riempite di calcestruzzo, che attraversano tutti i piani. Nell’allestimento originale, di recente smantellato, i quattro cilindri strutturali, dissimulata la funzione portante, apparivano come semplici supporti espositivi.

Su incarico dei Borletti, proprietari del celebre marchio, il grande magazzino viene costruito sulla falsariga dei Au Printemps di Parigi E’ questa struttura portante, concentrata in pochi punti, a permettere la libera disposizione di scale e ascensori lungo il perimetro e l’adozione, anche per le scale, di strutture metalliche, come quelle che innervano una spettacolare

scala ellittica angolare, dai preziosi gradini in marmo rosso di Verona, che funge da scala di sicurezza. Le strutture metalliche a vista sono completate dai pilastri di sostegno perimetrali di acciaio brunito; la struttura è completata da

un’ostensione!- delle merci in vendita all’interno. Al primo sguardo La Rinascente sembra un’architettura semplice, in realtà essa è frutto di una deliberata ridondanza costruttiva, che non asseconda un’esigenza tecnica, quanto una volontà espressiva finalizzata a una figurazione urbana capace di segnalare, fin dal suo primo apparire, la natura commerciale dell’edificio, che per nessuna ragione deve venire assimilato o confuso con una delle tante palazzine residenziali dell’intorno, delle quali condivide le dimensioni della scatola muraria. Il magico equilibrio tra tecnica, funzionalità commerciale, persuasività espressiva e figurazione urbana della Rinascente non verrà più uguagliato da Albini: gli altri edifici destinati a usi pubblici di varia natura che egli costruisce negli anni del grande magazzino romano e in quelli successivi, portano tutti il segno di una professionalità impeccabile, della cura artigiana che non lascia margini all’improvvisazione, ma non si staccano da una sorta di fungibilità eccellente quanto impersonale che, come un velo di ghiaccio, le isola dal contesto.

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ORIZZONTALI 1 Progenitori degli Ateniesi n 8 Xxxxxx Howard, attore ing. – Misfatto bianco n 14 Ci si va a bere n 21 Figura geometrica n 22 Norma n 23 Diario diguerra di Ardengo Soffici n 24 Imperatore di Etiopia n 25 Serpente n 27 Armi bianche n 29 Campi Xxxxx n 30 Cura le strade n 31 La città di Nestore n 32 Immagine simbolica buddista n 34 Autocrate russo (var.) n 35 Xxx Taylor n 36 Pianta medicinale amarissima n 37 George Xxxx, scrittrice francese amata da De Musset e Chopin n 38 Autore di Foto di gruppo con signora n 40 Rabbia n 41 La pepsina, per es. n 43 Di qui partì l’insurrezione contro i francesi di Giuseppe Bonaparte nel 1808 n 46 Ridotto di teatro n 48 Much Ado Xxxxx Nothing n 50 Xxxxxxx Associati n 52 Max Xxxxxx: scrisse Le menzogne convenzionali della nostra società (1883) n 55 Pen Xxx n 57 Gabbia n 59 Recipienti per vino (var. femm.) n 60 Prova, esame n 62 Pan di serpe n 63 Nome di cinque Re norvegesi n 65 Fiume del Sudamerica n 67 Isola dell’Egeo n 68 Capo islamico n 69 Il regno di Creso n 71 Catena montuosa dell’Asia Minore n 72 Isola del Dodecaneso n 73 Particelle n 74 Tramezzi delle navi n 76 Galea n 78 Georgij V. Xxxxxxx, diplomatico russo che negoziò il Trattato di Rapallo nel 1922 n 80 Acido usato per la fabbricazione di coloranti n 81 Padre di Esaù n 82 Un gioco enigmistico

VERTICALI 1 Un Codice n 2 Poeta russo suicida nel 1925 n 3 Opera di Rossini n 4 Milena Xxxx, autrice di Mal di Pietre n 5 Segnale di soccorso n 6 n Gas Naturale n 7 Bagna la Basilicata n 8 Composizione musicale da camera n 9 Colpevole n 10 Iniz. di Gaboriau, scr. fr. n 11 Mezzo di propaganda n 12 L’Xxxxxxx Volante ovvero Il Vascello Fantasma n 13 Ayn Xxxx, mediocre romanziera che ebbe enorme successo con Noi Vivi negli anni ’30-40 n 14 Gunnar Xxxxxx, poeta svedese: Elegia di Mölna n 15 Romanzo di A. Oriani n 16 Alta onorificenza inglese: Order of the Britich Empire n 17 Andare in xxxx, perdere la trebisonda n 18 Opera di Donizetti n 19 Xxxxx Franck, compositore fr. n 20 Xxxxx Kurosawa, regista giapponese n 26 Rischio n 28 Vettura pubblica ingl, che oggi vale anche taxi n 31 Autore di Miles gloriosus n 32 Animale favoloso dell’India n 33 Alicia Xxxxxx, coreografa cubana n 36 Profeta minore n 37 Protagonista di Bandiere nella polvere di Faulkner (dava il titolo a una pessima e mutilata ediz. italiana di questo grande romanzo) n 39 Astronomo francese, inventore del coronografo per lo studio del sole n 42 Iniz. della Bergman n 44 Iniz. di Alicata n 45 Iniz. di Tabucchi n 47 Xx Commedione n 49 Poeta greco n 51 Similmente, nel linguaggio giuridico n 53 Uno dei Moschettieri n 54 Xxxxxx e topi di Steinbeck n 55 Molluschi cefalopodi n 56 Noto altrimenti come... n 58 Spiazzo n 61 Xxxxx Jong n 64 Marca d’auto n 66 Oscurano il sole n 67 Epiteto di Dioniso n 68 Trafila di una pratica n 70 Cittadina del Ciad n 72 Servizio Militare Compiuto n 73 Asso ingl. n 75 99 n 77 Iniz. dell’attore Calindri n 79 Una cel. poesia di Kipling (“Se”)

CRUCIVERBA

di Pier Francesco Paolini

QUIZ LETTERARIO

La città di Nestore

CHI È L’AUTORE DI QUESTO QUADRO? ............................................. (1938)

DI QUALE ROMANZO DEL 1974 È QUESTO INCIPIT?

…..1900-1905 e ultime scoperte scientifiche sulla struttura della materia segnano l’inizio del secolo atomico.

L N

1906-1913 on troppe novità, nel gran mondo. Come già tutti i secoli e millennii che l’hanno proceduto sulla terra, anche il nuovo secolo si regola sul noto principio immobile della dinamica storica: agli uni il potere, e agli altri la servitù. E su questo si fondano, conformi, sia l’ordine interno della società (dominante attualmente dai «Poteri» detti capitalistici) sia quello esterno internazionale (detto imperialismo) dominato da alcuni Stati detti «Potenze», le quali praticamente si dividono l’intera superficie terrestre in rispettive proprietà, o Imperi. Fra loro, ultima arrivata, è l’Italia, che aspira al rango di Grande Potenza, e per meritarselo s’è già impadronita con le armi di alcuni paesi stranieri – di lei meno potenti – costituendosi una piccola proprietà coloniale, ma non ancora un Impero. Pur sempre fra loro in concorrenza minacciosa e armata, le Potenze volta a volta si associano in blocchi, per comune difesa dei loro propri interessi (che vanno intesi, all’interno, per gli interessi dei «poteri». Agli altri, i soggetti alla servitù, che non partecipano agli utili ma che tuttavia servono, tali interessi vengono presentati in termini di astrazioni ideali, varianti col variare della pratica pubblicitaria. In questi primi decenni del secolo, il termine preferito è patria). Attualmente, il massimo potere in Europa, è conteso fra due blocchi: la Triplice Intesa, di Francia, Inghilterra, e Russia degli Zar; e la Triplice Alleanza, di Germania, Austria-Ungheria, e Italia...

L’AUTORE DEL QUADRO DI IERI È: Piero della Francesca, “Ercole”(1470)

Il cruciverba di ieri

LA SOLUZIONE DI IERI È: Lev Tolstoj, “Anna Karenina”(1877)

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inserto a cura di ROSSELLA FABIANI


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Libia. Sarebbe in fin di vita l’agente condannato per aver fatto esplodere nel 1988 un aereo con 270 persone a bordo

Lockerbie, libero l’attentatore La Scozia rimanda a casa l’uomo accusato della strage: è malato di Maurizio Stefanini segue dalla prima Paesotto scozzese di 4000 abitanti a 32 km dal confine con l’Inghilterra, in passato modestamente noto a livello locale per un mercato di bestiame e un campo di prigionia della Seconda Guerra Mondiale, Lockerbie divenne improvvisamente e tristemente celebre a livello mondiale il 21 dicembre del 1988, quando il Boeing 747-121 impegnato nel volo di collegamento tra Londra e New York Pan Am 103 esplose in volo su di essa. 270 le vittime, di cui 189 di nazionalità statunitense: 259 a bordo e 11 abitanti della cittadina.

La tensione tra Stati Uniti e Libia, già latente negli anni ’70 quando Gheddafi era sospettato di aver finanziato il sanguinoso terrorismo di Settembre Nero e di Carlos lo Sciacallo, era infine esplosa negli anni ’80: episodio di Ustica del giugno 1980; duello tra caccia sul Golfo della Sirte il 19 agosto 1981; offensiva sui mercati petroliferi e embargo alla Libia nel 1981-82; sospetto coinvolgimento libico nel dirittamento di un aereo e della Achille Lauro nel 1985; nuova esercitazione Usa nel Golfo della Sirte nel marzo del 1986; attentato del 5 aprile 1986 alla discoteca La Belle di Berlino Ovest, frequentata da soldati Usa. Una cittadina turca e due sergenti statunitensi erano allora morti; 230 persone erano restate ferite, tra cui una cinquantina di militari americani. Washington aveva accusato subito Gheddafi, che in effetti il 10 agosto 2004 ammetterà con la Germania la propria responsabilità, pagando un indennizzo di 35 milioni di dollari. La rappresaglia era stata il bombardamento aereo di Tripoli e Bengasi del 14 aprile 1986, con la distruzione del palazzo di Gheddafi e la morte di una sua figlia adottiva. Clamoroso ma innocuo il susseguente lancio di due missili libici Scud-B su Lampedusa, in quello stesso 1986 i libici saranno accusati di aver “acquistato” un ostaggio americano in Libano che poi morirà nelle loro mani, e di un attentato all’ambasciata Usa in Togo. Nel 1987 i servizi inglesi intercetteranno un carico di armi libiche destinato ai guerriglieri nordirlandesi dell’Ira, spiegando però che “non è il primo”. E nello stesso 1988 agenti libici avevano già compiuto attentati a librerie Usa in Colombia, Perú e Costa Rica.

Anche un aereo personale del dittatore per il «ritorno in patria»

Gheddafi e il terrorista-eroe di Franco Insardà segue dalla prima Da satrapo consumato qual è, Muammar Gheddafi ci aveva quasi convinto di essere cambiato. Di essere diventato, nonostante il suo variopinto look che stona troppo con l’età e le richieste bizzarre da rockstar, un vero statista. Invece ieri c’era un jet privato del colonnello ad attendere fuori dal carcere l’attentatore di Lockerbie Abdel Basset Ali al-Megrahi, ufficiale dell’intelligence libica e capo della sicurezza per Libyan Airways. Cioè uno degli agenti segreti della Jamaharya condannato nel 2001 dalla giustizia scozzese a 27 anni di carcere. La decisione, come ha spiegato il ministro della Giustizia Kenny McAskill, è stata presa, così come prevede il diritto scozzese, per motivi umanitari, dal momento che l’uomo ha un cancro alla prostata in fase terminale.

Un gesto che ha riportato le lancette dell’orologio dei rapporti internazionali della Libia indietro di decenni. Cancellando di colpo i sorrisi e gli abbracci tra il colonnello e i partecipanti al G8 de L’Aquila e soprattutto azzerando quella stretta di mano con Barack Obama che aveva fatto il giro del mondo. Nelle ultime settimane, infatti, il governo degli Stati Uniti e l’associazione americana delle vittime dell’attentato hanno fatto pressioni su Edimburgo perché non fosse rilasciato un uomo giudicato responsabile dell’esplosione del volo Pan Am sui cieli della

Scozia che causò la morte di 270 persone, 189 delle quali cittadini statunitensi. Quell’attentato fu anche un durissimo colpo alla già difficile situazione finanziaria in cui versava la Pan American World Airways che nel giro di tre anni dal disastro di Lockerbie fu costretta a cessare le proprie attività. Una ferita ancora aperta nell’opinione pubblica americana e mondiale.

Quell’etichetta di Stato canaglia per eccellenza anche per quell’attentato del 21 dicembre 1988 che Gheddafi era riuscito a togliere alla Libia rischia di riaffiorare di nuovo nell’opinione pubblica internazionale. Ci vollero ben undici anni, tra le indagini, le sanzioni delle Nazioni Unite alla Libia e un intenso negoziato prima che Gheddafi si decidesse a consegnare i due attentatori: Abdel Basset Ali al-Megrahi, appunto e Lamin Khalifah Fhimah, responsabile della Libyan Airways presso l’aeroporto internazionale di Malta che fu prosciolto. Quello che indigna di più e offende la memoria delle 270 vittime non è tanto la liberazione di un malato terminale, quanto quell’aereo personale del colonnello che ha portato l’attentatore dalla Scozia a Tripoli. Giusto in tempo per il Ramadan che inizia oggi.

Questo il contesto, quando il 5 dicembre 1988 la Federal Aviation Administration pubblica un bollettino in cui è scritto di un uomo con forte accento arabo che ha chiamato l’ambasciata americana ad Helsinki, avvertendo di un volo della Pan Am che esploderà in volo entro le due settimane successive alla chiamata, attraverso un ordigno portato da una finlandese inconsapevole. Il governo americano prende l’avvertimento sul serio, ma la Pan American no, e nella confusione delle imminenti vacanze natalizie gli agenti della compagna trascurano anche la sorveglianza dell’aereo parcheggiato. Sempre per il sovraffollamento festivo il volo invece che alle 18 parte alle 18,25: alle 18,56 il comandante James MacQuarrie passa dalla velocità di decollo a quella di crociera; alle 19,01 risale l’ultima comunicazione; alle 19,02 il velivolo sparisce dai radar; alle 19,03 la sezione centrale dell’aereo con i suoi 91.000 chili di carburante si schianta al suolo, provocando una scossa sismica da 1,6 gradi Richter. Come appureranno le indagini, era stato un ordigno al plastico nascosto in una valigia all’interno del vano bagagli a provocare un buco di mezzo metro proprio sotto la P della scritta Pan Am sul lato sinistro della fusoliera, innescando la rapida disintegrazione dell’intera struttura. Dopo tre anni di indagini, il 13 novembre del 1991 l’Fbi e la polizia scozzese accuseranno dell’attentato Abdelbaset alMegrahi e Lamin Khalifah Fhimah: il primo, ufficiale dell’intelligence libica e capo della sicurezza per Libyan Airways; il secondo, responsabile della Libyan Airways presso l’aeroporto internazionale di Malta. Dopo altri otto anni sanzioni Onu alla Libia e vari negoziati i due saranno infine consegnati alla polizia scozzese il 5 aprile 1999. Il 30 gennaio del 2001 Fhimah sarà però prosciolto, mentre Megrahi avrà l’ergastolo. Il 29 maggio del 2002 la Libia ha pagato 2,7 miliardi di dollari di indennizzo ai familiari delle vittime.


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Energia. L’epopea di una città che ha legato il suo destino alla scoperta del petrolio, da Marco Polo alla più recente guerra degli oleodotti

L’oro nero di Baku La corsa al greggio dell’Azerbagìan richiamò i fratelli Nobel ed Henry Ford (voluto da Stalin) di Pierre Chiartano el XIX secolo era Baku la capitale mondiale del petrolio. Ancora nel 1901, dai pozzi della regione caspica proveniva più del 50 per cento del greggio utilizzato globalmente. Anzi, più che di pozzi potremmo parlare di pozze. Perché da quelle parti bastava scavare con una vanga o con le mani, perché affiorasse in superficie una quantità sufficiente di idrocarburi da riempire otri e bidoni. Le descrizioni di viaggiatori e avventurieri sui fuochi della notte di Baku sono leggendarie. «Lingue di fuoco dai molti colori danzavano selvaggiamente nei venti» raccontava un viaggiatore inglese. Enormi bolle di gas e petrolio affioravano spontaneamente anche nella acque del Caspio, un bacino grande cinque volte il Lago Superiore. Così grandi che spesso rovesciano i battelli e vapori. All’epoca si pensava che la forte salinità dell’acqua avesse, nel tempo, creato un tappeto di animali e microorganismi morti che avevano costituito i giacimenti. Ogni tanto venivano a galla e si incendiavano facilmente.

N

Si racconta che Ludvig Nobel, giunto anche lui per partecipare alla corsa al petrolio – fu uno dei promotori del suo sviluppo e costruì la prima petroliera della storia, la Zoroaster – avesse attraversato col suo battello uno di questi incendi di fuoco “freddo”, uscendone indenne. Di notte la capitale azera diventava un luogo magico. Fiamme bluastre illuminavano la notte e il vento, che durante il giorno riempiva strade e case di polvere e sabbia, finalmente calava. Marco Polo, nel tredicesimo secolo, raccontava delle carovane di cammelli che esportavano greggio da Baku, capitale dell’Azerbaigìan a Baghdad, dove era usato per l’illuminazione e come balsamo. Il petrolio di Baku si guadagnò una reputazione mitica, almeno inizialmente. Tanto che il «petrolio bianco», mistura tra gas e idrocarburi, veniva sorseggiata da russi, come un elisir, nei caffè della promenade cittadina. Si era creata anche una teologia legata alla città, diventata un centro zoroastria-

no, la fede persiana monoteistica che aveva generato le figure degli angeli, del paradiso e dell’inferno e che predicava che il fuoco avrebbe mondato l’anima da ogni peccato. Venuti a conoscenza che a Baku i fuochi ardevano dalla notte dei tempi, la fecero diventare il luogo eletto della loro fede. Salvo poi levar le tende, dopo qualche tempo, per l’intolleranza della chiesa ortodossa.

La regione si trovava allora in un posto isolato dal mondo, tra il Mar Nero a occidente e la catena del Tien Shen a oriente. Non molto ospitale, visto che, ancora nel 1858, Alexandre Dumas padre non era stato favorevolmente colpito dai luoghi pieni di «locuste, scorpioni e ragni velenosi», come si legge nel bel libro di Steve LeVine Il Petrolio e la Gloria. Alcuni reperti storici fanno risalire al 1595 il primo contratto d’affitto di un terreno

per lo sfruttamento petrolifero. Si tratta di una pietra con iscrizioni in arabo. Fu invece nel 1872, quando la Russia zarista di Alessandro II allentò le regole che vincolavano le proprietà, che si scatenò il vero boom petrolifero che, a fine secolo, portò l’oro nero di Baku a rivaleggiare con la Standard oil di Rockfeller. Nacquero i baroni del petrolio, come Zeymalabdin Tagiyev, che trasformarono la capitale in una vera metropoli europea, con dimore eleganti, alberghi, casinò e l’illuminazione elettrica. E anche in un luogo dove sparatorie e regolamneti di conti erano all’ordine del giorno. Nel 1905 la prima rivolta operaia distrusse gli impianti sul Caspio, anche se l’anno dopo venne inaugurato il primo oleodotto tra Baku e Batumi, porto georgiano sul Mar Nero. Poi, con la rivoluzione del 1917, finì tutto in un bagno di sangue, scomparvero i

La storia del petrolio del Caspio, da Alessandro II a Vladimir Putin 1872 – Inizio della corsa al petrolio 1878 – Ludvig Nobel vara Zoroaster, la prima petroliera al mondo 1901 – Baku fornisce il 51 per cento delle forniture globali di greggio 1905 – La rivolta operaia distrugge i pozzi 1917 – Rivoluzione bolscevica 1920 – I bolscevichi rovesciano il governo dell’Azerbaigìan 1921 – Lelin richiama gli investitori stranieri, dall’America arrivano Harriman e Ford 1933 – Gli Usa riconoscono l’Unione Sovietica 1945 – Fine della Seconda guerra mondiale, Baku non vive più l’età dell’oro 1968 – Inizia la sua attività di mediazione James Giffen 1973 – John Deuss lancia la prima speculazione commerciale sul petrolio. L’Arabia Saudita interrompe le forniture agli Usa 1985 – Eruzione del giacimento petrolifero di Tengiz

1987 – Gorbachev legalizza le joint-venture 1991 – L’Unione Sovietica si dissolve 1992 – Nazarbayev e il presidente della Chevron firmano l’accordo su Tengiz 1994 – Firmato il «contratto del secolo» per lo sfruttamento delle risorse offshore di Baku 1997 – Firmato contratto per Kashagan 1999 – Unocal sospende il progetto dell’oleodotto transafghano e Bp lancia la pipeline Baku-Cheyan 2002 – La Russia sorpassa l’Arabia Saudita e diventa il primo produttore di petrolio mondiale 2007 – Shell cede il 30 per cento di Sakahalin II a Gazprom. Putin vara i progetti North e South Stream 2008 – A luglio il prezzo del greggio schizza a 147 dollari al barile, a dicembre precipita a 32 dollari a seguito della crisi finanziaria mondiale

magnati e la principale fonte di valuta straniera in Russia. Col petrolio crollò la capacità industriale di un Paese da sempre incapace di innovare e produrre. Alla fine anche Lenin dovette piegarsi alla legge del mercato e chiamò quelli che erano considerati degli esperti. Arrivarono gli americani Henry Ford e Averell Harriman e un tecnico newyorkese in trivellazioni, Henry Mason Day. Una vera rivoluzione rispetto alle pale e alle vanghe. Visto

che fin dall’inizio il prodotto era di scarsa qualità e poco competitivo, anche nel prezzo. Tanto che, nel 1870, l’America esportava 250mila galloni (un gallone è circa 3,6 litri) di cherosene per le necessità di San Pietroburgo. Poi seguirono compagnie tedesche, inglesi e americane e la costruzione di oleodotti e raffinerie. Nel 1928 la produzione era tornata ai livelli del volgere del secolo e anche Stalin continuava a fare investimenti per spingere la creFoto grande, i pozzi di Baku oggi. A sinistra e sotto, trivellazioni a vapore nel XIX secolo. A destra, dall’alto in basso, Zeymalabdin Tagiyev, il primo magnate azero a fine Ottocento, Ludvig Nobel che, con il fratello Robert, contribuì al boom petrolifero, torri d’estrazione nei pressi della capitale azera


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Dipendenza energetica e gasdotti

South Stream: risponde l’Italia on ci sono e non ci saranno malumori dell’amministrazione americana sulla politica energetica italiana». Lo ha affermato il ministro degli Esteri Franco Frattini, mercoledì scorso, in riferimento all’adesione del nostro Paese al progetto del gasdotto italo-russo South Stream. «L’Italia ha una dipendenza energetica dalla Russia molto inferiore a quella di altri Paesi», ha sottolineato il ministro. «Siamo al 30 per cento, il resto arriva da Libia, Algeria e Paesi del Golfo: siamo fra i Paesi più diversificati d’Europa, molto più della Germania e della Polonia». Frattini ha poi precisato che «non siamo contrari al Nabucco» il progetto europeo di gasdotto alternativo a South Stream. «Abbiamo partecipato a South Stream e al gasdotto che dalla Turchia arriva in Italia attraverso la Grecia, perché hanno il gas o lo avranno nell’immediato futuro. Il Nabucco – prosegue il ministro – per essere alimentato deve avere il gas azero, che ancora non c’é, o quello iraniano, al quale oggi è problematico pensare. Abbiamo aderito a due progetti nell’interesse dell’Italia e di molti altri Paesi europei».

«N

scita della città azera. Dopo qualche decennio le trivelle di Baku cominciarono a fare la ruggine e l’intera regione sprofondò in una nuova e lunghissima crisi. Allora i fiumi di greggio producevano solo miasmi e rifiuti. La caduta dell’impero sovietico nel 1991 aprì un nuovo capitolo della storia di questa città dell’oriente centrasiatico. Si crearono una quindicina di nuovi Stati dai nomi impronunciabili, che formavano una galassia intorno ai giacimenti. Prese così corpo un nuo-

tica per lo sfruttamento dei giacimenti; l’ex generale del Kgb, Heydar Alyev, cacciato durante la perestroyka e riemerso, come presidente dell’Azerbaigìan indipendente; e Saparmurat Nyazov, il dispotico e furbo leader turkmeno.

Nella squadra dei negoziatori, i più agguerriti erano John Browne della British petroleum e Ken Derr, presidente della Chevron a caccia del petrolio kazako e angosciato dai ricatti di Mosca. Sul versante politico

La capitale azera, nel XIX secolo, conobbe lo sviluppo legato al boom dell’estrazione. Si creò una classe di «baroni dell’energia» che la traformò in una metropoli europea, distrutta poi dai bolscevichi vo boom del petrolio che avrebbe completamente oscurato quello del secolo precedente.

Nella corsa dei nuovi petrolieri figuravano americani, inglesi, tedeschi, italiani, cinesi, francesi e giapponesi che facevano a gara per chiudere accordi con gli uomini forti della regione. Tra questi il kazako Nursultan Nazarbayev, che già nell’era di Gorbachev aveva sfidato l’Unione Sovie-

figuravano Samuel “Sandy”Berger, consigliere per la sicurezza nazionale con Bill Clinton, che ebbe il difficile compito di riportare ordine nell’azione delle compagnie petrolifere che nel Caspio, per un certo periodo, erano entrate in conflitto con la politica del dipartimento di Stato – un approccio che prevedeva la costruzioni di oleodotti tra Baku e il Mediterraneo che non toccassero un centimetro quadrato di territorio russo; Strobe Talbott, vicesegretario di Stato, che promuoveva una approccio amichevole con Mosca sulle questioni pe-

trolifere e poi ancora Leon Fuerth, Rosemary Forsythe, Sheyla Heslin, Bill Withe e Boyden Gray. Sul fronte russo, il più tenace interlocutore, deciso a non mollare la presa sui nuovi Stati indipendenti della regione caspica è stato, senz’altro, il primo Ministro Viktor Chernomyrdin. La squadra di affaristi e raider era, invece, costituita da personaggio come l’olandese John Deuss, rivale dell’americano James Giffen, è dall’avventuriero ceco-americano, con una laurea ad Harvard, Viktor Kozeny, che riuscì nell’impresa di mettere nei guai anche l’allora senatore Gorge Mitchell e tra i più navigati affaristi di Wall Street. L’oro nero del Caspio era così importante che anche la Cia scese in campo, disseminando la regione di agenti, il Pentagono intanto addestrava gli eserciti locali alla difesa di impianti e pipe line.

Particolarmente fragile erano i due oleodotti che attraversavano il territorio georgiano, l’Early oil e il Baku-Cheyan che, pochi chilometri a sud di Tiblisi, divergevano; uno andava sul Mar nero e l’altro verso il Mediterraneo. Proprio su quell’incrocio – durante la crisi dell’agosto 2008 – si erano accaniti i bombardieri russi, lasciando una quarantina di crateri perpendicolari al tracciato senza colpirlo. L’impero dell’oro nero di Baku era tornato definitivamente sulla scena mondiale.

Qualche critica era giunta nei giorni scorsi sia dal dipartimento di Sato Usa che dal Foreign Office britannico. La partecipazione italiana al gasdotto «South Stream», voluto da Mosca a scapito dell’adesione al consorzio «Nabucco» che scavalca la Russia, rischia – secondo le critiche più diffuse – di «mettere l’Italia in una condizione di debolezza», di fronte a un Paese che non ha ancora superato la sua storica diffidenza nei confronti dell’Occidente. Come dire che l’adesione al progetto sul quale Mosca punta per garantirsi il semi-monopolio dei rifornimenti energetici europei è un modo, forse inconsapevole, di consegnarsi a possibili ricatti della «superpotenza energetica». La diffidenza britannica per

l’«abbraccio russo» ha riscontro soprattutto fra i membri orientali dell’Unione europea.

A cominciare dalla Polonia, che vede nella «prepotenza energetica di Putin» la radice del «patto Molotov-Ribbentrop dell’energia», come a Varsavia si definisce l’accordo russo-tedesco per «North Stream», il gasdotto che garantirà rifornimenti diretti alla Germania scavalcando Bielorussia, Polonia e Paesi Baltici. Ma la Polonia dipende dalla Russia per oltre l’80 per cento dei suoi approvvigionamenti di energia (anche per questo avrebbe voluto partecipare a North Stream con la garanzia del partner tedesco). A Varsavia la diffidenza storica e ideo-

logica nei confronti dell’ingombrante vicino, per 40 anni vero «padrone di casa» in Polonia, si somma a un’obiettiva debolezza. I due progetti, Nabucco e South Stream rappresentano, infatti, due politiche energetiche fra loro opposte. Chi sostiene il primo gasdotto vorrebbe ridurre il peso della Russia nelle forniture di energia all’Europa – oggi responsabile di poco meno del 30 per cento degli approvvigionamenti europei – , puntando sui ricchi giacimenti del Caspio e dell’Iraq. Chi sponsorizza il secondo, invece, mira al consolidamento di un rapporto privilegiato con Gazprom, che garantisca l’accesso allo sfruttamento degli immensi giacimenti russi. Nel primo gruppo troviamo gli Stati Uniti e i nuovi Membri dell’Ue. Nel secondo Italia, Francia e Germania, anche se quest’ultima è più impegnata in North Stream, gasdotto che attraverserà il Baltico aggirando Bielorussia e Polonia. Ci sono poi altri, in particolare Turchia, Grecia e Bulgaria, che stanno alla finestra, pronti a stringere accordi con il consorzio che (p.ch.) risulterà vincente.


cultura

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Una raccolta di ricordi inediti e scritti critici dedicata all’autore di “Nati due volte”, a sei anni dalla sua scomparsa, in un volume curato da Daniela Marcheschi che prova a «ricordare il maestro e amico in modo operoso e non retoricamente celebrativo» asso diverse volte davanti la scrivania, prendo penna e foglio e lui è lì, indugia, con uno sguardo tra l’ironico e il sornione sembra quasi aspettarmi al varco. Il Giuseppe Pontiggia che campeggia sulla copertina di Le vie dorate: con Giuseppe Pontiggia (Mup Editore, 264 pp., 18 euro) è proprio così: stampato in un bel bianco e nero è tranquillo, aspetta solo che mi decida a scriverne. «Le prime idee sono sbagliate» sembra rammentarmi il Peppo, come diffusamente e affettuosamente veniva chiamato da amici ed estimatori, citando Franz Kafka, autore da lui amatissimo come ricorda Laura Lepri in uno dei 29 saggi che formano questo volume giunto a sei anni dalla scomparsa del grande scrittore e ottimamente curato da Daniela Marcheschi.

contributi da visionare e così tra questi e quelli mi par d’aver sostanzialmente terminato.

R i c h i ud o i l l i b r o

P

Memore del suo insegnamento, non solo di scrittura ma soprattutto di un’etica della vita letteraria, per me vincolante da quando ho avuto la fortuna di esserne dirimpettaio, conoscerlo e frequentarlo, mi sono fatto scudo delle sue stesse parole, ricordandogli a mia volta come sia ormai sempre più necessario riacquistare il senso della lettura come felicità e non come costrizione e, a corollario, accenno anche che chi vuol scrivere deve leggere, «come tu mi insegni». Così, alleato del suo elogio alla lentezza, ho preso a sfogliare questo miscellaneo volume. Trattandosi di una raccolta di scritti, ben disposto in quattro sezioni (La scrittura, Le letture, La voce e La presenza) per altrettanti aspetti della presenza sulle scene letterarie di Pontiggia, ho iniziato come si fa secondo modalità professionali, affrontando dapprima i due pezzi d’apertura a firma Guido Conti e Daniela Marcheschi. Il primo, apparentemente prefatorio, è di fatto un partecipato racconto che l’autore fa dell’unico incontro avuto di persona con Pontiggia venendo su un assunto

Letteratura. In libreria un’antologia di saggi sullo scrittore lombardo

Le parole dorate di Giuseppe Pontiggia di Francesco Napoli che fu del Peppo quello di «amare la letteratura per amare meglio la vita e gli uomini»; poi quello di Daniela Marcheschi che rende il senso dell’operazione nel suo insieme, «ricordare Pontiggia

maestro e amico in modo operoso e non retoricamente celebrativo».

Mi butto nel corpo del libro e pesco le pagine di Piero Dorfles, “Pontiggia a tavola”,

In alto, un’illustrazione di Michelangelo Pace. Qui a sinistra, Giuseppe Pontiggia

per ricordarmi subito, leggendo l’intervento, di una cena a casa mia a base di mozzarelle di bufala campana delle quali il buon Peppo era davvero ghiotto; poi quello di Roberto Barbolini dove, descritto il loro primo incontro, resta impressa la fisicità del Peppo, una sorta di Nero Wolfe, per mole e fiuto, della letteratura; l’amabilità e la generosità del Peppo è ancora nelle parole di Laura Lepri, che nel 1995 si vide consegnato il suo posto nel famoso corso di scrittura creativa di Milano. Vado avanti, altri amici, tanti, hanno contribuito a questo lavoro che nella coralità trova una tonalità comune nell’esercizio da tutti svolto sempre attenti alla disciplina di scrittura e pensiero alla quale ci ha abituati Peppo. Seguo anche il consiglio di Andrea Pontiggia, figlio di cotanto padre, che mi indica altri

abbastanza soddisfatto, le pagine tengono davvero bene sul filo comune di questo straordinario – è così, nel caso non è affatto un aggettivo ipereccitato - protagonista della cultura italiana del Novecento e mi ritrovo ancora il suo volto che mi esorta alla conclusione, mi ricorda però anche di stare molto attento a tutti quegli stereotipi vuotati dall’usura nelle pagine scritte prima di accingermi al finale. Ahi, mi preoccupo: la sua fissazione per la scrittura e la sua scrupolosità maniacale mi mette in difficoltà proprio in dirittura d’arrivo. Aggettivi e avverbi erano il suo pallino, lo ricorda direttamente nell’intervista qui riportata di Cristiana De Santis: «l’aggettivo è uno strumento da usare con particolare parsimonia. Perché, se non aggiunge, sottrae» e, poco dopo, «mi sembra sia diffuso un uso letterario dell’avverbio che nasce dalla sfiducia nella parola».

Accidenti, chi non ha abusato di un aggettivo o di un avverbio, soprattutto nei veloci pezzi sulla carta stampata, scagli la prima pietra. «La collocazione dell’aggettivo è un elemento fondamentale» mi pare voglia dirmi dalla copertina lo stesso Peppo. E su avverbi e aggettivi si è soffermato anche Ernesto Ferrero nel suo scritto, al pari del quale posso lamentare anch’io di non aver ancora del tutto elaborato il lutto per la perdita del Peppo «uno e bino, narratore e saggista insieme, sempre», dove giustamente ricorda come Pontiggia mettesse in guardia chiunque si accingesse a scrivere dagli «aggettivi e gli avverbi ipereccitati». Giovanni Raboni, anche per la sua scomparsa è difficile superare il lutto, rammentava, proprio per te, che «gli scrittori bisogna ricordarli con le loro parole». Pensavo, rileggendo queste mie righe, all’idea peregrina ma sempre ricorrente, di delegare ai lettori il compito di inventare il finale. L’avevi già pensato tu a proposito di Flaiano. Allora, economia di parole e stile: procuratevi questo libro e non limitatevi ad assaggiarlo, «dicevi così, Peppo?».


spettacoli

21 agosto 2009 • pagina 21

Miti. Pubblicato da Einaudi il testo con il quale il cantautore spiega ai bambini il genio del grande musicista

Jovanotti e la favola di Mozart di Matteo Poddi ozart ovvero il musicista per antonomasia. Mozart ovvero la della quintessenza musica, classica e non solo. Di fronte alla grandezza di un personaggio così rilevante non si può non provare un certo timore riverenziale. La figura del compositore più famoso della storia ha subito infatti, nel corso dei secoli, un processo di istituzionalizzazione che stride però con la natura giocosa e lo spirito indipendente delle lettere che scriveva a parenti e amici. Proprio dagli aspetti più genuini e vitali della vita e dell’opera dell’enfant prodige di Salisburgo, Lorenzo “Jovanotti” Cherubini è partito per scrivere La parrucca di Mozart. Il libro, pubblicato da Einaudi con la prefazione di Daniel Harding, la drammaturgia di Bruno de Franceschi e i disegni dello stesso Jovanotti, vuole essere un omaggio al grande genio della musica piuttosto che l’ennesimo saggio che cerchi di ricostruire, attraverso gli strumenti della musicologia, la genesi delle sue opere.

M

In realtà, infatti, il volume raccoglie il libretto di un’opera che venne commissionata nel 2006 a Bruno de Franceschi per celebrare il duecentocinquantesimo compleanno di Mozart in modo da poter essere recitata da giovanissimi musicisti e attori al Teatro Signorelli di Cortona, città natale di Lorenzo. Si trattava di una sfida che Jovanotti, coinvolto in questo progetto sperimentale da De Franceschi, decise subito di raccogliere, entusiasmato dalla possibilità di poter comunicare con ragazzi dell’età di sua figlia Teresa alla quale è dedicata la popolarissima canzone «Per te». Il risultato è un’opera fresca, divertente e coloratissima. Assolutamente non convenzionale. Tutto concorre a smitizzare la figura di Mozart che, tolto dal piedistallo altissimo sul quale è stato collocato, può così essere avvicinato dai bambini attratti dalla vitalità di un personaggio che rompe gli schemi e le convenzioni. E infatti per citare De Franceschi «la trasgressione, in fondo, non è altro che la possibilità di giocare». E Jovanotti in questo libretto gioca con le parole, i suoni, i colori le immagini e le situazioni. A partire dai nomi dei personaggi, come quello della sorella Nannerl ribattezzata Nannarella, e proseguendo con i disegni dai colori sgargianti e con i dialoghi sul filo del non-sense ogni elemento del racconto ottiene lo scopo di

Il volume recupera il libretto dell’opera pensata da Bruno de Franceschi nel 2006, nell’ambito delle celebrazioni per i 250 anni dalla nascita del compositore austriaco grattare sotto il personaggio Mozart per scoprire l’uomo Mozart. Un uomo ma anche un bambino. Un uomo-bambino. Soprattutto un artista libero e in quanto tale noncurante della politica e della religione.

Fulminante la battuta finale del dialogo con l’imperatore. «Io sono l’imperatore e governo la nazione» dice l’imperato-

re e Mozart: «Sono uno che compone… governo… l’EMOZIONE!». La reazione a tanta audacia non si fa attendere e allora il Medico si affretta a dire che la musica di Mozart è deviante mentre il Vescovo sentenzia: «Non voglio più sentire dire che qui c’è poesia. Soltanto una parola lo descriverà. ERESIA!!!!!». Ma al di là dei comprimari il protagonista in-

discusso è ovviamente Mozart, solo che questo avrebbe potuto rappresentare un problema per una compagnia di bambini. Ecco, dunque, la trovata della parrucca. Ogni bambino la indossa durante lo spettacolo e nel momento in cui la mette in testa diventa, per un momento, il protagonista. È quella che il regista De Franceschi chiama «creatività democratica», il mezzo attraverso il quale i bambini entrano in relazione con gli altri ma anche e soprattutto con loro stessi, accompagnati da una musica che cita i passaggi delle opere di Mozart ma che poi prende un’altra direzione e si rivela imprevedibile. Così come imprevedibili sono i regali che l’enfant prodige riesce ancora ad elargirci.

Sono stati infatti da poco eseguiti, proprio nella casa dove Mozart visse da giovane, ora diventata museo, due inediti, il movimento da concerto e il preludio, scoperti a fine luglio dalla fondazione internazionale Mozarteum di Salisburgo. I due pezzi sono stati rinvenuti tra altre sedici composizioni del padre Leopold in un quaderno appartenuto a Nannerl. Proprio ad un diverbio col padre è dedicata una scena dello spettacolo nella quale Mozart rivendica la sua libertà mentre Leopold lo invita a riflettere sulla possibilità di avere un po-

sto fisso e di garantirsi la sicurezza economica. Sono passati secoli eppure è sempre lo stesso il bivio che si presenta, prima o poi, davanti a ognuno di noi. Da una parte c’è la riconoscenza per chi ci ha cresciuto ma dall’altro c’è il bisogno di trovare una strada che non sia quella dei nostri genitori ma che sia soltanto nostra. Magari meno lineare ma indubbiamente più simile a quello che siamo e che vogliamo. Di fronte agli spunti che un libro del genere riesce a dare si capisce davvero quanto sia sbagliato essere prevenuti nei confronti della musica classica e di quello che non conosciamo in genere.

Perché non perdersi dunque nella lettura di un libro che Alessandro Baricco ha definito «un sorprendente, delizioso libro da ballare»? Un libro che fa venire voglia di perdersi nella musica di un musicista geniale ma soprattutto di un uomo che ha saputo rimanere bambino riuscendo forse più di ogni altro a cogliere il senso profondo dell’esistenza non attraverso la filosofia o la metafisica ma tramite il gioco e l’emozione. Un artista che non voleva dare al pubblico qualcosa di piacevole ma qualcosa che potessero ricordare per la sua intensità nella convinzione che questa fosse la chiave per innamorarsi del mondo.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

da ”Haaretz” del 20/08/2009

Massima protezione di Amos Arel e Avi Issacharoff o Shin Bet, il servizio segreto interno dello Stato d’Isreale, si sta occupando della sicurezza dei leder dell’Autorità nazionale palestinese (Anp). Sia il presidente dell’Anp , Mahmoud Abbas che il primo Ministro, Salam Fayyad sono sottosti alla tutela personale, durante alcuni spostamenti all’interno del West Bank. Seguendo i dettami degli accordi sottoscritti tra Gerusalemme e l’Anp, uno special team (Vip’s security unit) degli uomini di Yuval Diskin, capo dello Shin Bet, sarebbero stati incaricati per la sicurezza dei due politici palestinesi.

L

Tutte le volte in cui dovessero trovarsi nella cosiddetta Area C, la zona in cui il pieno controllo ricade su Gerusalemme, secondo gli accordi di Oslo, gli uomini dei servizi israeliani entrerebbero in campo. Ad esempio, martedì scorso, Fyyad aveva organizzato una serie di visite nei villaggi vicini a Nablus, per l’inaugurazione di alcuni pozzi. Siccome il percorso di andata e ritorno era sul confine dell’area C e di quella B (dove Israele ha il controllo della sicurezza, ma l’Anp quello sull’amministrazione civile), il convoglio del primo Ministro palestinese includeva anche un mezzo della polizia con la stella di David, dei rappresentanti dell’amministrazione civile israeliana e un gippone carico di agenti dello Shin Bet. Questi ultimi erano responsabili per la sicurezza del premier nell’Area C e sarebbero stati sostituiti dagli uomini della sicurezza palestinese della guardia presidenziale, per la tutela di Fayyed nell’Area B. Alcune fonti dell’Israel defence force (l’esercito, ndr) hanno spiegato ad Haaretz che le procedure di sicurezza per la tutela di Abbas e Fayyad, derivano dal desiderio di evitare di avere guardia armate palesti-

nesi che possano aprire il fuoco nell’Area C e che si possa prefigurare una situazione di difficile gestione. Le stesse procedure sono previste anche quando esponenti politici stranieri vengono in visita in Cisgiordania. Lo Shin Bet se ne prende cura nell’Area C e la sicurezza palestinese nella zona B e in quella A, dove c’è il controllo completo dell’Autorità palestinese. Gli uomini di Diskin seguono la protezione di Abbas anche quando viene in visita in Israele. La tutela che la sicurezza israeliana garantisce ai due leader palestinesi serve a impedire che si configurino due scenari. Il primo è un tentativo di assassinio da parte di gruppi estremisti palestinesi, come i membri di alcune cellule di Hamas arrestate recentemente, proprio a causa un presunto piano per uccidere il presidente dell’Anp.

Il secondo è lo stesso progetto perseguito, però, dagli estremisti della destra israeliana. Jamal Zakut, portavoce di Fayyad non ha voluto fare commenti. Comunque, entrambe le fonti, sia dello Shin Bet che della sicurezza palestinese, hanno confermato la notizia. «Lo Shin Bet protegge sia Il presidente dell’Anp che il primo Ministro Fayyad in ossequio agli accordi ufficiali e in completo coordinamento con gli altri servizi di sicurezza» la dichiarazione dell’agenzia di Diskin. A seguito dell’uccisione del primo Ministro Ytzhak Rabin, nel 1995, da parte di un israeliano e quella del ministro Rehavam Ze’evi’s, nel 2001, per mano di un palestinese, Israele ha decisamente aumentato i servizi di tutela dei propri rappresentanti politici. Un fatto che ha causato le proteste del servizio d’intelligence interna, a causa del carico di lavoro

aggiuntivo che ha ridotto parecchio l’operatività e l’effetiva capacità di protezione degli agenti israeliani. Sono state incaricate di studiare il problema due commissioni, che hanno concluso che lo Shin Bet deve garantire la tutela H24 di solo sette personalità definite come «simboli dello Stato»: il primo Ministro, il Presidente, il ministro della Difesa, il ministro degli Esteri, il presidente della Knesset, il leader dell’opposizione e il presidente della Corte suprema.

Il servizio deve inoltre garantire – per un certo periodo – una protezione adeguata, anche per tutti coloro che hanno ricoperto, in passato, gli stessi incarichi.Tutti le cariche più importanti hanno un servizio di sicurezza proprio garantito dal governo oltre quello fornito dallo Shin Bet.

L’IMMAGINE

Se si smarrisce il biglietto autostradale: consigli sul da farsi Che cosa succede se si perde il biglietto autostradale? Si paga l’intera tratta. La società autostradale impone il pagamento dell’intera distanza. Se, ad esempio, si è entrati nell’A1 a Bologna e si esce a Milano e non si trova più la scheda, il casellante chiede il pagamento della tratta dichiarata (Bologna - Milano), poi redige un rapporto di mancato pagamento in base al quale lo sfortunato automobilista si vedrà recapitare una lettera che intima il pagamento della tratta Salerno - Bologna, che si aggiunge al versamento già effettuato Bologna - Milano, cioè l’intero percorso. Insomma sono guai, a meno che il nostro malcapitato non risponda all’intimazione di pagamento con una lettera raccomandata, nella quale dovrà essere riportata una dichiarazione che attesti l’effettivo percorso, accludendo la fotocopia di un documento di riconoscimento. Questo dovrebbe essere sufficiente a dimostrare la veridicità di quanto dichiarato. Se non bastasse si può sempre ricorrere al giudice di pace.

Primo Mastrantoni

ORA DI RELIGIONE: ALL’ASILO È LIBERA SCELTA? Mentre non siamo ottimisti sull’intervento del Consiglio di Stato, che dovrebbe smentire se stesso e ciò che decise nel 2007, ci auguriamo che il dibattito serva per aprire uno squarcio di informazione. Sui paradossi dell’ora facoltativa che genera privilegi, su insegnanti scelti da vescovi ma pagati dallo Stato più di quelli arrivati alla scuola pubblica per concorso, su una scelta apparentemente libera che non può essere revocata durante l’anno scolastico, e su una scelta che viene imposta dai genitori e realizzata dallo Stato. Una domanda al ministro dell’Istruzione: all’asilo è libera scelta? Già a partire dall’asilo, la scuola pubblica prevede l’insegnamento di religione cattolica, facoltativo. Forse sarebbe bene rivedere

la materia alla radice, che uno Stato laico e multiculturale dovrebbe immaginare che nella scuolasi faccia catechismo di Stato, a bambini di 3 e 4 anni per due ore alla settimana. Questo è il programma previsto dall’Intesa del 2003: osservare il mondo che viene riconosciuto dai cristiani e da tanti uomini religiosi dono di Dio Creatore; scoprire la persona di Gesù di Nazaret come viene presentata dai Vangeli e come viene celebrata nelle feste cristiane; individuare i luoghi di incontro della comunità cristiana e le espressioni del comandamento evangelico dell’amore testimoniato dalla Chiesa.

LIBERTÀ E CULTURA

D.P.

I giudici amministrativi del Tar del Lazio, con la sentenza 7076, hanno stabilito che frequentare l’ora di re-

Statua imburrata “Belle come statue” è l’espressione più comune tra chi conosce le donne Himba. E in effetti le donne di questo popolo della Namibia, in Africa, fanno di tutto per assomigliare a preziose “sculture” di terracotta. A partire dal make-up: un impasto di polvere d’ocra, erbe e burro di capra che spalmano sulla pelle e intorno ai capelli intrecciati. Il composto le protegge da scottature e punture di insetto

ligione non può portare crediti aggiuntivi e che gli insegnanti di religione non possono partecipare a pieno titolo agli scrutini. In questo modo agli studenti viene impedito il diritto-dovere di essere valutati nella materia da loro scelta. Infatti l’insegnamento della religione cattolica è curriculare, anche se facol-

tativo. Tale insegnamento non ha un obiettivo confessionale-catechetico, ma di tipo culturale, in quanto il cattolicesimo da duemila anni segna la storia dell’Italia. Perciò, in sede di scrutinio, non si valuta la fede, ma la cultura. In Italia scelgono di frequentare l’ora di religione cattolica il 91% degli studenti e fra loro

anche non credenti, stranieri appartenenti ad altre religioni, che però ritengono importante conoscere le radici religiose della nazione che li ospita, in un’ottica di integrazione. Mi domando, perciò, perchè continuino a sorgere difficoltà con tale insegnamento?

Glauco Santi


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

È tutta una menzogna, dal principio alla fine Mio Bebè piccolo (e attualmente molto cattivo), Non c’è nessuno che sappia con certezza che io sono innamorato di te, tanto meno c’è nessuno – beh, proprio nessuno – che possa dire che io sono innamorato di t con idee poco serie. Per dire questo sarebbe necessario essere dentro il mio cuore; e anche così, bisognerebbe essere miopi, perché si tratta di una grande sciocchezza. Quanto infine alla donna che io ho, se non te la sei inventata tu per allontanarti da me, dovresti porre le seguenti domande alla rispettabile persona (ammesso che esista) che ha informato tua sorella: 1. Che donna è? 2. Dove ho vissuto e dove vivo con lei, e dove la incontro (ammettendo che siamo due amanti che vivono separati), e da quanto tempo la conosco? 3. Qualsiasi altra informazione concernente questa donna. Se tutta quanta la storia non è una tua invenzione, ti garantisco che assisterai a una ritirata immediata della persona che ti ha dato queste informazioni; ritirata di tutti coloro colti in menzogna. E se la cosiddetta persona rispettabile avesse la sfacciataggine di fornire dei dettagli, basterà che tu li verifichi. Vedrai che è tutta una menzogna, dal principio alla fine. Ah, questa è certamente una trama per allontanarmi da te! Fernando Pessoa a Ophélia Queiroz

ACCADDE OGGI

POMPIERI IN ”VACANZA” A L’AQUILA I Vigili del Fuoco in vacanza in montagna sotto Campo Imperatore! Ai piedi del Gran Sasso. Già il dipartimento ha ben pensato di allontanare la maggior parte dei Vvf dall’Aquila inviandoli in campeggio in montagna! Il Campo base di Assergi gode di ottima vista, aria buona e una certa distanza tecnica dall’Aquila, coperta pesante e maglioncino, per capirci: quasi quasi ci sentiamo persino in colpa per venir pagati quali professionisti del soccorso, in questo incantevole contesto. Per inciso, la protezione civile negli alberghi e al ristorante e i pompieri nelle tende pneumatiche qualcuna delle quali la notte ti si sgonfia sulla testa, parcheggiati in uno dei pochi campi base d’Italia in discesa (i letti sono muniti di zeppe da un lato); ma tranquilli, i dirigenti che hanno seguito la “faccenda”sono stati promossi, come accade di prassi nella pubblica amministrazione. La mensa è passabile ma non sicuramente all’altezza delle esigenze di chi opera nelle condizioni in cui operiamo noi qui ad Assergi, che sono finiti i soldi. Alle squadre operative assegnate a questo campo base non viene più assegnata la scorta di acqua da portarci sull’intervento nonostante che il servizio sanitario del Corpo abbia indicato nel 2008 tra i 2 e i 10 litri di acqua più integratori a persona nei periodi estivi! L’acqua da bere la dobbiamo recuperare in giro per L’Aquila, la dobbiamo elemosinare! Queste sono le condizioni. Ma proprio l’acqua sta diventando un vero problema: la doccia la facciamo fredda an-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

21 agosto 1789 Inizio della Rivoluzione di Liegi

1807 Viene inaugurata l’Arena Civica di Milano 1832 François-René de Chateaubriand soggiorna a Lugano per quel giorno a Villa Tanzina 1959 Le Hawaii vengono ammesse come 50esimo stato degli Stati Uniti d’America 1986 Gas tossici eruttati dal vulcanico lago Nyos nel Camerun, uccidono oltre 1700 persone 1991 Termina il tentato colpo di stato contro Mikhail Gorbachov 2001 La Croce Rossa annuncia che una carestia sta colpendo il Tagikistan, e chiede supporto economico internazionale per Tagikistan e Uzbekistan 2005 A Colonia in Germania si tiene la Giornata mondiale della gioventù, dove si stima che un milione di ragazzi abbiano assistito alla messa conclusiva tenuta da papa Benedetto XVI 2006 La Nasa pubblica la prova diretta della materia oscura, grazie a Chandra

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

corché siamo in montagna, i bagni sono accettabili, le tende vengono disinfettate regolarmente ma non esiste servizio di pulizie: scopa, paletta e straccio fuori dalla tenda ti aspettano. Quindi, dopo il rientro, previo 9 - 10 ore di lavoro a fare puntellamenti, doccia fredda, pulizia in tenda, sbobba sotto il tendone mensa, un giretto per il cortile e a nanna in pendenza! Inoltre ti fanno storie per uscire la sera, visto che siamo pagati 16 ore, giustamente la sera mica possiamo andare a mangiarci una pizza (a nostre spese) siamo a disposizione! Certo che per 7-8? l’ora han fin ragione, la sveglia alle 6,30 e si ricomincia! Ma le soddisfazioni non mancano. Sui cantieri è una continua passerella di “esperti”, una continua passerella di funzionari Vvf che smontano la teoria del precedente loro collega invitandoti a rifare il lavoro secondo le loro indicazioni. Ma il top sono i nostri dirigenti; a caccia di promozione! Progetti su progetti: dalla costruzione dei palchi per le autorità a qualsiasi altra cosa purchè non sia di competenza dei Vvf. Dunque potremmo provare a chiedere anche noi comuni mortali che siamo venuti qui in Abruzzo se ci promuovono come hanno promosso loro. Ma la cosa divertente è che questi dirigenti vengono sui cantieri mettono becco su tutti, anche su quello di cui non capiscono un tubo, ti fan pure la predica sul DL.81 mentre noi lavoriamo a stretto contatto con ditte private che non sanno neppure dove stia di casa la sicurezza sul lavoro.

IL FENOMENO DELLA MITOPOIESI Scatta in chi osserva i suoi acquerelli la mitopoiesi, una divagazione mentale che ti estranea dal luogo dove stai, per orientarti verso un orizzonte utopico dove autonarri la tua intima identità. Più forte è il richiamo del luogo osservato, più intrigante e visibile diviene la voglia di conoscerlo. La stessa cosa può succedere quando abbiamo sottomano, ad esempio, la fotografia di una piramide egizia o di un altro luogo: oltre ad ammirarne il suo gigantesco profilo geometrico capita che si possa ricordare, qualche attimo dopo, anche la storia della sfarzosa civiltà egiziana e dei suoi faraoni. Per un momento la fotografia della piramide fa scattare in chi l’osserva un desiderio di evasione, accompagnato da una piacevole divagazione culturale. Stesse sensazioni può provare chi visita i templi di Paestum, di Velia o le Tavole Palatine di Metaponto: un museo archeologico a cielo aperto che declina i fasti di una luminosa civiltà, quella della Magna Grecia, che la politica regionale e la cultura attuale trattano con aria di insopportabile sufficienza. Sempre in tema di mitopoiesi, passando in un altro campo, leggendo i libri di Mark Twain, Jack London, William Faulkner, Herman Melville, il meglio della letteratura Usa: in essi scopriamo un orizzonte utopico in cui si è radicata una sorta di religione laica dell’America moderna. Il Missisipi, le Montagne rocciose, le miniere d’oro, le grandi praterie sono diventate icone di un testamento laico che ha influenzato ed affascinato la cultura di tante generazioni, spinte a viaggiare per scoprire il mito della grande America. Questi intellettuali americani hanno creato con la loro fantasia narrata il sogno americano, il grande risveglio di un popolo senza nome e senza passato. Lo studio delle grandi correnti della coscienza collettiva, al quale Paul Hazard ha consacrato una parte della sua opera, conduce a quella «storia delle idee» in cui l’americano Lovejoy si è specializzato e che è ormai indispensabile per una buona comprensione dei fatti che scaturiscono dagli eventi letterari. Jean-Marie Carrè ha orientato i suoi allievi verso i problemi di “miraggio”, posti dalla visione deformata che una persona o una collettività nazionale hanno di un’altra collettività attraverso la testimonianza degli scrittori. Alla luce di queste esperienze, letterarie e paesaggistiche, dovrebbe essere più agevole per noi, nell’età del turismo di massa e della devastazione del patrimonio ambientale e paesaggistico, far comprendere ai turisti del 2000 cosa significhi viaggiare in Italia e visitare le nostre terre: cuore dell’antica Magna Grecia. Gaetano Fierro C I R C O L I LI B E R A L BA S I L I C A T A

APPUNTAMENTI SETTEMBRE 2009 LUNEDÌ 7, ROMA, ORE 11 HOTEL AMBASCIATORI - VIA VENETO Riunione straordinaria del Consiglio Nazionale dei Circoli liberal. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

Antonio Jiritano

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

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PAGINAVENTIQUATTRO Il caso. La Disney annuncia a sopresa un remake in 3D di «Yellow Submarine» diretto da Robert Zemeckis

Ma i Beatles non sono di Alessandro Boschi i mancava pure il remake di Yellow Submarine. In questa estate torrida e cinematograficamente sonnolenta, scossa appena dai tagli al Fus e dall’attesa per la Mostra di Venezia, soprattutto per vedere la coppia sardo-americana CanalisClooney all’opera (e far cadere quella che oramai è diventata la «teoria Brad Pitt»), la Disney se ne esce con questa notizia di un remake del film a cartoni animati più psichedelico della storia del cinema. Affidato, come è ovvio, a Robert Zemeckis, che da tempo ha smesso di fare film “normali”dedicandosi a tecniche (peraltro egregiamente padroneggiate) sempre “oltre”, questo progetto sembra avere già ben piantate radici (uscita prevista estate 2012). Stessa data, guarda caso, dei Giochi Olimpici che si svolgeranno a Londra.

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Ora, è vero che in tempo di magra di idee si cerca di ricicciare quelle che hanno già funzionato, ma a noi sembra davvero un sacrilegio. Innanzitutto, sarà sufficiente per la Disney acquistare i diritti di tutte le canzoni contenute nella colonna sonora per poter replicare l’avventura che vede i quattro Beatles in missione per salvare il paese acquatico di Pepperland dalle grinfie dei terribili “biechi Blu” (blu, tranquilli, non azzurri)? Insomma, i diritti di immagine di un cartone animato sono del tutto differenti da quelli delle persone in carne e ossa? Anche perché sembra che la tecnica che verrà adottata sarà quella di trasposizione di movimenti effettuati da attori veri in animazione. Voi ve la sentite di azzardare un cast? Certo, se al posto dei quattro ci fossero Paperino,Topolino, Pippo e magari Paperon de’ Paperoni non ci sarebbero problemi. Ma così? Bah, vedremo. Certo è che così si rischia di ridisegnare la mappa dei ricordi, per lo meno quella di chi appartiene alla nostra generazione, che giocava a pallone per strada (è un modo di dire molto alla moda), che mangiava il ghiacciolo con “fortunato” scritto sullo stecco e giocava coi tappi delle bibite. La verità è che oggi nessuno, a parte la succitata generazione, si ricorda più di film come quello diretto da George Dunning. Yellow Submarine, se davvero questo bizzarro progetto andrà in porto, non esisterà più, e al suo posto quel diavolo di Zemeckis ci metterà il suo, di sottomarino giallo. Certi film dovrebbero essere come il metro, inteso come unità di misura, che viene gelosamente custodito in forma di barra campione di platino-iridio a Sèvres, vicino Parigi. Non dimentichiamoci poi del contesto storico. Quello che quando uscì, nel 1968, venne definito come un inno all’Lsd, ri-

Tre immagini da «Yellow Submarine», lo straordinario film d’animazione dedicato ai Beatles e alle loro canzoni. Realizzato nel 1968, raccontava di una battaglia a colpi di creatività contro i «Biechi blu», uomini brutti e cattivi che odiavano la fantasia e la musica; per combatterli, il Sergente Pepper chideva aiuto ai Beatles

TOPOLINO schia di diventare un prodotto per bambini (e per mammolette). È evidente che le accuse di allucinazione da acidi che furono formulate all’indirizzo dei Beatles qui non avranno più motivo d’essere. Un remake del genere, per essere filologicamente corretto, dovrebbe non solo riproporre storia ed interpreti, ma anche l’at-

Il capolavoro del cinema d’animazione venne realizzato nel 1968: fu accusato di essere un inno all’Lsd ma faceva sognare solo con le grandi canzoni dei Fab Four mosfera dell’epoca. Opportunamente adeguata. Ma non credo che la Disney, e Zemeckis, abbiano in mente un’operazione del genere. C’è dell’altro. Quando uscì, Yellow Submarine rappresentava l’esatto opposto dei cartoni animati prodotti dalla casa fondata dal «principe nero di Hollywood». Che infatti, solo l’anno prima, aveva distribuito Il libro della jungla. Con cartoni animati (tutti capolavori, intendiamoci), come Biancaneve e i sette nani, Cenerentola, Pinocchio e Le avventure di Peter Pan (non dimentichiamoci anche che il grande Sergej Eisenstein era un ammiratore di Disney),

che cosa ci azzeccava Yellow Submarine? Nulla, è evidente. E oggi? Forse, ma è una supposizione piuttosto azzardata, la Disney cerca di riappropriarsi, colonizzandolo, di un terreno creativo che allora non le apparteneva. Oggi, invece, tutto serve a creare una occasione mediatica coi fiocchi e poco importa se alla bisogna serve profanare un cartone animato di culto.

Delle Olimpiadi già abbiamo detto, non è possibile lasciarsi sfuggire una simile concomitanza. Ironia della sorte, pare che la Disney stia “vendendo” il nuovo Yellow Submarine come una operazione fatta per rendere omaggio alla grande Inghilterra che le Olimpiadi ospiterà. E qui siamo al paradosso, addirittura alla polpetta avvelenata. Ma come, la vecchia Inghilterra, che ha dato i natali a George, Paul, John e Ringo, non solo si vede “scippare” un film che ha fatto la storia non solo della animazione ma anche della pop art e di quello che venne definito surrealismo di massa? No, il tutto viene riciclato, edulcorato (è ovvio) e restituito come se fosse il più bello dei regali. Della serie, voi avrete anche avuto l’idea, ma non ce l’abbiamo più grossa. Insomma, che l’ha detto che le dimensioni non contano? Quasi quasi ci viene da sperare che questo nuovo Yellow Submarine di Robert Zemeckis diventi il primo sottomarino che sa solo andare a fondo.


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