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Ogni domanda alla quale si possa dare una risposta ragionevole è lecita. Konrad Lorenz
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 27 AGOSTO 2009
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
DOMANDE IMBARAZZANTI/1 QUESTIONI
QUESTIONI IMBARAZZANTI/2
«O la smettete di criticarci, o rivedremo il Concordato»: l’incredibile minaccia del quotidiano leghista apre un grave problema politico e Fini: «Posizioni razziste»
Si sa che il Cavaliere accetta di partecipare a tutte le feste a cui è invitato. Ma quella di Tripoli crea una ferita insopportabile per la dignità internazionale del nostro Paese
Può un partito di governo intimidire la Chiesa?
Può l’Italia andare a braccetto con Gheddafi?
alle pagine 2 e 3
alle pagine 4 e 5
Muore a settantasette anni il popolare senatore fratello di John e Bob. Il dolore di Obama: «Ho il cuore a pezzi»
Addio Ted, l’ultimo della leggenda Kennedy di Pierre Chiartano ed Kennedy, si è spento, martedì sera, all’età di 77 anni, a causa di un tumore al cervello. Il presidente Barack Obama è stato svegliato alle due di notte, ora locale, a Martha’s Vineyard e meno di mezz’ora dopo parlava al telefono con la moglie del senatore, Victoria. «Ho cuore a pezzi» ha confessato l’inquilino della Casa Bianca. A Washington le bandiere sono state abbassate a mezz’asta. Ted era senatore dal 1962, il terzo parlamentare nella storia degli Usa per durata di servizio in Senato. Il «leone liberal» non ruggirà più in difesa dei diritti civili e a protezione
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I QUADERNI)
• ANNO XIV •
della working class americana. Nono figlio di Rose e Joeph, fece squadra con i fratelli John e Bob, coltivandone il patrimonio politico in America. «È morto il patriarca dei Kennedy – ha affermato a liberal il giornalista Usa, Dennis Redmont – in un certo senso, ha portato l’eredità degli altri due sfortunati fratelli molto più lontano di quanto loro avrebbero potuto fare». Dal letto dell’ospedale non aveva perso la lucidità e aveva inviato una lettera al presidente del Senato, in cui chiedeva di essere sostituito. Sapeva che la propria assenza avrebbe tolto un voto a favore della riforma sanitaria di Obama.
e n’è andato un pezzo di storia. Un’icona dell’America. Dei democratici d’America, certo. Ma non solo. Perché Ted Kennedy, come i fratelli John, assassinato a Dallas nel 1963, e Robert, assassinatio a Los Angeles nel ’68, era l’ultimo erede di una dinastia che ha segnato cinquant’anni della vita del Paese. Tra grande voglia di cambiamento, coraggio, ma anche scandali e tanta sfortuna. Quasi una maledizione che ha inseguito una famiglia che ha già passato il testimone a Barack Obama.
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Ma il suo erede si chiama Barack di Enrico Singer
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• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
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Questioni imbarazzanti /1. Il Carroccio minaccia il Vaticano: nella maggioranza si apre un grave problema politico
Leghisti, laicisti, razzisti... Il giornale di Bossi: «Basta critiche o cambiamo il Concordato». Anche Fini con la Chiesa: «Sono posizioni discriminatorie» di Franco Insardà
ROMA. La Lega di lotta non ha
Il vicepresidente della Camera sottolinea che nelle parole della Chiesa «non c’è nessuna critica a una legge che il centrodestra ha condiviso e sostenuto, ma un forte richiamo perché tragedie come quelle del Canale di Sicilia non si ripetano più. E i toni della Lega sono assolutamente fuori luogo perché non ci fanno comprendere la questione in gioco e ciò a cui la Santa Sede ci vuole richiamare».
fatto passare neanche ventiquattr’ore dall’ultimo attacco a Santa Romana Chiesa, ma quella di governo è subito corsa ai ripari affidando ai due capigruppo in Parlamento, Fabrizio Bricolo e Roberto Cota, il compito di frenare, sull’anticlericalismo: «La Lega non ha alcuna intenzione di modificare il Concordato che, così com’è, va bene». Nel revanchismo anticlericale che contraddistingue l’estate del Carroccio, la Padania è scesa, infatti, in campo chiedendo addirittura la revisione del Concordato, un estremo tentativo di trovare sponde a sinistra? «Se i rapporti tra lo Stato e la Chiesa andranno avanti lungo questa deriva, bisognerà inserire, nell’agenda delle riforme, anche una revisione del Concordato e dei Lateranensi. Non ci pare il caso», scrive in prima pagina Stefano B. Galli.
Ancora una volta il motivo del contendere è la polemica sull’immigrazione e sul tragico sbarco degli eritrei a Lampedusa. Per il presidente del consiglio pontificio per i migranti, Antonio Maria Vegliò, erano offensive le dichiarazioni di Roberto Calderoli che aveva espresso dubbi sulla condivisione da parte del Vaticano per le sue affermazioni. Galli in un articolo intitolato “Strane ingerenze ideologiche in uno stato laico”, definisce le parole di monsignor Vegliò “l’ultimo episodio di una lunga se-
nenza sul territorio nazionale, ma censura nei confronti di qualsiasi politica che sia vagamente discriminatoria, xenofoba, razzista». E, per essere più chiari, aggiunge: «Il Pdl affini il suo approccio, non copi la Lega».
L’attacco della Padaniaha suscitato reazioni sdegnate da parte degli esponenti cattolici dell’opposizione che vi hanno visto un’escalation inaccettabile nel confronto con le gerarchie ecclesiastiche. IL segretario MAURIZIO LUPI dell’Udc, Lorenzo Cesa, ritiene che «con la mi«Invito nuovamente naccia di una revisione gli amici della Lega dei Patti Lateranensi la ad abbassare i toni Lega ha superato verae ad evitare inutili mente ogni limite. Non polemiche. Il governo vogliamo stare in un Paeha fortemente voluto se che coccola Gheddafi leggi utili a regolare e non sa difendere il digli accessi sul nostro ritto di parola della Chieterritorio e a garantire sa dall’arroganza della la sicurezza dei cittadini. Lega». E il portavoce delMa l’appello della Chiesa l’Udc, Antonio De Poli, è ci invita a non essere ancora più diretto: «Caro indifferenti» Bossi, lasci stare la Chiesa cattolica. Anzi, no. Continui con le sue inrie di ingerenze ideologiche e squisita- vettive, così si vede di che pasta è fatto mente politiche da parte di uomini delle il (va)pensiero leghista».Per Luca Vogerarchie ecclesiastiche nelle faccende lontè «le accuse e le minacce di revidi uno Stato che, fino a prova contraria, sione del Concordato, oltre a dimostraè laico”. Ed elenca tutti gli interventi di re una totale ignoranza e incompetenesponenti eclesiastici contro le politiche za confermano una preoccupante deriva laicista e radicaloide della Lega. La dei ministri leghisti. Parole che hanno fatto inorridire il pre- Padania vorrebbe una “chiesa addomesidente della Camera, Gianfranco Fini: sticata e gallicana”, forse anche “celti«Estremo rigore nel rispetto delle regole ca”». Per concludere: «le continue tenfondamentali per l’ingresso e la perma- tazioni intimidatorie non indurranno
al silenzio nessun cattolico tantomeno la Chiesa e il Vaticano».
Sulla stessa lunghezza d’onda anche l’ex ministro della Pubblica istruzione del governo Prodi, Giuseppe Fioroni. Dalle colonne di Repubblicaha lanciato un appello ai cattolici del Pdl affinché «dimostrino di essere in grado di incidere sulle scelte della maggioranza. Anche su quei temi sui quali, fino ad ora, sono andati avanti sotto dettatura della Lega. Sono loro che possono mettere un argine alle parole di Bossi e Calderoli». E a proposito dei rapporti con la Chiesa Fioroni ha accusato la maggioranza di «usare la Chiesa come un franchising: plaude a ciò che fa comodo, la respinge o la insulta quando usa richiami destabilizzanti per gli equilibri interni alla maggioranza. È il virus della convenienza». Cerca di buttare acqua sul fuoco il vicepresidente della Camera e cattolico area Cl, Maurizio Lupi che invita ad «abbassare i toni ed evitare polemiche inutili». Quindi si dice convinto che «all’origine delle parole di Calderoli contro monsignor Vegliò ci sa un enorme fraintendimento. L’intervento della Santa Sede era un richiamo doveroso e importante a tutta la classe politica, ai governi, agli Stati, alle Nazioni: quello di non essere indifferenti di fronte alla tragedia che è avvenuta».
Questo episodio non è certamente il miglior auspicio per l’annunciata cena tra il premier Silvio Berlusconi e il Segretario di Stato Vaticano, Tarcisio Bertone, a L’Aquila in occasione della “Perdonanza celestiniana” . Dal fronte Pdl sono giunti segnali di distensione verso la Chiesa. Il ministro degli Esteri, Franco Frattini, ammette: «Ho vissuto questa situazione da cattolico con qualche dispiacere e qualche imbarazzo. Ma l’Italia, e lo dimostreremo con i fatti, è il Paese che ha salvato il maggior numero di vite umane in mare. Abbiamo operato con i fatti proprio nel senso voluto dal Vaticano». Pur non giustificando gli attacchi della Lega alla Chiesa e definendoli «fuori luogo», il ministro per l’Attuazione del programma, Gianfranco Rotondi, ritiene che «non è giusto ricambiare sparando sulla GIANFRANCO ROTONDI «Anche io trovo fuori luogo l’attacco della Lega alla Chiesa, ma non è giusto ricambiare sparando sulla Lega o teorizzando altre formule di governo. È tempo di riconoscere che senza la Lega l’Italia è ingovernabile: Berlusconi da solo non vince e tutti gli altri non sanno fare un governo»
Lega Nord o teorizzando altre formule di governo». L’opposizione, ovviamente, critica il Pdl e la sua sudditanza alle uscite degli alleati del Carroccio. Enrico Farinone, vicepresidente Pd della commissione Affari europei accusa i «cattolici del Pd che non riescono ad arginare la Lega». Per Massimo Donadi, capogruppo Idv alla Camera, «il governo è sotto ricatto della Lega. Bisogna fermare la deriva razzista e xenofoba». E Luca Volontè insinua un altro sospetto: «Allarma il silenzio del capo della Pdl, forse Berlusconi è il mandante di Bossi o desiderava impossibili benedizio-
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Insofferenza al meeting di Rimini, sullo sfondo la trattativa per le Regionali
L’ultimatum di Formigoni «Così la corda si spezza»
I cilellini rincarano la dose: «Dai leghisti solo colpi di sole» Ma i Lumbard già rivendicano la presidenza del Veneto di Errico Novi e Irene Trentin
ROMA. La corda può spezzarsi. L’immagine evocata da Roberto Formigoni infrange il clima di tolleranza che ispira il meeting di Rimini. Tra gli stand del tradizionale appuntamento di Comunione e liberazione sembra prevalere una volontà di attesa, di sospensione del giudizio nei confronti del Carroccio. Era stata questa l’impressione diffusa lunedì scorso, giorno del faccia a faccia andato in scena sul palco della manifestazione tra Robero Calderoli e il governatore della Lombardia. Fino all’inversione strategica esibita ieri dal governatore. «Da ciellino di base quale sono, dico che se la Lega tirasse troppo la corda, la corda le rimarrebbe in mano». Formigoni si vede quasi costretto a esporsi così dopo un’altra giornata vissuta pericolosamente dai lumbard. Segnata soprattutto dalla “minaccia” che arriva attraverso l’editoriale di Stefano Galli sulla Padania in cui si ipotizza «una revisione dei patti lateranensi e del concordato» di fronte all’eventuale intestardimento del Vaticano sul tema immigrazione.
ni per i propri immorali atteggiamenti?». ll ministro Rotondi, però, riconosce a Bossi e ai suoi un suo valore. «Senza la Lega, l’Italia è ingovernabile: Berlusconi da solo non vince e tutti gli altri non sono buoni a fare un governo, o quando ci sono riusciti ancora faticano a farlo dimenticare. Può, dunque, piacere o non piacere, ma, al di là dei toni coloriti, la Lega Nord permette all’Italia di essere governato e di restare un grande Paese unito e rispettato nel mondo». Oltretevere, invece, non rilancia e l’Osservatore Romano non dedica nemmeno una riga alla polemica tra la Lega e il Vaticano. La scelta del giornale della Santa Sede testimonia la volontà di evitare un ulteriore surriscaldamento del clima politico. Monsignor Agostino Marchetto, segretario del Pontificio
AGOSTINO MARCHETTO «Se parlano contro di me, posso rispondere soltanto che quando un arcivescovo, in coscienza, sa di aver fatto il proprio dovere dicendo ciò che la Chiesa insegna, non si ferma a raccogliere le pietre che gli lanciano dietro»
Consiglio per la pastorale delle migrazioni, ha replicato seccamente: «Se parlano contro di me posso rispondere solo che quando un arcivescovo, in coscienza, sa di aver fatto ciò che la Chiesa insegna, non si ferma a raccogliere le pietre che gli lanciano dietro».
Dalle parti di cielle in realtà preferirebbero mantenere il livello della discussione entro soglie più tranquillizzanti. Anche perché in gioco ci sono gli equilibri in Lombardia, dove è maggiormente radicata la Compagnia delle opere, espressione imprenditoriale del movimento fondato da don Giussani. Si tratta però di un incantesimo difficile da preservare. Così il presidente della Regione rilegge in una chiave meno pacifista l’analisi che fino a un minuto prima gli organizzatori del meeting sembrano sposare: la Lega può anche andare sopra le righe ma non succederà nulla perchè a dettare la linea della maggioranza è il Pdl. È vero, dice Formigoni, «che i toni sono stati esasperati dalla stampa nel tentativo di creare uno scontro che non c’è», però «la barra delle politiche di governo ce l’hanno il Pdl e Berlusconi, quindi non c’è alcun pericolo di deriva laicista». Nulla di diverso dalle tesi che altri uomini di cielle propongono, in apparenza, eppure il tono è inasprito quel tanto che basta a cambiare il clima della partita. D’altronde il governatore non si avventura su un sentiero dietrologico che pure lambisce la sua regione e la sua ricandidatura. È la strada che ricollega il furore anti-cattolico del Carroccio alle trattative in vista delle elezioni del prossimo anno. La voce grossa dei lumbard è in realtà un modo per alzare il prezzo sulla ripartizione dei territori. A intuirlo è un tenace sostenitore dell’allargamento della maggioranza all’Udc, quel Fabrizio Cicchitto che nell’agosto del 2008 aveva rivolto per primo un appello a Pier Ferdinando Casini. «Tra le regioni del Nord almeno due dovranno andare al Pdl. Una può toccare alla Lega ma bisogna ascoltare anche l’Udc», secondo il capogruppo del Pdl alla Camera. La bandierina da consegnare nelle mani di Bossi ha una destinazione ancora troppo incerta, per i gusti del Senatùr. Ed ecco perché la tensione sul destino della Lombardia resta alta, tanto da suggerire particolare prudenza ai formigoniani, almeno fino all’intervento del governatore sulla «corda che può spezzarsi». Dice per esempio a liberal
Giulio Boscagli, assessore regionale alla Famiglia e cognato del presidente: «Evitiamo di far nascere un caso più grande di quello che è, sulle dichiarazioni di leghisti nei confronti del Vaticano: non si può dire che abbiano messo nel mirino la Chiesa, mettono in discussione alcune espressioni particolari. E poi non è che parliamo di un partito dalla consolidata ispirazione filo-cattolica, sono sempre quelli che fino a qualche anno fa celebravano le loro funzioni religiose sul Po». Certo, Boscagli non esita a definire certe frasi indirizzate verso Oltretevere «affermazioni figlie del caldo di Ferragosto». Ma ci sarebbero diversi elementi di rassicurazione, aggiunge: «Innanzitutto ci vuole ben altro che il Carroccio per mettere in discussione la presenza in Italia della Chiesa, che non ha nemmeno bisogno di essere difesa. Poi bisogna guardare al lavoro concreto che abbiamo svolto finora anche in Lombardia, pensiamo per esempio allo statuto, approvato ovviamente insieme alla Lega, tutto imperniato sulla centralità della persona». E poi quell’invocazione fiduciosa fatta anche da Formigoni: «L’asse portante del governo è il Pdl, sul rapporto con la Chiesa c’è una linea ben chiara ribadita dal presidente Berlusconi che non può essere messa in discussione».
Il punto è chiarire se l’obiettivo del Carroccio sia davvero la mortificazione delle istanze cattoliche o piuttosto la conquista di una Regione di peso per il 2010. Da ambienti del Pdl circolano voci su un impegno già assunto in modo irrevocabile da Berlusconi per la concessione del Veneto a Bossi, ma nella Regione governata da Galan il Pdl è già percorso da una fortissima agitazione per la linea anti-Vaticano dei lumbard. Sono gli stessi uomini vicini all’attuale presidente a coltivare un disegno diverso, che prevede l’allargamento dell’alleanza all’Udc, per arrivare alla conferma di Galan. Uno scenario nel quale è evidentemente difficile considerate archiviata la partita lombarda. E questo può spiegare il contegno esibito dagli uomini di Comunione e liberazione, tra gli altri dal vicepresidente nazionale e responsabile milanese della Compagnia delle opere Massimo Ferlini: «Dal Carroccio può anche arrivare qualche affermazione sopra le righe, ma credo si debba guardare alle politiche e alla legislazione che mette effettivamente in atto un governo. E a me sembra che anche gli ultimi provvedimenti mirino a coniugare politiche inclusive e rispetto della legalità. Certo, nella maggioranza c’è un partito portatore di una «visione meno inclusiva come la Lega», ma questo non cambia la situazione. E le critiche mai risparmiate ai provvedimenti della maggioranza da Famiglia Cristiana, per esempio, «sono frutto di visioni politiche diverse, mentre dalle gerarchie ecclesiastiche provengono appelli alla coscienza degli individui». Il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi ha detto ieri sera al meeting che «il peggio è passato anche se restano rischi per l’occupazione». Forse ha qualche ragione in più di essere ottimista rispetto agli uomini di cielle.
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Questioni imbarazzanti/2. Tripoli, Kabul, Teheran: quando la politica occidentale deve rinunciare ai suoi principi
Una festa da disertare
Non bastano gli investimenti, i fondi sovrani e il petrolio per andare in Libia a celebrare la cacciata degli italiani da parte di Gheddafi Gran Bretagna è nelle stesse condizioni) a tutte le condizioni imposte dal dittatore di Tripoli. Si gioisce perfino del suo colpo di Stato attuato quarant’anni fa in seguito al quale cacciò i vivi e i morti italiani da quella che era la sua terra non meno che di coloro che l’avevano dissodata, coltivata, perfino amata. Il governo italiano invierà, pare, per sottolineare la “fausta” ricorrenza una pattuglia delle Frecce Tricolori che volteggerà nel cielo libico a maggior gloria del tiranno che sotto la sua tenda intratterrà il presidente del Consiglio di una democrazia occidentale, dal quale, per intese sottoscritte, non verrà neppure la più flebile e cortese delle richieste di visitare i campi profughi allo scopo di rendersi conto delle condizioni degli immigrati colà trattenuti. Gli affari sono affari. E i giornali in questi giorni ci stanno raccontando tutto sui“fondi sovrani”di Gheddafi in Italia, degli investimenti nostri in quel Paese, dei ricavi che avremo dal buon vicinato e così via. Ma ciò che più disturba è considerare Gheddafi un partner affidabile, un interlocutore prossimo ad abbracciare la causa dei diritti dei popoli quando invece è un attempato militare in disarmo, un bel po’ clownesco, che si atteggia a signore del deserto e si permette di festeggiare, accogliendolo trionfalmente, un suo agente segreto, rilasciato dal governo scozzese, con il beneplacito del primo ministro di Sua Maestà Britannica, responsabile dell’attentato di Lockerbie nel quale persero la vita ducentosettanta persone.
di Gennaro Malgieri ai come in questi primi anni del nuovo secolo ci è toccato in sorte di assistere da occidentali impotenti al progressivo dispiegamento di una violenza inimmaginabile, dopo la fine della Seconda guerra mondiale e l’emanazione della Dichiarazione dei diritti dell’uomo nel 1948, contro la persona, le nazionalità, le sovranità, le culture. I responsabili, strano a dirsi, sono tutti oligarchi che non esitano a definirsi comunque “democratici”. Ma anche “liberatori”o eredi di questi dal dominio europeo. Ed è con loro, in nome di una “democrazia” che tartufescamente ritengono condivisa, che i governanti dell’Occidente intessono rapporti diplomatici, politici, economici, finanziari, culturali. La “democrazia degli altri”, per usare una felice espressione di Amartya Sen, va comunque accettata, senza distinguo, qualificazioni o riserve. E non perché, come sostiene il premio Nobel indiano, ognuno può interpretarla a suo modo, secondo le proprie inclina-
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Si dica chiaro e tondo che bisogna trattare con un governante dispotico e crudele e la si faccia finita con omaggi e salamelecchi zioni ed i propri costumi purché non vengano messi in discussione e stravolti i diritti fondamentali. Si è di fronte ad un tragico errore di prospettiva. Poiché pur non essendo la democrazia declinabile in maniera uniforme, giusta l’obiezione di Sen, essa deve rispondere a canoni irrinunciabili affinché si possa stabile con coloro che la professano un minimo di dialogo teso a rendere meno precaria la stabilità mondiale.
È sommamente ipocrita, dunque, ritenere di prescindere dalla “qualità”di qualsivoglia regime, purché con esso si riescano ad intessere rapporti bilaterali o multilaterali tesi al soddisfacimento delle rispettive pretese. Sarebbe molto meglio che si dichiarasse in anticipo con chi si ha a che fare, magari anche con il più bieco dei tiranni, e ci si comportasse di conseguenza, piuttosto che ammantare di “umanitarismo” gli interscambi che hanno la sola ragione di produrre crescita, ricchezza, sviluppo a detrimento delle popolazioni soggette agli oligarchi o , peggio, ai dittatori titolari esclusivi di tutti i benefici ricavati dal rapporto con le democrazie occidentali. Abbiamo sotto gli occhi lo strabico appeasement dell’Italia con la Libia di Gheddafi per non dirci scandalizzati, oltre che comprensibilmente stanchi, nell’assistere al cedimento di un Paese come il nostro (ma anche la
Ecco il programma delle celebrazioni per il quarantennale del Colonnello
Mongolfiere e cammelli Non solo Frecce tricolori ROMA. Concerti arabi e occidentali nelle splendide rovine romane sul Mediterraneo, a Leptis Magna e a Sabaratha. Uno show con mille cammelli e 40 mongolfiere nell’oasi di Ghadames nel deserto. Spettacoli suoni-e-luci in sei siti storici. E, a Tripoli, una modesta rappresentazione della storia libica con 400 fra attori e danzatori, per appena 300mila spettatori. Le Frecce Tricolori, insomma, non sono davvero l’unico elemento di attrazione previsto per la stupefacente festa che Muammar Gheddafi ha studiato per i giorni attorno al 30 agosto, quarantesimo anniversario del suo arrivo al potere in Libia. Nonché, giova ricordarlo, quarantesimo anniversario della cacciata dalla Libia di migliaia e migliaia di italiani che lì avevano affetti e interessi: italiani che hanno perso tutto e non sono mai stati risarciti. Così, palesemente imbarazzato per una situazione or-
mai troppo ingarbugliata, il ministro degli Esteri Franco Frattini ha spiegato che «le Frecce Tricolori si esibiranno nel cielo di Tripoli in onore di tutta l’Africa, non di Gheddafi in quanto tale». E per chiarire meglio il concetto: ”Non dimentichiamo che Gheddafi è oggi il legittimo presidente dell’Unione africana. Mi sembra sbagliato fare tante chiacchiere sull’Africa e poi essere imbarazzati quando Gheddafi invita il presidente di turno del G8 (Silvio Berlusconi, ndr). Peraltro, l’Italia in Africa è sicuramente tra i paesi del mondo più apprezzati. Perché abiamo rotto con il colonialismo e chiesto scusa per il colonialismo fascista». Ebbene, un tempo chiusa all’esterno, la nuova Libia del colonnello oggi si punta addosso i riflettori. Ma la scaletta e l’organizzazione della festa sono nelle mani di un occidentale. Philippe Skaff, 52 anni, canadese.
Si dica chiaro e tondo che la quinta o la sesta o la settima potenza industriale del mondo ha bisogno di trattare con un governante dispotico e crudele, che per anni ha armato il terrorismo arabo, e la si faccia finita con omaggi e salamelecchi. Il quarantesimo anniversario della “rivoluzione verde”di Gheddafi per l’Italia dovrebbe essere un giorno di lutto. Lo stesso vale per tutti i Paesi occidentali che non possono fare a meno, in cambio di niente (oltre naturalmente materie prime indispensabili) di intessere rapporti con dittature sanguinarie sempre, naturalmente, in nome del dialogo, della cooperazione tra i popoli, dell’incontro la le civiltà. Nessuno più di chi scrive lo desidera. Ma ad una condizione. Che si definiscano per come meritano i regimi con i quali si è costretti, per ragioni geopolitiche, ad avere rapporti decenti. Non perché il Pakistan è diventato buono improvvisamente, deve essere un interlocutore privilegiato; e neppure l’Afghanistan dell’impotente Karzai, messo lì dagli americani (ne indovinassero una…), può essere considerata una nazione amica dell’Occidente; né, tantomeno, l’Iran di Khamenei e Ahmadinejad, va ritenuto, come Obama credeva, soggetto a redenzione; e neppure la Russia di Putin e di Medvedev è quella democrazia che gli autocrati del Cremlino vorrebbero far credere. Per non dire della Repubblica popolare cinese,
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Le responsabilità della liberazione del terrorista non ricadono solo su Gordon Brown
Anche Obama ha sbagliato sul caso Lockerbie
La politica della mano testa del presidente e le incertezze di Hillary hanno permesso al Colonnello di celebrare la propria impunità di John R. Bolton indignazione è stata la risposta uniforme dell’America alla Scozia per aver rilasciato Abdel Bassett Ali al-Megrahi, l’uomo condannato per aver fatto esplodere l’aereo del volo Pan Am 103 nei cieli di Lockerbie nel dicembre 1988. Duecentosettanta persone innocenti morirono orrendamente in questo atto di terrorismo, centottantanove dei quali erano americani, molti di loro studenti che rientravano a casa per festeggiare il Natale con le famiglie. Indignazione ha suscitato anche la celebrazione pubblica dell’arrivo di alMegrahi in Libia e la sua calda accoglienza da parte di Muammar Gheddafi. Tutto ciò non fa che sottolineare l’infamia dell’errore della Gran Bretagna per aver concesso la libertà a alMegrahi. La “compassione” qui non c’entra. Rilasciarlo per permettergli di morire a casa significa che, da quando è stato condannato nel 2001, ha trascorso meno di due settimane in carcere per ognuna delle sue duecentosettanta vittime. Loro non sono mai tornate a casa.
L’
Dall’alto, Hillary Clinton, il premier britannico Gordon Brown e, qui sotto, il terrorista libico Al-Megrahi liberato la scorsa settimana
delle sua “umanità” portata ai tibetani ed agli uiguri che stanno morendo. Esempi, soltanto pochi esempi… Certo, il mondo è più piccolo. Ma si sono ristrette anche le maglie della democrazia, contrariamente a quanto si riteneva dopo la fine della Guerra Fredda. Che fare, dunque? Semplicemente utilizzare i due piatti della bilancia e non uno solo.
Il legittimo disgusto per la liberazione di al-Megrahi sottolinea tristemente uno spettacolare fallimento della diplomazia americana. L’ “Obama-mania” oltreoceano rappresenta un tema dominante dei principali media, che non fanno che narrare quanto la posizione degli Stati Uniti nel mondo sia migliorata da quando Bush è andato via. “Impegno” sia con gli amici che con gli avversari è il marchio dell’Amministrazione Obama, con la previsione di progressi diplomatici che scorreranno come vino. Allora, cos’è successo qui? Il Dipartimento di Stato ha dichiarato che il Segretario Hillary Clinton ha lavorato “per settimane e mesi” per convincere la Gran Bretagna a non rilasciare l’assassino. Sia Washington che Londra hanno evitato di implorare Gheddafi affinché non tenesse celebrazioni pubbliche per l’arrivo di al-Megrahi a Tripoli. Tuttavia la Gran Bretagna, l’altra metà della “relazione speciale”, ignorava i tentativi di Clinton, lo stesso faceva la Libia, che solo recentemente ha recuperato relazioni diplomatiche complete con l’America. Questa è la vera diplomazia Sul primo si mettano i diritti umani, sul secondo gli affari. Il peso verrà di conseguenza. E, naturalmente, anche il prezzo da pagare non alle sedicenti o inesistenti democrazie, ma ai sistemi liberticidi con cui pure un minimo di intesa bisognerà coltivarla. L’Occidente non ha altra possibilità. E, paradossalmente, se vuole prodigarsi nello scongiurare il paventato
americana? Questo è uno dei benefici tangibili dell’Obama-mania?
La supposta “decisione”da parte della Scozia (sotto le cui leggi l’America, la Gran Bretagna e la Libia avevano concordato di far processare Al-Megrahi) è stata quasi sicuramente presa su ordine del governo del Primo Ministro Gordon Brown. Il figlio di Gheddafi, Saif al-Islam e Lord Trefgarne, presidente del Lybian-British Business Council, hanno entrambi confermato essenzialmente che la liberazione di al-Megrahi era intesa a migliorare le relazioni commerciali tra la Gran Bretagna e la Libia. Lo stesso Gheddafi dichiarò che la liberazione «sortirà sicuramente effetti positivi in tutti i campi di cooperazione tra i due paesi». Ci sono dubbi su quello che voleva dire? Di sicuro, non vi è stato alcun “accordo”tra Brown e Gheddafi o tra i loro subalterni, alcun contratto firmato, alcun esplicito quid pro quo tra la liberazione di al-Megrahi e gli affari della Gran Bretagna. In verità, naturalmente, non è così che sono andate le cose.Tutte le smentite di Brown sull’esistenza di una tale esplicita transazione corrispondono probabilmente, quindi, alla “verità”, ma non alla completa verità. La sequenza tra la liberazione e i successivi contratti era intesa per migliorare la smentitabilità ufficiale, ma il collegamento è evidente a tutti gli interessati. La rotazione degli esperti del Gabinetto non può nascondere la realtà emergente.
approccio statunitense al terrorismo internazionale, iniziato con l’amministrazione Clinton. Benché rinnegato dall’amministrazione Bush dopo gli attacchi dell’11 settembre, la filosofia di Clinton secondo cui il terrorismo è semplicemente una questione di applicazione delle leggi è ancora in piena voga nell’amministrazione Obama. Sia il presidente Bush padre che il presidente Clinton avrebbero dovuto trattare l’attacco al volo Pan Am 103 come un attacco agli Stati Uniti e avrebbero dovuto rispondervi adeguatamente. Almeno, l’amministrazione Clinton non avrebbe mai dovuto approvare che al-Megrahi venisse processato in Scozia dove non è prevista la pena di morte per l’omicidio, per il terrorismo di massa o per qualsiasi altro crimine. In America, dopo un processo giusto almeno quanto in Scozia e dopo tutti gli appelli, al-Megrahi non sarebbe ora in una posizione di poter chiedere clemenza. Nemmeno gli Stati Uniti e il Regno Unito avrebbero dovuto approvare che il processo a al-Megrahi «non sarebbe stato usato per indebolire il regime libanese» citando quella lettera in cui le Nazioni Unite hanno facilitato il trasferimento di al-Magrahi alla custodia scozzese dieci anni fa. La sua liberazione sarà ora ampiamente considerata, soprattutto da terroristi e dai loro sponsor governativi, come un ulteriore atto di pacificazione occidentale. Gheddafi si chiederà tuttavia ancora perché, più di cinque anni fa, ha rinunciato ai suoi programmi di armamenti nucleari e chimici.
La Gran Bretagna ha smentito l’esistenza di una trattativa vera e propria, ma restano troppi i punti oscuri di questa vincenda
Alcuni dicono che Brown ha ascoltato le famiglie delle vittime inglesi che ancora dubitano della colpevolezza di al-Megrahi. Perché ha così poca fiducia della giustizia scozzese? E se la Scozia (patria di due dei miei nonni) non è in grado di affrontare nel modo giusto il terrorismo di massa, che messaggio si dà agli stranieri che stanno pensando di andarci in vacanza? In verità, questo non è che l’ultimo esempio di un fondamentalmente difettoso “scontro di civiltà”(che non sarà mai con un Islam rettamente inteso, con i suoi contorsionismi politici attivati da sanguinari e folli jihadisti), deve comportarsi non come una granitica potenza dedita all’esportazione della democrazia (tantomeno con le armi: la sciagurata esperienza irachena insegna), ma far valere i diritti dei singoli e dei popoli negli scambi
Il mese prossimo a New York il Presidente Obama presidierà una conferenza sulla non proliferazione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. È prevista la partecipazione di tutti i quindici capi di governo del Consiglio, compresi Brown e Gheddafi. Probabilmente tutti e tre si metteranno in posa per le fotografie. Sarebbe una scena molto intima, ma senza l’Obama-mania. commerciali. Chi gli si nega sa che ha da perdere molto di più a condizione che i governi di questa parte del mondo libero sappiano dove sta la ragione e dove il torto. La favoletta secondo la quale la politica non ha e non può avere una suo specifica morale ha favorito le grandi tragedie del Ventesimo secolo. Il Ventunesimo dovrebbe essere diverso.
politica
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Inchiesta. Ezio Mauro punta su Franceschini per la guerra totale al Cavaliere: il Fondatore è dubbioso, l’Ingegnere incerto, gli editorialisti in ordine sparso
Repubblica a Congresso Primarie Pd: ecco come si schierano le truppe del giornale-partito che vuole scegliersi il segretario di Marco Palombi e qualcuno avesse ancora bisogno di una prova della condizione di vassallaggio un po’ridicolo in cui si trova la cosiddetta tv pubblica la potrebbe trovare confrontando quanto accade in Rai per le nomine nella terza rete con quella sorta di abuso di potere che il gruppo Espresso-Repubblica pratica nei confronti del Partito democratico, peraltro adulto e consenziente. In buona sostanza se a viale Mazzini aspettano il Congresso, a largo Fochetti lo fanno. Non che la cosa sia una novità: il quotidiano romano ha legittimamente scelto fin dalla sua fondazione di muoversi come un potere tra i poteri, di intestarsi il ruolo di levadore di quell’Italia nuova – o almeno un po’ meno vecchia – che fu il sogno vagamente impolitico dell’azionismo dantan.Tra la dimensione onirica e la realtà, poi, uno si ritrova a regatare nel piccolo cabotaggio di spalleggiare Ciriaco De Mita contro Bettino Craxi o a prenotare tessere di partiti a venire, sempre a venire. Così è la vita. Intanto però, mentre il povero Mauro Masi deve restare in equilibrio tra i consiglieri d’amministrazione veltroniani che chiedono la conferma di Ruffini e Di Bella e gli emissari di Massimo D’Alema – suo datore di lavoro nella fortunatamente per lui breve stagione del prodismo - che“portano”Bianca Berlinguer e chissà chi altro, nella palazzina dell’Eur si detta la linea, si fa la storia, si tratteggia il futuro del Paese. Ognuno a modo
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del Giornale a fare la guerra di posizione con Repubblica (tanto sparate voi su Berlusconi, tanto spareremo noi sulla spia del Kgb De Benedetti), Maurizio Belpietro va a Libero a fare la guerriglia partigiana. Spente, metaforicamente, le tv. Neanche al gruppo Espresso, però, pettinano le bambole e sanno benissimo che senza una sponda politica non c’è verso di combattere l’Armageddon con qualche speranza di vittoria, e in realtà nemmeno di sopravvivergli. Da qui la scelta è stata pressoché obbligata: il torinese Ezio Mauro, distante com’è dal populismo meridionale di Antonio Di Pietro e dal moralismo livoroso di Marco Travaglio (memorabile lo sputtanamento sulle vacanze col finanziere in odor di mafia a firma Giuseppe D’Avanzo nella primavera 2008), ha scelto Dario Franceschini, ovvero la continuazione di WalterVeltroni con altri mezzi.
L’attuale segretario del Pd, peraltro, è buon amico dell’attuale direttore di Repubblica ed è pure uno dei pochi politici a vantare una frequentazione di qualche peso con l’Ingegnere-Editore. Ezio Mauro è, per il politico di Ferrara, una via di mezzo tra lo spin doctor e il burattinaio: i due - s’è lasciato sfuggire uno dei collaboratori di Franceschini - si sentono più volte al giorno e non per parlare di letteratura. Il direttore compulsa le agenzie e poi suggerisce al segretario: secondo me dovresti dire
Francesco Cossiga) è stata improvvisa: le sue dichiarazioni nella campagna per le europee sono passate nello spazio di un amen dalla sfida al governo sulla crisi economica condita con un banale ma accorto «tra moglie e marito non mettere il dito» alla guerra sui valori morali incistata nello sgradevole «fareste educare i vostri figli da quest’uomo?». Esplosione verbale seguita da toni spesso estranei alla retorica del «capo dello schieramento a noi avverso» (Veltroni) e da un attivismo legislativo, per esempio, sul fronte del conflitto d’interessi che pare perlomeno intempestivo in persone che in questi anni hanno avuto almeno due occasioni per farne tema di governo. È la guerriglia antropologica – sempre legittima, giova ripeterlo, quand’anche politicamente non produttiva – che sta alla base delle dieci domande, versione uno e due, che il tandem Ezio Mauro e Giuseppe D’Avanzo (ma alla task force andrebbe aggiunto almeno il vicedirettore milanese Dario Cresto-Dina, gran confidente della signora Veronica Lario) continua invano a sottoporre al presidente del Consiglio. La strategia d’intervento diretto nella vita dei partiti per influenzarne la linea ed “eleggerne” la classe dirigente – peraltro tradizionale per il giornale fondato da Eugenio Scalfari (nel ’94 sponsor di Veltroni, tanto per rimanere in tema) – non è un atto di hubris, ma la conseguenza di una scelta politica dei costituenti del Pd: affidare l’e-
LA MAPPA DEGLI SCHIERAMENTI FRANCESCHINI Con lui sono schierati Carlo De Benedetti, Ezio Mauro, Dario Cresto-Dina, Giuseppe D’Avanzo, Michele Serra e Daniela Hamaui
suo, per carità, il che comporta non pochi problemi: d’altronde «quando sono troppi i galli a cantare non si fa mai giorno», dicono in campagna (e lì direttore, fondatore e editore – si dice a Roma – cantano ognuno una canzone sua).
Breve riassunto. Come si sa la Repubblica, dopo anni di dura opposizione a Silvio Berlusconi, ha dato il via alla guerra totale contro l’attuale premier con gli scoop sulla frequentazione del nostro con l’allora minorenne Noemi Letizia. A Palazzo Chigi hanno capito benissimo la propensione alla “scossa”nutrita in quel di Largo Fochetti e, dopo un iniziale barcollamento, si sono adeguati: Vittorio Feltri torna nella trincea
BERSANI Ha l’appoggio diretto di Curzio Maltese, quello silenzioso di Massimo Giannini e (via Prodi) di Edmondo Berselli
questo o rispondere quest’altro. Suggerimenti, dicono, accolti assai spesso. Miriam Mafai, incalzata da Giampaolo Pansa, l’ha ammesso martedì sera addirittura in tv: «Certo che adesso Ezio Mauro conta più di Franceschini, ma la colpa non è mica sua…». Quanto a Carlo De Benedetti va detto che pure Pierluigi Bersani, com’è giusto, gode della sua stima, ma l’ex ministro non partecipa ai week end nella casa padronale, il luogo dove mani sicure e menti brillanti disegnano a tavolino (o a tavola, o comunque con supporti adeguati alla bisogna) i destini del Paese. La conversione del solitamente mite Franceschini alla strategia comunicativa del «noto gruppo editoriale» (copyright di
MARINO Ha l’appoggio certo di un omonimo rubrichista dell’«Espresso». E la simpatia di Marco Damilano e dell’ex Conchita De Gregorio (dirottata a “l’Unità”)
lezione del segretario non al Congresso, ma a primarie aperte a tutti. Tutti danno per scontato che la mozione Bersani vincerà tra degli iscritti, ma in mare aperto avere o non avere Repubblica con sé potrebbe risultare determinante: largo Fochetti, tanto per chiarire, vanta poco meno di tre milioni di lettori singoli, non tutti ovviamente disposti a gettarsi al fiume insieme al quotidiano, ma comunque sentimentalmente legati al gruppo editoriale che detta cultura, gusti e stili di vita alla gauche caviar del nuovo millennio.
In attesa dei fuochi d’artificio di settembre e ottobre, un assaggio dello sconquasso creato dalla scelta di Ezio Mauro di
SCALFARI Non corre perché un giornale è più di un partito. Ma se corresse avrebbe l’appoggio di tutti (Franceschini, Bersani, Marino, CdB, Ezio Mauro...)
schierare il giornale dietro Franceschini può cogliersi in quella che è stata chiamata la «guerra dei sondaggi» e invece sarebbe stato più corretto definire «guerra dei sondaggisti». L’11 agosto Il Riformista «organo ufficiale della mozione Bersani» secondo Piero Fassino – pubblica in prima pagina un sondaggio della Ipr marketing, tradizionale partner di scorribande numeriche del gruppo Espresso, che dà il ministro delle lenzuolate in vantaggio addirittura di 19 punti sul segretario in vista delle primarie del 25 ottobre. Al tradimento di Ipr, Repubblica ha reagito una settimana dopo pubblicando una rilevazione della Ipsos di Nando Pagnoncelli commissionata da Dario Franceschini. Il pezzo che la
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La strategia “vecchio Pci” dello sfidante Bersani
«Siamo iscritti, lettori o caporali?» guerra totale di cui l’endorsement per il segretario del Pd non è che il pallido riflesso politico. L’Armageddon ha infatti un unico punto di caduta possibile che arrida agli sfidanti: che il discredito che già abbonda attorno a Silvio Berlusconi cioè raggiunga una massa critica tale da spingere una parte della sua attuale maggioranza a giubilarlo con l’appoggio di parte dell’opposizione. È lo scenario a cui, si dice, lavora il democratico di rito liberal Franco Bassanini, recentemente nominato da Giulio Tremonti a capo del suo braccio armato, la Cassa depositi e prestiti. E se qualcuno punta su un governo di salute pubblica sotto l’egida del ministro dell’Economia la cosa non può certo far piacere al Fondatore, che non solo non crede agli ammiccamenti dell’ex fiscalista, ma lo disprezza profondamente (ricambiato). ProBersani, o comunque contro la deriva casoriana di Repubblica, sta anche un’altra storica firma dell’anti-berlusconismo: quel Curzio Maltese che non a caso trova sempre meno spazio tra le pagine del giornale (da non sottovalutare nemmeno l’influsso della lunare vertenza di fine 2007, che oppose il nostro al collega Alberto Statera per il libro I padroni della città). D’altronde pure l’ex Repubblica Conchita De Gregorio, che da direttrice de l’Unità s’è lasciata andare ad una breve sbandata per Ignazio Marino, non è stata invitata a presentare nemmeno un dibattituccio pomeridiano alla festa nazionale del Pd a Genova.
La domanda che resta inevasa, perché al
presenta, a firma Goffredo De Marchis, è un piccolo capolavoro di cattiveria: «Il segretario, a due mesi dalle primarie del 25 ottobre, è in testa di 10 punti e sfonda nei territori dello sfidante», è il riassunto. I numeri, però, sono anche scomposti su base regionale ed è qui che, citando lo staff del segretario, arrivano le mazzate: Franceschini vince al centro-nord e «persino in Emilia-Romagna», ha «un largo vantaggio nelle grandi città, dove si forma il voto d’opinione», invece al sud «è in difficoltà».Tradotto: «Nelle aree dominate dai signori delle tessere, Bersani corre in discesa». Se non fosse chiaro la Ipsos dice pure che «Franceschini è più forte nell’elettorato di centrosinistra, Pd a parte, mentre Bersani gode di un maggior apprezzamento tra i cittadini del centrodestra».
Non che il giornale sia schierato tutto dietro Franceschini con lo stesso entusiasmo. Se ne sta accortamente defilato - seduto per così dire sulla sponda del fiume il vicedirettore Massimo Giannini, di solide simpatie dalemiane, ma si dice che persino Eugenio Scalfari non gradisca la
Qui, Ezio Mauro insieme a Walter Veltroni e Gad Lerner. Sopra, un comizio di Dario Franceschini. In alto, una storica immagine di Eugenio Scalfari tra Enrico Berlinguer e Ciriaco De Mita: fin dalla sua nascita, nel 1976, «la Repubblica» ha sempre giocato un ruolo attivo e diretto nella formazione degli schiermenti politici italiani
momento non ha risposta, è la seguente: quando l’Ingegnere deciderà di far finire il regno di Ezio Mauro? Non è chiaro, infatti, fino a che punto De Benedetti può reggere una guerra politico-mediatica con l’uomo più potente del Paese. Non che non ci stia pensando: nelle famose riunioncine informali per la stagione estiva trasferite in Sardegna - CdB ha avuto modo di intrattenersi anche con Gad Lerner. Secondo il sito Dagospia, all’Infedele sarebbe stata offerta addirittura la poltrona di Daniela Hamaui all’Espresso, anche se difficilmente ci sarà un cambio alla direzione prima dei necessari – per l’editore – tagli alla redazione dei prossimi mesi. Così si confermerebbe, però, quella tentazione di fare del Pd «un partito di massa in stile azionista», giusta la formula di Michele Salvati ripresa, con varianti, da Veltroni ancora nel marzo di quest’anno. È il core business di Repubblica questo, la polluzione notturna di quella parte di borghesia nazionale a cui il quotidiano di Eugenio Scalfari si incaricò di dare voce quando non ne aveva nessuna. È anche la cosa che più ripugna a quanti vengono dal Pci. Francesco Cundari sul Foglio ha ricordato una fulminante battuta di ambiente dalemiano: «L’azionista si vede, è la massa che mi pare scarseggi».
ROMA. «Le primarie per l’elezione del segretario nazionale richiedono nuove regole ispirate a due criteri: non devono trasformarsi in un plebiscito e non possono essere distorte da altre forze politiche». La mozione con cui Bersani si presenta al Congresso rimane abbastanza sul generico, ma l’idea di fondo è chiara e i suoi sostenitori la spiegano senza farne mistero: «Le primarie vanno bene, noi vorremmo estenderle a tutte le cariche elettive, comprese le candidature alle politiche, ma il segretario è il capo degli iscritti non degli elettori». D’altronde anche negli Stati Uniti, dove le primarie sono oramai istituzionalizzate, non è che il capo del partito – l’uomo che guida la macchina organizzativa – lo scelga il primo che passa per strada. La mozione dell’ex ministro lo dice in maniera un po’ pudica, ma il problema è posto: i più maligni sottolineano in particolare quel «non possono essere distorte da altre forze politiche». Ci si riferisce, certo, alla spiacevole attitudine di alcune personalità del centrodestra di organizzare gruppi di disturbo (l’azzurro Mario Valducci, tanto per dire, s’è vantato su Panorama d’aver portato centinaia di persone a votare per Matteo Renzi a Firenze). «Ma non solo a questo», spiega un sostenitore di Bersani: «Perché il gruppo Espresso non è una forza politica? E loro influenzano le primarie molto di più dei quattro gatti del Pdl che vanno ai gazebo». L’obiettivo è liberale il partito dal condizionamento dei gruppi di pressione e dall’ossessione di quel che fa, o non fa, la cosiddetta società civile. In altre parole arrivare a costruire un partito capace di autonoma elaborazione politico-culturale e, quindi, di imporre temi e soluzioni, non di farseli imporre. La via possibile definire in maniera più sensata la “forma partito”. Lo stesso Bersani era stato capace di dirlo in modo insieme chiaro e sottile presentando la sua candidatura: «Penso sia un errore contrapporre elettori e iscritti, chiamare gli elettori alle primarie e poi abbandonarli dando troppo potere agli iscritti nei processi di scelta».
Con la consultazione aperta a tutti, il peso di un grande quotidiano d’opinione finisce per essere determinante
Così, cioè, non siamo né carne né pesce e, per paradosso, a comandare restano i “cacicchi”, i signori delle tessere e i grandi gruppi di pressione. Le liste elettorali ne sono la plastica rappresentazione: vecchie volpi, candidature spot e onesta manovalanza quanta se ne vuole, classe dirigente poca. Il Pd, si legge nella mozione Bersani, «è un partito di iscritti e di elettori. La sovranità appartiene agli iscritti, che la condividono con gli elettori nelle occasioni regolate dallo Statuto. Agli iscritti sono riconosciuti diritti fondamentali come la partecipazione alle decisioni ai vari livelli (anche attraverso referendum) e l’elezione degli organismi dirigenti». Quanto a quest’ultima parte, è una petizione di principio: con le regole attuali, tanto per dire, segretari regionali e Assemblea nazionale li eleggono le primarie. «Così Profumo e Bazoli, per dire due che hanno votato nel 2007, contano come quelli che si fanno il mazzo nei circoli».
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Energia. L’obiettivo che si è dato il governo è raggiungere il 25% del fabbisogno elettrico italiano da fonte atomica entro il 2030
Nucleare: più regole, più mercato Un protocollo d’intesa con gli Usa per ridurre la dipendenza dalla Francia di Strategicus l ministro Scajola ha annunciato che volerà a Washington per siglare con il Dipartimento dell’energia americano un protocollo d’intesa sul nucleare. Sarà un modello per porre le basi di un dualismo industriale fra i due Paesi. È anche un’azione propedeutica all’inizio dell’esecuzione del programma nucleare italiano.Verosimilmente, tale protocollo intergovernativo sarà sul modello di quello firmato il 24 febbraio scorso con il Governo francese. Esso prevedeva – vista la comune dipendenza dall’importazione di combustibili fossili, l’obiettivo di riduzione delle emissioni climalteranti, la necessità di garantire la sicurezza degli approvvigionamenti energetici nazionali - la possibilità di collaborazioni strategiche nei programmi di ricerca e sviluppo nel settore nucleare (in particolare tra il Cea francese e l’Enea, uno scambio fattivo di conoscenze e professionalità tra i Paesi e una stretta cooperazione per migliorare la sicurezza nucleare e rafforzare la lotta alla non-proliferazione nucleare, rafforzando l’interrelazione tra le Autorità di sicurezza nazionali.
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per gettare le basi di una cooperazione industriale seria e lungimirante, che parta dalla realizzazione in Italia di almeno 4 Epr a tecnologia francese da 1.600 MWe, che dovrebbero soddisfare, entro il 20202025, il 12,5% del fabbisogno elettrico italiano. L’obiettivo che si è dato il governo è raggiungere il 25% del fabbisogno elettrico italiano da fonte nucleare entro il 2030. Pertanto, serve costruire più capacità
ficherebbe mettersi troppo nelle mani di un unico paese ed essere pertanto soggetti a dinamiche politiche, economiche e finanziarie esterne. Diversificare le tecnologie ridurrebbe tale rischio.
Secondo, per la tecnologia del nucleare. L’Epr di Areva e l’Ap-1000 della Toshiba-Westinghouse hanno superato tutti i più severi test di sicurezza, competitività economica ed efficienza dello sfruttamento del combustibile. Pertanto, sono tecnologie che rendono infinitesimali i rischi di incidenti e la possibilità di essere utilizzati come strumenti di proliferazione. Inoltre, avendo tempi di costruzione più limitati e un “fattore di carico” di oltre il 90% (tempo di operatività di una centrale senza sosta; pensiamo che le rinnovabili non superano il 50%) il costo del kWh si ridurrà, con evidenti vantaggi per le famiglie e le imprese. Terzo, per l’evoluzione del sistema-industriale nazionale. L’uscita dal nucleare nel 1987 ha generato un depauperamento delle capacità industriali nucleari. Ora, grazie a questi accordi intergovernativi, l’Italia riuscirà a creare partnership strategiche con le industrie dei principali Stati nuclearizzati del mondo. Ciò non potrà che giovare alla sviluppo delle competenze nazionali e ad una crescita della professionalità. Quarto, si sfrutterà sia l’effetto dell’economia di scala, sia la competizione tra attori competitivi in un sistema liberaliz-
Il referendum del 1987 ha depauperato le nostre capacità industriali. L’Italia deve creare partnership strategiche con i principali Stati mondiali
Inoltre, il protocollo auspicava la nascita sia di partnership strategiche tra le imprese francesi e italiane nell’intera filiera del settore nucleare, sia di una collaborazione tra i due principali player industriali elettrici: Enel e Edf. Questi, a margine della firma del protocollo, hanno siglato due Memorandum of Understanding
di generazione da fonte nucleare e, possibilmente, in modo competitivo per le imprese, sostenibile per l’ambiente, sicuro per i lavoratori e le popolazioni e meno costoso per i consumatori in termini di costo della bolletta elettrica.
Va sottolineato che la bolletta elettrica italiana è la più cara d’Europa e che il kWh italiano è il più costoso al mondo. Scegliere di non dipendere da un’unica tecnologia è la soluzione migliore. Ciò per diverse ragioni. Primo, per la geografia del nucleare. L’Italia già importa il 15% del proprio fabbisogno elettrico acquistando elettronucleare dall’estero, principalmente dalla Francia. Scegliere di generare il 25% della propria elettricità nazionale con tecnologia Epr francese signi-
zato. Avere più di una unità della stessa tecnologia permette di ridurre i costi dell’installazione delle centrali successive alla prima. Inoltre, avere più di una tecnologia permetterà di sfruttare non solo l’esperienza internazionale già accumulata, quindi riducendo gli errori che l’esperienza insegna e il numero di personale da coinvolgere, ma di avere una competizione industriale all’interno del nostro Paese sulla localizzazione degli impianti.
L’individuazione dei siti su cui ubicare le centrali è uno dei principali problemi connessi al nucleare. Ad oggi, il programma del governo prevede di indicare i siti entro la prossima primavera. Infatti, bisogna attendere l’istituzione dell’Agenzia per la sicurezza nucleare (Asn), che - secondo
lità di presentare le proprie candidature. Il mercato affiancherà la politica nell’individuazione dei siti, che saranno quindi scelti senza imposizioni dall’alto. Il governo detterà solamente i criteri che un sito deve avere per essere nuclearizzabile (quindi, elaborerà una“mappa di esclusione”) e deciderà le modalità con cui compensare i territori su cui saranno costruite le nuove centrali, anche per ridurre le ostilità locali.
Regole più certe e tempistiche più brevi per il rilascio delle autorizzazioni sono i punti salienti per attrarre investitori e per far attivare gli operatori. Non è un caso che subito dopo l’entrata in vigore della Legge 99 alcune Regioni e Comuni abbiano espresso interesse ad ospitare centrali nucleari. L’ideale, anche per ridurre i costi della procedura di individuazione dei siti, sarebbe avere aste fra i Comuni interessati, come avviene in Francia. Ciò però appare di difficile realizzazione in Italia, in cui prevale la sindrome Nimby (“non nel mio giardino”). Poco importa. Avere una “mappa di esclusione” dei siti su cui non sarà possibile costruire una centrale è una novità importante. Ciò responsabilizzerà maggiormente l’esercente e l’investitore, oltre che le comunità locali, e rendere il sistema-nucleare italiano certamente in linea con le migliori esperienze internazionali.
L’individuazione dei siti su cui ubicare le centrali è uno dei problemi principali. E la scelta deve avvenire senza imposizioni dall’alto la Legge 99/2009, entrata in vigore il 15 agosto scorso - dovrebbe avvenire entro la fine dell’anno. Inoltre, il governo non imporrà una mappa dei siti, ma lascerà alle Regioni, Province, Comuni, agli operatori e agli investitori la possibi-
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otto pagine per cambiare il tempo d’agosto
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27 agosto(1890)
Man Ray
Fotografo e pittore contradditorio e fecondo. Né enigmatico, né snob, voleva restare incompreso
L’uomo che fissò l’invisibile di Marco Vallora otremmo anche cominciare, per raccontarlo, da una delle affermazioni più celebri e sfruttate di Man Ray, quel quasi- slogan o serissima boutade-aforisma, che afferma: «Dipingo quello che non può essere fotografato. Fotografo quello che non voglio dipingere». Qualcuno traduce: «che non desidero», altri: «quello che non posso». Come se fosse un vero impedimento, un tabù: una porta chiusa (le porte, in Man Ray, sono sempre aperte, sfondate, ”girevoli”). No, ne scegliamo un’altra, d’affermazione, un po’ più criptica e immaginosa, ma forse più illuminante: «Se dipingo dipingo la realtà, se fotografo fotografo l’invisibile». Campi ben distinti, ed un’apparente foto-predilezione. Ma ce n’è un altra ancora, trovata tra le pagine postume d’un quaderno di pensieri, che aveva intitolato Pepys Diary, che ci pare riassuntiva: «Vi sono due ragioni per cui un’opera non piace. Primo perché non è capita, secondo, perché è capita». Un po’ enigmistico? Troppo snob? No, tutt’altro: lì anzi trovi tutto Man Ray, il Ray contradditorio e fecondo. Esser capiti, per un artista, è il modo peggiore d’esser accostati: nullificati. Morte cerebrale. Mentre necessita sempre che l’arte abbia un suo margine-cuscinetto di mistero, qualche cosa d’incompreso, se no che arte sarà mai? Ma non è facile nemmeno non-esser capiti, mai: quasi un mestiere, faticoso. Quando, bambino, dipinge in modo sorprendente, e tutti vengono a visitare ammirati il piccolo prodigio d’emigrato, lui può disegnare di tutto, prelevare da cartoline, enciclopedie, giornali: volti, armi. Banane come nuvole, e nuvole come banane. Però sconcerta tutti, da subito. Per esempio: c’è un evento militare a Cuba, ruba un giornale (i suoi non amano troppo questa dedizione assoluta, ossessiva quasi, imperialista, del disegno, e lui deve nuotare di nascosto) disegna alla meraviglia tutti i dettagli, cannoni, boccaporti, scialuppe, una capacità mimetica che sorprende tutti, continua a pag. II
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SCRITTORI E CIBI
LE GRANDI BATTAGLIE DELLA STORIA
CAPOLAVORI DI PIETRA
Il cinghiale di Petronio
Il giardino dei tarocchi
di Filippo Maria Battaglia
di Giuseppe Bonaccorso
Stalingrado 1941 di Massimo Tosti
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pagina I - liberal estate - 27 agosto 2009
però quando arriva il momento di prendere le matite colorate e passare alla pittura, la sua fantasia si scatena e i suoi colori accesi, stravaganti, sgargianti, ma soprattutto sganciati dal reale, sconvolgono i presenti: ma perché rovinare tutto così? Perché vivere non è copiare, signori, dipingere è solo immaginare: beninteso, lui non è un piccolo espressionista precoce, che voglia esprimere la sua violenta, oppressa interiorità, no, non crede proprio che ci sia interiorità alcuna, è un bambino concreto e pragmatico, ma già convinto, sin d’allora, che si debbano dipingere liberamente non le mele o i volti ma le proprie idee, «le opinioni». Comunicare suggestioni più che non emozioni (libertà è per lui una vera parola-guida). Conclusioni? Niente, lasciatemi in pace.
Così pure non seguirà mai alcuna scuola accademica di pittura, gli ributtava proprio quell’ubbidire diligente, quel copiare tutto quanto un mondo aveva già copiato, meglio allo-
ra iscriversi ad una scuola di nudo, almeno lì c’è vita e carne di vita, e almeno c’è tanto da guardare sin da poter cadere in estasi, distraendosi dalla missione (lattea) della pittura. E poi quella scuola non è un’Accademia, ma un vero co-
se, la celebre modella, un precetto, una medaglietta mentale, quasi sacra, lui che non risparmiava nulla, col suo scetticismo quieto e divertito, lui che non omaggiava nessuna Chiesa, nemmeno quella, fastidiosa, delle Avanguardie, troppo convinte di loro: «L’arte non è scienza. E non è nemmeno esperimento» (con cui puoi raggiungere la verità. La vera verità è giusto quel bordino mobile d’incognita, che può essere la casualità perpetua, se così vogliamo). L’arte è qualcosa di meno accertativo ed assicurato, della scienza: ma paradossalmente anche di più «permanente» (una parola che gli piace molto. Anche se forse è contradditoria, rispetto al suo carattere nomade ed instabile. Di acrobata seduto). Ed è forse
Si considerava un pensiero viaggiante (seppure stanziale) piuttosto che non un ominide, nonostante quei suoi cappellini da pensionato californiano e gli occhi vispi e trepidi da topino vo di ribelli e di anarchici (non a caso è intitolata a Francisco Ferrer, rivoluzionario spagnolo, ch’è stato fucilato nel 1909, e questa «decorazione» torna proprio bene). Dipingere è solo «imparare» la vita. Aveva, per vivere, oltre che molte mogli, e poi Kiki di Montparnas-
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proprio questo senso del «permanente» («io non ho mai dipinto un quadro recente!») a renderlo così lontano e sospetto, ai professionisti dell’avanguardismo novitas obblige (vedi soprattutto Breton, che cerca d’acciuffarlo, nei suoi salti ben più spericolati, e scrive chiose sostanzialmente corrive e scolastiche, se pure sempre elogiative, quasi prone. Ma molto meno sottili, per esempio, di quelle di Aragon o di Eluard, che diventa una sorta di «socio in libri», con Man Ray, condividendo la nudità un po’ cerbiatta ed esotica di Nusch. Eluard amava condividere: lo fece pure con Dalì e con Max Ernst). Arte, dunque, non scienza (ancor prima che non-arte). Con sempre quel margine di razionalmente ambiguo, d’inevaso, di inesplicabile, che è prerogativa dell’azzardo pittorico. Attraverso una simpatica metafora: «In arte non c’è progresso, non più di quanto ve ne sia nel fare l’amore». Era anche un modo sarcastico e divertito di sput-
tanare il Dio trionfante delle avanguardie, il Nuovo Avanzante, e tutte le suffraggette del Moderno, che credevano, ciecamente, positivisticamente, nel Demone della Novità A Tutti I Costi. Dell’Originalità come uniko diktat, in quel rinnovarsi, che è cancellazione-cecità progressista.
Che novità ci sarà mai, nel «fare» all’amore? L’eros non si ripete meccanicamente, è vero, ma è tecnicamente sempre eguale e nuovo a se stesso. Avrete notato che abbiamo atteso (forse un po’ troppo, direte voi) a raccontare la storia biografica di quest’omino folgorante, che in realtà si chiamava, con un nome crepitante di Mittelleuropa mal masticata: Emmanuel Radnitzschy. Impronunciabile. Ma anche perché davvero lui si considerava un pensiero viaggiante (se pure stanziale) piuttosto che non un ominide, nonostante quei suoi cappellini da pensionato californiano, gli occhi vispi e trepidi da topino, e i suoi occhiali spessi e
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o stesso giorno... nacque
Hegel il filosofo della Fenomenologia dello spirito di Francesco Lo Dico
Sopra una fotografia di Man Ray. Nella pagina accanto l’artista con Salvador Dalì e alcune opere di Ray: il “Cadeau”, “Le violon d’Ingres”, “Solarization” e “Magnet-Compass”
miopi, da Ariele impantanato: intorpidito. E ben lo sapeva: avrebbe proprio potuto non nascere mai. Dunque di qui, forse, quella poetica contradditoria, doppia, dell’eterno fluttuare e però del permanere (meglio abbarbicarsi come una tellina, quando il prodigio del nascere s’è prodotto). Dunque, e guarda caso: nel lontano oriente russo, i futuri genitori si conoscono e sposano, attaverso una fotografia. Quando lei lo incontra e lui si dimostra focoso ed incontenibile, lei fugge orripilata, dicendo: «questo uomo? mai». Ecco, se non avesse poi messo la testa a partito, e non lo avesse riicontrato su un ponte, per caso: Man Ray? Nulla. Come non ricordarlo? un parto per via fotografica. Così decide di snellire il proprio nome: Man sta per Emmanuel, ma anche uomo, il primo uomo. Ray per raggio, qualcosa d’elettrico, che illumina e soprattutto abbaglia. Uomo-raggio: abbastanza simbolico (anche il regista Calmette si cambia nome e diventa René Clair). Dunque un Adamo elettrico, avventuriero e pioniere nel deserto presuntuoso della non-arte novecentesca, e lui i Musei, invece di offenderli o deriderli, come sta facendo fratel-Duchamp, prova a sciabolarli, con raggi di luce inattesa e provocatoria. Ma in realtà nei Musei lui entrerà molto tardi, considerato anche con un po’ di sufficienza dagli addetti, quale fotografo di moda, e compromesso col lusso (uno dei primi suoi veri clienti chic, sarà il parigino Poiret: ma Ray è davvero un pioniere anche nel portare la moda in strada, negli angiporti, nell’imprevedibile). Ma intendiamoci: fotografa perché è interessato alla vita, ai misteri della vita, e perché nessun pro-
rimogenito di Georg Ludwig, padre dell’idealismo, goffo nel parlare e sublime nello scrivere. Georg Wilhelm Friedrich Hegel nasce a Berlino nel 1770. Innamorato del mondo classico sin da piccolo, si appassiona anche alla Bibbia, a Goethe, Schiller e Lessing. Universitario a Tubinga, non soffre la disciplina, i metodi e gli insegnanti del posto, ma trova due amici in Hölderlin e Schelling. A ventitré anni conclude gli studi, ottenendo una valutazione non proprio lusinghiera in filosofia. Precettore a Berna, in casa del nobile von Steiger, trova il tempo di scrivere la Vita di Gesù, una parte dei Frammenti su religione popolare e Cristianesimo e La positività della Religione Cristiana. Meno entusiasta dell’ambiente clericale in se e per se, nel gennaio 1797 si trasferisce a Francoforte, e su imbeccata di Hölderlin prosegue l’attività di maestro privato.
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fessionista lo accontentava, quando riproduceva le sue opere (lui continua a considerarsi un pittore, come sarà per tutta la sua esistenza. E lo fu, inafferrabile ed imprendibile, davvero. Ogni volta inventandosi delle tecniche e degli stili adatti, dei-non stili, meglio, per estrarre alla luce i suoi enigmi). Non necessariamente onirici, legati al sogno: anzi, per lui c’è già sufficiente immaginario ed inconscio nello sguardo diurno (non a caso non fraternizzò troppo coi surrealisti, per lui troppo irrigimentati nell’ideologia: Marx e Freud? pfff...).
Rimane un dadaista, anche se era già dadaista in America, prim’ancora che la parola prendesse forma. Ebreo errante, nato come per caso a Philadelphia (1890), per via della fame d’emigrazione, in un’America che lui non seppe mai perdonare d’averlo accolto, proveniendo da molteplici spermi oriental-bielorussi (e forse un po’ di iconoclasia c’è, in questa sua pervicace convinzione di non dover copiare mai: «copiano già tutti, ecco perché non saranno mai Dei») ebreo che non parla mai delle sue radici ebraiche, non perché se ne vergognasse, o fosse trepido (conobbe tutte le forme di persecuzione: fuggendo, sempre) ma forse gli bastava appunto l’etichetta di «errante», anche se sempre dentro una stanza e dentro il proprio cervello. Però di ebraico gli rimase impressa la stigmate dello humour yiddish, e di quel witz sinistro,
Innamorato del mondo classico sin da piccolo, si appassiona anche alla Bibbia, a Goethe, Schiller e Lessing. Sostenitore prussiano, presto pentito, condannerà le rivoluzioni liberali in Belgio e Francia e l’estensione del voto in Inghilterra
Scrive il saggio Sulle più recenti vicende interne del Württemberg contro la fragilità della sua nazione e invoca l’elezione diretta dei magistrati su base popolare. Insieme a Hölderlin e Schelling redige il Programma di sistema, manifesto dell’Idealismo tedesco. Nel 1799 perde il padre vero, e abbandona quello putativo con Lo spirito del Cristianesimo e il suo destino, in cui prende le distanze dalla religione ragionata di Kant. Nel gennaio 1801 è a Jena, dove prende a insegnare. Ha un flirt con Christiane Charlotte Fischer Burckhardt, un figlio dalla stessa, e una folgorazione per Napoleone alla guida dell’esercito francese. Nel marzo 1807 pubblica la Fenomenologia dello spirito e rompe con Schelling. Lettore e professore di filosofia del Ginnasio di Norimberga, sposa nel settembre 1811 l’aristocratica Marie von
che connota tutte le sue opere, non a caso basate su giochi di parole e contro-sensi. L’unico vero amico in fondo fu Duchamp, si scoprono molte affinità. Anche se agli esordi non si capivano, per via della lingua, ma comunicavano col tennis o cogli scacchi. Ray «un carrettiere». Duchamp un sottile teorico, che smette di far arte per diventare scacchistavivente (insieme giocano persino, in equilibrio, su un tetto di Entr’Act, di René Clair, per
metronomo, che ti segue con l’occhio, la mela sotto vetro con una vite per picciolo, il ferro da stiro irritato di chiodi, come un istrice (Cadeau, regalo. Dedicato a Satie, che lo vede crearsi in un istante, in un mercato delle pulci. Ma vien subito rubato, alla prima mostra). Man Ray non se ne preoccupa, non gli importa l’opera, basta l’idea: se i galleristi avidi vogliono «ristamparla», ma che facciano. A lui basta lasciar tracce, bave, opinioni visive, quasi orme d’escrementi d’oro: alchimista dell’impossibile, egli «dipinge» solo entrando ogni volta nella notte della camera oscura. E stando ad attendere, nemmeno mammano, a quel che ne vien fuori. È la scoperta della solarizzazione, ma soprattutto dei Rayograph: scritte di luce direttamente sulla carta fotografica, senza più bisogno dell’ausilio della macchina. Il massimo, per lui. Scoperte per caso: lasciando, all’intrufolarsi del sole, puntine da disegno e nastri, su di una carta impressa, ecco, ne nasce un mondo fantastico. C’è un testo bellissimo e sconosciuto
Avventuriero e pioniere nel deserto presuntuoso della non-arte novecentesca, lui i musei, invece di offenderli o deriderli, come sta facendo fratel-Duchamp, prova a sciabolarli, con raggi di luce inattesa e provocatoria. Ma in realtà nei musei entrerà molto tardi, considerato anche con un po’ di sufficienza dagli addetti Parade. Però Ray si diverte molto di più ad inventare forme inusitate agli scacchi, alieni atterrati). Anche i suoi sono ready made, oggetti già prefabbricati, trovati per la strada, ma sono truccati da rebus, ludici ed interroganti, oggetti mascherati da battuta: il suo
Tucher, da cui ha due figli, Karl e Immanuel. Nel1816 insegna filosofia all’università di Heidelberg e due anni dopo a Berlino. Sostenitore prussiano, presto pentito, Hegel condanna le rivoluzioni liberali in Belgio e Francia e l’estensione del voto in Inghilterra. Il 14 novembre 1831, forse di colera o di un tumore allo stomaco, muore. Amato da pochi, criticato da molti, studiato da tutti. Coscienza infelice.
di Argan (ritenuto ostile dai dadaisti e surrealisti) per le edizioni Martano, in cui spiega la magia di queste trasparenze d’immagini. Che sono appunto la pelle immaginaria e fluida, fuggitiva, delle cose. Spesso si tratta di frullini, scolapasta, cose prosaiche, ma quali proiezioni ne spuntano! E Ray si diverte ad enfatizzare, nel suo Autoritratto (uscito da Mazzotta nel 1975) questo suo aspetto casalingo, di cuoco.
Quand’osa il suo primo film (provocatoriamente titolato Ritorno alla ragione) - niente cinepresa, operato direttamente sulla pellicola - si diverte a mostrarsi - descriversi mentre sala il tutto, di polveri e minuzie, mettendoci molto pepe e aleatorietà ad libitum, quasi fosse un arrosto: il fumo si vedrà alla sera, in sala. Un cataclisma. Ma è così anche con gli «oggetti d’affezione»: giocare provocando, serissimamente. Basta un’asse da water, ma con dentro l’uovo della perfezione! (che differenza però con l’orinatoio di Duchamp). Eppure, continuano a produrre opere insieme, Duchamp lascia addormentato per qualche giorno il suo Grande Vetro e il fotografo-cacciatore ne approfitta: fotografa con microscopica minuzia i precipitati di polvere e di caso, allevamento di polveri. Pare una fotografia lunare, cosmica: lui fa credere sia una fotografia presa dal cielo, ma non è mai salito su un aereo. «Io non ho problemi, solo soluzioni».
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SCRITTORI E CIBI
A tavola con i parvenu della Roma
DI PETRONIO
L’autore nel suo Satyricon affida a piatti costosissimi e prelibati la descrizione del cattivo gusto dell’epoca di Filippo Maria Battaglia
U
n parametro utile a giudicare la società e a rappresentarne le dinamiche. Nel Satyricon di Petronio, solo il denaro può contendere al cibo la funzione di elemento chiave della narrazione. Alimenti, vivande, piatti costosissimi e prelibati diventano d’un colpo i prim’attori del romanzo satirico, gli unici in grado di testimoniare le (poche) virtù e gli infiniti vizi della Roma imperiale. E la Cena Trimalchionis, snodo focale dell’opera latina, calamita attorno a sé gran parte dei temi letterari affrontati con maestria dall’Arbiter elegantiae. La centralità del cibo non deriva tanto dal desidero di Trimalchione di ostentare la propria ricchezza. È piuttosto l’unica soluzione che si presenta agli occhi dell’anfitrione per poter esprimere la propria egemonia. A tal proposito, basta seguire la narrazione di Petronio già prima dell’arrivo delle portate. «Finalmente ci sediamo a tavola – racconta uno dei protagonisti, Encolpio - mentre gli schiavi alessandrini ci versano sulle mani del-
l’acqua ghiacciata, subito rimpiazzati da altri che, inginocchiati ai nostri piedi, cominciano a tagliarci le pellicine delle unghie con una precisione incredibile».
È l ’ i n i z i o di un rito che entra nel vivo con le prime portate: «Nel frattempo ci viene servito un antipasto mica male: tutti avevano infatti già preso posto, salvo il solo Trimalchione cui, in virtù di un’usanza del tutto nuova, era stato riservato quello d’onore. Al centro del piatto troneggiava un asinello in bronzo di Corinto, con sopra un basto che da una parte era pieno di olive nere e dall’altra di chiare. Sulla groppa dell’animale c’erano due piatti sui cui orli era stato inciso il nome di Trimalchione e il peso dell’argento. In aggiunta c’erano poi dei ponticelli saldati insieme che sorreggevano dei ghiri conditi con miele e salsa di papavero. E ancora c’erano delle salsicce che friggevano sopra una graticola d’argento e, sotto la graticola, prugne di Siria con chicchi di melagrana». In questo mo-
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Tacito lo descrive come uomo colto e raffinato, maestro di eleganza (”arbiter elegantiarum”) nella depravata corte di Nerone. Caduto in disgrazia presso l’imperatore, l’uomo di lettere si suicidò mento, fa il suo ingresso Trimalchione. Non cammina: «è trasportato, a suon di musica, sdraiato su soffici cuscini». Indossa anelli e bracciali d’oro di varie dimensioni; al seguito, ha un codazzo di servi, che sono una rappresentanza assai sparuta delle migliaia al suo servizio. Inevitabile che con l’arrivo del dominus il banchetto faccia un ulteriore salto di qualità, nella direzione dell’abbondanza e dell’eccentricità. La portata che segue – racconta sempre Encolpio - è inferiore all’attesa, ma è comunque in grado di stupire per la propria originalità: «Era infatti un grosso piatto rotondo che aveva tutto intorno i segni dello zodiaco, sopra ciascuno dei quali il cuoco
aveva piazzato una specialità appropriata al simbolo: sull’Ariete dei ceci di Arezzo; sul Toro un quarto di bue; sui Gemelli testicoli e rognoni; sul Cancro una corona; sul Leone fichi africani; sulla Vergine una vagina di scrofa; sulla Libra una bilancia con una focaccia in un piatto e un polpettone nell’altro; sullo Scorpione un pesciolino di mare; sul Sagittario un gufo; sul Capricorno un’aragosta; sull’Acquario un’oca; sui Pesci due triglie. Al centro, poi, una zolla di terra strappata con tutta l’erba attaccata sosteneva una favo di mele. Uno schiavetto egiziano distribuiva pane caldo in giro prendendolo da un forno portatile d’argento». Come ha notato Gian Biagio
Conte, la Cena diventa così la mappa esauriente del mondo: il banchetto restituisce la leadership del suo padrone in tutta la sua opulenza.
O g n i p i a tt o indica un luogo, che spesso coincide con un possedimento di Trimalchione stesso. E la sua egemonia finisce con l’inverarsi nel cibo, non trovando alcuna possibilità di riverberarsi sul resto. La cena propone infatti un paradosso: «nelle intenzioni degli scolastici – scrive Conte – quella è soltanto un’occasione per soddisfare grazie al loro prestigio esigenze alimentari; per il padrone di casa è invece l’occasione buona per esibire le spiritose e sorprendenti trovate del suo ingegno. Per Trimalchione infatti si tratta di allestire – come tirannico regista – uno spettacolo finalmente degno di lui. Invece di trovare soddisfazione in cibi abbondanti e prelibati gli scolastici si trovano a partecipare a un simposio con ambizioni intellettuali. Il disgusto di fronte al cibo che progressivamente si fa strada in Encolpio
Consacrava il giorno al sonno e la notte ai doveri e ai piaceri. Inimitabile era quell’abbandono, quella particolare noncuranza di quel che diceva e faceva che costituivano in lui una forma di semplicità singolarmente gradevole
LA RICETTA = CINGHIALE ARROSTO AL VINO ROSSO
(PER 5 PERSONE) Carne al cinghiale 1,5 Sale q.b. Per la ma rin ata : sedano, mezzo cuore, carote 2, prezzemolo q.b., cipolle 2, una foglia d’alloro, bacche di ginepro schiacciate q.b., aceto 1/2 bicchiere, vino rosso robusto 1/2 l, zucchero q.b., sale q.b. Per la salsa e arrosto Pancetta affumicata 100 g Burro 30 g Farina 30 g Panna acida 1/2 tazza
e nella narrazione è il disgusto provato da chi non riesce a dominare il meccanismo che governa la cena». Cibo e ricchezza, nel Satyricon di Petronio, sono destinati a formare un’endiadi: legati in modo indissolubile, il primo è spesso utilizzato quale sineddoche dell’altro. La conferma implicita arriva qualche paragrafo più avanti, quando la conversazione si sposta su un commensale, Giulio Proculo, già impresario di pompe funebri, la cui prosperità è non a caso commisurata all’abbondanza ed al fasto dei suoi banchetti: «A tavola era roba da re: cinghiali impanati, timballi al forno, uccelli, cuochi, fornai. A tavola scorreva più vino di quanto se ne può avere in cantina». Ma il trionfo del cibo, con la sua inevitabile concretazione nella ricchezza, è destinato a inverarsi non tanto nelle rievocazione quanto nelle portate. Ecco quindi (siamo al paragrafo 40) che «arriva una grossa teglia sulla quale giganteggia un enorme cinghiale con in testa un berretto da liberto:
alle sue zanne sono appese due piccoli cestini di palma intrecciata, pieni uno di datteri freschi e l’altro di secchi. Tutto intorno c’erano dei maialini di pasta di mandorle che, essendo attaccati più o meno alle mammelle, facevano capire che si trattava di una femmina. Ce li regalano, da portarli poi via a fine cena».
I n c o r a g g i a t o dalla scenografia, Trimalchione parla ininterrottamente, discetta su tutto, non si perita di esprimere opinioni su ciò che gli viene in mente, con la falsa sicumera di chi non domina gli argomenti di cui tratta. La sua coreografia abbonda di divertimenti, mottetti, mimi, brevi spettacoli, alternandosi a trionfi sempre più ricercati: «al centro, imponente, un Priapo fatto in pasticceria, reggeva in grembo, secondo l’uso comune, frutti di ogni genere e uva. Al colmo della gola allunghiamo le mani su tutto quel ben di dio, e all’improvviso una nuova invenzione ci riporta il sorriso sulle lebbra. Infatti, non appena le tocchiamo,
Preparate la carne e salatela. Con gli ingredienti indicati preparate una marinata che porterete ad ebollizione e poi lasciatela raffreddare. Immergete poi la carne e lasciatela marinare per 2 giorni. Dopo di che scolate la carne e asciugatela con carta da cucina. Tagliate la pancetta a piccoli dadi e rosolatela in un tegame; aggiungete la carne e fatela rosolare a calore vivace. Unite la marinata passata al setaccio e lasciate cuocere bagnando di quando in quando la carne con il sugo. Per la salsa, scaldate in un tegame il burro e rosolate la farina a color nocciola, bagnatela con il fondo di cottura dell'arrosto e con marinata, portate ad ebollizione e fate consumare a fuoco vivace per 8 minuti. Passate la salsa al setaccio, fate nuovamente prendere il bollore, condite con sale e pepe, togliete dal fuoco aggiungendo la panna. Servite con la salsa a parte e con un contorno di lenticchie, oppure con funghi e patate bollite.
da tutte quelle focaccine e da tutta quella frutta schizza fuori dello zafferano che con un getto sgradevole ci arriva fino alla faccia. Pensando che una portata servita con tutta quella parata di simboli avesse qualcosa di sacro, ci alziamo impettiti ed esclamiamo: “Lunga vita ad Augusto, padre della patria!”. Ma quando ci rendiamo conto che qualcuno, appena finito il brindisi, aveva già arraffato dei frutti, ci riempiamo anche noi i tovaglioli, e soprattutto il sottoscritto». Il desiderio di stupire porta però Trimalchione a divergere dal banchetto: i commensali sono ormai sazi. Più efficace, dunque, ritornare a parlare dell’opulenza culinaria. Stavolta tocca ad Abinna, lo scultore del suo monumento funebre, che rievoca un pranzo sontuoso offerto in occasione della liberazione di uno schia-
vo: «Di primo ci hanno portato del maiale incoronato di salsicce e di ventrigli di pollo cucinati meravigliosamente, bietole e pane integrale autentico, che io preferisco a quello bianco perché ti rimette in forze e quando faccio i miei bisogni non mi vengono le lacrime agli occhi. Di secondo, ci hanno portato una focaccia fredda con sopra del miele caldo, di quello spagnolo che è la fine del mondo. La focaccia l’ho assaggiata appena, il miele invece me lo sono fatto uscire dagli occhi. Di contorno, ceci e lupini, noci a piacere e una mela a testa. Io comunque me ne sono prese due, e la seconda ce l’ho qua nel tovagliolo, perché se al mio schiavetto non gli porto qualcosa, finisce che mi fa una scenata». Abinna non ha però buona memoria. Sollecitato dalla moglie, riesce comunque a ricor-
dare le altre portate: «Ah, si fa bene a suggerirmi la mia signora. Avevamo davanti agli occhi anche un bel pezzo di cane di orso e di Scintilla, dopo averne assaggiato un po’ senza starci a pensare, a momenti si vomita anche le budella. Io invece me ne sono fatta più di una libra perché sapeva di carne di cinghiale. E poi, dico io, se l’orso pappa gli ometti, perché gli ometti non dovrebbero pappare l’orso? Per dessert ci hanno portato formaggio fresco, sapa, lumache, una a testa, trippa, fegatini al tegamino, uova alla coque, rape, senape e un piatto con dentro della roba che sembrava merda. Ma basta! Niente da fare: hanno fatto girare anche un vaso di olive in salamoia, e dei burrini se ne sono prese fino a tre manciate a testa. Il prosciutto, invece, lo abbiamo rimandato al mittente».
T r a u n a r i e v o c a z i o n e e un divertissement di dubbio gusto, il banchetto ci conclude nuovamente con il cibo: alla fine, sarà la volta dei post-pasti, quasi tutti preparati con carni di maiale. Da par suo, Petronio prosegue nella narrazione e, proprio grazie ai piatti, aggredisce l’ostentazione del decoro e dell’onorabilità dei personaggi fino a scardinare la realtà. Alto e basso, infimo e supremo si confondono fino livellarsi: «in questa prospettiva – scrive Conte - il racconto satirico riduce lo spirituale e l’astratto allo stesso livello del fisico e del materiale, e per farlo si concentra sulle funzioni naturali del corpo. In questa prospettiva il racconto satirico riduce tutto quello che può essere eroico e nobile ad un comune livello di esperienza fisica». Nella sua Cena, Petronio non solo inchioda i vizi e la mancanza di buon gusto dei parvenu della Roma imperiale. Fa di più: restituisce con straordinaria verosimiglianza un affresco nel quale nessuno tra i suoi contemporanei può ergersi a giudice, perché tutti sembrano avere una qualche forma di responsabilità. L’ironia e il realismo fanno tabula rasa e le pretese intellettuali sono le prime a capitolare. Per non restare muti, Trimlachione e la sua compagnia sono così costretti a parlare solo grazie al cibo.
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LE GRANDI BATTAGLIE Durante la Seconda Guerra Mondiale l’invasione dell’Unione Sovietica da parte della Germania si rivelò un massacro per i soldati tedeschi. Dei 285mila che avevano combattuto se ne salvarono appena 5mila opo il tentativo fallito di invadere l’Inghilterra, Hitler lanciò l’Operazione Barbarossa, l’invasione dell’Unione Sovietica. All’alba del 22 giugno 1941 le truppe tedesche avviarono l’attacco: le previsioni dello Stato Maggiore indicavano in quattro-sei settimane il tempo necessario per piegare i russi. Invece, nonostante la caduta di Kiev, l’occupazione dell’Ucraina, l’accerchiamento di Leningrado, le strepitose avanzate delle Panzerdivisionen, la cattura di milioni di prigionieri e la requisizione di un’enorme quantità di materiale bellico, Mosca non fu conquistata entro l’autunno, e il terribile inverno russo congelò nella sua morsa le operazioni militari.
DELLA
STALINGRADO 1941
Hitler vuole l’Urss
D
Ciò fu il risultato, in primo luogo, del ritardo con il quale fu sferrata l’offensiva e poi delle incertezze del Comando supremo: il fronte orientale era suddiviso fra tre grandi Gruppi che non operarono con la necessaria sintonia, soprattutto a causa degli ordini contraddittori che giungevano da Berlino, dove il Fuhrer, barricato nel suo Quartier Generale, non aveva chiara la reale situazione al fronte e si rifiutava di ascoltare i generali che vi erano impegnati. Il Gruppo Armate Nord accerchiò Leningrado, ma non ebbe la forza sufficiente per conquistarla, e si impegnò per molti mesi in un inconcludente assedio; il Gruppo Armate di Centro aveva come obiettivo Mosca e gli Urali, ma poi fu spostato verso il Mar Nero, per essere quindi nuovamente indirizzato su Mosca, con il risultato che la capitale
Con l’Operazione Barbarossa, il Führer invade la grande Russia di Massimo Tosti
non era stata presa all’inizio dell’inverno, e non lo sarebbe stata mai più; il Gruppo Armate Sud occupò l’Ucraina, la Cri-
Il generale von Paulus chiese più volte al dittatore tedesco il permesso di ritirarsi dallo scontro ma gli venne negato con la promozione a feldmaresciallo mea e le coste settentrionali del Mare d’Azov, poi fu anch’esso immobilizzato dal gelo dopo aver preso Charkov e Kursk. La convinzione di poter concludere la campagna nel giro di quaranta giorni era tale che
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le truppe tedesche furono colte dal freddo polare russo senza le uniformi invernali, e migliaia di uomini morirono per congelamento. Il Blitzkrieg fallì, trascinandosi dietro la disfatta di quello che era considerato il più potente esercito del mondo.
Nella primavera del 1942 i Tedeschi ripresero l’offensiva a sud con l’intenzione di conquistare il Caucaso e i pozzi petroliferi di Baku, per garantire alla Germania il combustibile indispensabile per la successiva condotta della guerra. La VI Armata del generale Friedrich von Paulus e la IV Armata corazzata (Panzerarmee) avrebbero dovuto occupare Stalingrado, centro della produzione di trattori e di armi, importante nodo ferroviario e porto fluviale sul Volga, interrompendo il sistema di trasporti sovietico e isolando le comunicazioni tra
il Caucaso e l’Urss; successivamente, riunendosi al Gruppo Armate di Centro, avrebbero preso Mosca di spalle. L’occupazione di Stalingrado avrebbe dovuto essere solo una tappa della gigantesca offensiva germanica verso il Caucaso, mentre la sua riconquista si rivelò uno dei momenti dell’altrettanto colossale controffensiva invernale russa che, tra l’altro, travolse due Armate rumene poste ai fianchi della VI Armata tedesca e l’Armir italiano sul Don. Conquistate nel mese di luglio Voronez e Rostov, la VI Armata di von Paulus si rischierò sul corso inferiore del fiume Don a circa 60 chilometri da Stalingrado. Alla fine di agosto la 16a Divisione Corazzata del generale Rube giunse in vista del Volga e della città duramente bombardata dalla Luftwaffe e il 15 settembre, investita dall’attacco della Wehrmacht. I combatti-
STORIA
menti si estesero in tutta la città, strada per strada, casa per casa, giorno e notte, in superficie e nel sottosuolo, fino al 4 ottobre, quando da Berlino giunse l’ordine di radere al suolo il centro abitato con un bombardamento aereo e di artiglieria. Le macerie, però, resero ancor più tenace la difesa.
I comandi tedeschi si ostinarono a investire la città da nord e da sud dissanguando le loro divisioni: un’impresa disperata, poiché di notte la 62a Armata russa del generale Ciujkov, l’eroe della difesa di Stalingrado, traghettava un flusso incessante di uomini e armi, e intanto si andavano ammassando, al sicuro oltre il Volga, le forze della controffensiva sovietica. I tedeschi non riuscirono a conquistare il controllo delle rive occidentali del fiume, un obiettivo indispensabile per tagliare i rifornimenti destinati alla difesa di Stalingrado. Ci furono furiosi combattimenti intorno e all’interno di edifici “strategici” (fabbriche di trattori, di cannoni, di munizioni) e nella stazione ferroviaria. L’incarico di liberare Stalingrado fu affidato dai Russi al generale Georgij Zukov, che aveva ai suoi ordini ben sette Armate. Al primo mattino del 13 novembre un bombardamento di 3.500 pezzi di artiglieria diede inizio all’Operazione Uranus. Dopo cinque giorni di combattimenti a sud e a nord di Stalingrado la III e la IV Armata rumena ai fianchi della VI di von Paulus furono frantumate; 22 divisioni tedesche furono accerchiate in una sacca di 50 chilometri lungo la riva destra del Volga e poterono essere rifornite solo in minima parte dall’Aviazione, che subì perdite gravissime.Von Paulus chiese a Hitler il permesso di ritirarsi il 24 novembre, ma gli fu negato. Il 12 dicembre, il generale von Manstein attuò un ultimo disperato tentativo di spezzare la morsa nemica contrattaccando con 13 divisioni. L’operazione Tempesta invernale dette qualche buon risultato, ma dopo una settimana e mezzo di combattimenti il gruppo Hoth, che cercava di ricongiungersi con la VI Armata, fu fermato a 40 chilometri dalla città. L’ultimo campo d’aviazione tedesco cadde 1’8 gennaio; il 24 von Paulus chiese nuovamente di ritirarsi, ma ottenne un nuovo rifiuto accompagnato dalla promozione a feldmaresciallo, sia per i suoi meriti, sia perché nella storia della Prussia e della Germania mai nessun feldmaresciallo si era arreso al nemico. Il 31 gennaio però von Paulus smentì la tradizione consegnandosi ai sovietici. Dei 285 mila tedeschi che avevano combattuto a Stalingrado, alla fine della guerra i sopravvissuti furono appena 5 mila.
CAPOLAVORI DI PIETRA l Giardino di Tarocchi, realizzato tra il 1979 e il 1997, nella campagna di Capalbio in Maremma, è il capolavoro dell’artista francese Niki de Saint Phalle: una sorta di museo all’aperto dove, annidate tra l’odorosa macchia mediterranea, si esibiscono poderose sculture abitabili, immaginifiche trasposizioni dei ventidue arcani maggiori dei tarocchi. Le sculture, realizzate in cemento e poliestere e rivestite con tessere di ceramica, vetro e specchio, si adagiano sui fianchi della collina, insinuandosi tra la vegetazione spontanea, lasciandosi accarezzare dalla luce che accende i bagliori delle maioliche e degli specchi colorati e trasmette un’animazione mutevole alla materia inerte.
I
IL SOGNO DI NIKI È un museo all’aperto di sculture abitabili
Il giardino di tarocchi nella macchia toscana di Giuseppe Bonaccorso
La vicenda artistica di Niki è singolare. I suoi esordi pubblici coincidono con l’adesione al movimento fondato nel 1960 da Pierre Restany e denominato Noveau Réalisme, il cui obiettivo principale era la dematerializzazione degli oggetti, ottenuta attraverso l’utilizzo di «macchine autodistruttive, di impacchettaggi, di tiri al bersaglio, di manifesti lacerati». Unica donna del gruppo, Niki collabora con artisti d’avanguardia come Arman, Cèsar, Christo, François Dufrêne, Daniel Spoerri e Jean Tinguely. Proprio la collaborazione con Tinguely (19251991), consolidatasi nella seconda metà degli anni Sessanta, sarà decisiva per il passaggio alle opere di grande scala dell’artista che, a partire dalla celebre scultura Hon, realizzata proprio con Tinguely nel 1966, si concentrerà esclusivamente su manufatti di dimensioni monumentali. Essi sono lo strumento per un’originale esplorazione che Niki intraprende nell’universo interiore femminile: un percorso già sperimentato attraverso le sue esuberanti nanas, grandi statue femminili dalle forme opulente e materne. Ma sarà solo agli inizi degli anni Ottanta che Niki, spesso rinnovando il sodalizio con Tinguely, imbocca definitivamente la strada del manufatto plastico a scala di paesaggio. Nel 1979 decide di realizzare un sogno accarezzato fin dalla sua prima visita, nel lontano 1955, al parco Güell ideato da Gaudí a Barcellona agli inizi del Novecento: la costruzione di un giardino materializzato dall’intimo intreccio tra natura e scultura. Grazie a un appezzamento di terra a Garavicchio, nei pressi di Capalbio, messo a disposizione dalla famiglia Caracciolo, per il sollecito interessamento di Marella Caracciolo Agnelli, il giardino di sculture poté decollare, con
dentità tra scultura e architettura, ma anche tra vita e arte, tra artificio e natura. Anche la scelta dell’artista di abitare in una di queste grandi sculture, così da controllare costantemente il progredire dell’opera, istituisce una stringente analogia esistenziale con la scelta di Gaudí di vivere i suoi ultimi anni dentro il cantiere della Sagrada Família. E poi ancora: la struttura interna del corpo dell’Imperatrice, dove trovano spazio il salone con il caminetto, la cucina (all’interno di uno dei seni), e una piccola camera da letto (nell’altro seno), sembra plasmata nella fluida cavità di un corpo, pervasa da cangianti contrasti di luce e colore, come avviene nelle case Battló e Milà a Barcellona, entrambe capolavori di Gaudì.
A l t r i i n t e r n i delle sculture dei Tarocchi ospitano miniappartamenti: la Torre di Babele, ad esempio, contiene una camera da letto e uno studio, spesso utilizzati dagli artisti ospiti del giardino. Anche la
Come Gaudi, anche l’artista decise di vivere in una delle sue grandi sculture, così da controllare costantemente il progredire dell’opera
Il giardino dei tarocchi a Capalbio, in Maremma, costruito dalla francese de Saint Phalle la collaborazione di Tinguely e di altri artisti. Anche se fu la stessa Niki a sottolineare il ruolo egemone svolto dal parco Güell, il Giardino dei Tarocchi sottintende anche altri giardini monumentali. In primo luogo l’enigmatico Sacro Bosco di Bomarzo, il giardino dei Mostri scavati nelle rocce affioranti, commissionato nella seconda metà del Cinquecento da Vicino Orsini. Grondante di suggestioni ironiche, fantastiche e misteriche, Bomarzo si confonde con la rigogliosa natura dell’alto Lazio, a
Il parco si trova in un appezzamento di terra a Garavicchio, vicino Capalbio, messo a disposizione dalla famiglia Caracciolo una manciata di chilometri da Capalbio. A questo prototipo aulico si affianca anche la versione più ingenua e spontanea rappresentata dal Palais Idèal (1879-1912) del ”postino” Joseph Ferdinand Cheval (18361924), costruito a Hauterives
in Francia. Ma per Niki il nume tutelare rimane soprattutto Gaudí. Le suggestioni formali e simboliche assorbite dal maestro catalano si rintracciano innanzitutto nel percorso che, lambendo ipertrofiche e grottesche figure, istituisce l’i-
preponderante natura visionaria e onirica di queste composizioni rimanda a Gaudí, al pari del ricorso negli apparati decorativi di creature fantastiche e dell’uso inquietante dell’acqua e del suo inafferrabile moto: valga per tutte la fontana modellata come una lingua mostruosa, materializzata dai gradini che collegano al terreno la grande bocca della Papessa. Se in questo episodio si intravvede in controluce la fontana del drago posta all’ingresso di parco Güell, traspaiono anche altri vividi riferimenti desunti soprattutto dai giardini delle ville cinqueseicentesche romane: i funambolici giochi d’acqua di Villa d’Este si associano, nelle sembianze grottesche della scultura, al mascherone dell’Orco di Bomarzo, le cui fauci spalancate minacciano e attraggono il visitatore. Quel «decorativismo psichico», di cui Salvador Dalí parla a proposito di Gaudì, può essere riferito anche a Niki e ai suoi mostruosi e magnifici miraggi che, animati di un irriducibile vitalismo, interrogano la natura e i suoi misteri.
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ORIZZONTALI 1 ...il Xxxxxxxx cortese / re della strada, re della foresta (Pascoli) n 9 Città dell’Egitto n 15 L’arte dei gesti n 21 Un punto regalato all’avversario n 22 Lassa n 23 ...e il vidi xxxxxx lieto l’ultimo sospiro (A. Grimaldini, XVI sec.) n 24 Il più pesante degli elementi n 25 Bagna Senigallia n 27 Don Cosmo, ancora con le xxxx arricciate, non riusciva a capacitarsi (Pirandello) n 29 Aureola n 30 Sola, perduta, abbandonata / in xxxxx desolata.. (Manon Lescaut) n 31 Barbara Xxx, romanziera inglese (1913-80) n 32 Xxx esilarante di Wodehouse n 34 The Xxx Badge of Courage film di John Houston (“La prova del fuoco” 1951) n 36 Xxxx de siège film di Costa-Gravas n 37 Cagliari n 38 A te n 39 La xxxxxxx rossa, con Leslie Howard (1934) n 42 Antico popolo della Mesopotamia n 44 Il Pitone del Libro della Giungla n 46 Concordare n 48 Pagano la bolletta n 50 Xx sé e per sé n 51 Scrisse Adelchi (iniz.) n 52 Moritz Xxxxxx, storico ted. della matematica (1829-1920) n 53 I dannati del Quinto Cerchio n 55 Costume n 56 Autore del romanzo Cento anni n 58 Il xxxxxxx flm con Massimo Troisi (1994) n 60 Uno degli SUdA (sigla) n 61 Iniz. di Suderman n 62 Figlio di Sem n 63 Legno pregiato n 65 Apparecchiatura diagnostica n 66 Autore di Ninfa plebea n 68 Campione mondiale di ciclismo su strada 1977 n 71 Tom Xxxxx romanzo di Fielding n 73 Diletti n 75 Dio greco della guerra n 77 Vinse lo Strega con Tolstoj nel 1983 n 78 Regina del Belgio (1905-36) n 80 Sandwich n 82 Scrisse Il Mago dei Prodigi n 84 Ninfe dei fiumi n 85 Xxxxxx Bergman, attrice n 86 Relativo al quarto mese
VERTICALI 1 Xxxx Klee pittore n 2 Erano i capei d’oro a l’xxxx sparsi (Petrarca) n 3 ...cadde la xxxxxx man (Manzoni, 5 maggio) n 4 Scandaglio n 5 Romanza n 6 Xxx Teocoli, comico n 7 Iniz. del pittore Tamburi n 8 Xxxx de Gourmont 9 Somaro inglese n 10 Lo Xxxxxxxxx Aristotele n 11 Iniz. di Hans Richter n 12 Le miserie d’ xxxxx Travet di Bersezio n 13 Casa cinematografica ted. n 14 Raccontato n 15 Messina n 16 Xxx Barzizza n 17 Abitanti del Borneo n 18 Schiavi spartani n 19 Capo dei servizi segreti nazisti che complottò contro Hitler e fu impiccato n 20 Autore della commedia La cortigiana (1515) n 26 Sporco, immorale n 28 Id Est n 31 Brad Xxxx attore ingl. n 33 Film del 1992 con Al Pacino e Jack Lemmon n 35 Gagà n 38 La Venere dei Cartaginesi n 40 Rieti n 41 La sveglia / col fosforo sulle lancette / che spande un tenue xxxxxx (Montale) n 43 co xxx compagni tui priscipitosi (Belli) n 44 Herbert von Xxxxxxx, direttore d’orchestra n 45 “Morrem insieme / xxxxxxx mia speme!” (Così fan tutte) n 46 Romanzo di Knut Hamsun n 47 Film di Jules Dassin n 49 Città della Sicilia n 52 Xxxxxx con vista di E. M. Forster n 54 Ancona n 55 Soldati di cavalleria dei secoli scorsi n 57 Sono spesso millanterie n 59 The Xxxxx film del 1973 (“La stangata”) n 61 Albergo n 64 Iniz. di Emilio Cecchi n 67 Lusinga n 68 il Sud della Francia n 69 Prestigiosa scuola inglese n 70 Xxxx Alessi, drammaturgo (1885-1970) n 72 Sostituì il SIFAR nel 1966 n 74 Film di Akira Kurosawa n 76 Xxx Steiger, attore n 77 Iniz. di Ragghianti n 79 Giorno n 81 Andar n 83 Iniz. di Palazzeschi
CRUCIVERBA
La Ninfa plebea
di Pier Francesco Paolini
L’ AUTORE DI QUESTO QUADRO È ........................................ (1927-1928)
QUIZ LETTERARIO DI QUALE ROMANZO DEL 1967 È QUESTO INCIPIT? ell’ora di un caldo tramonto primaverile, apparvero presso gli stagni Patriars?e due cittadini. Il primo – sulla quarantina, con un completo grigio estivo – era di bassa statura, scuro di capelli, ben nutrito, calvo; teneva in mano una dignitosa lobbietta, e il suo volto, rasato con cura, era adorno di un paio di occhiali smisurati con una montatura nera di corno. Il secondo – un giovanotto dalle spalle larghe, coi capelli rossicci a ciuffi disordinati e un berretto a quadri buttato sulla nuca – indossava una camicia scozzese, pantaloni bianchi spiegazzati e un paio di mocassini neri. Il primo altri non era che Michail Aleksandroviã Berlioz, direttore di una rivista letteraria e presidente della direzione di una delle più importanti associazioni letterarie di Mosca, chiamata con l’abbreviazione MASSOLIT; il suo giovane accompagnatore era il poeta Ivan Nikolaeviã Ponyrëv, che scriveva sotto lo pseudonimo Bezdomnyj. Giunti all’ombra dei tigli che cominciavano allora a verdeggiare, gli scrittori si precipitarono per prima cosa verso un chiosco dipinto a colori vivaci, che portava la scritta «Birra e bibite». Ma conviene rilevare la prima stranezza di quella spaventosa serata di maggio. Non solo presso il chiosco, ma in tutto il viale, parallelo alla via Malaja Bronnaja, non c’era anima viva. In un’ora in cui sembrava che non si avesse più la forza di respira-
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L’AUTORE DEL QUADRO DI IERI È DI: Sandro Botticelli, Madonna dell'Eucarestia (1472-1475)
Il cruciverba di ieri
re, quando il sole, che aveva arroventato Mosca, sprofondava oltre il viale Sadovoe in una secca bruma, nessuno era venuto sotto l’ombra dei tigli, nessuno sedeva su una panchina, deserto era il viale.
- Mi dia dell’acqua minerale, – disse Berlioz. - Non ce n’è, – rispose la donna del chiosco e, chi sa perché, prese un’aria offesa. - Ha della birra? – chiese con voce rauca Bezdomnyj.
LA SOLUZIONE DI IERI È: Marguerite Yourcenar, “Memorie di Adriano” (1924) inserto a cura di ROSSELLA FABIANI
mondo
27 agosto 2009 • pagina 17
Medioriente. La visita in Gran Bretagna di Netanyahu sembra offrire nuove chance al processo di pace con i palestinesi
Israele, da Londra spiragli di pace Ottimismo degli osservatori, ma lo scenario resta molto incerto di Antonio Picasso a visita del Primo ministro israeliano Netanyahu, in corso in questi giorni a Londra, sembra offrire nuove chance al raggiungimento di un accordo nel processo di pace con i palestinesi. L’ottimismo, espresso da tutti gli osservatori, sembra riversarsi anche nelle trattative per la liberazione di Gilad Shalit, il caporale israeliano rapito da uomini vicini ad Hamas nel giugno 2006, lungo il confine con la Striscia di Gaza. L’arrivo ieri al Cairo dell’alto dirigente del movimento islamico, Mahmoud Zahar, fa pensare che la vicenda sia prossima a una svolta. Tutti questi elementi hanno portato poi Abu Mazen a dichiararsi favorevole a un incontro con il governo israeliano. Un desiderio che il Presidente dell’Anp non aveva mai espresso da quando Netanyahu è Primo ministro.
giorni. Il cammino per la pace è ben più lungo di quello che ci si immagina in Europa ma soprattutto negli Stati Uniti. Per due motivi: la mancanza di un interlocutore affidabile e l’evidente debolezza dell’esecutivo israeliano. «Fatah si dice pronto alla pace entro due anni. Cosa ha fatto quindi negli ultimi quindici?» Si chiedeva polemicamente Rubin sul suo blog ieri. Il professore dell’Idc è convinto che Ne-
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Quello che manca al premier israeliano è il pieno sostegno dell’opinione pubblica, con il suo esecutivo attaccato quotidianamente da destra e da sinistra
A ben guardare però, l’intero scenario risulta molto più incerto. L’altro giorno, nel corso della conferenza congiunta con il premier britannico
tanyahu abbia di fronte un interlocutore evanescente, inaffidabile e non rappresentativo della popolazione palestinese. Sono critiche che non si limitano alla persona di Abu Mazen, ma a tutta la segreteria di al-Fatah, rea di non essersi ringiovanita nell’ultimo congresso generale all’inizio del mese.
Per la prima volta dopo le elezioni, il presidente dell’Anp, Abu Mazen, si dichiara favorevole a un incontro con il governo di Gerusalemme Brown, Netanyahu aveva sottolineato la sua disponibilità a negoziare con gli Usa per trovare una formula che «consenta di avviare un percorso di pace, ma che al tempo stesso permetta ai coloni di vivere una vita normale». Ieri, incontrando l’inviato speciale Usa per il Medio Oriente, George Mitchell, il premier israeliano ha parlato degli impegni che il suo governo ha assunto «sia con le parole che con i fatti per rilanciare il processo di pace». In entrambi i casi, si tratta di dichiarazioni di compromesso che lasciano aperte tutte le possibilità. Netanyahu non vuole negare a Washington il diritto di sperare in un accordo concreto raggiungibile nell’arco di due anni, come richiesto direttamente dalla Casa Bianca. Inoltre non esclude che, prima o poi, si arrivi a un summit con Abu Mazen. Infine, sulla questione insediamenti, lascia trasparire una relativa apertura in merito a un blocco che il suo governo potrebbe imporre, senza però impedire la “crescita naturale” delle colonie cisgiordane. Da qui l’eventualità di un nuovo incontro Netanyahu-Mitchell preventivamente all’Assemblea generale dell’Onu, fissata per metà settembre. Proprio in quell’occasione, Wa-
shington vorrebbe annunciare la possibilità di arrivare a un accordo entro due anni. Obama sogna addirittura di poter presentare alle Nazioni Unite il compimento di questo passo in una dichiarazione pubblica congiunta, affiancato dal premier israeliano e dal presidente dell’Anp.
Tuttavia, per evitare che sul fronte interno la sua posizione ne risenta, il Primo ministro non nega nemmeno che siano realizzabili anche le ipotesi diametralmente contrarie. Vale a dire che i negoziati con i palestinesi restino congelati sine die e che un eventuale confronto possa essere fatto senza toccare la questione degli insediamenti. In questo senso, Netanyahu sa bene quali carte ha in mano. Il punto critico è come giocarle. La pace con i palestinesi - quindi il riconoscimento in futuro di un loro Stato - è diventato un passaggio obbligato che, presto o tardi, si dovrà compiere. Israele però vuole accettare questa realtà da una posizione contrattuale di superiorità. Vuole essere riconosciuto come Stato ebraico, enclave religiosa ed etnica nel cuore del mondo arabo-islamico. Vuole che Gerusalemme - unica e indivisibile resti la sua capitale. Infine pretende
che la crescente presenza di coloni nel West Bank venga riconosciuta come un’affermazione demografica ormai radicata e impossibile da disperdere. Da qui la necessità di mantenere sotto il proprio controllo un’area di grandi dimensioni. È probabile che il realismo renda consapevole il premier israeliano della difficoltà nel presentare simili condizioni al tavolo dei negoziati. D’altra parte, le stesse costituiscono i cardini della sopravvivenza politica del suo governo. Se Netanyahu vuole continuare a guidare il Paese, è costretto a presentarsi con le vesti dell’intransigente assoluto. In questo senso, è esemplificativa la visione di Barry Rubin, professore all’Interdisciplinary Center (Idc) di Herzliya, noto per il suo conservatorismo. Contattato Rubin dall’Italia, mette in discussione l’intera interpretazione eccessivamente ottimistica che la stampa occidentale ha attribuito agli eventi di questi
Quello che manca a Netanyahu, a sua volta, è la fiducia inossidabile che sosterrebbe un politico carismatico in situazioni tanto complesse. Già in altre occasioni, Rubin aveva lamentato l’assenza dal palcoscenico della politica internazionale di “personaggi d’acciaio” come Winston Churchill o Margaret Thatcher. Nello specifico del contesto mediorientale, è la classe dirigente israeliana a mancare di polso. Lo dimostra anche la campagna di critica aperta in questi giorni dal quotidiano Ha’aretz nei confronti di Liebermann. Secondo l’influente testata, l’attività diplomatica del ministro è paragonabile solo alla «farsa» di Amir Peretz, responsabile del dicastero della Difesa durante la guerra dei “34 giorni” in Libano nel 2006. È la conferma, questa, di come l’opinione interna israeliana nutra sempre una fiducia limitata per l’attuale governo. Il Paese aspetta costantemente al varco Netanyahu e i suoi ministri ed è pronto a giudicarli nel modo più feroce possibile. Inevitabile che tutto questo impedisca qualsiasi progresso nei negoziati. La pace non si fa con un leader sempre sotto esame. E di questo Netanyahu è consapevole.
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mondo
Stati Uniti. Ultimo di nove fratelli del clan bostoniano nato con mamma Rose e papà Joseph. Raccolse l’eredità politica di JFK e Bob
Muore Ted, l’ultimo Kennedy Si spegne a 77 anni in Massachusetts il più giovane della dinastia Attivo in difesa della riforma sanitaria di Obama fino all’ultimo giorno di Pierre Chiartano morto Ted, il «patriarca» dei Kennedy – come lo ha definito Dennis Redmont (l’ex direttore di Associated Press) a liberal – si è spento martedì sera, all’età di 77 anni, a causa di un tumore al cervello. Il presidente Barack Obama è stato svegliato alle due di notte a Martha’s Vineyard. Meno di mezz’ora dopo parlava per telefono con la moglie del senatore, Victoria. A Washington le bandiere sono state abbassate a mezz’asta.Ted era senatore dal 1962: il terzo parlamentare nella storia degli Stati Uniti per durata di servizio in Senato. Il “leone liberal” non ruggirà più in difesa dei diritti civili e a protezione della working class americana. Le ultime immagini pubbliche sono legate all’endorsment alla campagna di Barack Obama, dove pur sofferente era salito sul palco, per l’abbraccio con la nuova icona democratica e degno erede della tradizione dei bostoniani in politica, rimangono il suo testamento simbolico. Nel 1962 Teddy era il giovane Kennedy che, durante la campagna presidenziale del fratello maggior, John, doveva occuparsi di alcuni collegi. Correva da una riunione all’altra, ma da quei caucus non vennero
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Ma il suo erede si chiama Barack di Enrico Singer segue dalla prima Certo, Una parte dell’America democratica, soprattutto quella dell’aristocratica Boston, cerca già un successore. Perché se dopo la morte di John, di Bob e di Ted sono ormai tramontati un’era e un mito, la dinastia non è finita. C’è Joseph Patrick, stesso nome del capostipite del clan, che è figlio di Robert e che molto gli assomiglia, con gli occhi azzurri, alto, biondo. E c’è, ironia della sorte e della scelta dei nomi che sempre ritornano in questa famiglia, Patrick Joseph, figlio di Edward. Sono loro che si contendono l’eredità politica dei Kennedy. Il primo è stato membro della Camera dei rappresentanti fino al 1999 ed ora si occupa di affari, il secondo siede ancora
adesso tra i banchi del Campidoglio. Ma per loro la strada non sarà facile. Sono soltanto la sbiadita replica di «quello che è stato e di quello che poteva essere», come disse proprio Ted nel discorso funebre per il fratello Bob ipotizzando la possibile grandezza di una seconda presidenza Kennedy che non c’è stata e che, probabilmente, non ci sarà mai più. Il secolo dei Kennedy era già tramontato. Il primo segnale arrivò quando Ted mancò la nomination democratica alla Casa Bianca nel 1980 contro Jimmy Carter. Ma se i Kennedy non avranno più il peso politico e l’influenza che hanno avuto nel partito democratico e negli Stati Uniti, non è finito il kennedismo. Anzi. Oggi tocca a Barack Obama reinterpretare quel sogno che John Kennedy descriveva come Camelot: la sua America ideale paragonata al mitico regno di Artù dove a vincere era sempre la giustizia. Un’eredità che è una sfida.
Nelle foto in alto, da sinistra 1938: sulle ginocchia del padre Joseph 1995: con il figlio Patrick 1962: sfilata della moglie Joan 1963: il funerale di JFK 1969: la tragedia di Chappaquiddick 1966: dopo l’assassinio di Robert Nelle foto in basso, da sinistra 2006: dopo il fallimento dell’immigration bill 1962: l’elezione al Senato 1964: dopo l’incidente aereo. 1980: il ritiro dalle primarie 2008: insieme a Barack Obama
voti utili per JFK. Edward Moore Kennedy, all’avvio del terzo millennio, aveva più volte dimostrato che quella lezione l’aveva imparata e bene. Senatore del Massachusetts e decano del Partito democratico è forse il membro del clan più prestigioso di Boston che sia riuscito, più a lungo, a calcare la scena politica americana.
La “sfortuna” per alcuni, una “maledizione”per altri, lo ha solo sfiorato più di una volta, senza portalo via dalla storia del Grande Paese. Prima nell’incidente di Chappaquiddik – l’anno successivo all’assassinio di Bob a Los Angeles – dove fu condannato, con sospensione condizionale della pena, per aver abbandonato il luogo dell’incidente dove perse la vita Mary Jo Kopechne, rimasta intrappolata nell’auto. I sospetti intorno a quell’episodio gli costarono la corsa alla Casa Bianca. Poi nel 1964 dove fu l’unico supersite di un incidente su di un piccolo aereo. John, Bob e Ted erano una squadra, colpita dalla violenza della storia e cullata dall’immagine di un ricordo struggente. Era l’America del cambiamento, della Nuova frontiera, della crisi di Cuba e dell’Alleanza per il progresso in America latina. Ora, dei nove figli di mamma Rose e papà Joseph, ricco ma-
mondo
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Cronologia di una vita dedicata alla politica 1932 - Edward Moore Kennedy nasce a Boston, il 22 febbraio. È il più giovane dei nove figli di Joseph P. e Rose Kennedy. 1958 - Kennedy sposa Virginia Joan Bennett. 1962 - Edward M. Kennedy viene eletto al Senato statunitense in Massachusetts con il 55% dei voti, battendo il repubblicano George C. Lodge (41%). 1963 - Il presidente John F. Kennedy viene assassinato a Dallas. 1964 - Ted Kennedy si rompe la schiena in un incidente aereo in cui perdono la vita il suo assistente e il pilota.
gnate e avventato ambasciatore a Londra, resta in vita solo l’ottantunenne Jean - diventata Smith dopo il matrimonio - e con una discreta carriera diplomatica alle spalle. L’eredità politica dei Kennedy è stata ben difesa da Ted come ha spiegato liberal Redmont, decano dei corrispondenti esteri a Roma e responsabile comunicazione del Council UsaItalia. «Il potere che ha gestito è durato per 47 anni, tutta la legislazione di stampo sociale in America ha avuto il suo nome scritto in calce, dai diritti civili all’introduzione della prima proposta di legge di riforma della sanità nel 1969, all’aiuto alla classe meno abbiente e anche alla working class americana. In termini legislativi lascia un’eredità considerevole. Unisce il suo approccio liberale con un grande pragmatismo legislativo dove poteva fare delle coalizione con persone così diverse da lui, come Nancy Reagan sulle cellule staminali».
E l’omaggio all’ultimo dei Kennedy arriva proprio dalla famiglia Reagan, attraverso l’ex First Lady. «La gente è sorpresa del nostro legame con i Kennedy, viste le differenze politiche», ha commentato Nancy, «Ted ed io, negli ultimi anni, avevamo trovato un terreno comune nella ricerca sulle cellule staminali. Per me era un alleato e un caro amico». A dimostrazione che le buone idee trovano sempre compagni di cammino. Ma i buoni rapporti con i repubblicano andavano oltre al stima dei Reagan. «Lo stesso Bush - continua Redmont - affer-
1968 - Il senatore Robert Kennedy viene assassinato a Los Angeles dopo aver vinto le primarie del partito democratico in California. 1969 - Kennedy ha un incidente d’auto a Chappaquiddick, in Massachusetts da cui esce illeso. Muore, invece, Mary Jo Kopechne, che era in macchina con lui. Le circostanze oscure della vicenda danno un primo, duro colpo alla sua carriera politica. 1980 - Kennedy si candida alle primarie democratiche per le presidenziali, ma Jimmy Carter lo batte in 24 stati su 34, prima che il senatore del Massachusetts decida di ritirarsi. A novembre, Carter perderà contro Ronald Reagan (sconfitto in 44 stati su 50 e con quasi 10 punti percentuali di scarto). 1981 - Ted e Joan Kennedy annunciano il loro divorzio. 1982 - Si risposa con Victoria Reggie, un avvocato di Washington, con la quale ha due figli Curran e Caroline (dalla prima moglie, Joan, ne ha avuti tre: Kara, Edward Jr. e Patrick) 1991 - La carriera di Kennedy subisce un altro durissimo colpo quando il nipote, William Smith, è accusato di aver stuprato una ragazza nei pressi della villa di famiglia a Palm Beach, in Florida. 1995 - Patrick Kennedy, figlio di Ted, diventa il più giovane membro del 104° Congresso, dopo essere stato eletto nel 1° distretto del Rhode Island. 1999 - John F. Kennedy Jr., nipote del senatore, sua moglie Carolyn Bessette Kennedy e la sorella, Lauren Bessette, muoiono in un incidente aereo nelle acque al largo di Martha’s Vineyard. 2008 - A Kennedy è diagnosticato un tumore al cervello. 2009 - Kennedy muore il 25 agosto, nella sua casa di Hyannis Port (Massachusetts), a 77 anni.
mava che con lui poteva lavorare per il bene del Paese. Anche se Ted Kennedy, a suo tempo, aveva sottolineato che la guerra dell’Iraq era stata concepita nel Texas».Ted uomo del dialogo, pragmatico e oratore carismatico, immerso nella politica attiva fino all’ultimo. Dal letto dell’ospedale in cui era ricoverato negli ultimi giorni, Ted Kennedy non aveva perso la lucidità e continuava a pensare ai temi caldi della politica. Per questo aveva inviato una lettera al presidente del Senato, Therese Murray, in cui chiedeva di essere sostituito, consapevole che la propria assenza avrebbe privato di un voto l’approvazione della riforma sanitaria fortemente voluta dal presidente Obama. «Per quasi 47 anni ho
Uomo del dialogo, pragmatico e oratore carismatico, non ha mai perso la sua lucidità e, malgrado la malattia, continuava la sua attività anche dall’ospedale avuto il privilegio di rappresentare il Massachusetts al Senato degli Stati Uniti, ma ora vi scrivo per una questione che mi riguarda da vicino: il Massachusetts potrebbe avere un seggio vacante», scriveva Ted. Nella lettera, datata 2 luglio, ricorda che nel 2004 la legge venne cambiata per scegliere, tramite un’elezione straordinaria, «un nuovo senatore destinato ad occupare il seggio vacante fino alla fine del mandato». La legge però prevede che le elezioni siano indette solo 160 giorni dopo che il seggio è stato abbandonato. «Credo fortemente nel principio per cui la popolazione dovrebbe eleggere il proprio senatore spiega Kennedy - e per questo vi chiedo di lavorare insieme per modificare la
legge e prevedere una nomina temporanea fino a quando non saranno indette le elezioni straordinarie», spiegava il vecchio senatore ormai divorato dalla malattia. È stato questo l’ultimo assist di Ted al suo pupillo Obama, che per l’approvazione della riforma sanitaria deve poter contare sul sostegno di tutti i senatori democratici. Ma ci sono all’orizzonte degli eredi nel clan di Boston fondato dal vecchio Joseph e ”Honey Fitz”il papà di mamma Rose? «Era il patriarca, dopo di lui non c’è nessuno con la sua statura – afferma l’ex direttore dell’Ap – ci sono quattro o cinque Kennedy, con diritti ereditari. Ma uno è il figlio, che fa il politico nel Rhode Island, poi c’è il nipote – figlio di Bob – che si è ritirato dalla vita pubblica e oggi fa l’imprenditore, poi ancora Caroline non molto fortunata nel suo approccio alla politica». Anche dal nostro Paese sono arrivati numerosi i messaggi di cordoglio.
«Scompare un grande protagonista della vita pubblica americana, un combattivo e coerente interprete del ruolo del Congresso degli Stati Uniti, presidio da sempre di quella dialettica democratica e di quelle garanzie di libertà che hanno dato forza e prestigio al Paese. In questo senso la figura di Ted Kennedy ha lasciato un’impronta profonda e merita l’omaggio di tutto il mondo libero». Sono le parole del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano appena appresa la notizia della scomparsa. «È vissuto più a lungo di John e Bob – spiega ancora Redmont – e quindi ha avuto l’opportunità di fare di più. Ricordiamo che John è stato alla Casa Bianca solo un paio d’anni e Bob, purtroppo, non è riuscito neanche ad arrivarci. Paradossalmente Ted, che si era anche ritirato nella corsa alle persidenziali contro Carter, ha avuto un’influenza più duratura. In un certo senso, ha portato l’eredità degli altri due sfortunati fratelli molto più lontano di quanto loro avrebbero potuto fare».
cultura
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Riletture. Nelle pieghe dei libri della grande filosofa tedesca ci sono molte pagine di straordinaria attualità dedicate al tema della persecuzione di chi non ha “stato”
Hannah e i clandestini Colpire una condizione piuttosto che un comportamento La tragedia dei respingimenti nelle parole della Arendt di Matteo Marchesini ei giorni in cui in Italia la clandestinità diventa reato e le ronde iniziano a pattugliare le strade, cioè proprio mentre i provvedimenti di governo e maggioranza sembrano riaffondarci nel cuore più cupo del ’900, è curioso che anche sulla stampa d’opposizione circoli così poco il nome di Hannah Arendt. Perfino gli studiosi che ne hanno curato e commentato le opere, quando denunciano gli scempi del pacchetto sicurezza, si dimenticano stranamente di citarla. Eppure questa filosofa “impura”, che visse tutta la vita adulta da apolide (a 27 anni il nazismo la costrinse a emigrare in Francia, a 35 negli Usa) e che guardò sempre alla propria provenienza ebraica non come a un valore ma come a un fatto da indagare diderotianamente «senza riguardo», ha impostato la sua analisi sulle società di massa nate nel secolo XX, e giunte ora a perfezionarsi con la globalizzazione, proprio sullo status politico e umano di profughi, migranti, «displaced persons»: e le sue opere avrebbero davvero molte cose – utili quanto sinistre - da dire agli italiani d’oggi.
nizione di comunità sempre più compatte iniziava a produrre masse di profughi e di apolidi a getto continuo. In teoria, questi «indesiderati» avrebbero potuto appellarsi ai diritti posseduti in quanto nudi uomini: tuttavia si resero presto conto che proprio una tale nudità sembrava un invito all’eliminazione, e così finirono per aggrapparsi anche loro - ma disperatamente - a qualche identità di gruppo. Infatti la Arendt nota che chi è espulso da un corpo politico, cioè dallo spazio in cui le differenze sono livellate dall’uguaglianza dei diritti, anziché rimanere “cittadino
Nel saggio, assai più citato che letto, su Le origini del totalitarismo, la Arendt individuò nelle minoranze senza Stato il sintomo per eccellenza della contraddizione, generata dagli esiti della rivoluzione francese, tra la petizione di principio dei diritti umani universali e il loro effettivo rispetto, legato unicamente all’appartenenza nazionale. Le maggiori tragedie del ’900 si sono svolte subito dopo che l’imperialismo ha pervertito l’ideologia nazionalista in ideologia tribale, e mentre la conseguente ridefi-
del mondo” rischia sempre di venir ridotto a un puro membro della specie, individuato solo nella sua diversità etnica o razziale – cioè a un “animale umano”che trovandosi fuori dal cerchio della comunità può essere perseguitato senza conseguenze legali.
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aveva titoli sufficienti» per richiederlo. «I nuovi esuli erano perseguitati non per quel che avevano fatto o pensato, ma per quel che erano immutabilmente», osserva la Arendt definendo quel meccanismo di progressivo esilio dal corpo politico che indagherà poi in concreto nel reportage su Eichmann. Insomma: nel momento in cui la prima globalizzazione imperialista mise alla prova la resistenza extranazionale dei diritti umani nati con l’illuminismo, questi si rivelarono del tutto insufficienti a offrire garanzie ai presunti “cittadini del mondo”; e così i problemi
stato e i normali stranieri residenti (...) Dopo il 1935, l’anno del rimpatrio in massa disposto [in Francia] dal governo Laval con l’unica eccezione degli apolidi, i cosiddetti «immigranti economici» e gli altri gruppi di più vecchia origine — balcanici, italiani, polacchi e spagnoli — si mescolarono alle ondate di profughi dando luogo a un groviglio inestricabile. Molto peggiore del danno causato ai diritti sovrani in materia di nazionalità ed espulsione fu quello dell’illegalità introdotta nella vita interna dei vari paesi quando un numero crescente di residenti dovette vivere al di fuori dell’ordinamento giuridico statale. L’apolide, privo del diritto alla residenza e del diritto al lavoro, era continuamente costretto a violare la
L’intera storia del Novecento è piena di «indesiderati», di «apolidi», di «esclusi» colpiti più per la loro «non appartenenza» a un movimento che non per i loro presunti «reati»
Nel ’900 ha cominciato a rivelarsi quasi inutilizzabile anche il vecchio diritto d’asilo, poiché «le nuove categorie di perseguitati erano troppo numerose per una prassi riservata a casi eccezionali. Per giunta, la maggioranza non
un tempo separati della migrazione economica, dell’espulsione seguita alla conquista e della persecuzione politica, vennero a confondersi irreparabilmente. Ecco qui di seguito, da Le origini del totalitarismo, una descrizione eloquente di quel che accadeva nei «paesi civili» tra le due guerre, mentre i regimi totalitari stavano privando della cittadinanza le loro minoranze e imponendo a tutti i loro ordini del giorno: «Negli anni Trenta divenne sempre più difficile operare una netta distinzione fra i profughi senza
legge. Era passibile di pene detentive senza aver commesso alcun delitto. L’intera gerarchia di valori propria dei paesi civili era capovolta nel suo caso. Poiché era un’anomalia non contemplata dalla legge, egli poteva normalizzarsi soltanto commettendo un’infrazione alla norma che fosse contemplata, cioè un delitto».
Può darsi che queste citazioni rimandino solo echi lontani al nostro orecchio. Eppure l’introduzione del reato di clandestinità (amputato della pena detentiva grazie all’Europa e a causa delle condizioni delle nostre carceri), cioè il tentativo di colpire non una condotta ma uno sta-
to, dovrebbe far suonare in noi un campanello d’allarme legato a filo doppio alle parole di Hannah Arendt. Qui non ci troviamo soltanto di fronte alla mostruosità giuridica denunciata da molti esperti. Sovrapponendo maldestramente il codice penale alle faccende amministrative, chi ci governa ratifica oggi la concezione secondo cui il regolamento dei flussi migratori non sarebbe una necessità di fatto alla quale sottoporsi tenendo ferma la teoria di un diritto globale, bensì una naturale conseguenza del confinamento dei diritti umani alla nazione. Solo che la parola “nazione” indica ormai qualcosa di così nebuloso, che di qui ai “diritti tribali” (di una regione o di un gruppo) non c’è più che un passo. E inoltre – poiché il diritto d’asilo non offre una soluzione per tutti i perseguitati, né il lavoro può essere l’unico appiglio per chi in Italia viene a vivere, ad amare, a procreare – è chiaro
cultura
27 agosto 2009 • pagina 21
«Negli anni Trenta divenne sempre più difficile distinguere fra i profughi senza “stato” e i normali stranieri residenti» scriveva già mezzo secolo fa, anticipando un tema oggi drammatico
Qui sopra, un barcone di immigrati in cerca di vita nel Mediterraneo. In alto, l’ingresso del lager di Auschwitz. Nella pagina accanto, la filosofa fedesca Hannah Arendt che questo impianto normativo implica un aumento immediato del caos tra i diversi tipi di immigrazione - tra irregolarità e criminalità, tra persecuzione e mercato. Così come è chiaro che un simile approccio tende a ristabilire la perversa alleanza tra organismi statali stigmatizzata più volte dalla Arendt: nel caso dei profughi e dei perseguitati, si fa infatti dettare tempi e modi d’azione non dal loro status ma dagli accordi con i paesi antidemocratici da cui fuggono. Con la conseguenza che di questi paesi accetta almeno provvisoriamente la logica. Chi guarda al reato di clandestinità e alla ratio complessiva del pacchetto sicurezza con un minimo di pro-
spettiva storica o di preoccupazione per il futuro, non può non vedere che, costringendo migliaia di esseri umani a rimanere sospesi tra un’illegalità dovuta alla mera presenza e un limbo in cui sono privati di fondamentali diritti politici e civili, questi provvedimenti evocano di nuovo i fantasmi delle masse «superflue» e degli apolidi novecenteschi: cioè delle prede più succulente per una criminalità che ha buone chances di restare impunita in quanto agisce contro chi ha già perso i diritti legati a una precisa comunità politica.
Per tutti, poi, sembra che l’unica vera garanzia resti il contratto di lavoro: che diventa quindi una segregazione e una schiavitù, anziché un’opportunità e un primo passo verso la nuova vita (anche su questo punto, la filosofia arendtiana ci aiuta a capire qualcosa di essenziale quando ci ricorda che il lavo-
ro, cioè lo spazio oscuro della necessità, è esattamente l’opposto dello spazio pubblico della libertà; e che a differenza della rivoluzione americana, quella francese fu appunto travolta dall’illusione di poter dissolvere i luoghi della politica nella «questione sociale»).
Stando poi ai timori di molti giuristi, i futuri apolidi nel senso più tecnico del termine potrebbero essere i figli dei clandestini non denunciati all’anagrafe, i bimbi di quei «promessi sposi» che oggi (lo hanno detto senza mezzi termini sia un giornale cattolico sia uno storico attento ai diritti civili come Adriano Prosperi) vengono sottoposti alle vessazioni di don Rodrighi e Azzeccagarbugli di Stato. E se è vero che il tentativo di trasformare gli operatori pubblici in una specie di polizia segreta è almeno in parte fallito, è vero anche che gli ostacoli con cui si vuol rende-
re agli irregolari molto difficile, lacerante o addirittura impossibile l’accesso ai principali servizi alla persona, si sono già trasformati in legge. A questo proposito, andrebbe analizzata anche la difesa cavillosa con la quale gli esponenti della maggioranza hanno accompagnato la gestazione dei loro provvedimenti. Di solito, davanti alle critiche radicali si premuravano di ricordare la sussistenza di altre norme più “morbide” (prima sulla discrezionalità della denuncia medica, poi sul permesso di soggiorno prolungato per le partorienti); ma in questo modo, anziché rassicurarci, ci hanno offerto nuovi motivi d’inquietudine. Gli stessi motivi d’inquietudine che suscita la scelta utilitaristica di gruppi privilegiati da salvare (le badanti). Infatti la sovrapposizione incoerente di norme e leggi, nonché la soddisfatta accettazione di un codice da azzeccagarbugli che rende tutto più incerto e aumenta la già amplissima zona grigia dello Stato di diritto italiano, non sfociano soltanto in una involontaria autodenuncia dei propri intenti velleitari. Anzi.
Sbandierare provvedimenti durissimi e accarezzare il pubblico impaurito dicendo che si tratta in realtà soltanto di puntuali ritocchi allo status quo, ha sempre costituito
il doppio binario in uso presso un genere di movimenti novecenteschi che dovremmo ben conoscere. Da più di cento anni dura ormai quella sfiducia nel parlamentarismo che ha continuato ininterrottamente a produrre associazioni politiche assai simili al maggior sponsor del pacchetto sicurezza, e cioè alla Lega Nord. La Arendt ha scritto che questi movimenti prendono in parola il loro nome. Non mirano cioè a un obiettivo stabilizzante, si tratti del federalismo fiscale o delle norme sull’immigrazione (e infatti, molti politici leghisti che avevano legato il loro contributo a uno specifico progetto sono a poco a poco spariti di scena). Questi movimenti, in realtà, tendono al moto perpetuo. La loro specialità consiste nell’innescare una continua proliferazione di norme e di sistemi in cui lo spazio pubblico e quello del movimento stesso vengono a mescolarsi indefinitamente: da qui la consapevole e alimentata confusione tra una psedudocomunità eletta (la Padania) e quella nazionale, tra le forze di fazione (le ronde) e quelle dello Stato.
Il tutto viene poi sottoposto a un’ideologia che riduce la storia a mito, e soprattutto alla spregiudicata volontà del capo: la quale naturalmente possiede l’incoerenza connaturata a ciò che nel tempo si muove senza sosta. Il pacchetto sicurezza è quindi figlio di una classe dirigente che ha adattato in senso regionalistico e postmoderno le aspirazioni dei pan-movimenti novecenteschi. Nessuno come Hannah Arendt ha saputo analizzare i loro virus. Per questo la pensatrice che più d’ogni altra difese la libertà nel secolo della sua cancellazione merita oggi un’attenta rilettura; magari, in primo luogo, da parte di chi della libertà ha fatto il proprio simbolo elettorale.
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
da ”Le Figaro” del 27/08/2009
La svolta zen di Sarkò di Charles Jagu a scelto uno stile diverso il capo dello Stato francese. Rispetto al quinquennio precedente ha optato per toni improntati alla discrezione e ha esercitato l’arte della pazienza. Il 24 luglio 2008, Nicolas Sarkozy ha assaporato la vittoria nella battaglia per la riforma delle istituzioni. E un anno dopo il presidente si trova davanti a un’opposizione totalmente disorientata. Seguendo i dati degli ultimi sondaggi che lo danno al 40 per cento nel gradimento dei francesi, sembrerebbe ancora nella zona d’ombra della minoranza del Paese. Secondo il barometro Ifop/Jdd, sarebbe il diciannovesimo mese al di sotto del 50 per cento delle preferenze. Ciò comunque non gli impedisce di dominare tutto il gruppo dei suoi inseguitori. Ora, l’immagine di Sarkò è improntata «all’amore», come ironizza qualcuno. In poco più di un mese e mezzo il presidente è riuscito a promuovere una nuova immagine personale. Un’operazione «cambia immagine» che in realtà era stata messa in campo già nella tarda primavera del 2008.
H
«Zen», «sereno», «calma» e poi ancora «calma», sono gli aggettivi che abbondano nel linguaggio dell’inquilino dell’Eliseo, riportati da chi lo frequenta quotidianamente. E lui li ripete continuamente. Ma è possibile che sia solo una campagna mediatica orchestrata dall’Eliseo? Il presidente è effettivamente diventato più discreto e paziente. «Non si diventa presidenti della Repubblica nel momento delle elezioni!» è invece il commento che circola tra i suoi più stretti collaboratori. Ciò non significa che Sarkozy abbia dimentica la sfarzosa cena al Fouquet, fatta per festeggiare la vittoria– simbolo del vecchio stile
sopra le righe – ma negli ultimi mesi sembra aver trovato il giusto ritmo. Una via di mezzo tra «il troppo e il non abbastanza» chiosano gli uomini del suo entourage. «Sa mantenere i segreti meglio di prima». Qualcuno prende come esempio l’ultima crisi nei Carabi (pochi mesi fa, a Guadalupe, era esplosa una rivolta antifrancese, a causa degli effetti della crisi mondiale, ndr) . «Di solito, il presidente vuole una risposta immediata e il suo primo istinto e quello di recarsi immeditamente sul posto. Questa volta ha aspettato tre mesi per organizzare un viaggio che è stato un vero successo».
Lo stesso discorso vale per i temi di politica interna, dove gli argomenti andrebbero prima lasciati alla digestione del dibattito pubblico e poi affrontati politicamente. La comunicazione dell’Eliseo, ora, è controllata meglio. Dopo essere stata aperta a tutti i refoli di vento, è diventata quasi ermetica. Il famoso G7, un gruppo di sette ministri che si riuniva spesso col presidente è stato sciolto. Ora ci sono riunioni segrete alle 7.30 del mattino, con Claude Guéant e Jean-Michel Goudard, l’amico di Sarkò tornato all’Eliseo, un anno fa, per prendere il controllo della comunicazione. «Sapete perché i giornalisti non si occupano più di noi? Perché dovrebbero scrivere di temi importanti e non più di frasi rubate qua e là» è il commento favorevole di Xavier Bertrand, segretario generale dell’Ump (il partito cui appartiene il presidente, ndr). In assenza di Sarkozy, durante una riunione ristretta del partito,
i cinque ministri presenti non potevano più far valere la loro «vicinanza» col presidente. Provenendo dal mondo della pubblicità, Goudard ha un solo obiettivo: puntare sull’effetto sorpresa, evitando la fuga di notizie. Così la recente decisione di fare un discorso davanti al Parlamento è rimasta segreta fino all’ultimo. Stessa tecnica adottata per la nomina di Frederic Mitterand (il socialista nominato ministro della Cultura di recente) oppure del tandem dei due ex primi ministri, Alain Juppé e Michel Rocard, come consulenti sulle priorità nelle risorse umane.
Insomma, un vero cambio di stile che tende a ricompensare il merito dei propri collaborati e non trucchi e piccoli ricatti. Durante le riunioni del mattino anche la distanza tra il presidente e suoi più stretti collaboratori sono aumentate, una maniera simbolica segnare il cambiamento di stile. «Ora i segreti sono meglio custoditi».
L’IMMAGINE
Paradosso di spreco per fuochi d’artificio e falsa economia su strade usurate
Con la forza di un capello
Con numerosi articoli e libri, giornalisti hanno denunciato e denunciano l’incessante sperpero della pletorica, invadente e costosa macchina pubblica. Qualche ente pubblico rischia di dare il superfluo, l’effimero e il rinviabile, nonché negare il necessario e prioritario. Il manifesto che ha annunciato la festa di Ferragosto 2009 in Prato della Valle a Padova presentava una ragazza in posizione frontale di tiro, con pistola in pugno pronta a sparare: è immagine inopportuna, che s’aggiunge alla diffusa violenza, nella realtà e nello spettacolo.Tale festa è stata organizzata in collaborazione con il Comune di Padova, che dovrebbe renderne noto il costo complessivo ai cittadini, per doverosa trasparenza. I fuochi d’artificio (previsti per 30 minuti) inquinano – specie acusticamente – e possono apparire dispendio debordante, data l’eccessiva quantità di divertimenti vari. Alla faccia della crisi e delle famiglie che non arrivano a fine mese.
Questo masso nella Birmania (Myanmar) del sud è in equilibrio per un pelo. Anzi, per un capello: si narra infatti che alla base si trovi un capello del Budda. La leggenda nacque quando i primi uomini videro la gigantesca roccia, alta venti metri, sospesa nel vuoto e pensarono che a tenerla in equilibrio dovesse essere qualcosa di miracoloso. Per questo circa duemila anni fa vi edificarono sopra una pagoda
Gianfranco Nìbale
LE COSE DI CASA NOSTRA Ho letto il suo pezzo di Giancristiano Desiderio del 30 luglio. «’A scola è fatta...» e devo dire che ove mai s’applicasse il... “scrivi come mangi”, si capirebbe che lui di cibo non se ne intende. Mi permetto di fare poche osservazioni, giusto per far comprendere il mio pensiero e non occupare molto spazio e tempo. La grafia utilizzata da Desiderio è priva di base, in quanto parte dalla considerazione che il dialetto scritto derivi dall’italiano e così non è, dato che i dialetti, soprattutto quelli meridionali, hanno contribuito a formare l’italiano; ’a capa, ’o sanno, ’u ciel, ’ncoppa, manc’, m’ par, sembra aramabesco, tanto per dire un termine che non esiste; le “lingue” dialettali, hanno sì una propria grammatica, che pochissimi hanno elaborato e
trasmesso ai propri concittadini, e poi tanti cultori, tanti studiosi, tante grafie, tante scritture, perché ognuno rietiene di essere depositario di un sistema ,comprensibile, facilmente trascrivibile. L’articolo determinativo per la maggior parte dei dialetti meridionali è u, semplicemente u, senza orpelli, senza apostrofi o altri segni sia davanti che dietro. Alla considerazione di quanti dicono che esso derivi da un lu, e quindi va l’apostrofo ’u, va detto che se per questo esso deriva da illum, e allora quanti apostrofi si dovrebbere mettere? Anche il giornalista si vede, ha adottato un suo sistema, o perlomeno, ha scritto non come t’ha fàtte màmmete” ma come ha ritenuto più aderente alla parlata, tralasciando e trascurando la grammatica. È importante la funzione
della e muta nel corpo della parola e infine, provi a leggere o marenàre, ed o marnàre, le luminàrie, e le luminàri’; l’uso, anzi l’abuso della j, che non centra nulla; pensi che in molti continuano a scrivere jonico, jonio, japigi, ecc. e mai nessuno è riuscito a comunicarmi il vocabolario su cui avevano trovato tale termine scritto con la j; lo stesso dicasi per innaffiare per annaffiare, polipo per polpo; Desiderio dice ciamm’a mparà;
ma voleva dire “ci dobbiamo imparare” per cui andava scritto ciamm’ a mbarà”; molto interessante il fenomeno della “a” davanti ai verbi, dobbiamo andare: “amme a ì” anche “hamme a ì”, e quindi “hamm’a ì”. Quindi l’idea di base della Lega non è sbagliata, se ciò serve a far conoscere uso, costumi, tradizioni e lingua ai residenti, che sono i primi a non conoscere le cose di casa propria.
Felice Giovine
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Questo tempo implacabile! Ogni volta che tardo a scrivervi, state certo che non mi prendo dei momenti di svago, ma che soccombo ai miei momenti peggiori. È stato cortese voler sapere come stavo, e non è stato scortese da parte mia tenere in sospeso la risposta alla domanda; a dire il vero non sono stata molto bene, e non avevo molta voglia di parlarne. Questo tempo implacabile! Questo vento di levante che sembra soffiare con i sole e con la luna! Chi può star bene con un vento simile? Non ho nulla di davvero grave, come accadeva una volta; mi indebolisco solo più del solito, e apprendo di essere mortale e poi tutto questo deve finire. Aprile sta arrivando. Ci saranno sia maggio sia giugno se vivremo abbastanza per vederli, e forse, dopotutto, è possibile. Inoltre, per quanto riguarda un incontro con voi, noto che dubitate di me, e che forse comprendete qual è la mia ossessione e indovinate che, quando arriva il momento di vedere il volto di un essere umano cui non sono abituata, mi tiro indietro e impallidisco nello spirito. È così? Voi conoscete la natura umana, e sapete quali conseguenze comporta condurre una vita appartata quanto la mia… nonostante tutta la mia bella filosofia sui doveri sociali e cose simili. Elizabeth B. Barrett a Robert Browning
ACCADDE OGGI
L’UNIVERSITÀ ITALIANA TRA ANOMALIE E PALATE DI FANGO Nell’ultimo quindicennio l’editoria italiana ha inondato il mercato con un profluvio di saggi, di valore diseguale, sull’università italiana. Nel 1993, per l’esattezza, veniva dato alle stampe L’Università dei tre tradimenti, pamphlet di successo del linguista Raffaele Simone che impietosamente ma senza acrimonia squadernava i guasti delle università italiane; dalla loro (dis)organizzazione e struttura istituzionale irrazionale e invertebrata, caratterizzata dalla assenza di un vero centro di comando e dalla proliferazione tumorale di cellule di potere e sottopotere, alle diverse forme del malcostume imperante nell’accademia, diffuso sia tra i professori che tra gli studenti, all’assenza di indicatori della qualità del servizio prestato, al tradimento delle due missioni principali, l’insegnamento e la ricerca. Nella premessa Simone notava (e lamentava) l’indifferenza che il mondo della cultura aveva fino a quel momento riservato all’università. Da allora, come dire, molta acqua è passata sotto i ponti. Non tanto per quanto riguarda le ragioni del j’accuse del professore di Linguistica di Roma Tre, alcune delle quali hanno egregiamente e tristemente resistito all’usura del tempo ma perché la solitudine verginale dell’università italiana è stata ripetutamente violata se non dalla curiosità morbosa della cultura “alta”, certamente di quella della galassia dei mass media. Tale curiosità si è tradotta però in una letteratura scandalistica e aneddo-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)
27 agosto 1917 Dieci suffragette vengono arrestate mentre picchettano la Casa Bianca 1937 La Toyota Motors diventa una compagnia indipendente 1943 In Danimarca inizia uno sciopero generale contro l’occupazione nazista 1944 Marsiglia e Tolone vengono liberate dagli Alleati 1955 A Manfredonia il patriarca di Venezia Angelo Giuseppe Roncalli futuro papa Giovanni XXIII incorona l’Icona della Madonna di Siponto 1952 In Lussemburgo terminano i negoziati per le riparazioni tra Germania Ovest e Israele 1962 Viene lanciata la sonda spaziale Mariner 2 1979 Il cantautore Fabrizio De André viene rapito in Sardegna assieme alla compagna Dori Ghezzi 1991 La Moldavia dichiara l’indipendenza dall’Unione Sovietica 2003 Marte passa nel punto più vicino alla Terra degli ultimi 60.000 anni, passando a circa 55.758.006 chilometri dal nostro pianeta
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
tica che si è limitata a registrare singoli seppur frequenti episodi di malcostume, si è accontentata di elencare, affastellandoli, nequizie e scabrosità pur innegabili del ceto accademico e di compiacere e vellicare gli istinti più bassi del lettore, quasi invitandolo ad una sorta di jacquerie contro la fortezza dell’accademia, abitata, manco a dirlo, solo, per l’appunto, da baroni. Qualificare tali atteggiamenti come rozzi e qualunquistici sarebbe peraltro indice di scarso coraggio morale. Noi docenti universitari ci dovremo pur chiedere o no perché assieme alla casta dei politici, dei notai, dei giornalisti, dei magistrati, dei farmacisti e dei tassisti siamo finiti anche noi sul banco degli imputati? Solo per l’atavica tendenza degli italici a disistimarsi e al cupio dissolvi? Ma anche solo il tentare di abbozzare una timida risposta a questi interrogativi esula dal compito di queste note. Qui, infatti, vogliamo segnalare come, nel gorgo voluttuoso di inchieste illuminanti malefatte vere e presunte dell’accademia, inchieste che recentemente hanno compiuto un salto di qualità affiancando, accanto alla cronaca, l’uso, non sempre rigoroso, delle statistiche, è apparso recentemente un volumetto preziosissimo, Malata e denigrata. L’Università italiana a confronto con l’Europa, a cura di Marino Regini, pro-rettore dell’Università statale di Milano e docente di Sociologia economica. Non sono neanche 120 pagine ma è, forse, quanto di meglio sia stato scritto sull’università italiana negli ultimi anni.
LA VALUTAZIONE NELLA SCUOLA Il nuovo disegno di legge numero 953, seguendo i dettami dell’Ocse, inasprisce il concetto e la pratica del sistema di valutazione nelle scuole. Il criterio di efficienza, introdotto come corollario delle teorie sulla one best way, induce il legislatore a provvedere alla costruzione di comitati multipli di valutazione per i docenti e per i discenti. In una logica imperante di contrapposizione fra gruppi e di esasperazione del concetto della necessaria limitazione dei poteri dati dai saperi, tale provvedimento conferisce ad un comitato di valutazione locale-nazionale il giudizio sui singoli docenti. Personalmente non capisco come si possa proseguire su questa via quando il suo parziale utilizzo ha già prodotto effetti perversi ormai conclamati. Il criterio di efficienza e di premiazione quantitativa del lavoro intellettuale ha introdotto anni fa il concetto che chi lavora di più nella scuola guadagna di più. È così che: a) per evitare guadagni privati dei docenti; b) per raggiungere maggiori livelli di efficienza del sistema sono stati elaborati piani di recupero dei livelli per i discenti in difficoltà. Il risultato è stato che i docenti che non raggiungono significativi successi durante le ore curriculari possono chiedere ore supplementari pomeridiane ben pagate. È così che accade che guadagnano 5/6000 euro in più all’anno i professori che hanno avuto un gran bisogno di ore supplementari per svolgere il loro compito, mentre sono stati economicamente svantaggiati e meritocraticamente emarginati coloro che hanno raggiunto i loro obiettivi nel tempo e nel modo stabilito. A prima vista è un chiaro ossimoro. In compenso questo sistema ha indotto il corpo docente a non porsi tante domande sull’impostazione etica dei rapporti fra professionisti appartenenti allo stesso “albo”. Chi intende proseguire sulla linea prospettata ha tenuto conto di questi meccanismi, spero non previsti? Marina Rossi PRESIDENTE CIRCOLI LIBERAL CITTÀ DI MILANO
APPUNTAMENTI SETTEMBRE 2009 LUNEDÌ 7, ROMA, ORE 11 HOTEL AMBASCIATORI - VIA VENETO Riunione straordinaria del Consiglio Nazionale dei Circoli liberal. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
Luca Tedesco
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
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PAGINAVENTIQUATTRO Misure. Cambiano le abitudini per il consuno della birra: come aveva previsto l’autore di «1984»
La pinta e la profezia di Maurizio Stefanini e l’ho chiesto educatamente, no?, chiese il vecchio, drizzando le spalle con aria spavalda. “E tu vuoi farmi credere che in questo locale di merda non c’è neanche un bicchiere da una pinta?”. “E che diavolo sarebbe, questa pinta?“, rispose il barista, appoggiando la punta delle dita sul banco.“Sentitelo, dice di essere un barista e non sa che cos’è una pinta! Ma ti devo proprio insegnare l’alfabeto! Sta’a sentire, una pinta è la metà di un quarto e quattro quarti fanno un gallone”. “Ma senti”, tagliò corto il barista.“Qui serviamo solo litri e mezzi litri. I bicchieri stanno sulla mensola davanti a te”. “Voglio una pinta”, insistette il vecchio.“Che ci vuole a darmi una pinta? Quand’ero giovane questi litri del cazzo non esistevano”.“Quando tu eri giovane, vivevamo ancora sugli alberi”, disse il barista lanciando uno sguardo a presenti.Tutti scoppiarono a ridere e il disagio causato dall’entrata di Winston sembrò dissolversi”.
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A un quarto di secolo di distanza da quel 1984 che aveva ispirato il titolo del terrificante romanzo di George Orwell, sta per verificarsi una delle allucinanti profezie che avevano terrorizzato gli inglesi: la scomparsa della pinta! È lo stesso
ministero dell’Interno che ha commissionato un nuovo modello di bicchiere, rigorosamente di plastica, per evitare che la pinta in vetro continui a essere usata come arma impropria dagli ubriachi. Solo nel 2008 ci sarebbero state ben 5500 aggressioni a bicchierate: il tutto con un costo che tra ospedali, interventi della polizia e processi viene stimato in 100 milioni di sterline l’anno. Al che gli ecologisti già ribattono che il costo di smaltimento per tutta quella plastica sarà molto maggiore. Con tutta la crisi che c’è stata nel consumo dei pub, dai 29 milioni di pinte al giorno di 28 anni fa ai 15 milioni di oggi, fa sempre di 9,5 miliardi di bicchieri all’anno.
Ma più arrabbiati ancora degli ecologisti sono gli intenditori. «Mezzo litro non va bene, non mi soddisfa. Un litro è troppo, mi mette subito in modo la vescica e costa un accidente», si lamentava in 1984 il vecchietto da cui Winston cerca di informarsi di come si viveva nel passato. E già una battaglia l’associazione dei gestori di pub ha dovuto condurla, vincendola, per mantenere la classica capacità da 0,568 litri (o in alternativa la mezza pinta da 0,284, per chi beve di meno). La British Beer and Pub association osserva anche che «la pinta in vetro si riempie più facilmente, ha un buon peso e la bevanda la bagna in modo ottimale»: «È una bella sensazione tenere in mano una pinta di vetro». Inoltre, spiegano sempre gli intenditori, ogni tipo di birra richiede un contenitore specifico. Il classi-
DI ORWELL co pint glass a forma di cono rovesciato con il suo slargo subito sotto l’orlo neutralizza qualsiasi velleità di schiuma delle bitter ales e valorizza invece la cream delle birre stout scure: va bene dunque per quasi tutti i tipi di birra inglese, scozzese e irlandese. Ma la pinta è di rigore
«Alla Luna in fondo al pozzo sono molto scrupolosi nella scelta dei recipienti in cui vi servono le bevande. Per esempio, non fanno mai l’errore di porgervi una punta di birra in un bicchiere senza manico. Oltre ai boccali di vetro e peltro ne hanno alcuni di porcellana color fragola che ormai a Londra si vedono solo raramente. I boccali di porcellana sono passati di moda una trentina di anni fa perché la maggior parte della gente vuole vedere in trasparenza ciò che vede; ma io trovo che la birra abbia un gusto migliore nella porcellana». Nella Fattoria degli animali Orwell indica poi nell’accesso alla birra un motivo per cui i maiali sono «più uguali degli altri». Ne Il Leone e l’Unicorno Il socialismo e il Genio Inglese fa della birra “più amara” rispetto al Continente un’icona dell’identità nazionale. In un suo famoso articolo del gennaio 1944 inizia dalla “leggenda”della birra che svapora «se uno c’immerge i baffi» un saggio sulle “convinzioni erronee”del popolino degno di stare accanto all’altro saggio sugli “errori degli antichi” di Leopardi. E in Una boccata d’aria la fine dell’Inghilterra della sua infanzia è simboleggiata dalla scomparsa della «vecchia buona birra Thames Valley, che vi metteva un certo pizzicorino perché preparata con acqua calcarea», deplorando la“porcheria”dal“sapore disgustoso di zolfo”che gli hanno servito. «Dicono che, oggigiorno, il luppolo d’Inghilterra ha smesso di trasformarsi in birra; tutto si trasforma in sostanze chimiche, e queste, a loro volta, diventano birra».
È stato lo stesso ministero dell’Interno britannico a commissionare un nuovo modello di bicchiere, di plastica, per evitare che il vecchio e classico contenitore di vetro continuasse a essere usato come arma impropria dagli ubriachi anche per l’olandese Heineken, per quell’argentina Quilmes che è infatti anch’essa fabbricata con malto Heineken, per l’italiana Pedavena e per la croata Crystal, e va bene anche per l’originale Pilsner ceca, anche se questa tollera anche il calice a chiudere consigliato invece per la maggior parte delle birre italiane. Compresa quella Peroni che invece ha in etichetta un bevitore con boccale tedesco…
Orwell al problema dedicò una pagina famosa in un breve scritto dedicato al suo pub preferito, La luna in fondo al pozzo.