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Il significato di un uomo non va ricercato in ciò che egli raggiunge, ma in ciò che vorrebbe raggiungere

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Kalhil Gibran di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • VENERDÌ 18 SETTEMBRE 2009

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Il Parlamento con le Forze armate

Uccisi 6 parà, altri 4 feriti. La bomba di un kamikaze Berlusconi e Bossi fa strage di italiani. Parlare oggi di ritiro significa cominciano tradirli. È invece doveroso chiedersi come battere a parlare di uscita il terrorismo e vincere la guerra in Afghanistan di Franco Insardà

Per un giorno, la politica ritrova unità schierandosi al fianco delle Forze Armate. Berlusconi e Bossi parlano di lasciare l’Afghanistan.

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Più coraggio da parte di tutti gli Stati

Bisogna restare, ma serve una svolta di Mario Arpino L’atto ostile che ancora una volta ha versato in Afghanistan sangue italiano dopo il primo, rispettoso momento di tristezza e di lutto - risolleverà il problema della presenza delle nostre truppe. a pagina 4

Il sangue degli eroi

Parla Rashid, autore di “Talibans”

Tutti gli errori di Hamid Karzai di Antonio Picasso

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«L’attentato di ieri dimostra che la crisi politica emersa dalle elezioni offre lo spazio per una nuova insorgenza dei talebani». Parla Ahmed Rashid, giornalista pachistano, esperto di islamismo. a pagina 6

Parte una nuova contestazione alla deriva leghista della maggioranza

Benedetto XVI annuncia una visita alla sinagoga di Roma: 23 anni dopo Wojtyla

Il «partito dei finiani» arriva anche al Senato

Papa Ratzinger torna dai ”fratelli maggiori”

di Errico Novi

ROMA. Si potrebbe dire che la fiamma si è propa-

Un’analisi dei partiti italiani

Le discutibili tesi di Civiltà Cattolica

gata, se la metafora non fosse suscettibile di equivoci. Da ieri un nutrito gruppo di parlamentari del Pdl, in prevalenza senatori di sponda finiana, è riunito a conclave al Palazzo delle comunicazioni a Roma, per un seminario su“La politica al tempo della crisi” che ha tutta l’aria di essere un mezzo ammutinamento contro la filiera di comando berlusconiana del partito. L’incontro era stato annunciato nei giorni scorsi da quattro ex An di Palazzo Madama, ossia il presidente della commissione Finanze Mario Baldassarri, Giuseppe Valditara, il sottosegretario al Welfare PasqualeViespoli (vicini al presidente della Camera) e Andrea Augello.

L’Italia è un Paese imbarbarito, dove il livello del confronto politico è sceso a livelli infimi, dove la selezione delle classi dirigenti avviene attraverso la simonìa delle cariche pubbliche ormai gestite attraverso il potere del denaro. Questa la denuncia del quindicinale dei gesuiti Civiltà cattolica.

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seg ue a (10,00 pagina 9CON EURO 1,00

di Riccardo Paradisi

I QUADERNI)

• ANNO XIV •

NUMERO

di Luigi Accattoli i nuovo un Papa nella Sinagoga di Roma: l’evento può essere stato accelerato dalle polemiche dello scorso inverno seguite alle uscite “negazioniste”del vescovo lefebvriano Williamson, o da quelle sulla preghiera per gli ebrei nella liturgia del Venerdì Santo, ma esso è di prima grandezza e va guardato in sé stesso, prima di raccordarlo a vicende contingenti. La Sinagoga di Roma è la più vicina alVaticano ed è la sede spirituale della comunità ebraica più antica d’Europa, che custodisce la dolente memoria di persecuzioni secolari da parte

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• CHIUSO

del potere temporale dei Papi. Sono queste le ragioni che danno spessore a una visita papale, sia pure essa la seconda, a 23 anni dalla prima. Stiamo per assistere dunque a un nuovo gesto carico di significati e di speranze. Guardando in campo lungo all’ultimo mezzo secolo, che ha vissuto un inaspettato e rapidissimo avvicinamento tra cristiani ed ebrei, troviamo una decina di eventi che hanno visto la Chiesa di Roma e l’ebraismo incamminati verso il reciproco incontro.

IN REDAZIONE ALLE ORE

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19.30


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Tragedia a Kabul/1. Finito il Ramadan, nella capitale torna il terrore. Un’autobomba contro un convoglio italiano

La morte e la rabbia

Un kamikaze si fa esplodere contro due blindati della Folgore. Uccisi sei parà, quattro feriti. Altre quindici vittime tra gli afgani di Luisa Arezzo ui sala operativa: Lince, rispondete. Sala operativa a Lince, rispondete». Alle 12.15 ora di Kabul - le 9.45 in Italia - l’inferno nella capitale afghana si era già consumato, e nessuna risposta arrivava alla base italiana di Camp Invicta, in quegli enormi casermoni già sede dell’armata rossa e oggi base del nostro contingente. Pochi minuti prima un kamikaze alla guida di una toyota bianca si era infilato in mezzo ai due veicoli blindati, facendosi esplodere e lasciando a terra il più alto numero di vittime italiane dall’inizio della nostra missione. Sei parà del 186esimo reggimento Folgore, quattro feriti gravi - non in pericolo di vita secondo quanto detto dal nostro ministro della Difesa La Russa - a cui si devono aggiungere 15 vittime civili e almeno 60 feriti.

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A terra restano il tenente Antonio Fortunato, originario di Lagonegro in provincia di Potenza, il primo caporal maggiore Matteo Mureddu di Oristano, il primo caporal maggiore Davide Ricchiuto di Glarus (Svizzera), il primo caporal maggiore Giandomenico Pistonami di Orvieto, il sergente maggiore Roberto Valente di Napoli e il primo caporal maggiore Massimiliano Randino. Questi ultimi due erano appena arrivati con un C130 dalla base aerea di Al Bateen, negli Emirati Arabi, e tornavano da una licenza. Solo mercoledì sera, alle 18, si era tenuta il quotidiano briefing alla presenza del colonnello Aldo Zizzo, comandante della base di Kabul, che aveva definito gli ultimi dettagli di quella che doveva essere un’operazione di routine: prelevare i nuovi arrivati dal Kaia airport e portarli alla base Isaf al centro di Kabul, quella diretta dal generale Bertolini.

Non ci sono mai arrivati. Perché a Kabul, purtroppo, la routine non esiste: e ogni uscita dei nostri blindati è accompagnata da una certosina verifica del percorso e dei warning che quotidianamente arrivano alla base. «Abbiamo sentito un’esplosione - racconta a liberal il portavoce di Camp Invicta, il tenente Saverio Cucinotta - e in un primo momento abbiamo pensato a un’esercitazone al vicino poligono di tiro. Di esplosioni se ne avvertono di continuo e non subito si pensa al peggio. Ma in sala operativa i colleghi si sono immediatamente resi conto che qualcosa non andava, perché era saltato il contatto radio con i nostri mezzi». «Sala operativa a Lince, rispondete. Qui sala operativa, Lince, rispondete». Nessuno lo ha fatto. «Abbiamo sperato fino all’ultimo in un black out momentaneo e comunque che ci fossero soltanto dei feriti - continua

ANTONIO FORTUNATO Il tenente Antonio Fortunato era nato a Lagonegro, in provincia di Potenza, nel 1974 ed era in forza al 186° reggimento della Folgore.

MATTEO MUREDDU Il primo caporal maggiore Matteo Mureddu aveva ventisei anni: era nato nel 1983 a Oristano ed era in forza al 186° reggimento della Folgore.

GIANDOMENICO PISTONAMI Il primo caporal maggiore Giandomenico Pistonami era di Orvieto ed era nato nel 1983. Era in forza al 186° reggimento della Folgore.

MASSIMILIANO RANDINO Il primo caporal maggiore Massimiliano Randino era di Pagani (in provincia di Salerno) e aveva 32 anni. Era in forza al 183° reggimento della Folgore.

DAVIDE RICCHIUTO Il primo caporal maggiore Davide Ricchiuto, 26 anni, era nato in Svizzera, a Glarius ma viveva nel Salento. Era in forza al 186° reggimento della Folgore.

ROBERTO VALENTE Il sergente maggiore Roberto Valente, napoletano, era il più grande dei sei: aveva 37 anni. Era in forza al 187° reggimento della Folgore.

Cucinotta. Così non è stato. È uscito il Qrs (il Quick reaction force, un’unità di emergenza e soccorso, ndr) e solo allora sono cominciate ad arrivare le prime voci di possibili vittime. Poi la conferma dei sei ragazzi uccisi». E allora allo sconcerto è subentrato il dolore: «un dolore enorme, che getta nel silenzio l’intera base. Sono morti gli amici, le persone con le quali si è condiviso tutto, le cene, il lavoro, la paura, gli scherzi, le fotografie delle mogli e delle fidanzate». Sconcerto, dolore, e l’immediata reazione: chi aiutava i feriti, chi usciva a controllare l’area per scongiurare altri attentati, chi attivava le procedure di emergenza. Un accordo su tutto: «occorre andare avanti, portare a termine la missione, anche e soprattutto per i compagni che non ci sono più».

Ore 13.30 ora locale: un portavoce dei talebani, Zabiullah Mujahid, rivendica l’attentato. In un messaggio sms, perché dove c’è un talebano ci sono sempre dei cellulari, il portavoce ha riferito che un uomo di nome Hayutullah si è fatto esplodere contro il convoglio militare dell’Isaf, nel centro della capitale. Altre fonti, però, parlano però di due attentatori. Ma per averne conferma bisognerà attendere il responso della “scientifica”, che esaminerà i resti sul terreno e chiarirà la dinamica dell’attentato. L’unica certezza è che solo 24 ore prima la Commssione elettorale afgana aveva confermato l’elezione di Hamid Karzai a presidente del Paese, al netto dei brogli che la Commssione elettorale Onu denunciava da tempo e che aveva provocato una rottura ai vertici fra il presidente norvegese Eide e il vicepresidente Usa Galbraith. Elezione contestata sia per l’esigua partecipazione (il 38% del totale) che per il numero di brogli denunciati. Il timore è che la democrazia nel paese sia ancora troppo debole, che Karzai che solo dopo alcune ore ha fatto arrivare le sue condoglianze all’Italia - non riesca a governare il risiko afgano, che Abdullah Abdullah, il suo sfidante, non resterà a guardare la riconferma presidenziale, e che la situazione sfugga completamente da ogni controllo. Negli ultimi mesi, d’altronde, nonostante la massiccia presenza di forze armate internazionali, a Kabul si sono moltiplicati gli attacchi suicidi dei talebani. L’ultimo è stato l’8 settembre scorso, quando un’autobomba ha ucciso tre civili esplodendo davanti all’entrata della base aerea della Nato. Secondo alcune interpretazioni, l’obiettivo dell’attentato di Kabul forse non era il convoglio scortato dai militari, bensì una delle ambasciate straniere presenti nella capitale. A dimostrarlo ci sarebbe l’ingente quantitativo di esplosivo utilizzato, in quantità molto superiori rispetto a quanto viene normalmente impiegato per gli attacchi alle colon-


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Unanime cordoglio per le famiglie delle vittime da istituzioni e partiti

Bossi e Berlusconi iniziano a parlare di uscita Il premier e il senatùr ipotizzano il «tutti a casa» e per una volta si trovano d’accordo con Di Pietro di Franco Insardà

ROMA. Meamche una tragedia come quella di Kabul

E Napolitano da Tokyo: «Vicino ai nostri soldati» TOKIO. Una «profonda emozione» per la morte dei sei militari e il ferimento di altri quattro nell’attentato kamikaze contro gli italiani a Kabul. Sono state le prime parole che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in visita istituzionale a Tokyo. «Desidero indirizzare in questo momento ai familiari dei caduti - ha detto il Capo dello Stato - l’espressione del mio più sincero e accorato cordoglio, inviare un augurio ai feriti e indirizzare ai nostri valorosi che rappresentano l’Italia in questa difficile missione internazionale per la pace e la stabilità l’espressione della nostra riconoscenza e vicinanza». Il Presidente della Repubblica era stato informato dell’attacco contro gli italiani a Kabul mentre si trovava al Teatro Bunka Kaikan di Tokio e assisteva al Don Carlo di Verdi, portato in Giappone dal Teatro La Scala di Milano. Napolitano e la signora Clio erano in compagnia di sua Altezza Akihito e dell’Imperatrice Michiko. Quando i cronisti al seguito del viaggio di Stato gli hanno chiesto se la nuova tragedia potrebbe riaprire il dibattito tra chi è favorevole e chi è contrario al proseguimento della missione, Giorgio Napolitano ha risposto tagliando corto: «Se si riaprirà questo problema se ne discuta in Italia e non a Tokyo. Se ne discuta soprattutto nel Parlamento italiano». ne di mezzi militari. Ma questa è solo una supposizione. Quello che è certo è che ieri mattina una toyota bianca (la macchina più comune in Afghanistan), terrore di ogni militare Isaf, si è lanciata contro i nostri Lince. Portandoci via sei eroi, sei figli, sei giovani militari. Quegli stessi che a fine ottobre dovevano andarsene da Kabul e consegnare la base ai turchi. Sì, perché da Camp Invicta, gli italiani, se ne andranno. Lasciando solo una stele, muta e color sabbia, con i nomi dei nostri morti. L’ultimo, fino a ieri, era quello di Alessandro di Lisio, saltato con il suo lince sopra un esplosivo solo un paio di mesi fa. Da domani quella lista sarà più lunga.

ferma la battaglia politica. Eppure nella prima parte della giornata di ieri si era intravista la possibilità di una tregua, poi in serata la situazione è in qualche modo precipitata. Prila le parole di Benedetto XVI, riferite dal portavoce della sala stampa vaticana, padre Federico Lombardi: «Il Papa prega per i soldati morti a Kabul e assicura la sua vicinanza nella preghiera per le vittime e manifesta la sua vicinanza alle famiglie e a tutte le persone coinvolte». Poi i messaggi di cordoglio alle famiglie dei soldati morti nell’attentato arrivati dai vertici istituzionali e dai partiti. Appena giunta la notizia la Camera ha sospeso i lavori «in segno di lutto e solidarietà» e Il presidente Gianfranco Fini ha proposto un minuto di silenzio prima di riaggiornare la seduta per le comunicazioni del ministro della Difesa, Ignazio La Russa che, intervendo a Palazzo Madama, ha espresso il cordoglio di tutto il Paese, ma ha anche aggiunto che la strage dei militari italiani a Kabul «non cambierà nulla: l’Italia continuerà la sua missione in Afghanistan». Pensiero ribadito nel pomeriggio alla Camera, quando il ministro ha dato maggiori ragguagli sull’attentato. Il presidente del Senato, Renato Schifani, nell’esercizio delle funzioni di Presidente della Repubblica, ha inviato un messaggio al Capo di stato Maggiore della Difesa, Generale Vincenzo Camporini, dove sottolinea come «il sacrificio di questi eroi costituisce un ulteriore doloroso contributo che i nostri militari, con grande coraggio e professionalità, continuano a dare per difendere la democrazia, la pace e la sicurezza internazionale».

Anche il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, ha espresso il suo profondo cordoglio personale e quello dell’intero governo al generale Camporini e al generale Castellano che comanda il nostro contingente a Kabul. «Il governo italiano - si legge in una nota - è vicino alle famiglie delle vittime, condivide il loro dolore in questo tragico momento ed esprime la sua solidarietà a tutti i componenti della missione italiana in Afghanistan impegnata a sostegno della democrazia e della libertà in questo sfortunato Paese». La condanna per l’attentato terroristico è unanime. «Ci inchiniamo al sacrificio di questi sei eroi della pace, caduti per difendere la popolazione afghana dalla furia cieca del terrorismo - ha detto il segretario dell’Udc, Lorenzo Cesa -. I nostri soldati operano in Afghanistan in

condizioni di grande pericolo, e lo fanno sempre con coraggio e abnegazione. Non è il momento delle divisioni, ma quello dell’unità: stringiamoci tutti intorno ai nostri militari, senza tentennamenti». Anche da Pier Ferdinando Casini che nel suo intervento alla Camera ha detto chiaramente: «No alle furbizie, no ai ripensamenti, no alle divisioni tra maggioranza e opposizione». Casini ha invitato le forze politiche all’unità e ha dato «la solidarietà dell’Udc al governo «perché in questo momento siamo tutti con l’esecutivo che sta affrontando l’emergenza in Afghanistan». Posizione condivisa dal Pdl: «I nostri soldati - ha detto Gianfranco Paglia nel suo intervento alla Camera hanno bisogno di avere non il governo ma lo Stato vicino: non è una questione di centrodestra o di centrosinistra. Loro sono lì a portare la pace e questo ha un prezzo». L’ex ministro della Difesa, Antonio Martino, mette in evidenza il rischio che «la gente può dimenticare perché siamo andati in Afghanistan. In democrazia le decisioni di breve durata hanno successo, ma quando i tempi si allungano si rischia il fallimento. È, ad esempio, il caso del Vietnam per gli Usa». Dario Franceschini, ha espresso «dolore e solidarietà» a nome di tutto il suo partito, così come hanno fatto altri esponenti del Pd.

Ma la tregua è stata interrotta da lle voci stonate di Antonio Di Pietro e Umberto Bossi che, neanche in un momento così drammatico, hanno evitato uscite inopportune. L’ex pm si è chiesto: «Che cosa ci stiamo a fare in Afghanistan», mentre per il leader del Carroccio «il tentativo di portare la democrazia in e’ fallito e la missione è esaurita». Già nel pomeriggio di ieri i dipietristi avevano parlato di exir strategy, mentre tra i leghisti le posizioni erano diverse al punto che mentre per il ministro Calderoli «questa tragedia, però, deve far riflettere…» per Roberto Maroni andava respinta ogni ipotesi di ritiro delle truppe «perchè sarebbe una resa alla logica del terrorismo». E lo stesso capogruppo del Carroccio a Montecitorio, Roberto Cota, nel suo intervento in Aula ha detto: «Oggi non è il momento per parlare di ritiro: sarebbe cedere alla logica della intimidazione». Irresponsabili e incomprensibili i commenti all’uscita di Bossi. Anche se un Berlusconi vagamente cerchiobottista si è affrettato a dichiarare: «La missione italiana in Afghanistan è essenziale per far crescere la democrazia, ma siamo tutti convinti che si debbano portare a casa i nostri ragazzi al più presto».


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Tragedia a Kabul/2. La Nato deve decidere cosa vuole fare, perché e per quanto tempo. La guerra non ha mezze misure

Ora cambiamo strategia

Da una parte obiettivi troppo ambiziosi, dall’altra insufficiente mobilitazione di tutti gli Stati. Occorre un impegno meno ambiguo di Mario Arpino atto ostile che ancora una volta ha versato in Afghanistan sangue italiano - dopo il primo, rispettoso momento di tristezza e di lutto - risolleverà il problema della presenza delle nostre truppe. Non solo delle nostre, perché anche ieri sono morti dei soldati inglesi, e gli americani, come il solito, continuano a morire. Ogni giorno. Credo sia ormai indispensabile che al più alto livello alleato - parlo dell’Alleanza atlantica dove anche noi siamo rappresentati - si decida quale debba essere la strategia nella regione. Detto brutalmente, cosa dobbiamo fare, perché, per quanto tempo e per conseguire quali obiettivi. Non sono risposte che il nostro governo

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può dare in autonomo, da solo, ma dopo un serio dibattito parlamentare può dire quale strategia proporremo, o sosterremo, nelle sedi appropriate. E quali mezzi e uomini siamo ancora disponibili a fornire. A ottobre 2001, in sede Nato, avevamo votato l’applicabilità dell’articolo 5. Uno per tutti, tutti per uno.

Con questo atto, è inutile ora fare sottili distinguo, ci siamo dichiarati in guerra. Certo, delle perplessità ci saranno anche state, ma ognuno le ha covate in privato, a casa propria. La causa sembrava talmente giusta - ed in effetti lo è - che nessuno ha voluto, o potuto, tirarsi indietro. È così che ci siamo trovati in Afghani-

stan, e ora ci accorgiamo che, lasciato cadere ogni velo, siamo “costretti” a combattere, a infliggere perdite, e a subirle. Come tutti gli altri. Il fatto è che, sotto la spinta universale dell’Onu, con una visione utopistica dalla quale non potevamo politicamente recedere, abbiamo accettato - o ci siamo dati - obiettivi troppo ambiziosi per quella che è la realtà del Paese. In Afghanistan, dove storicamente mai nessuna situazione imposta è stata gestibile, con una buona dose di presunzione si sono voluti aggredire a pettine - ovvero con priorità assai vaghe - tutti i mali del mondo. E, nello stesso tempo, introdurre tutto il bene possibile, come la democrazia, un nuovo sistema giuridico, la

legalità dei traffici, la distruzione delle coltivazioni di oppio, il disarmo delle fazioni, l’istruzione scolastica, la ricostruzione, i diritti delle donne, e così via. Poi, in ossequio ai nostri non ai loro - incrollabili principi democratici, abbiamo finto di credere che libere elezioni fossero possibili. Certo, era giusto cominciare a espandere il seme della democrazia, ma, anche qui, credo che le nostre pretese siano state eccessive.

Non so se la rielezione di Karzai sia un bene o un male per il Paese. Ma ciò che invece è certo è che, a questo punto il fatto che anche noi,come Unione Europea, ci mettiamo dalla parte di coloro che contestano queste elezioni è farisaico, oltre

McChrystal chiede più uomini, Mullen lo appoggia, la Casa Bianca riflette

L’incubo Vietnam di Obama di Pierre Chiartano arack Obama deve ancora decidere come agire in Afghanistan. Ieri, al fianco del primo ministro canadese – che ha sempre affermato che la guerra afghana non può essere vinta – ha dichiarato che non è stata ancora fatta una scelta sulla migliore strategia da utilizzare in quel Paese. «Questa potrebbe essere una buona notizia, significa che il presidente sta resistendo alle pressioni del Pentagono, che vorrebbe solo un aumento della presenza milita-

B

re. Mentre Obama aveva già scelto una giusta strategia, tra impegno militare e coinvolgimento civile», commenta il generale Fabio Mini per liberal.

Fra i 30 e i 40mila soldati. Sarebbe questo il numero di uomini che il comandante in capo delle forze alleate in Afghanistan, Stanley McChrystal, si appresta a chiedere alla Casa Bianca, in aggiunta alle truppe già schierate. Ricordiamo che sono circa 50mila uomini di Enduring Freedom, la missione

Usa, e 68mila quelli di Isaf, l’operazione sotto l’egida della Nato, tra questi i 2.800 militari italiani. La nuova richiesta è stata rivelata da fonti militari vicine al comando americano a Kabul – riportate dalla Cnn – secondo le quali il generale statunitense avrebbe già preso la sua decisione, che dovrebbe a questo punto solo essere formalizzata. Se confermata la cifra sarebbe più alta delle previsioni effettuate nelle ultime settimane dagli analisti, che parlavano di circa 25mila uomini in

che ridicolo. Si fomenta odio e discordia, unico materiale che da quelle parti non manca. E il controllo del territorio? Senza di questo, nessuna delle nobili attività elencate, tutte tentate, è seriamente perseguibile. Chi lo afferma è un illuso o non è in buona fede. Come si osserva, i “soldati di pace” - ma ormai mi limiterei a chiamarli solo soldati - non riescono ancora a controllare Kabul. Non si comprende proprio come potrebbero rendere sicuro tutto il territorio, che, secondo la fonte di un noto Istituto di ricerca, vede la presenza dei nuovi talebani estesa al 97 per cento. Il problema, quindi, ha origine qui. Non si è voluto, o potuto, dare sin dall’inizio la priorità al territorio, perché, da un lato, gli an-

più, per dare alla guerra la svolta richiesta dal Pentagono. «Questi militari in più potrebbero rivelarsi solo un pagliativo. Potevano andar bene prima che i talebani avessero conquistato – continua Mini – il controllo di gran parte del Paese. McChrystal ha anche variato il suo approccio, spingendo i suoi soldati sul territorio, per stabilire maggiori contatti con la popolazione».

E infatti, più di una anno fa, Thomas Johnson, professore alla Naval postgraduate school di Monterrey, su Newsweek aveva sottolineato le debolezze dell’intervento in Afghanistan: «abbiamo il controllo delle zone urbane, lasciando al nemico quello delle aree rurali. È una situazione simile a quella dei


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glo-sassoni hanno preferito dare più importanza all’Iraq e, dall’altro, i paesi europei della Nato, dopo la solenne licitazione dell’articolo 5, non hanno osato disturbare le rispettive opinioni pubbliche con un intervento massiccio che, se non era proprio “di pace”, sarebbe stato sicuramente “per la pace”. Oggi, probabilmente, è tardi, e solo una graduale afganizzazione del conflitto, con buona pace dei principi che sempre accompagnano la nostra azione, potrà trarci d’impaccio.

La causa di tutto? È inutile recriminare, ma senza dubbio va ascritta al clima di scarsa chiarezza politica nel quale ci siamo trovati a fare le prime mosse. Il limite, che è stato anche l’errore iniziale, va ricercato nell’incapacità o nella volontà degli Stati - dopo il primo intervento statunitense in coordinamento con gli afgani dell’Alleanza del Nord di assicurare da subito una presenza militare più ampia, non limitata all’area di Kabul, ma estesa a tutto il territorio. È questa la priorità che gli Stati, e successivamente l’Isaf della Nato, avrebbero dovuto realizzare fin dall’inizio. Invece, non si è avuto il coraggio di

sovietici negli anni Ottanta. È un problema di distribuzione delle truppe. Troppo spesso non si esce dalle basi». La Casa Bianca ha più volte chiarito che una decisione su eventuali rinforzi non è imminente, ma da mesi le voci di un invio di nuove truppe si sono fatte sempre più insistenti, alla luce delle difficoltà riportate dalle truppe durante l’estate. Mercoledì, anche il capo degli Stati maggiori riuniti, ammiraglio Michael Mullen aveva appoggiato la richiesta per un incremento delle forze nel Paese centrasiatico. La richiesta arriverà, con ogni probabilità, nelle prossime settimane a Washington, dove però l’amministrazione democratica fa i conti, da tempo, con il crollo dei consensi nei

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In alto, i parà italiani del contingente della Folgore controllano l’area dove è avvenuto l’attentato in cui hanno perso la vita i loro colleghi. A destra, uno scorcio del Kaia airport di Kabul e sotto la base italiana di Camp Invicta

toria parziale, che ci consenta di porre gradualmente sotto il controllo centrale almeno una parte del territorio e delle forze insorgenti. In questo contesto di incertezze e di precarietà nell’individuazione di precisi obiettivi politici e di strategie conseguenti, l’Italia sta facendo una figura assai migliore di altri. I nostri soldati sono tra i più apprezzati, hanno comandanti credibili e, seppure in ritardo, dispongono di mezzi idonei.

no. È stata carente a tutti i livelli un’attenta e comune azione politica, tesa ad analizzare in ogni sede la situazione, i successi, gli insuccessi, la validità

Che fare ora? La decisione sul futuro, almeno per la strategia militare, va presa all’unanimità in sede Nato e, data la delicatezza della situazione e le incertezze statunitensi, non prenderà tempi brevi. Nell’immediato però occorre reagire e dare ai nostri soldati la migliore protezione per quella aerea, ad esempio, abbiamo un reparto appena rientrato da uno specifico addestramento negli Stati Uniti - e, sotto il profilo tattico, lasciare ai loro capi la massima libertà d’azione. Sapranno fare bene.

farlo. Così, è stato lasciato campo libero alle bande, alla coltura dell’oppio, ai signori della guerra e al ritorno dei nuovi talebani, nemici del bene del popolo, ma pronti ad accettare alleanze con il facinoroso di tur-

confronti della guerra da parte dell’opinione pubblica. Secondo un recente sondaggio della stessa Cnn appena il 39 per cento degli americani appoggia ancora le operazioni militari a Kabul.

«Anche il Pentagono è in difficoltà. I militari in Iraq non vogliono più andarci e anche per l’Afghanistan stanno mancando le motivazioni» continua il generale italiano, esperto di startegie militari, che è stato comandante di Kfor nel Kosovo. Stando al piano firmato da Barack Obama all’inizio dell’anno, e al recente annuncio del Pentagono di inviare altri 3mila uomini per ridurre il numero di attentati, entro dicembre gli Stati Uniti avranno complessivamente 71mila

degli obiettivi e la rispondenza al mandato.

Ci vuole più chiarezza, il che significa dove sostenere meno ambiguità. Lo riconosce lo stesso Barack Obama che, assai

più cauto di quanto lo fosse stato in campagna elettorale, ha appena dichiarato che la decisione sull’invio di nuove truppe potrebbe non essere una decisione a brevissimo termine. Prima di questo - ha affermato - bisogna chiarire se il nostro obiettivo è una distruzione totale dei talebani, oppure ci si possa accontentare di una vit-

soldati in Afghanistan. L’ambasciatore statunitense in Italia, David Thorne ha espresso «a nome del presidente degli Stati Uniti e di tutto il popolo americano il più profondo cordoglio per la perdita dei militari italiani che hanno sacrificato la loro vita a Kabul». «Il loro coraggio – sottolinea Thorne – è un esempio dei migliori valori che esprimono le nostre democrazie».

Gli Stati Uniti, sottolinea il diplomatico, sono «profondamente grati per l’impegno della Repubblica Italiana a sostegno della pace, la sicurezza e la democrazia in Afghanistan». «Lavoriamo insieme per aiutare il popolo afghano nella lotta per la libertà e soprattutto per la sicurezza da

quel barbaro terrorismo di cui anche oggi siamo stati testimoni» osserva l’ambasciatore. «Tutti hanno il diritto di vivere con dignità e senza paura, ed è per questo obiettivo che stiamo lottando in Afghanistan, insieme al suo popolo». «Desidero rivolgere le mie più sentite condoglianze alle famiglie dei militari deceduti oggi (ieri per chi legge, ndr) – conclude Thorne – sapendo che le parole non possono alleviare il dolore per una perdita che coinvolge tutti noi». Certo, per Washington il periodo di riflessione dovrebbe aver un termine, suggerisce il generale Mini, perché nel frattempo anche la situazione poltica, con la deleggitimazione di Karzai, non potrà che peggiorare la situazione.

Le vittime italiane in Afghanistan

Ventuno vite: ecco il costo dell’operazione KABUL. I sei paracadutisti della Folgore che ieri mattina sono morti a Kabul fanno salire a 21 le vittime italiane dall’inizio della missione Nato nel Paese asiatico nel 2004. Ad uccidere anche fatali incidenti sull’insidioso territorio afghano. Il 3 ottobre 2004 muore in un incidente d’auto Giovanni Bruno, 23 anni. Il 3 febbraio 2005, il capitano di fregata Bruno Vianini è a bordo di un aereo civile che precipita in una zona montuosa a sudest della capitale. L’11 ottobre 2005 viene trovato morto nella camerata del battaglione Genio a Kabul Michele Sanfilippo, di 34 anni. Il 5 maggio 2006 Manuel Fiorito, 27 anni, e Luca Polsinelli, 29 anni, muoiono a causa di un ordigno fatto esplodere al passaggio di una pattuglia italiana a sudest di Kabul. Il 2 luglio 2006 Carlo Liguori, 41 anni, muore d’infarto a Herat. Il 20 settembre 2006, Giuseppe Orlando, 28 anni, perde la vita nel ribaltamento del mezzo blindato a Chahar Asyab. Il 26 settembre 2006, un ordigno esplode al passaggio di una pattuglia italiana sempre a Chahar Asyab: Giorgio Langella, 31 anni, muore subito, Vincenzo Cardella, morirà alcuni giorni dopo per le ferite riportate. Il 24 settembre 2007, l’agente del Sismi Lorenzo D’Auria rimane gravemente ferito durante il blitz delle forze speciali britanniche che volevano liberarlo dai talibani. Morirà qualche giorno dopo. Il 24 novembre 2007 un kamikaze si fa esplodere nella valle di Pagman, a 15 chilometri da Kabul uccidendo Daniele Paladini. Il 13 febbraio 2008, Giovanni Pezzulo, 44 anni, viene ucciso in una sparatoria nel distretto di Uzeebin. Il 21 settembre 2008 Alessandro Caroppo muore per un malore a Herat. Il 15 gennaio 2009 Arnaldo Forcucci muore per arresto cardiaco. Il 14 luglio 2009, Alessandro di Lisio muore a causa di un ordigno esploso lungo la strada 517, tra Farah e la Ring Road.


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Tragedia a Kabul/3. L’Afghanistan sempre più sospeso tra caos, sangue e speranze. Parla Ahmed Rashid

Gli errori di Karzai

Ci vorrebbe un governo con tutte le fazioni: ma il neopresidente non ne parla. Il suo rivale pensa il contrario e l’Occidente non sa che fare di Antonio Picasso attentato di ieri dimostra che la crisi politica emersa dalle elezioni offre lo spazio per una nuova insorgenza dei talebani». È all’insegna del realismo che Ahmed Rashid, giornalista pachistano, grande esperto di islamismo radicale, risponde alle domande di

«L’

liberal. Certo, il professore pakistano, riconosciuto come uno dei più acuti osservatori, non abbassa la sua fiducia nei confronti dell’Amministrazione Obama. D’altra parte, lo scenario attuale lo porta a vedere nell’Asia centrale un ginepraio di criticità politiche e conflitti armati contro cui persino le migliori intenzioni della Casa Bianca rischiano di disfarsi. Caos Asia, quindi, per parafrasare il titolo italiano dell’ultimo libro di Rashid. Professore, cosa significa colpire le truppe italiane in questo momento? Alla fine dello spoglio delle schede e con la quasi conferma di Karzai alla Presidenza del Paese? Italiani, spagnoli e tedeschi sono considerati il ventre molle della coalizione. È per questo che i talebani si accaniscono contro di loro. Soprattutto ora, a elezioni concluse. A proposito di queste, e sulla base della prosecuzione degli scontri nel Paese, pensa che un’ennesima conferenza internazionale, com’è stato ipotizzato recentemente, possa produrre una strategia efficace per cambiare le sorti del conflitto? Vista così, la proposta dell’Unione europea appare

l’ennesima iniziativa ispirata da una profonda e ostinata ingenuità da parte dell’Occidente. I risultati di queste elezioni, sia per quanto riguarda l’affluenza alle urne sia per le preferenze ottenute da Karzai, hanno dimostrato come le istituzioni locali non dispongano della legittimità necessaria che garantisca a priori il successo di un nuovo summit. (Dei 15 milioni di afgani aventi diritto al voto, solo 6 milioni si sono recati alle urne. Di questi le preferenze per l’attuale presi-

duto anche in una crisi politica. Oltre alla guerra, ora, le istituzioni di Kabul, nella loro debolezza, si ritrovano in una condizione di paralisi. A proposito dei brogli elettorali a Kabul, la stampa occidentale ha fatto il paragone con il vicino Iran. Crede che il tandem Karzai-Abdullah possa essere accostato a quello di Ahmadinejad-Mousavi? È un paragone che non ha ragion d’essere. Quelle iraniane in-

I talebani considerano italiani, spagnoli e tedeschi il ventre molle della coalizione. È per questo che si accaniscono contro di loro. Soprattutto ora dente si sono stabilizzate poco oltre il 54% ndr). Al contrario, un’eventuale conferenza internazionale mi fa pensare che da una parte e dall’altra dell’Atlantico permanga quella mancanza di realismo che ha rappresentato una costante negativa in questi otto anni di guerra, impedendo di sciogliere i nodi politici e sociali che sono alla base degli scontri. Si rischia, di conseguenza, di persistere sulla stessa vecchia strada: più uomini, più risorse militari, ma in assenza di una prospettiva politica. Come valuta le elezioni in Afghanistan? Sia come evento sia come risultato. Crede possa essere il primo passo di una comunque lontana normalizzazione del Paese? È escluso! La bassa affluenza, la denuncia di centinaia di brogli e le controversie sui risultati poco chiari mi inducono a pensare che l’Afghanistan sia ca-

fatti sono state elezioni presidenziali a cui la comunità internazionale è stata costretta ad assistere da una platea lontana e separata da un vetro di protezione. Teheran si è mossa in totale autonomia. In Afghanistan, al contrario, si sono concentrati tutti gli attori predisposti a osservare la regolare conduzione del voto. Il fatto che ci siano stati brogli, pur con questa elevata presenza di Istituzioni internazionali, Organizzazioni governative e non, dovrebbe essere un’ulteriore fonte di riflessione. Al di là di questo, è vero: Afghanistan e Iran hanno certamente un problema di democrazia. Ma di natura, origine e con prospettive differenti. Cosa farà adesso Karzai? Formerà un governo di unità nazionale, chiamando al suo fianco i candidati sconfitti, oppure proseguirà sulla strada battuta

fino a prima delle elezioni? Quella di un governo rappresentativo di tutte le fazioni del Paese sarebbe la strada ottimale, la soluzione migliore, almeno per contenere la crisi politica. Ma di tutto questo Karzai non ha parlato. Il che mi fa pensare che non abbia la minima intenzione di realizzarlo. Resta quindi il pericolo che le rivalità, emerse nel corso della campagna elettorale, tornino a presentarsi come frizioni postvoto. Di conseguenza di andrebbero ad aggiungere ai contrasti tribali ed etnici, che costituiscono i problemi strutturali della società afgana. Obiettivamente, Karzai – prima del voto – aveva molti punti deboli sui quali gli altri candidati avrebbero potuto premere per sconfiggerlo. Quale è stato l’errore del suo più valido concorrente, Abdullah Abdullah, e degli altri? Hanno semplicemente perso un’occasione. Invece di puntare l’indice sugli errori commessi dal Presidente uscente e di parlare al Paese, hanno insistito sulla via delle distinzioni e delle frammentazioni tribali. Spesso la popolazione afgana viene indicata come una comunità tribale in cui il concetto di democrazia è troppo “occidentale” per essere recepito. Crede che le presidenziali di agosto possano aver confutato questo pregiudizio? Il Paese è ancora in uno stato di


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fluidità. Queste previsioni quindi appaiono troppo nette. Guardi le elezioni del 2004. Già in quella occasione era stato chiesto alla popolazione afgana di esprimersi sulla propria leadership. È cambiato qualcosa da allora? No, è evidente quindi che l’Afghanistan debba compiere ancora tanti passaggi prima di potersi dire politicamente “normale”. Fermo restando il fatto che, una volta raggiunta una condizione di stabilità interna duratura, essa non rispecchi necessariamente i parametri occidentali. Parliamo della guerra. Le forze straniere sono ogni giorno di più in difficoltà.

Due settimane fa Mc Chrystal aveva ipotizzato un eventuale ulteriore aumento di uomini. È la strada giusta? C’è una surge per l’Afghanistan? Washington ha parlato più volte di aumentare uomini e risorse destinate al teatro centro-asiatico. Questo, per alcuni aspetti, potrebbe passare come una surge.Tuttavia non basta incrementare la presenza fisica delle forze occidentali sul territorio. La surge in Iraq aveva funzionato perché dietro all’impatto militare c’era una nuova strategia politica che aveva segnato la discontinuità con la passata conduzione del conflitto.

18 settembre 2009 • pagina 7

Qui a sinistra, militanti talebani. Sotto, Stanley A. MacChrystall capo delle forze americane in Afghanistan. In basso, Abdulah Abdullah, lo sfidante di Karzai alle elezioni di agosto. Nella pagina a fianco, il giornalista Ahmed Rashid

altri Paesi del Golfo. Ambizioni geopolitiche, mire energetiche, ma anche di pura destabilizzazione. Infine, le manifestazioni di estremismo religioso e di rivalità etnico-tribale. Questo è l’Afghanistan. Concludiamo con il suo Paese. Nelle ultime settimane, l’attenzione nei confronti dell’instabilità di cui soffre il Pakistan si è smorzata. Tuttavia, il quadro d’insieme è ancora negativo. Quali prospettive vede per Islamabad affinché definisca una soluzione alla sua crisi che torni

Per quanto riguarda i talebani, o quelli che per semplicità di cronaca chiamiamo così, sappiamo che l’alto livello di frammentazione costituisce il nodo più difficile da sciogliere se si vuole vincere in Afghanistan. La domanda infatti è: contro chi combattiamo? È esattamente quello che si sta cercando di capire. Parlare di Afghanistan significa chiamare in causa tutte le realtà regionali. Nessuna esclusa. Più o meno stabili che esse siano. Il Pakistan con i suoi confini così porosi che permettono un agevole passaggio di uomini, armi e droga. L’Iran, la cui risoluzione della crisi interna e la soddisfazione delle sue ambizioni nucleari, appaiono tanto contingenti alla stabilità di Kabul. L’India, per la quale è ormai palese che il contesto afgano ha il mero significato strumentale di tenere in scacco il governo di Islamabad. Ma non dimentichiamoci gli interessi, spesso di natura poco chiara, che giungono dall’Arabia Saudita e dagli

utile anche per lo scenario afgano? Paradossalmente e se possibile, il Pakistan è in una situazione ancora più critica del suo vicino settentrionale. La crisi politica in cui versa da ben prima della caduta di Musharraf e lo strapotere delle Forze Armate non hanno saputo contenere le degenerazioni di violenza specie in alcune zone. Le Aree tribali e la Valle Swat, per esempio. A questo si aggiungono problemi di disparità sociale e arretratezza economica non indifferenti. A mio parere, non c’è una soluzione che il Pakistan possa risolvere individualmente. È necessario un immediato intervento della comunità internazionale. Bisogna agire sul piano degli investimenti e dello sviluppo. Sul fronte politico, a sua volta, serve pazienza. Perché la classe dirigente eletta, per quanto possa apparire inadatta a occupare posizioni tanto delicate, deve portare a termine il proprio mandato e poi essere sostituita. Così come avviene nelle migliori democrazie.

«Un attentato anti-islamico»

Il presidente all’Italia: «Non dimenticheremo» KABUL. «Barbarico» e «anti islamico». Con queste parole di condanna, il presidente afgano Hamid Karzai ha commentato l’attentato di ieri a Kabul costato la vita a sei militari italiani. Karzai ha espresso le sue condoglianze «al governo italiano, al suo popolo e alle famiglie delle vittime» dell’attentato. E ha aggiunto: «Gli afgani non dimenticheranno mai e continueranno ad essere immensamente grati per il servizio che i militari italiani stanno rendendo a favore della pace e della sicurezza nel nostro Paese». In una lunga conferenza stampa, poi, Karzai ha difeso le discusse elezioni in Afghanistan e chiesto agli alleati stranieri di non interferire nella questione dei brogli. La Commissione elettorale infatti, ieri l’altro ha diffuso i risultati finali, ma non ufficiali, che danno a Karzai la maggioranza assoluta (54,6%) che gli eviterebbe di andare al ballottaggio con il principale rivale Abdullah Abdullah (27,8%). Gli osservatori dell’Ue, però, hanno fatto sapere che 1,5 milioni di voti, tra quelli espressi nel corso delle consultazioni politiche dello scorso 20 agosto, potrebbero essere frutto di brogli.

«La stampa ha parlato di frodi massicce. Ma non sono state così vaste», ha detto nella conferenza stampa il presidente. «Se ci sono stati brogli, sono stati comunque pochi, ciò accade in tutto il mondo. Se ci sono stati brogli - ha continuato - verranno esaminati con onestà e senza pregiudizi». Rivolgendosi ai rappresetanti della stampa occidentale, poi, ha detto: «Spero che voi amici stranieri rispettiate il popolo afgano lasciando all’Iec e alla Ecc il proprio lavoro senza interferire».


diario

pagina 8 • 18 settembre 2009

Dissensi. Trenta senatori capeggiati da Baldassarri, Valditara, Viespoli e Augello danno vita a un seminario “non autorizzato” dai capigruppo

Un «partito di Fini» al Senato

Parte una nuova contestazione contro il Pdl «senza democrazia interna» di Errico Novi segue dalla prima I capigruppo Maurizio Gasparri e Gaetano Quagliariello non l’avevano presa bene e si erano affrettati a far sapere che non sarebbero state tollerate «iniziative separatiste». Tanto più che gli stessi argomenti del seminario ribelle (forma partito, cittadinanza, politiche dell’immigrazione e strategie anti-crisi) avrebbero avuto ospitalità in una sede più naturale: un dibattito aperto a tutto il gruppo del Senato su “Il Pdl, la forma partito, la democrazia e gli elettori” rapidamente calendarizzato per il 29 settembre. Niente da fare, il richiamo all’ordine è caduto nel vuoto e ieri i quattro promotori sono riusciti a radunare una trentina di parlamentari, per un “workshop” che proseguirà anche oggi.

È un caso per certi aspetti persino più significativo della lettera a Silvio Berlusconi sul “patto di consultazione” con Fini firmata da Italo Bocchino e da altri 68 deputati. Stavolta la faccenda è più spinosa, non foss’altro perché il gruppo frondista ha qualche inclinazione trasversale: oltre a moltissimi esponenti di provenienza aennina, compresi i deputati Nino Lo Presti, Marcello De Angelis ed Enzo Raisi e l’europarlamentare Roberta Angelilli, ci sono anche outsider forzisti come il vicepresidente della commissione Affari costituzionali Domenico Benedetti Valentini e il bergamasco Valerio Carrara, e battitori solitari come il sottosegretario Carlo Giovanardi e l’ex folliniano di Brescia Riccardo Conti. Non esattamente primissime file, ma un numero di soldati comunque sufficiente a testimoniare l’insofferenza verso i capigruppo. A essere messa in discussione dalla due giorni al Palazzo della Cooperazione è anzi un po’ tutta la struttura gerarchica del Pdl, implicitamente accusata di non saper affrontare le questioni di fondo a cui il Pdl sembra ancora sospeso. Già nei mesi scorsi aveva fatto capolino in modo estemporaneo una sorta di “partito dei parlamentari”. Una specie di sub-correntone trasversale a tutte le anime del Pdl, affollato di deputati e senatori sempre più stanchi

Nella due giorni che si chiude oggi si parla anche delle linee guida di un “Manifesto per il Pdl”. All’origine della rivolta lo strapotere dei gerarchi del decretificio a cui s’è ridotto il loro mandato. Tutti preoccupati di non avere più alcun rilievo nelle scelte del partito e di essere sempre meno rapprersentativi, dunque, davanti all’elettorato. Una condizione percepita come rischiosissima, perché sempre più subordinata alle ubbie e alle prepotenze dei coordinatori nazionali e di quei pochi leader locali dotati di qualche peso. Un anonimato che preclude di certo a future angoscianti lotterie al momento delle candidature, della compilazione dei listoni, delle scadenze cioè in cui lo strapotere di triumviri, ca-

pigruppo e gerarchi si manifesta in tutta la sua crudeltà. Ma non può essere sottovalutato il fatto che una delle prime e più clamorose manifestazioni di questo “partito dei parlamentari” abbia visto in prima fila proprio Italo Bocchino, con la risposta che il vicepresidente dei deputati del Pdl indirizzò a Berlusconi, secondo il quale il gruppo alla Camera batteva la fiacca, a differenza dei senatori con i quali «non c’era mai nessun problema». A parte l’ironia del destino che ora vede proprio gli uomini di Palazzo Madama nella schiera dei dissidenti, non si può sotto-

valutare l’affinità tra le loro richieste e le pressioni di Gianfranco Fini per un partito più democratico.

Ancora più chiara appare la forza del segnale e la convergenza con Fini se si pensa che da ieri il seminario dei senatori ribelli discute sulle «linee guida per un ‘Manifesto per il Popolo delle libertà’», una sorta di Costituzione repubblicana del partito, decisamente in linea con il discorso fatto l’altro ieri da Fini ai suoi fedelissimi sulla «differenza che deve emergere tra una monarchia asoluta e una monarchia costituzionale». Il “Manifesto” dei senatori (tra i quali ci sono anche l’estensore dell’attuale legge elettorale Vincenzo Nespoli, il padovano Maurizio Saia e l’ex sottosegretario alla Giustizia Giuseppe Valentino),

nelle intenzioni dei promotori, «potrebbe costituire la base per un ampio confronto interno riguardo i futuri assetti organizzativi del Pdl, le regole per un corretto e democratico svolgimento della dialettica interna». Intenzioni tutt’altro che pacifiche. «Condividere la necessità di iniziare un dibattito approfondito sul modo in cui il Popolo della libertà intende completare la sua fase di costituzione, discutere in un seminario sui temi legati all’integrazione degli extracomunitari o agli scenari di crisi economica che contrassegneranno la fine del 2009 non significa essere “frondisti” ma offrire un contributo all’apertura di una stagione di confronto nel centrodestra», si legge nell’assai puntuto comunicato con cui i promotori hanno in pratica detto a Gasparri e Quagliariello di farsene una ragione. «È una due giorni di lavoro dalla quale ci attendiamo possano scaturire elaborati utili a un dibattito qualificato. Prendiamo inoltre nota con soddisfazione dell’iniziativa assunta dai capigruppo di convocare una riunione del gruppo del Senato interamente dedicata al tema della forma partito», è quindi il messaggio appena intinto di sarcasmo, «è evidente che si tratta di un contesto del tutto diverso, diremmo istituzionale, e tuttavia è un segno di quanto l’esigenza di discutere e di affrettare i tempi per rendere più competitivo il Pdl sia avvertita da tutti i colleghi del Senato». Come se la dissidenza sfociata nel seminario di ieri sia addirittura la semplice punta dell’iceberg. La nota si chiude con una richiesta: «Speriamo che questa nota fughi ogni possibile polemica che sarebbe fuori luogo, soprattutto in una giornata come questa. Anche per questa ragione» Baldassarri, Valditara, Viespoli e Augello hanno confermato lo svolgimento a porte chiuse e il minuto di silenzio, osservato in apertura dei lavori, «per ricordare i nostri caduti in Afghanistan». Di certo non ci si poteva aspettare che la sfida in campo aperto lanciata da Fini potesse produrre un tale smottamento nell’apparentemente monolitico Pdl. E questa seconda insubordinazione dà tutta l’idea che il processo sia solo agli inizi.


diario

18 settembre 2009 • pagina 9

Bonfrisco (Pdl): «Stiamo lavorando in un clima di grande collaborazione»

Colaninno: «Strumento necessario e politicamente giusto»

Scudo fiscale: martedì la decisione del Senato

«Ha ragione Marchionne, gli incentivi servono»

ROMA. Pesa l’incognita della

ROMA. Proseguire con gli incentivi anche nel mercato delle due ruote. Dopo l’appello lanciato mercoledì dall’amministratore delegato di Fiat, Sergio Marchionne, ieri è stato il presidente della Piaggio, Roberto Colaninno, a ribadire la necessità di rinnovare gli incentivi governativi al comparto automotive. «Gli incentivi sono uno strumento necessario e politicamente giusto - ha dichiarato Colaninno a margine della presentazione di alcuni nuovi veicoli commerciali del gruppo a Pontedera - e la crisi obbliga a un loro mantenimento per tutto il 2010 almeno». «In questo senso sono assolutamente d’accordo con Marchionne - ha continuato il numero uno della Piaggio - il mercato su gomma, su

Finanziaria sulla decisione del governo sull’allargamento delle maglie dello scudo fiscale. Mercoledì sera le commissioni del Senato riunite per l’esame del decreto legge correttivo al decreto anticrisi hanno discusso a lungo sull’emendamento presentato dal senatore Pdl, Salvo Fleres, per l’estensione della sanatoria anche ai procedimenti penali e alle imprese estere controllate o collegate, e alla fine l’esecutivo (che insieme al relatore aveva espresso parere favorevole), si è preso ulteriore tempo riservandosi una decisione per martedì prossimo.

In quella data il provvedimento approderà all’esame di Palazzo Madama, ma potrebbe essere proprio quella la giornata in cui dovrebbe riunirsi il Consiglio dei ministri per un primo esame della Finanziaria. È chiaro che l’obiettivo dell’allargamento dello scudo è quello di assicurarsi maggiori e sicuri introiti finanziari, i cui importi potrebbero mettere al sicuro la Finanziaria da possibili ulteriori manovre. Non a caso, l’emendamento Fleres porta al 15 dicembre la chiusura per la finestra dello scudo, finora aperta fino al 15 aprile 2010, anticipandone la contabilizza-

zione all’anno in corso. È per questo motivo che la convergenza sull’emendamento Fleres al di là delle prese di posizione dell’opposizione, in realtà sembra registrare una convergenza molto più ampia di quanto le dichiarazioni “di rito”lascino intendere.Tanto che, secondo la senatrice del Pdl, Cinzia Bonfrisco si sta «lavorando in un clima di grande collaborazione». I tempi comunque sono stretti. Il decreto legge correttivo scade il 3 ottobre e bisogna dar tempo anche alla Camera per il via libera definitivo. Allo stesso tempo il decreto appare come l’ultima possibilità di intervento prima della finanziaria (che va presentata entro il 30 settembre).

Benedetto XVI torna dai fratelli maggiori In ottobre una nuova visita alla sinagoga di Roma di Luigi Accattoli nia – quella distrutta dai nazisti nella Notte dei cristalli del 1938 – nell’agosto del 2005 e ha Per prima viene la correzione della preghiera pregato al Muro del Pianto il 12 maggio di del Venerdì Santo da parte di Giovanni XXIII quest’anno. In preparazione della visita in Ternella Pasqua del 1959: partì da lì la strada che ra Santa, il 12 febbraio di quest’anno – parlanil rabbino Elio Toaff all’indomani della visita di do ai membri della Conferenza dei presidenti Papa Wojtyla alla Sinagoga ricapitolerà in un delle maggiori organizzazioni ebraiche amerilibro intitolato Da perfidi giudei a fratelli mag- cane – Benedetto aveva fatto suo il mea culpa giori (Mondadori 1987). C’è poi – ed è il fatto ca- del predecessore in materia di antigiudaismo pitale di questa storia – la die aveva così continuato: «L’ochiarazione conciliare «Nodio e il disprezzo per uomini, stra aetate» (Nel nostro temdonne e bambini manifestati po): viene approvata – con nella Shoah sono stati un cri2.221 voti contro 88 – il 28 otmine contro Dio e contro l’utobre 1965. Afferma che «la manità. È ovvio che qualsiamorte di Cristo non può essesi negazione o minimizzare imputata indistintamente ROMA. Papa Benedetto XVI si zione di questo terribile cria tutti gli ebrei allora viventi, recherà in visita alla sinagoga mine è intollerabile e del tutdi Roma dopo il termine delle to inaccettabile». né agli ebrei viventi oggi». festività ebraiche di Succoth, Tocca a Giovanni Paolo II che si chiudono l’11 ottobre con Papa Benedetto “tornancompiere quattro gesti crea- la Festa della Legge. Lo ha do” nella Sinagoga compie tivi che hanno la funzione di scritto lo stesso pontefice, nel dunque un atto di grande rirecapitare all’interlocutore telegramma inviato al rabbino lievo, confermativo e rafforebraico il messaggio di fra- capo di Roma Riccardo Di Se- zativo di quanto era stato fatternità venuto dal Vaticano gni per le festività ebraiche. to dal predecessore. Che egli II: la visita ad Auschwitz nel «Anche quest’anno, in occasio- abbia voluto una nuova pre1979, con la “sosta” davanti ne della ricorrenza di Rosh Ha ghiera per la liturgia del Vealla lapide «con l’iscrizione Shana 5770, di Yom Kippur e di nerdì Santo secondo il vecin lingua ebraica»; la visita Sukkot, volentieri formulo i chio rito, che accenna a un alla Sinagoga di Roma nel miei più sentiti auguri a lei e al- ritrovamento escatologico – 1986, in cui chiama gli ebrei la comunità ebraica di Roma», cioè oltre la storia – tra cri«fratelli maggiori»; la Gior- recita il testo del telegramma. stiani ed ebrei nell’unica nata del perdono del 12 mar- Che prosegue: «Rinnovo a lei la Chiesa di Cristo sta a dire la zo 2000 in cui riconosce le mia cordiale amicizia, in attesa sua preoccupazione di manresponsabilità storiche dei di compiere con gioia, dopo le tenere fede a un’invocazione cristiani nella persecuzione vostre feste, al visita a codesta di matrice biblica, ma non degli ebrei; la visita al Muro Comunità e alla sinagoga, ani- contraddice il proposito condel Pianto, a Gerusalemme, mato dal vivo desiderio di ma- ciliare della rinnovata frateril 26 dello stesso mese, quan- nifestarvi la personale vicinan- nità. Ne è una riprova l’ando infila in una fessura di za mia e quella di tutta la chie- nuncio della visita alla Sinaquella muraglia, facendosi sa cattolica». Il rabbino capo di goga. Come il predecessore ebreo tra gli ebrei, la «richie- Roma Riccardo Di Segni ha anch’egli lì pregherà con i sta di perdono» pronunciata espresso gratitudine per «un «fratelli maggiori» e quella in San Pietro quindici giorni messaggio così significativo e preghiera in comune suoprima. Da parte sua Bene- importante», confermando il nerà come un invito all’intedetto XVI ha già compiuto lavoro per l’organizzazione ra comunione cattolica peralmeno due gesti analoghi a dalla visita della quale non è ché segua l’esempio del vescovo di Roma. quelli del predecessore: ha stata ancora decisa la data. visitato la Sinagoga di Colowww.luigiaccattoli.it segue dalla prima

Di Segni ringrazia per il messaggio

due, tre e quattro ruote ha assolutamente bisogno degli incentivi». Secondo Colaninno, infatti, gli incentivi «sono determinanti per gestire questa crisi. Le vendite di quest’anno, anche degli scooter, hanno avuto un sostanziale aiuto» da questo strumento ma «se dovessero essere interrotti le previsioni sarebbero assolutamente negative» e «il mercato ripiomberebbe in una fase negativa».

Dunque, ha avvertito il presidente della Piaggio, «o chiudiamo le fabbriche, le riduciamo, o il governo deve continuare queste strategie per garantire un potenziale di occupazione fondamentale per far ripartire i consumi». Una scelta resa ancora più urgente dalla crisi in atto. Perché se è vero che il peggio è ormai alle spalle, ha sottolineato Colaninno, «c’è ancora molta strada da fare» per tornare a crescere. «Credo che il minimo sia stato raggiunto - ha proseguito il top manager - ma non vedo una ripresa veloce nel prossimo futuro» e comunque si tratta di «una ripresa molto complicata e difficile». In particolare «su Europa e Stati Uniti sono un po’ più pessimista - ha affermato il leader della Piaggio - mentre penso che la ripresa avverrà soprattutto nel continente asiatico. E questo metterà in competizione i nostri mercati e le nostre aziende».


politica

pagina 10 • 18 settembre 2009

Inchiesta. Non c’è dibattito politico fra i candidati: l’unico nodo è come non perdere tutti i governatori. Poi si parlerà di programmi

Pd, cercasi alleato Il vero futuro dei democratici dipende dalle Regionali più che dal congresso di Gabriella Mecucci sondaggi estivi erano da incubo: il Pd, senza l’alleanza con l’Udc, avrebbe preso due Regioni: la Toscana e l’Emilia. Insomma, il rischio di un vero e proprio cappotto. Nemmeno l’Umbria, storicamente super rossa, sarebbe stata più sicura. Tanto è vero che la presidente Maria Rita Lorenzetti, la “zarina”, puntando alla terza elezione, aveva subito iniziato un fitto corteggiamento verso il partito di Casini. Il leader umbro dell’Udc, Maurizio Ronconi, pur accettando il confronto, non aveva accettato le avances provenienti da Palazzo Cesaroni. E all’interno del Pd locale era circolato il malumore di chi non ha l’esatta dimensione della crisi del partito. Ma tutto sommato non è stata la terza, ma assai piccola regione, un tempo fedelissima del Pci, ad essere al centro dell’attenzione del dibattito interno ai democratici. Sono almeno quattro le realtà dove il Pd cerca affannosamente gli uomini di Casini per scongiurare la sconfitta certa.

I

La prima è il Piemonte: Mercedes Bresso, con le alleanze oggi in vigore, non ce la farebbe mai. E allora si tenta la via del rapporto con l’Udc facendo leva sulle preoccupazioni più volte espresse da questo partito per il dilagare dell’egemonia leghista sul centrodestra. Per la Regione, infatti, il candidato di Berlusconi sarebbe un bossiano ad alta fedeltà: il capogruppo alla Camera, Roberto Cota. E quello del centrosinistra? Potrebbe toccare a Fassino e in cambio all’Udc andrebbe – alla fine del mandato di Chiamparino – il posto di sindaco di Torino. Oppure il contrario: Fassino al municipio e un uomo gradito a Casini alla Regione. Il Pd spinge molto per la trattativa soprattutto al Nord. L’altro luogo dell’intesa sarebbe la Liguria. Ma lì le cose saranno assai difficili perché l’attuale presidente della

Regione, Claudio Burlando non ne vuol sapere di non ripresentarsi. E per l’Udc sarebbe impossibile non chiedere la “discontinuità”, e cioè il cambio del candidato. Poi c’è il Lazio, anche qui Marrazzo è inchiodato alla poltrona. Senza l’Udc però è già sconfitto e il partito di Casini chiede un candidato diverso. I democratici – se riescono a mettere da parte l’attuale presidente – lo avrebbero già individuato in Andrea Riccardi, importante intellettuale cattolico, leader della Comunità di Sant’Egidio. Ma non è affatto detto che accetti. E bisognerà scovare comunque un personaggio di prm’ordine per battersi con Giorgia Meloni: è lei infatti il più probabile “sfidante” del centrodestra.

Di preoccupazione in preoccupazione si arriva alla Puglia dove il tentativo di D’Alema (segue in prima persona le vicende di questa Regione) è quello di mettere insieme Pd, Udc e Vendola chiedendo a quest’ultimo però di rinunciare alla presidenza. La Campania (il centrodestra punterebbe sulla Carfagna) è la vera croce dei democratici che la danno per persa, mentre in Veneto tutto resta appeso a quello che farà Galan. Pietro Marcenaro, senatore piemontese, è particolarmente preoccupato dalla Lega che – dice – «rappresenta il populismo allo stato puro». E Di Pietro? «È speculare a Bossi». L’antileghismo e l’antidipietrismo sono da tempo un atteggiamento molto diffuso nel Pd. Ne è passata di acqua sotto i ponti dai tempi in cui il senatùr era «una costola della sinistra» e il magistrato di Mani Pulite l’eroe senza macchia e senza paura. Insomma, c’è poco da fare: dietro le quinte del congresso del Pd, è inevitabile che al centro del dibattito ci sia la politica delle alleanze per le regionali. E sia Bersani, con più convinzione, sia Franceschini, con qualche distinguo in più, puntano molto su Casini. Per il resto – e in parecchi se ne lamentano – è uno scontro di potere: i programmi dei due leader sono infatti molto simili. Poche le differenze e la discussione non sta

approfondendo i temi. In realtà dopo la conta interna, ci sarà la consultazione elettorale di marzo. Il vero confronto si aprirà con, in mano, i risultati del voto. Franca Chiaromonte, parlamentare, dalemiana storica, è d’accordo con questa analisi anche se introduce qualche correttivo. «Per la verità – dice – c’è una differenza assai seria fra Franceschini e Bersani sulla natura del partito. Il primo lo vuole liquido: molto valore alle consultazioni tipo primarie, che dovrebbero essere esaustive nella ricerca dei candidati. Mentre il secondo preferisce una forza politica più strutturata e organizzata sul territorio. Non è una questione da poco, soprattutto per gente come me che conserva un vecchio amore per il Pci».

PIERO FASSINO In prospettiva di un accordo con i centristi, Piero Fassino sarebbe un candidato chiave alla Regione Piemonte o al Comune di Torino

Dunque, quale partito ne uscirà da questo confronto dipenderà da chi lo vincerà. Vediamo allora le squadre in campo e le possibilità di vittoria. All’inizio sembrava che Bersani si sarebbe aggiudicato le primarie, ma più si va avanti e meno il risultato diventa certo. Anche perché Franceschini ha fatto alcune mosse di notevole abilità. A Bologna, ad esempio, ha schierato una donna, un’esponente del vecchio Pci, che in PIERO città è molto amata: MARRAZZO Mariangela Bastico. E così una delle fePiero Marrazzo derazioni più forti si è ricandidato potrebbe sfuggire a nel Lazio Bersani proprio nelpuntando la sua Emilia. E ananche ai voti che in Umbria il ridell’Udc ma, sultato è incerto. Anin caso che qui, infatti, Frandi accordo, ceschini ha deciso di i centristi appoggiare Alberto vorrebbero Stramaccioni, un didiscontinuità rigente storico del Pci, per di più da


politica

18 settembre 2009 • pagina 11

SERGIO CHIAMPARINO Il sindaco di Torino Sergio Chiamparino è tra i ”non allineati”, dopo aver meditato a lungo la possibilità di candidarsi alla segreteria

sempre riformista. Strano ma vero non è più in una delle regioni rosse che si ritrova l’organizzazione con più tessere, ma a Napoli. E questo la dice lunga su quanto il Pd sia cambiato rispetto alla storia recente persino dei Diesse.

NICHI VENDOLA Il Pd punta a portare nel partito i vendoliani di Sinistra e Libertà, ma senza ricandidare Nichi Vendola alla Regione Puglia

Nessuno si lancia in previsioni. Ma i ranghi si vanno serrando. Partiamo dall’attuale segretario. Sin dalla prim’ora ha l’appoggio di Piero Fassino e di Walter Veltroni: due pezzi da novanta. Anche se l’ex leader del Pd, dopo le dimissioni, si è ritirato in disparte, e preferisce fare iniziative per promuovere il suo libro più che per portar voti al suo candidato. Tant’è, il gruppone intorno a lui però sta compattamente con Franceschini: basti pensare che Walter Verini,

l’infaticabile e oscuro factotum del periodo del Campidoglio, gestisce l’organizzazione della sua“campagna”. E con lui sta attivamente anche Tonini. Nel correntone veltroniano c’è stata però una defezione di prima grandezza: quella di Goffedo Bettini. L’uomo più conosciuto e apprezzato ai tempi della sindacatura, l’intellettuale e il politico più raffinato del gruppo ha deciso di appoggiare nientemeno che l’outsider IgnaANNA zio Marino. E nel FINOCCHIARO Lazio la sua scelta potrebbe pesare paAnna recchio. D’altronde Finocchiaro, a questo “terzo uoconsiderata mo”, sostenitore deluna dalemiana, la linea laicista in è fra i dirigenti materia bioetica, di punta del Pd viene attribuito un che si sono pacchetto di voti schierati non insignificante: per Bersani, potrebbe nelle prima senza marie oscillare fra il entusiasmo 10 e il 15 per cento. In congresso non

dovrebbe superare il 6, 7 per cento, ma comunque non sarebbe impossibile che diventi l’ago della bilancia, colui che schierandosi con l’uno o con l’altro, ne determinerebbe la vittoria.

Dalla parte di Bersani ci sono altri tre pezzi da novanta: Massimo D’Alema, Rosy Bindi ed Enrico Letta. Il primo e l’ultimo sono i più attivi nel portare avanti la linea dell’alleanza con l’Udc e non puntano solo sulle primarie, ma anche e soprattutto sul congresso. Già, perché se è vero che il voto del partito liquido potrebbe essere diviso in modo paritetico fra i due super candidati, quello congressuale – tutti i nostri interlocutori hanno fatto questa previsione – dovrebbe finire a vantaggio di Bersani. Ma in questa mappa di super dirigenti, ne mancano ancora molti che preferiscono definirsi “non allineati”. È un gruppo importante di cui fanno parte fra gli altri personaggi come Sergio Chiamparino (all’inizio dichiarò una sua preferenza per Franceschini), Anna Finocchiaro eVannino Chiti: gli ultimi due guardano con simpatia verso Bersani. Questa “quarta posizione” preferisce però non legarsi troppo ai candidati e tenersi le mani libere. È sicuro che gli aderenti si riuniscono autonomamente e che in qualche modo in congresso si faranno sentire. Poi, nel Pd si parla molto, forse soprattutto, delle scelte che farà Francesco Rutelli. Se ne an-

drà e approderà ai lidi dell’Udc? Qualcuno lo teme, qualcun altro lo auspica. C’è chi lo vede già fuori («Così non si farà contare al congresso»), ma la maggioranza è convinta che resterà nel Pd. Che il partito arriverà in fondo alla tornata congressuale senza scissioni, nemmeno mini. Ma gli orientamenti dell’ex sindaco di Roma tengono comunque banco. Il Corriere della Sera ha anticipato il contenuto di una parte del suo libro dal quale ne scaturirebbe la volontà di andarsene. L’interessato ha smentito, ma non si può negare che tutte le sue risposte non danno mai la sensazione di essere definitive e che appaiono sempre aperte, possibiliste. Come se Rutelli non volesse precludersi alcuna strada. Del resto, all’interno del Pd, sta vivendo una fase particolarmente difficile dopo la non brillante prestazione come ministro dei Beni culturali e dopo la sonora sconfitta nella corsa a sindaco di Roma.

Un tempo, nei congressi del maggior partito della sinistra, si vantava il numero delle donne candidate. Questa volta la scelta di Bersani e Franceschini è stata opposta: il primo ha rinunciato alla logica delle quote, mentre Franceschini ha candidato il 50 per cento di donne e il 50 per cento di uomini. Vedremo quale dei due orientamenti pagherà di più e chi premierà l’elettorato democratico femminile. Ma aldilà di tutto ad un certo momento bisognerà pure iniziare a parlare di politica. Prima delle regionali, chi si troverà al timone del Pd dovrà pur dire qualcosa di più. «Prima di tutto – spiega Pietro Marcenaro m’interesserebbe un confronto sulla qualità della democrazia. Sarà per il mio passato da sindacalista, ma trovo di notevole rilevanza il ruolo delle grandi organizzazioni di massa. Restiamo per un attimo a Cgil, Cisl e Uil, non possiamo non porci il problema dell’unità sindacale». A proposito di quale democrazia però, prima di tutto viene la legge elettorale che potrebbe essere uno dei nodi più rilevanti nel confronto post regionali con l’Udc. Franca Chiaromonte dice che «preferirebbe una reintroduzione del

mattarellum e comunque un maggioritario temperato». Per Marcenaro dentro al partito c’è una discusione aperta e ad ampio raggio: «Ci sono coloro che pensano ad un proporzionale con sbarramento. Per quanto mi riguarda vedo meglio un sistema basato sul collegio uninominale».

Come si diceva, i temi del dibattito congressuale stentano ad emergere: persino sulla bioetica, fatta eccezione per Marino, si preferisce non scoprirsi troppo nemmeno su questo argomento. Il vuoto progettuale c’è ed palpabile, ma si spera di poterlo colmare. «Credo però – osserva Mercenaro – che in presenza della crisi della leadeship di Berlusconi, occorra scoraggiare l’idea di ricreare uno schieramento che si caratterizzi per essere contro di lui». Così, tutti aspettano il dopo regionali per aprire il dibattito sui contenuti, intanto ci dovrà pur essere qualcuno che vincerà il congresso e che dovrà fare le scelte politiche prima di arrivare al marzo del 2010. Il leader rischia di essere incoronato e di essere spazzato via, dopo pochi mesi, da una sonoFRANCESCO RUTELLI Tutti ormai si chiedono che cosa farà Francesco Rutelli: lascerà il partito? Lui ha sempre detto di voler comunque partecipare al congresso

ra sconfitta. «Non credo – dice ancora Marcenaro – che il risultato sarà così drammatico. E poi andrà valutato tenendo conto di quello che accadde nel 2005, ma anche di quanto è successo nel 2008. Non si può prescindere da quest’ultimo dato, se si vuole giudicare con onestà ciò che uscirà dalle urne di marzo». E Franca Chiaromonte non dispera «se ci sarà un’oculata politica delle alleanze che cerchi quanto più possibile intese con l’Udc e con i vendoliani, magari anche ragionando su di un loro possibile ingresso nel Pd, non andremo male». E poi: «Berlusconi non cade né oggi né domani, avremo il tempo per riflettere e per ricostruire intorno al leader una solida identità». Per sapere qualcosa del profilo politico del Pd, arrivederci dunque a metà del prossimo anno. Per ora va di scena a reti unificate la crisi del berlusconismo.


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L’

Italia è un Paese imbarbarito, dove il livello del confronto politico è sceso a livelli infimi, dove la selezione delle classi dirigenti avviene attraverso il criterio della cooptazione più brutale, attraverso cioè la simonìa delle cariche pubbliche che vengono ormai comprate col potere del denaro. L’Italia è un Paese dove la disoccupazione rischia di dilagare assieme alla generale disaffezione verso istituzioni sempre più screditate anche da campagne giornalistiche condotte – da destra come da sinistra – ad alzo zero contro la reputazione dei singoli.

L’Italia è un Paese dove le riforme ritenute necessarie da tutti e da ognuno poste al vertice delle priorità di governo sono ancora rimaste lettera morta. A descrivere questo panorama con rovine dell’Italia non è qualche apocalittico esponente dell’opposizione al governo Berlusconi ma la sempre misuratissima e prudente Civiltà cattolica, la rivista quindicinale dei gesuiti che nel suo ultimo numero, in uscita sabato prossimo, dedica una lunga e severa analisi politica e sociale dello stato del Paese. Nell’articolo titolato “Verso un autunno difficile”il gesuita Michele Simone ripercorre le vicende italiane dell’estate, dominate «anziché dall’esame dei problemi angoscianti delle famiglie che non riescono ad arrivare a fine mese e sono costrette a rivolgersi anche alle strutture territoriali cattoliche per far fronte ai bisogni alimentari essenziali», dallo «scontro tra il quotidiano Repubblica e il Presidente del Consiglio, che ormai si risolverà nelle aule giudiziarie», dalle «accuse rivolte dal presidente Berlusconi alla stampa» e, infine, dalle «accuse rivolte dal nuovo direttore del Giornale, Vittorio Feltri, sulla base di una velina anonima, al direttore di Avvenire, Dino Boffo». «Questi - scrive Civiltà Cattolica nel passaggio dell’analisi dedicato alla vicenda – dopo aver smentito nettamente quanto è stato scritto da Feltri, per cercare di far diminuire la tensione, ha presentato dimissioni irrevocabili al cardinale Bagnasco, presidente dei vescovi italiani, che le ha accettate». Ma il fuoco dell’articolo di Civiltà cattolica è concentrato sull’analisi delle forze politiche in campo ed è in questa analisi che emergono alcune contraddizioni interne all’analisi del quindicinale dei gesuiti. Vediamo: Il Pdl «al di là delle grandi capacità del suo leader di raccogliere il consenso, rimane una formazione senza grande capacità di iniziativa politica autonoma. Che ha ancora bisogno di consolidarsi come partito». Civiltà cattolica giudica però incontrovertibile la lea-

dership di Berlusconi e critica le posizioni laiciste sostenute dal presidente della Camera Gianfranco Fini, una linea politica condivisa - secondo i gesuiti - da una piccola minoranza. Il Pd, invece, sostiene il quindicinale, è ancora in fondo un partito in embrione: «Non è ancora nato e ha bisogno di un segretario politico con una personalità forte ed è chiamato ad assumere, anzitutto sui cosiddetti temi etici, posizioni chiare e accettabili anche da parte degli elettori cattolici. Rimangono aperti infatti gli interrogativi che accompagnano i cattolici che in passato hanno votato Pd. In proposito, prima o poi il partito è chiamato ad assumere, anzitutto sui cosiddetti temi etici, posizioni chiare e accettabili anche da parte degli elettori cattolici». Gli elettori del centro-sinistra, anche quelli visceralmente antiberlusconiani, sarebbero del resto stanchi, secondo l’analisi di Civiltà cattolica di assistere a uno scontro quotidiano tra maggioranza e opposizione su tutto, ma, pur nella diversità di ispirazione e di progetto, desiderano — sinora inutilmente — che sui grandi problemi almeno ci sia un confronto serio, che tenga presente il bene comune del Paese». La critica politica più serrata viene

Anziché dall’esame dei problemi angoscianti delle famiglie che non riescono ad arrivare a fine mese, la politica italiana è impegnata nelle ordalie mediaticopolitiche che hanno contribuito a imbarbarire il Paese

però dedicata all’Udc. «L’obiettivo di un Grande centro che raccolga esponenti cattolici dei due poli è una tesi frutto della propaganda più che di una analisi razionale del mercato elettorale e con l’attuale legge elettorale può essere condivisa soltanto dai nostalgici di un tempo che, almeno a breve, non è destinato a tornare». Insomma il quindicinale dei gesuiti invita l’Udc a decidere con chi allearsi, «giacché è difficile pensare che possa perseguire ancora la cosiddetta politica dei due “forni’’ e ’i tenNella foto grande il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano Nella pagina a fianco sopra Vittorio Feltri e Gianfranco Fini e sotto Silvio Berlusconi e Ezio Mauro

Un editoriale della rivista dei gesuit

Discutendo co Una giusta analisi sull’ tennamenti tra destra e sinistra possono soltanto creare confusione».

Ora dove sta la contraddizione e in fondo anche la bizzarria di questa analisi? In primo luogo nel fatto che se questo è un Paese imbarbarito non si capisce come il partito di maggioranza relativa che lo governa debba essere invitato a consolidarsi piuttosto che a impegnarsi in un cambiamento radicale attraverso una politica di riforme ampia e coraggiosa, che appunto Civiltà cattolica lamenta non esserci. In secondo luogo, nel passaggio appunto relativo al Centro invitato dai gesuiti a scegliere da che parte della barricata bipolare stare, se con la destra o con la sinistra, si potrebbe far rilevare il fatto che il Centro ha proprio investito la sua azione politica guarda caso proprio sul centro, sulla prospettiva del cambiamento di un bipolarismo che non funziona. Di un bipolarismo che l’Udc considera malato, «prima causa del fallimento della Seconda repubblica, come ha scritto Ferdinando Adornato, che in quindici anni non ha modernizzato il Paese» ma che anzi ha portato la politica italiana ad essere ostaggio da una parte di alcuni diktat leghisti e dall’altra di pesanti condizionamenti da parte dell’Idv e del suo populismo giudiziario. Dunque perché dal suo proprio angolo prospettico e strategico l’Udc dovrebbe allearsi in forma organica con schieramenti che intende invece superare in vista di un progetto di un grande partito cristiano liberale di stampo europeo? È una domanda che anche da uno stretto punto di vista politologico varrebbe la pena porre al

notista politico di Civiltà Cattolica. Una precisa attenzione viene dedicata dal quindicinale gesuita anche al panorama economico, dove «secondo il parere della maggioranza degli osservatori, il prossimo autunno - e forse anche parte dell’in-

imbarbarim verno - sarà difficile soprattutto a motivo del probabile aumento della disoccupazione, con le relative ricadute sulle famiglie e sulle imprese». Poi una precisa denuncia riguarda il riemergere della corruzione, che evidentemente Mani pulite non è riuscita a debellare. «Nell’attuale momento politico italiano si registra la crescita della corruzione soprattutto nel settore pubblico», con numerosi cittadini che «decidono di destinare una somma ingente –


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ti dà i voti a tutti i partiti: in vista delle Regionali…

on Civiltà Cattolica

mento dell’Italia contraddetta da tesi politiche di parte di Riccardo Paradisi corrispondente alle esigenze dell’istituzione alla quale vogliono essere eletti – per conquistare un posto di assessore comunale, provinciale, regionale o nel Parlamento nazionale, sicuri che, una volta raggiunto l’obiettivo, saranno in grado non soltanto di recuperare la somma investita nell’operazione, ma di accrescerla significativamente», scrive infatti Civiltà Cattolica, denunciando «il venir meno di uno dei compiti principali di un partito, cioè la selezione della classe dirigente politica». La rivista dei gesuiti ha le idee molto chiare anche nel settore dell’economia e della finanza dove secondo il quindicinale «va condiviso il giudizio espresso dal presi-

Nell’attuale momento politico si registra la crescita della corruzione soprattutto nel settore pubblico, con numerosi cittadini che decidono di destinare una somma ingente per conquistare una posizione politica

dente della Repubblica, Giorgio Napolitano, il quale nel suo intervento (dello scorso 5 settembre) svolto in videoconferenza con Cernobbio, ove si teneva l’annuale WorkshopAmbrosetti, ha ribadito che la «“crisi non è terminata” e comunque è destinata a provocare serie conseguenze sul mercato del lavoro nei prossimi mesi». E inoltre ha aggiunto: «Ci si deve augurare che nel prossi mo G20 le voci europee risultino univoche. Univoche anche sulle questioni di riforma del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale».

Una nuova governance globale, capace di guidare la ripresa economica mondiale su basi sostenibili, dopo le follie speculative che hanno portato

al crack globale finanziario di cui stiamo pagando ancora le amare conseguenze. Che non sono finite secondo Civiltà cattolica malgrado quello che si dica: il prossimo autunno — e forse anche parte dell’inverno — sarà «difficile» soprat-

tutto a motivo del probabile aumento della disoccupazione, con le relative ricadute sulle famiglie e sulle imprese. «I temi sono noti a tutti. Un’apertura, ad esempio, è giunta in questi giorni dal ministro Tremonti a proposito della

riforma degli ammortizzatori sociali: è un’opportunità da cogliere. Tutti poi conoscono le esortazioni del presidente Napolitano circa il confronto sulle grandi riforme, che finora sono rimaste lettera morta, mentre la modernizzazione

del Paese — sempre proclamata durante le campagne elettorali — viene rimandata di anno in anno». Resta la differente ricezione dei cattolici impegnati nel centrodestra e nel centrosinistra di questa analisi di Civiltà cattolica Mario Mauro, deputato europeo del Pdl dice che «La questione sollevata da Civiltà Cattolica sulla compravendita delle cariche pubbliche gli fa venire in mente la storia della Prima repubblica, della seconda e dell’antica Roma stando alle cronache di allora. Insomma è la storia del mondo, e non vedo dove stia la notizia francamente». Sull’imbarbarimento politico mediatico il discorso di Mauro invece è più partecipato: «Per scardinare il sistema di potere democristiano, coi suoi limiti enormi di incrostazione, è stata mobilitata un’ideologia dell’odio che ha pochi precedenti per intensità e durata. Ricordo che il presidente della Dc Aldo Moro di fronte a questo clima spaventoso arrivò a dire che la Dc non si sarebbe fatta processare nelle piazze. E Aldo Moro fu assassinato da quella cultura dell’odio».

Il problema politico di Berlusconi oggi è quello di avere vinto e di avere una controparte politica politica che è tuttora incapace di trovare un’alternativa attraente per il Paese.Tanto che la sinistra oggi come ieri cerca la spallata al governo: «Questa è stata la caratteristica di tutta la nostra transizione dal primo avviso di garanzia a Berlusconi nel 1994 fino ad oggi. Un lungo periodo ormai dove la tendenza a demonizzare l’avversario – e uso una formula di Pierferdinando Casini, che su questo non ha mai cambiato idea – non è finita. Ecco per me – conclude Mauro – è in questa sottocultura che affonda le radici l’imbarbarimento di cui parla Civiltà Cattolica. E siccome io sono sempre per una visione dialogica non posso che essere d’accordo con chi raccomanda un rinfoderate le sciabole». Paola Binetti, esponente teodem del Pd, legge invece l’analisi di Civiltà Cattolica come «un energico invito al recupero dell’etica nella convivenza quotidiana, in ogni ambito, da quello della comunicazione e a quello professionale per finire con quello politico. I giornali hanno bisogno di recuperare l’etica della comunicazione su cosa si dice e come lo si dice. I politici hanno bisogno di tornare a sentire la responsabilità di rappresentare gli interessi generali». Questa è “la grande battaglia“ che il quindicinale dei gesuiti, al di là dell’analisi delle singole forze politiche, sta proponendo al Paese, secondo Paola Binetti.


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Svolta. Abbandonato il piano di George Bush. Mosca si rallegra, ma Varsavia si sente tradita: «Una pugnalata alle spalle»

Obama sposta lo scudo Niente basi in Polonia e Repubblica ceca «Il sistema antimissile sarà più flessibile» di Enrico Singer arack Obama ha cancellato lo scudo antimissile così come lo aveva progettato George Bush provocando l’ira di Mosca che aveva a sua volta minacciato rappresaglie da guerra fredda. La svolta era nell’aria e proprio da queste colonne l’avevamo anticipata il 28 agosto perché dalla Polonia - Paese che avrebbe dovuto ospitare le batterie dei nuovi razzi interceptor americani - erano filtrate allora le prime indiscrezioni sul cambio di rotta della Casa Bianca.

B

terrà al passato. Finirà archiviato nei fascicoli dei piani congelati della Us Army. I dettagli del nuovo scudo antimissile che proteggerà tanto l’Europa che gli Usa dal rischio di eventuali attacchi da quelli che ai tempi di Bush erano definiti i “Paesi canaglia” - leggi Iran o Corea del Nord - non sono ancora rivelati nei dettagli.

Il Pentagono, però, ha fatto sapere che Barack Obama ha valutato con il suo staff di consiglieri un nuovo sistema di di-

L’Iran resta una minaccia ma può essere contrastato anche con un arsenale meno pesante. E meno costoso perché la Casa Bianca oggi ha altre priorità di spesa, a partire dalla riforma sanitaria Ma adesso è ufficiale. Obama ha annunciato ieri che il sistema di difesa «sarà più veloce, flessibile, intelligente ed efficace» di quello che prevedeva, entro il 2012, la costruzione di un potente impianto radar nella Repubblica ceca e delle rampe fisse, in territorio polacco, per i nuovissimi razzi Gmd, ultima generazione della serie Patriot, che sono ancora in fase di sperimentazione nelle basi americane di Vandenberg, in California, e di Fort Greely, in Alaska. Tutto questo, adesso, appar-

fesa missilistico che «risponde meglio alla minaccia posta dall’Iran». E lo stesso Obama, nel suo breve discorso di ieri, ha spiegato che le ragioni del «nuovo approccio» sono due: gli aggiornamenti forniti dall’intelligence americana sugli armamenti iraniani e il progresso tecnologico della difesa statunitense. L’arsenale missilistico offensivo a disposizione dell’Iran non costituisce una «seria minaccia» per gli Usa e per gli alleati europei e che, tutto sommato, è molto meglio fa-

vorire la distensione nei rapporti con Mosca che dallo scudo basato in Polonia e Repubblica ceca si sentiva minacciata e che, proprio grazie a questa mossa, potrebbe assumere un atteggiamento più collaborativo sull’esplosivo capitolo della corsa al nucleare del regime di Ahmadinejad che - non si può far finta di ignorarlo - ha contato, finora, sull’aiuto russo per sviluppare i suoi piani. Il Wall Street Journal ha scritto che «gli Stati Uniti hanno fondato la loro decisione sulla valutazione secondo cui il programma dell’Iran per dotarsi di missili a lunga gittata non ha compiuto progressi tanto rapidi quanto era stato stimato prima, riducendo così la portata della minaccia per il territorio continentale statunitense e per le principali capitali europee».

Anche se nessuno lo dice pubblicamente, oltre alle considerazioni militari (il ridimensionamento della minaccia) e a quelle politiche (il desiderio di ridurre il contenzioso, già vasto, con Mosca), ci sono ragioni economiche non meno importanti. Il progetto di scudo antimissile, così come lo aveva concepito l’Amministrazione Bush, costava la cifra record di un miliardo di dollari. Per Barack Obama le priorità di spesa, og-

Il segretario alla Difesa, Robert Gates, ispeziona a Fort Greely, in Alaska, uno dei missili che era destinato alla Polonia. In basso, un razzo iraniano, Barack Obama, Vladimir Putin, Lech Walesa e George Bush


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diale». Dal rischio di una nuova guerra fredda al disgelo, insomma. Anche il ministero degli Esteri di Mosca si è «rallegrato» per la buona notizia, ma il portavoce Andrei Nasterenko ha tenuto a smentire le indiscrezioni secondo le quali alla base della decisione di Washington ci sarebbe anche un patto segreto con la Russia a proposito dell’ateggiamento russo nei confronti dell’Iran. «Posso dire che questo non corrisponde alla nostra politica e al nostro approccio per la soluzione dei problemi e che si tratta soltanto di congetture, ha voluto puntualizzare il portavoce.

Se Mosca applaude, c’è anche chi protesta. L’ex presidente polacco e storico leader di Solidarnosc, Lech Walesa, ha detto che Varsavia farebbe bene a «rivedere i suoi rapporti con gli Usa». La si Polonia

Il «nuovo approccio» prevede l’impiego di razzi intercettori a raggio più corto che saranno imbarcati sulle navi o installati a terra in Turchia e nei Balcani. Compensazioni per placare i polacchi

gi, sono altre. Per fronteggiare la crisi economica globale, esplosa proprio negli ultimi mesi della presidenza di George W. Bush, ma anche per realizzare i progetti - primo fra tutti la riforma sanitaria - che il nuovo inquilino della Casa Bianca ha lanciato per caratterizzare la sua presidenza. Così, come quasi sempre accade quando sono in gioco scelte di questa importanza, la decisione di Obama è il frutto di una convergenza di ragioni che, alla fine, hanno fatto pendere il piatto della bilancia nella direzione dell’abbandono del rafforzamento dello scudo antimissile nel cuore dell’Europa. Rafforzamento, perché in realtà, ci sono già dei sistemi di difesa simili installati dagli americani a Fylingdales, in Gran Bretagna, e a Thulé in Groenlandia. Ma con le rampe che dovevano essere costruite in Polonia e con la stazione radar nella Repubblica ceca, lo scudo avrebbe assunto tutt’altra dimensione. Gli accordi per

realizzare materialmente queste strutture erano stati firmati dall’allora Segretario di Stato, Condoleezza Rice, e i governi di Praga e di Varsavia tra il luglio e l’agosto del 2008. In pratica, erano stati gli ultimi atti dell’Amministrazione Bush, quasi una pillola avvelenata lasciata in eredità a Barack Obama che, già all’indomani del suo ingresso alla Casa Bianca, aveva avviato un riesame complessivo del progetto. E che era stato formalmente comunicato prima a Dmitri Medvedev, in aprile, al G20 di Londra e poi durante la visita che Obama ha compiuto, in luglio, Mosca. Inutile dire che dalla coppia che guida in Cremlino erano arrivate pressioni molto forti.

Putin e Medvedev avevano ripetuto che, ai loro occhi, lo scudo non era altro che un tassello della politica di accerchiamento che Bush aveva ordinato nei confronti della Russia. E avevano anche minacciato una ritorsione militare: l’installazione di

missili Iskander nell’enclave baltica di Kaliningrad, territorio russo a pochi chilometri dalla Polonia. La città dove nacque il filosofo Emmanuel Kant e dove già c’è un importante porto della flotta russa del Baltico, sarebbe così diventata l’epicentro di un possibile nuovo confronto tra blocchi in perfetto stile da guerra fredda. Dalla reazione di Mosca alla decisione di Obama si capisce quanto i dirigenti russi siano adesso soddisfatti. «Non riuscivamo a capire l’Amministrazione Bush, ma cominciamo a capire l’Amministrazione Obama», ha detto Konstantin Kosachev, il capo della commissione per gli affari internazionali della Duma al quale è stata affidata la prima dichiarazione ufficiale. Il Cremlino è soddisfatto perché Washington ha «valutato in modo più obiettivo la situazione in Iran» e perché ha scelto «un approccio più profondo di dialogo tra Russia e Stati Uniti come fattore importante per la stabilità mon-

sente tradita. Sedotta e abbandonata: era stata convinta a firmare l’accordo per l’installazione delle dieci rampe di lancio dei nuovi missili con la promessa di diventare il migliore alleato di Washington in Europa, sognava di prendere il posto che la Germania aveva avuto per decenni e di fare anche un buon affare con i soldati americani che sarebbero stati destinati alle nuove basi. E ora si trova spiazzata. Ieri Obama, prima di annunciare la sua nuova strategia, ha telefonato al premier ceco, Jan Fischer, e a quello polacco Donald Tusk, per avvertirli di persona. Ma soltanto il primo gli ha risposto a conferma dell’irritazione che regna a Varsavia.Tra i tanti leader soddisfatti per la svolta americana, invece, c’è anche il neo segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, che definito «molto positiva» la mossa di Obama per rilanciare il dialogo con la Russia.

Il nuovo scudo antimissile in versione Obama non è stato ancora illustrato nei dettagli. Ma quella frase - «il sistema risponderà meglio alla minaccia posta dall’Iran» - sembra confermare le indiscrezioni che filtrano dal Pentagono e che parlano dell’impiego di missili in-

teccetori a raggio più corto, gli SM-3, che sarebbero dislocati in un primo momento a bordo di navi e, in seguito, molto probabilmente in Paesi dell’Europa meridionale, in Turchia e forse anche in Israele, secondo quanto a anticipato il New York Times, citando fonti informate del Dipartimento della Difesa americano. L’impiego di questo tipo di missili intercettori sarà anche molto meno costoso e questo aspetto davvero non secondario è stato sottolineato anche da Barack Obama. Per il momento il problema più grosso che rimane aperto a Washington è quello di sanare la frattura con Varsavia dove le dichiarazioni amare si moltiplicano. «Senza lo scudo, di fatto, perdiamo la nostra alleanza strategica con gli Usa», ha commentato il vicecapo del Consiglio di sicurezza nazionale polacco, Witold Waszczykowski. Proprio ieri la Polonia ricordava il 70°anniversario dell’attacco sovietico: la “pugnalata alle spalle” di Stalin, due settimane dopo l’invasione nazista. Uno dei possibili premi di consolazione per il governo di Varsavia potrebbe essere lo spostamento in territorio polacco delle batterie di missili Patriot che si trovano ora in Germania.


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Indonesia. Era il ricercato numero uno, mente degli attentati di Bali e impronte digitali. Sono state le impronte digitali a far scoprire che uno dei cinque morti in seguito all’operazione antiterrorismo della polizia indonesiana nella città di Solo era Noordin Mohammad Top: l’uomo più ricercato del Paese, capo di una filiale di al Qaeda nell’arcipelago malese, responsabile anche dei sanguinosi attentati di luglio agli hotel di Giacarta.Trentanove anni,Top era abile tanto nella fabbricazione di bombe quanto nell’indottrinamento di reclute e nel reperimento di finanziamenti, e per questo lo avevano ribattezzato “l’uomo dei soldi”. Infatti, con quegli occhialetti aveva proprio l’aspetto di un bancario, o di un contabile. Ma era spietato come pochi.

L

Lo hanno ucciso nella parte centrale dell’isola di Giava, a 350 chilometri a est della capitale, al termine di un assedio delle teste di cuoio durato nove ore, con colpi di arma da fuoco ed esplosioni. Ma lui in realtà era nato in Malaysia, da dove era scappato quando dopo l’11 settembre del 2001 il governo di Kuala Lumpur aveva stretto i freni sul movimento islamista. A confermare la notizia della sua morte il capo della polizia indonesiana Bambang Hendarso Danuri che ha già avuto un incontro con il presidente Susilo Bambang Yudhoyono. Nel raid è rimasto ucciso anche Bagus Budi Pranoto, noto anche come Urwah, che le autorità credevano essere uno degli esecutori degli attentati del 17 luglio agli hotel Marriott e Ritz-Carlton di Giakarta (9 morti). «Si tratta chiaramente di un grande successo per la polizia e rappresenta un grosso colpo per la rete terroristica non solo in Indonesia ma in tutta la regione», ha affermato un esperto di terrorismo islamico all’International Crisis Group. Secondo una fonte della polizia anonima citata dalla Reuters, il corpo di Noordin è straziato, mentre la testa è riconoscibile: segno che il super-ricercato si è fatto probabilmente saltare in aria per evitare la cattura. Mimetizzatosi sotto il nome falso di Abdurrachman Aufi, negli ultimi sei anni era stato l’organizzatore di tutte le stragi più feroci nell’area di mondo compresa tra lo Stretto di Malacca e la Tasmania. 5 agosto 2003: attentato al Marriott Hotel di Giacarta, 12 morti e 150 feriti. 9 settembre 2004: attentato all’ambasciata israeliana di Giacarta, 9 morti e oltre 150 feriti. Primo ottobre 2005: attentati di Bali, 23 morti e 129 feriti. 17 luglio 2009: attentati agli Hotel JW Marriott e Ritz-Carlton di Giacarta: 9 morti e 53 feriti. Agli attentati di Bali del 12 ottobre

Ucciso Noordin Top, il banchiere del terrore Trentanove anni, aveva organizzato anche tutte le stragi di Giacarta di Maurizio Stefanini

re in franchising che non una “internazionale del terrore”, in senso tradizionale. A quell’epoca era comunque già il numero tre nella classifica dei ricercati dall’Fbi, e il 29 aprile di quello stesso 2006 era scampato per un pelo dalla cattura sempre a Giava Centro, scappando dal suo rifugio proprio mentre la polizia uccideva due suoi complici. Ma già a giugno era riuscito a costituire una nuova organizzazione e minacciava dunque nuovi attacchi in video tape ritrovati dalle autorità indonesiane.

Lo scorso 8 agosto i giornali avevano riportato la sua morte nel corso di un conflitto a fuoco con la polizia vicino al villaggio di Temanggung: ancora nella Giava Centrale, la roccaforte dove si muoveva evidentemente come il proverbiale pesce nell’acqua dello slogan di Mao Zedong. Ma proprio l’indagine dei medici forensi aveva quasi subito dimostrato che il cadavere non era suo, bensì di Ibrohim: un altro organizzatore degli attentati di luglio. Il bello è che mentre scappava da un nascondiglio all’altro e organizzava attentati, Top trovava comunque il tempo per fare collezione di mogli e di figli. Munfiatun Filtri, ad esempio, l’aveva sposato il 7 luglio del 2004, ricavandone una condanna a tre anni di reclusione per favoreggiamento. Ma a quell’epoca il bombarolo era già coniugato con un’altra donna dall’identità rimasta ignota; una malaysiana, nata in Indonesia che aveva impalmato a Sumatra dove si era

Top era abile sia nella fabbricazione di bombe che nell’indottrinamento di reclute. Aveva l’aspetto di un contabile ma era spietato del 2002, 202 e 209 feriti, non era invece ancora lui il capo. Ma quasi sicuramente vi aveva partecipato. In quel momento, capo dei jihadisti in Indonesia era Azahari Husin: anche lui un malaysiano, classe 1957, Ph.D nel Regno Unito e lettore universitario in patria, che si era però realizzato in senso islamista dopo la rivoluzione khomeinista, per scappare anche lui in Indonesia assieme a Top e finire ucci-

so dalla polizia indonesiana il 5 novembre del 2005. Fino a quel momento i due avevano formato una coppia perfetta: Money man ai soldi e Demolition man, altro nomignolo giornalistico, agli esplosivi.

La fine dell’amico porta nel gennaio del 2006 Top però a staccarsi da quel gruppo di Jemah Islami in cui aveva militato fino a quel momento, passando a guidare un nuovo

gruppo noto come Tanzim Qaedat al-Jihad. Non è ben chiara la ragione di questa messa in proprio: forse semplice ambizione personale. Molti inquirenti sospettano però che Top considerasse ormai troppo “molle”Jemah Islami. Comunque, poco cambiò sul riferimento ad al Qaeda, vista la particolare natura del gruppo di Bin Laden: più una scuola di formazione e un logo del terrorismo da concede-

nascosto dopo i primi attentati di Bali. Nel 2007, con la prima moglie che si era recata in Malaysia con un figlio e la seconda a languire in galera, se ne era consolato con una terza: Ariani Rahma, conosciuta a Cilacap, a Giava Centrale. Inoltre, ci sarebbe stata anche una quarta moglie, anch’essa dall’identità non nota. Secondo gli inquirenti lo faceva apposta, per meglio mescolarsi alla gente del posto.


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18 settembre 2009 • pagina 17

Il colosso Trafigura vicino accordo per maxi risarcimento

Bombardato un accampamento di profughi nel nord del Paese

Multinazionale intossica interi villaggi in Costa D’Avorio

Raid anti-sciita in Yemen: morti quasi cento civili

LONDRA. La società petrolifera

SANAA. Un accampamento di

anglo-olandese Trafigura avrebbe raggiunto un accordo di risarcimento multimilionario per liquidare una causa intentata da migliaia di abitanti della Costa d’Avorio, intossicati, sfigurati o deceduti a causa delle tonnellate di rifiuti tossici derivanti dalla lavorazione petrolifera riversati in alcune zone della capitale. La notizia, anticipata ieri dal quotidiano inglese Independent, ha definito il caso come uno dei più gravi casi di inquinamento ambientale degli ultimi decenni. Trafigura, con sede a Londra, ha dichiarato di aver raggiunto «un accordo globale» nei confronti dei 30mila abitanti di Abidjan, che erano riusciti a portare davanti al tribunale uno dei più grandi trader petroliferi del mondo. Martyn Day, l’avvocato che difende i 30mila ivoriani, ha dichiarato al giornalista che «è stato raggiunto uno stadio per cui si è vicini a un accordo globale con i querelanti. Sono ottimista sull’esito del processo».

profughi nel nord dello Yemen è stato bombardato da un caccia dell’aviazione di Sanaa nel corso dell’offensiva contro i ribelli sciiti. Il bilancio è di 87 civili morti e altri 40 feriti, in maggioranza donne e bambini, hanno riferito testimoni. Il indipendente sito News Yemen ha parlato di 85 morti, tutti profughi che si erano accampati tra gli alberi, sotto alcuni teloni. Le forze armate di Sanaa hanno confermato il raid di mercoledì pomeriggio nella zona di Adi, 120 chilometri a nord della capitale, teatro di furiosi combattimenti con i guerriglieri, ma non il bilancio delle vittime. Il governo, però, ha insediato una commissione

Nel 2006, almeno 100mila residenti della capitale si rifugiarono negli ospedali con difficoltà respiratorie, vomito e diarrea. Molti non ce la fecero e le vittime continuarono ad aumentare. Il riversamento di rifiuti tossici avrebbe causato

Barroso e l’Europa che (putroppo) non c’è Un altro esecutivo di basso profilo figlio del consociativismo di Antonio Funiciello che servono altri cinque anni di mandato al riconfermato Barroso? È una domanda a cui, per quanto egli ricopra il ruolo di presidente della Commissione europea, non è possibile dare una risposta. Perché il “Camaleonte”, come lo chiamano quelli che non gli sono proprio amici, eccezion fatta per vaghe linee direttive e una rivendicata continuità, è stato rieletto sulla base dell’ennesimo accordo consociativo tra popolari e socialisti-democratici, che nell’occasione si sono astenuti.

A

Non tutti: almeno un quarto dei componenti del gruppo presieduto dall’immarcescibile Schultz ha votato a favore, uscendo dall’ipocrisia dell’astensione scelta dal proprio gruppo. Gli europarlamenti del Pd si sono accodati. Un’altra triste pagina dopo l’accordo tra popolari e socialisti per eleggere alla presidenza di Starsburgo il polacco Buzek, salvo sostituirlo tra due anni e mezzo col solito Schultz, uomo politico che meglio simboleggia la crisi politica dell’istituzione europea. Se tra qualche giorno l’Irlanda dovesse approvare col referendum il Trattato di Lisbona, il 2 ottobre il consociativismo che domina il Parlamento europeo celebrerà un’altra vittoria con l’elezione di un pensionato come Felipe Gonzales alla presidenza dell’Unione e con la scelta di un popolare (il belga Van Rompuy o Balkenende, l’Harry Potter olandese) per l’alto rappresentate per gli Affari esteri. Altre due cariche attribuite con accordi privi di qualsiasi intesa programmatica a personaggi di scarsissimo smalto. Sembra proprio che uno dei sintomi più manifesti della crisi che l’istituzione europea vive si esemplifichi negli uomini politici che, di volta in volta, sceglie. E difatti gli stati membri vivono con una malcelata apprensione le presidenze di turno di leader europei in ascesa, come capitò durante i sei mesi francesi col movimentismo di Sarkozy. Si tende così prevalentemente a premiare con poltrone di grande visibilità personaggi modesti, incapaci di farsi interpreti del destino di un continente alle prese con le sfide del mondo globalizzato. Una

consuetudine ormai tanto consolidata che fa di Starsburgo quasi un’appendice del parlamento italiano della Prima Repubblica, dove pur mutando gli equilibri di forza, l’asse di riferimento era rappresentato sempre dall’involuzione politicista del patto costituzionale tra democristiani e comunisti. L’Europa avrebbe, invece, bisogno di leader forti. Uomini e donne che provino ad indicare una rotta per raddrizzare le storture di un allargamento ad Est più ideologico che strategico e s’incarichino di raggiungere nuovi traguardi. Soprattutto, nelle sfide che attendono il mondo, leader carismatici potrebbero dare un senso nuovo alla partnership dell’Europa con l’America, che durante una presidenza democratica è nei confronti del vecchio continente sempre più esigente. Figure come Tony Blair, per quanto controverse possano apparire, rappresentano esattamente questo. Le sue ambizioni a ricoprire il ruolo di presidente dell’Unione, note da tempo, andrebbero messe alla prova a beneficio di tutti. Malgrado quanto ne pensino Francia e Germania, l’Europa ha bisogno di leader robusti che sappiano col loro prestigio individuale intrattenere rapporti dialettici coi singoli stati membri.

Solo una competizione virtuosa tra Ppe e Pse potrebbe spezzare il circolo vizioso, facendo emergere leader di spicco

complessivamente la morte di 15 persone. Migliaia i contaminati. La società petrolifera è accusata di aver scelto di trattare il petrolio con un procedimento particolarmente economico, ma altamente inquinante: il caustic washing, cioè il trattamento del greggio con la soda caustica per levare le impurità. Gli scarti della lavorazione, secondo le accuse di alcune organizzazioni ambientaliste, sarebbero stati poi riversati nei dintorni di Abidjan. Trafigura, che dà lavoro a 1.900 persone in 42 sedi in tutto il mondo, ha vantato lo scorso anno un fatturato di 73 miliardi di dollari, il doppio del pil della Costa d’avorio, dove metà della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno.

La ricetta per puntare sui leader resta quella di rompere il patto consociativo tra popolari e socialisti, per costringere gli uni e gli altri a sfidarsi per il governo dell’Unione, con candidati alle più importanti cariche che siano alternativi per profilo e proposta politica. Solo una competizione virtuosa può spezzare il circolo vizioso del consociativismo, perché obbliga i raggruppamenti principali a far emergere figure di alto profilo, premessa indispensabile per vincere la sfida elettorale e conquistare i ruoli di guida. Finché tra centrodestra e centrosinistra europeo non s’ingaggerà un’effettiva competizione per il governo del continente, i rappresentanti istituzionali resteranno figure modeste, inadatte a personificare le grandi speranze che i padri fondatori dell’Europa avevano riposto in essa.

d’inchiesta per accertare cosa sia avvenuto realmente. In un comunicato. i guerriglieri sciiti hanno accusato il governo del presidente Alì Abdullah Saleh di voler soffocare nel sangue la rivolta iniziata cinque anni fa per ripristinare lo Stato sciita cancellato nel 1980. «Le autorità assetate di sangue hanno compiuto un nuovo massacro», hanno denunciato.

L’Onu ha lanciato un appello per assistere i 150mila profughi del conflitto, riesploso lo scorso 11 agosto nel più povero dei Paesi arabi con il lancio dell’offensiva “Terra bruciata”. Gli scontri hanno finora causato la morte di migliaia di persone e oltre 150 mila profughi, secondo stime ufficiose. Human Rights Watch ha chiesto al governo dello Yemen di «investigare prontamente e con imparzialità» per individuare le responsabilità del bombardamento che sarebbe avvenuto «con quattro raid» lanciati «senza preavviso» nei pressi di una scuola. Un testimone sentito dalla Ong per i diritti umani ha riferito che nella zona non c’erano scontri, anche se nei pressi c’è la strada che collega la capitale alla città di Saada, spesso usata dai guerriglieri.


cultura

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Libri. Da Bonhoeffer a Simone Weil, da Chiaromonte a Dossetti Dubbi e certezze della spiritualità in «Le cose come sono»

I testimoni di Gaeta Un’indagine dello studioso su fede e religione attraverso i grandi pensatori del Novecento di Matteo Marchesini iancarlo Gaeta, studioso di storia del cristianesimo antico e massimo esperto italiano di Simone Weil, ha pubblicato l’anno scorso da Scheiwiller un libro di saggi così rigoroso e radicale da divenire potenzialmente esplosivo. Nessuno, tuttavia, pare essersene accorto; o forse, chi se n’è accorto ha preferito non innescare la miccia: cioè non recensirlo. Il libro si intitola Le cose come sono. Etica, politica, religione; e nonostante gli spunti dei singoli scritti siano assai vari, ogni sua pagina ripropone di fronte alle grandi come alle piccole questioni della nostra attualità un medesimo aut-aut. Per illustrarlo, citiamo dal Prologo un passo nel quale Gaeta mette subito le carte in tavola: «In un’epoca in cui si è perduto tutto ciò che poteva un tempo garantire il rifugio di una appartenenza, la fede non può più essere (...) una questione relativa alla salvezza della propria o altrui anima, è una questione che riguarda la verità sulla condizione umana. Non possono più esserci risposte legate a una determinata dottrina; ciò che è stato vissuto e pensato all’interno dei sistemi religiosi può oramai avere solamente valore strumentale; è patrimonio di un passato a cui si può, spesso si deve, attingere per trovare ispirazione, ma la risposta autentica può nascere solo dall’accettazione della perdita».

G

Queste parole assai nette indicano il corno positivo dell’aut-aut, la scelta che Gaeta ritiene necessaria in una situazione in cui ogni alibi collettivo è caduto, e siamo rimasti tutti «soli di fronte ad altri individui soli». Ma stando così le cose, il corno negativo sarà appunto la finzione di un alibi: ossia l’indebito utilizzo di impalcature politiche o religiose ormai ridotte a gusci vuoti. Del resto, questa mistificazione viene da lontano, e ha pervaso epoca dopo epoca istituzioni e culture molto diverse. Eccone un elenco sommario, tratto dal simpatetico saggio su Jacob Taubes: «l’Impero romano, l’antimessianismo ebraico, la teocrazia cattolica, le moderne forme di

democrazia più o meno commiste di cesarismo». Il nucleo della mistificazione è costituito dall’ideologia dello storicismo lineare e finalistico, che tende a differire il qui-e-ora della responsabilità individuale con la sacralizzazione del passato e il ricatto del futuro. Come vide Walter Benjamin, questo storicismo presuppone un tempo vuoto riempito di volta in volta dai “fatti” dei vincitori: e chi si ritiene interprete degli scopi ultimi della Storia è inevitabilmente portato a escludere tutto ciò che ostacola il dispiegamento della sua “provvidenza”.

dosso assai sintomatico hanno diluito il loro provvidenzialismo nella parodia di un eterno presente, anzi in una «pura sopravvivenza biologica» in cui il «significato ultimo della storia si è dissolto nella perdita di ogni significato».

Cioè in quel nichilismo della volontà di potenza che è esattamente l’opposto del nichilismo attribuito da Gaeta ai primi cristiani: i quali, convinti del fatto che «passa la scena di questo mondo», abbandonavano come non-senso ogni progetto di domi-

Secondo l’autore, oggi «la fede non può più essere» solo «una questione relativa alla salvezza della propria o altrui anima» L’esempio fondamentale attraverso cui Gaeta tenta di chiarire l’aut-aut si situa ovviamente nella storia del cristianesimo: là dove la «condensazione» del tempo in un presente apocalittico, percepita e vissuta dai primi fedeli, si è trasformata nel

«processo» di strutturazione della Chiesa. Infatti questo processo ha sospeso il sentimento dell’apocalissi e ha ribaltato la linea verticale della fede in quella orizzontale della religione, ricaricando così il passato e il futuro di tutta la loro schiacciante capacità di ipotecare la condotta umana. Nello spazio che si crea con un simile differimento sine die del “giudizio finale” tendono sempre a insediarsi dei poteri eteronomi rispetto all’attualità degli individui: poteri che nel caso in questione l’età moderna è riuscita a laicizzare, e che per un para-

nio sul tempo a venire. Una scelta assai drastica, si dirà. Ma secondo l’autore essa diventa termine di confronto decisivo per il cristiano di oggi, che dopo una millenaria «erranza» dovrebbe somigliare più che mai a colui il quale «nega la volontà di potenza, ma allo stesso tempo patisce in se stesso la passione del mondo». E d’altra parte, nel tramonto delle illusioni borghesi, un modello volto a riconoscere la trascendenza nell’immanenza attraverso un movimento di rigorosa verticalizzazione spirituale può rivelarsi fecondo per chiunque. Il primo a rendersene conto fu proprio Benjamin, che negli anni Trenta, agli amici francofortesi spaventati dalla nuova barbarie di massa, indicava nel suo avvento l’inedita chance di analizzare la realtà azzerando ogni ipotesi consolatoria, secondo un metodo da lui definito appunto come «nichilistico». Dunque, tutti i saggi di Le cose come sono vengono tagliati trasversalmente dall’aut-aut tra un’amministrazione della tradizione basata sul «controllo sociale» e l’«accettazione della perdita» di ogni alibi autoritario. Su questo bivio si dispongono via via le figure e le istituzioni sottoposte all’esame e al commento. Le prime due sezioni sono completamente dedicate a scrittori e pensatori che of-

frono punti d’appoggio alla scelta enunciata nel Prologo. Il primo a entrare in scena è il teologo luterano Dietrich Bonhoeffer, il cui esistenzialismo cristiano accoglie e supera in senso comunitario le premesse kierkegaardiane e barthiane. Cospirando contro il regime di Hitler, Bonhoeffer mette in pratica quel «comandamento concreto» che è a suo parere l’unico vero modo di testimoniare Cristo nelle situazioni storiche particolari. Una condotta capace di incarnare di volta in volta, nel proprio presente, l’esempio del Salvatore, evita infatti la sempre incombente cristallizzazione della Chiesa in «sodalizio religioso»: status che non le è più consentito mantenere senza menzogna, e che deve invece lasciare il posto a una totale disponibilità a smarrirsi in quell’indelimitabile non-luogo che

riflette il non-luogo occupato da Dio nell’epoca moderna. Nelle lettere dal carcere, pubblicate postume in Resistenza e resa, Bonhoeffer trae le conseguenze estreme di questa posizione, scrivendo che «la questione paolina, se la circoncisione sia condizione della giustificazione, oggi secondo me equivale a chiedersi se la religione sia condizione della salvezza. La libertà dalla circoncisione è anche libertà dalla religione».

Dopo aver abbozzato un ritratto del teologo luterano, Gaeta si occupa dell’amata Simone Weil, che nella sua critica della forza arriva a togliere a Dio l’attributo dell’onnipotenza e a riconoscervi un carattere diabolico. Quindi tocca a Etty Hillesum, l’ebrea olandese morta ad Auschwitz che nei suoi diari, con una misura e una lucidità quasi miracolose, trae dal resoconto delle bestiali violenze quotidiane alcune conclusioni sulla vita comunitaria e sulla debolezza divina molto simili a quelle ottenute, con mezzi culturali infinitamente più potenti, dall’intellettuale Simone. InsieBenjamin, me a Walter Bonhoeffer, Weil e Hillesum costituiscono il gruppo di figure che Gaeta definisce «testimoni della catastrofe»: uomini e donne inghiottiti ancor giovani nel gorgo della guerra, e tuttavia capaci di offrire in presa diretta i pensieri più utili a chi voglia rifondare in futuro la nostra civiltà. I nomi di Weil e Hillesum, insieme a quelli di Virginia Woolf, Marina Cvetaeva, Karen Blixen, Hannah Arendt, Elsa Morante e Anna Maria Ortese, ritornano poi in uno dei saggi


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«metodo nichilistico». La tesi è senza dubbio suggestiva; ma qui ci permettiamo di osservare che viene mal supportata dai nomi di Ortese e Morante. Infatti, la prima non può reggere un serio confronto con le altre; mentre il dramma della seconda sta nel fatto che testimoniò, con la sofferenza di chi non le ama ma non può estirparle da sé, appunto quelle tendenze “maschili”e manipolatorie, quei meccanismi di potere e di opaca seduzione letteraria che impregnano le sue pagine appena sotto l’ascetismo di superficie.

più personali del libro, quello che individua nelle opere delle suddette scrittrici una maggiore integrità e limpidezza rispetto ai contributi dei loro grandi contemporanei maschi. Per Gaeta, questa differenza è dovuta alla secolare esclusione della donna dal potere. Esclusione che le permetterebbe di giudicarne obiettivamente le strutture («le cose come sono», secondo l’espressione della Woolf eletta a titolo alla raccolta) senza dover affrontare dinamiche schizoidi di narcisismo e autodistruzione. In questo senso, il mondo femminile del secolo breve diventa il depositario naturale del

A sinistra: Giancarlo Gaeta, Giuseppe Dossetti e Walter Benjamin. Sopra: Hannah Arendt ed Elsa Morante. A destra, dall’alto: Virginia Woolf, Marina Cvetaeva, Karen Blixen, Anna Maria Ortese e d Etty Hillesum. In alto, un disegno di Michelangelo Pace

Il suo è un dramma tipico del volontarismo: dagli anni 60 in avanti, la Morante è stata “la donna che voleva essere Simone Weil” ma che forse meno le somigliava al mondo - come implicitamente suggerisce il saggio in cui Cesare Garboli la mette a confronto con Natalia Ginzburg. Ma tornando al femminile in quanto principio, non è forse un caso che allo scritto dedicato a questo tema ne segua uno su Nicola Chiaromonte: quasi Gaeta volesse completare il suo teorema segnalando le eccezioni, e avvisandoci del fatto che rari esempi di misura olimpica si danno nel 900 anche tra gli uomini. Come Simone Weil, Chiaromonte ha saputo rileggere alcuni classici rendendoli immediatamente nutrienti per la coscienza morale, e utili a progettare una linea di condotta con cui fronteggiare quell’universo di sopraffazione e caos da lui definito «situazione di massa». Questa «situazione», nella quale l’individuo è ridotto a una pressoché totale irrilevanza e «la società ha preso il posto di Dio», costituisce l’approdo della moderna idolatria della Storia: un’idolatria vissuta nell’800 come esaltazione del progresso, e poi, dopo il 1914 e il rovesciamento pessimistico delle aspettative democratiche, come culto dei fatti bruti. Insomma, le previsioni di Marx si sono realizzate al contrario: e il 900, anziché liberare gli oppressi, ha schiacciato al livello dell’oppressione anche quei nobili valori metastorici che garantivano la possibilità di preservare spazi di libertà e di critica. Chiaromonte capisce che questi valori devono ormai esser ricontrattati giorno per giorno, pena l’esilio dal mondo. Così, davanti a una società in cui gli intellettuali si massificano prima delle masse, e i singoli tendono a delegare o rimandare a un futuro indefinito «la questione del bene e del male», invita a una resistenza ferma ma non tracotante, consapevole della camusiana fatica di Sisifo che richiede. Anche attraverso questa straordinaria figura di intellettuale pratico ma mai stregato dalla filosofia della prassi, Gaeta sottolinea quindi l’opposizione tra una coscienza integra di sé e il cedimento a forze eteronome. Ma come si accennava, nel suo li-

E ancora: «La fede riguarda la verità sulla condizione umana. Non possono più esserci risposte legate a una determinata dottrina»

bro non si tratta soltanto di esperienze e paradigmi che imboccano con nettezza l’una o l’altra strada, bensì anche di ricerche che si collocano ambiguamente in mezzo al bivio. È il caso di Giuseppe Dossetti, che prima di ritirarsi nella sua famiglia religiosa ha tentato di trasformare la Chiesa accettandone quei meccanismi che secondo Gaeta sono ormai per la loro stessa natura destinati a riprodurre passivamente le stesse dinamiche di controllo sociale. Il saggio su Dossetti è esemplare perché l’autore coglie l’ambiguità davanti all’autaut sia nel carattere dell’uomo da una parte la volontà di testimonianza, dall’altra la tentazione della pedagogia organizzata - sia in una formazione che nella modernità vede soltanto una piaga da sanare, e che quindi non sa riconoscervi anche un’inedita possibilità di spogliare la fede cristiana di quei paramenti ideologici da cui s’irradia ormai uno splendore falso. Su questi fasti ingannevoli, Gaeta si sofferma nell’ultima parte del libro. In Chiesa e spettacolo, parlando degli oceanici raduni giovanili costruiti intorno all’icona di Papa Wojtyla, osserva che «a essere assunte strumentalmente sono le forme massificate dei tentativi falliti del moderno», destinate a portare «acqua al mulino proprio di quell’industria culturale che si vorrebbe contrastare». Da un lato, si delimitano i caratteri ecclesiali in modo apparentemente assai severo, perché ogni identità ben marcata attira i media; ma dall’altro, l’implicita indulgenza verso lo scisma silenzioso che divide ormai innumerevoli fedeli dai capisaldi della dottrina, permette alla Chiesa di mantenere una permeabilità virtualmente indefinita. Si rischia cioè una folklorizzazione liturgica che è il contrario della fede definita nel Prologo, e che insieme ne prova la diagnosi.

Invece, per quel che riguarda la cura, possiamo ripetere quel che Gaeta dice a proposito della Weil: non c’è ancora, o si lascia intravedere soltanto in forma aforistica. E non è un caso che nei rari momenti in cui l’autore tenta di porsi sul terreno della “proposta”, gli escano dalla penna espressioni che non appartengono più alla sua severa ricerca di saggista ma al gergo del giornalismo sociologizzante (un esempio: «Cultura del nemico»). Del resto, è comprensibile che davanti all’aporia il pensiero sia spinto ad aggrapparsi almeno ogni tanto a qualche sponda rassicurante, sebbene irreparabilmente arida: la tentazione del guscio vuoto è sempre in agguato in tutti noi. Ma la vera proposta di Gaeta coincide in realtà con la sua stessa diagnosi: cioè con questo libro magistrale e singolarmente «nichilistico».


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Convegni. A Cividale del Friuli, si confronteranno studiosi provenienti da Usa, Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna e Italia

Cesare, precursore o visionario? di Rossella Fabiani In basso, Giulio Cesare e, a fianco, il Castello Canussio a Cividale del Friuli, sede del convegno a lui dedicato “Cesare: precursore o visionario?”

esare: precursore o visionario? Questo il titolo dell’undicesimo convegno della Fondazione Canussio (fino a domani) organizzato come di consueto nella sede del Castello Canussio, a Cividale del Friuli. La scelta del tema non è a caso: proprio a Cesare, fondatore di Cividale (Forum Iulii), fu dedicato nel 1999 il primo convegno (L’ultimo Cesare: scritti riforme progetti poteri congiure).

C

Oggi, a distanza di dieci anni, il convegno scientifico si propone di indagare in quali ambiti l’operato di Giulio Cesare abbia costituito una novità rispetto alle secolari tradizioni della Repubblica Romana. E di verificare, poi, in che misura le novità introdotte da Cesare siano state un modello per le generazioni successive e in che misura siano state trascurate o abbandonate. Molteplici e complessi i problemi che saranno oggetto dell’indagine. Si prenderà in esame per esempio l’organizzazione amministrativa dello Stato Romano sotto Cesare, il ruolo del dictator nell’integrazione delle province, la sua politica coloniaria, i provvedimenti di concessione della cittadinanza romana (poi ampiamente ripresi in età imperiale). Di questo aspetto è parte integrante la trasformazione delle magistrature repubblicane e l’assunzione, da parte di Cesare, di poteri straordinari, che in certi casi saranno un modello per gli imperatori (a cominciare da Augusto), in altri resteranno degli esperimenti senza seguito. Proprio il rapporto fra Cesare

che relazioni, sarà il problema della propaganda cesariana e del particolarissimo rapporto con i suoi nemici, tra ostilità e clementia, quale traspare nei Commentarii e nel racconto delle diverse fonti antiche. Non sarà ovviamente tralasciata la dirompente novità costituita dai Commentarii sul piano propriamente letterario, nello stile e nella struttura, e il suo ruolo nella crisi del genere sto-

si svolgerà secondo la formula, ormai ampiamente collaudata, del seminario con ampio dibattito fra i relatori.

Vi parteciperanno 20 studiosi di chiara fama, provenienti da Stati Uniti, Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna e Italia, e appartenenti a diverse discipline: storia romana, storia militare antica, letteratura latina, diritto romano, storia

Verranno analizzate soprattutto le novità introdotte dal pontifex maximus nell’ambito della sfera religiosa strettamente congiunta, nella mentalità romana, a quella politica ed Augusto, e più in generale fra il primo e la nascita dell’Impero, sarà naturalmente oggetto di diverse relazioni, che dovranno verificare in che senso Cesare “annunci” l’Impero e che cosa gli debbano Augusto e i successori. Saranno analizzate le novità introdotte da Cesare, pontifex maximus, nell’ambito della sfera religiosa (strettamente congiunta, nella mentalità romana, a quella politica), le sue concezioni estetiche, il suo piano per la ristrutturazione urbanistica di Roma, che fu modello e punto di partenza per la trasformazione dell’Urbe in capitale imperiale. Strettamente connesso a questo tema, ed oggetto di specifi-

riografico in età tardo-repubblicana.

E ancora, una specifica sezione del convegno affronterà il tema cruciale dell’arte militare di Cesare, analizzando sia le soluzioni profondamente originali da lui introdotte (nella guerra di movimento come in quella di assedio), sia la fortuna di cui Cesare ha goduto nelle scuole militari moderne, da Clausewitz a Napoleone a Patton. Non si mancherà infine di gettare uno sguardo curioso alla vita privata di Cesare: dalla sua giovinezza venata di anticonformismo, ai suoi rapporti con mogli ed amanti, a Roma e lontano da Roma. Il convegno

delle religioni, archeologia e storia dell’arte antica. Tra questi, Jean-Louis Ferrary (Parigi), Les pouvoirs et les honneurs décernés à César entre 48 et 44; Andrea Giardina (Firenze), Cesare vs Silla; Giuseppe Zecchini (Milano), Augusto e l’eredità di Cesare; Antonio Caballos Rufino (Sevilla), Colonización cesariana, legislación municipal e integración provincial: HispaGionia;

vanni Brizzi (Bologna), Eloquentia militarique re aut aepraestantissimorum quavit gloriam aut excessit (Suet. Iul. 55). Cesare soldato: strategia e immagine; Giovannella Cresci Marrone (Venezia), Geografia e geometrie della conquista cesariana in rebus e post res; Michael Sommer (Liverpool), Le ragioni della guerra: Roma, i Parti e l’ultimo imperativo di Cesare; Luciano Canfora (Bari), Cesare visto da Cicerone; Aldo Schiavone (Firenze), Cesare legislatore; William Batstone (Columbus), Caesar’s Republican Rhetoric and the Veils of Autocracy; Giovanna Garbarino (Torino), Cesare e la cultura filosofica del suo tempo; Michael Von Albrecht (Heidelberg), La potenza della parola. Cesare oratore e scrittore; Alessandro Schiesaro (Roma), I rapporti di Cesare con la cultura del suo tempo: novità e fortuna; Christopher Smith (St. Andrews), Julius Caesar and the Construction of Early Rome; Santiago Montero (Madrid), César y la sacralidad de las aguas; Pierre Gros (Aix-en-Provence), La nouvelle Rome de César: réalité et utopie; Kurt Raaflaub (Providence), Between Tradition and Innovation: Shifts and Developments in Caesar’s Political Propaganda; Martin Jehne (Dresda), Erfahrungsraum und Erwartungshorizont bei Julius Caesar; JeanMichel Roddaz (Bordeaux), Jules César dans la tradition historiographique française.

Per la selezione dei relatori, la Fondazione Canussio si avvale come di consueto della consulenza del proprio autorevole comitato scientifico, composto da studiosi delle università di Bologna, Bordeaux, Dresda, Firenze, Heidelberg, Madrid, Milano, Siena, Trieste e Udine. Il convegno si svolge sotto l’alto patronato del presidente della Repubblica e con il patrocinio, tra gli altri, della presidenza del Consiglio dei ministri, del ministero dell’Istruzione, dell’università e della ricerca, del ministero per i Beni e le attività culturali, della Regione Autonoma Friuli Venezia, della Provincia di Udine e del Comune di Cividale del Friuli.


spettacoli

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antissime novità discografiche tra la fine di agosto e la prima metà di settembre. Tom Russell, Phish, Mark Knopfler, John Mayall, Black Crowes, Willie Nelson, John Fogerty. Novità da non perdere. Occupa sicuramente uno tra i primi posti il nuovo disco di Joe Henry, Blood from stars. Per molti è solo il cognato di Madonna. Altri si ricordano che è lui l’autore di Don’t Tell Me, uno dei più grandi successi della star di Detroit, nonché produttore di alcuni tra i più grandi successi della star del pop, Confessions on a dancefloor, Hard Candy, Music. Altri ancora ne hanno apprezzato l’opera di produttore di Don’t Give up On Me, l’ultimo album di Solomon Burke, leggenda vivente della musica soul.

T

Chi conosce i suoi dieci album sa che oltre ad essere un ottimo produttore e musicista, Joe Hery è uno dei più grandi cantautori del nostro tempo. Un’opinione confortata dall’ascolto delle sue nuove tredici track appena giunte nei negozi e terza collaborazione del musicista americano su etichetta Anti. Diretta prosecuzione del precedente Civilians (2007), l’undicesimo lavoro di Henry è più intriso di atmosfere blues e jazz prodotte dallo stesso autore con l’aiuto di un suo grande amico e storico collaboratore, il grande Marc Ribot (famoso per aver lavorato con Tom Waits). Blood from stars inizia con un’intro pianistica guidata dal grande Jason Moran, prima di lanciarsi in un rabbioso pezzo blues, vagamente jazzato, The man I keep hid, con una voce spettrale ed un testo che recita:

Musica. Il nuovo disco dello statunitense Joe Henry, “Blood From Stars”

L’ennesimo successo del cognato di Madonna di Valentina Gerace uno tra i blues piu profondi e toccanti che Joe Henry abbia mai composto nel corso della sua carriera. Bellwether introduce la seconda metà dell’album. Un altro blues fatto dal dialogo tra Henry e la chitarra, prima di esplodere in un ritmo più veloce, quasi cabarettistico. La strumentale Over Her Shoulder vede la partecipazione del figlio di Joe Henry, il sas-

«Nessuno conosce l’uomo che io tengo nascosto dentro di me». Un inizio folgorante, che apre l’undicesima prova di un artista ormai maturo, dotato di un poetico lirismo ed una sensibilità letteraria che rende unici i suoi lavori. Il resto del cd è su livelli sempre elevati, talora sublimi. Romantico in ballate come This is My Favorite Cage, fumosamente blues come c’era da aspettarsi vista la lunga e intensa collaborazione con Marc Ribot (Tom Waits). Death To the Storm in termini sia letterali che simbolici trova il suo centro tematico tragicamente in un clima irato, violento, pericoloso. Mentre la lenta All Blues Hail Mary è sicuramente

sofonista Levon, che a quanto pare non possiede meno creatività e passione del padre. Un effetto favoloso, un’atmosfera soft, quasi sinistra, sembra quasi di essere circondati da candele e da un panorama romantico. Una delle track piu memorabili del disco è Suit on a Frame, un fantastico groove a due corde. Il disco si chiude con due brani da collezione. Stars

denti anche questa volta Joe Henry dimostra di saper scegliere accuratamente i suoi musicisti. E non sbaglia neanche questa volta. Il team formato dal chitarrista Marc Ribot (Tom Waits, Elvis Costello) che ha già lavorato con Henry nel 2001 nella relaizzazione di Scar, il famoso pianista jazz Jason Moran. E ancora Jay Bellerose alle percussioni, Keit Ciancia al pianoforte, Jennifer Condos e David Pilch al basso. C’è sicuramente poco ottimismo e positività in Blood from stars. Ma la sua è una malinconia che vuole essere condivisa con l’ascoltatore che invita a fumare una sigaretta e bere un drink insieme. Un’opera d’arte quasi sinistra, cupa, a tratti triste. Che trova proprio in queste caratteristiche la sua eleganza e la sua unicità. Creativo cantautore, negli ultimi anni l’americano Joe Henry si è messo in evidenza inventando un suono, un marchio di fabbrica, caratteristica dei più grandi. L’aver vinto Grammy Awards per le produzioni di Solomon Burke e Bettye LaVette gli ha dato la possibilità di crearsi, al di là della nota parentela con Madonna (sua amica d’infanzia e sua grande fan che lo definisce un gigante della musica, un poeta nascosto), uno status invidiabile facendosi stimare sia dal pubblico che dagli addetti ai lavori. Fama che gli deriva anche dalla produzione di album di altri grandi nomi della scena internazionale, come Ani Di Franco, Aimee Mann, Elvis Costello.

Come potevano i suoi album non essere intrisi di quella musica, quella tradizione di cui lui

che intensifica il senso di perdizione con le parole «le nuvole hanno tirato giu una tenda dove si nascondono le stelle, prendendo il nostro domani come fosse fosse ieri». Un raggio di luce torna con il brano di chiusura Light No Lamp, in cui canta «la paura dell’ ombra ti copre come un abito, ma cosi fanno anche l’amore e la grazia». Come nei dischi prece-

Diretta prosecuzione del precedente “Civilians” del 2007, l’album è intriso di atmosfere blues e jazz prodotte dallo stesso autore con l’aiuto di un suo grande amico e storico collaboratore, il grande Marc Ribot A fianco, in alto e a sinistra, tre scatti del cantante e produttore statunitense Joe Henry. A sinistra, la copertina del suo nuovo album “Blood From Stars”, undicesimo disco di successo che riconferma l’artista come uno tra i migliori del suo genere

stesso si fa portatore e creatore.Molto simile in classe e poeticità a Randy Newman, Tom Waits e Bob Dylan. Grande fan di Frank Sinatra, Duke Ellington e Tlonious Monk le cui composizioni hanno costituito un punto di partenza nel suo viaggio nel mondo della composizione e tutt’ora rappresentano la più profonda fonte di influenza. Joe Henry considera la musica un viaggio introspettivo all’interno di se stessi. Una scoperta continua che deriva dal desnudare la propria anima, dallo scavare dentro i propri sentimenti. Ma la composizione è un dono, spiega. Non è un’abilità che si può apprendere o studiare.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

da ”Le Figaro” del 17/09/2009

Cacciato dai box! di Cédric Voisard accusa è di aver truccato il Gran premio di Singapore nel 2008. E il responsabile della squadra di Formula Uno della Renault ha fatto accomodare fuori dalla porta Flavio Briatore e Pat Symonds, senza neanche aspettare l’esito dell’inchiesta della Federazione internazionale dell’automobile (Fia).

L’

Era dunque vero ciò che formulavano le accuse contro il team manager della squadra francese. Mercoledì, in un comunicato si era chiarita la posizione della squadra che «non avrebbe contestato le recenti accuse espresse dalla Fia riguardo al Gran Premio di Singapore del 2008». Così il team Renault ammetteva implicitamente ciò che sembrava impensabile. Ciò che era stato riassunto nelle motivazioni, lunedì scorso a Parigi, per la convocazione davanti al consiglio mondiale straordinario della Fia. «Di aver ordito un complotto col loro pilota, Nelson Piquet junior, per provocare deliberatamente un incidente (…) con lo scopo di far intervenire la safety car e favorire così un altro pilota, Fernando Alonso». Durante il week end del Gran Premio d’Italia, il team aveva gestito in modo maldestro la comunicazione sull’evento, assicurando che avrebbe preparato una difesa contro le accuse del loro ex pilota anziano, Piquet junior. Accusato a sua volta dalla squadra Renault per lo scarso rendimento della stagione (era stato mandato via dal team ad agosto, subito dopo erano circolate le voci sul falso incidente ordinato dai box Renault, ndr). In pratica l’uscita di Briatore e Symonds, usati come capri espiatori, sarebbe il prezzo voluto da Max Mosley e Bernye Ecclestone per salvare la squadra francese dal mondiale di Formula Uno. Nonostante l’inimicizia tra Bria-

tore e Mosley, il presidente del consiglio mondiale della Fia dovrà comunque gestire uno dei casi di truffa sportiva più grave di tutta la storia dell’automobilismo. Briatore certamente subirà un’interdizione perpetua da qualsiasi manifestazione automobilistica della Fia, ma i problemi per la federazione non si fermeranno certo qui. L’episodio è molto più grave del furto d’informazioni che era scoppiato qualche tempo fa, e che aveva causato danni del team Ferrari. Portò ad una condanna di due anni della McLaren per spionaggio e a una multa da 100 milioni di dollari. A suo confronto l’affaire Renault rischia di metter in crisi tutto il sistema legato alle corse di Formula Uno.

Chiedere ad un pilota di provocare volontariamente un incidente sulla propria monoposto è qualcosa di impensabile, contraddice ogni regola di sicurezza, è uno schiaffo alla filosofia della Renault che punta tutto sulla salvaguardia del mezzo e dei suoi occupanti. Un gioco pericoloso che vanifica tutta la politica intrapresa dalla Fia dopo i tragici incidenti di Roland Ratzemberger e Ayrton Senna al Gran Premio di San Marino, nel 1994. Un episodio che getta il discredito sull’intera disciplina della Formula Uno. Un luogo che dovrebbe essere il laboratorio per studiare i sistemi di protezione da applicare sui mezzi della mobilità del prossimo fu-

turo. Infine la manipolazione del risultato del Gran Premio di Singapore, che ha portato a un successo della Renault, ha finito per falsare il risultato di tutto il campionato mondiale 2008. Partito in pole position a Singapore, Felipe Massa che era favorito, fu costretto al ritiro dopo un pit-stop che non avrebbe potuto effettuare a causa dell’entrata della safety car. Un meccanismo innescato proprio dal supposto falso incidente di Piquet jr. Dopo tre gare Massa perse il titolo per un solo punto contro Lewis Hamilton.

Il danno è reale. E in Ferrari avranno qualcosa festeggiare. Il verdetto con le sanzioni sono attese per l’avvio della prossima settimana, e potrebbero arrivare fino all’esclusione del team dal campionato. Non è chiaro se i gesti di buona volontà dimostrati dalla Renault, con il foglio di via per Briatore e Symonds, potranno ammorbidire l’atteggiamento dei giudici Fia.

L’IMMAGINE

Carta di identità elettronica: grido di allarme degli operatori fotografici Nella confusione di informazioni, ritardi e nuove normative in materia di carta di identità, scende in campo Aif, l’Associazione italiana foto & digital imaging, che rappresenta le principali aziende e associazioni del settore fotografico. Aif propone il riesame della normativa relativa alla validità delle carte di identità (come previsto dalla Legge n.133 del 6 agosto 2008), che interessa specificatamente il mercato della fotografia. E chiede ai ministeri competenti che venga riconsiderata la decisione di estendere la validità delle carte di identità a 10 anni, auspicando un riordino complessivo della materia in un nuovo quadro normativo generale che preveda la progressiva sostituzione dell’attuale carta di identità con altro documento unico e polivalente.Alla carta di identità elettronica made in Italy sono contrari da sempre i produttori di Minilab per fototessere e la Confederazione nazionale artigiani (Cna), che ha stimato in circa 100 milioni di euro il danno economico per gli operatori del settore fotografico, che con l’applicazione del provvedimento, vedranno dimezzati i proventi derivanti dal servizio di fototessera.

Lettera firmata

CURE PALLIATIVE DIGNITOSE Il provvedimento approvato all’unanimità è fondamentale perché il grado di civiltà di un Paese lo si misura anche con l’erogazione delle cure palliative. Tutti hanno a cuore la sorte dei cittadini e delle famiglie. Sono stati aggiunti ai 100 milioni di euro annui, ulteriori 50 milioni che permetteranno alle regioni di incentivare le prestazioni che già erogano e a quelle che non ne sono strutturate di poterle assicurare ai loro pazienti. I fondi non dovranno essere utilizzati per ripianare falle di bilancio delle regioni che persistono in situazioni di disavanzo pubblico. Per questo motivo, nel caso in cui una Regione ritardi o ometta di compiere gli atti obbligatori previsti per l’erogazione delle

cure palliative tra i livelli essenziali di assistenza, il ministero della Salute può fissare un termine ultimo e nominare un commissario ad acta al fine di garantire il corretto utilizzo di queste risorse. È stata introdotta una procedura sanzionatoria volta a garantire il massimo rigore nell’utilizzo di questi fondi per far sì che tutti i cittadini possano realmente fruire di dette prestazioni.

Lettera firmata

IL PROSSIMO “PORTA A PORTA” AI PARTITI MINORI Il clamoroso autogol di Berlusconi con l’ultimo Porta a Porta, è una conferma dello stato comatoso in cui si trova l’informazione del servizio pubblico.A mettere in pericolo la democrazia però non è solo il

Bianco paradiso Più che dune sabbiose sembrano colline di panna montata e si trovano nel Parco Nazionale delle isole Whitsunday, in Australia. In effetti la sabbia è tra le più pure e soffici al mondo. Talmente fine che gli abitanti della zona la usano per pulire e lucidare anelli e gioielli. Ma guai a portarne via un po’ per ricordo: le multe per chi depaupera quest’area protetta sono salatissime: fino a 5mila dollari

comportamento di Berlusconi, ma anche una Rai che continua a ignorare la voce di quattro milioni di italiani, quanti sono quelli che alle ultime elezioni hanno votato per i partiti che non hanno superato la soglia di sbarramento alle Camere. La democrazia non si esaurisce nelle rappresentanze parlamentari e se Berlusconi si comporta come un autocrate, la Rai fa lo stesso con una censura altrettanto di regime. Per questo chiedo a Bru-

no Vespa di dedicare la prossima puntata di Porta a Porta a chi, da troppo tempo, non ha più voce.

Riccardo N.

GLI IMPEGNI DEL GOVERNO I dati Ocse non smentiscono nulla perché nessuno, nel governo e nella maggioranza, è ottimista a tutti i costi. La situazione continua a rimanere seria sul terreno dell’occupazione anche perché le aziende dovranno procedere ad un dimen-

sionamento degli organici alle nuove realtà produttive e di mercato, ereditate dalla crisi. Il problema vero sta nei segnali di ripresa economica che tutti gli osservatori nazionali e internazionali riconoscono al nostro Paese. La migliore difesa del lavoro si realizza facendo girare la macchina dentro le officine. È su questo terreno che è impegnato prioritariamente il governo che non ha lasciato solo nessuno.

Giuliano C.


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Intorno a noi il silenzio Ancora domani, e dopodomani, poi ci rivedremo. Quando leggerai queste parole avrai ancora 24 ore davanti a te prima di ricevere un bacio da chi ami e ti ama. Assapori con me questo pensiero, lo respiri con gioia come un fiore discosto che vi manda il suo vago profumo prima che se ne possa godere a piene nari? Ah, saremo soli, completamente soli, indipendenti, in quel villaggio in mezzo alla campagna, e intorno a noi il silenzio. Perché sei triste? Io ho il presentimento di una giornata di felicità: Una giornata è ben poco, vero, ma un bel giorno illumina tutto un anno, e abbiamo così pochi giorni da vivere che, quando capita un bel giorno, val la pena di goderselo. Ma sarai brava? Piangerai ancora? (Oh, se fossi sensuale come credi tu, come mi piacerebbero i tuoi pianti! Ti rendono così bella quando scivolano lungo le tue guance pallide per poi morire nella tua gola calda e bianca!) Considererai ancora calcolo la saggia previsione dell’avventura? Me ne vorrai se ancora una volta spezzerò le reni al mio piacere per risparmiarti una disgrazia? Se vi è un eroismo della carne, è proprio quello, siine sicura. Costa forse più di altri che sono più stimati e, come al solito, quelli in favore dei quali è esercitato non ne tengono conto.Sì, mia povera cara, rifletti bene a questo proposito. Gustave Flaubert a Louise Colet

ACCADDE OGGI

LO SPIRITO VIVO DEL NOSTRO XX SETTEMBRE Come ogni anno i Massoni del Grande Oriente d’Italia, il XX Settembre, celebrano l’equinozio d’autunno e il ricordo della Breccia di Porta Pia, allorquando, con l’entrata dei Bersaglieri in Roma, si pose fine al potere temporale dei Papi e si riportò la città alla civiltà. In questi giorni ho avuto modo di trovarmi fra le mani un vecchio numero della Rivista Massonica del Goi, diretta dall’ex gran maestro Giordano Gamberini, del gennaio 1975.Vi ho trovato un bell’articolo di Spartaco Mennini, a ricordo proprio del XX Settembre e dell’Unità d’Italia. Nell’articolo è detto che la Massoneria non partecipò al processo di unificazione ed emancipazione dell’Italia dal giogo austriaco, papalino, francese e borbonico, ma allo stesso tempo furono molti i massoni a parteciparvi. Massoni che furono imprigionati, che morirono a Novara, Custoza, Curtatone, Montanara, che furono decapitati a Roma in piazza del Popolo e così via… Questo, spiega Mennini, perché «la Massoneria è l’anima delle cose, è l’idea che muove ma che mai può pretendere o meglio che mai deve imporre la soluzione temporale». E ancora: «Il Massone deve essere il cavaliere della libertà, ma non deve imporre un modello di libertà». Questo a dire quali alti ideali antidogmatici ed antitotalitari ispirarono personalità carismatiche e coraggiose quali Giuseppe Garibaldi e Goffredo Mameli e moltissimi altri, e persino donne come Madame Helena Blavatsky, fondatrice della Società Teosofica, che combattè fra le truppe garibaldine nella battaglia di Mentana.Tornando al XX Settembre, essa

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

18 settembre 1895 Daniel David Palmer esegue il primo aggiustamento chiropratico 1906 Un tifone seguito da uno tsunami uccide circa 10.000 persone a Hong Kong 1914 Fine della battaglia dell’Aisne 1927 Vanno in onda le prime trasmissioni della Columbia broadcasting system 193 Incidente di Mukden, a seguito del quale il Giappone occupa la Manciuria 1942 La Canadian broadcasting corporation viene autorizzata a trasmettere 1943 Gli ebrei di Minsk vengono massacrati a Sobibor 1947 Il dipartimento della Difesa degli Stati Uniti inizia la sua attività (in precedenza era noto come National military establishment) 1960 Si aprono a Roma i I Giochi Paraolimpici estivi 1970 Viene trovato a Londra il cadavere di Jimi Hendrix 1973 La Repubblica federale tedesca e la Repubblica democratica tedesca vengono ammesse all’Onu 1975 - Patty Hearst viene arrestata dopo un anno di permanenza sulla lista dei ricercati dell’Fbi

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

è la festa di tutti i sinceri democratici, laici, liberali, repubblicani e monarchici per le libertà, di tutti gli ebrei, i carbonari, i massoni, i cattolici liberali, di tutti gli italiani e le italiane insomma. E festa nazionale deve tornare ad essere, come proposto dal disegno di legge di iniziativa dei deputati Mario Pepe e Giancarlo Lenher (Pdl) e Maria Antonietta Farina Coscioni e Maurizio Turco (Radicali), perché abolita dal totalitarismo fascista negli anni ’20 del ’900 e perché patrimonio dell’Italia intera in quanto simbolo della stessa unità nazionale. Unità nazionale che compirà fra poco 150 anni e della quale dovremmo davvero andare orgogliosi. Non per mero ed illusorio “sentimento di patria”, bensì perché siamo un Paese tutto sommato libero anche se non del tutto democratico e civile. E perché siamo un Paese ancorato all’Occidente, nonostante le pericolose spinte vaticane. Un Paese di fratelli con un’unica lingua e medesimi usi e costumi. Un Paese che dovrebbe provare dunque vergogna per coloro i quali propongono di insegnare nelle scuole il dialetto e/o osano parlare in dialetto persino nel Parlamento europeo. È altresì vergognoso che quest’anno sia stato vietato ai Radicali di tenere la consueta “marcia anticlericale” il 19 settembre da Porta Pia a Piazza Pio XII, davanti alVaticano, nemmeno se svolta“in fila indiana”.A ogni modo i Radicali affermano con forza che in quella data, a partire dalle 14.00, a Porta Pia, ci saranno comunque. Come ci saranno tutti coloro i quali credono che la laicità dello Stato non sia mai bieca o malata, bensì civile ed emancipatoria.

SANAA La comunità del pordenonese è ancora sotto shock. Sanaa, una ragazza di 18 anni figlia di un marocchino, El Ketawi Dafani, 45 anni, residenti a Montereale Valcellina (PN) è morta. È stata sgozzata dal padre che non sopportava l’idea che si fosse fidanzata con un italiano. L’iman di Pordenone, Mohamed Ovatiq e il direttore del settimanale diocesano Il Popolo, don Bruno Cescon, nvitano a non strumentalizzare l’episodio affinché «non sia terreno di scontro, ma una lezione per tutti. Né l’Islam, né alcuna religione possono giustificare l’omicidio, non possono esserci motivi religiosi dietro gesti come questo, ma solo violenza». Secondo l’iman Ovatiq, per la morte di Sanaa «non si può colpevolizzare l’Islam. Questa è una tragedia dettata dall’ignoranza. L’omicidio è ingiustificabile, inaccettabile». Parole tanto ovvie quanto poco utili. È naturale pensare che quando si verifica un episodio di violenza, vi sia anche un forte e determinante problema psicologico individuale. Chiamarla ignoranza è un po’poco. Sappiamo tutti che il fanatismo crea suggestioni che sommati ad aspetti problematici individuali conducono a gesti assurdi: sette sanguinose, terroristi, tifoseria calcistica violenta, dimostranti distruttivi, picchiatori urbani, etc. Il fenomeno di delirio psichico può arrivare a forme anche collettive e di massa. Come nelle rivoluzioni nei suoi momenti sanguinosi. La storia è un mosaico costellato da questi tasselli neri e lugubri. L’inquisizione, la caccia alle streghe, i campi di sterminio di massa, le stragi nella ex Jugoslavia. Ieri come oggi. Senza particolari distinzione. Se scorriamo i pochi millenni ricostruibili di storia umana, il carnefice è diventato la vittima e viceversa. La religione ha il suo fondamento non solo nel fatto storico. Ha una sua utilità pratica perché ha contribuito e contribuisce a strutturare l’etica dell’uomo, la sua capacità di distinguere il bene dal male. Le regole morali, insomma. Queste, tanto per l’uomo che si fa guidare in prevalenza da regole religione, e quanto per l’uomo che si fa guidare invece da regole laiche, discendono da alcuni, pochi, principi. Principi sorretti o dalla ragione, o da una fede o da un equilibrio tra esse. L’iman di Pordenone e il direttore del settimanale diocesano Il Popolo, con il loro intervento hanno difeso la religione in quanto tale. Una difesa interessata corporativa. Non hanno esposto un rimedio. Che è l’asservimento senza condizioni delle religioni, come per tutti gli altri attori della storia umana, ai principi dei diritti illuministici universali dell’uomo. E quindi al relativismo religioso, da cui la tolleranza religiosa, madre di tutte le libertà. Leri Pegolo C I R C O L I LI B E R A L PO R D E N O NE

APPUNTAMENTI SETTEMBRE 2009 GIOVEDÌ 24, VENERDÌ 25 SIENA - SANTA MARIA DELLA SCALA Premio “liberal Siena 2009”. Convegno “Alice nella globalizzazione - La modernizzazione mancata: l’Italia sospesa tra passato e futuro”. VINCENZO INVERSO SEGRETARIO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

Luca Bagatin

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30


PAGINAVENTIQUATTRO

Cina. Il governo dell’Impero di Mezzo ha una vera mania per la regolamentazione: tutti i divieti più assurdi

E a Pechino abbattono gli di Vincenzo Faccioli Pintozzi li aquiloni tornano a volare a Kabul, segno di una volontà di democrazia e normalizzazione, ma restano saldamente a terra in quel di Pechino. Quanto meno nei giorni che precedono il primo ottobre, sessantesimo anniversario della fondazione della Repubblica popolare cinese, quando l’ultimo vero Politburo si riunirà nella piazza Tiananmen a celebrare gli enormi passi compiuti dal dragone asiatico nel campo dell’economia, dell’innovazione e della repressione dei diritti umani. Il bando è stato motivato da questioni legate alla sicurezza: tutto il cielo della capitale è stato infatti dichiarato chiuso nel periodo delle celebrazioni, ma da ieri è vietato «volare e far volare oggetti» in una vasta zona della città intorno all’aeroporto internazionale. Oltre al timore di attentati, va considerata la possibilità che gli aquiloni finiscano dritti sui filtri d’aria o sulle pale eoliche montate nei dintorni della metropoli per assicurare un cielo perfettamente blu durante i giorni di festa. Nella stessa proibizione rientrano anche i piccioni che affollano le strade e gli alberi di Pechino: per risolvere il problema degli uccelli - evidentemente reazionari - il personale militare di stanza nella capitale hanno addestrato alcuni falchi cacciatori con il compito di cacciarli. Ma la lista delle proibizioni nell’Impero di Mezzo non si ferma qui: per quanto assolutamente privo di ironia, infatti, il governo centrale ha emanato nel tempo una serie di divieti che sfiorano il ridicolo.

G

Partiamo dalla censura relativa ai computer: oltre alla pornografia e a tutto ciò che riguarda diritti umani e democrazia, Pechino ha deciso di esercitare la sua censura verso quei siti che offrono la possibilità agli utenti di effettuare giochi on line che presentano i gruppi mafiosi in una luce positiva. La censura riguarda anche i portali in cui i giochi vengono pubblicizzati. Dichiarazioni molto precise al riguardo sono state rilasciate dal ministero della Cultura, che ha affermato: «I giochi improntati sulla mafia sono in grado di promuovere l’oscenità, la violenza e il gioco d’azzardo. I giochi on line oggetto della contesa spingono le persone a commettere crimini e rappresen-

tano un pericolo soprattutto per i giovani, nei confronti dei quali esercitano una cattiva influenza». Poco importa che le famiglie mafiose esercitino sul Paese un’influenza nettamente superiore a quella del Partito comunista: l’importante è non giocarci sopra. Sullo stesso livello di impegno sociale rientra il famigerato bando ai cartoni animati imperialisti: dalle cinque alle nove di sera niente favole straniere sulle reti televisive della Cina. Cartoon come Paperino e Topolino, ma anche gli odiati anime di stampo giapponese, non potranno essere visti dai bambini cinesi se non in orari decisamente proibitivi. Tutto questo, ovviamente, per «creare un ambiente favorevole per l’innovazione nell’industria cinese dei cartoni

ra che «è proibito bere dal water perché l’acqua è quella del water». Proibito a Canton avere più di un cane e di un canarino, a Shenzhen guidare biciclette elettriche e a Xian offendere i soldati di terracotta.

Ma tutto questo rivela un carattere dispotico e tendente al dominio che, in molti altri casi, non fa sorridere per niente. Dalle regole disposte per coloro che vogliono manifestare contro il governo a chi cerca la libertà su internet, le nuove leggi emanate da Pechino vengono sempre lette con attenzione e molta preoccupazione. Una delle ultime proibizioni, assurde e sacrileghe al tempo stesso, riguarda il caposaldo del buddismo tibetano: la reincarnazione. Il governo ha infatti varato un provvedimento che vieta ai monaci buddisti di reincarnarsi dopo la morte «a meno che il Partito Comunista cinese non ne abbia concesso l’autorizzazione apposita». L’Amministrazione statale degli Affari religiosi ha affermato che il provvedimento «è un passo importante per istituzionalizzare il controllo della reincarnazione». Il motivo del provvedimento è quello di impedire la ribalta di un nuovo Dalai Lama contrario ai voleri di pechino: l’attuale, Tenzin Gyatso, è giunto ormai alla soglia dei 72 anni e - secondo la tradizione - con la morte lascerà il suo corpo e rinascerà sotto nuove spoglie, in modo tale che i tibetani possano avere sempre una guida.Tuttavia, poiché il Dalai Lama si trova in esilio in India da oltre 50 anni, non può recarsi in Cina per richiedere l’autorizzazione alla reincarnazione. In questo modo, di conseguenza, il Partito potrà avocare a sé la scelta del prossimo Dalai Lama, in base all’autorizzazione apposita rilasciata dal governo stesso. Sempre, ovviamente, senza sputare controvento.

AQUILONI Proibito sputare contro vento, giocare a guardie e ladri, bere l’acqua del water «perché è quella del water», guardare i cartoni animati disegnati da yankee e imperialisti. Ma anche reincarnarsi senza il permesso del Partito comunista animati». L’Amministrazione statale per le radio, i film e la televisione (il de facto Dipartimento propaganda) ha spiegato che le televisioni cinesi «devono mantenere un rapporto di sette a tre tra le trasmissioni di cartoni cinesi e di cartoni stranieri». Ci sono poi i divieti di tutti giorni, quelli che fanno sorridere gli stranieri ma che vengono presi con gran serietà dagli autoctoni: si parte dallo sputare contro vento (ma va detto che quando soffia, il vento in Cina soffia davvero), alla “richiesta” di imparare almeno cinque parole di inglese agli esilaranti cartelli che si trovano in alberghi di lusso e ristoranti per turisti di Pechino e dintorni. Qui, in un inglese degno del francese reso celebre dal nostro Totò, si impa-


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