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Chi non conosce la verità

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è uno stolto, ma chi, conoscendola, la chiama menzogna è un delinquente

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Bertolt Brecht di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 17 SETTEMBRE 2009

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Berlusconi Occupazione Indici di ascolto al minimo: meglio Garko che lui. Il presidente Rai contesta gli attacchi ai giornalisti. La Vigilanza convoca Masi in audizione. Valeva la pena di scatenare tutto questo putiferio?

alle pagine 2 e 3

L’Ocse avvisa l’Italia: «Il peggio deve ancora arrivare». Nel 2010 ci sarà quasi un milione di disoccupati in più rispetto a quest’anno. Siamo preparati?

FLOP SOS

Guerra sui “brogli” in Afghanistan

Ancora forte lo scontro sul futuro

Savino Pezzotta sulla strategia Udc

alle pagine 4 e 5 Le richieste dei sessanta a Berlusconi

Vince Karzai: Nell’Iran diviso «Non ci si può Caro Cavaliere, ma Obama punta Karroubi certo alleare non sottovaluti sul ballottaggio diventa un eroe con chi ti insulta» la nostra lettera di Enrico Singer

di Michael Ledeen

di Franco Insardà

di Gennaro Malgieri

he le elezioni in Afghanistan non avrebbero risolto, da sole, il conflitto era una facile previsione. Ma adesso il rischio è che lo complichino. Dovevano dare maggiore legittimità al presidente uscente Hamid Karzai, vincitore annunciato di una consultazione dove l’appartenenza tribale pesa più di qualsiasi scelta di campo. Stanno precipitando in un pozzo senza fondo di denunce di brogli che riducono la credibilità di un risultato che la commissione elettorale definisce «finale ma non ancora definitivo» e che assegna a Karzai, di etnia pashtun, il 54,6 per cento dei voti contro il 27,8 ottenuto dal suo sfidante, Abdullah Abdullah che appartiene alla minoranza tagika. Secondo gli osservatori della Ue addirittura un milione e mezzo di schede – come dire un quarto del totale – sarebbero state manipolate.

enerdì. La prova di forza programmata per domani (l’ultimatum del governo iraniano ai riformisti) sta diventando sempre più drammatica. Mentre il regime ancora non si è mosso contro i reali leader dell’opposizione, questi stanno radunando soci e parenti vicini, sperando presumibilmente di mettere a tacere Mousavi e Karroubi, e stanno minacciando Rafsanjani per tenerlo in riga. Hanno quindi arrestato tre nipoti del grande ayatollah Montazeri, che ha rivolto un appello a tutti gli ecclesiastici per combattere il regime insieme ai leader religiosi di Qom. Il NYTimes ha scritto: «Questa tattica non funzionerà contro Mousavi e Karroubi, fermamente convinti di essere nel giusto (sono profondamente religiosi) e che la loro causa vincerà, anche se dovessero morire».

li attacchi di Silvio Berlusconi, dalla tribuna televisiva di Porta a Porta, rivolte all’Udc hanno fatto registrare la reazione immediata di Pier Ferdinando Casini, intervenuto telefonicamente per replicare e per chiarire che, dopo quel giudizio, il suo partito non accetterà alleanze con il Pdl alle Regionali. Ma tutti i centristi non ci stanno e il presidente della Costituente di Centro, Savino Pezzotta ci tiene a sottolineare: «Accetto gli auguri del presidente Berlusconi avendo chiara la prospettiva di poter fare una battaglia per sgretolare questo sistema bipartitico e, soprattutto, per innovare la politica italiana. Credo che il nostro compito sia quello di proseguire questo percorso, correndo anche da soli se necessario. Bisognerebbe, poi, capire chi davvero utilizza sistemi clientelari».

e semplificazioni in politica servono a complicare la comprensione delle sue dinamiche. Definire “dissidenti”,“finiani doc”,“irriducibili di An” i deputati (quasi tutti) che hanno firmato l’ormai arcinota lettera a Berlusconi, con la quale chiedono maggiore collegialità nelle decisioni, un patto di consultazione tra il Cavaliere e il co-fondatore del Pdl, un’autonomia più marcata dalla Lega, è appunto il miglior modo per banalizzare una tappa di un processo politico significativo che sembra essersi avviato nel Pdl. L’iniziativa, assunta tra lo stupore di molti pidiellini che immaginavano un flop e il disappunto di alcuni ex-colonnelli della dissolta destra i quali (non si capisce perché) la ritenevano un errore, ha forse (se gli esiti saranno quelli sperati dai promotori) rimesso in moto la macchina.

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I QUADERNI)

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IN REDAZIONE ALLE ORE

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Auditel. La contestata trasmissione dall’Aquila ha avuto meno spettatori della fiction di Canale5 con Gabriel Garko

Onde anomale

Flop di ascolti per lo show del premier da Vespa. Il presidente Rai difende i giornalisti dagli attacchi e la Vigilanza convoca Masi di Errico Novi

ROMA. Ce ne sono a bizzeffe, di significati sottesi, nella paradossale storia del flop berlusconiano in tv. Intanto ce n’è uno rassicurante: di fronte alla scriteriata bolgia mediatica scatenata dai gossip e poi riaccesa dalle bordate di Feltri, gli italiani fanno spallucce. Se ne infischiano. Mostrano di non avere più interesse per la politica intesa come arena e la partecipazione imposta come tifo da stadio. Il tempo del bipolarismo avvelenato sopravvive solo nella testa dei suoi epigoni, non in quella degli elettori, per fortuna. È per questo che martedì sera Silvio Berlusconi ha fatto un buco nell’acqua ed è uscito clamorosamente sconfitto nella battaglia dell’auditel: la puntata di Porta a porta organizzata per celebrare la consegna delle prime (eppur provvisorie) case agli sfollati abruzzesi ha racimolato un non lusinghiero 13,4 per cento di share, addirittura sette punti in meno rispetto alla fiction mandata in onda alla stessa ora da Canale 5: L’onore e il rispetto, interpretata da Gabriel Garko e incentrata sulla storia di due fratelli, uno magistrato e l’altro mafioso, ha sfondato il muro dei venti punti (22,6) per un totale di 5 milioni e 750mila contatti, mentre Bruno Vespa e il premier si sono fermati a 3 milioni e 200mila. Il presidente del Consiglio ha esibito un’aria non proprio distesa già durante la diretta: figurarsi la reazione che ha avuto ieri di fronte all’impietosa statistica. Prima ancora delle polemiche e degli effetti indesiderati

– dalla convocazione del direttore generale della Rai Mauro Masi in Vigilanza alla durissima replica del presidente di Viale Mazzini Paolo Garimberti – colpisce che Berlusconi sia inciampato proprio su un terreno che gli è da sempre congeniale, quello dell’autopromozione mediatica, appunto. Strano segnale, come se la cupa rabbia vendicatrice che lo im-

prigiona da qualche settimana ne avesse arrugginito le consuete abilità. Soprattutto, il Cavaliere si è trovato quasi in solitudine, nella sua ossessione per l’immagine da ricostruire dopo gli attacchi sulla vita privata. Ha dunque gioco facile Roberto Zaccaria nell’assestargli la battuta più acida del day after: «Un dubbio si affaccia inquie-

E Sky querela Mediaset: «Concorrenza sleale» MILANO. La guerra tra Sky e Mediaset finisce in tribunale. E con accuse pesanti. Sky Italia ha presentato un’azione legale al tribunale di Milano contro le società del gruppo Mediaset Rti e Publitalia per violazione delle regole Antitrust in base all’articolo 82 del Trattato Europeo e per concorrenza sleale. L’annuncio è arrivato dalla medesima News Corporation di Rupert Murdoch con una nota. In pratica, Sky sostiene che le reti Mediaset gli negano spazi pubblicitari (a pagamento) per annunciare le partite di calcio. Secondo i legali di Murdoch, con questo rifiuto a Sky da parte di Canale 5, Italia 1 e Rete 4, sono stata violate le norme della concorrenza europea, così come le regole sulle comunicazioni in Italia. La disfida tra Murdoch e Berlusconi continua. Per altro, sui risultuati dell’Auditel di ieri le partite di calcio trasmesse da Sky hanno pesato solo relativamente, dal momento che 1.634.436 spettatori (6% di share) hanno visto i match della prima giornata della fase a gironi della Champions League, in onda dalle 20.45, con una crescita di 200 mila spettatori medi rispetto alla giornata inaugurale della scorsa edizione della Champions.

tante e sarebbe interessante una risposta dagli esperti dell’auditel: possibile», chiede il deputato del Pd, «che il 68 per cento di gradimento del presidente del Consiglio sia calcolato su quel totale di 13,4 di share? Berlusconi continua a ripetere che il suo gradimento è il più alto mai registrato da un uomo politico, ma non è facile capire come sia calcolata una simile percentuale». Colpito nel vivo, evidentemente. Ma al di là dell’analisi dei dati, resta appunto l’impressione rassicurante che gli italiani non vogliano farsi trascinare a tutti i costi nell’arena e non siano disposti a fare sempre da claque per il Cavaliere, a prescindere dalla posta in gioco. Così è difficile dare torto a Massimo D’Alema quando nota che i telespettatori «disertando la trasmissione» hanno dato «segni di buonsenso». E la stessa chiosa di Dario Franceschini («il premier è ormai privo di argomenti, nervoso e impaurito») non può essere liquidata come semplice propaganda.

Tanto più che il capo del governo paga un prezzo piuttosto alto per la ricerca dell’audience a tutti i costi e soprattutto per il furore con cui ha trasformato una trasmissione sul post-terremoto in una sventagliata di insulti a politici e giornalisti («tanti farabutti») e a partiti di opposizione (compresa l’Udc). Di fronte alla risposta pesantissima di Garimberti, Berlusconi non può far altro che prendere e portare a casa: «Il diritto di critica al nostro operato è legittimo, la delegittimazione sistematica e l’insulto no», dice il presidente della Rai, «in tutte le democrazie occidentali le tv pubbliche sovvenzionate dal canone criticano governi, coalizioni, partiti e singoli politici senza che nessuno gridi allo scandalo. Gli uomini pubblici e di governo che pensano che la Rai debba astenersi dal riportare critiche alla loro parte scambiano il servizio pubblico con le televisioni di Stato che operano in regimi non democratici». Senza perifrasi. E ancora: «Gli attacchi a singole

trasmissioni della Rai e gli insulti ai suoi giornalisti vanno respinti con la massima fermezza: quelli a Vespa come quelli indirizzati a RaiTre, Ballarò, a Report, ad AnnoZero e a tutti i lavoratori del servizio pubblico attaccati proprio nella trasmissione di Vespa».

Sulla stessa linea di difesa dell’azienda si schiera anche il presidente della Vigilanza Sergio Zavoli, che avoca a sé tutti i casi degli ultimi giorni e fissa l’audizione con il direttore generale Masi per mercoledì prossimo: «C’è il rischio che ricorrenti polemiche strumentali

Sette punti di share in meno rispetto alla miniserie: la stecca di Berlusconi dimostra che gli italiani non lo seguono più nell’arena


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uesta è la storia dei sette errori che Silvio Berlusconi - sperando che non mi dia del “farabutto” - ha commesso nella ormai supernota vicenda della esclusiva di Bruno Vespa sulla consegna delle prime casette di legno ai terremotati dell’Abruzzo. Errori che sono abbastanza visibili ora, quando il latte è stato versato, ma che con un po’ di attenzione il Cavaliere avrebbe potuto evitare se solo avesse mantenuto lucidità e stile.

Q

PRIMO. Porta a Porta poteva tranquillamente essere anticipata al giorno prima: così non avrebbe subito una cattiva campagna pubblicitaria; avrebbe quindi lasciata inalterata la programmazione di Ballarò di Giovanni Floris dando una buona lezione di stile; avrebbe evitato l’ennesima accusa di autoritarismo, censura e monopolio dell’informazione; avrebbe permesso al Cavaliere di vedersi in santa pace il suo Milan e godersi la doppietta di Pippo Inzaghi (cosa piuttosto rara di questi tempi privi della ferrea volontà di Carletto Ancelotti). Invece, l’esclusiva di Raiuno si è trasformata in un classico boomerang sia per l’opinione comune sul significato dell’esclusiva, sia per l’audience che è stata un vero e proprio flop per la noia della trasmissione.

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Nel piccolo schermo il Cavaliere mostra tutta la sua debolezza politica

I sette errori capitali del grande comunicatore

Invece di aggredire giornali e partiti, il premier avrebbe dovuto parlare solo dell’Abruzzo. Insieme a Dellai e alla Croce Rossa di Giancristiano Desiderio sua città è L’Aquila e si può capire quanto ci tenesse personalmente a presentare ai suoi conterranei in prima serata e in splendida solitudine le casette fatte in tempi record. Però, come non vedere che la formula della trasmissione era sbagliata fin dal concepimento. È vero che il governo, come princi-

«Porta a Porta» poteva tranquillamente essere anticipata al giorno prima: non avrebbe subìto una campagna pubblicitaria contraria e avrebbe lasciato il campo a «Ballarò», dando una buona lezione di stile

SECONDO. Anche Matrix ha passato la mano. Ma c’era proprio bisogno di fare questa scelta così “tafazziana”? Naturalmente, non è stato il capo del governo a decidere di modificare il palinsesto di Canale5, perché non è davvero questo il suo stile e quando dice di non aver mai telefonato a nessuno dei suoi direttori per segnalare o esprimere questo o quel desiderio, se non quel comando, c’è da credergli. Così hanno sempre ripetuto Feltri, Mentana e lo disse anche Montanelli, anche se questa è davvero tutta un’altra storia. Tuttavia, se Berlusconi avesse telefonato per dire «guardate, stasera lasciate perdere Matrix perché dobbiamo dare tutto lo spazio a Raiuno» sarebbe stato anche meglio, dal momento che Canale5 decidendo autonomamente ha fatto la figura di conoscere i desideri del premier meglio dello stesso premier. Insomma, il confine tra l’autonomia e il servilismo qui è davvero piccolo e lo si poteva evitare con una piccola accortezza. Come dire: l’essere è importante, ma anche l’apparenza ha la sua importanza. TERZO. Probabilmente il vero decisore della serata in esclusiva è stato Bruno Vespa. È abruzzese, la possano ridurre il compito della Vigilanza a una sorta di liturgia a posteriori, prevalendo così sull’indirizzo, compito via via venuto meno», lamenta tra l’altro il vertice della commissione bicamerale. Non sono mancate

pale istituzione, consegnava le chiavi di casa ad alcune famiglie rimaste senza un tetto, ma è pur vero che i protagonisti più reali e concreti, quelli che hanno realizzato quotidianamente il lavoro - pensiamo alla Croce Rossa - ebbene, costoro non c’erano. La trasmissione è stata concepita male perché era stata pensata intorno alla figura di Berlusconi e non intorno all’Abruzzo, alla sua gente e chi vi ha lavorato. Un errore grave, questo.

QUARTO. La noia di Porta a Porta, che pure non è in genere una trasmissione noiosa, era palpabile in ogni minuto e in ogni inquadratura. Lo spettatore voleva vedere l’Abruzzo, ma dopo mezz’ora di messa cantata in favore del premier si è passati a tutt’altro con Berlusconi che ancora una volta recitava nella parte di «uno contro tutti». Anche questo un errore marchiano perché il presidente del Consiglio avrebbe dovuto avere la sensibilità di mettersi da parte per far apparire al suo posto il Paese che, invece, è stato cancellato

proteste dal sindacato dei giornalisti, dall’Usigrai e dall’associazione dei dirigenti della tv pubblica (di cui fanno parte anche quei conduttori messi all’indice durante Porta a porta). Il capogruppo dell’Udc in Vigilan-

za Roberto Rao non può che far notare come il telespettatore sia più interessato «al contradittorio che ai monologhi», come dimostra «il picco dell’audience registrato in corrispondeneza dell’intervento di Casini». I dati,

dietro il suo forzato sorriso. Anche questo un errore imperdonabile.

QUINTO. Presidente, ma in quella che doveva essere una serata di festa, di rinascita lei si mette a inveire «giornalisti farabutti»? Ma come le è saltato in mente? Un gesto di stizza? Dunque, un errore frutto di emozione fuori controllo. No, non credo. Credo invece che si sia trattato di calcolo, ma mai nessun calcolo è stato più sbagliato. La battaglia contro i giornalisti - siano o no farabutti, questo è davvero secondario - non è una battaglia persa, ma è una lotta che lei non avrebbe mai dovuto ingaggiare. E non per il noto conflitto d’interessi, ma semplicemente perché il capo del governo fa altro.

SESTO. Ha mischiato troppe cose. La serata in esclusiva valeva per il terremoto dell’Abruzzo e lei invece ne ha approfittato anche per discutere del terremoto nel Pdl dando la netta sensazione - come giustamente ha fatto rilevare Massimo Franco - che la frattura tra lei e Fini sia molto ma molto più profonda di quanto non si immagini. SETTIMO. Non è riuscito a controllarsi e per la prima volta - se si guarda la registrazionme della trasmissione lo vedrà personalmente - ha perso quel senso dell’ironia che a conti fatti le permette di avere un filo diretto con gli italiani. A tirato fuori il suo preferito cavallo di battaglia - i comunisti - e Vespa si è sentito in dovere di farle notare che i comunisti non sono presenti in parlamento e lei ha risposto con maggior stizza dicendo: «La prego, dottor Vespa, di non correggere il presidente del Consiglio…». Andiamo, presidente, si rilassi. Questi sono i sette macro errori di Silvio Berlusconi. Uno più incredibile dell’altro perché frutto di stanchezza, poca lucidità e debolezza politica.

dice il parlamentare, «più che eccitare i partiti dovrebbero far riflettere l’azienda». Dovrebbero insegnare qualcosa a Berlusconi, che non sfugge al nuovo affondo di Famiglia cristiana: «Mentre l’autunno si annuncia

duro per lavoratori e famiglie si fa finta che va tutto bene: l’importante è spargere ottimismo a piene mani, celebrare i trionfi del Principe all’Aquila, nascondendo i problemi». È il bello della diretta.


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Recessione. Continua l’altalena di dati confortanti e previsioni difficili. Il futuro sarà duro soprattutto per il mondo del lavoro

Sos disoccupazione L’Ocse prevede un 2010 nero. «Specie in Italia, dove il governo fa troppo poco» di Alessandro D’Amato

ROMA. «Crescono segnali che il peggio sia ormai alle spalle e che la ripresa possa essere vicina ma per l’occupazione nel breve termine le prospettive sono ancora fosche». Stavolta l’allarme viene dall’Ocse, che nel suo Employement Outlook 2009 mette a nudo tutti i rischi di questo periodo di fine recessione, dove, avverte l’organizzazione parigina, è necessario non abbassare la guardia. «La crisi ha già provocato nell’area Ocse quasi 15 milioni di disoccupati e le condizioni del mercato del lavoro sembrano destinate a peggiorare ancora, con il rischio che la perdita di posti arrivi a oltre 25 milioni a fine 2010 rispetto al 2007, portando il totale dei disoccupati al record di 57 milioni», dice l’Outlook. Anche perché ripresa economica e occupazione viaggiano su un doppio binario: anche quando la crescita ricomincia, c’è bisogno di almeno un semestre per consentire alle imprese di esaurire le scorte accumulate e aumentare progressivamente la produttività.

L’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico prevede così che nella seconda metà del 2010 il tasso di disoccupazione nell’area si avvicinerà a un nuovo massimo dal dopoguerra (10%, con 57 milioni di disoccupati) dopo l’8,3% di giugno di quest’anno, già il più alto sempre dal dopoguerra. Ecco perché Angel Gurria, segretario generale dell’Ocse chiede ai governi dei 30 paesi membri di non abbassare la guardia sul fronte degli aiuti ai disoccupati e sulle politiche di sostegno ai più poveri anche se questo potrebbe peggiorare i conti pubblici - e alla banche centrali di non alzare i tassi di interesse per non gelare la ripresa in atto. I governi negli ultimi tempi hanno agito sul fronte della protezione sociale per prevenire i rischi da una disoccupazione crescente e prolungata: «Le reti di sicurezza si stanno rinforzando grazie agli investimenti sulle politiche del mercato del lavoro ma deve essere fatto di più». Gli investimenti nelle politiche attive del lavoro «in molti Pae-

si sono abbastanza modesti. Questa sembra un’occasione persa». Anche se, ricorda l’Ocse, «le misure adottate per ridurre i costi sociali della crisi economica debbono essere definite in modo tale da non compromettere l’efficienza del mercato del lavoro nel lungo periodo».

E a tremare dev’essere soprattutto il Belpaese. Se in alcune nazione come Irlanda, Giappone, Spagna e Stati Uniti, già nel 2009 si è registrato un forte aumento di disoccupati a causa della crisi economica, «in altri Paesi, inclusi Francia, Germania e Italia, la

gran parte della crescita della disoccupazione deve ancora arrivare». È la Spagna, con un tasso di disoccupazione al 18,1% a giugno il paese che finora ha pagato il tributo più grande alla crisi in termini di lavoro. In Francia il tasso è al 9,4% a metà di quest’anno, mentre in Germania è al 7,7%. I dati italiani sono invece disponibili fino al primo trimestre 2009 quando la disoccupazione era al 7,4%, leggermente inferiore rispetto al 7,5% registrato nell’area sempre nei primi tre mesi di quest’anno. La stima a fine 2010 è di 1,124 milioni disoccupati in più rispetto al 2007, di cui oltre

Renata Polverini, Ugl: una moratoria come per le imprese

Giacomo Vaciago: solo il Sud avrà problemi reali

«Difendiamo i debiti delle famiglie»

«Lavoratori salvati dalle loro aziende»

ROMA. «Bisogna sostenere i

ROMA. «Secondo me, l’allar-

redditi e le imprese sane, quelle disposte ad innovare i prodotti, ad investire in ricerca». È questa la ricetta del segretario generale dell’Ugl, Renata Polverini, a proposito della crisi economia e dei suoi riflessi sul mondo del lavoro. «Quella che stiamo attraversando ha detto ancora Polverini- è una crisi di reddito, scatenata dai mutui subprime e da un aumento sconsiderato del credito al consumo. Si deve intervenire sulla distribuzione della ricchezza: se la crisi in America ha investito i ceti medio alti, i professionisti della finanza, in Italia ha travolto altre tipologie di lavoratori e di famiglie, quel ceto medio che ancora prima della recessione, gia’ aveva subito un progressivo impoverimento del proprio potere d’acquisto. Non ci troviamo - ha aggiunto solo di fronte alla necessità di continuare a proteggere i posti di lavoro, ma di aumentare i redditi, dimenticati da almeno quattro finan-

me disoccupazione per l’Italia è eccessivo», va controtendenza Giacomo Vaciago, professore di Economia all’Università Cattolica di Milano. «L’industria italiana stringerà i denti ma non licenzierà, la disoccupazione avanzerà meno del previsto». Vaciago sottolinea che «se le aziende non hanno mandato i lavoratori a casa lo scorso anno, quando eravamo in piena crisi, non lo faranno di certo ora. I lavoratori si ritroveranno per strada solo se l’azienda chiude i battenti, ma questo rischio esiste solo per alcune piccole imprese». Per capire come l’Italia non toccherà livelli di disoccupazione alti, come ad esempio quelli spagnoli, Vaciago spiega: «C’è sempre una cosa che scordiamo: nel 2009 abbiamo avuto una crisi manifatturiera. Quindi nel nostro Paese l’area che doveva subire il colpo era il trapezio industriale Torino-TriesteAncona-Firenze, ma qui le imprese non hanno licenziato visto che per questioni demografiche i buoni operai sono

ziarie, a fronte di una tassazione elevata, affinché stimolando i consumi e il mercato interno si possa aiutare anche la produzione e l’occupazione». Polverini ha inoltre ribadito la richiesta avanzata da tempo dall’Ugl «di estendere anche alle famiglie la moratoria sui debiti già prevista per le imprese, per agevolare quanti, a causa della crisi, hanno visto ridursi il proprio reddito perché in cassa integrazione o peggio ancora per aver perso il posto di lavoro e non possono garantire i pagamenti alle banche».

scarsi e per competenze difficilmente sostituibili. Mentre, paradossalmente i senza lavoro aumenteranno al Sud, dove però l’impatto sarà limitato a causa della scarsa industrializzazione del Mezzogiorno». Per evitare il pericolo di perdere il controllo sulla disoccupazione, secondo Vaciago la ricetta che deve seguire il governo è quella che si conosce: «Da parte sua l’esecutivo deve fare un uso intelligente degli ammortizzatori sociali, realizzare opere pubbliche e incentivare gli investimenti». In attesa che passi la nottata. (a.d’a.)


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17 settembre 2009 • pagina 5

L’ad di Fiat e Chrysler chiede di prolungare al 2010 gli aiuti di Stato

Marchionne batte cassa: «Incentivi o disastro» di Vincenzo Bacarani

ROMA. Stavolta l’amministratore delegato di Fiat, Sergio Marchionne, rischia di ritrovarsi a combattere da solo una battaglia che appare difficile da vincere. Ieri, nell’ambito del Salone internazionale dell’auto di Francoforte, il numero uno di Fiat ha lanciato l’ennesimo grido di aiuto. «Se non ci sarà un prolungamento – ha detto – degli incentivi auto anche nel 2010, sarà un disastro». Insomma, il Lingotto torna dal governo a batter cassa. A Francoforte Marchionne ha anche affermato che Fiat, da sola con Chrysler, raggiungerà l’obiettivo di 5,5-6 milioni di vetture. Il piano industriale di Chrysler sarà presentato a novembre: la ristrutturazione del gruppo americano è un processo lento che richiederà tempo, ma l’amministratore delegato del Lingotto è fiducioso e si attende «miglioramenti significativi nel 2010». Quanto ai conti, «gli obbiettivi del terzo trimestre sono in linea con quanto previsto» e sono confermati gli obiettivi per il 2009. Marchionne non ha voluto fornire indicazioni sull’andamento del mercato italiano dell’auto italiano a settembre. Ma certamente il mercato, anche se ha dato qualche timido segnale di ripresa, appare a corto di ossigeno tanto da spingere l’ad del Lingotto a lanciare il grido d’allarme: «O incentivi o disastro».

– almeno in parte – lo stile di vita di milioni di persone. Ed è altrettanto chiaro che la più grande azienda italiana stia cercando vie d’uscita rapide per tornare ai livelli di qualche anno orsono, ma non sempre le scorciatoie potranno avere effetti duraturi. Ne sono consapevoli gli stessi sindacalisti. Per Bruno Vitali, responsabile settore auto della Fim-Cisl, quella di Marchionne è stata un’uscita dettata dalla situazione contingente. «C’è una ristrutturazione in atto a livello mondiale nel settore auto – dice Vitali – e quindi credo che Marchionne voglia sottolineare come in questi momenti sia necessario uno sforzo in più. Gli incentivi servono anche per l’occupazione. Però direi che vanno bene sì gli incentivi, ma solo per il prossimo anno. Poi basta». D’accordo anche la Uilm. Spiega a liberal, Eros Panicati, segretario responsabile di settore: «Gli incentivi hanno prodotto risultati, su questo non c’è dubbio. Tuttavia ci sono importanti segnali di ripresa. Non mi sembra che la situazione sia così drammatica da poter dire che potrebbe andare tutto a rotoli, che potrebbe profilarsi un disastro».

Il paradosso è che i rappresentanti dei lavoratori questa volta sono scettici sull’efficacia delle misure a sostegno della vendita delle automobili

850mila in più rispetto al primo trimestre 2009, con un tasso di disoccupazione al 10,5%.

A preoccupare, nel caso italiano, sono soprattutto le condizioni di giovani e precari. Il tasso di disoccupazione giovanile, infatti, era già molto più alto della media Ocse prima della crisi, anche se era diminuito significativamente nel decennio precedente e la percentuale dei giovani occupati è 20 punti percentuali sotto la media dell’area. Rispetto a un anno prima, nel marzo del 2009 l’Italia aveva perso 261.000 posti di lavoro temporanei o con contratti atipici (inclusi i collaboratori coordinati e continuativi e occasionali), un numero che da solo è superiore all’intera contrazione dell’occupazione regi-

E da Parigi arriva anche qualche critica all’esecutivo. «L’azione del governo si è concentrata sul sostegno alla domanda di lavoro attraverso la messa a disposizione di fondi addizionale per la Cassa Integrazione Guadagni (Cig). Tuttavia il numero di lavoratori e imprese ad aver accesso alla Cassa Integrazione rimane limitato, anche se sono stati compiuti sforzi per estenderne la copertura. Di conseguenza, rilevanti segmenti di popolazione restano sprovvisti di una protezione adeguata per aiutarli a superare la crisi». Anche perché l’Italia è tra i Paesi industrializzati meno generosi nelle indennità ai disoccupati: siamo al terzultimo posto nell’Ocse, con un tasso netto di sostitu-

A preoccupare, nel caso italiano, sono soprattutto le condizioni dei giovani e dei precari. Il tasso di disoccupazione giovanile, infatti, era già molto più alto della media Ocse prima della crisi strata nello stesso periodo. «Il tasso di disoccupazione della fascia d’età compresa tra i 15 e i 24 anni è cresciuto di 5 punti percentuali in Italia nell’ultimo anno ed è ora pari al 26,3% - dice l’Ocse - Traiettorie simili si notano in altre economie avanzate, dove i lavoratori che erano già svantaggiati prima della crisi, hanno sopportato gran parte del costo delle perdite occupazionali».

zione rispetto al reddito da salario del 37% e solo per il primo anno di disoccupazione.“Spalmato”su 5 anni (il periodo preso in considerazione) il tasso si riduce a una media del 7%. Solo Corea e Usa, con il 6%, fanno peggio. La media Ocse su 5 anni è del 28% (52% il primo anno) e il Paese più generoso è la Norvegia con il 72%, davanti a Belgio (63%) e Austria (59%).

Toni allarmanti e allarmistici che, a differenza di altri tempi, trovano i diretti interessati, cioè sindacati e lavoratori, alquanto tiepidi per non dire scettici. Pensare che uno dei settori più importanti del Paese produttivo debba aver bisogno, praticamente ogni anno, di stampelle per sorreggersi fa pensare. È chiaro che la crisi a livello mondiale ha toccato tutti i settori produttivi, ha in una certa misura ridimensionato aspettative e aspirazioni di piccole, medie e grandi imprese e ha modificato

La Fiom-Cgil, che peraltro ha proclamato uno sciopero generale a ottobre per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici, non ha dubbi che gli incentivi non potranno mai risolvere alla radice i problemi del settore auto. Spiega il segretario nazionale, Giorgio Cremaschi: «Con gli incentivi si droga il mercato – dice il leader della sinistra Cgil – perché rappresentano un anticipo sugli acquisti. Il discorso da fare è un altro invece: la Fiat prima di discutere con il governo di incentivi dovrebbe elaborare un piano industriale». Un piano industriale che, secondo Cremaschi, dovrebbe contenere alcuni elementi importanti. «Dovrebbe garantire – dice – la non chiusura degli stabilimenti italiani, dovrebbe garantire l’occupazione nel nostro Paese. Il governo, prima di dare incentivi, deve chiedere precise garanzie alla Fiat su questi aspetti. Soltanto dopo aver ottenuto garanzie sotto questi aspetti concederà gli incentivi. Così si dovrebbe agire. Gli incentivi non dovrebbero essere automatici, a parte il fatto che gli incentivi, di per sé, non sono certamente una soluzione strategica per uscire fuori dalla crisi».


diario

pagina 6 • 17 settembre 2009

Influenza A. Secondo Federfarma c’è troppo allarmismo mediatico. Ma la prevenzione è insufficiente

Se il vaccino slitta a dicembre

Incontro tra ministero della Sanità e regioni per le misure da adottare sul territorio di Riccardo Paradisi otrebbero allungarsi i tempi per la campagna di vaccinazione contro l’influenza A. I primi vaccini infatti potranno essere effettivamente disponibili tra la fine ottobre, nella migliore delle ipotesi, e a dicembre nella peggiore. «Stiamo lavorando giorno e notte e sette giorni su sette – dice il presidente di Farmindustria Sergio Dompè – ma una spinta per fare in fretta è negativa, se ci vogliono dieci o venti giorni di più è per la salute dei pazienti». Senonché se il vaccino dovesse essere pronto per la fine di novembre, secondo alcune indiscrezioni, proprio in concomitanza cioè con il previsto picco influenzale, saremmo di fronte al paradosso per cui le vaccinazioni risulterebbero fuori tempo massimo. Dompè cerca però di sdrammatizzare: sull’influenza A, sostiene il presidente di Federfarma, ci sarebbe troppo allarmismo, «un eccesso di preoccupazione senza una relazione tra gli effetti di una malattia tutto sommato blanda e quello che succede tutti gli anni, di cui nessuno parla».

P

Il rischio più autentico sarebbe dunque l’allarme mediatico sulla nuova influenza «troppa informazione adesso e un deficit di informazione per altri problemi che si presentano tutti gli anni, a partire dall’influenza stagionale. L’Italia fa pochissima prevenzione in generale, e investe molto poco. Invece bisogna promuovere una cultura che guardi più agli stili di vita che ai farmaci». Un deficit culturale a cui sta pensando di sopperire la Coldiretti che distribuirà frutta di stagione davanti alle scuole. «L’iniziativa – spiega Coldiretti – punta ad avere un effetto mol-

tiplicatore attraverso la promozione, anche nelle case, di stili alimentari sani che aiutano a proteggere la salute. Oltre ad avere un effetto concreto per fronteggiare nell’immediato, insieme ai vaccini, l’emergenza dell’influenza A nelle scuole». Il rischio della nuova influenza secondo Federfarma sarebbe dunque relativamente basso per la salute, ma può avere effetti sulle attività produttive, e in particolare proprio per le imprese del farmaco: «Abbiamo chiesto al ministero di inserire tra le categorie a rischio da vaccinare anche gli operatori e il personale addetto al controllo nella produzione dei farmaci,

parsa dei sintomi risulta che il virus dell’influenza A/H1N1 può essere ancora contagioso fino ad una settimana dalla scomparsa di febbre e tosse. Questi risultati sono al momento al vaglio degli esperti come rileva la Società internazionale per le malattie infettive (Isid) anche se l’orientamento generale sembra comunque poco propenso a modificare le indicazioni finora suggerite dai Centri statunitensi per il controllo delle malattie (Cdc), secondo le quali chi ha l’influenza deve stare a casa per sette giorni dai primi sintomi o comunque fino alla loro scomparsa e rientrare a scuola o al lavo-

L’Italia non investe molto sull’educazione alla salute. Manca una cultura che guardi più agli stili di vita e alla prevenzione invece che ai farmaci perché se ci fosse un picco del 30 per cento di italiani colpiti (cosa tuttavia improbabile) verrebbe a mancare un elemento essenziale come la produzione dei farmaci utili a debellare il virus». Intanto da quanto risulta da tre studi condotti in Canada, Singapore e Messico che hanno analizzato la quantità di virus presente nel muco di naso e gola, prelevati dopo la scom-

ro un solo giorno dalla scomparsa della febbre.

Lo studio canadese sul virus dell’influenza A/H1N1 è stato condotto da Gaston De Serres, dell’Istituto di sanità pubblica: su 43 pazienti nei quali l’infezione era stata confermata da test di laboratorio e su decine di loro familiari con l’influenza è emerso che otto giorni dopo la scomparsa

dei sintomi il virus persisteva con una proporzione compresa fra il 19% e il 75%, a seconda del tipo di test utilizzato. Da un secondo studio, condotto a Singapore da David Lye su 70 pazienti ricoverati nell’ospedale Tan Tock Seng, risulta che l’80% dei pazienti ha il virus a cinque giorni dalla scomparsa dei sintomi e il 40% sette giorni dopo. Il terzo studio, condotto nell’Istituto messicano per la Scienza medica e la nutrizione, mostra che nelle persone infettate il virus rimane presente per un tempo molto lungo. Questo sembra vero soprattutto per le persone obese e per i pazienti che hanno cominciato a prendere i farmaci a oltre due giorni dalla comparsa dei sintomi. Un’allarme sull’insufficiente politica preventiva contro la pandemia influenzale arriva infine da Cittadinanza attiva. Le condizioni inadeguate di vivibilità interna alle scuole saranno infatti oggetto di una specifica campagna sul problema del sovraffollamento delle aule. Per questo Cittadinanzattiva presenterà dati sull’utilizzo di sapone e asciugamani usa e getta per prevenire la diffusione dell’influenza A. Dal rapporto, infatti, emerge che nel 61% delle scuole manca il sapone e nel 69% l’asciugamano usa e getta.


diario

17 settembre 2009 • pagina 7

Gli agricoltori accusano: «Pesanti distorsioni anche per il pane»

La Camera approva all’unanimità la legge sulle cure palliative

Coldiretti: «Pasta più cara anche se il grano cala di prezzo»

Sacconi: «Biotestamento, il dialogo è possibile»

ROMA. «È scandaloso l’aumento

ROMA. Il ministro del Lavoro

di pane e pasta mentre il grano viene pagato oggi agli agricoltori il 28% in meno dello scorso anno». Lo denuncia la Coldiretti commentando i dati relativi all’inflazione nel mese di agosto pubblicati dall’Istat, che evidenziano «una crescita tendenziale dei prezzi degli alimentari che è, senza alcuna giustificazione, di nove volte superiore al valore medio dell’inflazione». I prezzi pagati agli agricoltori per i prodotti agricoli in campagna «sono in forte calo per tutte le categorie - denuncia l’associazione agricola - e di conseguenza l’andamento crescente dei prezzi al consumo degli alimenti non è giustificabile se non con la presenza di manovre speculative».

e della Salute, Maurizio Sacconi, ribadisce la sua posizione in tema di biotestamento: «Se ci fosse difficoltà a procedere, avevo proposto di estrapolare dal testo Calabrò la parte che ricalca sostanzialmente il disegno di legge varato all’unanimità dal Consiglio dei ministri, per dare una risposta immediata al vuoto prodottosi in seguito al provvedimento giudiziario che ha dato luogo alla morte di Eluana Englaro». «In ogni caso - secondo il ministro - è il Parlamento sovrano a dover valutare tale opportunità, anche se l’ipotesi prevalente rimane quella che dialogando si riesca a varare una legge complessiva sul fine vita».

I prezzi al consumo di pane, pasta e cereali «sono aumentati dell’1% rispetto allo scorso anno, nonostante - segnala la Coldiretti - la multa di 12,5 milioni dall’Antitrust al cartello dei produttori di pasta, mentre il grano duro da cui è ottenuta è calato del 28%». Il grano duro «viene pagato oggi 22 centesimi al chilo agli agricoltori mentre la pasta è venduta in media a 1,5 euro al chilo, con una moltiplicazione di oltre il 400% dal campo alla tavola se si considerano le rese di trasformazione». In generale, il fatto che i prezzi dei prodotti ali-

Il dialetto napoletano sbarca a Strasburgo Intervento “anomalo” di un eurodeputato del Pdl di Guglielmo Malagodi

STRASBURGO. «Vulesse parla’ napulitano nun pe fa casino ma pe fa capi’ a tutta l’Europa ’e prublemi d’o Sud». Un intervento al Parlamento europeo in napoletano «per attirare l’attenzione politica e dei media sulle emergenze del Sud Italia» e per ribadire che «non è un semplice dialetto, ma una lingua con una sua grammatica e una sua letteratura». Lo ha tenuto l’europarlamentare del Pdl, Enzo Rivellini, in sede di dichiarazione di voto sulla rielezione alla guida della Commissione Ue del presidente Josè Manuel Barroso. «Dopo una lunga e serrata trattativa - ricostruisce Rivellini - culminata con un braccio di ferro con la burocrazia del Parlamento europeo che non è affatto elastica, si è deciso che all’inizio del mio intervento avrei dovuto parlare in italiano per poi proseguire in napoletano. Ho voluto assolutamente intervenire in napoletano e abbiamo trovato questa mediazione che ha permesso di superare i problemi tecnici che mi sono stati sollevati. In una nota ufficiale del Servizio dell’interpretazione, infatti, mi era stato scritto: «Siamo spiacenti di doverla informare che non essendo il napoletano una lingua ufficiale del Parlamento europeo un suo eventuale intervento in napoletano non potrà essere interpretato nelle altre lingue, né essere pubblicato nel resoconto integrale delle discussioni, che contiene la trascrizione e la traduzione degli interventi fatti in plenaria».

una sua letteratura. Presidente Barroso, l’ho votata anche perché spero che lei sia il presidente di tutta Europa, anche del Sud; il Sud è la porta d’ingresso dell’Europa e sta al centro del Mediterraneo. Il Sud unisce mondi diversi e per storia, posizione geografica e cultura dell’accoglienza può svolgere un importante ruolo per tutto il vecchio continente».

«Anche il Mezzogiorno d’Italia - ha proseguito Rivellini - ha contribuito a regolarizzare 150 milioni di cittadini dell’est affinché diventassero comunitari. Se oggi un operaio di Danzica guadagna 28 volte di più di quello che guadagnava prima deve ringraziare anche il Sud Italia. Il Sud ha sempre fatto la sua parte in Europa. Usando una metafora potrei dire che il nostro disagio e la nostra protesta è oggi come una leggera pioggerella. Facciamo in modo che non diventi un uragano». E poi la traduzione in napoletano: «Vulesse parla’ napulitano nun pe fa casino ma pe fa capi’ a tutta l’Europa ’e prublemi d’o Sud. Parlo napulitano. ’O napulitano e’ na’ lengua, cu na’ grammatica’, na’ letteratura, nun e’ nu semplice dialetto. Presidente Barroso l’aggia vutato e le chiedo d’essere ’o presidente ’e tutta ll’Europa, pure d’o Sud, pecché ’o Sud è ’a porta e ll’Europa e sta miezzo ’o Mediterraneo. ’O Sud aunisce mondi diversi e pe ’a storia, posizione geografi’ca e cultura dell’accoglienza po’ fa assaie pe’ tutto ’o viecchio cuntinente. Pure ’o Sud ha contribuito a fa’ 150 miliuni ’e cittadi’ni dell’est comunitari’e. Si oggi’ n’operaio ’e Danzi’ca guara’gna 28 vote chello ca’ guaragna’va primma adda ringrazia’pure ’o Su’d. ’O Sud ha sempe fatto ’a parta soja in Europa. Ausann na’metafo’ra putesse dicere che ’a nostra prote’sta e’ comme quanno schizzichea, evitammo c’arriva ’o pata pata ’e ll’acqua». Inutile dire che la “performance” dell’eurodeputato del Pdl ha lasciato attoniti i colleghi parlamentari, che hanno protestato per il silenzio dei traduttori, spiazzati di fronte alla necessità di tradurre frasi come «’o pata pata ’e l’acqua» (una tempesta di pioggia, o uragano).

Traduttori spiazzati e colleghi attoniti. Ma Rivellini: «L’ho fatto per suscitare interesse per il Mezzogiorno d’Italia»

mentari continuino ad aumentare su base tendenziale dello 0,9% nonostante il crollo del 16% in media dei prezzi agricoli alla produzione ad agosto «dimostra la presenza di pesanti distorsioni nel passaggio degli alimenti dal campo alla tavola che colpiscono gli agricoltori ed i consumatori». Si è dunque verificato, osserva la Coldiretti, «un aumento della forbice dei prezzi tra produzione e consumo nella filiera alimentare lungo la quale i prezzi aumentano quindi in media quasi cinque volte». In generale, «per ogni euro speso dai consumatori in alimenti ben 60 centesimi vanno alla distribuzione commerciale, 23 all’industria alimentare e solo 17 centesimi agli agricoltori».

«In ogni caso - dice Rivellini - sono soddisfatto di aver potuto parlare sia in italiano sia in napoletano per mettere in evidenza le problematiche che investono il Meridione d’Italia e che la commissione Ue guidata da Barroso non può ignorare». L’agenzia di stampa Il Velino ha pubblicato integralmente il testo dell’intervento di Rivellini: «Vorrei intervenire in napoletano non per motivi folkloristici ma per attirare l’attenzione politica e dei media sulle emergenze del Sud Italia. Parlo in napoletano perché il napoletano non è un semplice dialetto ma una lingua con una sua grammatica ed

Intanto, il capogruppo del Pd alla commissione Affari Sociali della Camera si dice «molto soddisfatta» per l’approvazione all’unanimità a Montecitorio della legge sulle cure palliative. Una legge «attesa e importante, da noi fortemente voluta e a cui ci siamo tenacemente dedicati». «L’accesso alle cure palliative e alle terapie del dolore - sottolinea la Turco - viene finalmente riconosciuto come un diritto per assicurare la dignità della persona umana, il bisogno di salute, l’equità d’accesso, l’uniformità delle prestazioni su tutto il territorio nazionale, la qualità delle cure e la loro appropriatezza». «Questa legge - conclude l’ex ministro - si propone sostanzialmente di realizzare due diritti fondamentali: la libertà di scegliere il luogo in cui concludere la propria vita, sia esso la casa, l’ospedale o la casa di riposo; e la continuità di cura, per assicurare in tutto il percorso di avvicinamento alla morte una presenza qualificata in grado di dare risposte tempestive ed adeguate. È una legge che merita certamente di più in termini sia di risorse economiche, che di formazione degli operatori e del necessario riconoscimento delle loro professionalità».


politica

pagina 8 • 17 settembre 2009

Dissensi. Ormai è chiaro a tutti che sta prendendo corpo un movimento anti-Lega che chiede di contare di più nel Pdl

Un partito che non c’è La lettera a Berlusconi è l’unico segno di vita di un’entità nata da una fusione senza sintesi di Gennaro Malgieri segue dalla prima Una macchina che si era fermata subito dopo l’accensione del motore perché era stato stabilito che in fondo essa non serviva. E così si è arrivati nel Pdl all’esasperazione delle posizioni e dei toni che certo neppure il tempo stempererà del tutto: per quanto di tutto verrà fatto affinché non si butti l’acqua sporca insieme con il bambino.

Da quando la lettera è stata recapitata a Berlusconi lo scenario è significativamente cambiato, anche se chi fa i titoli dei giornali non se n’è ancora accorto. Il Pdl, è stato certificato dagli oltre settanta deputati di provenienza An (ministri e sottosegretari non hanno firmato per più che giustificati motivi di opportunità), non è un partito monolitico. La fusione è avvenuta, ma è mancata la sintesi. Esso, insomma, è un “contenitore”, che poco ha a che fare con una formazione politica di tipo tradizionale, nel quale ci sta tutto, assemblato da un leader che non manca occasione per prendere le distanze dai cosiddetti “politici di professione”ritenendosi lui qualcosa d’altro dopo quindici anni che calca la scena della politica. E aggiunge che tra la sua visione del partito (quella che ha preso forma nello scenario della Fiera di Roma nel marzo scorso) e la concezione che ne ha il presidente della Camera esistono profonde differenze. È amor di polemica sostenere a questo punto che due anime, così diverse, possano convivere, magari per un tempo limitato, ma non elaborare una strategia ambiziosa al punto da mutare i connotati del Paese, dello Stato, della società italiana? È disdicevole ammettere che tutto ciò che si sperava dovesse accadere in un sistema bipolare, nel quale forze alternative si sarebbero dovute muovere secondo logiche diverse perché legittimamente portatrici di istanze non conciliabili se non nella

condivisione dei valori fondamentali, è difficile che accada perché i soggetti si sono eccentricamente rispetto ad uno scenario “duale”? E sostenere che il bipolarismo, grazie anche alla legge elettorale in vigore, è fallito, constatando che una pluralità di forze si muove

Il documento ha fatto venire allo scoperto ciò che veniva opportunisticamente occultato da un finto unanimismo dentro e fuori il Parlamento, perché dovrebbe agitare i sonni di chi ama cullarsi nelle illusioni?

La lettera ha fatto venire allo scoperto ciò che veniva opportunisticamente occultato da un unanimismo finto. E a ragione del fatto, per niente marginale, che il Pdl è stato pensato, disegnato, realizzato senza minimamente badare alla costru-

zione delle fondamenta. Nessuno, infatti, s’è preso la briga di dargli un’anima, di dotarlo di una cultura di riferimento, di lavorare al superamento delle identità convergenti in una nuova identità. Roba da intellettuali, si sarà detto qualcuno. Quando invece ciò che valeva, evidentemente per i più, era la statuizione dei rapporti di forza all’interno del partito-contenitore, con tutte le conseguenze sul piano delle “quote” rappresentative, di quelle finanziarie e perfino delle poltrone. La costruzione si è immediatamente rivelata fragile, poco radicata sul territorio, sempre più estranea alla stessa gente che attendeva il “partito unico” del centrodestra da tempo immemorabile. Non ingannino i risultati elettorali: essi rispondono ad altre logiche. Alla lunga se dovesse manifestarsi un’alternativa convincente, il Pdl finirebbe per perderli i voti che qualcuno ritiene al sicuro in cassaforte. E dovrebbe quantomeno questo timore indurre innanzitutto Berlusconi a mettere mano alla “innovazione” (nel senso di ricostruzione) del partito che in effetti non è mai nato. In fondo coloro i quali tra gli eletti a

Un partito, oltre ad avere le caratteristiche che sappiamo, elabora anche strategie, produce movimenti, altera se è il caso il quadro politico acquisendo ed includendo. Un nonpartito respinge, si accontenta dei buoni risultati (sempre occasionali per definizione) di una leadership, fa il vuoto attorno a se circondandosi di avversari in atto e potenziali. Soprattutto non si avvede delle crepe che si aprono e che possono, come la storia della prima Repubblica insegna, diventare voragini.

sa lesa maestà. Tanto più quando si è portatori di istanze comunque condivise che potrebbero essere declinate meglio e più produttivamente. Forse che i sottoscrittori del documento impropriamente definito “filo finiano” hanno voluto delegittimare Berlusconi? Semplicemente gli hanno offerto una prova di responsabilità e, sia pure nell’ambito di un dissenso acuito dalle polemiche personalistiche, di lealtà dicendogli che non deve credere che la Lega possa continuare ad avere la golden share nel governo, nella coalizione, nella maggioranza. Che è un movimento alleato con il Pdl, non il suo “padrone”occulto; che certe intemperanze, fino a paventare la secessione o il ricorso anticipato alle urne, non sono ammissibili; che il Nord non è proprietà esclusiva di Bossi e delle sue truppe in camicia verde.

In altri termini, una democrazia che non si fonda sui partiti per articolare e veicolare il consenso non è nemmeno più una democrazia. Nel Pdl in tanti hanno questa consapevolezza e la manifestano nei modi che ritengono più efficaci immaginando che nessuno per questo deve sentirsi sotto accusa e soprattutto che la dialettica non è mai manifestazione di irrispetto-

Tutto questo, forse, bisognava dirlo prima. Ma non è mai troppo tardi. Per la piega che hanno preso gli eventi sarà bene che quella lettera non venga cestinata. Diversamente altre ne seguiranno e potrebbero avere toni ed asprezze che non appartengono al costume di chi ha ritenuto di prendere questa singolare iniziativa per far capire che per quanto partito-coalizione il Pdl è pur sempre il prodotto di qualche dolorosa rinuncia, della cessione di un passato

lui si sono indirizzati non chiedono altro. E se il presidente del Consiglio non comprende che la sua visione del partito, contrapposta a quella di Fini, è la visione del nonpartito, cioè la visione del vuoto, deve sapere che lascerà ai posteri non un’eredità, ma un ingombro.


politica

17 settembre 2009 • pagina 9

Savino Pezzotta parla delle Regionali e delle esternazioni televisive del premier

«Nessuna alleanza con chi ci insulta»

«Quelli che nel Pdl ci tendono la mano dovrebbero avere un po’ di orgoglio e prendere le distanze da certe uscite del loro capo» di Franco Insardà segue dalla prima Onorevole Pezzotta, come giudica la performance televisiva del premier? Non ha dato l’idea di un rinnovatore del sistema politico italiano, mi è parso sulla difensiva ed eccessivamente aggressivo. Berlusconi a Porta a Porta ha fatto meno ascolti della fiction di Canale 5. Come se lo spiega? La gente è stanca di una politica dell’immagine, di qualcuno che va in televisione e continua a esibire il suo ego smisurato. Ormai in Italia la gente ha timore della politica aggressiva. Noi, invece, stiamo dando l’esempio di una politica dialogante, colloquiale, che si interessa dei problemi delle persone. Le persone sentono il peso della crisi, assistono a questa lacerazione del tessuto democratico e incominciano a essere indifferenti a quello che dice Berlusconi. E l’indifferenza colpisce molto di più che l’ostilità. Un modello opposto a quello di Alcide De Gasperi, al quale il premier si paragona? Per De Gasperi è aperto il processo di canonizzazione, non so se accadrà anche per Berlusconi. De Gasperi di fronte ai vincitori della guerra seppe difendere la dignità del Paese, mentre oggi si giustifica chi minaccia le secessioni. De Gasperi ha dovuto ricostruire un Italia distrutta dalla guerra e dal fascismo è impostare la prospettiva democratica. Il sistema attuale, invece, cerca di svuotare gli organismi elettivi indebolendo, ovviamente, la democrazia. Si potrebbe andare avanti all’infinito, ma il paragone è improponibile e non riesco a farlo. E l’accusa di essere il partito delle clientele. Non dobbiamo avere paura, ormai in un sistema che si sta sgretolando una forza come la nostra che ha il coraggio di difendere coerentemente le proprie posizioni non può che guadagnarci. Se ci attardassimo su altri terreni, finiremmo per dare ragione a Berlusconi che dice che siamo alla ricerca di posti o di clientele. Parlare di partito delle clientele per uno schieramento che ha scelto di essere all’opposizione sia del governo Prodi sia del governo Berlusconi è singolare? Le poltrone, infatti, le ha tutte Berlusconi e ne ha tante: pubbliche e private, Senza dimenticare l’enorme conflitto d’interessi. Accusa gli altri di avere poltrone, mentre bisognerebbe cominciare a discutere di quante ne ha distribuite, di come ha occupato il sistema radiotelevisivo e della sua presenza nel panorama editoriale, Noi non abbiamo un giornale di famiglia. Il ministro Gianfranco Rotondi ieri gettava acqua sul fuoco, assicurando che il dialogo con l’Udc andrà avanti. Le persone dovrebbero avere un po’ di pudore. Co-

me si fa a pensare di allearsi con chi ci prende a sberle: farlo con la Lega è impossibile. Non è dignitoso e io non ci starò. Anche con il Pdl bisogna chiarirsi. Il loro capo ci insulta in quel modo e poi ci tendono la mano. Sarebbe opportuno che Rotondi, del quale ho stima, e gli altri che pensano che sia possibile allearsi con noi riflettessero e avessero un po’ di orgoglio personale e politico. Nel Pdl ci sono tante persone per bene, con le quali abbiamo condiviso stagioni politiche, che sembrano scomparse. Anche le posizioni di Fini e degli ex An non sono un segnale incoraggiante per il premier? Chi semina vento raccoglie tempesta. Tutto quello che sta avvenendo lo ha voluto Berlusconi, che ha gli strumenti per aggredire e minacciare. Ma è causato anche dalla cosiddetta Seconda Repubblica, che va archiviata in fretta. Il partito del predellino, allora, è finito o non è mai esistito? I partiti nascono da motivazioni politiche, dal rispondere ai bisogni, non dall’esigenza di salvaguardare i propri interessi personali. Altrimenti si è destinati a finire. Quale significato va dato alla presenza di Fini a Chianciano? Significa che è possibile dialogare anche con chi la pensa diversamente da noi. Gli Stati Generali hanno rappresentato un ulteriore passo avanti nel progetto centrista? Si sono aperte delle possibilità. Dipende come le giocheremo al nostro interno: occorre che ci sia la capacità di aprirci al nuovo, altrimenti non andremo molto lontano. Siamo diventati un’alternativa vera. Ci sono ancora molto scettici. L’uscita di Franceschini, ad esempio, secondo il quale ci avremmo provato 32 volte a fare il centro, mi sembra di cattivo gusto. Si potrebbe facilmente replicare che loro ci hanno provato una sola volta e i risultati non sono esaltanti. La nascita di una forza di centro che intercetta una parte di mondo cattolico, di liberali e vaste aree produttive dovrebbe essere guardata con attenzione da chi crede nel modello democratico e in una visione più pluralista della democrazia. Capisco, invece, che può dar fastidio a chi deve difendere le proprie scelte. Ma noi siamo nati per dare fastidio. E allora, l’Udc per le Regionali farà alleanze? Non lo abbiamo mai escluso. Non facciamo un’alleanza organica a livello nazionale per il semplice motivo che non vogliamo confermare un’idea bipartitica. Poi valuteremo le possibilità, tendendo presente che esistono delle discriminanti. Su tutte quella di non allearsi con la Lega che ci ha insultato e minacciato. Insomma come ha detto Casini: le alleanze si faranno su impegni scritti e senza insulti. Proprio così.

Per De Gasperi è aperto il processo di canonizzazione, non so se accadrà anche per Berlusconi. Il paragone tra i due è improponibile e non riesco a farlo

tutt’altro che disprezzabile, di una cultura della Patria e di un senso dello Stato che in tanti ritenevano dovessero essere valutati nella giusta luce ed invece sono rimasti delusi. Insomma, chi viene da Destra, con il suo fardello di dolori, gioie e contraddizioni, non viene dal nulla e non intende incamminarsi verso il nulla. Vuole trovare sulla sua strada, ricordando se non dispiace a qualcuno, la casa del padre abbandonata, anime affini, moralmente e politicamente, in grado di rappresentare al meglio una nazione che sta cambiando e che vuole parlare un’altra lingua nel tempo di eventi che trascendono le stesse generazioni che li vivono allo scopo (ambiziosissimo) di creare le premesse di una inevitabile civiltà del dialogo se non s’intende cedere all’inciviltà dello scontro. Certo, il tribalismo odierno non induce alla speranza. Eppure bisogna crederci.

In alto, un’immagine del congresso di fondazione del Pdl, a marzo scorso, a Roma. La lettera dei parlamentari a Berlusconi denuncia l’incompletezza dell’operazione. Mentre Fini denuncia lo strapotere di Bossi sulla maggioranza


panorama

pagina 10 • 17 settembre 2009

Atterraggi. Ritardi e disservizi: la situazione della nuova compagnia è sempre più difficile

Caos Alitalia. Aspettando Air France di Carlo Lottieri a montagna ha partorito un topolino. Tutte le discussioni che avevano accompagnato le ultime elezioni politiche, alla fine si sono risolte in ben poco. Oggi Alitalia è un’azienda il cui primo azionista è Air France (possiede il 25% delle azioni) e che presto finirà interamente sotto il controllo dei transalpini. Sia chiaro: meglio così. Anche in ragione dell’accordo nell’alleanza SkyTeam, troppo costoso da sciogliere, il destino di Alitalia era segnato fin dall’inizio. E se alla fine magari si maschererà il tutto dicendo che in realtà nasce uno nuovo colosso francoitalo-olandese, magari faremo pure finta di crederci. I problemi, d’altra parte, non sono lì, ma semmai in un mercato che stenta a liberalizzarsi: per tutta una serie di ragioni.

L

Innanzi tutto, la crisi sta colpendo duramente. I dati del 2009 mostrano una caduta del traffico, negli aeroporti europei, intorno al 10%. In questo scenario, non c’è da stupirsi se il

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

processo di integrazione dei mercati stia procedendo a rilento. D’altra parte la nuova amministrazione americana frena la liberalizzazione, anche per rispondere alle pressanti richieste delle compagnie nazionali e dei sindacati. E qualcosa di simile succede in Europa. La conseguenza è che dobbiamo ancora fare i conti con rotte

la concentrazione crescente da parte dei vettori tradizionali. Su questo fronte, ormai vi sono soltanto tre soggetti: il gruppo Air France-KLM, la Lufthansa e l’accoppiata British-Iberia. E anche questo prefigura come inevitabile il destino di Alitalia.

Alcune novità invece vengono dal mercato interno, dai voli na-

Il destino era segnato già un anno fa: in Europa ci sono solo tre vettori, non era pensabile che un piccolo mercato sopravvivesse da solo “monopolizzate”, dove siamo costretti a pagare biglietti a prezzi esorbitanti. Come riporta uno studio realizzato per l’Istituto Bruno Leoni da Andrea Giuricin, nel marzo scorso un volo Milano-New York poteva costare (presso varie compagnie) circa 280 euro, mentre un volo Milano-Mosca (offerto solo da due operatori) costava il 50% in più anche se la lunghezza del tragitto è all’incirca la metà. A livello europeo due sono i dati rilevanti: la costante crescita dei low cost, che perfino in questa fase difficile stanno allargando il loro mercato, e

zionali. Contrariamente a quanto si pensava, la tratta MilanoRoma, che a lungo aveva assorbito le attenzione di tutti, non è più un problema. Infatti, il mercato ha risolto ogni cosa. Grazie all’alta velocità, nei collegamenti tra le due capitali italiane (quella politica e quella economica) oggi il principale soggetto è Trenitalia e quando nel 2011 arriverà anche la NTV di Montezemolo la competizione s’accrescerà ulteriormente. I problemi invece restano, ed enormi, nelle altre rotte interne, dato che la fusione tra Alitalia e Airone ha fatto sì che il nuovo soggetto abbia il 60% del

mercato in 18 delle 25 principali rotte. Ma della questione sembra che pochi abbiano voglia di occuparsi, anche se chi oggi parte da Bari o da Venezia il problema lo conosce bene e gradirebbe avere risposte in merito. C’è da registrare, infine, la scomparsa di un’altra diatriba: quello del preteso hub contesto tra Malpensa e Fiumicino. Il tema è sparito per la semplice ragione che non c’è trippa per i gatti. Basti pensare che – come riporta ancora Giuricin nel suo studio – questa nuova Alitalia ha un numero davvero molto limitato di voli verso l’estero: meno di un decimo di quanti ne ha Air France dal solo aeroporto di Parigi Charles de Gaulle.

La lezione conclusiva è che per mesi ci si è divisi intorno a falsi problemi: l’italianità di Alitalia, il salvataggio di posti di lavoro già perduti, un campanilismo “economico” piuttosto miope. Adesso torna a galla la vera questione, e cioè la necessità di procedere, e speditamente, verso una liberalizzazione del settore, che metta in competizione compagnie di diversa origine e permetta di spostarsi a prezzi ragionevoli.

La Sanità è il problama più drammatico (e privo di soluzione) della Campania

Bassolino, il commissario di se stesso a sanità campana è una delle più malate d’Italia. Il suo stato di salute è pessimo e il governo ha deciso di commissariarla: il commissario è lo stesso governatore che, con i suoi due mandati elettorali a Palazzo santa Lucia, avrebbe dovuto rimettere in salute gli ospedali, le Asl, le cliniche della Campania. Un compito difficile, certo, perché nessuno ha in mano la bacchetta magica e tuttavia l’uomo politico più longevo della Seconda Repubblica (è in sella da prima che ci salisse Silvio Berlusconi) poteva almeno avere come obiettivo il non-peggioramento della sanità. Invece, il sistema sanitario è stato utilizzato a regola d’arte per alimentare il potere clientelare della politica. Si sa come funzionano malissimo in Italia queste cose: invece di avere una politica al servizio della sanità abbiamo la sanità al servizio della politica.

L

Un capolavoro politico, morale e sanitario che ci consegna il primato europeo della malasanità. Oggi il governatorecommissario - in pratica è il commissario di se stesso - ha un compito ancora più difficile: razionalizzare il sistema sanitario regionale tagliando qua e là nella spesa sanitaria piena di buchi e sprechi e

chiudendo un numero non piccolo di ospedali-fantasma. Per compiere questa opera di taglia e cuci è stata approvata anche una legge sul finire dello scorso anno: la ormai già famosa - per molti famigerata - legge 16. La cura della sanità della Campania, quindi, è già stata individuata. Solo che il medico non sembra avere alcuna intenzione di applicare la cura. Anzi, su questa legge regionale pare che lo stesso Pd non sia d’accordo con se stesso. Il sindaco di Salerno, ad esempio, Vincenzo De Luca, non è proprio innamorato di questa legge perché gli andrebbe a chiudere un po’ troppi ospedali dalle sue parti - soprattutto quello bello grande di Agropoli - e con la campagna elettorale alle porte - e forse con la sua stessa candidatura alla guida della Regione - il sindaco-sceriffo di Salerno non

è proprio contento. La legge regionale, quindi, voluta proprio dal Pd è oggi un problema per lo stesso Pd. O, forse, il vero problema è proprio il Pd che non rappresenta la soluzione del problema sanitario perché è il problema.

Se la legge 16 non trova una facile e scorrevole applicazione da parte della stessa giunta che l’ha sollecitata non si potranno aprire neanche quelle nuove strutture che in alcune zone della Campania garantirebbero il servizio sanitario e darebbero una boccata di ossigeno ad una regione in cui il tasso di disoccupazione è il doppio rispetto alla media nazionale. È il caso del nuovo ospedale di Sant’Agata dei Goti che è stato costruito nel decennio scorso, è stato dotato di ogni avanzata tecnologia, ha una capacità opera-

tiva di 180 posti letto a regime, è costato 30 milioni di euro, è stato persino inaugurato, ma è chiuso e non si capisce se aprirà e quando. Per aprirlo bisogna applicare quella legge 16 che al momento Bassolino da una parte e il resto del Pd dall’altra mantengono in una sorta di limbo o terra di nessuno. Ma la mancata applicazione della legge 16 sta causando anche tutta una serie di battaglie locali in cui gli ospedali, le aziende sanitarie, le Asl, i medici, gli infermieri si mobilitano ora per quell’ospedale ora per quell’altro. Ognuno cerca di tirare l’acqua al suo mulino perché ciò che è assente è quel necessario sguardo d’insieme che dovrebbe disegnare il sistema sanitario della Campania e, in subordine, i piccoli ma preziosi sistemi sanitari delle singole regioni.

Non è davvero un caso che la sanità campana sia stata commissariata. Se si guarda bene ciò che sta accadendo una sorta di anarchia sociale e sanitaria - è questo il maggior fallimento della stagione politica di Antonio Bassolino. Un fallimento che se indagato si guadagnerà senz’altro il primato del fallimento dei fallimenti che finora spetta alla notissima questione della spazzatura.


panorama

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Armamenti. I nostri piloti hanno frequentato uno dei corsi più prestigiosi, negli Usa, eppure la politica li lascia a terra

Gli italiani non volano in Afghanistan di Stranamore ono andati negli Stati Uniti. Si sono addestrati duramente per un mese, sotto un sole cocente che ricorda molto quello afgano (in estate….), ora sono tornati, stanno mettendo a punto alcune delle lezioni apprese e sono pronti all’azione. Parliamo dei piloti e degli specialisti dell’Aeronautica Militare che sono andati a Nellis, Nevada, e hanno partecipato alle più complete e impegnative esercitazioni di combattimento insieme con l’Aeronautica e l’Esercito statunitense, ma anche con forze di paesi alleati, rientrando poi in Italia. Come spiega il Colonnello Giorgio Fortran, che ha guidato i 34 piloti, i 10 aerei e i quasi 200 militari italiani «più di questo…c’è solo la guerra reale».

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E infatti la doppia esercitazione, la Red Flag dedicata agli scenari tradizionali, conflitti ad alta intensità, e la Green Flag, specializzata nelle operazioni asimmetriche, controguerriglia e in generale alla cooperazione con le forze di terra, rappresentano un po’ il corso finale in un “processo” di preparazione che nel caso degli italiani è iniziato

Continuando a negare uomini e mezzi, la guerra contro i talebani può durare anche altri 40 anni, come dice il Capo di Stato maggiore britannico agli inizi del 2009. Ora uomini e mezzi sono pronti, prontissimi per entrare in azione… in Afghanistan. Sempre che il governo decida un simile passo. Al momento infatti in teatro ci sono solo 2 cacciabombardieri Tornado, basati a Mazar I Sharif. Altri 2 dovrebbero andare ad Herat, quando finalmente i lavori di ri-costruzione di piste, raccordi e rampa saranno com-

pletati. A dare il cambio ai Tornado dovrebbero proprio essere gli AMX, che nella configurazione ACOL, realizzata da Alenia Aeronautica/Finmeccanica hanno ricevuto un pacchetto abbastanza completo di ammodernamento. Naturalmente in Nevada si è fatta anche pratica nell’impiego del cannoncino da 20 mm di cui sono dotati gli aerei e che in par-

ticolari situazioni potrebbe essere utilizzato per attacchi di precisione, minimizzando il rischio di provocare danni collaterali, ma aumentando i rischi per equipaggi e mezzi. Come spiega il Colonnello Fortran, a Nellis e a Fort Irwin si sono applicate le più recenti tattiche messe a punto per le operazioni in Afghanistan, verificate le procedure adottate per lo specifico impiego, raccolti suggerimenti, come quello di impiegare binocoli stabilizzati per consentire al pilota un controllo ancora più preciso di cosa c’è a terra prima di procedere a ingaggiarlo. Tra l’altro il comportamento dei piloti e degli aerei italiani, che hanno effettuato ben 313 missioni e 900 ore di volo, ha ottenuto il plauso dei comandanti americani di Nellis, abituati a vedere in azione la creme dei piloti mondiali.

Procedere a un dispiegamento richiede solo una decisione politica. Sarebbe del resto opportuno incrementare il numero di aerei da combattimento a supporto dei nostri contingenti, perché i pur ottimi elicotteri Mangusta hanno l’handicap della bassa velocità di trasferi-

mento tipica dei mezzi ad ala rotante… non possono essere ovunque rapidamente. E non è affatto vero che il nuovo corso in Afghanistan richieda una riduzione delle operazioni aeree: è vero il contrario, le missioni richieste e volate continuano ad aumentare, solo si deve stare più attenti prima di tirare il grilletto. Speriamo che gli AMX dunque possano andare in Afghanistan prima della fine dell’anno, magari integrando i Tornado ed aumentando la forza complessiva. E soprattutto lasciando agli addetti lavori, non al Parlamento, la decisione circa l’armamento da impiegare. A dettare la scelta deve essere la situazione tattica, non quella politica ed è necessario che i velivoli abbiano la panoplia più ampia per poter impiegare l’arma adatta. Perché lì la guerra è tutt’altro che vinta o finita. Fa sorridere la tesi del Ministro della Difesa Spagnolo, che si possa pensare ad un disimpegno Nato nell’arco di un lustro. Più realistica la provocazione del Capo di Stato maggiore dell’Esercito Britannico che ha parlato di… 40 anni. Specie se si continuano a lesinare uomini e mezzi.

Polemiche. L’uscita del ministro Brunetta rivela un’idea vecchia: che il Potere è contro le Idee

La cultura? Né destra né sinistra di Franco Ricordi e polemiche seguite all’intervento del ministro Brunetta, che hanno investito il problema del Fus e dei finanziamenti pubblici alla Cultura, rappresentano più che mai la situazione in cui si trova la politica culturale del nostro Paese. Non c’è niente da fare: o fascisti o comunisti, siamo ancora lì. Lo ha rilevato bene Pierluigi Battista nell’articolo apparso domenica scorsa sul Corriere della Sera: siamo nell’Italia di Scelba, da un lato il Potere di Destra e dall’altro la Cultura che si ghettizza a Sinistra. Brunetta ha commesso più di un errore: nel voler distinguere fra “cultura” e “spettacolo” (se metto in scena Sofocle non propongo cultura?), e anche sul superficiale atteggiamento nei confronti dei finanziamenti pubblici; basti guardare lo stanziamento decisamente superiore di altri paesi europei nei confronti dello spettacolo.

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solito schema: di qua i fascisti e di là i comunisti. Ma sarà lecito chiedersi a tal punto: potrà esistere una “terza via”, ovvero una concezione dell’umanità che non distingua necessariamente gli uomini di potere da quelli di cultura? Perché questa, purtroppo, è la radice del problema. Essendo il Potere quasi sempre di Centro-Destra (si legga anche in senso anglo-americano, di coloro che hanno vinto la guerra insom-

Il ritardo con il quale la nostra classe politica si è ricordata del centocinquantenario dell’Unità testimonia la cattiva fama degli intellettuali

E tuttavia non ha torto quando parla di egemonia culturale della sinistra, un’antica storia che ha visto sicuramente episodi di parassitismo e clientelismo, ma ancor più di forte esclusione a chi non fosse di quella parte. Le reazioni hanno seguito il

ma) le arti devono criticarlo: ecco spiegato il gioco. Ma ci chiediamo: chi è stato quel Padreterno che ha stabilito che, almeno dal dopoguerra ad oggi, la cultura, le arti e gli intellettuali debbano per forza criticare il Potere? Possibile che persino dopo 20 anni dalla caduta del muro di Berlino nessuno abbia capito che non è così? E soprattutto che, in vista di una possibile democrazia dell’alternanza, sarebbe ridicolo continuare con tale impostazione, che vedrebbe il Potere oggetto di critica soltanto quando fosse gestito dal Centro-Destra?

La situazione odierna è un male per tutti, come nota sempre Battista, e allora ci permettiamo almeno di indicare una possibilità alternativa. Semplice: la Cultura non è né di Destra né di Sinistra (nemmeno di Centro, intendiamoci). E tuttavia fino a quando il Parlamento e le forze politiche tutte non riusciranno a definire una larga e grande intesa su questo tema, ecco che non se ne verrà mai fuori. E, in questo senso sì, le forze moderate e centriste di oggi potrebbero risultare decisive per un compito che, si badi bene, non è soltanto finalizzato alla cultura ma anche alla politica. Non è pensabile, tanto per fare un esempio, ricordarsi soltanto ora che fra poco più di un anno ricorrerà il 150° anniversario dell’Unità d’Italia. E questo non è solo un difetto culturale, ma politico, che chiama in causa anche coloro che vorrebbero dividere l’Italia in Nord e Sud. Ecco il motivo per cui l’Unità d’Italia è un discorso politico che dipende dalla cultura: e senza investire sulla cultura non si potrà mai sperare in un completo discorso politico.


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Quarant’anni fa, a Miami, i Doors suonavano al concerto che avrebbe Erano i giorni di Woodstock, di Charles Manson e dello sbarco su

1969. Processo di Sabino Caronia

provato a morire. / Questa è la fine», come canta The End.

rimo marzo 1969, Dinner Key Auditorium, Miami. È a partire da quel concerto che prendono l’avvio le pratiche del processo a Jim Morrison, un processo kafkiano, cioè più interno che esterno, come risulta dal proposito più volte dichiarato dallo stesso Jim di scrivere un libro sul processo che fosse insieme diario e autobiografia. È nelle more di quel processo che Jim giunge a Parigi, sulle orme del prediletto Rimbaud, alla ricerca di un’impossibile rinascita, come è detto in quel brano inedito non incluso nell’ultimo album che è intitolato significativamente Paris Blues: «Sto andando verso la città dell’amore, sto andando a cominciare di nuovo la mia vita». Anno fatidico quel 1969. A maggio Jim legge in pubblico quel suo poema-testamento che è intitolato

Fu davvero un anno fatidico quel 1969. La notte del 9 agosto Charles Manson e gli altri suoi amici satanici andavano a compiere l’eccidio di Bel Air, dove perse la vita anche Sharon Tate, l’attrice moglie di Roman Polansky. Era il tramonto di una stagione. Il saluto di quella generazione culminò in un grande raduno, una festa che sembrò un’apoteosi ma era già un addio, il 15, 16 e 17 agosto a Woodstock dove Country Joe and The Fish cantava: «Madri di tutto il Paese / impacchettate i vostri figli per il Vietnam». Solo tre settimane prima, la notte fra il 20 e il 21 luglio, l’Apollo 11 di Armstrong, Collins e Aldrin aveva chiuso i conti con un altro sogno: in meno di dieci anni Moon River, la canzone che aveva svegliato i Sixties mandandoli a fare colazione da Tiffany, era diventata un cratere di sabbia nel Mare della Tranquillità, come venne chiamata la zona gelida di quel primo allunaggio. Il sogno stava proprio chiudendo i battenti. Anche Jack Keruac – «il padre che mai trovammo», parafrasando le ultime parole di On the Road – se ne andò senza far rumore il 21 ottobre, morendo a St Petersburg in Florida, in ospedale, praticamente dimenticato. È dunque nel 1969 che inizia il processo a Jim Morrison, proprio mentre gli astronauti americani sbarcano sulla luna e la genera-

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Dopo l’ultimo album di successo, “Morrison Hotel”, nel 1970, e dopo la registrazione di “L.A. Woman”, Jim partì per Parigi all’inseguimento dell’imprendibile Pamela e di un altro se stesso, come è detto in “Paris Blues”. Il 3 luglio del 1971 Jim venne trovato morto a Parigi, nella vasca da bagno dell’appartamento di rue Beautreillis dove abitava con Pamela

Era nato a Melbourne, in Florida (a due passi da Cape Canaveral), suo padre Steve era un ufficiale di marina, pilota, poi ammiraglio e sarebbe diventato vice-comandante delle operazioni in Vietnam An American Prayer. Il 3 luglio, due anni esatti prima della sua morte, muore Brian Jones, leader dei Rolling Stones, a cui Jim dedica un’ode alla maniera di Keats. Quello di Brian Jones è il primo dei necrologi di quella generazione che sarebbe diventata leggendaria. Solo due anni dopo, prima della morte di Jim, se ne sarebbe andato Jimi Hendrix e Janise Joplin lo avrebbe seguito. «Questa è la fine, mia bella amica, / questa è la fine, mia sola amica, la fine / fine di risa e di bugie leggere, fine delle notti in cui abbiamo

zione che aveva voluto dare l’assalto al cielo sente che in quel momento è finita l’epoca dell’utopia. Da Paradise Now a Apocalypse Now. «Quando la musica finisce, spegnete le luci», come cantava When The Music’s Over. A quaranta anni dall’“estate dell’amore”(1967), in cui il primo singolo dei Doors scalò la vetta delle classifiche americane, Jim Morrison continua a essere un mito.

Negli anni tra il 1966 e il 1971, quelli del Vietnam, quelli dell’impresa lunare, nello scenario della California dell’euforia psichedelica, dell’amore libero, luogo di attrazione per eccellenza della nuova generazione, quello di Jim Morrison fu un richiamo spirituale che mirava ad attrarre milioni di giovani con qualcosa di più elevato che aveva a che fare con l’utopia, il richiamo di un visionario, capace di immaginare un mondo diverso («vogliamo il mondo e lo vogliamo subito»). Jim Morrison fu un cantante ma anche un poeta che scriveva poesie e aveva sognato di fare cinema, e per questo aveva studiato a una scuola prestigiosa come l’Ucla, l’Università della California di Los Angeles. Era nato a Melbourne, in Florida, vicino a Cape Canaveral, l’8 dicembre del 1943. Suo padre Steve era un ufficiale di marina, pilota, poi ammiraglio e sarebbe diventato vice capo delle operazioni di guerra in Vietnam. Jim visse i primi anni seguendo i suoi nei trasferimenti e soggior-


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be portato il loro leader in Tribunale, con l’accusa di “atti osceni in luogo pubblico” ulla Luna: il culmine di una generazione che aveva osato dare l’assalto al cielo

o a Jim Morrison

nando, nel tempo degli studi, presso i nonni paterni a Clearwater nel Golfo del Messico. Fu durante uno dei suoi numerosi trasferimenti che assisté al famoso incidente in cui vide gli indiani morti nel deserto, tra Santa Fè e Albuquerque, che, secondo quanto lui stesso avrebbe poi raccontato, avrebbe segnato la sua vita. Iscritto al St. Petersburg Junior College e poi alla Florida State University approdò all’Ucla per studiare cinema, ma deluso si ritirò a Venice Beach, dopo essersi fatto riformare per evitare l’arruolamento e la partenza per il Vietnam. È in questo periodo che avvenne il famoso incontro con Ray Manzarek sulla spiaggia di Venice, nell’agosto del 1965, che deciderà il suo destino e segnerà la sua conversione alla musica e la creazione di quel complesso che si chiamerà The Doors, con riferimento ai versi di William Blake nel Matrimonio del Paradiso e dell’Inferno («Se le porte della percezione fossero rese trasparenti, ogni cosa apparirebbe così com’è, infinita»). Dunque nel 1965 nasce il complesso The Doors formato, oltre che da Jim, da Ray Manzarek, Robbie Krieger e John Densmore, e sempre a quell’anno risale

Nel 1965 nasce il complesso “The Doors” formato, oltre che da lui, da Ray Manzarek, Robbie Krieger e John Densmore. Sempre a quell’anno risale la conoscenza con Pamela Courson, la sua “compagna cosmica” anche la conoscenza di Jim con Pamela Courson, la sua “compagna cosmica”.

L’improvvisazione e l’eccentrico erano le caratteristiche delle esibizioni del gruppo, tra musica e teatro. All’inizio Jim cantava dando le spalle al pubblico, poi pian piano prese confidenza e cominciò a prendere coscienza del suo fluido magnetico, della sua possibilità di manipolare le folle. Nacque così il re Lucertola, con l’aspetto del bel tenebroso, magro, volto scolpito, occhi magnetici e riccioli che scendevano per le

spalle, vestito con pantaloni neri di vinile. Quel riferimento alla lucertola richiama un epigramma di Nietzsche in Al di là del Bene e del Male: «In ogni specie di ferita e di perdita l’anima inferiore e più rozza si trova meglio di quella nobile: i pericoli di quest’ultima devono essere più grandi, la sua probabilità di incorrere nella sventura e di andarsene in rovina, data la multiformità dei suoi condizionamenti vitali, è addirittura enorme. In una lucertola l’arto, che sia andato perduto, ricresce: non così nell’uomo».

Nella sua biografia pubblicata dalla Elektra all’inizio del 1967 si legge tra l’altro: «Sono sempre stato attratto dalle idee di ribellione contro l’autorità. Mi piace il concetto di sconvolgere o sovvertire l’ordine costituito. Sono affascinato dalla rivolta, dal disordine, dal caos – in particolare dalle attività che sembrano prive di significato. Ho la sensazione che siano la strada verso la libertà; che la ribellione esteriore porti alla libertà interiore. Anziché partire da quello che ho dentro, io voglio partire da fuori, raggiungere la mente attraverso il corpo». È appunto il 1969 quando, a seguito del famoso concerto di Miami,

inizia l’azione legale che doveva portare al processo, un processo kafkianamente più interno che esterno. Dopo l’ultimo album di successo, Morrison Hotel, nel 1970, e dopo la registrazione di L.A.Woman, Jim, che nel frattempo aveva iniziato a pubblicare i suoi scritti, partì per Parigi all’inseguimento dell’imprendibile Pamela e di un altro se stesso, come è detto in Paris Blues. Il 3 luglio del 1971 Jim venne trovato morto a Parigi, nella vasca da bagno dell’appartamento di rue Beautreillis dove abitava con Pamela. Sepolto al Père Lachaise, il cimitero che aveva visitato solo tre giorni prima della sua morte, la sua pietra tombale, coperta di graffiti, venne rubata nel 1990 e sostituita da quella che ora si può vedere e che è un blocco di granito fatto porre dal padre a cui è applicata una placca di bronzo con il nome del cantante, la data di nascita e di morte e l’epitaffio con la scritta in greco «Kata Ton Daimona Eaytoy», che significa «Fedele al suo spirito». Pamela, la sua «compagna cosmica», morì a Hollywood per overdose il 25 aprile 1974 e il 29 aprile, organizzata dai Courson, si svolse una funzione funebre in memoria di Jim e Pamela presso l’Old North Church del Forest Lawn Cimitery in cui Ray Manzarek suonò all’organo When the Music’s Over, Love Street e The Crystal Ship.

Già nel 1979 Francis Ford Coppola usò la canzone The End per la colonna sonora del suo film sulla guerra in Vietnam Apocalypse Now e poi nel 1991 Oliver Stone diresse la biografia filmata The Doors. È il caso anche di ricordare la celebre copertina del 1981 della rivista Rolling Stone, nata nel 1967, anno dell’improvvisa affermazione dei Doors, dove, accanto a una foto di Jim nel suo pieno fulgore, si legge: He’s hot, He’s sexy and He’s dead. A consacrare l’immagine di Jim come poeta ha contribuito il libro Rimbaud e Jim Morrison. Il poeta come ribelle di Wallace Fowlie, l’insigne professo-

re di letteratura francese alla Duke University a cui Jim nel 1968 aveva indirizzato una lettera per ringraziarlo della sua traduzione in inglese di Rimbaud («Caro Wallace Fowlie, volevo solo ringraziarla per la sua traduzione di Rimbaud. Ne avevo bisogno perché non leggo correntemente il francese. Sono un cantante rock e il suo libro viaggia sempre con me»). Motivo costante di molti testi di Jim, come People Are Strange («La gente è perfida quando sei indesiderato...»), è la solitudine, un motivo che Jim ha in comune con quel Kafka che, rispondendo a Janouch, dirà, usando un’espressione che Marthe Robert riprenderà per intitolare il suo celebre libro, di sentirsi «solo come Franz Kafka» («Tanto solo si sente?»... «come Kaspar Hauser?»... «Molto peggio di Kaspar Hauser. Mi sento solo... come Franz Kafka»). All’inizio della sua commemorazione funebre di Jim Morrison a trent’anni dalla morte in uno scritto intitolato significativamente The Unforgettable Fire che apparve su «Rolling Stone» del 30 agosto 2001 Mikal Gilmore diceva: «In quello strano, meraviglioso anno che fu il 1967, nel mezzo di una stagione in cui il rock and roll stava cercando di definirsi come la forza unificante di una nuova comunità di giovani, Jim Morrison dei Doors proclamò a chiunque volesse ascoltarlo «Puoi immaginare come sarà? / Così illimitato e libero... / E tutti i ragazzi sono folli...».Tu ascoltavi quell’affermazione - nel bel mezzo di The End, il lungo sorprendente brano che chiude l’album di esordio della band - e o prendevi queste parole come una conferma delle tue peggiori paure o eri imbaldanzito dalla loro promessa. Se eri preoccupato per dove la cultura dei giovani era diretta (“Tutti i ragazzi sono folli”), probabilmente poteva apparire come una minaccia, ma se eri uno di quei giovani di cui Morrison cantava a quel tempo allora stavi ascoltando una voce che ti riconosceva e ti abbracciava, che dava implicito supporto alla tua “follia”. In effetti i Doors si stavano imponendo come la band archetipa per una apocalisse americana che noi ancora non sapevamo che stesse salendo lentamente su di noi». E anche noi possiamo concludere, riprendendo le parole di Mikal Gilmore, che a Jim Morrison dobbiamo dare quello che gli è dovuto, che dopo tutto egli ebbe la grazia di cantare ai giovani in tempi in cui essi si sentivano come ragazzi folli in una terra disperata, con il disperato bisogno di una mano straniera.


mondo

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Iran. Sempre più aspre le critiche dei leader religiosi e politici al regime. E Karroubi mostra un coraggio fuori dalla norma

L’Onda continua L’arresto dei nipoti dell’ayatollah Montazeri non ferma la lunga protesta dei riformisti di Michael Ledeen a prova di forza programmata per venerdì sta diventando sempre più drammatica. Mentre il regime ancora non si è mosso contro i reali leader dell’opposizione, questi stanno radunando soci e parenti vicini, sperando presumibilmente di mettere a tacere Mousavi e Karroubi, e stanno minacciando Rafsanjani per tenerlo ambiguamente in riga. Hanno quindi arrestato tre nipoti del Grande Ayatollah Montazeri, che ha rivolto un appello a tutti gli ecclesiastici per combattere il regime, insie-

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preparati a questo». Ricordate che Karroubi aveva provocato gli uomini della sicurezza che si presentarono nel suo ufficio qualche giorno fa dicendo loro «Perché non mi arrestate adesso? Sarebbe un onore». In verità, proprio ieri Karroubi si è incontrato con il portavoce del parlamento Ali Larijani, che aveva cercato di convincerlo ad essere “ragionevole” con la promessa di riforme graduali. Karroubi è uscito fuori e ha pubblicato una lettera aperta, in cui forniva prove di violenze e torture pepetrate nelle prigioni

Soroush scrive alla Guida Suprema: «Dobbiamo celebrare la scomparsa del dispotismo religioso. La società morale è uno dei fari del nostro Paese. Dobbiamo coltivare e stimare la libertà del popolo» me al fratello della signora Mousavi, a parenti e ad ecclesiastici di primo pianto a Qom. Il New York Times ha scritto: «Questa tattica non funzionerà contro Mousavi e Karroubi, che sono fermamente convinti di essere nel giusto (sono entrambi profondamente religiosi) e che la loro causa vincerà, anche se dovessero morire nel processo. Inoltre, sembrano

che aveva presentato agli investigatori governativi. Io non credo che nessuno in Iran al di fuori di una cerchia molto ristretta immaginava che Karroubi fosse capace del coraggio che ha dimostrato negli ultimi tre mesi. Ed eccolo qui: si è comportato da eroe. Nel frattempo Khamenei e il regime sono stati aspramente criticati dalle due figure islamiche di punta, Abdolkarim Soroush (che insegnava all’università di Georgetown e quest’anno insegnerà a Princeton) e il grande ayatollah Montazeri, a lungo critico di Khamenei (Montazeri arrivò secondo a Khamenei nella successione a Khomeini come Capo Supremo, ma nonostante il suo movente di vendetta è ampiamente rispettato sia in Iran che in tutto il mondo sciita). Il linguaggio è molto aspro. Soroush (in una lettera aperta a Khamenei) scrive: «La diminuzione della paura della popolazione e la scomparsa della legittimità del concetto di Leadership Suprema sono le più grandi conquiste della rivolta d’onore a saccheggio. Il leone dormiente del coraggio e della resistenza è stato svegliato. Né l’usurpazione da parte del-

le milizie, o le violenze commesse dai corrotti, né la polvere gettata negli occhi dell’umanità, o l’aria calda per gonfiare le vesti lacere del regime, né la dipendenza dalla ferocia animalesca, o gli attacchi alle scienze umane (Soroush si riferisce al recente discorso di Khamenei in cui il Capo Supremo espresse preoccupazione per le scienze umane insegnate nelle università iraniane perché inciterebbero alla secolarizzazione), né l’adulazione degli adulatori che pagate, o la poesia dei pazzi venditori di poesia, niente di tutto questo riuscirà a piegare la schiena della resistenza… Noi siamo una generazione fortunata. Dobbiamo celebrare la scomparsa del dispotismo religioso. Una società morale e un governo al di là della religione sono i fari del nostro Paese Verde. Dobbiamo coltivare e stimare la libertà, la stessa libertà che voi non avete valutato e su cui avete ammucchiato ingiustizie. Vi è stato venduto il fascismo e avete detto che la libertà è capricciosa e permissiva…».

Se aveste permesso, continua, «alla stampa di essere libera, avrebbe divulgato la corruzione e i corrotti non avrebbero osato impegnarsi nei loro misfatti. Se aveste permesso alla gente di criticarvi, non sareste caduti nell’abisso della dittatura e della corruzione del potere. Le vere parole della gente avrebbero dissipato il vostro stordimento da ignoranza. Loro rappresentano le scuole della nazione, non “basi nemiche”. E cosa ci sarebbe stato di così terrificante nel tenere aperte le porte di queste scuole e permettere anche a voi di imparare? Noi coltiveremo la religione, la stessa religione che voi avete reso strumento del vostro potere e nel cui nome avete impartito lezioni di schiavitù e malinconia.Voi non avete capito che la gioia e la libertà camminano di pari passo con la vera fede … e che il potere religioso corrompe sia la religione che il potere. Governare un popolo gioioso, libero, informato e agile è una conquista, non spadroneggiando su un paese costretto e demoralizzato». Montazeri in una lettera

agli ecclesiastici sciiti (questa tratta da un riassunto per mano della sua gente): «Montazeri si è appellato agli ecclesiastici, avvisandoli che portavano una pesante responsabilità in quanto giureconsulti. Questo - disse - perché loro erano responsabili della difesa della religione e della sua epurazione dalle azioni che questo regime ha perpetrato nel nome della religione, azioni che sono diametralmente opposte alla sharia e agli obiettivi della rivoluzione islamica.In riferimento agli eventi degli ultimi mesi a seguito del-

pellato agli ecclesiastici dicendo che è loro compito e loro responsabilità storica e tradizionale di agire alla luce di queste azioni del regime, che vanno contro all’islam.

Per concludere, ha affermato che il popolo iraniano sta chiedendo il motivo per cui gli ecclesiastici non stanno uscendo allo scoperto contro l’oppressione e l’ingiustizia. Ha ripetuto il suo appello agli ecclesiastici affinché usino il loro potere, la loro abilità e la loro influenza contro il regime perché - ha

È la paura che mantiene Khamenei, suo figlio (l’eminenza grigia della repressione), Ahmadinejad e il resto della magra rispettabilità dei fedeli che siedono in cima ad una società in fiamme che li odia le elezioni presidenziali che secondo lui - comprendevano omicidi, oppressione e diverse violazioni dei diritti umani nel nome della religione e con il sostegno di parte dell’establishment del regime religioso, Montazeri si è appellato agli ecclesiastici affinché dichiarassero la loro opposizione al regime. Montazeri ha sottolineato nello specifico la pressione che il regime poneva ai precedenti candidati alle presidenziali Mehdi Karroubi e Mir Hossein Mousavi, che lui chiamava uomini d’onore, e ancora si è ap-

detto - sanno perfettamente che il regime ha bisogno della loro legittimazione. Il regime Montazeri ha detto agli ecclesiastici - «vi sta sfruttando, e il vostro silenzio vi rende suoi collaboratori». Coloro che credono che l’islam sia una dottrina monolitica e invariabile che giace sulla roccia della sharia (la legge islamica), dovrebbero notare che qui ci troviamo di fronte a due preminenti teologhi sciiti in aperto conflitto con una “repubblica Islamica” che dichiara di governare in accordo con la sharia. Sia Soroush


mondo

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Si complica il puzzle tra Usa e Teheran: dichiarazioni pubbliche e diplomazia segreta

Ma Washington tende ancora la mano di Pierre Chiartano ialogo, nucleare e vecchi conti da saldare. Il rapporto tra America e Iran sta diventando una trama intricata, come i mille nodi asimmetrici di un tappeto di Shiraz. Nel difficile puzzle della teocrazia sciita, dove le dinamiche della politica interna si intrecciano sempre di più con gli eventi della scena internazionale, i rumor tendono ad arricchire lo scenario. Per non dire che lo complicano. Non ultima la notizia di una seconda missiva del presidente Obama indirizzata alla guida suprema Kamenei. La fonte è l’agenzia Tabnak. Il contenuto della missiva, che sarebbe stata inviata un paio di settimane fa, farebbe riferimento alla volontà della Casa Bianca di reiterare il tentativo di apertura al regime degli ayatollah, cercando di creare pressioni sul presidente Ahmadinejad. Schermaglie a parte, proposte di aperture e rifiuti, sia Washington che Teheran hanno interesse che la nave del dialogo arrivi prima o poi in un porto. Forse è più interesse statunitense – vista la situazione più fragile, bisognosa di un primo risultato in Medioriente – ma anche il regime teme molto l’isolamento, non solo quello internazionale, ma anche quello dell’universo sciita che ha già dato segni di disaffezione. Sullo sfondo di questi stop and go diplomatici ci sarebbe la soluzione del contenzioso finanziario tra Usa e Iran. Un problema legato alla crisi degli anni Ottanta. In pratica, la Persia dei Pahlavi aveva fortemente finanziato il programma del caccia F-16 Falcon, di cui voleva dotare la propria aviazione militare. Poi col congelamento di tutte le risorse finanziarie iraniane, dopo la rivoluzione khomeinista, il diavolo ci mise la coda. Perché gran parte degli allora ipertecnologici caccia americani finirono per equipaggiare l’aeronautica israeliana. Non è chiaro a che livello sia stata fatta la proposta, e se sia credibile il doppio tavolo diplomatico ed economico. Si parlerebbe di un risarcimento tramite la consegna di una ventina di Boeing per il trasporto passeggeri e di un canale di finanziamento di 2,5 miliardi di dollari per l’acquisto di pezzi di ricambio. Intanto il dipartimento di Stato lavora sul fronte nucleare. La questione nucleare «non può prescindere» dai prossimi colloqui con l’Iran, nonostante le precisazioni di Teheran di non voler trattare sul suo programma, che considera un diritto. Lo ha affermato il segretario di Stato americano Hillary Clinton, martedì scorso, aggiungendo che «è importante sottolineare che noi abbiamo detto chiaramente agli iraniani che qualsiasi negoziato a cui partecipano gli Usa deve mettere la questione nucleare davanti alle altre». La risposta non si è fatta attendere. Ieri, a

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due settimane dalla nuova tornata di colloqui in Turchia, tra delegati di Teheran e del cosiddetto 5+1 sul controverso programma nucleare, il regime degli ayatollah è tornato a fare la voce grossa, affermando che la repubblica islamica è ormai «una potenza nucleare», sebbene «non possieda armi atomiche».

«Non accetteremo alcuna minaccia, durante i negoziati e nemmeno dopo.Vogliamo trattative basate sulla logica e sul diritto internazionale», ha aggiunto. «Debbono accettare un Iran nucleare», ha aggiunto Javanfekr, consigliere per la comunicazione del presidente Mahmoud Ahmadinejad. «Quello che vogliamo», ha incalzato, «è che le Potenze mondiali rispettino i nostri diritti nucleari, e anche gli altri. Può essere il primo passo verso la normalizzazione dei rapporti con Stati Uniti e Occidente». Il consigliere di Ahmadinejad ha

In pubblico ostentano rapporti tesi, ma dietro le quinte i due Paesi continuano a tessere la tela dei rapporti, tra ventilati accordi economici e un difficile percorso politico

che Montazeri vogliono porvi fine e entrambi accoglierebbero uno stato secolare. Infine, entrambi erano stretti alleati dell’Ayatollah Khomeini e svolsero ruoli importanti nella Rivoluzione (così come Mousavi e Karroubi). Critiche simili provengono dai settori precedentemente apolitici della società iraniana. Come è riportato dal New York Times: «Un regista conservatore e attivista lunedì ha scritto un’insolita lettera all’ayatollah Khamenei in cui lo condannava per le violenze verificatesi dopo le elezioni. “In qualità di comandante in capo delle forze armate, lei non ha trattato bene la popolazione dopo le elezioni”, scrisse il regista Mohammad Nourizad nella lettera pubblicata su diversi siti compreso il suo blog. Nourizad incolpava Khamenei in persona per l’ondata di violenza.

Infine, si assiste anche alla violenza contro il regime, di cui si parla raramente, ma c’è un recente articolo che riporta di uomini armati che hanno fatto irruzione nella casa del provvisorio capo sermone del venerdì a Sannadaj a seguito delle preghiere del venerdì, e lo hanno ucciso. Era un importante ecclesiastico nella provincia del Kordestan che aveva sostenuto Ahmadinejad nelle ultime elezioni. Si tratta del secondo attentato alla vita di ufficiali a

Sannadaj nel corso dell’ultima settimana, il primo fu un attentato fallito per uccidere un giudice della Corte Rivoluzionaria locale. I francesi chiamano questo fenomeno “Thermidor”. Si tratta della distruzione della rivoluzione per mano dei rivoluzionari stessi.

È la paura che mantiene Khamenei, suo figlio (che sembra essere l’eminenza grigia che guida le forze di repressione in questi giorni), Ahmadinejad e il resto della magra rispettabilità dei fedeli che siedono in cima ad una società in fiamme che li odia. E inoltre non c’è un singolo leader occidentale che ha sostenuto questa opposizione, ne’ che abbia chiesto la liberazione di prigionieri politici iraniani, ne’ che abbia rifiutato di riconoscere Ahmadinejhad come presidente legittimo. Tutti sono ossessionati dalla questione nucleare, ignorando il male del regime e della guerra che ha mosso contro di noi per più di trent’anni. I cittadini con qualche briciola di senso comune dovrebbero chiedere ai loro leader: «Gli iraniani ci stanno uccidendo, cosa pensate di fare?». Nel nostro caso, la risposta è chiaramente: «Niente. Forse ne parleremo un po’». Mi dicono che molti iraniani ora stanno apertamente chiamando Obama “Il ciambellano”. E hanno i loro motivi,

quindi ribadito che non ci sarà trattativa sul programma nucleare. «Abbiamo già fatto presente che i negoziati si fonderanno sul nostro pacchetto di proposte, dove il programma nucleare dell’Iran non è compreso. Come ha affermato il nostro presidente, la questione nucleare è chiusa». Non è mancato un affondo contro il presidente americano Barack Obama, che a detta di Javanfekr ha sprecato un’occasione unica quando «non si è congratulato con il nostro presidente per la sua vittoria elettorale». Quindi la guerra di nervi continua e il regime manda continuamente segnali intimidatori all’opposizione interna, con arresti – seguiti dal rilascio – dei figli degli uomini che contano per Mir-Hossein Mousavi.


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Afghanistan. I brogli pesano sul risultato delle elezioni presidenziali segue dalla prima Più di un milione delle schede contestate sono a favore di Karzai. Se così fosse e se dovessero essere annullate, al presidente uscente sfuggirebbe la vittoria al primo turno annunciata ieri e si dovrebbe andare a un ballottaggio che Abdullah Abdullah ha già ufficialmente chiesto, ma che non si potrebbe tenere prima della prossima primavera perché durante l’inverno afgano, che è alle porte, non è nemmeno pensabile organizzare una seconda tornata elettorale. Così il voto del 20 agosto è diventato un rompicapo che mette in imbarazzo le commissioni internazionali chiamate a vegliare sulla regolarità di questa consultazione. E che mette sempre più in rotta di collisione gli Stati Uniti e gli europei sulla strategia da seguire nel conflitto. Barack Obama rifiuta di paragonare l’Afghanistan al Vietnam. Anche ieri, in un’intervista al New York Times, ha detto che «ogni momento storico è diverso» e che bisogna evitare di «cadere nello stesso fiume due volte». In altre parole, Obama non ha intenzione di seguire le orme di Lyndon Johnson che scelse l’escalation militare che gli suggeriva, allora, il generale Westmoreland che era convinto di poter battere sul terreno i vietcong e che diceva di «vedere la vittoria in fondo al tunnel». Anche oggi lo stato maggiore chiede rinforzi (ci sono già 62mila soldati Usa in Afghanistan che dovrebbero diventare 68mila entro la fine dell’anno), ma Barack Obama temporeggia. Contro i talebani vuole intrecciare l’azione politica a quella militare. Per questo la Casa Bianca ha puntato molto sulla legittimazione del governo di Kabul e sulla possibilità che Karzai riesca a dividere il fronte talebano isolando gli irriducibili dai moderati. Compito senz’altro arduo, ma che potrebbe riuscire a Karzai proprio perché è un pashtun come la stragrande maggioranza dei talebani e, in virtù dei suoi legami di sangue, potrebbe almeno stringere alleanze con quei signori della guerra che controllano una parte delle milizie che combattono contro il governo centrale. In una coalizione che, con grande approssimazione, viene definita “fronte talebano”, ma che è legata da interessi diversi: da quello,

La vittoria a Karzai ma Obama è deluso Diplomatico Usa lascia la missione Onu a Kabul: era favorevole al ballottaggio di Enrico Singer

Peter Galbraith ha avuto uno scontro verbale con il capo della rappresentanza, il norvegese Kai Eide, sui voti da annullare in mille seggi su 6.500 primario, del traffico dell’oppio e delle armi, a quello del controllo del territorio dove il potere reale è esercitato dai capi tribali. Ma per un simile compito Hamid Karzai dovrebbe uscire vincitore dalle elezioni senza troppe ombre di brogli. E questo è anche l’augurio di Obama. Alla Casa Bianca, e non solo, ci si preoccupa di quello che accadrà

quando la commissione elettorale non potrà più prendere tempo e dovrà decretare un risultato definitivo.

La paura del caos è forte. Abdullah Abdullah - che è ministro degli Esteri nell’attuale governo - chiedendo ufficialmente il ballottaggio, come ha fatto ieri, ha già lanciato la sua sfida. In pratica ha prean-

nunciato che non riconoscerà una seconda presidenza Karzai e che non sarà disposto a fare parte di un governo di unità nazionale. Tra i consiglieri di Obama c’è anche chi è convinto che Abdullah potrebbe spingere per l’autonomia della regione del Nordovest che è abitata dalla popolazione tagika (circa il 25 per cento del totale), se non per la

sua annessione al Tagikistan, ex repubblica dell’Urss, ora indipendente. Ecco perché a Washington la prospettiva di un ballottaggio non è considerata poi così impossibile. Certo, organizzare una nuova tornata elettorale comporterebbe problemi enormi, ma sarebbe anche la prova che si vogliono rispettare le regole.

C’è una vicenda che è passata quasi inosservata in queste giornate convulse. Ma che è molto utile per capire quello che sta succedendo. Il numero due della missione dell’Onu a Kabul, il diplomatico americano Peter Galbraith, ha lasciato l’Afghanistan martedì dopo un violento scontro verbale con il numero uno della missione, il norvegese Kai Eide, sull’atteggiamento da seguire di fronte ai casi di brogli. Galbraith era per la linea dura: pretendeva che fossero annullati i risultati di mille seggi elettorali e che fossero ricontati i voti di altri 5.000 seggi su un totale di 6.500. Se l’Onu che ha il controllo della commissione elettorale internazionale - avesse assunto questa posizione, il ballottaggio tra Hamid Karzai e Abdullah Abdullah sarebbe diventato inevitabile. Peter Galbraith non è un diplomatico qualunque: è il figlio dell’economista John Kenneth Galbraith, è un esponente democratico di primo piano, è un buon amico dell’inviato speciale della Casa Bianca, Richard Holbrooke, ed è autore di molti saggi di politica internazionale tra i quali uno sulla guerra in Iraq - del 2006 - in cui aveva criticato «l’incompetenza dell’Amministrazione Bush che ha creato un conflitto senza fine». La richiesta di Peter Galbraith si è scontrata con la posizione più morbida del norvegese Eide che interpreta, in fondo, le preoccupazioni degli europei impegnati in Afghanistan che non hanno alcuna intenzione di arrivare a ripetere le elezioni. Non fosse altro perché un ballottaggio avrebbe costretto a un nuovo impegno straordinario di truppe. Soltanto l’Italia ha inviato quasi trecento militari in più e anche gli altri Paesi impegnati nella missione Nato hanno rafforzato i loro contingenti, ma ora sono ben decisi a ridurli. Lo stesso segretario generale della Nato, il danese Anders Fogh Rasmussen, si è detto preoccupato per il futuro della missione e ha lanciato un appello alla «responsabilità di tutti».


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17 settembre 2009 • pagina 17

La frangia di al Qaeda conferma la morte del proprio leader

Non ci sarà la “public option” all’esame del Senato

Al Shabaab: «Vendetta per i blitz in Somalia»

Sanità Usa: presentati da Baucus i particolari

NAIROBI. Al Shabaab, il brac-

WASHINGTON. Alla fine i democratici hanno ceduto. La famigerata “public option”, la nascita di una compagnia pubblica che competa sul mercato costringendo le assicurazioni private ad abbassare i prezzi, non ci sarà. O meglio non sarà nelle mani del governo, mettendo così da parte il nodo che aveva attirato su Barack Obama l’accusa di “socialismo”. La proposta ufficiale è stata presentata questa mattina e arriverà già oggi all’esame della commissione Finanze del Senato. Al posto di una compagnia nelle mani dello Stato nascerà una rete di cooperative che offriranno polizze a basso costo. Un compromesso per convincere i repubblicani ad appoggiare la

cio armato somalo di al Qaida, ha ieri giurato “vendetta” per l’uccisione del suo leader Saleh Ali Nebhan avvenuta nel corso di un fulmineo blitz effettuato nel sud della Somalia da elicotteri Usa lunedì scorso. Ciò mentre il Governo federale di transizione somalo (Tfg) esulta per la riuscita dell’operazione e la famiglia della vittima chiede da Mombasa, dove risiede da generazioni, le spoglie di Ali Nabhan, circa 30 anni, uno dei capi regionali di al Qaida.« Lo vendicheremo», ha dichiarato un comandante dei terroristi islamici oggi a Baidoa (ovest della Somalia), invocando anche l’arrivo di nuove forze jihadiste. Già in movimento: fonti di intelligence britannica hanno di recente indicato che ci sono un centinaio di persone pronte a raggiungere gli shabaab dalla Gran Bretagna, molti altri sono già arrivati da Pakistan, Afghanistan, Cecenia e paesi arabi, qualcuno perfino dagli Usa. Intanto il bilancio del blitz rimane incerto. Appare sicura la morte di Ali Nabhan, confermata da Shabaab, Tfg ed informalmente dagli Usa. Col suo cadavere, sono state portate via - non si sa in quali condizioni- almeno altre cinque persone. Il luogo dell’incursione era l’area di Barawe, circa 230

Sul “ Barroso secondo” si dividono Pdl e Lega Il portoghese incassa il sì dei conservatori britannici di Osvaldo Baldacci olidarietà e libertà per l’Europa del “Barroso 2”. Sono le parole chiave del discorso del riconfermato presidente della Commissione dell’Unione Europea. Ma intanto la nomina alimenta le divisioni nel centrodestra italiano. L’Europarlamento ha rinnovato il mandato quinquennale al portoghese José Manuel Durao Barroso con 382 voti favorevoli, 219 contrari e 117 astensioni. Più che la maggioranza assoluta di 369 voti (la metà più uno dell’Assemblea di 736 membri), che sarebbe richiesta dal Trattato di Lisbona, se fosse già in vigore. Barroso si è giovato del supporto determinato del Partito Popolare Europeo e del sostegno di diversi leader del continente. Il risultato del voto, in termini di numeri e quindi di legittimità e forza politica, non era scontato. Alla fine è arrivato il sì dei liberali e dei conservatori, ma c’è anche chi si è opposto e i socialisti hanno deciso di astenersi, come ha rivendicato il PD italiano, contento di aver “ridotto”la forza del consenso a Barroso, consenso giudicato da Sassoli «troppo di destra» a causa dell’appoggio dei conservatori, mentre Barroso è definito da Pittella «succube dei governi». Il “nuovo” gruppo dell’Alleanza di socialisti e democratici europei ha deciso per l’astensione perché spaccato tra favorevoli e contrari. Intanto su Barroso la “destra” italiana si è spaccata, una notizia se vista all’interno del rissoso clima italiano. Il Popolo della Libertà ha infatti rivendicato un ruolo importante nella conferma di Barroso, e per Mauro si tratta di un successo di Berlusconi, il quale si è subito congratulato con il portoghese. Contemporaneamente però, il capogruppo della Lega Nord Mario Borghezio dichiarava: «Siamo fieri di non aver contribuito con il nostro voto alla rielezione dell’uomo di fiducia del Bilderberg Club e, quindi, dei poteri forti e occulti». Non proprio la stessa linea per i due partiti soci di maggioranza nel governo italiano. Per Barroso la sfida del voto di fiducia nell’aula di Bruxelles era però solo la prima delle prove. Ora il terzo Presidente di Commissione ad aver ricevuto un secondo mandato, dopo Walter Hallstein e Jacques Delors, dovrà formare la sua Commissione

S

e sarà messo alla prova del programma.Trovando sulla sua strada subito il 2 ottobre una mina pericolosissima: il secondo referendum irlandese sul Trattato di Lisbona, una consultazione voluta per superare il precedente no ma il cui risultato non è così scontato. Un no colpirebbe a morte il nuovo trattato, ferirebbe profondamente l’Europa, e naturalmente dimezzerebbe l’autorevolezza dei suoi governanti.

D’altro canto se Lisbona entrasse in vigore Barroso dovrebbe affrontare la “concorrenza”di un presidente dell’Unione Europea e di un forte ministro degli Esteri europeo. Per questi motivi il 2 ottobre è una data discriminante: Barroso vorrebbe riuscire a formare la sua Commissione prima, a tempo di record, magari puntando su molte riconferme. I socialisti e i verdi invece chiedono di aspettare il risultato irlandese. I socialisti inoltre chiedono la costituzione di una Commissione che preveda portafogli importanti per i commissari del fronte progressista, per bilanciare quello che a loro avviso è l’eccessivo peso politico degli euroscettici. L’ampia maggioranza con cui è stato rieletto Barroso, però, gli renderà un po’ più semplice sciogliere il rebus delle alleanze “prevalenti”. Barroso dovrà però formare la Commissione tenendo conto di due fattori di equilibrio: la provenienza nazionale dei commissari e il bilanciamento politico. Un’opera sempre più difficile perché ogni casella incide sulle altre. Anche per questo Barroso vorrebbe puntare il più possibile sulla continuità. Decisive saranno le scelte dei commissari per l’immigrazione (è una novità di questa Commissione) nonché per mercato interno, concorrenza, telecomunicazioni, ambiente. E un eccesso di continuità può rappresentare un problema anche a livello di programma: già nel lustro appena trascorso c’è stata una certa timidezza, ma adesso pensare di mantenere gli stessi approcci mentre il mondo intorno è radicalmente cambiato potrebbe non bastare. C’è da affrontare la crisi, e anche i suoi effetti cioè le politiche non coordinate dei singoli Stati, a volte al limite del protezionismo.

L’Europarlamento ha rinnovato il mandato al presidente con 382 voti favorevoli, 219 contrari e 117 astensioni

km a sud di Mogadiscio, zona controllata dagli Shabaab. Di cui si temono ora reazioni violente. Fonti somale attendibili di Nairobi segnalano intanto che sarebbero stati arrestati anche alcuni dei loro capi storici, ritenute teste di ponte del Tfg. E comunque hanno nelle loro mani numerosi ostaggi, tra cui uno 007 francese. Con un collega era stato rapito in luglio a Mogadiscio. Molti osservatori, poi, sottolineano che il blitz americano sembra segnare una svolta strategica, più aggressiva. Non a caso negli ultimi giorni fonti ufficiali Usa avevano ribadito che l’unica via di salvezza per la Somalia passa attraverso l’appoggio al Tfg e la lotta totale all’ integralismo islamico.

riforma in Senato dove i numeri sono strettissimi. L’accordo però non c’è stato comunque; Max Baucus, il presidente della commissione Finanze che per settimane ha cercato la mediazione con l’opposizione ha alla fine rinunciato a far firmare il testo anche ai tre repubblicani incaricati delle trattative. La proposta è però molto più “morbida”della versione iniziale e nei prossimi giorni i democratici cercheranno di portare dalla loro la manciata di repubblicani moderati che garantirebbero di varare la riforma. Il costo totale del piano sarà di 856 miliardi di dollari in dieci anni. Il nuovo sistema è il famoso “Co-Op”, l’alternativa che lo stesso Obama aveva definito ”un’idea percorribile” rispetto al suo piano di creare un’assicurazione pubblica, che comunque non avrebbe previsto un sistema all’europea, ovvero di assistenza “gratuita”per tutti. Co-Op sta per “Consumer Operated and Oriented Plan”, ovvero una rete di cooperative noprofit gestite direttamente dai pazienti che potranno operare in uno o più Stati ciascuna. Il piano di Baucus prevede lo stanziamento di 6 miliardi di dollari per la creazione di queste cooperative che competeranno sul mercato affianco delle società private.


cultura

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Libri. “La vicevita” di Valerio Magrelli, “Oggetti smarriti e altre apparizioni” di Beppe Sebaste e “Questa e altre preistorie” di Francesco Pecoraro

Se questo è un luogo Ricerca, senso e riempimento degli “spazi-vuoti” di tutti i giorni attraverso tre esempi di narrativa contemporanea di Federico Francucci uanto tempo ciascuno di noi trascorre sui treni, sui mezzi pubblici, in auto in mezzo al traffico? O nelle sale d’attesa, nei Duty free degli aeroporti, nei centri commerciali, nei Village stores a poche centinaia di metri da uno svincolo autostradale? Quanto del nostro tempo passiamo a circolare, a far circolare denaro e merci, a consumare ed essere consumati? E pochi si sentirebbero di dire che gli abitacoli, le sale, i corridoigallerie in cui ci si muove (poco) in quelle circostanze siano spazi congeniali a stabilire relazioni, trovare una condizione comune radicata in un luogo da condividere, un luogo che significhi qualcosa per ognuno di noi.

Q

Tempi morti, vuoti o sospesi, tempi in cui si vorrebbe ammazzare il tempo, e spazi generici, fatti per essere occupati da chiunque, e da nessuno in particolare. Che tipo di esperienza, di legame che contribuisce a formare la nostra percezione del mondo, con noi dentro, può mature in coordinate di questo genere? Ma d’altra parte chi non si è sentito almeno una volta come sollevato da un imprevisto, un appuntamento saltato, un repentino cambio di programma che lasciava inaspettatamente un intervallo di tempo sgravato dalle faccende, dalla necessità di essere qui o da un’altra parte? Chi non ha goduto di queste brevi o minime vacanze, queste casuali pillole di domenica durante le quali non si ha nulla da fare e, senza strappare la tramatura del quotidiano, si è liberi di non programmare nulla e, per esempio, di andarsene in giro? Si tratta, certo, di due modalità molto diverse di esperienza del vuoto e del disimpegno. Entrambe però hanno in comune, almeno, le difficoltà che

presentano a chi tenta di raccontarle, se non altro secondo un modello di racconto consolidato e immensamente riproposto, che vuole organicità del quadro, motivazioni forti e immediatamente chiare, svolgimento controllato in vista del conseguimento di un fine. Le esperienze di cui parliamo sono troppo lente o troppo veloci, statiche o frenetiche, e sempre ripetitive e inconcludenti. Come si racconta la coda a uno sportello ospedaliero, o un tragitto casa-lavoro, o mezz’ora passata su una panchina senza fare nulla? E il problema non è graduare le ripetizioni, riempire gli spazi vuoti e trovare un’ipotetica velocità “giusta”; il punto non sta nell’ignorare, o correggere, o togliere legittimità a queste pause e a queste espropriazioni del sé, magari con una cosmetica dei “valori” come quelle che vanno di mo-

da oggi, condotte quasi sempre con mezzi obsoleti e inadeguati, buoni solo per nascondere, anestetizzare un altro po’, e illudere sull’esistenza di una sfera “etica” che sarebbe rimasta intatta sotto l’urto dei tempi.

Il problema è invece, credo, mostrare che la cosiddetta inesperienza in cui ci troviamo

tuffati non è uno schermo uniforme che ci separa dal mondo, e che bisognerebbe sfondare per riconquistare posizioni sicure ora perdute, ma una realtà complessa e formicolante, solo che la si osservi un po’ (ma questo è il difficile, per l’appunto), e che una forma o una traccia di forma, attraverso cui ogni nostra possibilità di intendere deve per forza passare, può essere prodotta, oggi, forse soltanto in interazione immersiva con il rumore bianco che popola e modella il nostro paesaggio mentale, con l’equilibrio apparentemente indifferente di un mondo di circolazione insensata.

Anziché pensare di tirarsene fuori per volontà o per magia, occorre convincersi che solo sul bilico della completa insignificanza e della sordità più ottusa è possibile far sentire, far percepire qualcosa. E su questo gli scrittori, il cui mestiere consiste appunto nel mettere in forma e dare a percepire, possono aiutarci. Non con ricette pronto uso o con opinioni che ci verrebbero gentilmente fornite, pronte da abbracciare (“diteci cosa dobbiamo pensare, presto!”), ma prima di tutto con quell’impasto di lingua ed esperienza, di storia addensata e individualità, che si chiama stile. Valerio Magrelli, Beppe Sebaste e Francesco Pecoraro sono scrittori molto diversi per sentire e per formazione, ma i loro ultimi libri, usciti in collane che fin dal nome vorrebbero cantare fuori dal coro (la laterziana «contromano» per Magrelli – con La vicevita – e Sebaste – con Oggetti smarriti e altre apparizioni; e per Pecoraro – Questa e altre preistorie – l’ottima «fuoriformato» dell’editore Le Lettere), mostrano un fondo comune su cui le rispettive peculiarità si trovano ad agire. Lo si potrebbe chiamare, questo sfondo – come fa Magrelli – la «vicevita», ossia

A sinistra, Valerio Magrelli, autore di “La vicevita”. A destra, Beppe Sebaste, autore di “Oggetti smarriti e altre apparizioni”. In basso, la copertina del libro “Questa e altre preistorie” di Francesco Pecoraro. Qui a fianco, un disegno di Michelangelo Pace

tutte quelle «attività strumentali e vicarie, nel corso delle quali, più che vivere, aspettiamo di vivere, o per meglio dire, viviamo in attesa di altro», tutti i «momenti in cui facciamo da veicolo a noi stessi». Per fermare e rendere riconoscibile questo tempo, che si presenta in pulviscolo inafferrabile oppure in blocchi amorfi, i tre

I tre scrittori mettono al centro della prosa oggetti e situazioni in grado di cristallizzare intorno a sé per analogia le esperienze di molti scrittori individuano e mettono al centro della loro prosa oggetti e situazioni largamente note, in grado di cristallizzare intorno a sé per analogia le esperienze di molti; oggetti che suscitano un’evidenza e funzionano da ancore e da condensatori. Per Magrelli sono i treni, e i viaggi in treno.

Per Pecoraro è il Viadotto (con la maiuscola), ossia una delle grandi arterie del traffico cittadino (che il modello del Viadotto sia un tratto della

tangenziale di Roma è importante, ma non imprescindibile, dato che l’esperienza evocata deve potersi trasferire ad altre situazioni, e combinarsi con altre storie ed altre esperienze). Per Sebaste, che nell’improvvisato gruppo è di sicuro, almeno ad un primo livello, il più eccentrico e marginale, sono tutti gli oggetti piccoli e grandi che vengono perduti, lasciati sulla metropolitana o per strada, oppure (l’altra faccia della medaglia) gli oggetti che vengono alienati, dati in pegno per fronteggiare le necessità della vita (Oggetti smarriti, come da titolo).

Altro aspetto che avvicina i tre volumi è il carattere molto ibrido della loro prosa, scandita in pezzi generalmente brevi che mescolano narrazione, cronaca, documentario, ritratto, autobiografia, attraversando e servendosi di tutti questi generi senza appartenere veramente a nessuno. Ma ciascuno dosa gli elementi a modo suo, e sarebbe difficile confondere una voce con l’altra, l’eleganza posata, quasi neoclassica, tesa a sedare ogni spasmo (o almeno a provarci) di Magrelli, con l’esattezza aspra e ruvida di Pecoraro (costruttore di immagini e osservazioni che restano stampati nella me-


cultura

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consapevolezza che il nuovo tempo ha parassitato anche chi se ne sente escluso («piacciono anche a te», si dice più volte l’io ragionante osservando abbronzatura, abbigliamento e calzature di inequivocabile ascendenza pornografica delle donne che vede durante le sue pause-pranzo).

Al contrario, si direbbe, Sebaste si dichiara apertamente a favore di un’estetica dell’inconsistenza e dell’evanescenza, della grazia che deriva dal non appartenere del tutto ad alcun raggruppamento, ad alcun progetto o identità definita (e scrive un bellissimo pezzo sulla generazione di chi era giovane negli anni Settanta, animata dalla volontà di sparire). Se quello della circolazione e del traffico è tema condiviso, l’io del libro di Sebaste è quasi sempre qualcuno che assiste al movimento, senza prenderne parte; uno che guarda gli altri salire e scendere dai tram, uno che si siede sulle panchine, senza fare nulla. Uno che viaggia sul posto; uno che osserva che tra le cose che più spesso si perdono ci sono i documenti d’identità. Insomma, forse proprio uno di quelli rispetto ai quali Pecoraro si sente di un’altra epoca, di un altro mondo. Ma, di nuovo, le cose non sono così semplici, e, per capirlo, dobbiamo tornare sul Viadotto.

moria), o con l’aggregarsi frase per frase, affidato alla grazia o al caso, del passo di Sebaste. Questi libri non si somigliano, ma, e non è la stessa cosa, hanno qualcosa in comune: la decisione, dovendo affrontare il problema dell’omologazione e dello svanimento del rapporto singolomondo-comunità, di metterla sul personale, cioè di lavorare ed offrire stralci della propria insostituibile storia ed esperienza. E insieme, però, la decisione, non semplice ma necessaria, di non trattare la propria storia e il proprio spessore esistenziale come un fondamento da difendere dagli attacchi, ma, precisamente, come l’oggetto di una sparizione, o come teatro di un intreccio tra il tangibile e l’evanescente, tra il possesso e la perdita. Tutti condotti in prima persona, tutti con forti pieghe autobiografiche e di storia familiare, e per di più, specie nel caso di Magrelli, con scoperti autocommenti di opere scritte

in precedenza, questi tre libri si servono dell’io e del suo “patrimonio” per portarlo ai suoi limiti e descriverne o sancirne l’esautorazione.

Potrebbe sembrare un atteggiamento snobistico o suicida, ma non è così; si tratta anzi di una delle poche strade per evitare la doppia trappola del passato imbalsamato nella totale visibilità e totale irrilevanza dalla luce dello Spettacolo (in modalità nostalgiche o trionfali, non importa), e dell’io-narciso piccolo piccolo che propina i suoi secreti emotivi e li spaccia per mondo (e non sto parlando di Moccia, ché sarebbe troppo facile). Non a caso la figura (o nonfigura) che attraversa tutti e tre i libri è quella del limite: tra dentro e fuori, tra io e non-io, tra presenza e assenza, tra rilevante e superfluo, tra caos e forme. E questo è anche il crinale su cui gli autori si differenziano maggiormente, salvo poi far segnare, in manie-

ra inaspettata, convergenze improvvise. Nei confronti della perdita dei limiti, e della conseguente e pervasiva difficoltà o impossibilità di giudicare secondo i canoni di una classica razionalità, il sentimento fondamentale di Pecoraro è di deprecazione e di profondo fastidio. È proprio l’annebbiarsi delle distinzioni, sembra dirci, che ha condotto al quadro sociale e antropologico informe e ingestibile del presente; è da quando alcune grandi polarità – natura-cultura, ordine-disordine – hanno perso peso che è diventato difficile elaborare strategie e condotte di vita chiaramente orientate, dare un fine degno alle nostre azioni. Ma questa riflessione è condotta senza alcun senso di superiorità, seppure a volte con disgusto; perché accompagnata sempre, in contrappunto, dalla

Emblema della circolazione e del collegamento, il Viadotto è un posto su cui ci si muove, o su cui si sta fermi in caso di incidenti (e la scomposizione del Groppo dell’ingorgo in un insieme di linee, direzioni e passaggi fatta dal punto di vista del motociclista, che con colpo d’occhio ed esperienza riesce a muoversi dove altri restano inchiodati, è una delle pagine migliori di tutto il libro di Pecoraro), ma non è un posto in cui si vive. Eppure, viene constatato con orrore e con ammirazione, c’è chi ci vive, e non si limita a passarci. Sopra e sotto il Viadotto, come in tanti altri posti analoghi della Città, trascorrono la loro vita degli esseri umani, solitari oppure riuniti in gruppo. Nel bel mezzo del contemporaneo, che vorrebbe darsi a vedere come energia pura e senza forma,

questi uomini rappresentano una preistoria: sono raccoglitori, sono predatori che vivono parassitando la città (e il tempo da essa rappresentato) che sostanzialmente li ignora. Lo sguardo di Pecoraro, invece, si sofferma su questi uomini e queste donne, vagabondi, nomadi, derelitti, e non può nascondere, accanto a una repulsione “culturale”, i segni di una profonda ammirazione per la

A essere indagati sono anche i tempi morti o sospesi, e spazi generici, fatti per essere occupati da chiunque, e da nessuno in particolare «gente persa, che non si interessa più a niente e a nessuno, che non ha più voglia di parlare, né di sé né di qualsiasi altra cosa, e vuole soltanto restarsene qui in solitudine a blaterare e farneticare nella brezza serale, che spazza leggera quello che una volta era l’Agro». Persa, questa gente di tremenda libertà, come persi, beatamente, sono i vagabondi di Sebaste, smarriti senza desiderio di tornare a casa. E, all’inverso, Sebaste il viaggiatore e il promeneur, l’evanescente, più di una volta sputa grumi di rabbia contro la cancellazione della realtà ad opera delle immagini, contro l’esperienza preconfezionata e l’ottundimento del senso dei luoghi (e c’è da chiedersi allora come la sparizione cui l’autore si dice vocato possa essere praticata senza portare all’affermazione dell’odioso Megaimmaginario unificato in cui oggi siamo sprofondati).

Le grandi stazioni ferroviarie, scrive ad un certo punto Magrelli, se guardate da Google Earth, «somigliano a gigantesche prese elettriche, con i binari come immensi cavi»; a quest’immagine «plausibile» ma «fortemente astratta» va immediatamente contrapposto lo «squallore che attanaglia le vere stazioni. [...] Puzza e stanzette e agguati. Friggitorie, immigrati, capannelli di gente. Un formicaio di piccoli, disperati traffici per sopravvivere». «Le tragedie, come i quadri» - prosegue Magrelli citando Ennio Flaiano - «vogliono la giusta distanza». Ma questo non è un quadro, e non prevede un punto fuori di sé raggiunto il quale lo spettatore possa, con uno sguardo, districare la matassa. Occorre piuttosto una postazione operativa, che ciascuno dovrà costruire lavorando soprattutto contro sé stesso.


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spettacoli

Teatro. Spopola a Madrid una singolare commedia su una coppia presidenziale che in tutto (o quasi) ricorda quella francese

Scandalo al Sole per il finto Sarkò di Maurizio Stefanini

A fianco, la coppia presidenziale francese: Nicolas Sarkozy e Carla Bruni. In basso, la locandina della commedia teatrale “Escandalo en Palacio”, di Pedro Ruiz. Lo spettacolo sembrerebbe inscenare una metafora della vita del presidente francese e della moglie

ui, “un uomo maturo” attorno ai cinquant’anni, è il Presidente di un Paese non identificato: ma ha il cognome chiaramente francese. Lei, molto più giovane, non più che trentenne, ha invece un cognome italiano, ed è sua moglie: ma lui l’ha sposata dopo aver divorziato dall’altra consorte che l’aveva affiancato durante la vittoriosa campagna elettorale, e lei prima faceva la top model e la presentatrice televisiva. Entrambi stanno guardando nervosi la televisione, dove un telegiornale annuncia la prossima diffusione di alcune immagini hard riprese casualmente da una telecamera di sicurezza: loro due che fanno l’amore in un bagno del palazzo presidenziale, in un’epoca che la data sulla pellicola fissa impietosamente a prima del divorzio. Angosciato, lui conclude che deve dimettersi. «Non sono più il Presidente della Repubblica, sono il presidente che fa l’amore nei bagni». Lei allora s’arrabbia, cerca di convincerlo a dare battaglia. Il dialogo si scalda. «Amore mio, ti saresti messa con me se io fossi stato un dipendente dei grandi magazzini messo in pensionamento anticipato?». «E tu ti saresti messo con me, se io non avessi questo culo e questa gambe?».

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E così via per un’ora e mezza: dall’annuncio del tg, fino al discorso di dimissioni. In una stanza lussuosa nei pressi dello studio presidenziale i due discutono, ricordano, ridono, cercano affannosamente soluzioni alternative. Sembrano soli, ma le immagini di Internet, la televisione, la radio, le videoconferenze fanno piombare in continuazione in mezzo a loro presenze esterne che ricordano loro come questa apparente solitudine, qualsiasi ap-

parente solitudine, è oggi illusoria. Per esserne dimenticati si sono ritrovati nei guai, e ora questo incombere continuo di estranei rappresenta anche visivamente le pressioni cui i due sono sottoposti e il loro progressivo accerchiamento pubblico, emozionale e familiare. È questa la storia di Bernard Mathieu e Paola d’Angiò (anzi, D’Angio, senza accento): i due protagonisti di Escándalo en el Palacio, la commedia che dal 9 settembre sta spopolando al Teatro Reina

Victoria di Madrid. Autore, oltre che interprete di Bernard, il 62enne andaluso Pedro Ruiz: un poliedrico presentatore radiotelevisivo-attore-scrittore-commediografo-cantautore e anche personaggio del Guinness dei Primati, con le 12 ore che lo scorso 4 luglio gli hanno permesso di diventare l’intervistato più a lungo della storia. Lei è invece Lidia San José: un’attrice di 26 anni dai capelli e occhi chiari e gli zigomi alti, di cui su Internet circola più di un’immagine in

Trama: lui è attorno ai cinquanta ed è presidente di un Paese non identificato. Lei, molto più giovane, ha un cognome italiano, prima faceva la top model ed è diventata sua moglie deshabillé, e che sulla scena domina Ruiz con la sua altezza. Davvero i due sono la trasparente metafora di Nicolas Sarkozy e Cala Bruni? «Questa è innanzitutto una commedia su due esseri umani prigionieri della loro posizione, delle proprie ambizioni e di una enorme pressione mediatica», spiega Ruiz. Insomma, «archetipi prossimi, più una radiografia di tutti che l’istantanea di alcuno in concreto». L’apparenza dei due personaggi, il loro retroterra, il modo di esporre la vita privata ci suggerisce dunque la coppia presidenziale francese, ma il tipo di scandalo evoca piuttosto le recenti polemiche su Berlusconi, e d’altra parte Carla Bruni è stata sì top-model, ma non presentatrice televisiva: la sua seconda carriera, semmai, è stata quella di cantante. Giornalista televisiva era invece la Principessa delle Asturie Letizia Ortiz: anch’essa sposatasi con l’erede al trono Felipe di Borbone e Grecia dopo un periodo di relazione segreta, seguita a un altro matrimo-

nio, solo civile e seguito da divorzio, e poi a un’altra convivenza con un collega giornalista. Appunto, per prevenire uno scandalo la Famiglia Reale spagnola fu costretta a disegnare un’attenta strategia di rivelazione a tappe del coinvolgimento tra il principe e la giornalista.

Neanche manca qualche suggestione del Monicagate, e di tutta l’altra pletora di scandali politico-sessuali che si sono abbattuti sui potenti negli ultimi anni. «La situazione compromettente vissuta dai miei personaggi è un infortunio che può capitare a una quantità di personaggi anonimi», spiega Ruiz. «Ma per individui al vertice prende un’ampiezza iperbolica. Poiché loro sono quelli che sono, o piuttosto proprio in ragione delle loro posizioni, i loro atti sono oggetto di una mediatizzazione perfettamente incontrollabile». D’altra parte, nel raccontare di essere stato lui a presentare per la prima volta Sarko e Carlà in una cena dove li aveva invitati, il guru delle campagne presidenziali francesi Jacques Séguéla ha spiegato che questa fu la frase con cui il politico cercò di sedurre la modella: «Non pensi che assieme staremmo meglio che Marylin Monroe e John Kennedy?». E ancora: «Ti conosco bene, anche se non ci eravamo mai incontrati prima. So tutto di te perché sono simile a te» (evidentemente, dal punto di vista interiore…). «Che sollievo, vedere una bella donna che fuma e beve». Ma poi, attorno all’una di notte, aveva avuto un momento di sconforto: «Però che complicata sarebbe una relazione tra di noi, con tutti i paparazzi attorno». E allora lei si era messa a raccontargli della tecnica con cui era riuscita ad avere una relazione lunga otto anni con Mick Jagger «in tutte le capitali del mondo», senza che mai un solo fotografo riuscisse a sorprenderli. «In materia sei un dilettante», lo aveva sfidato.


spettacoli erti ex ragazzi inglesi degli anni Sessanta se lo chiedono ancora oggi: perché i Kinks non sono diventati popolari come i Beatles o i Rolling Stones? La risposta, per molti, è nascosta nelle pieghe contorte del carattere lunatico, ombroso, indecifrabile del loro (dittatoriale) leader e sommo autore, Ray Davies. Un gran brontolone mai contento di se stesso che, a 65 anni suonati, se n’è inventata un’altra delle sue: The Kinks Choral Collection, un disco appena uscito in cui rinfresca pagine classiche del repertorio in versione per gruppo rock e coro, quello del Crouch End Festival che ha sede e dimora nell’area in cui lui è nato e cresciuto, la Londra settentrionale. Sono riletture curiose e non tutte riuscite, ma riascoltare quelle immacolate miniature pop è tuttora una delizia che rammenta la grandezza visionaria di Davies. Riecco servita la malinconia agrodolce di Days e dell’inarrivabile Waterloo Sunset (il più grande singolo pop inglese di tutti i tempi, secondo più di un autorevole giornalista britannico). You Really Got Me e All Day And All Of The Night, che inventarono e anticiparono l’hard rock. See My Friends, che prima ancora dei Beatles e di George Harrison annusava il profumo d’India e dei suoi raga. Una medley da The Kinks Are The Village Preservation Society (appena celebrato da una riedizione deluxe su triplo cd), che in anticipo sui Traffic di Steve Winwood preconizzava la fuga dalla pazza folla e il ritorno alle campagne (sempre con quel’ineffabile ghigno sardonico che mr. Davies non si toglie mai dalla bocca). E c’è Working Man’s Cafè, unica concessione alla produzione più recente ma lei pure spassionatamente nostalgica: il rimpianto per un mondo in cui tutte le mattine facevi due chiacchiere con il fruttivendolo sotto casa, e ora al suo posto non c’è altro che un altro, anonimo e scintillante shopping mall.

17 settembre 2009 • pagina 21

C

La grande specialità di Davies è sempre stata questa, schizzare con due pennellate ad arte un piccolo mondo antico fatto di tradizioni fatiscenti e di piccola umanità, i tanti anonimi e insignificanti mr. Jones, mr. White e mr. Smith passati ai raggi x con lo humour compassionevole di Dickens e la lingua acidula di un Martin Amis. Davies è sempre stato un maestro dell’osservazione analitica, il voyeur principe del rock e delle minutaglie quotidiane. British quanto il cricket, il tè delle cinque, il roast beef e i telefilm di Agente speciale.

Musica. L’ex leader dei Kinks manda in stampa l’omonima Choral Collection

Il piccolo mondo antico di mr. Ray Davies di Alfredo Marziano

Un disco uscito ora in cui rinfresca pagine classiche del repertorio in versione per gruppo rock e coro: quello del Crouch End Festival Forse troppo, per essere pienamente apprezzato nel resto del mondo. Ma in tanti hanno preso nota, Paul Weller e Damon Albarn dei Blur ammettono che senza di lui non si sarebbero neppure messi a fare musica. Ha anticipato anche gli Oa-

sis, in un certo senso: le liti sanguinose e leggendarie tra Ray e il fratello minore Dave, chitarrista e secondo autore dei Kinks, sono roba da far impallidire persino i famigerati Gallagher. Ora, a quanto pare, i due sono di luna buona. Ma di rimettere insieme i Kinks non se ne parla: Dave smaltisce ancora i postumi di un infarto che lo colpì nel 2004, Ray gli si è riavvicinato per accudirlo ma da lì a rientrare in studio o a calcare un palco insieme ce ne passa. In compenso Julien Temple, il regista di La grande truffa del rock’n’roll sui Sex Pistols, di un commosso do-

cumentario sul compianto Joe Strummer e di un paio di videoclip per gli stessi Kinks, sta preparando un docufilm sui vecchi eroi di Muswell Hill. Si intitolerà Kingdom Come. Nel regno dei cieli, chissà, i fratelli Davies otterrano quel che in terra gli è stao negato. «Ho sempre pensato che ci sia stata una cospirazione per impedire ai Kinks di diventare la band più importante del mondo» ha dichiarato una volta Ray, cui i sogni di grandezza e una certa dose di paranoia non sono mai mancati. La loro storia è piena di hits and misses, di successi e occa-

In alto, un’immagine di Ray Davies, l’ex leader della band The Kinks. Qui sopra, uno scatto del gruppo rock negli anni Sessanta. A sinistra, la nuova raccolta delle canzoni della band “The Kinks Choral Collection”, voluta proprio da Ray Davies

sioni clamorosamente mancate, momenti di gloria e cadute rovinose. A partire da quel primo tour inglese da protagonisti che nel 1965 finì in una scazzottata da saloon su un palco di Cardiff, protagonisti in negativo Davies jr. e il batterista Mick Avory («Nei Kinks finivi sempre per pensare che qualcuno sarebbe finito in ospedale» fu il commento asciutto del bassista di allora, Peter Quaife). O di quando la prima, cruciale visita agli States, appena un mese dopo, finì anche peggio: un manager in galera per una piccola evasione fiscale, conflitti con i promoter per questioni di denaro, una causa intentata presso la federazione americana dei musicisti che sfociò nell’espulsione dal territorio americano con il divieto di tornarci prima di quattro anni. Uno degli organizzatori di quei concerti era un tal John Wayne Gacy, che li ospitò per qualche ora a casa sua: l’abitazione di un serial killer, in cui anni dopo la polizia scovò cadaveri murati e sotto il pavimento.

Cattivo karma, davvero, a cui Davies non si è mai sottratto: nel gennaio del 2004, inseguendo a New Orleans un borseggiatore che aveva rapinato in strada la sua compagna, s’è beccato una revolverata nella gamba che l’ha costretto in ospedale per diversi mesi. Ma c’è sempre un’altra faccia della medaglia, e Ray ha messo a frutto il lungo periodo di inattività per tornare a scrivere le sue canzoni. I suoi primi due album da solista, Other People’s Lives e Working Man’s Cafè, hanno lanciato segnali confortanti sul suo stato di salute artistica. Anche se qualche conterraneo legato al passato avrà arricciato il naso di fronte alla sua scelta di trascorrere sempre più tempo in America e di registrare a Nashville, e anche se Ray non è sempre al meglio quando decide di prendere di petto i massimi sistemi e i temi della globalizzazione, le fabbriche che aprono a Saigon e a Taiwan mentre a Cleveland e a Birmingham si licenziano operai (roba da Billy Bragg, più che da mr. Kinks). Bene ha fatto, ora, a tornare a casa recuperando un’altra delle grandi tradizioni britanniche, la musica corale, e i suoi sempreverdi che raccontano meravigliosamente di un’Inghilterra che non c’è più. A quando una rivisitazione per banda di ottoni da parata? Le splendide canzoni di Davies e dei Kinks parlano di gente comune. Sono nate in strada e lì, prima o poi, dovrebbero ritornare.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

da ”Herald Tribune” del 16/09/2009

L’altra metà dell’India di Jim Yardley entre il treno di pendolari del mattino parte da Palwal, tra uno scossone e l’altro, Chinu Sharam, una impiegata, si gode la totale assenza di uomini. Sì, perché la loro presenza sui treni equivale alla sopportazione di molestie continue, dai pizzicotti ai palpeggiamenti, mentre si viene sbatacchiati dagli ondeggiamenti delle carrozze. Per non parlare degli insulti e dei commenti di varia natura, aggiunge Chinu. La sua amica Vandana, seduta di fianco, spalanca gli occhi per confermare la storia. «A volte ti guardano appena» spiega Vandana, 27 anni, mentre vanno su e giù per il treno spintonando. Negli ultimi anni il fenomeno del pendolarismo femminile si è accentuato con l’entrata delle donne nel mondo del lavoro. Il problema delle molestie è così sentito e grave, negli ultimi tempi, che il governo ha semplicemente deciso di rimuovere il problema alla radice: ha eliminato gli uomini dai treni. Si tratta di un programma pilota in cui otto treni navetta saranno dedicati esclusivamente al trasporto delle pendolari. Serviranno i collegamenti con le maggiori città dell’India: Delhi, Mumbai, Chennai e Calcutta. Questi treni sono conosciuti come Special ladies. Recentemente un giornalista maschio ha ottenuto un permesso speciale per salirvi a bordo per un viaggio andata e ritorno e le pendolari che viaggiavano tra Delhi e Palawal sono state molto contente di questa novità. Maschio sì, se isolato e innocuo. «Si sta così bene», il commento di Kiran Khas , un’insegnante che il treno lo usa da 17 anni. La signora ricordava come in passato i vagoni fossero affollati di venditori di ortaggi, borseggiatori, mendicanti e tantissimi uomini. «Qui su questo treno» spiega, come stesse raccontando un evento miracoloso, «puoi salire dove vuoi e sederti comodamente». L’India sembra ormai un Paese dove le

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donne sono riuscite a rompere molti tabù. Il politico più potente dell’India, Sonia Gandhi, è presidente del Partito del congresso ed è una donna. L’attuale presidente indiano, anche se è un incarico più formale che sostanziale, è una donna. Sono donne anche il ministro degli Esteri, il governatore dello Stato più popoloso, l’Uttar Pradesh, e il ministro delle Ferrovie. La costituzione indiana garantisce la parità di diritti per le donne, mentre la legge stabilisce parità di retribuzione e punisce le molestie sessuali. Ma alcuni analisti affermano che la situazione è molto diversa per la donna comune.

Nel momento in cui l’India ha cominciato le grandi riforme economiche, nel 1992, le donne sono entrate nel mercato del lavoro. Prima nell’amministrazione governativa, poi sempre di più nel settore privato dei servizi e come libere professioniste. Negli ultimi 15 anni il numero di impiegate femminili è raddoppiato. Però sono aumentate anche le violenze, secondo le statistiche ufficiali.Tra il 2003 e il 2007 i casi di stupro sono aumentati del 30 per cento, quelli di sequestro di persona (da parte di familiari, ndr) e rapimento, sono cresciuti del 50 per cento. Mentre quelli per molestie e violenze hanno raggiunto un picco. Mala Bhandari dirige una istituzione che si occupa della salvaguardia di donne e bambini. Per lei l’immissione delle donne nel mondo del

lavoro ha finito per erodere i confini che separavano i sessi nello spazio pubblico (il posto di lavoro) e in quello privato (la casa). «Ora che le donne hanno cominciato ad occupare una spazio pubblico sono cominciati i problemi» spiega Bhandari «e quello della sicurezza è il più importante». I giornali indiani sono pieni di analisi e commenti dei problemi che sta creando questa rivoluzione sociale. La settimana scorsa è stato arrestato un marito che aveva picchiato la moglie. Non aveva gradito che si fosse tagliata i capelli secondo la moda delle donne occidentali. A giugno un college a Kampur ha cercato di proibire che le ragazze indossassero i jeans, sostenendo che fossero «indecenti» e fomentassero gli appetiti sessuali degli uomini. Dopo molte proteste le autorità locali hanno costretto i dirigenti del collegio ad abolire il divieto. Ora i treni speciali per le donne sono pochi, se confrontati col traffico totale su rotaia, ma è pur sempre un inizio. Ma lista di ciò che vorrebbero le donne indiane è ancora molto lunga.

L’IMMAGINE

Enel-Tele2: «Va rispettato il codice di comportamento esistente» In merito alla lettera pubblicata lo scorso 15 settembre dal titolo “Enel/Tele2”, l’azienda precisa di aver proceduto ad una attenta ricostruzione del caso e di aver individuato il responsabile della vendita non corretta. Tele 2 si scusa per l’inqualificabile comportamento del venditore e ha posto in essere tutte le azioni per sopperire al disagio causato. L’azienda ha già operato nei confronti dell’agenzia partner che ha gestito la vendita, diffidandola dal ripetere comportamenti di questo tipo e ha richiesto l’allontanamento dell’operatore. Tele2 si riserva di valutare ulteriori azioni legali. Tele 2 desidera informare che nei servizi di vendita si è dotata di regole ben precise: a tutte le società partner viene richiesto di rispettare un codice di comportamento che impone correttezza, trasparenza e completezza di informazione durante la vendita. Il codice delinea anche i modi che gli operatori possono utilizzare nel contattare i clienti. Nel caso in cui questi principi non vengano rispettati si riserva di procedere con misure sanzionatorie che possono, nei casi più gravi, portare allo scioglimento del contratto stesso.

Ufficio Stampa Tele 2

FINE DELL’EQUIVOCO DEL BIPOLARISMO Nel momento in cui la politica ha subito un ulteriore calo di credibilità un segnale positivo e concreto è arrivato dagli Stati Generali dell’Unione di centro svoltisi a Chianciano. Segnale positivo per chi crede nella capacità di ripresa del nostro popolo che ha attraversato anche periodi maggiormente negativi. Da Chianciano è venuta la spinta per la fine dell’equivoco politico del bipolarismo mai nato e per la costruzione del quale si sono perse energie e tempo, che potevano essere utilizzate più utilmente per dare risposte concrete alle attese dei cittadini. Il messaggio di Chianciano però avrà più o meno

riscontro positivo, nella misura in cui in periferia le sezioni del partito sapranno diventare centro di dibattito aperto anche a contributi esterni, per diventare forza propulsiva nella soluzione dei problemi, restituendo alla politica il ruolo che le compete.

Luigi Celebre

ITALIA CARA E I TURISTI DIMINUISCONO Non poteva che essere diversamente. Sicuramente la crisi economica avrà influito, ma questo vale per tutti i Paesi. Parliamo del turismo in Italia che, secondo una indagine, vede i nostri alberghi al quarto posto nella graduatoria dei più cari, dopo Svizzera, Danimar-

Scimmia nasuta sempre piaciuta Che differenza c’è tra questa scimmia e un olandese? Nessuna. Almeno secondo gli abitanti del Borneo, che chiamano questo animale «uomo olandese». A detta loro infatti, la nasica (Nasalis larvatus) ha qualcosa in comune con i coloni olandesi che nel XIX secolo controllavano l’isola: la grande pancia e il naso decisamente pronunciato. Buffa ma utile la proboscide servirebbe come allarme

ca e Norvegia. Siamo al quinto posto per numero di turisti (43,7 milioni), dopo la Francia (82 milioni), la Spagna (59,29), gli Usa (56 milioni), la Cina (54,7 milioni). Eppure siamo il Paese che vanta la maggior concentrazione di beni culturali nel mondo, abbiamo meravigliose montagne, mare, campagne e colline e, nonostante tutto ciò, non riusciamo a primeggiare. Di chi la colpa? Nostra ovviamente, cioè dei nostri governanti che non

governano e degli operatori del turismo che non riescono ad offrire servizi adeguati, pensando al turista come il classico pollo da spennare e lasciando spazio a giornali esteri dal titolo “Basta con furti in taxi e al ristorante, cambiamo destinazione”. Che dire, per esempio, di due differenti tariffe di taxi per il percorso aeroporto di Fiumicino: i taxi del comune di Fiumicino costano il 50% in più di quelli del comune di Roma. Insomma governi,

nazionali e locali, e addetti al settore ce la mettono proprio tutta per impedire al settore turistico di decollare, nonostante che questo rappresenti il 12% del Pil nazionale.

Primo Mastrantoni

GIANFRANCO FINI TRASFORMISTA In un intervento al Parlamento, il nuovo trasformista Gianfranco Fini definì “puttani” i voltagabbana, avvalendosi d’una citazione.

Gianfranco Nìbale


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Per il mio bene, tacete Volevo scrivervi ieri notte e stamattina, e non potevo - non sapete quale dolore mi date parlando in modo tanto sconclusionato. E se vi disobbedisco, mio caro amico, parlando (a mia volta) del nostro parlare sconclusionato, lo faccio non per dispiacervi, ma per essere ai miei occhi e dinanzi a Dio un po’ più degna, o meno indegna, di una generosità da cui mi ritraggo per istinto e a prima vista, ma in via definitiva, e poiché di fronte ad essa il mio silenzio sarebbe più sleale dei mezzi di espressione. In questo, dunque, ascoltatemi. Avete detto cose sconsiderate... fantasie, che non ripeterete mai più, né negherete, ma dimenticherete immediatamente e per sempre, di aver detto. E che quindi si estingueranno tra voi e me soli, come un refuso tra voi e il tipografo. E lo farete per me, che sono vostra amica (e non ne avete di più sinceri), e vi chiedo questo, perché è una condizione necessaria alla futura libertà dei nostri rapporti. Voi ricordate - certo che lo ricordate - che la mia posizione non è tra le più singolari, e che solo a causa di ciò posso ricevervi come ho fatto in passato; e che il fatto di ascoltare «esagerazioni incoscienti» è tanto disdicevole per la mia umile posizione quanto inopportuno (cosa più importante) per la prosperità della vostra. Perciò per il mio bene, tacete. Lo farete! Elizabeth B. Barrett a Robert Browning

ACCADDE OGGI

GLI ITALIANI PREFERISCONO IL “TU” AL “LEI” Complici i social network e l’informalità del web, la tendenza oggi è di rivolgersi a tutti con il“tu”. E il più rispettoso“lei”sembra in difficoltà. Così c’è chi è corso ai ripari: un’azienda dell’Aquila, per esempio, ha mandato una circolare ai dipendenti per ricordare che all’amministratore delegato si dà del “lei”. Nella realtà di tutti i giorni, comunque, sembra trionfare la seconda persona singolare: il 52% degli italiani, infatti, ritiene l’approccio con il “tu” più moderno e più immediato nelle relazioni interpersonali. Resiste tuttavia uno zoccolo duro a difesa del più formale“lei”: il 48% è infastidito dall’abuso del“tu”e, fra questi, il 12% ritiene che le formalità siano indispensabili nei rapporti di lavoro.

Gabriele

CIRCO: GLI ANIMALI NON SI DIVERTONO Giovedì 1 ottobre, il circo Medrano inizierà la sua tournèe veneta a Marghera, per poi proseguire a Treviso, Padova e Vicenza. Ancora una volta le giunte comunali delle città sopraccitate concedono il suolo pubblico a chi continua a sfruttare e maltrattare i poveri animali. Ricordiamo ancora una volta che gli animali, di qualunque specie e genere essi siano, non sono nati per diventare schiavi, costretti a fare esercizi che non farebbero mai parte del loro modus vivendi. Non si può pensare che un animale possa divertirsi, passando la propria esistenza a fare esercizi ripetitivi e indotti dall’uomo; gli animali subiscono queste attività come delle profonde umiliazioni, ma si trovano costretti a portarle a termine per non subire

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

17 settembre 1947 James V. Forrestal presta giuramento come segretario della difesa degli Usa 1948 Il Lehi (noto anche come Banda Stern) assassina il conte Folke Bernadotte che era stato nominato dall’Onu per mediare tra ebrei e arabi 1974 Ingresso all’Onu del Bangladesh 1976 Lo Space shuttle viene mostrato al pubblico 1978 Accordi di pace di Camp David tra Israele e Egitto 1983 Vanessa Williams diventa la prima Miss America afro-americana 1984 Brian Mulroney presta giuramento come primo ministro del Canada 1988 Cerimonia di apertura dei Giochi della XXIV Olimpiade a Seul, Corea del Sud 1991 Linus Torvalds pubblica la prima versione del kernel Linux 2001 Il Dow Jones Industrial Average riapre per la prima volta dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001. Le azioni precipitano durante tutta la seduta facendo registrare la più grande perdita in punti della sua storia, perdendo 684,81 punti

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

nessuna conseguenza punitiva. Infatti per stravolgere il loro istinto e far sì che sostengano improbabili azioni, bisogna ricorrere alla violenza.

100%animalisti

UCCISA PERCHÉ LIBERA: ATROCITÀ INACCETTABILE Dopo la tragedia sconvolgente di Hina, uccisa in nome del più feroce e bieco fondamentalismo, un’altra ragazza innocente paga con la propria vita il sogno di vivere in Italia e di integrarsi senza divieti disumani. L’assassinio di Sanaa, di appena 18 anni, è una ferita per tutte le donne e un’atrocità inaccettabile in un Paese civile. Questo scellerato omicidio è l’ennesima conferma della presenza di sacche di immigrazione che rifiutano la nostra cultura e le nostre leggi, che pretendono di perpetrare usi e costumi contrari non solo alla dignità e all’emancipazione delle donne ma ai più elementari e sacrosanti diritti umani. Ciò anche con la complicità di organizzazioni presenti in Italia che nei fatti operano per impedire qualsiasi percorso di integrazione. È una situazione intollerabile e il ministro Carfagna ha annunciato con prontezza di volersi costituire parte civile, non appena inizierà il processo. La violenza e gli abusi domestici sono purtroppo un fenomeno reale e diffuso. Non possiamo lasciare sole queste donne, non possiamo abbandonarle ad un’esistenza all’insegna del burqa e della sottomissione. Anche perché, come hanno dimostrato Hina, Sanaa e tante altre, sono le donne ad esprimere il più forte e coraggioso desiderio di integrazione.

DIFENDIAMO L’AUTONOMIA DELL’UDC Ieri, parafrasando Moro, non ci hanno spaventato i comunisti; oggi, ancora meno dopo il talk show televisivo, non ci spaventa Berlusconi. I suoi diktat aggiunti alle sue ultime dichiarazioni, dagli studi Rai di Porta a Porta fanno traboccare un vaso già pieno, e bene ha fatto Pier Ferdinando Casini, intervenendo in diretta telefonica allo showbunker di Bruno Vespa, a difendere ed ulteriormente chiarire e definire i valori e l’autonomia dell’Unione di centro. Casini ha dovuto per l’ennesima volta ricordare al Cavaliere i motivi che appartengono alla scelta passata, aggiungendo quelli di oggi che non ci consentono un’alleanza organica con il Pdl, An e Fini docet! Non è lontana nemmeno la tre giorni di Chianciano, dove l’intero partito, a tutti i livelli di partecipazione, ha ribadito con forza e determinazione la volontà di andare da soli alle prossime scadenze elettorali, spiegando da diverse angolazioni che la nostra non è la politica dei “due forni” bensì una scelta autonoma con alla base dei valori, un programma, un progetto e un progetto nuovo e diverso per il Paese e per le autonomie locali. Insomma, l’Unione di centro non si aggiunge come un’appendice ma propone e, casomai, condivide. Naturalmente la condivisione può avvenire con chi ci apprezza, rispetta ed accetta i nostri valori. Altrimenti si va da soli, in pratica il contrario di tutto ciò che è stato e viene identificato dal “doppio fornismo”. Ma anche da questo punto di vista, l’Unione di centro non ha più niente da dimostrare né tanto meno da smentire. I fatti parlano da sé e l’implosione del bipartitismo nonché l’agonia del bipolarismo sono la prova provata dell’ingovernabilità non solo dei rapporti umani ma anche di quelli politici nel Pdl quanto nel Pd. La conferma di quanto da tempo sosteniamo. Milioni di cittadini che hanno votato per l’Unione di centro, più quelli pronti a farlo, la pensano allo stesso modo e questa per noi non solo rappresenta una legittimazione ulteriore ma anche la certezza di essere sulla giusta via. Mi dispiace, quindi, deludere Berlusconi ma l’Unione di centro non è sola bensì accompagnata e sostenuta da milioni di italiani, che hanno deciso di voltare pagina sostenendo questo nuovo progetto per il Paese. Vincenzo Inverso S E G R E T A R I O OR G A N I Z Z A T I V O CI R C O L I LI B E R A L

APPUNTAMENTI SETTEMBRE 2009 GIOVEDÌ 24, VENERDÌ 25 SIENA - SANTA MARIA DELLA SCALA Premio “liberal Siena 2009”. Convegno “Alice nella globalizzazione - La modernizzazione mancata: l’Italia sospesa tra passato e futuro”. VINCENZO INVERSO SEGRETARIO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

Barbara S.

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30


PAGINAVENTIQUATTRO Il personaggio. È morto a 91 anni Luciano Emmer, regista di grandi film commedia e di dozzine di spot

Il neorealista che inventò di Roselina Salemi a madre, saggia donna lombarda, gli aveva consigliato di fare l’idraulico, ma a lui piaceva il cinema. E cinema è stato. Però, Luciano Emmer che se ne è andato a 91 anni, è per tutti il papà di Carosello. Aveva cominciato nel ’50 con un neorealismo dal quale sarebbe nata la commedia all’italiana, con garbati ritratti del piccolo mondo borghese.Titoli come Domenica d’agosto, Parigi è sempre Parigi (1951) e Le ragazze di piazza di Spagna (1952) con un’indimenticabile Lucia Bosè e Terza liceo (1953) andrebbero bene anche adesnella so, lunga saga giovanile che va da Notte prima degli esami alla serie mocciosa. Dopo Camilla (1954), Il bigamo (1958) con Mastioianni e Giovanna Ralli c’era stato il polemico La ragazza in vetrina (1960), titolo originale, improponibile allora, Prostitute ad Amsterdam. Lei era Marina Vlady, bella e trasgressiva: ci furono discussioni e problemi di censura che oggi fanno ridere. L’hanno appena riproposto a Venezia nella sezione “Questi fantasmi” (i film che non circolano più, sono appunto, spiriti inquieti), e qualcuno si è commosso. Dopo le commedie Emmer si era dedicato esclusivamente alla televisione. Un’avventura, e anche un pezzetto di storia. Oltre ai 2750 episodi, scenette, microfilm, aveva firmato anche la sigla di Carosello: la chiamavano

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Luciano Emmer. A destra, dall’alto: la sigla di Carosello; uno spot con Walter Chiari e Dario Fo

“le tende”, per via dei siparietti che si aprivano uno dopo l’altro. Senza saperlo, ha aiutato milioni di famiglie a mandare a letto i bambini,“dopo Carosello, assolutamente!”. E quando la pubblicità era il demonio, la mercificazione dell’arte, lui difendeva il lavoro, la creatività spesa nei dialoghi e nelle sceneggiature: «Carosello non era proprio pubblicità» si infervorava, «ad esempio dopo l’ultimo lavoro fatto da Totò, un Carosello con me di alcuni minuti, c’era un codino pubblicitario molto discreto di trenta secondi che faceva solo vedere il prodotto. Adesso la pubblicità è completamente cambiata, adoperano il culo di una donna per sponsorizzare una lavatrice, un’automobile, o un’acqua gasata. Carosello era pulito perché era una cosa limpida e graziosa, costretto a far vedere il prodotto solo nel finale».

aveva lavorato a Torino per la pubblicità. Avevano in comune l’amore per la pittura, discutevano di Picasso, potevano essere popolari, perché colti, raffinatissimi. Proprio aTorino, Emmer aveva avuto il Premio Cipputi alla carriera, che non è un Oscar, (ma lui l’aveva trovato divertente), e una bella retrospettiva con tutti i suoi film restaurati (era orgogliosissimo di quella Centre Pompidou nel 1996). Non si prendeva neanche tanto sul serio: «Ognuno nella vita deve fare qualcosa» diceva, «lasciando stare la soddisfazione personale, per il proprio sostentamento, e io non sono stato capace di trovarmi altro. Mia madre, che non ha mai visto un film in tutta la sua vita, mi chiedeva cos’era ‘sto cinema, non capendolo, e consigliandomi di fare l’idraulico. Ma io non ero proprio tagliato. Mai saputo aggiustare un rubinetto, neanche per un miliardo».

Ecco, la parola magica: costretto. Eppure, forse con una certa quota di provocazione, ma cogliendo nel segno, Jean-Luc Godard era arrivato a dire che il miglior cinema italiano degli anni ’50 e ’60, a parte Rossellini, lo vedevi su Carosello. Da Totò («Mi faccio un brodo? Ma me lo faccio doppio!») a Walter Chiari («Solo io mi chiamo Yoga»), da Paolo Panelli («Ercolino sempre in piedi») a Aldo Fabrizi («Avanti c’è posto»), da Dario Fo («Supercortemaggiore, la potente benzina italiana») a Marisa Del Frate («Voglio/ la caramella che mi piace tanto/ e che fa du-dududu-dudu-dudù-dufour!»), da Edoardo Vianello («Voglio la Vespa!») a Carlo Dapporto (Un sorriso Durban’s), Emmer ha diretto comici grandissimi, cantanti come Mina e persino un futuro

CAROSELLO premio Nobel (Dario Fo), ma parlare del passato non gli piaceva. Perdeva i ricordi come perdeva le cose: «Ho perso le lettere di Cocteau, ho perso persino la lettera di Stalin che m’invitava nel 1951 ad andare a Mosca a girare un film, ho perso il contratto con il produttore di Prostitute ad Amsterdam: ero proprietario di una vetrina con due ragazze che mi garantiva cinque milioni di allora, del 1961, all’anno. Era un contratto in carta da bollo, in inglese: sono proprio un’idiota ad aver perso tutte queste cose. Ho fatto anche un film, La distrazione, che prendeva spunto dalla famosa frase di Pascal secondo cui noi tutti corriamo spensieratamente verso il precipizio, dopo esserci accuratamente messi qualcosa davanti agli occhi che c’impedisca di vederlo. Io davanti agli occhi mi sono messo il cinema, lo schermo colorato, o meglio, in bianco e nero». Al cinema era tornato dopo trent’anni con Basta! Ci faccio un film, Una lunga, lunga, lunga notte d’amore e L’acqua... il fuoco, protagonista Sabrina Ferilli, storia sentimentale presentata a “Venezia 60”: la sua vena dolceamara c’era ancora, ma nel frattempo l’Italia era cambiata. Non gli piaceva parlare del passato, ma quando ne aveva voglia, era un’enciclopedia di aneddoti sui film mai girati, su Mastroianni che voleva un copione per poter baciare la Bosè, su Armando Testa, con il quale

Diresse comici grandissimi, da Paolo Panelli a Totò, da Walter Chiari ad Aldo Fabrizi. Persino il futuro premio Nobel Dario Fo. E rimangono indimenticabili suoi film come “Domenica d’agosto”,“Parigi è sempre Parigi”, “Le ragazze di piazza di Spagna”,“La ragazza in vetrina”


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